Per nuove narrazioni della città: diritto alla creatività e diritto alla bellezza
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Un esempio molto significativo è costituito dalle tante iniziative in corso che, con grande ricchezza di contenuti e notevole capacità di coinvolgimento, vogliono "ricostruire" la condizione urbana.
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Per nuove narrazioni della città - Giovanni Cerami
GIOVANNI CERAMI
Per nuove narrazioni della città
diritto alla creatività e diritto alla bellezza
ISBN: 9788899165376
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Premessa
Conoscere e decidere insieme
Ascolto e dialogo
Immaginare il futuro
Reti di saperi e di desideri
Utopia e libertà
Immaginazione e libera creatività
Diritto al delirio
La città come laboratorio di creatività
Abitare l’arte, abitare la città
In conclusione
Riferimenti bibliografici
Studio Marinoni
S MOwnPublishing
© Copyright 2019
by StudioMarinoni OwnPublishing
Corso Sempione 36
20154 Milano
www.smownpublishing.com
www.studiomarinoni.com
studio@studiomarinoni.com
Collana UNIVERCITY PRESS
Direttore Giuseppe Marinoni
Comitato scientifico
Annegret Burg, Giovanni Chiaramonte, Alessandra Coppa, Kurt W. Forster, Luigi Mazza,
Giuseppe Marinoni, Luis Raúl Moysén Mason, João Nunes Ferreira,
Santiago Quesada, Pierluigi Salvadeo
Progetto grafico e copertina Vilma Cernikyte
L'autore si rende disponibile per il riconoscimento di eventuali diritti di immagine e testi citati
ISBN 9788899165376
UNIVERSITY PRESS / 6
Premessa
…Mi sembra che, in fondo, il tempo morto sia decisamente un bel posto, un laboratorio in ebollizione, uno spazio perfetto per iniziare a salutare il ritorno dei poeti che forse hanno già incominciato a trasformare la nostra vita.
[1]
Con questa descrizione, così ricca di capacità evocative, Vila Matas racconta la ricchezza e la varietà dei nuovi orizzonti che l’arte contemporanea sta esplorando; e racconta il tempo che noi stiamo vivendo, un tempo che può essere letto come un periodo di riposo
dal quale usciremo, almeno si spera, più rinforzati.
Non c’è dubbio che il momento attuale stia vivendo un periodo di crisi, anche per l’esaurirsi delle grandi narrazioni mitologiche
del novecento con cui abbiamo lungamente convissuto: una crisi di cui siamo consapevoli e che, in qualche modo, è una delle cause delle nostre difficoltà di confrontarci con tante nuove aspettative e dare loro una giusta e adeguata risposta.
Ma questo nostro momento, che sembra essere caratterizzato da una assoluta stagnazione, è ricco di fermenti, di una pluralità di inizi, di una continua messa in rete di frammenti.
E sono molti i segnali di una grande volontà e capacità di liberamente creare e rii-creare e di dare forma ai nostri sogni e alle nostre emozioni.
Si tratta di dare nuova vita ad antiche parole, quali reciprocità, solidarismo, sostenibilità, partecipazione, comunitarismo e creatività che, già adesso, stanno incidendo sulla formazione di nuove frasi.
E questa rinnovata vitalità costruisce racconti che utilizzano sia antichi materiali, ma che conservano ancora una loro credibilità, sia nuove certezze: racconti che sono di guida per potersi avventurare nel mare aperto della ricerca di nuove strade e della loro verifica e sperimentazione.
E, a mio parere, l’immagine del tempio Malatestiano a Rimini, di Leon Battista Alberti, -realizzato in un periodo (1450, circa) per molti versi simile al nostro, un mondo di macerie che esprimeva un vitale bisogno di sperare nel futuro-, costituisce per il suo attuale e grande valore simbolico la metafora del modo con cui dovremo affrontare il compito che ci vedrà coinvolti.
In quel tempo, un sognatore, lavorando con frammenti di antiche architetture, naturalmente con i frammenti da lui ritenuti come ancora significativi, ricompose alcune e antiche parole
, che avevano perduto il loro significato originario, per costruire nuove frasi
e realizzare un nuovo e bellissimo racconto.
Costruire nuove frasi e dare nuova vita a parole antiche
[1] - E.Vila-Matas Kassel non invita alla logica
, Feltrinelli ed. 2015
Conoscere e decidere insieme
Forse non vi sono ancora evidenti tracce di quei poeti raccontati da Villa-Matas ma bisogna riconoscere che scopriamo quotidianamente segnali di forte e nuova vitalità per realizzare nuove e più giuste modalità di relazione fra individui, comunità e istituzioni: il che esprime il bisogno di una dimensione poetica per la nostra esistenza.
Un esempio molto significativo è costituito dalle tante iniziative in corso che, con grande ricchezza di contenuti e notevole capacità di coinvolgimento, vogliono ricostruire
la condizione urbana.
Si tratta di esperienze, molto diversificate fra loro per storie, motivazioni e attori, che vogliono esaltare le potenzialità del decidere insieme e liberamente il proprio futuro, di poter sognare e realizzare il rispetto dei propri diritti.
Si tratta di eventi che, pur nella loro frammentarietà, caratterizzano positivamente questa nostra epoca e raccontano il desiderio di ri-pensare il nostro passato e il nostro presente per costruire modi più giusti per vivere insieme.
Nella prima parte di questo racconto ho cercato leggere le motivazioni, le logiche, le modalità di svolgimento con cui queste tensioni si manifestano e valutare il loro contributo alla crescita sociale e culturale delle comunità urbane.
I temi che ho cercato di sviluppare in questa narrazione riguardano
il metodo della paziente ricerca scientifica, la necessità di essere consapevoli di quanto siano sempre suscettibili di modifiche le conoscenze acquisite, la variabilità del contesto che abitiamo e di cui siamo parte, la mutevolezza delle domande che vengono poste, e l'efficacia della conversazione per costruire scelte condivise.
E' certamente importante il volersi liberare da sistemi di certezze di cui conosciamo i limiti ma che non ci sentiamo sufficientemente in grado di farne a meno: ma siamo sempre più consapevoli che solo dando spazio all'immaginazione, , diventa per noi possibile raccontare e far raccontare le nostre autentiche fantasie: e ciò vale sia nel guardare ciò che già è davanti ai nostri occhi che per pre-vedere ciò che riteniamo possa costituire un futuro condivisibile.
E, poi, vi è il ruolo svolta dalla memoria del passato (o, più spesso, della falsa memoria che abbiamo di questo) che viene proposto come una stella polare, con il mantra per quale senza memoria non vi è un presente
; e il permanere di questo mantra è la causa prima del perché, davanti a paure e incertezze nei confronti di un presente che non si è in grado di affrontare, ci rifugiamo in ciò che rimane di manufatti, ideologie o superstizioni morte.
L'adorazione di antichi reperti è. certamente, rispettabile come il culto degli antenati ma non può, da solo, diventare il propellente per raggiungere un futuro che risponda a nuove e vitali tensioni; al contrario, è molto più utile e arricchente comprendere le tensioni che hanno attraversato il passato e le risposte che, nel tempo, si è cercato di realizzare.
Sappiamo che ogni presente (come tutti i diversi presenti
della storia dell'umanità) si è sempre nutrito di futuro, un futuro fatto di sogni, speranze e strategie per aiutarci a costruire e vivere una vita degna di essere vissuta.
Infine, il tema della creatività e della bellezza della città: tali valori devono guidare la trasformazione della città e degli spazi in cui viviamo per riconoscerci in essi e per garantire la conferma di questa loro imperdibile qualità.
Oggi, il diritto alla bellezza e, in particolare il diritto a vivere in una città bella
costituisce un tema molto ricorrente nei dibattiti sulla progettazione (o, meglio, sul ridisegno) della città; e nel corso di questa narrazione, cercherò di indicare gli aspetti più significativi di questo tema, di come è stato interpretato e del modo con cui, oggi, si esprime in questa richiesta, e quali possono essere le connotazioni più essenziali di possibili e adeguate risposte.
le divisive narrazioni mitologiche
Certo, non è facile sapere come comportarsi davanti alla complessità dei problemi e alla estrema diversità delle variabili in campo: per poter essere in grado di attivare tale confronto dobbiamo cercare di capire cosa ci impedisce di sentirci in grado di vincere la sfida, ed è causa di ansia e paura.
Ma la vera paura con cui dobbiamo fare i conti proviene da una cultura, da noi introiettata, che vuole difendersi dal rischio di nuove regole che possano infiammare gli animi e mettere in crisi tradizionali egemonie politiche, religiose o culturali.
E questa cultura, non a caso e con modalità spesso discutibili, si rafforza proprio nei periodi di maggior crisi, cioè quando consolidati modelli vanno in crisi perché lo sono i loro elementi fondanti e sono necessari nuovi riferimenti e nuove regole.
Non è casuale che il prevalere della volontà di tornare a riferimenti ancor più vecchi ed obsoleti di quelli ora in crisi costituisca un rituale che viene molto spesso praticato e su cui torneremo più volte nel corso della narrazione
Ma questa impermeabilità nei confronti del nuovo è il fondamento dell’autoritarismo, di una cultura che ha raccontato la complessità e continua variabilità del reale frantumando questo insieme in una pluralità di singole semplicità, in apparenza più leggibili, ma più controllabili.
Coerentemente a questa procedura, questa cultura ha costruito narrazioni, che Marc Augè definisce mitologiche
, nelle quali vengono definite e legittimate identità, diversità e gerarchie: e il fine di tali narrazioni, fondate su principi religiosi, economici e castali, è sempre quello di confermare il dominio di alcuni su altri.
La storia dell’umanità è ricca di esempi espressivi della volontà di creare, ad esempio, suddivisioni per gradi di libertà consentita
all’interno della specie umana: gerarchia fra quelli che, per nascita, sono liberi e quelli che, sempre per nascita, è giusto che siano schiavi.
Non a caso, appartiene a questa logica la teorizzazione della falsa e vergognosa suddivisione della specie umana in razze
.
La diversità fra razze
, ritenute diverse
, è sempre servita a legittimare gerarchie e dare una patente di nobiltà ad una parte della specie umana che veniva, in tal modo e senza alcun senso di colpa, legittimata a dominare il tutto.
Le prime teorie razziali furono elaborate, e per la prima volta, da alcuni scienziati inglesi: tali teorie intendevano dividere l’umanità in razze al cui vertice c’erano i vincitori (cioè loro stessi) e in fondo il popolo africano e quello indiano, che fu l’ultima vittima dell’imperialismo inglese.
Ma già nel 1452, e ben prima della scoperta del Nuovo Mondo, Papa Niccolò V (1447-1455) promulgò una bolla pontificia, con cui autorizzava il Re del Portogallo a ridurre in schiavitù Saraceni, pagani e non credenti in generale per portarli in Europa. Tali concessioni furono (nel XVI sec.) confermate da diversi Papi permettendo ai Portoghesi di ridurre in schiavitù gli abitanti dell'Africa occidentale. Il pontefice spagnolo Alessandro VI garantì anche agli Spagnoli le stesse concessioni fatte da Niccolò V, per mezzo di tre bolle promulgate nel 1493. Le motivazioni, dettate solo da logiche di convenienza economica, erano fondate, sulla liceità della compravendita da parte di quei popoli la cui colpa, che intendeva sub umani, era di essere miscredenti.
Successivamente, venne teorizzata dagli inglesi la suddivisione del l’intera umanità in razze, da organizzare queste secondo una rigida gerarchia: al vertice di tale gerarchia vi erano i vincitori (cioè loro stessi) e in fondo il popolo indiano.
Gli pseudo-scienziati del diciannovesimo secolo divisero l’umanità in razze sulla base di connotati fisici esterni, valutandole secondo differenze umanitarie non soltanto nel fisico ma nel carattere. Gli anglosassoni erano in vetta alla classifica: Peason, professore di eugenetica nel 1911 all’University College di Londra, sosteneva addirittura che il miglioramento delle cure mediche potesse consentire la sopravvivenza di individui (e razze) geneticamente inferiori
. [1]
ordine e disordine
Frammentare il mondo in poli contrapposti, e dare valore ad uno dei due e a delegittimare l'altro, nega un principio fondativo di una libera e autentica conoscenza: la conoscenza esprime la sua vitalità nell'accettare la molteplicità del reale, viverne le trasformazioni e variazioni e farne parte.
Negare la varietà delle tensioni che abitano il reale, e lo conformano di sé, significa solo voler creare un reale altro
e più disponibile al controllo: ma il ricorso ad antinomie e su scontri tra valori e disvalori ha una giustificazione temporanea e strumentale perché i confini fra condizioni diverse
sono sempre labili quando funzionali a interessi di parte.
La frammentazione del reale, risultata per lungo tempo conveniente, ha rivelato, oltre alla sua assoluta infondatezza culturale, una pericolosa deriva sociopatica.
Il continuo ricorso a barriere, materiali e immateriali, è diventato una sempre più diffusa parola d’ordine e sta assumendo una dimensione patologica: attraverso una sua criminale pratica, esso costituisce una delle più stolide e feroci autorappresentazioni con cui il potere esprime le sue paure.
Una crudele visione del mondo
che ha sviluppato tutta la sua capacità distruttiva attraverso le due grandi e mortifere ideologie del secolo scorso, nazismo e comunismo: e vennero eliminati milioni di cittadini solo perché considerati diversi
, inferiori
o comunque non organici
nei confronti di quei salvifici e totalizzanti progetti che questi pensieri forti
intendevano realizzare.
Una procedura che continua ad essere esercitata o recuperando esausti frammenti dei pensieri del secolo scorso o, peggio, tornando a pensieri ancora più antichi.
Ma quello che oggi, e finalmente, sta accadendo è il diffondersi di una sempre più avvertita indignazione nei confronti di una pratica che sta legittimando la progressiva riduzione dei diritti degli individui, ma a vantaggio di pochi eletti.
L'indignazione è una tensione che può esprimere capacità propositive se insegue nuove utopie e nuove progettualità politiche.
I bellissimi esempi di associazione volontaria e mutuo appoggio, che si manifestano con sempre maggiore energia ed efficacia, vogliono affermare il primato del principio di autodeterminazione nei confronti del principio di autorità.
Si vuole, in definitiva, legittimare un sogno e un diritto che è stato sempre mortificato dall'ottuso rigore del pensiero unico: il che è, certamente, un buon inizio per incominciare a ripensare il mondo.
essere parte di un tutto
La cultura del divide et impera
è stata applicata a tutte le specie viventi e su tutti i luoghi del pianeta: ma, oggi, viene smontata nei suoi presupposti fondativi e partendo dalla antica divisione fra specie animali e specie vegetali.
Questa suddivisione, in un recente saggio sul mondo vegetale, viene smantellata e partendo da cosa si deve intendere per intelligenza: ogni essere vivente è chiamato di continuo a risolvere questioni che nella loro essenza non sono diverse da quelle che affrontiamo noi… e l’intelligenza è l’abilità di risolvere i problemi
. [2]
L’analisi dei comportamenti delle piante fa capire che queste hanno sviluppato una forma di intelligenza che non è concentrata in un unico organo ma è distribuita in tutte le parti (radici, fusto, rami, foglie) in cui si articola l’architettura di ogni singola pianta. ogni elemento costitutivo di una pianta è parte
di un tutto ma, nello stesso tempo, è esso stesso un tutto.
Ogni parte di tale comunità ha in sé la cultura, il progetto dell’intero sistema ed è disponibile a svolgere qualsiasi altro ruolo che la contingente necessità richiede.
L’aspetto più significativo del carattere comunitario di una pianta è proprio nel suo costituire una forma di intelligenza collettiva che è superiore alla sommatoria delle singole entità che compongono il tutto.
Le radici di una pianta, ad esempio, sono costituite da migliaia di apici
ognuno dei quali lavora su specifici aspetti che condizionano l’esistenza della pianta: umidità, temperatura, tossicità, etc.; ciascuno di questi apici, pur lavorando individualmente, è in rete con tutti gli altri e con tutte le altre parti della pianta.
Una pianta è un insieme, una rete di moduli ognuno dei quali è una entità pensante che cerca informazioni, valuta, decide, contribuisce ad autoprodurre alimenti e a cercare fonti nutritive, a riconoscere antagonisti e sodali; ognuno di questi moduli è consapevole
di essere parte di un tutto, di una comunità e di avere tutte le potenzialità per essere altro
, di essere in grado di svolgere, se necessario, qualsiasi altra funzione.
Ogni parte del tutto contiene l’intero progetto
di questo tutto, accetta di svolgere un unico ruolo ma è disponibile a cambiarlo o per rafforzare la comunità o per consentire la costruzione di una nuova comunità: ad esempio, se staccate una parte da una pianta di geranio, e la ripiantate (per talea, come direbbe un giardiniere), il pezzo di geranio staccato metterà radici e darà origine a una nuova pianta
. [3]
La condizione comunitaria, lo stare insieme e consapevolmente, è quella più naturale e logica che esista nel sistema che ci comprende, l’ambiente di cui siamo parte.
E, se confrontiamo i comportamenti delle specie animali con quelli delle specie vegetali possiamo trovare singolari e affascinanti affinità che ci fanno comprendere che, pur con diverse modalità di vita e di comportamenti, siamo parte di un articolato e diversificato insieme.
Ciò conferma la naturalità della condizione comunitaria e, poi, la particolare accezione che caratterizza tale condizione:
E questa unità riguarda il nostro essere e i nostri modi di essere, i nostri sogni e le nostre aspettative, materiali e immateriali: queste diversità
, materiali o immateriali, costituiscono una comunità, proprio per il loro vitale interagire, un interagire che è la vera caratteristica di tutti gli esseri viventi.
Appartenere ad una comunità significa disporre di gradi di libertà certamente superiori e più affascinanti di quelli con cui siamo stati educati e per i quali far parte di una comunità significa essere parte di un ingranaggio
, un pezzo unico.
Una specificità e unicità che ci vincola allo specifico compito che è stato assegnato e a credere che sia per noi impossibile intervenire per cambiarlo; il risultato è che nessun elemento di questa comunità viene reso mai responsabile nei confronti di ciò che può accadere.
In definitiva, questa interpretazione, piuttosto riduttiva, della condizione comunitaria non consente di partecipare attivamente e liberamente alla vita del tutto di cui si è parte, per modificarlo, migliorarlo o, eventualmente, sostituirlo.
E, soprattutto, contrasta con quella che è la vera caratteristica di tutti gli esseri viventi, quella di credere