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VERIT E MENZOGNA E ALTRI SCRITTI GIOVANILI

1870/1873

Traduzioni condotte sugli originali tedeschi in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe Dritte Abteilung, Herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, Zweiter Band, Berlin, Walter De Gruyter & Co,-1973. Traduzioni di Sergio Givone Due conferenze pubbliche sulla tragedia greca (Prima conferenza: il dramma musicale greco; Seconda conferenza: Socrate e la tragedia) Titolo originale: Zwei ffentliche Vortrge ber die griechische Tragdie (Erster Vortrag: Das griechische Musikdrama. Zweiter Vortrag: Socrates und die Tragdie) La visione dionisiaca del mondo Titolo originale: Die dionysische Weltanschauung Cinque prefazioni per cinque libri non scritti Titolo originale: Fnf Vorreden zufunf ungeschriebene Bchern Su verit e menzogna in senso extramorale Titolo originale: Ober Wahrheit und Liige im aussermoralischen Sinne

Introduzione

i.

Le due conferenze (i cui testi, come anche gli altri di questa raccolta relativa agli anni 1870-73, saranno pubblicati soltanto postumi)1 che Nietzsche tiene a Basilea il 18 gennaio 1870 e il primo febbraio dello stesso anno, rispettivamente sul Dramma musicale greco e su Socrate e la tragedia, meritano attenzione per almeno tre buoni motivi. Anzitutto, in esse Nietzsche anticipa i risultati di quel suo vagabondare nei campi della filologia1 che render noti nella Nascita della tragedia due anni dopo, e li anticipa in forma pi radicale e scabra, libero com' ancora dalla seduzione wagneriana. In secondo luogo, egli denuncia la sostanziale insufficienza della stessa filologia e affida un'estrema e marginale possibilit di accostamento della tragedia greca alla fantasia piuttosto che all'erudizione, al sapere saccente e presuntuoso, fino al punto di scrivere, in una lettera a Rohde di quegli stessi giorni: L'esistenza filologica con aspirazioni critiche ma mille miglia lontana dalla grecit, mi diventa sempre pi impossibile3. Terzo motivo: nonostante il giovane filologo creda che solo infuturo gli sar dato di esprimere il suo pensiero in modo serio e franco, l dove invece per il momento non pu che constatare nei suoi uditori paure e fraintendimenti4, proprio qui, in particolare nella seconda di queste conferenze, ch'egli porta in primo piano la domanda decisiva, quella che attraversa tutta la sua riflessione sul mondo greco e, a partire dal 1872, ne determina il senso: la domanda, cio, non tanto sui modi del venire alla luce del tragi1 Ora nel voi. m, tomo 2: Nachgelassene Schrtften 1870-1873, della Kritische Gesamtausgabe, cui si affianca, a partire dal 1977, il Briefwechsel (in 18 voli.) a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlino, 1967 ss. A questo volume, che contiene tra l'altro anche Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen, si riferiscono le citazioni con la sigla KG, salvo indicazione contraria. La traduzione la nostra. Cfr. anche La filosofia nell'et tragica dei Greci, in questo voi. 2 Cfr. la lettera a Friedrich Ritschl del 2 agosto 1869. 3 Das griechische Musikdrama, in KG, in, 2, cit., p. 6. La lettera a Rohde del gennaio 1870. In essa si possono trovare espressioni che anticipano gi le risposte di Nietzsche alle critiche che Wilamowitz di l a tre anni avrebbe sollevato contro la Nascita della tragedia, dando luogo alla celebre polemica cui avrebbe partecipato, oltre allo stesso Rohde, anche, Wagner. Nietzsche insomma appare fin d'ora consapevole dell'irriducibilit delle sue ricerche all'ambito strettamente filologico. Non altrettanto, invece, Nietzsche sembra rendersi conto di come queste sue ricerche s'innestino nel solco della filosofia classica tedesca. Una ricostruzione in questo senso stata tentata, tra gli altri, da Otto Kein (Das Apollinische und Dionysische bei Nietzsche und Schelling, Berlino, 1935). Kein ricorda come la problematica fatta valere da Nietzsche nella Nascita della tragedia e quindi nelle opere giovanili scaturisca dalle radici stesse dell'idealismo: infatti, scrive Kein, non solo l'opposizione di dionisiaco e apollineo si trova gi in Friedrich Schlegel, in Hegel e soprattutto in Schelling con accenti che richiamano decisamente quelli nietzschiani, ma soprattutto la stessa opposizione a costituire un motivo di continuit tra l'ultimo Schelling e Schopenhauer, come avrebbe notato Eduard von Hartmann, precisamente l'autore che introdusse Nietzsche alla filosofia di Schopenhauer (cfr. op. cit., p. 12 ss.). Cfr. anche La filosofia nell'et tragica dei Greci, in questo voi. 4 Cfr. la lettera a Rohde del 15 febbraio 1870.

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co (cui pure allude il titolo della contrastata opera del 1872), bens sulle ragioni del suo tramontare. In questione, per Nietzsche, prima ancora che la nascita, la morte della tragedia. Lo si vede bene negli altri scritti dello stesso periodo (anch 'essi tutti pubblicati postumi, salvo appunto la Nascita della tragedia^, a cominciare da quello su La visione dionisiaca del mondo, di poco successivo alle due conferenze: infatti qui Nietzsche per un verso sottolinea l'intima contraddittoriet del tragico, fino a farne un evento che si sottrae alla storia e si consegna al mito, e per l'altro proprio nel tragico scopre la misura della storia la storia dell'occidente cio la decadenza come progressivo allontanamento da esso. Del resto, anche quando Nietzsche sembra divagare, come nelle Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, ancora il tragico a fare da sfondo: sia come utopia in cui la tragedia sia ancora in qualche modo sperimentabile e riproducibile ( ci che Wagner aspetta di sentirsi dire da Nietzsche), sia come irrecuperabile perdita, scarto, dismisura ( ci che Nietzsche impedito a dire da Wagner). In ogni caso Nietzsche tenter una ricostruzione storica e sistematica del tragico in un 'opera {La filosofia dell'epoca tragica dei greci: il lettore pu trovare quest'opera in un altro volume della stessa collezione) significativamente rimasta incompiuta; ma sar soltanto per via traversa, con Verit e menzogna in senso extramorale, l'ultimo degli inediti giovanili, ch'egli dar una risposta tanto sottile quanto ambigua al suo problema. Il tragico, cos come si configura nella tragedia greca, dunque la stella polare del pensiero di Nietzsche fino alla svolta che gi in atto nelle Considerazioni inattuali del 1874: sia che faccia suo il punto di vista di Schopenhauer, sia che si occupi dei presocratici (interpretando i presocratici attraverso Schopenhauer, come quando identifica l'unit dell'essere con la volont), li, al tragico che Nietzsche rimane ancorato. Cosa significa, allora, che nello sviluppo del suo pensiero, Nietzsche si stacchi faticosamente ma progressivamente da questo suo potente magnete, per per proclamare poi in Ecce homo d'essere lui, Nietzsche, il primo filosofo tragico5? Solo apparentemente qui si ha a che fare con qualcosa che va al di l dell'orizzonte degli scritti dedicati alla tragedia greca del periodo 1870-73. Al contrario, proprio in questa prospettiva, dove in un certo senso il futuro si riflette sul passato e lo attraversa, che s'illumina magnificamente l'oscuro prodursi d'un pensiero destinato a rimanere fedele a se stesso ben oltre le note vicende della sconfessione di Wagner e di Schopenhauer. A questo proposito, l'interpretazione con cui non si pu non fare i conti la seguente. Nietzsche incontrerebbe, nel cuore della tragedia greca, una contraddizione, della quale il tragico consisterebbe e nello stesso tempo morrebbe: la contraddizione propria d'una volont che si afferma negandosi. Di qui la reazione socratica al tragico, come tentativo di sanare con la logica la contraddizione (in nome del tragico stesso, si badi, com ' evidente secondo Nietzsche in Euripide), ma di qui anche l'inevitabile passaggio a un mondo che si colloca definitivamente al di l del tragico ossia il mondo che Nietzsche stesso definisce della ratio. Senonch tutto ci dato unicamente sulla base della filosofia schopenhaueriana. Quindi, quel che Nietzsche dice di s in Ecce homo, quando ormai il fantasma di Schopenhauer si
Ecce homo, in KG vi, 3, p. 310; tr. it. in F. W. Nietzsche, Opere 1882/1895, Roma, Newton Compton, 1993.
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dissolto, sposterebbe in maniera decisiva il punto di vista e svuoterebbe di significato quelle ricerche giovanili, rendendo abbastanza improduttivo e anzi equivoco il confronto con le opere della maturit. Per non si pu fare a meno di notare una sostanziale coerenza, pur nell'evidente mutamento e ampliamento prospettico, tra La visione dionisiaca del mondo, che inaugura nel 1870 quella che la nietzschiana filosofia del tragico, e Ecce homo, che la conclude nel 1888. Prostrazione gioiosa nella polvere, calma felice nell'infelicit! Suprema espropriazione dell'uomo nella sua suprema espressione! Glorificazione e trasfigurazione di tutte le vie dell'orrore e della paura esistenziali come vie che salvano dall'esistenza! Trionfo della volont nella sua negazione!6 ci che Nietzsche scrive nel '70, con un tono che proprio del suo primo nichilismo ascetico. invece con un tono dove il nichilismo ormai approdato a un esito di segno contrario, che Nietzsche si esprime nell'88: /... / "per essere noi stessi /... /, l'eterna gioia del divenire, quella gioia che racchiude in s anche la gioia dell'annientare...". In questo senso ho il diritto di ritenere me stesso il primo filosofo tragico /... / 7 . Tuttavia, anche se si tratta di atteggiamenti profondamente diversi, e tali da misurare l'ampiezza della svolta compiuta da Nietzsche nell'arco di quei suoi anni tormentati, il tragico continua ad apparire un perfetto segno di contraddizione: contraddizione della volont che si afferma negandosi nell'individuo, contraddizione del divenire che si afferma negandosi nell'essere. Fa da filo conduttore l'immagine eraclitea del divino fanciullo per cui creazione e distruzione non sono che un gioco innocente che sempre ricomincia: Nietzsche l'aveva messa al centro della sua ricostruzione del pensiero tragico nel '7&, e se ne appropria definitivamente ora, nell'88, presentando se stesso come profeta del tragico in un senso di cui quell'immagine sembra confermare la continuit di esordio ed esito. Questo non significa che negli scritti giovanili e pi precisamente nell'interpretazione ch'egli vi delinea della tragedia greca, Nietzsche sia gi vicino all'approdo conclusivo. Si pu per dire che ci a cui quegli scritti tentano di dare una risposta resta per Nietzsche la questione decisiva. Il tragico, appunto: non importa, in fondo, che Nietzsche a partire da quella sua violenta e trasgressiva irruzione nel mondo greco ne denunci l'avvenuto oltrepassamento, mentre al culmine di quella che in un certo senso la sua profetica esperienza della modernit ne annunci la comparsa. Il tragico resta per Nietzsche quel luogo in cui ci che perfettamente contraddittorio si rende finalmente pensabile o almeno formulabile: tant' vero che Erlsung e Versohnung sono le nozioni che l'accompagnano bifronti angeli del tragico e lo spingono al limite estremo della pensabilit: in questione infatti quel bisogno di redenzione che costituisce il retaggio della tradizione ebraico-cristiana e quel bisogno di conciliazione che ne rappresenta il risvolto metafisico, ma come interrogarsi nei termini d'una redenzione dall'idea stessa di redenzione e per di pi fuori del cristianesimo? Il tragico questo nodo, questo viluppo di temi irrisolti. Ma lasciamo stare, per ora. Certo in un quadro come questo si capisce bene come ci che del tutto assente negli scritti giovanili il cristianesimo, appunto acquisti sempre maggior peso, nello sviluppo del pensiero nietzschiano, fiDie dionysische Weltanschauung, in KG, ni, 2, p. 62 (tr. it. La visione dionisiaca del mondo, in questo voi. p. 69). 7 Ecce homo, in KG vi, 3, p. 310; tr. it. cit. p. 862. 8 Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen, in KG, in, 2, p. 316 ss.; tr. it. La filosofia nell'et tragica dei Greci, in questo voi., p. 189.
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no a diventare il solo interlocutore, anzi, l'avversario; ma si capisce anche come la lotta di Nietzsche, fissata com ' a categorie che ricevono forza dal loro stesso svuotamento (il tragico, ancora il tragico...), non possa evadere dall'orizzonte cristiano. Il paradosso di questi scritti, d cui un'assenza a indicarne la direzione e che sono tanto pi significativi quanto pi provvisori, sta tutto qui.
II.

In ogni caso gli scritti giovanili di Nietzsche, ad eccezione della Nascita della tragedia (che in un certo senso opera meno ricca di implicazioni delle altre cui si fatto cenno), non hanno mai avuto molta fortuna, e questo, sostanzialmente, per due ragioni; anzitutto, in quanto condizionati da quel wagnerismo e da quello schopenhauerismo che Nietzsche stesso avrebbe poi decisamente ripudiato, e poi per il loro carattere semplicemente preparatorio o tutt'al pi anticipatorio. Gli autori che, a partire da Lowith (con il suo Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkunft des Gleichen, che del 1935) e da Heidegger (le sue lezioni universitarie su Nietzsche risalgono al 1936, mentre i due volumi del Nietzsche sono stati pubblicati nel 1961 J]0 hanno profondamente rinnovato la storiografia nietzschiana, sembrano per lo pi adottare una prospettiva che riduce notevolmente la portata di questi scritti. C' accordo, infatti, nel sostenere che solo liberandosi da Schopenhauer e da Wagner Nietzsche finalmente giunge a sviluppare e a portare a compimento quei presentimenti ancora distorti e sfigurati dalla sua disperata fedelt ai maestri. Addirittura Lowith afferma che in Nietzsche il pensiero si d come destino e perci solo a partire dal suo compimento (qual espresso dall'idea dell'eterno ritorno dell'uguale e quale Nietzsche vive in prima persona) si lascia interpretare: ultimo discepolo di Dioniso, dice Lowith, Nietzsche ripropone la domanda sul senso dell'esistenza dell'uomo nel tutto e rimane preso dentro l'inevitabile morsa che fa del profeta di un Neuland der Seele un uomo im Wahnsinn gekreuzigt11, quasich il movimento sia non tanto dall'uomo al superuomo, ma, viceversa, dal superuomo della metafisica all'uomo della lacerazione appunto dionisiaca. Anche Heidegger (il quale, com' noto, vede in Nietzsche l'esecutore della metafisica ma anche la sua vittima, e questo perch la volont di potenza identifica l'essere con il divenire il divenire appunto l'essere che voluto da una volont e dunque metafisicamente identifica l'essere, ne fa qualcosa che come un ente)12, gioca tutte le sue carte sull'ultimo Nietzsche e quindi inevitabilmente trascura quegli scritti che, come soprattutto i molti sulla tragedia, a loro modo si sottraggono all'esito cui Nietzsche perviene con le opere degli anni pi tardi. Ma l'interprete che pi recisamente ha negato qualsiasi valore agli scritti giovanili di Nietzsche senz'altro Sestov 13. Il quale, sulla base di quel che
9 L'opera di Lowith stata pubblicata a Berlino e ha inaugurato, come si sa, quella Nietzsche-Renaissance che non solo ha fatto giustizia dei noti abusi e stravolgimenti storiografici di stampo nazista, ma che costituisce oggi pi che mai uno dei motivi pi interessanti dell'attuale dibattito filosofico. 10 Heidegger ha tenuto le sue lezioni su Nietzsche a Friburgo, in Brisgovia, a partire dal semestre invernale 1936 e fino al 1940. Il Nietzsche, che riprende i temi di quelle lezioni, stato pubblicato a Pfullingen. " Op. cit., p. 10. 12 questa la tesi presente anche nel saggio, contenuto in Holzwege (1950), Nietzsches Wort Goti ist tot. 11 Cfr. L. Sestov, La filosofia della tragedia in Dostoevskij e in Nietzsche, trad. it. di E. Lo Gatto, Napoli, 1950.

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Nietzsche stesso afferma, non esita a fare di Nietzsche il discepolo e l'erede di Dostoevskij, cio il continuatore di quella filosofia della tragedia che consiste essenzialmente, nel riconoscimento del carattere residuale del tragico rispetto a qualsiasi ricomposizione armonica del mondo e della sua assoluta irriducibilit ad un'eventuale teodicea. Da questo punto di vista gli scritti giovanili di Nietzsche non rappresentano neppure una pallida prefigurazione di sviluppi futuri; anzi, ne costituiscono l'antitesi, fiacca ed elusiva, dal momento che in essi si insegna a riconciliarsi con gli orrori della vita1*. Non stupisce quindi che Sestov arrivi a definire tutte le opere precedenti Umano, troppo umano come romanticismo della pi pura acqua, cio un pi o meno specioso gioco con immagini poetiche e concetti filosofici gi pronti15. (Paradossalmente, per, proprio Sestov a offrire alcuni degli spunti pi efficaci per una rivalutazione di quelle opere: infatti, dietro Sestov, non pi possibile interpretare la relazione posta dall'ultimo Nietzsche tra volont di potenza ed eterno ritorno in termini di semplice rovesciamento del tragico, dal momento che interno al tragico, e dunque in qualche modo legato alla sua prima formulazione, rimane il rovesciamento stesso o meglio quella redenzione in cui la volont si appropria, volendolo come suo, del tempo e quindi tutto ci Nietzsche ne parla come dell'orrore dell'esistenza che in esso si consuma.) Un certo mutamento di prospettiva s'incontra, a questo proposito, in Deleuze16. vero che secondo Deleuze il tragico in Nietzsche, cos come viene alla luce negli scritti che mettono capo alla Nascita della tragedia, ancora pensato attraverso le stesse categorie quella di giustificazione, per esempio di cui viene proposto un superamento. Tuttavia Deleuze vede gi in quegli scritti un 'implicita critica della dialettica, per un verso, e del cristianesimo, per l'altro, la quale applicata al problema del tragico significa disvelamento nella tragicit di quella forma estetica della gioia che al di l sia della dialettica e del suo modo di intendere il negativo sia del cristianesimo e della metafisica cui esso resterebbe legato11. questa la scoperta che fa del filologo gi il precursore d'un pensiero in cui il tragico si manifesta sempre come altro da s: come gioia, appunto, come riconciliazione, o, meglio, come fonte di piacere. Il tragico, dunque, questo non essere mai identico con s, questa negazione stessa dell'identit: il tragico differenza. Anzi, meglio, la differenza ci che scaturisce dal tragico. Da questo punto di vista, secondo Deleuze, quell'affermazione della differenza in cui il pensiero di Nietzsche culmina e si riassume, ne anche il filo rosso: giacch sempre si tratta di sostituire il no dialettico con il s al molteplice, al disperso, all'irriducibile, alla totalit, e a questo compito Nietzsche si dedica ininterrottamente a partire dalla sua interpretazione della tragedia greca. Non importa che questa interpretazione si svolga, come dice Deleuze, ancora all'ombra del cristianesimo (Nietzsche ben lontano dall'ammetterlo; ma con lucida consapevolezza pi tardi accomuner il cristianesimo e Schopenhauer) e di Schopenhauer, fondata com ' sulle nozioni di compassione e di ascesi18: di fatto Nietzsche si gi posto nella prospettiva in cui non tanto il male uno scandalo per la vita che alla vita chiede di essere giustificato, bens la vita una giustificazione per il male e
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Op.cit.,p. 146. Op. cit., p. 143. " Cfr. G. Deleuze, Nietzsche, Parigi, 1962. 17 Op. cit.,p. 19. 18 Op. cit.,j>. 13.

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per il dolore. Il patire, insomma, e quindi anche la compassione e l'ascesi, nascono dal tragico e sono gi un suo frutto gioioso, dionisiaco, affermativo nella diversit. Del resto, le sofferenze di Dioniso sono appunto il solo soggetto della tragedia, e lo sono nel senso del loro essere altre, diverse, rovesciate nel piacere della differenza. Ebbene: La tragedia questa riconciliazione19. A questo punto, per, sembra che la differenza non possa non diventare indifferenza, riconfermando sul piano della conciliata totalit dell'essere quella stessa identit che, sul piano della frantumazione e della lacerazione e insomma della sofferenza di Dioniso, aveva negato. Quale differenza, infatti, se tutto ci che scarto, negazione, alterit gi da sempre riconciliato, giustificato, riscattato? Dove e come riconoscere, ancora, l'elemento discriminante, quello per cui lo scarto scarto, la negazione negazione, l'alterit alterit, ossia {'orrore in quanto tale? E non questa, precisamente, la condizione del tragico? Si riesce forse meglio a tener conto di queste difficolt, quando si osservi che in Nietzsche il tragico momento destinato a tramontare per dar luogo altrove e altrimenti alla soluzione delle contraddizioni che gli sono proprie, oppure quando si rilevi nel pensiero nietzschiano la sostanziale continuit del tragico ma sotto il segno d'un 'altrettanto sostanziale contraddittoriet. Si tratta, rispettivamente, delle tesi sostenute in proposito da Gianni Vattimo20 e da Ferruccio Masini21. Secondo Vattimo l'interpretazione che Nietzsche d della tragedia greca fa del tragico la dimensione in cui le convenzioni e cio sia i canoni logicolinguistici sia i ruoli sociali sono bens sospesi, ma presupposti, tanto da risultarne confermati. Questa concezione del tragico o meglio della civilt tragica, dice Vattimo, lascia lo stesso Nietzsche insoddisfatto. L'et tragica sembra essere un momento di passaggio, difficile da isolare, che non pu non dar luogo alla formazione di una cultura non tragica22. Secondo Masini, invece, il tragico come nota dominante, cellula germinale, base ermeneutica che Nietzsche ricava negli anni giovanili dalla sua ricostruzione del mondo greco, accompagna tutto lo sviluppo del pensiero nietzschiano: Nel tragico sarebbe da vedersi dunque una preformazione di quella "magia degli estremi" a cui si riconduce il movimento trascendente-rovesciante della filosofia nietzschiana23. il tragico, insomma, il fuoco centrale da cui Nietzsche irradia quelle forze centrifughe, dislocanti, trasgressive in cui si risolve il suo pensiero: l'eccesso (sia nel senso della hybris dionisiaca sia nel senso dell'Ubermuth di Zarathustra), la distruzione d'ogni ordinamento morale o cosmologico, il nichilismo come consumazione di Dio e nello stesso tempo come sovrabbondanza ludica del divino24. Eppure queste osservazioni di Vattimo e di Masini (le quali, com ' appena il caso di dire, s'inseriscono in un quadro interpretativo ben pi vasto e complesso di quel che si possa mostrare qui) non sono contrastanti, ma mettono l'accento sulla prof onda ambiguit del pensiero nietzschiano circa il tragico. vero infatti che Nietzsche si lascia presto alle spalle il labirinto del tragico (di cui gli scritti postumi sul mondo greco indicano i percorsi,
" Ibidem. Cfr. G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano, 1974, 19782. 21 Cfr. F. Masini, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Bologna, 1978. 22 G. Vattimo, op. cit., p. 48. 23 F. Masini, op. cit., p. 93.
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Op. cit., pp. 103-4.

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mentre la Nascita della tragedia non rappresenta che un'illusoria via d'uscita), alla ricerca d'una soluzione non meramente estetica del problema della maschera, della decadenza, e cos via. anche vero, per, che questo oltrepassament del tragico va nella direzione del tragico stesso, come Nietzsche ammetter senza nessuna esitazione. Il tragico, e Nietzsche lo vede bene, in se stesso contraddittorio: sospendendo i vincoli che costituiscono la trama del mondo, esso in realt li rafforza, cos come negando la volont, di fatto l'afferma. Ma non basta a Nietzsche, per uscire da questo vicolo cieco, liberarsi della tutela di Schopenhauer e di Wagner. Anche quando la maschera gli apparir non solo come il luogo d'un equilibrio che si d unicamente sul piano della rappresentazione, e quando la decadenza avr per lui piuttosto il significato d'una emancipazione dalla metafisica che quello d'una progressiva dissoluzione razionalistica, sar ancora alla luce del tragico ch 'egli spinger il suo pensiero al ritrovamento delle stesse figure che gli si erano svelate nella tragedia: Dioniso che soffre e soffrendo danza, in particolare. Dioniso che danza sull'abisso del male (o meglio, sull'abisso dell'orribile e dello spaventoso) e che dunque del male fa non tanto l'oggetto d'un risentimento verso la vita bens il principio stesso d'una sua estatica accettazione, come si sa, la risposta di Nietzsche al cristianesimo. Risposta, questa, che non solo, come lo stesso Nietzsche afferma, denuncia la sua appartenenza al tragico e dunque il suo originario legame con il tragico cos com' stato pensato a partire dal mondo greco, ma che, nel contesto della polemica anticristiana in cui si inserisce, svela del tragico tutta l'ambiguit. Che la danza di Dioniso sia un fatto esprimibile soltanto attraverso il tragico, e che il tragico a sua volta mostri la sua parentela con ci che Nietzsche aveva scoperto nella natura stessa della tragedia, abbastanza evidente: questa danza tragica perch in essa l'abisso dell'orribile e dello spaventoso accoglie gioiosamente l'esistenza e la sprigiona liberata, tanto che il male si rovescia in benedizione, esultanza, sentimento panico. Affinch ci potesse finalmente presentarsi al pensiero, stato necessario secondo Nietzsche non soltanto distruggere i valori (operazione, questa, di per s ancora legata alla morale cristiana), ma superare le categorie entro cui i valori si producono e su cui il cristianesimo si fonda: cio, le categorie di giustificazione, piet, riscatto. Ma il redimere l'uomo da queste categorie, non ancora un far valere e nella forma pi estrema il bisogno di redenzione? In altri termini: la lotta che Nietzsche ingaggia contro il cristianesimo, non resta all'interno d'un orizzonte cristiano? L'ambiguit del tragico, dunque, va oltre le contraddizioni di cui esso consiste. In definitiva queste contraddizioni la volont che si afferma negandosi, soprattutto sono proprie del modo di concepire il tragico sulla base della tragedia greca, come negli scritti giovanili, oppure tendono sempre pi a diventare tratti d'un pensiero che vive di esse come dei principi dell'infinito trasgredire, rovesciare, scomporre. Al contrario l'ambiguit del tragico propria dell'intero arco del pensiero nietzschiano e ne rappresenta forse la pietra d'inciampo: l'attesta, negli scritti che immediatamente precedono e immediatamente seguono la Nascita della tragedia (appunto gli scritti qui presentati) ci che in questi scritti manca e tuttavia tra le righe ossia la presa di posizione nei confronti del cristianesimo, mentre precisamente questa presa di posizione a riflettersi retroattivamente su di essi e a chiarirne il significato. In questo senso, quindi, si ha a che fare con testi che non possono non essere letti se non in proiezione futura. Ma proprio questa particolare situazione ermeneutica li espone a una

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sorta di radiografia rivelatrice: in essi infatti riconoscibile al suo stato nascente ci su cui Nietzsche non potr infine pronunciarsi se non con la contraddittoria o meglio ambigua espressione del Dioniso crocifisso25. Se le cose stanno cos, una lettura degli scritti giovanili di Nietzsche potr andare al di l dei confini che finora gli interpreti hanno assegnato ad essi. Non c' niente di nuovo da scoprire, naturalmente; ma, forse, non del tutto campata in aria l'ipotesi interpretativa che se ne pu ricavare. in questo quadro che s'inserisce la breve ricapitolazione tematica che segue.
III.

Ci che noi oggi chiamiamo l'opera., la parodia dell'antico dramma musicale, venuto fuori da una diretta scimmiottatura dell'antichit: senza la forza inconscia di un impulso naturale, costruita sulla base di una teoria astratta, essa ha assunto la parte dell'homunculus prodotto artificialmente, quasi fosse il cattivo coboldo del nostro sviluppo musicale26. Quest'affermazione, che si trova all'inizio della prima delle due citate conferenze sulla tragedia greca, assume particolare rilievo se si pensa a quel eh 'essa implica: anzitutto, che l'opera in quanto parodia della tragedia ne anche l'esito, quale si d nell'orizzonte della modernit, tanto che la modernit non pu non essere commisurata a ci di cui parodia; in secondo luogo che la possibilit di ritrovare e riprodurre la tragedia nel mondo moderno del tutto chimerica e condannata al fallimento. Certo, Nietzsche allude poco dopo a quando in un'ora di potente fantasia noi portiamo dinanzi alla nostra anima l'opera idealizzata tanto che finalmente ci si schiude l'intuizione dell'antico dramma musicale27; ma questo sembra piuttosto confermare, anzich contraddire, la separazione di modernit e mondo greco. Di questo mondo, l'elemento costitutivo il tragico. Nietzsche ne descrive l'origine a partire dal culto in onore di Dioniso, ed in questa dimensione religiosa che il tragico si d a conoscere come affermazione Nietzsche lo dice28 espressamente qualche pagina pi in l del primato del patire sull'agire . Nulla di sfrenato o di licenzioso, in queste folle che correvano per i campi e i boschi con selvaggio tumulto, ai primordi del dramma, con costumi da Satiro e da Sileno, i volti coperti di fuliggine, di minio e succhi vegetali, con corone di fiori intorno al capo: l'azione potente della primavera manifestandosi di colpo conduce le forze vitali a un tale eccesso che ovunque si danno stati di estasi e visioni insieme con la fede in un proprio incantesimo, e creature che sentono allo stesso modo si aggirano a schiere per tutta la regione. Ed qui la culla del dramma. Il quale non incomincia l dove qualcuno si traveste per far nascere in altri un'illusione: no, ma piuttosto l dove l'uomo fuori di s e si crede trasformato e oggetto d'incantesimo. Nello stato dell'essere fuori di s, per l'estasi non necessario che un passo: s tratta non gi di ritornare in noi stessi, ma piuttosto d entrare in un altro essere, cos da comportarsi da creature fatate. Perci sta tutta qui la ragione fondamentale dello stupore che il dramma suscita: il terreno vacilla, cos come la fede nella indissolubilit e nella fissit dell'individuo29. Primato del patire sull 'agire significa, in questo lungo passo,
L'espressione si trova, a modo di firma, in una lettera del gennaio 1889. Das griechische Musikdrama, in KG, ni, 2, p. 6 (tr. it. Prima conferenza: il dramma musicale greco, in questo voi. p. 41). v Op. cit., p. 7 (cfr. in questo voi. p. 42). 28 Op. cit., p. 18: Der Accent auf dem Erleiden, nicht auf dem Handeln ruht (cfr. in questo voi. p. 47). 29 Op. cit., pp. 11-12 (cfr. in questo voi. p. 44).
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irruzione di forze ctonie che annichiliscono il principio d'identit e di individuazione, non per nel senso dello scambio con un principio di segno contrario, che appunto in quanto principio rappresenterebbe pur sempre l'mporsi d'una soggettivit, d'un'attivit, d'un'azione. Le forze che irrompono nell'individuo, lo spogliano di ci che lo vincola all'identit e lo conducono alla soglia di ci che qui Nietzsche chiama estasi, sono piuttosto comprensibili in termini di passione. Tant' vero che l'essere fuori di s sembra riflettersi in s, e accogliere docilmente l'eccesso fino a piegarlo alla gentilezza (in senso letterale), a un modo non aggressivo che si sottrae alla volont di dominio, per cos dire di volgersi alle cose, addirittura forse gi alla compassione. Nulla di sfrenato o di licenzioso, avverte Nietzsche, il quale appunto parla d'incantesimo, di visione, di stupore. Tutto ci, evidentemente, designa anche il fatto che in questa primitiva esperienza del tragico non vale pi la distinzione di realt e apparenza, cos come quella di soggetto e oggetto; occorre per ricordare con Nietzsche che, appunto, l'accento posto sul patire . Ed in un certo senso l'insostenibilit d'un modo d'essere che passione piuttosto che azione a decretare il declino di ci che s'era annunciato nel culto dionisiaco componendosi poi nella figura della tragedia. Gi in Eschilo e in Sofocle, a dir il vero subito, dunque, quasi che la cosa fosse propria della natura della tragedia, pi che del suo evolversi storico la passione e quindi la compassione si danno in maniera imperfetta. Ci accade in quanto il racconto esposto dal mito tende inevitabilmente a imporsi allo spettatore nello stesso tempo richiedendo a lui attenzione vigile e cosciente, e lo sottrae quindi all'esser fuori di s, all'incanto e alla fragilit della spoliazione dell'io. Lo spettatore messo di fronte a fatti dei quali deve rendersi conto, spiegarsi il nesso causale, dar ragione. Ma questa una smagliatura, un anello mancante che impedisce appunto allo spettatore di calarsi nell'evento rappresentato e dunque di compatire pienamente i protagonisti di quell'evento31. Eschilo e Sofocle si accorgono dell'equivoco e usano tutti gli artifici del caso (per esempio, dar subito in mano allo spettatore, come dice Nietzsche, tutti i fili necessari per la comprensione della vicenda) ma l'equivoco resta. Incombe cio allo spettatore una sorta di obbligo a giudicare ci che si presenta di fatto come al di l del giudzio. Euripide scioglie decisamente questo nodo impugnando uno dei due corni del dilemma: se lo spettatore ha a che fare con qualcosa di cui deve rendersi conto, ebbene, questo qualcosa sia giudicato, sottomesso al vaglio della ragione, conosciuto con chiarezza. E cos, evidentemente, la poetica di Euripide tutta ispirata a Socrate e al suo razionalismo, ma anche a sua volta ispiratrice di quello ripropone precisamente ci che nel tragico sembrava essersi dissolto: non solo, cio, la distinzione di soggetto giudicante e oggetto giudicato, cos come quella analoga di realt (dove le azioni sono imputabili in quanto se ne conosce il responsabile) e apparenza (dove l'ignoranza a gettare sulle cose il velo d'un destino oscuro e impenetrabile), ma soprattutto il primato dell'agire come primato, appunto, della responsabilit sul destino, ossia, in termini socratici, della coscienza. La poetica di Euripide, insomma, sancisce la morte della tragedia. E con la tragedia muore definitivamente quella possibilit di rovesciare l'azione nella passione e di sovvertire quindi quella struttura in cui l'esistenza non pu
Op. cit., p. 18 (cfr. in questo voi. p. 47). Socrates una die Tragdie, in KG, ili, 2, pp. 30-1 (tr. it. Seconda conferenza: Socrate e la tragedia, p. 53).
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non essere pensata alla luce dell'individuazione, quindi dell'imposizione di s e del dominio che s'era appena annunciata nella tragedia stessa. Socrate, fa' della musica, comanda il dio a Socrate32. Ma non si tratta che di un estremo contrappasso. In realt la tragedia muore di una morte tragica: e questo nel senso della scomposizione della solidariet di Apollo e Dioniso, cio, per rimanere nell'ambito dello stesso linguaggio mitico cui Nietzsche ricorre, dell'annichilimento della salvezza portata alla luce dalla tenebrosa profondit della terra. La tragedia muore, dice Nietzsche, non per rinascere o almeno lasciando dei frutti: solo un grande vuoto, profondamente sentito da tutti ci che resta33. La salvezza che la tragedia era venuta a portare stava tutta nella messa in scena e cio nel rapporto che lega il patire e la sua rappresentazione. La conoscenza degli orrori e delle assurdit dell'esistenza, dell'ordine distorto e della disposizione irragionevole di tutte le cose, in generale dello smisurato patire in tutta la natura, aveva svelato le figure cos occultate ad arte di Moira e delle Erinni, di Medusa e di Gorgona: gli di olimpici vennero a trovarsi nel pi grande pericolo 34. Ci che salva gli di olimpici dal pericolo che sta per travolgerli insieme con la possibilit, da loro stessi garantita, di sopravvivere al caos e anzi come dice Nietzsche di convincerci, la scoperta che il caos messo in scena diventa fonte di piacere e addirittura suscita il pi divino e il pi inattaccabile dei sorrisi. Ecco perch il tragico appare tutt'uno con il comico e Dioniso, il dio della tragedia, svela una natura ancipite, non appena la sua passione nella tragedia, appunto rappresentata. nella tragedia che gli di olimpici sono salvati, in quanto immersi nel mare del sublime e del comico35. Li salva la passione di Dioniso, che ricapitola lo smisurato patire in tutta la natura e ne libera la potenza di trasformazione: e questo non nel senso del suo oltrepassamento, bens in quello del suo lasciarlo essere e consumarsi, nella compassione, nella piet, nell'infinita nostalgia per il perduto. allora che emerge quella che tendenza sentimentale del volare, un "sospirare della creatura" per il perduto: dal piacere pi alto che si sprigiona il grido dell'orrore, il lamento pieno di nostalgia per una perdita irreparabile. L'esuberante natura celebra i suoi Saturnali e nello stesso tempo la sua sagra di morte. Le emozioni dei suoi sacerdoti sono meravigliosamente mischiate, dolore suscita gioia, mentre il giubilo strappa dal petto accenti pieni di affanno. Il dio, o lsios, tutto libera da s; tutto trasforma36. A partire di qui e Nietzsche non esita a riconoscerlo il tragico si rivela nella sua perfetta contraddittoriet. Devozione, straordinaria maschera dell'impulso vitale! Abbandono a un compiuto mondo di sogno, che conferir la pi elevata sapienza etica! Evasione dalla verit, per poterla adorare d lontano, nascosta nelle nuvole! Conciliazione con la realt, in quanto enigmatica! Rifiuto dello scioglimento degli enigmi, visto che non siamo di! Prostrazione gioiosa nella polvere, calma felice nell'infelicit! Suprema espropriazione dell'uomo nella sua suprema espressione! Glorificazione e trasfigurazione di tutte le vie dell'orrore e della paura esistenziali come vie che salvano dall'esistenza! Trionfo della volont nella sua negazione!31
32 Op. cit., p. 36 (cfr. in questo voi. p. 56). " Op. cit., p. 25 (cfr. in questo voi. p. 50). 34 Die dionysische Weltanschauung, in KG, ni, 2, p. 60 (tr. it. La visione dionisiaca del mondo, in questo voi., p. 68). 35 Ibidem. 36 Op. cit., p. 50 (cfr. in questo voi. p. 62). 37 Op. Ct., p. 62 (cfr. in questo voi. p. 69).

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La contraddittoriet del tragico per insostenibile. Nietzsche ribadisce qui, in questo saggio su La visione dionisiaca del mondo, ci che pochi mesi prima aveva sostenuto nelle due conferenze sulla tragedia: gi in Eschilo e gi in Sofocle secondo lui s'intravedono i germi di quella tentazione razionalistica che Euripide accoglier trovandovi in definitiva l'unica risposta possibile all'insostenibilit di ci di cui il tragico consiste. Ed ecco Eschilo appellarsi alla nascosta giustizia che presiede l'ordine del mondo, ecco Sofocle decretarne l'impenetrabilit ma con reverenza e devozione. Il brivido sublime che attraversa l'opera di Eschilo e di Sofocle come domanda ultima sulla giustizia lo stesso che porta Euripide a porre il problema della giustificazione3*. Che la contraddittoriet del tragico sia insostenibile, cosa che tocca il tragico alle radici, e non riguarda semplicemente il fatto che Nietzsche continui a pensarlo, in questo primo scorcio degli anni '70, sulla base della filosofia Schopenhauerlana. vero che Nietzsche cercher una via d'uscita appunto ripudiando Schopenhauer; di fatto, per, egli non far che radicalizzare sempre pi la questione. Lo attesta gi l'affermazione contenuta in questi scritti giovanili, secondo cui la tragedia muore d'una morte tragica, cio d'un venir meno e d'un definitivo esaurirsi di quella possibilit di redenzione che in essa si era affacciata: quasi che con ci Nietzsche voglia alludere, pensando al declino dell'occidente come consumazione del tragico, all'impossibilit dell'oltrepassamento dell'orizzonte che di fatto va sempre pi contraendosi e svuotandosi fino a spegnersi: tant' vero che questo contrarsi e svuotarsi un fatto che appartiene al tragico, ossia appartiene ancora e solo in quest'appartenenza pensabile e sperimentabile a ci che non gi pi. Non a caso dopo che Nietzsche si sar lasciato alle spalle Schopenhauer, ormai da molti anni, e quando la figura di Dioniso esprimer non pi la volont che schopenhauerianamente si afferma negandosi, bens la volont che dice s al negativo e lo ama, ci accadr precisamente, come Nietzsche suggerisce in modo molto perentorio, nell'ambito del tragico e cio in un ambito dove si ha a che fare non tanto con una rinnovata metafisica dell'identit, della fattualit, della brutalit (della brutale adeguazione d'un principio gnoseologico e pratico all'esistente), bens, proprio al contrario, della contrapposizione di metafisica e tragedia e quindi di identit e differenza, fattualit e rovesciamento, brutalit e compassione. Da una parte, insomma, la pretesa di ricondurre il molteplice, di per s contraddittorio, ad un principio unificante, sistematizzante, totalizzante, dall'altra invece il tentativo di pensare e anzi di sperimentare la contraddittoriet in quanto tale39: ma fino a che punto sostenibile un pensiero appunto il pensiero in lotta con la metafsica a partire da una mai totalmente sconfessata interpretazione della tragedia, di l dall'estetismo che in questa interpretazione sembra implicito a misura che l'arte investita della capacit di riscattare il disgusto dell'esistenza attraverso imOp. cit., p. 61 ss (cfr. in questo voi. pp. 68 ss.). Scrive F. Masini (in op. cit., pp. 114-6): [...] In Nietzsche dialettica semmai soltanto la coscienza della contraddizione, semprech questa venga trasferita nell'ottica dell'uomo "tragico" che non pu vivere fuori della contraddizione [...]. La scissione perci, pi precisamente, una "lacerazione" "sopportata" dalP"uomo tragico"[...]. L'ottica del filosofo diventa l'articolazione interna di una "filosofia sperimentale" che include non solo la potenzialit della credenza, ma anche e soprattutto l'istinto del dubbio, della negazione, dell'attesa, del disgregare, e mette questi istinti "malvagi" al servizio della conoscenza, cio del progredire di una scepsi alimentata dalla contraddizione [...].
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magin di sogno che contesta il principio di non contraddizione e afferma il primato del patire? La danza infinitamente gioiosa di Dioniso , anche e soprattutto, una danza di morte: lo negli scritti giovanili pubblicati postumi, e lo negli ultimi frammenti e nelle ultime lettere 40. In quelli Dioniso il liberatore libera dall'orrore dell'esistenza quando viene messo in scena, in questi lo esalta nel momento in cui messo in croce. La contraddittoriet del tragico affonda qui nell'ambiguit, ma un'ambiguit rivelatrice. In questa prospettiva (che implica, come gi si sottolineato pi volte, una vera e propria inversione, dal futuro al passato), l'ultimo degli scritti giovanili di Nietzsche pubblicati postumi, quello su Verit e menzogna in senso extramorale, davvero emblematico. Dovendogli trovare una collocazione, si pu dire eh 'esso s'innesta nell'ambito della scoperta, cui Nietzsche perviene con la sua interpretazione della tragedia, che il tragico morto e tuttavia non si pu non pensare alla luce del tragico. Di qui la speciale forma di nichilismo emergente da questo scritto, che pare gi mettere in questione la sempre pi invadente amicizia di Wagner e la gi non pi pressante influenza di Schopenhauer. Infatti Nietzsche, per un verso, ha la consapevolezza di scrivere in un 'epoca che la fine della tragedia ha definitivamente consegnato al razionalismo (quale possibilit allora, di rinnovare l'arte tragica secondo la grande illusione wagneriana che di l a poco Nietzsche far sua con ben maggiore entusiasmo di quel che non appaia negli scritti del periodo 1870-73, compresa la Nascita della tragedia, forse il pi equivoco di essi?), per l'altro tenta per la prima volta di rivalutare l'arte della simulazione e quindi (contro l'imperativo schopenhaueriano) il mondo dell'apparenza, della superficie, della molteplicit. Questo scritto comincia con toni che ricordano quasi un archetipo letterario, eppure anticipano figure e nozioni (quella di favola, per esempio) che Nietzsche svilupper successivamente. In un angolo remoto dell'universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c'era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto pi tracotante e menzognero della "storia universale": e tuttavia non si tratt che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigid, e gli animali intelligenti dovettero morire. Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver per ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l'intelletto nella natura: ci sono state delle eternit, in cui esso non era, e quando nuovamente non sar pi, non sar successo niente 41. Ecco la favola che questo mondo, cos solido e reale, destinato a diventare; ma allora si capisce come su questa base l'attivit dell'intelletto, per quanto corrisponda al bisogno di conservazione (visto che l'uomo non pu lottare per l'esistenza con le corna e con i morsi, a lui non resta che disciplinare e dominare per mezzo di un fittizio ordine concettuale il caos che incombe) appaia del tutto futile e vana. L'arte della simulazione, a questo punto, sembra pura negativit: essa definisce l'ingannare, l'adulare, il mentire, e il fingere42.
40 Esordio ed esito della filosofia nietzschiana sembrano dunque incontrarsi nella nozione di tragico, come molto opportunamente e acutamente Masini ha messo in luce (cfr. op. cit., p. 93 ss.)41 Uber Wahrheit und Luge im aussermoralischen Sinne, in KG, m, 2, p. 369 (tr. it. Su verit e menzogna in senso extramorale, in questo voi., p. 93). 42 Op. cit., p. 370 (cfr. in questo voi. p. 93).

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Ma non si tratta solo di questo. Per intanto, la simulazione fa s che il mondo dell'uomo possa diventare umano e almeno si temperi e si circoscriva la ferocia del bellum omnium contra omnes: simulare significa infatti accettare le convenzioni (linguistiche e sociali) e quindi stipulare un patto. E se la verit in questo modo ridotta all'uomo, l'uomo per a suo modo si consegna alla verit. Ecco il punto: ci che prima si poneva solo in termini di menzogna, ora designa positivamente il mondo dell'uomo. Positivit relativa, questa, nel senso che piega l'uomo alla legge e, se per un verso ne esalta il valore sul piano etico, per l'altro ne impoverisce e svilisce l'esistenza: Insieme con il sentimento d'essere obbligato a designare una cosa come rossa, una seconda come fredda e una terza come muta, sorge in lui un impulso morale che ha per scopo la verit: per contrasto con il mentitore, cui nessuno crede e che tutti escludono, l'uomo si convince della dignit, della fidatezza e dell'utilit della verit. Egli pone ora il suo agire, in quanto essere razionale, sotto il dominio delle astrazioni: egli non sopporta pi di lasciarsi trascinare dalle impressioni subitanee e dalle intuizioni, egli anzitutto generalizza queste impressioni in concetti tiepidi e incolori, per legare ad essi il carro della sua vita e del suo agire41. Eppure proprio qui, in questo formarsi del linguaggio per effetto della simulazione, l'intelletto incontra la possibilit di liberarsi dalla sua servit. Il fatto che il piacere di simulare libera dai codici che la simulazione stessa impone e scopre la potenza mitopoietica del linguaggio, la sua infinita e fluente produttivit, il darsi del mondo il mondo della differenza, come giustamente da pi parti si voluto chiamarlo in modo variopinto, irregolare, privo di conseguenze, incoerente, esaltante ed eternamente nuovo come nei sogni44. L'uomo /... / come rapito dalla felicit quando il rapsodo gli racconta per vere delle leggende epiche o quando l'attore a teatro fa la parte del re pi regalmente che nella realt. L'intelletto, quel maestro della simulazione, lbero e sollevato da quello che invece il suo ufficio di schiavo, finch pu ingannare senza far danno, e cos celebra i suoi Saturnali; mai esso pi eccitato, pi ricco, pi orgoglioso, pi agile, pi audace. Con piacere temerario esso scompiglia le metafore e smuove le pietre miliari dell'astrazione /... /. Quella smisurata struttura concettuale appigliandosi alla quale quel miserabile che l'uomo si salva durante la sua vita, per l'intelletto liberato nient'altro che un sostegno o un giocattolo per le sue temerarie attivit artistiche: e quando esso distrugge queste cose, le scompagina e poi con ironia le rimette insieme, accoppiando le cose pi estranee e separando cos le pi affini, allora chiaro ch 'esso non ha pi bisogno di quei sotterfugi della miseria e non pi guidato da concetti bens da intuizioni45. Cos, quel miserabile che l'uomo diventa un eroe traboccante di gioia46. Nietzsche rovescia cos il suo punto di partenza: questo assurdo spasimo della natura che il mondo perfettamente svuotato di senso (anche Schopenhauer sembra gi lontano: non si vede infatti come ricondurre l'espeOp. cit., p. 375 (cfr. in questo voi. p. 96). Op. cit., p. 381 (cfr. in questo voi. p. 99). A proposito della nozione di differenza, appena il caso di ricordare quale fortuna essa abbia avuto presso gli interpreti francesi di Nietzsche, in particolare Derrida e Deleuze. Non a caso, cio a partire da una lunga e appassionata frequentazione del pensiero nietzschiano, la stessa nozione stata recentemente messa al centro della sua riflessione da Vattimo (cfr. Le avventure della differenza, Milano, 1980, soprattutto la sezione terza). 45 Uber Wahrheit und Liige im aussermoralischen Sinne, in KG, m, 2, p. 382 (cfr. in questo voi. p. 100). 46 Op cit., p. 383 (cfr. in questo voi. p. 100).
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rienza a un principio unificante) diventa teatro dove il senso pieno e adeguato alla polimorficit, alla contraddittoriet, alla molteplicit dell'esperienza finalmente possbile. La perdita del fondamento e del centro, infatti, la consapevolezza che la verit non appartiene a un ordine metafsico, la scoperta del carattere fittizio, convenzionale, artificioso del linguaggio e di tutto ci che accade in esso, trasformano il mondo in una libera invenzione al di l di qualsiasi fondamento e d qualsiasi centro, al di l di qualsiasi ordine metafisico. C' gi ebbrezza ed estasi, insomma, nella vertigine nichilistica; c' gioia infinita nella perfetta disperazione, c' violenza creativa e prometeica nella malinconia: se il mondo un astro insignificante nello spazio, e questo dicibile ossia perviene al linguaggio, gli opposti tendono la corda che li unisce tragicamente ed gi musica dionisiaca quella che ne esce. Dunque, Nietzsche trova qui il suo punto d'appoggio e quanto vi far leva appena il caso di dire osando il pi radicale rovesciamento del nichilismo. D'ora in avanti tutto ci che sta prima del rovesciamento il nichilismo, appunto, in tutte le sue manifestazioni sar imputato soprattutto al cristianesimo. Nostalgia d'un senso ultimo, disprezzo e risentimento per un mondo che non come dovrebbe essere, bisogno di giustificazione: ecco il retaggio che secondo Nietzsche il cristianesimo ha lasciato e che il vangelo dell'anticristo viene a dissolvere. Eppure il rovesciamento del nichilismo e quindi del cristianesimo pensato da Nietzsche all'interno d'un estremo orizzonte cristiano*47. Lo dimostra proprio il tragico, cio una nozione che attraversa tutto il pensiero di Nietzsche e designa sia l'acristianesimo dei primi anni sia l"anticristianesimo dell'ultimo periodo. Appartiene al tragico, infatti, la passione di Dioniso, quella che fa di lui un redentore e come tale ne consegna la figura alle opere dedicate all'interpretazione della tragedia cos come a quelle dedicate ai grandi temi della maturit. Il movimento sempre lo stesso e consiste essenzialmente nel rovesciare gli opposti: per esempio il nichilismo nel sentimento panico ed estatico come nello scritto su Verit e menzogna in senso extramorale, che perci assume un'importanza centrale. (Se una continuit riconoscibile nel pensiero di Nietzsche, la si trova proprio qui, dove pi evidente la svolta.) Ma il movimento, il rovesciamento, anzitutto rovesciamento della passione nella redenzione. Dunque, ci che Verit e menzogna lascia emergere, quanto gi gli scritti giovanili contengono, pur dandone una versione inficiata da una notevole dose di estetismo, ed quanto gli scritti pi maturi porteranno all'estremo, fino all'insostenibilit: giacch non pu non rivelarsi alla fine insostenibile un tale pensiero, se riportato al proprio orizzonte, come Nietzsche appunto fa. Ci accade nel momento in cui (al culmine della modernit, secondo Nietzsche, come piena consumazione del mondo greco) si affaccia al pen47 Questo non significa, naturalmente, che il contrasto tra Nietzsche e il cristianesimo sia in qualche modo sanabile. piuttosto fine l'osservazione di Deleuze secondo cui Nietzsche, fin dagli inizi, si oppone al cristianesimo e alla filosofia d'ispirazione cristiana con immagini e figure particolarmente espressive: cos, per esempio, contro le figure della scommessa e del salto (si pensi a Pascal, a Kierkegaard), egli porta in primo piano quelle del gettare i dadi e della danza, sottolineando in questo modo l'elemento dionisiaco, ludico, panico (cfr. G. Deleuze, op. cit., pp. 42-43). A sua volta E. Fink (nel suo Nietzsches Philosophie, Stoccarda, 1960, passim) ricorda che la redenzione di cui parla Nietzsche non mai redenzione d'un essere finito, piuttosto un'esaltante adesione alla legge che intreccia vita e morte e le consegna all'inesauribilit dell'infinito: da questo punto di vista, secondo Fink, tragedia e cristianesimo rappresentano due termini inconciliabili.

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siero la verit in definitiva tragica per cui redime l'orrore dell'esistenza soltanto colui che lo patisce. Nietzsche sospetta quanto questa verit appartenga all'orizzonte cristiano. Insomma, che Dioniso il redentore per mezzo della sua passione gli appaia infine come il crocifisso, un paradosso tutt'altro che risolvibile nei termini d'una generica analogia, e tanto meno imputabile alla demenza incombente.
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Due conferenze pubbliche sulla tragedia greca

Prima conferenza: il dramma musicale greco Nel teatro contemporaneo non sono presenti solo memorie e risonanze delle arti drammatiche della Grecia; anzi, le sue forme fondamentali hanno radici nel terreno ellenico, o per crescita naturale oppure per via di una derivazione artificiale. Soltanto i nomi in diversi modi si sono mutati e spostati: analogamente la musica medievale era di fatto ancora basata su tonalit greche, solo che, per esempio, ci che i greci chiamavano locrese nel canto liturgico veniva indicato come dorico. Confusioni del genere le s'incontra nell'ambito della terminologia drammatica: ci che l'Ateniese considerava tragedia, noi tutt'al pi lo iscriviamo al concetto di grande opera: cos almeno ha fatto Voltaire in una lettera al Cardinal Quirini. Al contrario un greco non riconoscerebbe nella nostra tragedia quasi nulla di corrispondente alla sua; semmai gli verrebbe fatto di pensare che la struttura e il carattere fondamentale della tragedia di Shakespeare siano stati presi d quella che lui chiamava commedia nuova. E in effetti proprio da questa si sono sviluppati, in enormi spazi temporali, il dramma romano, le rappresentazioni di misteri e di moralit tanto latine quanto germaniche, e infine la tragedia di Shakespeare: cos, analogamente, nella forma esteriore della scena di Shakespeare non si pu non riconoscere affinit genealogica con la commedia nuova attica. Se qui noi ora non possiamo fare a meno di ravvisare una sorta di sviluppo progressivo durato millenni, invece quella che la vera tragedia dell'antichit, l'opera di Eschilo e di Sofocle, stata imposta forzatamente all'arte moderna. Ci che noi oggi chiamiamo l'opera, la parodia dell'antico dramma musicale, venuto fuori da una diretta scimmiottatura dell'antichit: senza la forza inconscia di un impulso naturale, costruita sulla base di una teoria astratta, essa ha assunto la parte dell'homunculus prodotto artificialmente, quasi fosse il cattivo coboldo del nostro moderno sviluppo musicale. Quei nobili e profondamente colti fiorentini che all'inizio del xvii secolo promossero l'opera, avevano l'intenzione dichiarata di rinnovare quegli effetti ch'essa gi aveva posseduto nell'antichit, secondo cos numerose e convincenti testimonianze. Notevole! Gi il primo pensiero dell'opera stato una ricerca dell'effetto. Attraverso tali esperimenti le radici di un'arte inconscia che scaturisce dalla vita del popolo vengono rescisse o per lo meno mutilate in malo modo. Cos in Francia il dramma popolare stato soppiantato dalla cosiddetta tragedia classica, cio da un genere formatosi puramente per via erudita, il quale doveva contenere senza commistioni l'essenza del tragico. Anche in Germania quella che la radice naturale del dramma, la rappresentazione carnascialesca, stata affossata a partire dalla Riforma; dopo di che la nuova creazione di una forma nazionale stata appena tentata, l dove invece si continu a pensare e a poetare secondo i modelli che erano a portata di mano presso nazioni straniere. Ai fini dello sviluppo delle arti moderne,

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l'erudizione, il sapere saccente e presuntuoso sono un vero e proprio freno: ogni crescere e divenire nel campo dell'arte deve procedere nella notte profonda. La storia della musica insegna che un sano sviluppo e ampliamento della musica greca nell'alto medioevo fu, di colpo e violentemente, impedito e bloccato, non appena si torn all'antico sia in teoria sia in pratica con la scorta dell'erudizione. Il risultato fu un'incredibile atrofia del gusto: dati i continui contrasti tra la presunta tradizione e l'orecchio naturale si giunse al punto di comporre musica non pi per l'orecchio bens per l'occhio. Gli occhi dovevano ammirare l'abilit contrappuntistica del compositore: gli occhi dovevano riconoscere la capacit espressiva della musica. Come fu che si ottenne questo? Si colorarono le note con i colori delle cose di cui si trattava nel testo, cio di verde o di rosso porpora a seconda che ci si riferisse alle piante, ai campi e ai vigneti o al sole e alla luce. Era, questa, musica letteraria, musica da leggere. Ci che qui c'impressiona alla stregua d'una evidente assurdit, nel campo di cui sto trattando poteva apparire tale solo a pochi. In altri termini io ritengo che quell'Eschilo e quel Sofocle che ci sono ben noti, in realt ci sono noti solo come poeti che hanno redatto il testo, come librettisti, il che significa che ci sono del tutto sconosciuti. Cio, se nel campo della musica noi siamo ormai di gran lunga al di l dell'erudito teatrino d'ombre d'una musica da leggere, nell'ambito della poesia l'innaturalezza d'una poesia libresca talmente dominante che costa una certa riflessione ammettere quanto noi si debba essere ingiusti verso Pindaro, Eschilo e Sofocle, come a dire che non li conosciamo affatto. Quando li definiamo poeti, noi intendiamo in realt autori del libretto; ma con ci noi non siamo pi in grado di guardare alla loro essenza, che si apre a noi unicamente quando in un'ora di potente fantasia portiamo dinanzi alla nostra anima l'opera idealizzata tanto che finalmente ci si schiude l'intuizione dell'antico dramma musicale. Del resto, anche nella cosiddetta grande opera tutti i rapporti sono stravolti, anzi, essa stessa un prodotto della distrazione e non del raccoglimento, schiava com' del peggior poetare e di una musica indegna: qui tutto vergogna e spudoratezza, pur tuttavia non c' altro mezzo di venire in chiaro circa Sofocle che di cercar d'indovinare il modello originario a partire da questa caricatura prescindendo, in un ispirato momento, da tutto ci ch' distorto e stravolto. Quell'immagine della fantasia dovr poi essere esaminata attentamente e, secondo le sue articolazioni specifiche, essere inserita nella tradizione dell'antichit, cos da non togliere dalla Grecia ci che greco e da non figurarsi un'opera d'arte che non ha patria in nessuna parte del mondo. Pericolo, questo, non dappoco. Valeva fino a non molto tempo fa come indiscusso assioma estetico, che ogni opera d'arte plastica ideale dovesse essere priva di colore, e perci che la scultura antica non ammettesse l'applicazione del colore. A piccoli passi e nonostante la furiosa resistenza di coloro che vorrebbero essere pi greci dei Greci, s' fatta strada l'idea della policromicit dell'arte plastica degli antichi, la quale dunque dev'essere pensata come rivestita d'una patina di colore e non nuda. Cos pure piace a tutti la teoria estetica in base alla quale la riunione di due o pi arti non possa produrre un innalzamento della fruizione estetica, essendo anzi una degenerazione barbarica del gusto. Questa teoria semmai attesta la peggior abitudine moderna, per cui non sappiamo pi gustare nulla come uomini integrali: proprio dalle arti assolute noi siamo come fatti a pezzi e portati a giudicare solo in quanto smembrati, sia come uomini tutto udito o tutto occhio eccetera. Sentiamo invece come si figura il dramma antico, in quanto arte totale, l'acuto Anselm Feuerbach. Nessuna meraviglia, egli dice,

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se per un'affinit elettiva profondamente giustificata le singole arti si siano infine nuovamente riunite in un tutto indivisibile, come per fondersi in una nuova forma d'arte,.I giochi olimpici riportavano ad unit politico-religiosa le diverse stirpi greche: la festa della rappresentazione drammatica come la festa della riunificazione delle arti. Il modello stesso era gi dato in quelle celebrazioni nel tempio dove l'apparizione plastica del dio davanti alla folla orante era festeggiata con danze e canti. Come l, cos anche qui l'architettura definisce lo spazio e la base, per mezzo delle quali la superiore sfera poetica si separa visibilmente dalla realt. Impegnato allo scenario vediamo il pittore e diffusi nella magnificenza dei costumi tutti gli incanti di un acceso gioco di colori. Dell'anima del tutto s' impadronita la poesia: non per in quanto singola forma letteraria, per esempio come inno nel culto al tempio. Quelle relazioni di fatti avvenuti in precedenza, da parte dell'ngelos o dell'exngelos o degli stessi personaggi, relazioni cos essenziali al dramma greco, ci riportano all'pos. La poesia lirica ha il suo posto nelle scene passionali e naturalmente secondo tutta una serie di gradazioni, a partire dall'irruzione immediata del sentimento in interiezioni, dal pi delicato fiore del canto su su fino all'inno e al ditirambo. Recitazione, canto, flauto e passo cadenzato della danza ancora non chiudono l'anello. Giacch se vero che la poesia definisce l'elemento pi intimo e costitutivo del dramma, anche vero che qui essa incontra nella sua nuova forma l'arte plastica. Sin qui Feuerbach. Certo che solo alla presenza d'una tale opera d'arte noi dovremmo imparare a conoscere quel che s'ha da gustare in quanto uomini integrali; mentre c' da temere che anche posti di fronte a una tale opera d'arte si finirebbe col lasciarsi smembrare in tante parti, per appropriarsi di essa. Io credo anzi che, chi di noi fosse improvvisamente trasportato nel mezzo d'una qualche celebrazione ateniese, avrebbe senz'altro l'impressione d'uno spettacolo del tutto straniero e barbarico. E questo per molte ragioni. Nella pi splendente luce del sole, senza nessun misterioso effetto della sera e delle lampade, gli si aprirebbe davanti un vasto spazio aperto stracolmo di gente: gli sguardi di tutti rivolti a uomini mascherati che si muovono misteriosamente gi in basso e a un paio di fantocci di grandezza sovrumana, i quali sopra uno stretto e lungo palcoscenico camminano lentissimamente avanti e indietro. E in effetti non si possono chiamare se non fantocci quegli esseri che, stando sugli alti trampoli dei coturni, con il volto coperto da maschere vivacemente colorate ed eccedenti l'altezza della testa, con petto tronco braccia e gambe imbottite e steccate in modo innaturale, si possono muovere a malapena, oppressi come sono dal carico di un abito dal lungo strascico cascante e di un'imponente acconciatura dei capelli. Inoltre queste figure devono, attraverso larghe aperture boccali, recitare e cantare a voce altissima in modo da essere intesi da una massa di spettatori di pi di 20.000 uomini: veramente, un compito eroico, degno d'un combattente di Maratona. Ma la nostra meraviglia cresce ancora se prendiamo nota del fatto che ciascuno di questi cantanti-attori era tenuto a recitare lui solo circa 1600 versi in un arco di 10 ore, tra cui almeno sei pezzi cantati di diversa estensione. E questo davanti a un pubblico che puniva aspramente ogni dismisura nel tono, ogni accento errato, in un'Atene dove, per usare le parole di Lessing, anche la plebe aveva gusto fine e sensibile. Quale concentrazione e quale esercizio delle forze, quale lunga e complicata preparazione, quale seriet e quale entusiasmo nel realizzare il compito artistico noi dobbiamo qui figurarci, insomma, quale ideale capacit drammatica! Questi erano compiti per i pi nobili dei cittadini, qui neppure un combattente di Maratona avrebbe perso di digni-

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t anche in caso di fallimento, qui l'attore, cos come nel suo costume esprimeva un'elevazione al di sopra della figura umana di tutti i giorni, sentiva anche in se stesso uno slancio nel quale le parole forti, aspre e piene di passione di Eschilo dovevano essere per lui un linguaggio naturale. Pieno d'un sacro entusiamo allo stesso modo che l'attore, lo spettatore stava ad ascoltare: anche su di lui si diffondeva l'atmosfera d'una festa eccezionale e lungamente attesa. Non l'angosciosa fuga dalla noia, non la voglia di liberarsi ad ogni costo per qualche ora di se stessi e della propria miserevolezza spingeva quegli uomini a teatro. L'uomo greco fuggiva da quella vita pubblica per lui cos banale e distraente, quella vita nella strada o nella piazza o nel tribunale, verso la solennit invitante al raccoglimento e alla pace della rappresentazione teatrale: non come il tedesco antico, il quale voleva distrarsi ogni volta che spezzava il cerchio della sua esistenza interiore e che trovava una giusta e piacevole distrazione nei dibattiti giudiziari, che perci determinarono la forma e l'atmosfera del suo dramma. L'anima dell'ateniese invece, che veniva ad assistere alla tragedia in occasione delle grandi festivit dionisiache, aveva in s ancora qualcosa di quell'elemento da cui la tragedia era nata. questo l'impulso primaverile che scaturisce dirompente, un tumultuare e un infuriare in senso diverso, come sanno tutti i popoli primitivi e l'intera natura all'approssimarsi della primavera. Notoriamente anche le nostre rappresentazioni carnascialesche e i nostri scherzi in maschera hanno la loro origine nelle sagre della primavera, che solo per motivi confessionali sono un po' retrodatate. Quelle portentose processioni dionisiache dell'antica Grecia hanno una certa analogia con quei danzatori medievali di S. Giovanni e di S. Vito che si muovevano di citt in citt danzando e cantando e saltando in masse grandissime e sempre crescenti. Parli pure di quel fenomeno, la medicina di oggi, come d'un'epidemia medievale: resta il fatto che il dramma antico sbocciato da una tale epidemia e che la sfortuna dell'arte moderna di non essere venuta fuori da una tale fonte misteriosa. Nulla di sfrenato o di licenzioso, in queste folle che correvano per i campi e i boschi con selvaggio tumulto, ai primordi del dramma, con costumi da Satiro e da Sileno, i volti coperti di fuliggine, di minio e succhi vegetali, con corone di fiori intorno al capo: l'azione onnipotente della primavera manifestandosi di colpo conduce le forze vitali a un tale eccesso che ovunque si danno stati di estasi, visioni insieme con la fede in un proprio incantesimo, e creature che sentono allo stesso modo si aggirano a schiere per tutta la regione. Ed qui la culla del dramma. Il quale non incomincia l dove qualcuno si traveste per far nascere in altri un'illusione: no, ma piuttosto l dove l'uomo fuori di s e si crede trasformato e oggetto d'incantesimo. Nello stato dell'essere fuori di s, per l'estasi non necessario che un passo: si tratta non gi di ritornare nuovamente in noi stessi, ma piuttosto di entrare in un altro essere, cos da comportarsi da creature fatate. Perci sta tutta qui la ragione fondamentale dello stupore che il dramma suscita: il terreno vacilla, cos come la fede nella indissolubilit e nella fissit dell'individuo. E come l'entusiasta di Dioniso crede alla propria trasformazione, giusto in antitesi al programma del Sogno d'una notte d'estate, cos il poeta drammatico crede alla realt delle sue figure. Chi non ha questa fede, pu certo far parte dei portatori di tirso, dei dilettanti, ma non dei veri servi di Dioniso, i bacchici. Qualcosa di questa vita naturale dionisiaca era ancora nell'anima degli spettatori al tempo della fioritura del dramma attico. Non si trattava d'un pubblico d'abbonati, pigro e affaticato, che viene a teatro con i sensi stanchi e fiacchi, per lasciarsi trasportare da qualche emozione. In antitesi a

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questo pubblico, vera camicia di forza del nostro teatro contemporaneo, lo spettatore ateniese aveva ancora i sensi freschi, mattutini, festosamente eccitati, quando prendeva posto sui gradini del teatro. Il semplice non era ancora per lui troppo semplice, la sua cultura estetica consisteva nei ricordi dei felici giorni primitivi del teatro, la sua fiducia nel genio teatrale del suo popolo era senza confini. Ma, cosa pi importante, egli accostava le labbra alla bevanda della tragedia cos raramente, da gustarla ogni volta come se fosse la prima volta. In questo senso io voglio citare le parole del pi notevole architetto vivente, il quale d senz'altro il suo voto all'affrescatura di soffitti e cupole. Niente per l'opera d'arte pi vantaggioso, egli dice, che la sottrazione al contatto immediato con quanto v' di pi quotidiano e alla comune prospettiva. A furia di abitudine il nervo ottico ne risulta ottuso, sicch come se vedesse dietro un velo l'incanto e i rapporti dei colori e delle forme. Si pu sostenere qualcosa di analogo anche per la fruizione del dramma quando sia una cosa rara: un vantaggio tanto per i quadri quanto per i drammi, d'essere visti in una situazione e con sentimenti che hanno un che di straordinario: anche se con questo non si vuol raccomandare il costume romano di stare in piedi a teatro. Noi abbiamo finora tenuto conto solo dell'attore e dello spettatore. Pensiamo in terzo luogo anche al poeta: e certo questa parola io la intendo qui nel suo senso pi ampio, come la intendevano i Greci. Senza dubbio i tragici greci hanno esercitato la loro enorme influenza sull'arte moderna soltanto come librettisti: anche vero per, cosa di cui io sono perfettamente convinto, che una ripresentazione reale e intera d'una trilogia eschilea, con attori, pubblico e poeti attici, produrrebbe sicuramente su di noi un effetto sconvolgente, perch ci mostrerebbe l'uomo artistico in una compiutezza e in un'armonia a fronte delle quali i nostri pi grandi poeti finirebbero con l'apparire come statue ben abbozzate ma incompiute. Il compito che si poneva al drammaturgo nell'antichit greca era quanto mai arduo: la libert, di cui godono i nostri drammaturgi circa la scelta dell'argomento, il numero degli spettatori e un'infinit di altre cose, sarebbe sembrata allo spettatore attico come puro disordine. Lungo tutta l'arte greca corre una legge orgogliosa, per cui solo quel che c' di pi difficile un compito per l'uomo libero. Perci l'autorit e la fama d'un'opera d'arte plastica dipendeva molto dalla difficolt della fabbricazione e dalla durezza del materiale impiegato. Alle difficolt specifiche, grazie alle quali la via verso la celebrit drammatica non fu mai troppo agevole, appartengono il numero ristretto degli attori, l'impiego del coro, la sfera limitata dei miti, ma soprattutto una quintuplice capacit di prove, cio la necessit d'essere produttivi come poeti e come musicisti, come danzatori e come registi, e infine come attori. Ci che per i nostri poeti drammatici l'ancora di salvezza, la novit, e quindi l'elemento interessante della materia scelta per il loro dramma. Essi ragionano come gli improvvisatori italiani, i quali raccontano una nuova storia fino al punto culminante e al grado di massima tensione, convinti come sono che solo allora pi nessuno se ne andr prima della fine. La cattura dell'attenzione fino alla fine per mezzo dell'attrattiva di qualcosa d'interessante suonava come inaudito agli orecchi dei tragici greci: gli argomenti dei loro capolavori erano noti da tempo immemorabile ed erano altres familiari agli spettatori fin dall'infanzia nella forma lirica o epica. Era gi un'impresa eroica destare una reale partecipazione per un Oreste o per un Edipo: ma quanto ristretti, quanto puntigliosamente limitati i mezzi che potevano essere usati per ottenere una tale partecipazione! Ed ecco anzitutto in questione il coro, che per il poeta antico era

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tanto importante quanto per il tragediografo francese i personaggi dei nobili che prendevano posto ai due lati della scena e trasformavano in certo qual modo il palcoscenico in un'anticamera principesca. Come il tragediografo francese in omaggio a questo strano coro non partecipante e tuttavia partecipe non poteva mutare l'allestimento scenografico, come il linguaggio si modellava sul palcoscenico a partire da esso: cos l'antico coro in ciascun dramma esigeva per l'intera durata dell'azione che l'azione fosse pubblica e avesse come suo spazio una piazza aperta. Esigenza arrischiata, questa: infatti l'azione tragica e la sua preparazione non si fanno trovare in strada, ma fioriscono al loro meglio nel nascondimento. Tutto in pubblico, tutto alla luce del sole, tutto di fronte al coro davvero un'esigenza terribile. Non che questa sia mai stata espressa in quanto tale sulla base d'una qualche trovata estetica: piuttosto questo grado fu raggiunto attraverso un lungo processo di sviluppo del dramma e istintivamente si tenne per fermo che qui c'era da realizzare un grande compito per un grande genio. noto che originariamente la tragedia non era che un grande canto corale: anzi, la conoscenza di questo fatto storico ci d in realt la chiave di questo straordinario problema. L'effetto principale e complessivo della tragedia antica si basava ancora al tempo della sua fioritura sempre sul coro: era il fattore con cui anzitutto bisognava fare i conti e non si poteva lasciarlo da parte. Il livello su cui il dramma si mantenne all'incirca da Eschilo a Euripide, s quello in cui il coro stato messo in seconda fila, ma per dare ancora il tono d'insieme. Ancora un solo passo avanti e la scena domina l'orchestra, la colonia la citt madre; la dialettica dei personaggi in scena e i loro monologhi cantati prendono il sopravvento e sovrastano la complessiva impressione musico-corale valida fino a quel momento. Questo passo fu compiuto e tra gli stessi che vi assistettero Aristotele lo fiss nella sua celebre, molto fuorviante definizione, che non coglie affatto l'essenza del dramma eschileo. Ora, la prima idea relativa al progetto d'un poema drammatico dovette essere quella di trovare un gruppo di uomini o donne che fossero strettamente legati ai personaggi in scena; si dovettero poi cercare temi attraverso i quali si potessero suscitare stati d'animo collettivi lirico-musicali. Il poeta guardava in una certa misura i personaggi in scena nella prospettiva del coro, e con lui il pubblico ateniese: noi, noi che abbiamo solo il libretto, nella prospettiva della scena guardiamo il coro. Il significato del quale non si pu esaurire in un'immagine. Quando Schlegel lo definisce spettatore ideale, questo significa soltanto che il poeta, nel modo in cui il coro considera gli avvenimenti, esprime il modo in cui secondo il suo desiderio dovrebbe considerarli Lo spettatore. Ma con ci un solo lato della questione messo in luce: prima di tutto importante che il personaggio dell'eroe attraverso il coro gridi allo spettatore come attraverso un amplificatore i suoi sentimenti enormemente esaltati. Bench sia costituito da una massa di persone, il coro non rappresenta una massa musicale, bens un individuo smisurato dotato di polmoni soprannaturali. Non questo il luogo di mostrare quale pensiero etico si celi nella musica corale all'unisono dei Greci: essa costituisce la pi forte antitesi allo sviluppo della musica cristiana, nella quale l'armonia, il pi appropriato simbolo della pluralit, tanto estese il suo dominio che la melodia ne fu del tutto soffocata e dovette essere riscoperta. il coro che ha imposto i limiti di quella fantasia poetica che si manifesta nella tragedia: la danza corale religiosa con il suo andante solenne delimit quello spirito inventivo dei poeti altrimenti preda di eccessi: la tragedia inglese invece, senza una tale limitazione, con il suo realismo

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fantastico si configura in modo pi violento, pi dionisiaco, ma in fondo pi melancolico, alPincirca come un allegro beethoveniano. Che il coro abbia molte pi occasioni per esprimersi in senso lirico-patetico, questo propriamente il principio pi importante nell'economia del dramma antico. Ma questo lo si pu anche ottenere agevolmente nei pi piccoli frammenti del mito: perci in esso manca del tutto qualsiasi intreccio complicato, qualsiasi intrigo, qualsiasi combinazione ingegnosa e predisposta ad arte, in breve tutto ci che precisamente costituisce il carattere del dramma moderno. Nel dramma musicale antico non c'era nulla che si dovesse calcolare: anche la scaltrezza di qualche singolo eroe del mito aveva di per s un che di semplice e di onesto. Mai, neppure in Euripide, l'essenza della rappresentazione si trasformava in quella di un gioco di scacchi: l dove invece una sorta di maniera scacchistica divent il tratto fondamentale della cosiddetta commedia nuova. Perci i singoli drammi dell'antichit nella loro semplice struttura sono simili ad un unico atto delle nostre tragedie, e pi precisamente al quinto, che in brevi e rapidi passi conduce alla catastrofe. La tragedia classica francese, dal momento che conosceva il suo modello ossia il dramma musicale greco appunto solo come libretto ed era perci venuta a trovarsi a disagio circa l'introduzione del coro, dovette accogliere in s un elemento del tutto nuovo, unicamente per sviluppare tutti i cinque atti prescritti da Orazio: questa zavorra, senza la quale quella nuova forma d'arte non poteva navigare, era l'intrigo, cio un indovinello per l'intelletto e una situazione di contrasto per piccole e in fondo non tragiche passioni cosa che ne avvicinava la tipologia a quella della commedia attica nuova. La tragedia antica, paragonata con essa, era povera sia d'azione sia di tensione: anzi, si pu dire ch'essa nei suoi primi gradi di sviluppo badasse non tanto all'azione, al drma, quanto alla passione, al pthos. L'azione fece il suo ingresso solo quando apparve il dialogo: e tutto il vero e serio complesso di eventi anche nell'epoca di fioritura del dramma non era portato in scena. Che altro era originariamente la tragedia se non una lirica obiettiva, un canto sgorgato da una situazione propria di certi esseri mitologici, i quali erano rappresentati nei loro stessi costumi? Dapprima un coro ditirambico di uomini travestiti da Satiri e da Sileni dovette svolgere l'ufficio di spiegare ci che l'aveva portato a tale stato di eccitazione: esso indicava qualche particolare, che fosse immediatamente comprensibile agli ascoltatori, tratto dalle storie delle lotte e delle passioni di Dioniso. Pi tardi venne introdotta la stessa divinit, con un duplice scopo: in primo luogo per raccontare personalmente qualcosa delle vicende in cui si trovava coinvolta e in cui il suo seguito trovava motivo della pi vivace partecipazione, secondariamente perch Dioniso era in un certo senso, durante quei dolenti canti corali, l'immagine vivente, la vivente statua del dio e qui l'antico attore aveva in effetti qualcosa del mozartiano convitato di pietra. Un critico musicale contemporaneo fa a questo proposito la seguente osservazione: Nel nostro attore in costume, egli dice, si presenta un uomo naturale, e invece nella maschera tragica ai Greci se ne presentava uno artificiale, e per dir cos stilizzato eroicamente. Le nostre vaste scene, sulle quali si possono raggruppare anche cento persone, fanno di ciascuna rappresentazione un quadro colorato e, per quanto possibile, vivente. La scena antica, poco profonda e con il fondale a ridosso, rendeva le figure moventesi con pochi passi misurati simili a bassorilievi o a viventi statue marmoree di un frontone di tempio. Se un miracolo avesse infuso la vita a quelle figure di marmo della contesa tra Atena e Posidone nel frontone del Partenone, esse avrebbero certamente parlato la lingua di Sofocle.

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Qui ritorno a quel punto di vista cui ho gi fatto cenno in precedenza, per cui nel dramma greco l'accento posto sul patire e non sull'agire; ora si comprender pi facilmente perch io ritengo che noi dobbiamo essere ingiusti nei confronti di Eschilo e di Sofocle e che anzi non li conosciamo affatto. 11 fatto che noi non abbiamo nessun criterio in base al quale controllare il giudizio del pubblico attico su di un'opera poetica, perch noi non sappiamo o sappiamo solo in minima parte come il dolore e pi in generale la realt dei sentimenti venisse tradotta in un'impressione capace di commuovere. Noi siamo, di fronte a una tragedia greca, incompetenti, perch il suo effetto fondamentale consisteva per una buona parte d'un elemento che per noi andato perduto, cio la musica. Circa la posizione della musica nel dramma antico vale pienamente ci che Gluck nella celebre prefazione al suo Alcesti esprime in termini di esigenza. La musica dovrebbe sostenere la poesia, rafforzare l'espressione dei sentimenti e l'interesse delle situazioni, senza spezzare l'azione o disturbarla con inutili fiorettature. La musica dovrebbe essere per la poesia ci che la vivacit dei colori e una felice mescolanza d'ombre e di luci sono per un disegno corretto e ben studiato; cose, tutte, che servono unicamente a dar vita alle figure senza confondere i contorni. La musica perci stata esclusivamente usata come mezzo in vista di uno scopo: suo compito era tradurre il dolore del dio e dell'eroe nella pi forte compassione degli spettatori. Naturalmente anche la parola ha lo stesso compito, ma per essa diviene molto pi difficile, e solo attraverso un percorso meno diretto, raggiungere lo stesso risultato. La parola fa presa anzitutto sul mondo concettuale e solo a partire di qui sul sentimento, sicch abbastanza spesso a causa della lunghezza della strada non arriva alla meta. La musica invece penetra nel cuore immediatamente, come autentico linguaggio universale ovunque comprensibile. Certamente ancora oggi hanno diffusione a proposito della musica greca certe opinioni, in base alle quali essa non sarebbe stata per niente un tal linguaggio universalmente comprensibile, ma piuttosto un complesso tonale trovato per via erudita, ricavato dalle varie teorie sull'acustica, del tutto estraneo a noi. Qua e l per esempio ci si attiene ancora alla falsa credenza che nella musica greca l'intervallo di terza fosse sentito come una dissonanza. bene liberarsi completamente da queste idee ed bene tener conto del fatto che la musica dei Greci molto pi vicina al nostro modo di sentire che quella medievale. Ci che si conservato delle antiche composizioni, nella sua rigida struttura ritmica rimanda direttamente ai nostri canti popolari: del resto proprio dal canto popolare che sono scaturite sia la musica sia la poesia degli antichi. Certo c'era anche della musica puramente strumentale: tuttavia quel che si faceva valere in essa era solo il virtuosismo. Ma l'uomo greco vi sentiva sempre qualcosa di estraneo e di forestiero, qualcosa di asiatico. La musica propriamente greca non che musica vocale: la naturale solidariet di linguaggio verbale e linguaggio tonale non s'era ancora spezzata, e questo fino al punto che il poeta doveva essere anche il compositore della sua lirica. I Greci non potevano apprendere tali liriche se non per mezzo del canto; ma anche nell'ascoltare essi percepivano l'intima fusione di parola e suono. Noi, cresciuti come siamo sotto l'influenza della moderna degenerazione artistica, della separazione delle arti, a malapena riusciamo a gustare insieme testo e musica. In effetti ci siamo abituati a gustarli separatamente, il testo attraverso la lettura tanto che non ci fidiamo del nostro giudizio quando una poesia ci vien letta o un dramma rappresentato, e pretendiamo il libro e la musica attraverso l'ascolto. Inoltre noi troviamo sopportabile anche il testo pi assurdo, quan-

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do la musica bella: il che sarebbe apparso a un greco, in tutto e per tutto, una barbarie. Di l dalla gi sottolineata parentela di poesia e musica, la musica antica appare caratteristica per altri due motivi: la sua semplicit, in fatto di armonia, e la sua ricchezza quanto ai mezzi espressivi ritmici. Ho gi accennato che il canto corale si distingueva dal canto solista unicamente per il numero delle voci e che una pluralit peraltro limitatissima, cio un'armonia nel nostro senso, era ammessa solo per gli strumenti d'accompagnamento. Esigenza primaria era che si comprendesse il contenuto dei canti recitati: e se davvero era possibile comprendere un canto corale pindarico o eschileo con le sue audaci metafore e salti di pensiero, bisogna allora ammettere qui un'arte della recitazione stupefacente cos come una capacit d'accentuazione e di ritmo del tutto caratteristici. Al fraseggio ritmico-musicale, che si muoveva nel pi stretto parallelismo con il testo, s'aggiungeva d'altro lato, come mezzo espressivo ausiliario, un certo movimento di danza e cio l'orchestica. L'evoluzione dei coreuti, che nel vasto piano dell'orchestra disegnava arabeschi davanti agli occhi degli spettatori, era colta come una sorta di musica da vedere. Mentre la musica aumentava l'effetto della poesia, allo stesso modo l'orchestica illustrava la musica. Col che s'imponeva al poeta e al musicista un nuovo compito: essere un creativo maestro di ballo. Qui c' ancora una parola da dire circa i limiti della musica nel dramma. Il significato pi profondo di questi limiti come tallone d'Achille dell'antico dramma musicale, in quanto da essi che comincia il suo processo di decomposizione, non pu essere discusso oggi, giacch io penso di trattare della decadenza della tragedia antica e quindi del punto cui ho appena accennato nella mia prossima conferenza. Qui basti questo fatto: non tutto ci ch'era messo in versi poteva venir cantato e di quando in quando veniva anche recitato, con l'accompagnamento di musica strumentale, allo stesso modo che nel nostro melodramma. Un tal recitare tuttavia dobbiamo immaginarcelo come semi-recitativo, e infatti quel suo particolare tono echeggiante non produceva alcun dualismo all'interno del dramma musicale; anzi, era il dominante influsso della musica a farsi sentire potentemente nel linguaggio. Si ha in qualche modo un'eco di questo tono recitativo nel cosiddetto tono lezionario, con cui nella Chiesa cattolica si recitano i Vangeli, le Epistole e molte preghiere. Il prete che legge per mezzo di pause e chiuse di frase usa certe flessioni di voci con cui assicura la chiarezza dell'esposizione e nello stesso tempo evita qualsiasi monotonia. Ma nei momenti importanti dell'ufficio sacro la voce del celebrante si alza, e il padre nostro, il prefazio, la benedizione diventano canti declamatori. Ma soprattutto nel rituale della messa cantata molto rimanda al dramma musicale greco, solo che in Grecia tutto era molto pi splendente, pi solare e in generale pi bello, anche se meno interiore e senza quell'enigmatico infinito simbolismo della Chiesa cristiana. Con ci, egregi signori qui convenuti, io sono giunto alla conclusione. Io ho paragonato prima l'autore del dramma musicale greco al pntathlos, colui che partecipa a cinque gare; ma un'altra metafora ci pu avvicinare ancor di pi a un tal pentatleta musicodrammatico a fronte di tutta l'arte antica. Circa la storia dell'abbigliamento antico Eschilo riveste un significato particolare, in quanto lui che ha introdotto quello che costituisce lo sfarzo, la leggiadria e la grazia dell'abito principale e cio il panneggiamento che cade liberamente, mentre prima di lui i Greci nel vestire barbareggiavano alquanto e comunque non conoscevano un tal panneggiamen-

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to. Il dramma musicale greco per tutta l'arte antica precisamente quel vestito: con esso qualsiasi costrizione, qualsiasi isolamento delle singole arti superato: nella loro festa collettiva si inneggia alla bellezza e nello stesso tempo all'audacia. Obbligazione e tuttavia grazia, molteplicit e tuttavia unit, diverse arti nella loro pi alta espressione e tuttavia una sola opera d'arte ecco l'antico dramma musicale. Ma chi soffermandosi su di esso si rammentasse dell'ideale dei nostri riformatori dell'arte, ebbene, costui dovrebbe nello stesso tempo confessare che quell'opera d'arte del futuro non altro che un miraggio illusorio, anche se luccicante: ci che noi ci aspettiamo dall'avvenire precisamente quanto gi fu realt in un passato pi che bimillenario. Seconda conferenza: Socrate e la tragedia La tragedia greca, rispetto a tutti gli altri generi d'arte imparentati con essa, finita per motivi diversi: la sua fine stata tragica, l dove tutti quegli altri generi sono venuti meno nella morte pi bella. Posto cio che corrisponda a un'ideale situazione di natura esalare l'ultimo respiro con una bella progenie e senza convulsioni, precisamente un simile mondo ideale ci mostra la fine di quegli antichi generi d'arte; essi spirano e finiscono sottoterra, mentre i loro virgulti pi belli gi alzano il capo con forza. Con la morte del dramma musicale greco invece si ebbe un enorme vuoto, profondamente sentito da tutti; ci si disse che la poesia stessa era andata perduta; beffardamente si mandarono nell'Ade gli epigoni deperiti e rinsecchiti perch si nutrissero con le briciole dei maestri di un tempo. Si sent, per usare l'espressione di Aristofane, una cos intima e bruciante nostalgia per l'ultimo dei grandi morti, come quando a qualcuno prende improvvisamente una gran voglia di crauti. Ma quando di fatto fior un nuovo genere artistico, che nella tragedia onorava la sua precorritrice e maestra, si riconobbe con orrore ch'esso aveva in tutto e per tutto le fattezze della madre, quelle, per, che la madre aveva assunto durante la sua lunga agonia. Quest'agonia della tragedia si chiama Euripide, e il pi tardo genere artistico noto come commedia attica nuova. In essa sopravvisse la forma degenerata della tragedia, in memoria del suo trapasso estremamente penoso e difficile. Si sa di quale straordinaria venerazione Euripide godesse presso i poeti della nuova commedia attica. Uno dei pi rinomati, Filemone, dichiar che si sarebbe immediatamente fatto impiccare, pur di vedere Euripide negli inferi, qualora si fosse potuto convincere che il defunto aveva ancora vita e intelletto. Ma ci che Euripide aveva in comune con Menandro e con Filemone e ci che per costoro valeva come modello, si lascia in breve riassumere nella formula secondo cui essi portarono lo spettatore sulla scena. Prima di Euripide si aveva a che fare con uomini eroicamente stilizzati, dei quali subito si riconosceva l'origine dagli di e dai semidei della tragedia pi antica. Lo spettatore vedeva in essi una sorta di passato ideale della grecit e con ci la realt di tutto quello che nei momenti di elevazione viveva anche nella sua anima. Con Euripide balza sulla scena lo spettatore, l'uomo nella realt della vita d'ogni giorno. Lo specchio, che in precedenza aveva riflesso solo i caratteri grandi e nobili, si fece pi realistico e perci pi volgare. L'abbigliamento sfarzoso divenne in una certa misura pi trasparente, la maschera una mezza maschera: le forme della quotidianit emersero chiaramente. Quella figura assolutamente tipica dell'uomo greco, la figura di Odisseo, Eschilo l'aveva innalzata al livello d'un Prometeo magnanimo, astuto e nobile: tra le mani dei nuovi poeti decadde al ruolo

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dello schiavo domestico bonario e scaltro, che cos spesso sta al centro di tutto il dramma come grande intrigante. Ci che Euripide nelle Rane di Aristofane si attribuisce a merito, cio d'aver svotato l'arte tragica e la sua gravit attraverso una cura termale, vale anzitutto per le figure degli eroi: in sostanza lo spettatore sulla scena euripidea vedeva e ascoltava il suo doppio, sia pur ricoperto dell'abbigliamento sfarzoso della retorica. L'idealit si rifugiata nella parola e se n' sparita dal pensiero. Ma certo qui abbiamo a che fare con il lato luccicante e che salta agli occhi dell'innovazione euripidea: il popolo ha imparato a parlare da lui, e lui stesso si vanta di ci nella gara con Eschilo: per merito suo il popolo ora sa
mettersi all'opera secondo le regole dell'arte, ponderare parola per parola osservare, pensare, vedere, capire, raggirare, amare, insinuare, diffidare, negare, esaminare attentamente.

Grazie a lui alla commedia nuova si sciolta la lingua, mentre fino a Euripide non si sapeva come far esprimere sulla scena in maniera acconcia la vita quotidiana. Il ceto medio borghese, sul quale Euripide fondava tutte le sue speranze politiche, ottiene ora la parola, dopo che fino a quel momento nella tragedia a dettar legge quanto al linguaggio era stato il semidio, cos come nella commedia antica il Satiro ebbro o il semidio.
Ho rappresentato casa e masseria, luoghi del nostro vivere e agire E mi sono esposto al giudizio dal momento che tutti, conoscitori di queste cose, Hanno giudicato la mia arte.

Addirittura egli si vanta,


Io solo ho instillato ovunque Una tale saggezza, prestando all'arte pensieri e ragionamento: Tale che qui adesso Ognuno filosofa e amministra cos intelligentemente casa e masseria e campo e bestiame Come non mai: Sempre medita e si chiede Perch? A che? Chi? Dove? Che cosa? Dove sta questo, chi mi ha preso quello?

E fu da una massa preparata e addestrata in tal modo che nacque la commedia nuova, questo drammatico gioco di scacchi tutto basato sul piacere dei colpi astuti. Rispetto a questa commedia nuova Euripide diventato in una certa misura il maestro del coro: solo che questa volta era il coro degli spettatori a dover farsi esperto. Cos, appena questi furono in grado di cantare alla maniera di Euripide, ecco fiorire il dramma dei giovani signori pieni di debiti, dei vecchi gaudenti, delle prostitute alla Kotzebue e dei servi prometeici. Come maestro del coro Euripide fu infinitamente apprezzato; addirittura ci si sarebbe ammazzati, per imparare ancora da lui, se non si fosse stati consapevoli che i poeti tragici erano morti esattamente come la tragedia. Col che l'uomo greco aveva perduto la fede nella sua immortalit, e non solo la fede in un passato ideale, bens anche la fede in un ideale futuro. Ci che si legge in una celebre iscrizione tombale: Da vecchio fatuo e lunatico si pu dire anche della tarda grecit. L'istante e l'invenzione sono i suoi di pi alti; il quinto stato, quello degli schiavi, domina la scena, almeno relativamente al modo di sentire. Con uno sguardo retrospettivo del genere ci si convince facilmente a pronunciare accuse ingiuste ma scottanti contro Euripide come colui che

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avrebbe traviato il popolo e a concludere con qualcosa di simile a questa frase di Eschilo: Quale male non procede da lui?. Ma, nonostante quel che possa essere scaturito dalla sua cattiva influenza, bisogna sempre tener conto del fatto che Euripide si comport in perfetta buona fede e in modo grandioso offr tutta la sua vita a un ideale. Nel modo in cui egli combatt contro un male sterminato, che credette di riconoscere, nel modo in cui tutto solo si oppose ad esso con la forza del suo talento e della sua vita, in ci si manifesta ancora una volta lo spirito eroico dei tempi di Maratona. Anzi, si pu dire che in Euripide il poeta diventa una specie di semidio, dopo che questi, per causa sua era stato bandito dalla tragedia. Ma quel male sterminato, che egli credette di riconoscere, e contro cui combatt cos eroicamente, era il declino del dramma musicale. Ora, dov' che Euripide scopr il declino del dramma musicale? Nella tragedia di Eschilo e di Sofocle, i suoi pi vecchi contemporanei. Il che molto strano. Non ebbe a sbagliarsi? Non sar stato ingiusto nei confronti di Eschilo e di Sofocle? Non fu forse proprio la sua reazione contro il supposto declino l'inizio della fine? Tutte queste questioni ci si rivelano di colpo. Euripide era un pensatore solitario, certo non in sintonia con il gusto della massa allora predominante, presso cui anzi egli sollevava dubbi in quanto uomo stravagante. La fortuna gli era propizia tanto poco quanto la massa: e siccome per un poeta tragico di quei tempi la fortuna la faceva la massa, si capisce perch egli durante la sua vita non ebbe quasi mai l'onore della vittoria in una competizione teatrale. Che cosa spingeva controcorrente un poeta cos dotato? Che cosa lo allontanava da una via battuta da uomini come Eschilo e Sofocle e su cui splendeva il sole del favore popolare? Una cosa sola, e precisamente quella convinzione del declino del dramma musicale. L'aveva ricavata, questa, sui banchi degli spettatori a teatro. Da lungo tempo aveva osservato con occhio quanto mai penetrante quale abisso si spalancasse tra una tragedia e il pubblico ateniese. Quanto v'era per il poeta di pi alto e di difficile, era sentito dal pubblico non come tale, bens come qualcosa di insignificante. Si davano per delle combinazioni, non predisposte ad arte dal poeta, che colpivano la massa con effetto immediato. Nel riflettere su questa incongruenza tra l'intenzione del poeta e l'effetto, egli pervenne lentamente a una forma d'arte la cui regola principale era: Tutto dev'essere ragionevole, in modo che tutto possa essere compreso. Cos ciascun particolare fu portato davanti al tribunale di questa estetica razionalistica, il mito anzitutto, i caratteri principali, la struttura drammaturgica, la musica corale, infine e nel modo pi incisivo il linguaggio. Ci che noi non possiamo cos spesso non sentire in Euripide, rispetto alla tragedia sofoclea, come mancanza poetica e come passo indietro, tutto ci il risultato di quell'energico processo critico, di quell'arrischiata razionalit. Si potrebbe dire che qui si ha un esempio di come il recensore possa diventar poeta. Non, per, che con la parola recensore ci si faccia condizionare dall'idea che in noi suscitano quelle creature fiacche e saccenti, le quali non permettono pi che il pubblico contemporaneo si pronunci in materia d'arte. Euripide anzi cercava di far meglio dei poeti da lui giudicati: e chi, come lui, non fa seguire alle parole i fatti, ha ben poco diritto di far le sue critiche in pubblico. In questa sede io voglio o posso portare un solo esempio di una tale critica produttiva, anche se in effetti sarebbe necessario precisare quel punto di vista in riferimento a tutte le differenze del dramma euripideo. Nulla pu essere pi contrastante con la nostra tecnica scenica di quanto lo sia il Prologo in Euripide. Che un singolo personaggio, divinit o eroe, il quale entra in scena all'inizio dello spetta-

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colo, racconti chi egli sia, di cosa tratti l'azione, che cosa gi successo e che cosa succeder nel corso della rappresentazione, bene, un drammaturgo moderno definirebbe certamente tutto ci come una sconsiderata rinuncia all'effetto della tensione. Si sa gi tutto quel che accaduto e quel che accadr: chi vorr aspettare la fine? Ben altrimenti rifletteva Euripide. L'effetto della tragedia antica non poggiava mai sulla tensione, sull'inquietante incertezza di ci che sta per avvenire, ma piuttosto su quelle scene di pthos grandiosamente strutturate, nelle quali la sostanza musicale del ditirambo dionisiaco si faceva di nuovo sentire in tutta la sua forza. Ma ci che impedisce la fruizione di tali scene a un livello di massima intensit, un anello mancante, una smagliatura nel tessuto dell'antefatto; fin tanto che lo spettatore deve badare attentamente a chi questa o quella persona o al senso di questa o di quella azione, impossibile calarsi pienamente in ci che gli eroi patiscono o fanno, impossibile insomma la compassione tragica. In Eschilo e in Sofocle per lo pi si faceva in modo, con dei sottili artifici, di dare in mano allo spettatore fin dalle prime scene come per caso tutti i fili necessari alla comprensione; col che si esibiva anche quell'alta maestria che per cos dire maschera ci che necessario, formale. Ma Euripide credette comunque di osservare che in quelle prime scene lo spettatore era del tutto a disagio, alle prese con l'indovinello dell'antefatto, sicch per lui la bellezza poetica dell'esposizione andava perduta. Perci egli scrisse un prologo in forma di programma e lo fece declamare da un personaggio attendibile, una divinit. Cos egli pot anche trattare il mito pi liberamente, giacch per mezzo del prologo gli era possibile mettere in chiaro qualsiasi dubbio circa la. sua elaborazione del mito. Nella perfetta consapevolezza di questo suo vantaggio, nelle Rane di Aristofane cos Euripide si scaglia contro Eschilo:
E allora io mi rivolger ai tuoi prologhi Per poter cos criticare di lui, il grande spirito, La prima parte della tragedia! Egli confuso, quando racconta come stan le cose.

Quel che per vale per il prologo, vale anche per il famigerato deus ex machina: esso delinea il programma del futuro, cos come il prologo quello del passato. Tra l'antefatto e il postfatto epici stanno la realt drammatico-lirica e il presente. Euripide il primo drammaturgo che segue consapevolmente un'estetica. Di proposito egli cerca ci che perfettamente comprensibile: i suoi eroi sono nei fatti quel che sono quando parlano. Essi si esprimono totalmente attraverso le parole, l dove invece i personaggi di Eschilo e di Sofocle sono assai pi profondi e pi pieni rispetto alle parole che dicono: propriamente essi balbettano su di s. Euripide d forma ai personaggi, e nello stesso tempo li decostruisce: di fronte alla sua anatomia essi non hanno pi niente di nascosto. Se Sofocle aveva detto di Eschilo ch'egli faceva il giusto pur senza averne coscienza, Euripide avrebbe dovuto dire di lui ch'egli faceva quel che non bisognava fare, poich non ne aveva coscienza. Ci che Sofocle nei confronti di Eschilo sapeva di pi e ci che teneva per buono non era niente che andasse al di l dell'ambito dell'artificio tecnico; nessun poeta dell'antichit fino a Euripide era stato nella condizione di giustificare le sue migliori trovate con ragioni estetiche. Ed appunto questo il miracolo dello sviluppo di tutta l'arte greca: che il concetto, la coscienza, la teoria non erano ancora pervenuti ad espressione verbale e tutto ci che l'allievo poteva imparare dal maestro era ricavabile dalla tecnica. In questo senso si pu dire che quanto d a Thorwaldsen quel tono fittizio di antico

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il fatto ch'egli rifletteva poco, e parlava e scriveva male, che il sapere propriamente artistico non gli aveva ancora penetrato la coscienza. Intorno a Euripide c' come un alone fosco, che proprio degli artisti moderni: il carattere quasi non greco della sua arte pu essere espresso nel modo pi conciso in termini di socratismo. Tutto dev'essere consapevole, per essere bello, ecco la formula di Euripide, parallela a quella socratica: Tutto dev'essere consapevole, per essere buono. Euripide il poeta del razionalismo socratico. Nell'antichit greca si ebbe il sentimento della reciproca appartenenza di questi due nomi, quello di Socrate e quello di Euripide. Era molto diffusa in Atene l'opinione che Socrate aiutasse Euripide a poetare: dal che si pu anche dedurre quanto di socratico venisse finemente percepito nella tragedia euripidea. I fautori del buon tempo antico avevano cura di pronunciare in un sol fiato i nomi di Socrate e di Euripide come di corruttori del popolo. Risulta inoltre che Socrate solitamente si asteneva dall'assistere a tragedie, ma era tra gli spettatori se veniva portata in scena una nuova opera di Euripide. In un senso pi profondo i due nomi sono messi l'uno accanto all'altro nel famoso responso di quell'oracolo delfico che produsse un effetto decisivo sulla concezione della vita di Socrate. La parola del dio delfico, in base alla quale Socrate risultava il pi saggio degli uomini, conteneva anche il giudizio che toccasse ad Euripide il secondo premio nella gara della saggezza. Si sa quanto Socrate sulle prime fosse diffidente nei confronti del verdetto del dio. Per vedere se il dio aveva ragione, egli si rec dagli uomini di Stato, dagli oratori, dai poeti e dagli artisti, in modo da verificare se non ci fosse uno pi saggio di lui. Ma la parola del dio la trova giustificata ovunque: vede i pi celebri uomini del suo tempo esibire un alto concetto di s e scopre ch'essi non hanno neppure un'effettiva consapevolezza della loro attivit, ma agiscono solo per istinto. Solo per istinto, ecco il chiodo su cui batte il socratismo. Mai come in quella tendenza della vita di Socrate, il razionalismo si mostrato pi ingenuo. Mai in questo orizzonte venuto un dubbio circa la giustezza della posizione del problema nel suo insieme. Saggezza sapere; e non si sa, ci che non si pu esprimere e ci di cui non si pu persuadere altri. Questo pi o meno il principio di quella strana attivit missionaria di Socrate, che dovette raccogliere intorno a s una nube della pi cupa irritazione, certamente perch nessuno era in grado di impugnare il principio stesso contro Socrate: per questo si sarebbe dovuto avere ci che appunto non si aveva, quella superiorit socratica nell'arte della disputa, nella dialettica. A partire dall'infinitamente approfondita coscienza germanica quel socratismo appare come un mondo del tutto capovolto; ma da supporre che gi anche ai poeti e agli artisti di quei tempi Socrate dovesse presentarsi per lo meno come molto noioso e ridicolo, per lo meno quando con la sua sterile euristica faceva valere la seriet e la dignit di una vocazione divina. I fanatici della logica sono insopportabili come vespe. E ora si pensi a una volont smisurata dietro un intelletto cos unilaterale, cos come alla forza originaria d'un carattere inflessibile in una deformit d'aspetto stranamente attraente: e si potr capire come un cos grande talento come Euripide precisamente dalla seriet e dalla profondit del suo pensiero potesse essere trascinato quasi inevitabilmente sulla via scoscesa d'un fare artistico cosciente. Il declino della tragedia, come Euripide credette di vederlo, era una fantasmagoria socratica: poich nessuno sapeva tradurre adeguatamente in concetti e parole la sapienza dell'antica tecnica artistica, Socrate e con lui il plagiato Euripide

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negarono quella sapienza. A quella sapienza senza verifiche Euripide sovrappose l'opera d'arte socratica, per sotto la scorza di numerosi accomodamenti rispetto alla opera d'arte allora dominante. Ma la generazione successiva riconobbe giustamente quel ch'era scorza e quel ch'era nocciolo: gett via la prima e da essa venne fuori come frutto del socratismo artistico il gioco di scacchi teatrale, l'opera di intrigo. Il socratismo disprezza l'istinto e perci l'arte. Esso nega la sapienza proprio l dov' il suo regno specifico. In un solo caso Socrate stesso ha riconosciuto la forza della sapienza istintuale, e questo certo in maniera caratteristica. Socrate raggiunse in determinate situazioni, in cui il suo intelletto diventava dubbioso, un sicuro punto d'appoggio attraverso una voce demonica che gli si manifestava prodigiosamente. Una voce, questa, che quando viene sempre dissuade. Tale sapienza inconscia dunque fa sentire la sua voce presso quest'uomo del tutto fuori della norma, per contrapporsi qua e l a ci che cosciente, facendo impedimento. Anche qui risulta chiaro come Socrate appartenga a un mondo capovolto e poggiato sulla testa. In tutte le nature produttive l'inconscio agisce infatti creativamente e affermativamente, l dove la coscienza ha il compito della critica e della dissuasione. In lui l'istinto diviene il momento critico, la coscienza quello creatore. Il disprezzo socratico per ci che istintivo ha suggerito anche a un secondo genio, oltre che a Euripide, una riforma dell'arte a dire il vero ancor pi radicale. Perfino il divino Platone su questo punto caduto vittima del socratismo: egli, che nell'arte fino a lui non vedeva che imitazione di apparenze, ridusse la sublime e altamente apprezzata tragedia come lui si esprime all'ambito delle arti adulatorie, le quali si curano solo di rappresentare il piacevole, ci che solletica la natura sensibile, e non ci che spiacevole ma nello stesso tempo utile. Su questa base del tutto deliberatamente egli fa un solo fascio dell'arte tragica con quella dell'abbigliamento e quella culinaria. Un'arte cos composita e vivace ripugna a un animo assennato ed una pericolosa tentazione per chi sia delicato e sensibile: ecco la ragione sufficiente a bandire i poeti tragici dallo Stato ideale. Secondo lui in generale gli artisti appartengono a un ampliamento eccessivo del corpo dello Stato, esattamente come le balie, le acconciatrici, i barbieri e i pasticcieri. La condanna dell'arte, intenzionalmente cruda e sbrigativa, ha in Platone qualcosa di patologico: egli, che si innalzato a quel punto di vista in una sorta di furia distruttiva contro la sua stessa carne, egli che ha calpestato la sua indole profondamente artistica in onore del socratismo, mostra nella crudezza di quel giudizio che le profonde ferite nel suo essere non sono ancora rimarginate. La vera potenza creatrice del poeta, in quanto incapace di penetrare consapevolmente l'essenza delle cose, da Platone trattata per lo pi ironicamente e assimilata al talento degli indovini e degli astrologi. II poeta non infatti in grado di poetare, finch non ha raggiunto l'ispirazione e perso la coscienza, e prima che in lui non cessi d'essere presente l'intelletto. A questi artisti irrazionali Platone contrappone la figura dell'artista autentico, il filosofo, e lascia capire senza mezzi termini che proprio lui quegli che ha raggiunto questo ideale e quegli i cui Dialoghi potranno essere letti nello Stato perfetto. L'essenza dell'opera d'arte platonica, il dialogo, per la mancanza di forma e di stile ottenute attraverso la mistura di tutti i precedenti forme e stili. Alla nuova opera d'arte non si doveva imputare ci che secondo la concezione platonica era il difetto principale dell'antica: non doveva essere imitazione d'un'apparenza e cio, secondo il

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concetto comune, non doveva darsi per il dialogo platonico niente di naturalistico che fosse oggetto d'imitazione. Cos egli oscilla tra tutti i generi d'arte, tra prosa e poesia, racconto, lirica, dramma, allo stesso modo in cui ha spezzato la rigorosa antica legge della forma linguistica stilisticamente unitaria. Gli scrittori cinici poi porteranno il socratismo a una deformazione ancora pi grande: essi cercheranno nei pi marcati contrasti stilistici e nell'oscillazione tra forme prosaiche e forme metriche di rispecchiare anche quell'aspetto esteriore di Socrate che lo faceva simile a un Sileno, quei suoi occhi da granchio, quelle sue labbra a cuscinetto e quel suo ventre cadente. Chi far attenzione all'influsso antiartistico del socratismo, un influsso radicantesi in profondit anche se qui se ne fa solo un cenno, non potr non dar ragione ad Aristofane, quando fa cantare al coro:
Viva chi con Socrate Non vuol sedere e discutere Chi non disprezza l'arte delle Muse E non guarda schifato dall'alto in basso Il pi alto momento della tragedia! Proprio una bella follia questa, Prestare una diligenza inoperosa A discussioni boriose e vuote E a un astratto almanaccare.

Ma quanto di pi profondo si poteva dire a Socrate, glielo disse un sogno. Spesso capitava a Socrate, com'egli stesso ebbe a raccontare agli amici in prigione, di sognare lo stesso sogno, dove gli veniva detta sempre la stessa cosa: Socrate, fa' della musica!. Socrate fino ai suoi ultimi giorni si attenuto all'opinione secondo cui la sua filosofia sarebbe la musica pi alta. Finalmente in prigione, per sgravarsi l'animo, si adatt anche a questo, a coltivare quella musica volgare. E in effetti tradusse in versi certe favole in prosa che conosceva; ma io non credo che con questi esercizi metrici si sia riconciliato con le Muse. In Socrate prende corpo quel particolare aspetto della grecit, quella chiarezza apollinea, senza nessuna commistione estranea; egli risplende come un raggio di luce perfettamente trasparente, come il messaggero e l'araldo della Scienza, che proprio in Grecia doveva avere la sua nascita. Ma la scienza e l'arte si escludono a vicenda: da questo punto di vista significativo che Socrate sia il primo grande greco ad essere brutto, tutto essendo in lui simbolico. Egli il padre della logica, la quale presenta nel modo pi generale il carattere della scienza; egli il distruttore del dramma musicale, che aveva radunato in s i raggi di tutta l'arte antica. Egli distruttore del dramma musicale in un senso anche pi profondo di quanto si sia finora potuto dire. Il socratismo pi antico di Socrate; il suo influsso dissolv'itore dell'arte si fa notare gi da molto prima. L'elemento, a lui proprio, della dialettica gi molto tempo prima di Socrate si era insinuato nel dramma musicale e aveva prodotto guasti in quel bel corpo. La degenerazione incomincia dal dialogo. Notoriamente il dialogo non originario nella tragedia; solo da quando si danno due attori insieme, cio relativamente tardi, che si sviluppa il dialogo. Gi prima esisteva un che di analogo nello scambio di battute tra l'eroe e il corifeo: tuttavia qui il contrasto dialettico era impossibile per via della subordinazione dell'uno all'altro. Ma non appena due personaggi principali dello stesso livello stettero uno di fronte all'altro, esplose, in conformit ad un impulso profondamente ellenico, la competizione e precisamente la competizione fatta di

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parole e di argomenti: il dialogo d'amore, invece, rimase sempre estraneo alla tragedia greca. Con questa competizione si faceva appello a un elemento nel cuore dello spettatore che fino ad allora era stato bandito dallo spazio sacrale delle arti drammatiche come nemico dell'arte e inviso alle muse: la cattiva Eris. La buona Eris da tempo immemorabile faceva da padrona in tutte le attivit musicali e nella tragedia portava tre poeti in competizione tra di loro dinanzi al popolo riunito per giudicare. Ma non appena il riflesso del disputare dall'aula del tribunale si trasfer nella tragedia, ecco scaturire per la prima volta un dualismo nell'essenza e nell'effetto del dramma musicale. Da allora in poi ci furono parti della tragedia nelle quali la compassione si ritirava di fronte al piacere solare del tintinnante gioco d'armi della dialettica. L'eroe del dramma non poteva soccombere, adesso doveva quindi diventare un eroe della parola. Il processo ch'era cominciato con la cosiddetta sticomitia, and avanti e si travas anche nei pi lunghi discorsi degli attori principali. Gradualmente tutti i personaggi prendono a parlare con una tale esibizione di sagacia, di lucidit e di acutezza che a leggere una tragedia di Sofocle c' veramente di che restar confusi. Per noi come se tutte queste figure andassero in rovina non in base al tragico, ma per una sorta di superfetazione dell'elemento logico. Si pu fare un confronto di come gli eroi di Shakespeare dialettizzino in tutt'altro modo: su tutti i loro pensieri, congetture, conclusioni c' come un'aria di bellezza musicale e di spiritualizzazione, mentre nella tragedia greca pi tarda domina un dualismo stilistico piuttosto ambiguo, qui la potenza della musica, l quella della dialettica. Quest'ultima si fa avanti con sempre maggior prepotenza, finch non dice la parola conclusiva anche sulla struttura del dramma stesso. Il processo culmina nell'opera d'intrigo: col che per la prima volta quel dualismo interamente superato, grazie all'annientamento totale d'uno dei due contendenti, la musica. Ora, molto significativo che questo processo, il quale pure inizia nella tragedia, giunga a termine nella commedia. La tragedia, scaturita dalla profonda fonte della compassione, nella sua essenza pessimistica. L'esistenza in essa qualcosa di molto terribile, l'uomo qualcosa di assai folle. L'eroe della tragedia non appare, come si figura l'estetica moderna, in lotta contro il destino, e altrettanto ci di cui soffre non qualcosa ch'egli abbia meritato. Anzi, egli precipita nella sciagura cieco e con gli occhi bendati: e il suo atteggiamento disperato ma nobile, con il quale continua a stare di fronte a questo mondo d'orrore, s'imprime come un aculeo nella nostra anima. La dialettica invece per sua stessa natura ottimistica-, essa crede alla causa e a quel che ne deriva, crede dunque a un rapporto necessario di colpa e punizione, virt e felicit. I suoi conti devono tornare senza resto: essa nega tutto ci che non si lasci analizzare in concetti. La dialettica raggiunge in ogni caso il suo scopo; qualsiasi conclusione il suo giubileo, chiarezza e consapevolezza la sola aria nella quale possa respirare. Quando questo elemento penetra nella tragedia, ne scaturisce un dualismo come tra il giorno e la notte, la musica e la matematica. L'eroe, che deve difendere il suo operare con ragioni e controragioni, rischia di perdere la nostra compassione: giacch l'infelicit che poi, nonostante tutto, lo travolge, prova appunto soltanto che da qualche parte egli ha sbagliato i calcoli. Ma l'infelicit che deriva da un errore di calcolo non gi pi che un motivo da commedia. Non appena il piacere per la dialettica ebbe smembrato la tragedia, nacque la nuova commedia con il suo inesauribile trionfo dell'astuzia e della scaltrezza. La coscienza socratica e la sua fede ottimistica circa il legame necessario

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di virt e sapere, di felicit e di virt ha avuto l'effetto, su buona parte delle opere di Euripide, di aprirsi nell'epilogo alla prospettiva d'un'esistenza ulteriore del tutto confortevole, per lo pi grazie a un matrimonio. Non appena il dio appare sulla macchina, notiamo che dietro la maschera fa capolino Socrate, il quale sulla sua bilancia cerca di pareggiare felicit e virt. Tutti conoscono la tesi di Socrate: Virt sapere: si pecca solo per ignoranza. Felice il virtuoso. In queste tre fondamentali forme dell'ottimismo c' la morte della tragedia pessimistica. Ben prima di Euripide, concezioni come queste avevano lavorato alla dissoluzione della tragedia. Se virt sapere, l'eroe virtuoso dev'essere un dialettico. Nell'ambito della straordinaria piattezza e della povert d'un pensiero etico per niente sviluppato, troppo spesso l'eroe che dialettizza eticamente appare come un araldo della banalit morale e del filisteismo. Perci bisogna avere il coraggio di prendere atto e di confessare che, per tacere assolutamente di Euripide, anche le pi belle figure della tragedia sofoclea, un'Antigone, un'Elettra, un Edipo, si lasciano andare a una serie di pensieri insopportabilmente banali, e che certamente i caratteri drammatici sono pi belli e pi nobili di quanto non appaiano nelle loro parole. Muovendo da questo punto di vista, il nostro giudizio dovr al contrario essere pi generoso nei confronti della pi antica tragedia eschilea: per questo che Eschilo ha prodotto il suo meglio inconsciamente. Noi abbiamo appunto nel linguaggio e nelle caratterizzazioni di Shakespeare un punto di riferimento sicurissimo per paragoni del genere. In lui si trova una saggezza etica, al cui confronto il socratismo rivela un che di saccente e di presuntuoso. Di proposito nella mia ultima conferenza ho detto poco sui limiti della musica nel dramma musicale greco: insieme con la presente trattazione, sar ora facile comprendere in che senso abbia indicato nei limiti della musica nel dramma musicale il punto pericoloso a partire dal quale incomincia il processo di dissoluzione. La tragedia soccombette a causa di una dialettica e di un'etica ottimistiche: si pu dunque dire altrettanto che: il dramma musicale soccombette per una mancanza di musica. Il socratismo introdottosi nella tragedia ha impedito che la musica si fondesse con il dialogo e il monologo, anche se nella tragedia eschilea si era avuto, a questo proposito, un inizio di molto successo. Di nuovo, una conseguenza fu che la musica, sempre pi soffocata e costretta entro limiti sempre pi angusti non si sent pi a casa propria nella tragedia, e si svilupp piuttosto al di fuori di essa, in maniera pi libera e pi audace, come arte assoluta. ridicolo far apparire un fantasma all'ora di pranzo; ridicolo pretendere che una Musa cos piena di mistero e cos seriamente ispirata com' la Musa della musica tragica debba cantare nell'aula del tribunale, nelle pause tra le contese dialettiche. Nel sentimento di questo ridicolo la musica nella tragedia ammutolisce, come spaventata-dalia sua inaudita profanazione; sempre pi di rado essa osa far sentire la sua voce, alla fine anzi essa si confonde, canta cose che non appartengono alla tragedia, si vergogna di s e fugge per sempre dagli spazi teatrali. Per parlare nella maniera pi scoperta, la fioritura e il punto pi alto del dramma musicale greco Eschilo nel suo primo grande periodo, prima ch'egli fosse a sua volta influenzato da Sofocle: con Sofocle inizia un declino graduale, finch alla fine Euripide con la sua reazione consapevole alla tragedia eschilea chiude precipitosamente la partita. Questo giudizio va controcorrente solo rispetto a una diffusa estetica odierna: in verit a questo proposito pu essere fatta valere una testimonianza non certo di poco conto, quella di Aristofane, il quale elettiva-

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mente affine ad Eschilo come nessun altro. Si sa, solo il simile riconosce il simile. Per concludere un'ultima questione. Il dramma musicale realmente morto, morto per tutti i tempi? Davvero deve il tedesco non poter mettere accanto a quella scomparsa opera d'arte del passato altro che la grande opera, pi o meno come accanto a Ercole era solita apparire la scimmia? questa la questione pi seria che si ponga alla nostra arte: e chi come tedesco la seriet di questa questione [testo interrotto, N.d.T.]

La visione dionisiaca del mondo

1.

I Greci, che nello stesso tempo si pronunciano e tacciono sulla dottrina esoterica della visione del mondo che riguarda i loro di, hanno posto come doppia fonte della loro arte due divinit, Apollo e Dioniso. Questi nomi rappresentano nel campo dell'arte due poli opposti d'ordine stilistico, che si presentano quasi sempre in lotta l'un con l'altro e che solo una volta, nel momento della fioritura della volont ellenica, appaiono fusi nell'opera d'arte della tragedia attica. In effetti sono due gli stati in cui l'uomo raggiunge il sentimento estatico dell'esistenza: il sogno e l'ebbrezza. La bella apparenza del mondo del sogno, in cui ciascun uomo in tutto e per tutto artista, l'origine di ogni arte figurativa e, come vedremo, anche di una met importante della poesia. Noi godiamo la forma in una comprensione immediata, tutte le forme anzi ci parlano; non c' nulla di interscambiabile e di non necessario. Nella vita pi alta di questa realt di sogno tuttavia noi abbiamo ancora il trasparente sentimento del suo essere apparenza; sentimento, questo, che non appena viene a mancare d via libera agli effetti patologici, dove il sogno non pi ristoratore e dove la forza risanatrice della natura cessa. Ma, entro quei limiti, non sono soltanto le immagini piacevoli e gioiose quelle che noi cerchiamo in noi con quella assennatezza che di tutti: no, anche il serio, il triste, il torbido, l'oscuro sono osservati con lo stesso piacere, solo che appunto anche qui il velo dell'apparenza dev'essere leggermente mosso e le forme fondamentali della realt non possono essere interamente coperte. Dunque, mentre il sogno il gioco d'un singolo uomo con il reale, l'arte dell'artista figurativo (in un senso pi ampio) il gioco con il sogno. La statua come blocco di marmo qualcosa di molto reale, ma la realt della statua come figura di sogno la vivente persona del dio. Finch la statua come immagine fantastica sta davanti agli occhi dell'artista, egli gioca ancora con il reale; ma quando traduce questa immagine nel marmo, egli gioca con il sogno. Ora, in che senso Apollo poteva essere considerato dio dell'arte? Solo in quanto egli il dio delle rappresentazioni del sogno. Egli in ogni caso il risplendente: nella sua radice pi profonda il dio del sole e della luce, che si rivela nello splendore. La bellezza il suo elemento: eterna giovinezza gli propria. Ma anche la bella apparenza del mondo del sogno il suo regno: la pi alta verit, la perfezione di questi stati in opposizione alla malcomprensibile realt diurna, lo sollevano al rango di dio profetico, ma appunto perci anche al rango di dio artistico. Il dio della bella apparenza deve essere anche il dio della conoscenza vera. Ma quel limite appena accennato, che l'immagine di sogno non pu oltrepassare senza cadere nel patologico, l dove non solo illude ma anche inganna, non pu mancare all'essenza di Apollo: quella limitazione misurata, quella libert dagli impulsi pi selvaggi, quella saggezza e calma del dio plastico. Il suo occhio

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dev'essere solarmente quieto: anche quando in collera e il suo sguardo pieno d'ira, su di lui sta la sacralit della bella apparenza. L'arte dionisiaca invece basata sul gioco con l'ebbrezza, con l'estasi. Sono soprattutto due le potenze che innalzano l'ingenuo uomo naturale all'oblio di s proprio dell'ebbrezza: l'impulso primaverile e la pozione narcotica. I loro effetti sono simbolizzati nella figura di Dioniso. Il principium individuationis viene soppresso in entrambi gli stati, il soggettivo si dissolve completamente di fronte alla straripante potenza dell'umano in generale, anzi del naturale in generale. Le feste dionisiache non saldano soltanto il legame tra uomo e uomo, conciliano anche l'uomo con la natura. La terra offre spontaneamente i suoi doni, i pi selvaggi ammali si avvicinano con fare pacifico. 11 carro di Dioniso, tutto coperto di fiori, trainato da tigri e pantere. Tutte le divisioni di casta, imposte tra gli uomini dalla necessit o dall'arbitrio, spariscono: lo schiavo un uomo libero, l'aristocratico e il plebeo si uniscono insieme negli stessi cori bacchici. Di luogo in luogo e in sempre pi crescenti schiere si danza il vangelo dell'armonia universale: cantando e ballando l'uomo si esprime come membro di una pi alta e pi ideale comunit: egli ha perduto la misura del camminare e del parlare. Non solo: egli si sente come dentro un incantesimo ed veramente diventato un altro. Cos come gli animali parlano e la terra d latte e miele, allo stesso modo anche da lui emana qualcosa di soprannaturale. Egli si sente un dio, e ci che gi aveva vissuto nella sua immaginazione, ora lo sperimenta in se stesso. Che cosa sono per lui, ora, ritratti e statue? L'uomo non pi artista, diventato opera d'arte, e cos inebriato ed estasiato, si aggira come in sogno aveva visto aggirarsi gli di. La potenza artistica della natura, non gi quella di un singolo uomo, -gli si svela: un'argilla pi nobile, un marmo pi prezioso viene qui lavorato e digrossato: l'uomo. Quest'uomo, plasmato da quell'artista che Dioniso, sta alla natura come la statua all'artista apollineo. Ora, se l'ebbrezza il gioco della natura con l'uomo, la creazione dell'artista dionisiaco il gioco con l'ebbrezza. Questo stato si lascia concepire solo per analogia, quando non lo si sia sperimentato in se stessi: qualcosa di simile a ci che accade quando si sogna e si sa di sognare. Cos il fedele di Dioniso deve lasciarsi andare all'ebbrezza e nello stesso tempo star fuori di s, come una spia che osserva. Non nel passaggio dalla sobriet all'ebbrezza, bens nella loro coesistenza si mostra l'artisticit dionisiaca. Questa coesistenza designa il punto pi alto dell'ellenismo: originariamente in Grecia solo Apollo il dio dell'arte, ed tale che grazie alla sua potenza quel Dioniso veniente dall'Asia come una tempesta contenuto al punto che tra i due pot sorgere un legame fraterno. Qui si pu capire nel modo pi elementare l'incredibile idealismo della grecit: un culto naturalistico, che presso i popoli dell'Asia aveva il senso del pi crudo scatenamento dei bassi istinti, insomma un'esperienza animalesca e orgiastica in grado di spezzare per qualche tempo tutti i vincoli sociali, divenne presso di loro una sagra della redenzione del mondo, un giorno di trasfigurazione. Tutti i sublimi impulsi della loro natura si manifestarono in questa idealizzazione dell'orgia. Mai per la grecit si trov in pi grave pericolo come all'arrivo tempestoso del nuovo dio. Mai pi, d'altra parte, la saggezza dell'Apollo delfico si sarebbe mostrata in una luce pi bella. Dapprima Apollo, che gli era contrario, tese intorno al potente oppositore una rete finissima, in modo che questi non s'accorgesse d'andare in giro semiprigioniero. Quando poi i sacerdoti di Delfi compresero il nuovo culto nei suoi profondi influssi sul

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processo di rigenerazione sociale e lo incentivarono in conformit della loro prospettiva politico-religiosa, quando l'artista apollineo con intelligente senso della misura si mise alla scuola dell'arte rivoluzionaria dei culti bacchici, quando infine il dominio annuale nell'ordinamento cultuale delfico fu diviso tra Apollo e Dioniso, i due di risultarono entrambi vincitori nella loro contesa: una conciliazione sul campo di battaglia. Quando si voglia vedere nella sua giusta prospettiva come fortemente l'elemento apollineo abbia sottomesso ci che in Dioniso irrazionalmente soprannaturale, bisogna pensare al fatto che nell'epoca pi antica della musica il ghnos dithurambkon era nello stesso tempo Yesuchastikn. Quanto pi robustamente crebbe lo spirito artistico apollineo, tanto pi liberamente si svilupp il dio fratello Dioniso: cos, quando il primo pervenne a una concezione piena e in un certo senso immutabile della bellezza all'epoca di Fidia, il secondo port alla luce nella tragedia gli enigmi e gli orrori del mondo e nella musica tragica espresse quel linguaggio pi intimo della natura che l'ordito del volere dentro e al di sopra di tutte le apparenze. Posto che la musica sia anche arte apollinea, allora questo in senso stretto si dovr dire soltanto del ritmo, la cui potenza figurativa stata sviluppata fino alla rappresentazione di stati apollinei: la musica di Apollo architettura per mezzo di suoni, e tuttavia per mezzo di suoni appena accennati, come sono i suoni della cetra. Prudentemente fatto tacere proprio l'elemento che esprime il carattere della musica dionisiaca e addirittura della musica in generale, la commovente potenza del suono e il mondo assolutamente incomparabile dell'armonia. Per questa i greci avevano la pi fine sensibilit, come noi apprendiamo considerando la rigida caratterizzazione della tonalit, per quanto il bisogno di un'armonia eseguita, risuonante realmente, fosse per loro molto meno rilevante che non nel mondo moderno. Nella serie armonica e anzi gi in quella sua riduzione che la melodia, la volont si manifesta del tutto immediatamente, senza prima essersi incarnata in un'apparenza. Ciascun individuo pu valere come simbolo, ossia come caso specifico per una regola generale: al contrario l'artista dionisiaco esporr l'essenza dell'apparente come immediatamente comprensibile. Egli padroneggia il caos del volere non ancora pervenuto alla forma e da esso pu trarre in ciascun momento creativo un nuovo mondo, cos come quello antico, in quanto apparenza. In quest'ultimo senso un musicista tragico. Nell'ebbrezza dionisiaca, nell'irresistibile vortice di tutta la gamma delle sfumature dell'anima a seguito dell'eccitazione narcotica o nello svincolo degli impulsi primaverili, la natura si manifesta nella sua potenza pi alta: essa di nuovo lega i singoli esseri gli uni agli altri e fa in modo che si sentano un tutt'uno, sicch il principium individuationis appare come uno stabile stato di depotenziamento del volere. E quanto pi depotenziato il volere, tanto pi tutto si scioglie nella particolarit, tanto pi l'individuo si sviluppa in modo egoistico e arbitrario, tanto pi debole l'organismo al quale esso serve. In quegli stati emerge quella che la tendenza sentimentale del volere, un sospirare della creatura per ci che ha perduto: dal piacere pi alto che si sprigiona il grido dell'orrore, il lamento pieno di nostalgia per una perdita irreparabile. L'esuberante natura celebra i suoi saturnali e nello stesso tempo la sua sagra di morte. Le emozioni dei suoi sacerdoti sono meravigliosamente mischiate, dolore suscita gioia, mentre il giubilo strappa dal petto accenti pieni di affanno. Il dio, o lsios, tutto libera da s, tutto trasforma. Il canto e la mimica di masse eccitate in tal modo, nelle quali la natura trovava voce e movimento, fu per il mondo

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greco dell'epoca omerica qualcosa di inaudito; c'era qualcosa di orientale con la sua smisurata potenza ritmica e figurativa che esso doveva anzitutto domare, come del resto gi aveva domato in un certo senso lo stile egiziano nella costruzione dei templi. Fu il popolo apollineo a serrare nelle catene della bellezza quell'istinto dirompente: esso sottomise al giogo gli elementi pi pericolosi della natura, le sue bestie pi selvagge. Nulla di pi stupefacente della capacit di idealizzazione della grecit, se si paragona la sua spiritualizzazione delle feste dionisiache con quanto sorto presso altri popoli da una stessa origine. Feste del genere sono antichissime e comprovabili dappertutto, in primo luogo a Babilonia sotto il nome di Sacee. Qui nei cinque giorni di festa qualsiasi vincolo sociale e statale veniva spezzato; ma il centro consisteva nella sfrenatezza sessuale, nella negazione di tutti i legami familiari attraverso un'incontenibile sregolatezza. A fronte sta l'immagine delle feste dionisiache dei Greci, cos com' tratteggiata da Euripide nelle Baccanti: da essa si sprigiona la stessa seduzione, la stessa ebbrezza musicale trasfigurante, che Scopa e Prassitele hanno concretato nelle statue. Un araldo racconta di essersi portato con le greggi nel pieno meriggio sulle cime dei monti: il momento giusto e il luogo giusto per vedere l'invisibile; ora Pan dorme, ora il cielo il fondo immobile di uno splendore, ora il giorno fiorisce. Su di un prato alpestre l'araldo nota tre cori di donne che giacciono qua e l distese in posizione assai composta: molte di queste donne stanno appoggiate a tronchi di abete e tutte sono assopite. Improvvisamente la madre di Penteo comincia a gioire, il sonno si dissipa, tutte si alzano, un vero esempio di nobili costumi; le giovani fanciulle e le donne lasciano cadere le loro capigliature sulle spalle, la pelle di capriolo rimessa in ordine, nel caso durante il sonno i lacci e i nodi si fossero sciolti. Ci si cinge di serpenti, che accarezzano le gote con dimestichezza, alcune donne prendono in braccio lupacchiotti e piccoli caprioli e li allattano. tutto un adornarsi con corone e ghirlande, un colpo col tirso sulla roccia e ne scaturisce acqua, un urto col bastone nel suolo e ne zampilla una fonte di vino. Dolce miele stilla dalle fronde, non appena qualcuno sfiora la superficie della terra con la punta delle dita, ne sgorga latte bianco come neve. Questo davvero un mondo magico, dove la natura celebra la sua festa di riconciliazione con l'uomo. Il mito dice che Apollo ha di nuovo ricomposto Dioniso fatto a pezzi. Questa l'immagine di Dioniso che Apollo ricrea e trae in salvo dopo il suo smembramento asiatico.
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Gli di greci nella loro compiutezza, quale gi ci dato incontrare in Omero, certo non sono da intendere come figli della necessit e del bisogno: tali esseri non sono certo stati inventati da un animo angosciato, e non che una geniale fantasia abbia proiettato le sue immagini in cielo per sottrarsi alla vita. In esse parla una religione della vita, non del dovere o dell'ascesi o della spiritualit. Tutte queste figure diffondono il trionfo dell'esistenza, un sentimento esuberante della vita accompagna il loro culto. Esse non esigono niente: in esse l'esistente divinizzato, indipendentemente dal fatto se sia buono o cattivo. Commisurata alla seriet, alla sacralit e all'austerit di altre religioni, quella greca corre il rischio di essere sottovalutata come una fantasticheria giocosa se non si mette in chiaro un tratto, spesso disconosciuto, di profondissima sapienza, per mezzo del quale quelle divinit epicuree appaiono senz'altro come la creazione di un incomparabile popolo di artisti e quasi come la pi alta creazione in assoluto.

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la filosofia del popolo, quella che l'incatenato dio dei boschi svela ai mortali: La cosa migliore non essere nati, altrimenti, morire presto. una filosofia del genere quella che fa da sfondo a quel mondo di di. Il greco conosceva gli orrori e le atrocit dell'esistenza, ma li velava, per poter vivere: una croce occultata tra le rose, secondo il simbolo goethiano. Che l'immagine d'un Olimpo luminoso si sia imposta, deriva dal fatto che si doveva nascondere, per mezzo di figure solari come quelle di Zeus, Apollo, Hermes ecc., quell'oscuro dominio della moira che causa per Achille d'una morte precoce e per Edipo d'una unione nefasta. Se l'apparenza artistica di quel mondo di mezzo fosse stata soppressa, allora si sarebbe dovuto adottare la sapienza del dio dei boschi, del seguace dionisiaco. Ecco la necessit in base alla quale il genio artistico di questo popolo ha creato tali di. Per questa ragione una teodicea non ha mai fatto problema per i Greci: ci si guard dall'imputare agli di l'esistenza del mondo e dunque la responsabilit per com'esso fatto. Anche gli di sono soggetti Vannke: questa una dichiarazione di rara sapienza. Vedere la propria esistenza cos com'essa ma in uno specchio trasfigurante e con questo specchio ripararsi dalla Medusa era questa la geniale strategia della volont ellenica in generale per poter vivere. Come altrimenti avrebbe infatti potuto sopportare l'esistenza quel popolo cos infinitamente sensibile e cos luminosamente predisposto al dolore, se la stessa cosa non gli fosse apparsa nei suoi di come trasfigurata da una gloria pi alta! Lo stesso impulso che chiama l'arte alla vita come completamento e perfezionamento che invogliano a una vita ulteriore, fece sorgere altres il mondo olimpico, un mondo della bellezza, della calma, del piacere. Per effetto di una tale religione, nel mondo greco la vita viene concepita come qualcosa che desiderabile di per s: la vita sotto il chiaro bagliore solare di simili di. Il dolore dell'uomo omerico si definisce a partire dal congedo da questa esistenza, soprattutto quando il congedo prematuro: in generale, se si levano lamenti, per Achille dalla breve vita, per il rapido trapasso delle generazioni, per la fine dei tempi eroici. Non indegno dei pi grandi eroi aspirare a una continuazione della vita, foss'anche una vita da servi. La volont non si mai espressa cos apertamente come presso i Greci, dove anche il lamento un inno in sua lode. Perci l'uomo moderno ha nostalgia per quel tempo in cui crede di sentire il perfetto accordo di uomo e di natura; perci in un orizzonte greco che si trova la parola decisiva per tutti coloro che cercano modelli luminosi per la loro consapevole affermazione della volont; perci dalle mani di scrittori sensuali che vien fuori il concetto di serenit greca, sicch una vita scapestrata e oziosa trova modo in un certo senso irriverente di giustificarsi e anzi di nobilitarsi con la parola greco. In tutte queste rappresentazioni, che degenerano da ci che pi nobile a ci che pi volgare, lo spirito greco colto con rozzezza e in maniera semplicistica e in una certa misura sulla base di immagini che ne hanno dato popoli privi di ambiguit e insomma tutti d'un pezzo (i romani, per esempio). Tuttavia il bisogno di apparenza artistica dovrebbe essere dato per scontato nella visione del mondo d'un popolo capace di trasformare in oro tutto quello che tocca. Del resto in questa visione del mondo s'incontra realmente, come gi accennato, una sconfinata illusione, la stessa di cui la natura si serve cos regolarmente nel perseguimento dei suoi scopi. La vera meta viene occultata da un'immagine di sogno: verso questa noi tendiamo le mani, e la natura ottiene quella grazie al nostro inganno. Presso i Greci la volont ha voluto intuirsi come trasfigurata in opera d'arte: per esaltare

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se stessa, i suoi prodotti dovettero sentirsi degni di esaltazione, dovettero vedersi riflessi in una sfera pi alta, quasi innalzati alla sfera dell'ideale, senza che questo mondo perfetto dell'intuizione valesse da imperativo o da rimprovero. Questa l sfera della bellezza, nella quale essi scorgono le loro immagini speculari, gli Olimpici. Con quest'arma la volont greca lott contro la disposizione correlativa a quella artistica, la disposizione per il dolore e per la sapienza del dolore. Da questa lotta e come monumento della vittoria conseguita da essa nata la tragedia. L'ebbrezza dei dolore e il bel sogno hanno le loro diverse costellazioni di di: la prima con l'onnipotenza del suo essere penetra i pi reconditi pensieri della natura, conosce il tremendo impulso verso l'esistenza e nello stesso tempo la morte che incombe su tutto ci che trascinato ad esistere; gli di ch'essa modella sono buoni e cattivi, simili al caso essi terrorizzano con una inesorabilit che affiora improvvisa, sono senza piet e senza gusto per il bello. Sono affini alla verit e prossimi al concetto: raramente e difficilmente si concretizzano in figure. Guardarli pietrifica: come si pu vivere con loro? Ma non lo si deve: ecco il loro insegnamento. Dal mondo di questi di, che non si poteva svelare interamente come un segreto inviolabile, lo sguardo dovette essere distolto verso quella luminosa e contigua figurazione di sogno che il mondo olimpico: perci tanto pi intensa si leva la vampa dei suoi color e la sensualit delle sue forme, quanto pi forte fatta valere la verit o il suo simbolo. N la battaglia tra verit e bellezza fu mai pi grande che con l'irruzione del culto dionisiaco: in esso la natura si svelava e parlava del suo mistero con spaventosa chiarezza, con il suono, a fronte del quale la seducente apparenza aveva quasi perduto il suo potere. Questa fonte era sgorgata dall'Asia; ma in Grecia doveva diventare un torrente, giacch trov qui per la prima volta ci che l'Asia non le aveva offerto: la sensibilit pi eccitabile e la disposizione al dolore insieme con un'intelligenza e un'acutezza delle pi sottili. In qual modo Apollo salv la grecit? Accogliendo nel mondo della bella apparenza, cio nel mondo olimpico, il nuovo venuto: a lui furono sacrificati molti degli onori propri delle divinit pi importanti, come per esempio Zeus e Apollo. Mai si sono fatti tanti complimenti con un forestiero: e dire che si trattava anche d'un forestiero che incuteva terrore (hostis sotto ogni aspetto), abbastanza forte per scuotere dalle fondamenta la casa in cui era ospite. Una grande rivoluzione incominci in tutte le forme di vita: Dioniso fece sentire ovunque la sua presenza, anche nell'arte. La contemplazione, la bellezza, l'apparenza definiscono l'ambito dell'arte apollinea: il mondo trasfigurato dell'occhio, che crea artisticamente un sogno a palpebre chiuse. Anche l'epos vuol portarci a questo stato di sogno: noi non dobbiamo vedere a occhi aperti e dobbiamo invece pascerci delle immagini interiori, la cui produzione il rapsodo cerca di suscitare in noi con i suoi concetti. L'effetto delle arti figurative qui lo si ottiene per via traversa: lo scultore attraverso il marmo lavorato ci conduce a quel dio vivente che lui ha visto in sogno, sicch la figura presentata come tlos appare in evidenza tanto allo scultore quanto allo spettatore e il primo trasmette al secondo la sua visione per mezzo della figura mediatrice della statua, il poeta epico, invece, vede la stessa figura vivente e la offre in visione anche ad altri, ma tra s e gli altri non pone nessuna statua. Piuttosto racconta come quella figura attesta la sua vita con gesti, suoni, parole, azioni, ci costringe a riportare una quantit di effetti alle loro cause, ci obbliga a una composizione artistica. Ha raggiunto il suo scopo quando noi vediamo con chiarezza di fronte a noi la figura o il gruppo o l'immagine, quando ci

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partecipa quel suo stato di sogno nel quale lui stesso per primo ha prodotto quelle rappresentazioni. Che l'epica induca a creare plasticamente, dimostra quanto assolutamente differenti siano l'epica e la lirica, dal momento che la lirica non ha mai come scopo quello di ricavare forme dalle immagini. Ci che epica e lirica hanno in comune solo qualcosa di materiale, la parola, e ancor pi in generale il concetto: quando noi parliamo di poesia, non abbiamo in proposito una categoria che sia coordinata con l'arte figurativa e con la musica, bens la fusione di due mezzi artistici in s totalmente differenti, dei quali l'uno indica la via per l'arte figurativa, l'altro invece quella per la musica: entrambi sono solo vie che portano alla creazione artistica, non arti in se stesse. In questo senso naturalmente anche la pittura e la scultura sono solo mezzi artistici: l'arte vera e propria la capacit di produrre immagini, indipendentemente dal fatto che si tratti d'un produrre originario o d'un produrre derivato. Su questa propriet dell'uomo in generale si basa il significato culturale dell'arte. L'artista come quegli che induce all'arte attraverso un determinato mezzo artistico non pu essere nello stesso tempo l'organo recettivo dell'attivit artistica. Il culto dell'immagine che proprio della cultura apollinea, quale si manifesta nel tempio, nella statua o nell'epos omerico, aveva il suo scopo pi alto nell'esigenza etica della misura, che corre parallela all'esigenza estetica della bellezza. La misura fatta valere in quanto esigenza possibile solo l dove la misura, il limite, passa per riconoscibile. Per tener fermi questi limiti, bisogna conoscerli: di qui l'ammonimento apollineo del gnthi seautn. Ma lo specchio, nel quale soltanto il greco apollineo poteva vedersi e cio riconoscersi, era il mondo degli di olimpici: qui egli poteva riconoscere la sua essenza pi intima, velata dalla bella apparenza del sogno. La misura, sotto il cui giogo si muoveva il nuovo mondo di di (a fronte di un distrutto mondo di Titani), era quello della bellezza: il limite, cui il greco doveva attenersi, era quello della bella apparenza. Lo scopo specifico di una cultura tutta basata sull'apparenza e sulla misura in effetti pu essere solo l'occultamento della verit: al ricercatore instancabile nel perseguirla cos come al tracotante Titano viene rivolto l'ammonimento del medn gan. Nel Prometeo si mostra alla grecit un esempio di come un ampliamento eccessivo della conoscenza umana abbia effetti nefasti sia per chi lo promuova sia per chi ne risulti favorito. Chi vuol mettersi di fronte al dio con la sua sapienza deve, come dice Esiodo, mtron chein sophes. In un mondo cos strutturato e protetto ad arte fece allora irruzione il suono estatico della festa di Dioniso, dove tutto l'eccesso della natura in gioia e dolore e conoscenza si rivel in un colpo solo. Tutto ci che fino ad allora si era fatto valere in termini di limite e di misura, si rivel qui come apparenza artistica, mentre l'eccesso si svel come verit. Per la prima volta si sent fremere il canto popolare dal fascino demoniaco in tutta l'ebriet d'un sentimento straripante. Che cosa poteva significare al contrario l'artista salmodiarne apollineo, con i timidi e solo accennati accordi della sua kithral Ci che precedentemente era stato trapiantato entro corporazioni poetico-musicali secondo criteri di casta e perci era stato tenuto lontano da ogni commistione profana, ci che doveva essere conservato in virt della potenza apollinea sul piano di una semplice architettonica, insomma l'elemento musicale, qui si liber d'ogni costrizione: la ritmica, che prima si muoveva nel pi semplice degli zig-zag, sciolse le sue membra nella danza baccantica: si lev la voce strumentale, non pi come prima in una rarefazione spettrale, bens con un aumento moltiplicato dalla massa e con un accompagnamento dei pi bassi strumenti a fiato. E quanto c' di pi

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misterioso venne alla luce: venne al mondo l'armonia, la quale nel suo movimento porta ad immediata comprensione la volont della natura. Nell'orizzonte dionisiaco ebbero voce cose che nel mondo di Apollo erano tenute nascoste ad arte: tutto lo scintillio degli di olimpici si affievol di fronte alla sapienza di Sileno. Un'arte che nella sua ebbrezza estatica diceva la verit spaur le muse dell'arte dell'apparenza; nell'oblio di s degli stati dionisiaci, l'individuo con i suoi limiti e le sue misure fu travolto: un crepuscolo degli di era prossimo a venire. Qual era il progetto del volere, che pur sempre uno solo, nel lasciar irrompere gli elementi dionisiaci contro la sua stessa creazione apollinea? Si trattava d'una nuova e pi alta mechan dell'esistenza, la nascita del pensiero tragico.
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L'estasi dello stato dionisiaco con la sua soppressione delle costrizioni e dei limiti quotidiani dell'esistenza, contiene nel corso del suo perdurare un elemento letargico, nel quale affonda tutto ci che stato vissuto nel passato. Cos questo abisso della dimenticanza separa uno dall'altro il mondo della realt consueta e il mondo della realt dionisiaca. Ma non appena quella realt consueta riemerge di nuovo alla coscienza, essa viene in quanto tale sentita con nausea: una disposizione ascetica e negatrice della volont il frutto di quegli stati. Nel pensiero il dionisiaco contrapposto come un ordine cosmico superiore a uno comune e triviale: l'uomo greco desiderava evasione assoluta da questo mondo della colpa e del destino. Egli si consolava a malapena con la speranza d'un mondo dopo la morte: aveva nostalgia per qualcosa di pi alto e superiore agli stessi di, negava l'esistenza insieme con il suo variopinto e splendente riflesso divino. Nella consapevolezza del risveglio dall'ebbrezza vedeva tutto l'orrore o l'assurdo dell'esistenza umana: e ne provava nausea. Ora egli comprende la sapienza del dio silvano. Qui si tocca il limite pi pericoloso che la volont ellenica con il suo principio fondamentale apollineo-ottimistico abbia concesso di toccare. Qui essa oper con la sua naturale forza guaritrice, per piegare nuovamente quella disposizione negativa: suo strumento l'opera d'arte tragica e la concezione tragica. La sua intenzione non poteva in alcun modo essere quella di temperare o di reprimere lo stato dionisiaco: soggiogarlo direttamente era impossibile, e anche se non lo fosse stato, restava pur sempre una cosa pericolosa, dal momento che se quell'elemento fosse stato trattenuto nella sua espansione si sarebbe aperto altrove una via e sarebbe penetrato in tutti i vasi sanguigni della vita. Per prima cosa si trattava di trasformare quei pensieri di disgusto sull'assurdo e l'orrore dell'esistenza in rappresentazioni con le quali convivere: esse sono il sublime in quanto imprigionamento artistico dell'orrore e il comico in quanto liberazione artistica dalla nausea dell'assurdo. Questi due elementi intrecciati insieme si riuniscono in un'opera d'arte che imita l'ebbrezza e gioca con essa. Tanto il sublime quanto il comico sono un passo al di l del mondo della bella apparenza, giacch in entrambi i concetti si sente una contraddizione. D'altro lato essi non collimano per niente con la verit; piuttosto, essi rappresentano un velario della verit, certo pi trasparente della bellezza, ma pur sempre velario. Si pu riconoscere in essi una sorta di inf ramando tra bellezza e verit: e qui possibile una negazione di Dioniso e Apollo. Que-

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sto mondo si manifesta in un gioco con l'ebbrezza, non nell'essere completamente divorati da essa. Nell'attore si riconosce l'uomo dionisiaco, ossia il poeta, il cantore, il danzatore istintivo, ma lo riconosciamo come uomo dionisiaco messo in scena. Di questi l'attore cerca il modello nel sussulto della sublimit o anche nel sussulto del riso: egli va al di l della bellezza e nello stesso tempo non si pu dire che cerchi la verit. Tra l'una e l'altra egli rimane sospeso nel mezzo. Egli non tende alla bella apparenza, ma all'apparenza in quanto tale, e non tende alla verit, ma alla verosimiglianza. (Simbolo, segno della verit.) L'attore naturalmente non era nei primi tempi un singolo: ci che doveva essere rappresentato era la massa dionisiaca, il popolo: di qui il coro ditirambico. Attraverso il gioco con l'ebbrezza, doveva egli stesso, cos come anche il circostante coro degli spettatori, liberarsi per cos dire dall'ebbrezza. Dal punto di vista del mondo apollineo la grecit era da risanare e da espiare: Apollo, il vero dio salvifico ed espiatore, salv l'uomo greco dall'estasi chiaroveggente e dalla nausea per l'esistenza attraverso l'opera d'arte del pensiero tragico e comico. Il nuovo mondo artistico, quello del sublime e del comico, quello della verosimiglianza si fondava su di una concezione del mondo e degli di ben diversa rispetto a quella precedente della bella apparenza. La conoscenza degli orrori e delle assurdit dell'esistenza, dell'ordine distorto e della disposizione irragionevole di tutte le cose, in generale dello smisurato patire in tutta la natura, aveva svelato le figure, cos occultate ad arte, di Moira e delle Erinni, di Medusa e di Gorgona: gli di olimpici vennero a trovarsi nel pi grande pericolo. Nell'opera d'arte tragica e comica essi vennero salvati, in quanto furono anche loro immersi nel mare del sublime e del comico: essi cessarono di essere solo belli, e poterono anzi nutrirsi di quel pi antico universo divino e della sua sublimit. Allora si separarono in due gruppi (solo pochi rimasero sospesi nel mezzo), da una parte le divinit del sublime e dall'altra le divinit del comico. In particolare tra tutti Dioniso accolse in s quella natura ancipite. Due personaggi, ossia Eschilo e Sofocle, mostrano con la maggiore evidenza quale sarebbe di nuovo la vita secondo le categorie dell'epoca tragica della grecit. Il sublime appare a Eschilo, in quanto pensatore, perlopi nella forma della giustizia pi grandiosa. Uomo e dio stanno per lui nella pi stretta comunione soggettiva. Ci che divino, giusto, morale e ci che costituisce la felicit sono per lui intrecciati fino a formare un tutt'uno. La singola creatura, sia uomo o titano, pesata su questa bilancia. Gli di vengono ricostruiti secondo questa norma di giustizia. Cos per esempio la credenza popolare nel demone che acceca e trascina alla colpa un residuo di quel primitivo mondo divino detronizzato dagli di olimpici viene corretta, essendo questo demone fatto diventare uno strumento nella mano di Zeus che punisce-secondo giustizia. L'analogamente primitivo e del pari estraneo agli di olimpici pensiero della maledizione d'un popolo, viene spogliato di tutta la sua rigidit, tant' che in Eschilo non c' alcuna necessit che spinga il singolo al crimine e anzi ciascuno se ne pu sottrarre. . Mentre Eschilo trova il sublime nella sublimit della giustizia olimpica, Sofocle lo vede in modo stupefacente nella sublimit del suo restare impenetrabile. Sempre egli ritorna al punto di vista popolare. Il non meritare un destino atroce gli sembrava sublime, gli enigmi realmente insolubili dell'esistenza umana erano la sua Musa tragica. In lui il dolore raggiunge la sua trasfigurazione; esso concepito come qualcosa di santificante. La

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separazione dell'umano e del divino smisurata; ci vuol dunque la pi profonda sottomissione e rassegnazione. La vera virt la sophrosne, in realt una virt negativa. L'umanit eroica l'umanit pi nobile, senza quella virt; il suo destino attesta quella spaccatura incolmabile. Non si d colpa, ma solo mancanza di conoscenza circa il valore dell'uomo e i suoi limiti. Questo punto di vista comunque pi profondo e pi interiore di quello di Eschilo e si avvicina significativamente alla verit dionisiaca, di cui parla senza mezzi termini e tuttavia qui possibile riconoscere il principio etico di Apollo intessuto con la visione dionisiaca del mondo. In Eschilo la nausea dissolta nel brivido sublime di fronte alla sapienza dell'ordine del mondo, che solo a causa della debolezza dell'uomo difficilmente riconoscibile. In Sofocle questo brivido ancora pi grande perch quella sapienza del tutto impenetrabile. questo il vero atteggiamento della devozione che non conosce il conflitto, l dove l'atteggiamento eschileo proprio di chi ha sempre il compito di giustificare la giustizia divina e perci viene sempre a trovarsi di fronte a nuovi problemi. Il limite dell'uomo, al quale Apollo impone di fare attenzione, per Sofocle riconoscibile, ma pi angusto e ristretto di quel che non fosse agli occhi di tutti nell'epoca apollinea pre-dionisiaca. La mancanza di conoscenza dell'uomo circa se stesso il problema di Sofocle, la mancanza di conoscenza dell'uomo circa gli di quello di Eschilo. Devozione, straordinaria maschera dell'impulso vitale! Abbandono a un compiuto mondo di sogno, che conferir la pi elevata sapienza etica! Evasione dalla verit, per poterla adorare di lontano, nascosta nelle nuvole! Conciliazione con la realt, in quanto enigmatica! Rifiuto dello scioglimento degli enigmi, visto che non siamo di! Prostrazione gioiosa nella polvere, calma felice nell'infelicit! Suprema espropriazione dell'uomo nella sua suprema espressione! Glorificazione e trasfigurazione di tutte le vie dell'orrore e della paura esistenziali come vie che salvano fifa/resistenza! Trionfo della volont nella sua negazione! A questo livello di conoscenza non si danno che due possibilit, quella del santo e quella dell'artista tragico: entrambi hanno in comune il fatto di poter convivere con la pi chiara consapevolezza della nullit dell'esistenza, senza per questo patire una lacerazione nella loro visione del mondo. La nausea per la vita che continua sentita come uno strumento di creazione, sia propria della santit che dell'arte. L'orrido o l'assurdo sono esaltanti, se lo sono solo apparentemente. La potenza dionisiaca dell'incantamento tale anche al culmine di questa visione del mondo: tutto il reale si risolve in apparenza e dietro di essa si d a conoscere la natura unitaria del volere, tutto nascosto nella magnificenza del sapere e del vero e nel loro abbagliante splendore. L'illusione, la follia sono al loro apice. Ora non sembrer pi inconcepibile che la stessa volont, la quale ha dato ordine al mondo ellenico in quanto apollinea, abbia assorbito in s l'altra sua forma di manifestazione, quella dionisiaca. La lotta tra queste due forme di manifestazione della volont aveva uno scopo straordinario, cio creare una pi elevata possibilit di esistenza e con ci pervenire, attraverso l'arte, a una sua pi alta glorificazione. Non pi l'arte dell'apparenza, bens l'arte tragica era la forma della glorificazione: e in essa quell'arte dell'apparenza interamente assorbita. Apollo e Dioniso si sono riuniti. Allo stesso modo che nella vita apollinea ha fatto irruzione l'elemento dionisiaco e come l'apparire si qui consolidato in quanto limite, cos pure l'arte tragico-dionisiaca non pi verit. Quel cantare e quel danzare

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non sono pi istintiva ebbrezza naturale, la massa corale nella sua estasi dionisiaca non pi la massa popolare inconsapevolmente catturata dall'impulso primaverile. La verit ora viene simboleggiata, essa si serve dell'apparenza, essa pu e deve a tal fine utilizzare anche le arti dell'apparire. Gi qui viene alla luce una grande differenza rispetto all'arte precedente ed il fatto di chiamare in aiuto contemporaneamente tutti i mezzi artistici dell'apparenza, con la conseguenza che la statua cammina, i fondali dipinti si spostano e sullo stesso sfondo vengono portati davanti agli occhi ora il tempio ora il palazzo. Si nota dunque nello stesso tempo una certa insensibilit per l'apparenza, la quale deve a questo punto spogliarsi delle sue eterne pretese e delle sue esigenze sovrane. L'apparenza non viene pi fruita direttamente in quanto apparenza, ma in quanto simbolo e cio segno della verit. Di qui l'unione di per s scandalosa dei mezzi artistici. La prova pi chiara di questo non tenere in nessun conto l'apparenza la maschera. Allo spettatore si impone quindi l'esigenza dionisiaca di rappresentarsi tutto nella forma dell'incantamento, di vedere tutto sotto la specie del simbolo, di considerare l'intero mondo visibile della scena e dell'orchestra come il regno del miracolo. Ma dov' la potenza che lo porta a uno stato di fede nel miracoloso, attraverso la quale egli vede tutto come soggetto ad incantamento? Chi vince la potenza dell'apparire e lo riduce a simbolo? la musica. 4. Quel che designiamo come sentimento, definito da una filosofia che segua la via tracciata da Schopenhauer come un complesso di rappresentazioni inconsce e di stati di volont. Del resto ci cui la volont aspira si manifesta come piacere o dolore e rivela in ci solo una differenza quantitativa. Non ci sono tipi diversi di piacere, ma solo gradi e un'infinit di rappresentazioni che l'accompagnano. Con il termine piacere si tratta di intendere il soddisfacimento di una sola volont, con il termine dolore, invece, il suo non soddisfacimento. In che modo il sentimento partecipabile? In parte, ma solo in piccola parte, lo pu essere in termini di pensiero, di rappresentazione cosciente; il che vale, naturalmente, solo per le rappresentazioni che accompagnano il sentimento. Ma anche su questo terreno del sentimento c' sempre un resto irriducibile. Riducibile solo ci che ha a che fare col linguaggio e quindi col concetto: di qui il limite della poesia viene stabilito in relazione alla capacit di esprimere il sentimento. I due altri modi di partecipazione sono decisamente istintivi, senza coscienza e tuttavia tali da agire in vista di uno scopo. Si tratta del linguaggio gestuale e del linguaggio musicale. Il linguaggio gestuale fatto di simboli universalmente comprensibili ed ottenuto in base a movimenti riflessi. Questi simboli sono visibili: gli occhi, che li vedono, trasmettono subito lo stato prodotto e simboleggiato dai gesti: per lo pi anzi colui che vede sente come un'innervazione simpatetica a livello delle stesse parti del viso o delle stesse membra il cui movimento egli percepisce. Simbolo significa qui una figura frammentaria e del tutto incompiuta, un segno allusivo, per la cui comprensione necessario trovare un terreno d'incontro; solo che in questo caso la comprensione generale un che di istintivo, di non penetrato dalla chiarezza della coscienza.

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Che cosa simboleggia allora il gesto di quella realt ancipite che il sentimento? Manifestamente la rappresentazione che l'accompagna, giacch solo essa pu essere accennata attraverso il gesto visibile, incompiuto e frammentario: un'immagine pu essere simboleggiata solo da un'immagine. La pittura e la scultura rappresentano l'uomo nell'atto di compiere un gesto: questo significa ch'esse imitano il simbolo e hanno ottenuto il loro effetto se noi comprendiamo il simbolo. Il piacere del contemplatore consiste nella comprensione del simbolo, bench questo sia apparenza. L'attore invece rappresenta il simbolo realmente, non solo in apparenza: per l'effetto che produce in noi non si basa sulla sua comprensione: noi anzi ci immergiamo nel sentimento simboleggiato e non ci limitiamo al piacere dell'apparenza, non ci appaghiamo della bella apparenza. Cos nel dramma la decorazione non induce il piacere dell'apparenza, piuttosto noi la percepiamo come simbolo e comprendiamo la realt cui il simbolo allude. Pupazzi di cera e piante vere ci appaiono qui, accanto ad altre dipinte a colori vivaci, come perfettamente giustificate, a prova del fatto che noi qui evochiamo nella nostra mente la realt stessa e non un fantasma artificioso. In gioco qui la verosimiglianza, non pi la bellezza. Ma che cos' la bellezza? La rosa bella significa semplicemente: la rosa ha una bella apparenza, essa ha qualcosa di luminoso che piace. Circa la sua essenza non vien detto nulla con ci. Essa piace, essa, in quanto apparenza, suscita piacere: come dire che la volont soddisfatta dal suo apparire e dunque il piacere di esistere ne viene incrementato. Essa cos come appare un'immagine fedele del suo volere: ossia, per usare altre parole: essa corrisponde nella sua apparenza alla determinazione della specie. Tanto pi essa fa questo, tanto pi bella: e qualora corrispondesse nella sua essenza a quella determinazione, sarebbe buona. Un bel quadro significa semplicemente: la rappresentazione che noi abbiamo di un quadro qui esaudita. Quando invece di un quadro diciamo che buono, noi designiamo la nostra rappresentazione di un determinato quadro come corrispondente all'essenza del quadro. Per generalmente per bel quadro si intende un quadro che rappresenta qualcosa di bello: cos almeno giudicano gli incompetenti. Questi gustano la bellezza del soggetto; cos del resto noi dobbiamo gustare le arti figurative nel dramma, salvo che qui il compito non pu essere soltanto quello di rappresentare qualcosa di bello: sufficiente che esso appaia vero. L'oggetto rappresentato dev'essere visto il pi possibile nella sua viva concretezza; esso deve far l'effetto della verit: un'esigenza, di cui stato rivendicato Vopposto da tutte le opere della bella apparenza. Ma quando il gesto simboleggia, del sentimento, le rappresentazioni che l'accompagnano, per mezzo di quale simbolo saranno partecipati e fatti comprendere gli impulsi della volont! Qual qui la mediazione istintiva? La mediazione del suono. Detto pi precisamente, sono i diversi modi del piacere e del dolore senza alcuna delle rappresentazioni che li accompagnano ad esser simboleggiati dal suono. Tutto quel che si pu dire ai fini di una caratterizzazione delie diverse sensazioni di dolore, appartiene alle immagini delle rappresentazioni diVentate chiare attraverso la simbolica del gesto: cos, per esempio, quando di un improvviso sgomento parliamo in termini di colpi, convulsioni, spasimi, fitte, ferite, morsi, pungoli del dolore. Con ci sembrano esprimersi certe forme d'intermittenza della volont, in breve nella simbologia. del linguaggio dei suoni la ritmica. La pienezza delle sfumature della vo-

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lont, la quantit variabile della gioia e del dolore, tutto ci noi lo riconosciamo nella dinamica del suono. Ma la sua essenza pi propria si cela, senza che la si possa esprimere in modo simbolico, nell'armonia. La volont e il suo simbolo l'armonia , l'una e l'altra in fin dei conti logica pura] Mentre la ritmica e la dinamica sono ancora aspetti esteriori della volont che si manifesta attraverso simboli, e quasi hanno ancora il carattere dell'apparenza, l'armonia invece il simbolo della pura essenza della volont. Ne consegue che nella ritmica e nella dinamica l'apparenza singola deve ancora essere caratterizzata come apparenza, e da questo punto di vista si pu sviluppare la musica come arte dell'apparenza. Il resto irriducibile, cio l'armonia, parla della volont, interiormente ed esteriormente a tutte le forme dell'apparenza, e non semplice simbolismo del sentimento bens simbolismo del mondo. Nella sua sfera il concetto del tutto impotente. Ora afferriamo la portata del linguaggio del gesto e del linguaggio del suono per l'opera d'arte dionisiaca. Nel ditirambo delle sagre di primavera che originariamente era proprio del popolo, l'uomo non si esprimeva come individuo bens in quanto esponente della sua specie. Che l'uomo si spogli della sua individualit, ci viene espresso per mezzo del simbolismo dell'occhio, il linguaggio dei gesti, nel fatto che egli parla nei suoi gesti come satiro, come essere naturale tra esseri naturali e particolarmente in un linguaggio dei gesti potenziato ossia nei gesti di danza. Del resto per mezzo del suono egli esprime i pi intimi pensieri della natura: non solo il genio della specie, come nel gesto, ma il genio dell'esistenza in s e cio la volont si fa qui immediatamente comprensibile. Mentre per con il gesto egli rimane entro i confini della specie e cio entro il mondo dell'apparenza, con il suono invece egli dissolve il mondo dell'apparenza nella sua originaria unit e il mondo di Maja si annichilisce di fronte al suo incantesimo. Ma quando l'uomo naturale perviene al simbolismo del suono? Quando il linguaggio del gesto non pi bastante? Quando il suono si fa musica? Anzitutto negli stati pi alti di piacere e di dolore della volont, quando la volont giubilante o stretta nell'angoscia di morte, in una parola nell'ebbrezza del sentimento: nel grido. Quanto pi potente e immediato il grido nei confronti dello sguardo! Ma anche gli stimoli pi deboli della volont hanno il loro simbolismo sonoro: in generale a ogni gesto corrisponde un suono: ed soltanto l'ebbrezza del sentimento a portarlo al livello del puro suono. La fusione pi intima e pi corrente di un determinato tipo di simbolismo gestuale con il suono detta linguaggio. Nella parola, attraverso il tono e la sua sfumatura e attraverso la potenza e il ritmo della modulazione, viene simboleggiata l'essenza della cosa, mentre attraverso i movimenti della bocca viene simboleggiata la rappresentazione che l'accompagna, l'immagine, l'apparenza dell'essenza. I simboli possono e devono essere diversi; essi del resto crescono istintivamente e con grande e sapiente regolarit. Un simbolo designato un concetto: ora, siccome nelle maglie della memoria il suono si perde interamente, nel concetto si conserva solo il simbolo della rappresentazione che l'accompagna. Ci che si pu definire e distinguere, lo si concepisce. Nell'amplificazione del sentimento l'essenza della parola si manifesta pi chiaramente e pi sensibilmente nel simbolo del suono: perci essa risuona pi intensamente. Il recitativo qualcosa come un ritorno alla natura: il simbolo che tende ad usurarsi ripropone qui di nuovo la sua forza originaria.

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Nel discorso, ossia attraverso una catena di simboli, deve venir rappresentato simbolicamente qualcosa di nuovo e di pi grande: con ci la ritmica, la dinamica e l'armonia tornano a essere necessarie. Questa cerchia pi vasta domina ora quella pi angusta della parola singola: si rende necessaria una nuova scelta di parole e una nuova collocazione delle stesse, sicch la poesia comincia. Il recitativo di una frase non qualcosa di simile a una successione di suoni verbali: infatti una parola ha un suono del tutto relativo, poich la sua essenza, il suo contenuto rappresentato per mezzo del simbolo muta a seconda della posizione. In altri termini: a partire dalla pi alta unit della frase e dell'essenza simboleggiata attraverso di essa il simbolo specifico della parola progressivamente determinato in modo nuovo. Una catena di concetti un pensiero: questo anche la pi alta unit delle rappresentazioni che li accompagnano. L'essenza della cosa per il pensiero inattingibile: ma ch'esso agisca su di noi come motivo, come impulso della volont, ci si spiega con il fatto che il pensiero gi diventato nello stesso tempo un simbolo designato per un'apparenza della volont e cio per una sua pulsione o manifestazione. Ma espresso in parole con il simbolismo del suono esso agisce in modo incomparabilmente pi efficace e diretto. Espresso in canto esso perviene al pi alto livello delle sue possibilit quanto il melos il simbolo comprensibile del suo volere: altrimenti, la successione dei suoni ad agire su di noi, mentre la successione delle parole, cio il pensiero, ci rimane lontano e indifferente. Ora, a seconda che la parola debba agire prevalentemente come simbolo della rappresentazione che l'accompagna o come simbolo della pulsione originaria della volont, ossia a seconda che debbano essere simboleggiati sentimenti o immagini, si dipartono due strade di fronte alla poesia, l'epica e la lirica. La prima porta all'arte figurativa, la seconda alla musica: il piacere dell'apparenza domina l'epica, la volont si manifesta nella lirica. Quella si libera dalla musica, questa rimane legata ad essa. Ma nel ditirambo dionisiaco l'entusiasta di Dioniso viene spinto alla pi ampia dilatazione di tutte le sue facolt simboliche: qualcosa di mai sentito irrompe alla superficie, come la soppressione dell'individualo, l'unificazione nel genio della specie e anzi della natura. Ora l'essenza della natura che deve esprimersi: un nuovo universo simbolico necessario, mentre le rappresentazioni relative si fanno simboliche nelle immagini di una natura umana esaltata e vengono rappresentate con la pi alta energia fisica per mezzo dell'intero simbolismo del corpo ossia per mezzo della danza. Per anche il mondo della volont tende a una inaudita espressione simbolica, tanto che le potenze dell'armonia, della dinamica e della ritmica crescono con subitanea violenza. Anche la poesia, gi divisa tra due mondi, raggiunge adesso una nuova dimensione: raggiunge cio nello stesso tempo la sensibilit dell'immagine, come nell'epica, e l'ebbrezza sentimentale del suono, come nella lirica. Per comprendere la totale fusione di tutte queste forze simboliche, occorre quella stessa elevazione esistenziale che le ha create: il seguace ditirambico di Dioniso pu essere compreso solo da chi gli sia perfettamente affine. Perci questo nuovo mondo artistico nella sua sconosciuta e seducente magnificenza si muove tutto, tra lotte terrificanti, entro i confini della grecit apollinea.

Cinque prefazioni per cinque libri non scritti


Alla signora Cosima Wagner in sincero omaggio e come risposta a questioni poste a viva voce e per lettera; scritte con gioia nei giorni di Natale del 1872

1. Sul pathos della verit Davvero la gloria non che il boccone pi squisito del nostro amor proprio? Essa, come brama, certo propria degli uomini pi rari e anzi solo dei loro momenti pi rari. Sono i momenti delle illuminazioni subitanee, nei quali l'uomo stende il braccio imperioso quasi dovesse creare il mondo, attingendo luce da se stesso e irraggiandola intorno a s. Qui lo compenetra la felice certezza che ci che lo innalz e lo tradusse in tanta profondit, cio l'altezza di quell'irripetibile sensazione, non pu essere precluso a nessuna posterit; nell'eterna necessit di queste rare illuminazioni per tutti coloro che verranno, l'uomo riconosce la necessit della sua gloria; l'umanit d'ora in avanti avr bisogno di lui, e come quel momento d'illuminazione costituisce la quintessenza e la totalit della sua natura pi propria, cos egli crede, come uomo capace di tali momenti, d'essere immortale, e quindi si spoglia e abbandona alla caducit tutto il resto, in quanto cascame, marciume, vanit, bestialit, ossia come pleonasma. Qualsiasi cosa che si dissolve e perisce noi l'osserviamo con animo astioso, spesso con senso di stupore, quasi che in ci sperimentassimo qualcosa che in fondo impossibile. Un grande albero si schianta con nostro disappunto e una montagna che frana ci angoscia. Non c' notte di S. Silvestro che non ci faccia sentire la contraddizione tra essere e divenire. Che per un attimo della pi alta pienezza cosmica si spenga come una fugace scintilla, per cos dire senza posterit n retaggio alcuno, ci ferisce nel modo pi violento l'uomo morale. Il suo imperativo piuttosto suona: quel che stato una volta dev'essere eternamente, affinch il concetto uomo si riproduca pi bello. Che i grandi momenti formino una catena, che questa, come una catena di monti, leghi l'umanit attraverso i millenni, che per me quanto vi fu di pi grande nel passato sia ancora grande e che il presentimento della fede nella gloria bramata si compia, ecco il pensiero fondamentale della cultura. Nel bisogno che il grande sia eterno, divampa la terribile lotta della cultura; giacch tutto il resto, che pure vive, risponde no! Ci che abituale, piccolo, comune, ci che riempie tutti gli angoli del mondo come pesante aria terrestre che tutti siamo costretti a respirare, avvolge ci che grande e, facendo impedimento, smorzando, soffocando, offuscando, ingannando, si getta sul cammino che ci che grande deve compiere per giungere all'eternit. un cammino che passa attraverso cervelli umani! Attraverso cervelli, cio, di povere creature che vivono poco, che sono sovrastate dagli stessi bisogni, che sempre di nuovo sono in balia delle stesse necessit e con fatica allontanano da s la rovina per un breve tratto di tempo. Vogliono vivere, vivere in qualche modo ad ogni costo. Chi potrebbe sospettare in loro quella difficile competizione che la corsa con la fiaccola, attraverso la quale soltanto ci che grande pu tramandarsi? Eppure si desta sempre

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qualcuno che, di fronte a questa grandezza, si sente felice come se la vita dell'uomo fosse una cosa magnifica e come se il pi bel frutto di questa pianta amara dovesse consistere nel sapere che una volta passato attraverso questa esistenza un uomo stoico e altero, un altro capace di profondit, un altro di misericordia, e tutti hanno lasciato un unico insegnamento, cio che vive nel modo pi bello quest'esistenza colui che non la tiene in nessun conto. Il fatto che l'uomo comune prende questa spanna di essere in modo cos cupamente serio, mentre quelli, nel loro viaggio verso l'immortalit, seppero portarsi sul piano d'un riso olimpico o almeno d'un sublime sarcasmo; spesso anzi scesero nella tomba con ironia e del resto cosa c'era in loro da sotterrare? Tra questi cavalieri bramosi di gloria i pi audaci, quelli che credono di trovare le loro insegne inscritte in una costellazione, sono da ricercarsi tra i filosofi. La loro opera non rivolta a un pubblico, all'esaltazione delle masse o al plauso entusiastico dei contemporanei; proprio della loro natura invece procedere da soli. La loro dote la pi rara e per un certo verso la pi innaturale in natura, ed inoltre chiusa e ostile nei confronti delle doti dello stesso tipo. Il muro della loro autosufficienza dev'essere adamantino, se non si vuole che sia distrutto e ridotto in frantumi, giacch tutto, uomo e natura, si muove contro di loro. Il loro cammino verso l'immortalit il pi faticoso e il pi irto di ostacoli, e tuttavia nessuno pi del filosofo pu credere di giungere di l alla meta, poich egli non sa dove trovare un sostegno se non sulle ali che si aprono vaste su tutte le epoche; giacch il disprezzo per ci che presente e momentaneo nello stile della riflessione filosofica. Egli si attiene alla verit; la ruota del tempo giri quanto vuole, mai potr distrarlo dalla verit. importante venire a sapere che questi uomini sono realmente vissuti. Mai si potrebbe immaginare, come possibilit del tutto ipotetica, l'orgoglio del saggio Eraclito, che pu servirci da esempio. In effetti qualsiasi tendere alla conoscenza sembra in s, per la sua stessa natura, inappagato e inappagabile; perci nessuno, che gi non sia stato ammaestrato dalla storia, potr credere a una cos regale stima di se stesso, a una cos illimitata persuasione di essere l'unico felice pretendente della verit. Tali uomini vivono nel loro proprio sistema solare; l bisogna cercarli. Anche un Pitagora, un Empedocle tennero se stessi in una considerazione sovrumana, anzi addirittura con un riguardo quasi religioso, e tuttavia il legame della compassione, insieme con la certezza della trasmigrazione delle anime e dell'unit di tutti i viventi, li riportarono agli altri uomini e alla loro salvezza. Quanto invece al sentimento di solitudine che assaliva l'eremita del tempio di Artemide, se ne pu intuire qualcosa di terribile solo nella pi selvaggia desolazione dei monti. Nessun sentimento traboccante di un'esaltata compassione, nessun desiderio di aiutare e di salvare emanava da lui: egli come un corpo celeste nel vuoto. Il suo occhio, ardentemente volto all'interno, guarda verso l'esterno come per finta, velato e freddo. Intorno a lui e direttamente contro il baluardo del suo orgoglio s'infrangono le onde della follia e dell'assurdo; con sdegno lui ne distoglie lo sguardo. Ma anche gli uomini dal cuore sensibile cedono di fronte a una tale larva tragica; in un santuario discosto, tra statue di di e nel quadro di un'architettura fredda e grandiosa che una creatura del genere pu apparire pi comprensibile. Tra gli uomini Eraclito era, come uomo, incredibile; e se in realt lo si poteva vedere quando prestava attenzione al gioco di un gruppo di chiassosi fanciulli, l egli pensava a ci che mai nessun mortale aveva pensato in occa-

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sioni analoghe al gioco del grande fanciullo cosmico Zeus e all'eterno scherzo di una distruzione e creazione del mondo. Degli uomini non aveva bisogno, neppure per quel che riguardava la sua ricerca intellettuale; di tutto quel che si poteva venire a sapere da loro e dagli altri sapienti che prima di lui si erano sforzati di sapere, non gliene importava niente. Io ho cercato e indagato me stesso, era solito dire con un'espressione per mezzo della quale si intende la consultazione di un oracolo; come se lui e nessun altro fosse il vero esecutore e realizzatore di quella sentenza delfica del conosci te stesso. Ma quel che aveva ascoltato da questo oracolo, lo consider come una sapienza immortale e degna di essere interpretata all'infinito, immortale nel senso in cui lo erano le parole profetiche della Sibilla. abbastanza anche per l'umanit pi lontana: la quale potr farsi interpretare solo come se fossero sentenze oracolari quanto egli, come lo stesso dio delfico, n dice n nasconde. E bench da lui le sentenze vengano pronunciate senza sorrisi, n abbellimenti o addolcimenti, ma piuttosto con bocca schiumante, ci deve estendersi anche ai millenni futuri. Infatti il mondo ha eternamente bisogno della verit, e dunque ha eternamente bisogno di Eraclito, anche se lui non ha bisogno del mondo. Cosa gliene importa a lui della sua gloria? La gloria presso i mortali che continuamente trapassano!, com'egli si esprime sdegnosamente. Essa significa qualcosa per cantori e poeti e anche per quegli uomini che prima di lui sono stati conosciuti come sapienti inghiottano pure costoro i bocconi pi squisiti del loro amor proprio, per lui, invece, questo cibo troppo volgare. E agli altri uomini che importa qualcosa della sua gloria, non a lui; il suo amor proprio amore per la verit e appunto questa verit gli dice che l'immortalit dell'uomo ha bisogno di lui, non lui dell'immortalit dell'uomo Eraclito. La verit! Follia esaltata di un dio! Che importa agli uomini della verit? E cos'era la verit di Eraclito? E dove se n' andata? Questo sogno fuggente, cancellato dalle facce degli uomini, insieme con gli altri sogni! E non era il primo! Forse, di tutto ci che noi con una metafora presuntuosa chiamiamo storia universale e verit e gloria, un demone privo di tatto non avrebbe niente da dire se non queste parole:
In un qualche angolo remoto di questo fiammeggiante universo che si estende attraverso un'infinit di sistemi solari, ci fu un tempo un corpo celeste sul quale degli animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Si tratt del minuto pi tracotante e mendace dell'intera storia universale, e tuttavia soltanto d'un minuto. Dopo alcuni sussulti della natura quel corpo celeste si irrigid, e gli animali intelligenti dovettero morire. Ed era tempo: giacch per quanto andassero superbi del loro aver gi molto conosciuto, alla fine con loro grande rincrescimento dovettero arrivare alla conclusione che tutto avevano conosciuto in maniera falsa. Cos morirono, e morendo maledissero la verit. E questa fu la sorte di questi disperati animali, che avevano trovato la conoscenza.

Ecco quale sarebbe il destino dell'uomo, se appunto non fosse altro che un animale capace di conoscenza; la verit lo porterebbe alla disperazione e all'annichilimento; la verit d'essere eternamente condannato alla non verit. Ma all'uomo si addice solo la fede nella verit che si pu raggiungere, nell'illusione cui ci si accosta con fiducia. Non vive l'uomo, propriamente, attraverso un continuo venir ingannato? Non lo tiene la natura all'oscuro di quasi tutto, a cominciare dalle cose che gli sono pi vicine, come per esempio il suo stesso corpo, di cui ha una coscienza quanto mai aleatoria? In questa coscienza egli imprigionato, e la natura ha gettato

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via la chiave. Oh, l'infausta brama di novit del filosofo, il quale pretende di guardar fuori e in basso, attraverso una fessura, dalla chiusa stanza della sua coscienza; forse allora intuisce che l'uomo, nell'indifferenza del suo non sapere e appeso ai sogni come al dorso di una tigre, si basa su ci che avido, insaziabile, ripugnante, senza piet e mortifero. E che stia l appeso, risponde l'arte. Svegliatelo, risponde il filosofo, nel pthos della verit. Eppure lui stesso scivola, mentre crede di destare colui che dorme, in un magico sopore ancor pi profondo il momento in cui forse sogna le idee o l'immortalit. L'arte pi potente della conoscenza, giacch essa vuole la vita, mentre quella raggiunge come ultima meta soltanto l'annichilimento. 2. Riflessioni sul futuro delle nostre scuole Il lettore dal quale io mi aspetto qualcosa deve avere tre qualit. Dev'essere sereno e leggere senza furia. Non deve sempre mettere di mezzo se stesso e la sua formazione. Non pu infine, in conclusione, attendersi, quasi come risultato, delle nuove tabelle. Io non prometto tabelle e nuovi orari per ginnasi e altre scuole, piuttosto mi meraviglia la natura esuberante di quelli che sono in grado di misurare in tutta la sua estensione il cammino che va dal basso della pratica su fino alle altezze dei pi specifici problemi culturali e di nuovo si abbassa ai pi aridi regolamenti e ai pi leziosi piani di studio; contento per d'aver scalato, sia pure con affanno, una bella montagna e di poter godere di lass una vista pi ampia, non posso accontentare in questo libro gli amici delle tabelle. In effetti io vedo venire un tempo nel quale uomini seri, al servizio di una cultura interamente rinnovata e purificata e attraverso un lavoro comunitario, diventeranno anche legislatori dell'educazione di ogni giorno dell'educazione appunto a quella cultura ; verosimilmente essi dovranno allora fare di nuovo tabelle: ma com' lontano quel tempo! E cosa non sar accaduto nel frattempo! Forse tra l'adesso e l'allora ci sta di mezzo la soppressione del ginnasio, forse la stessa soppressione dell'universit, o almeno una cos totale trasformazione di queste scuole che i loro vecchi piani di studio potranno presentarsi agli occhi di chi verr come residui del tempo delle palafitte. Questo libro fatto per lettori sereni, per uomini che non si sono ancora lasciati trascinare dalla furia vertiginosa di questa nostra epoca strepitante e non provano ancora un piacere idolatra nel gettarsi sotto le sue ruote, per uomini dunque che non si sono ancora abituati a valutare ciascuna cosa a seconda del risparmio o della perdita di tempo. Come a dire per pochissimi. Ma questi hanno ancora tempo, questi sono ancora in grado, senza arrossire di se stessi, di mettere insieme i momenti pi ricchi e pi forti della loro giornata per riflettere sul futuro della nostra formazione, questi stessi possono ritenere di arrivare alla sera nel modo veramente pi utile e pi degno, ossia nella meditatio generis futuri. Un uomo del genere non ha ancora disimparato a pensare quando legge, conosce ancora il segreto di leggere tra le righe, e il suo modo d'essere talmente prodigo, che ancora riflette su quel che ha letto magari molto tempo dopo aver deposto il libro. E davvero non per scrivere una recensione o un nuovo libro, ma soltanto cos, per riflettere. Allegro dissipatore! Tu sei il mio lettore, giacch tu sei abbastanza sereno per intrattenerti con l'autore un lungo tratto di strada senza poterne vedere la meta e tuttavia dovendo onestamente credere ad essa, affinch una generazione lontana, forse molto lontana, veda con i suoi occhi l dove noi, ciechi e guidati solo dall'istinto, procediamo a

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tastoni. Se invece il lettore dovesse essere dell'opinione che fosse necessario un agile salto, un gesto spensierato, se egli tutto ci che essenziale lo ritenesse raggiungibile per mezzo di una nuova organizzazione introdotta dallo Stato, allora dovremmo temere che non abbia capito n l'autore n il vero problema. Infine egli deve rispondere alla terza e pi importante esigenza, che consiste nel non frapporre mai in nessun caso secondo quello che il costume dell'uomo moderno l'assillante presenza di se stessi e della propria formazione quasi fosse una misura come se egli possedesse un criterio per tutte le cose. Noi desideriamo che sia abbastanza colto da non tenere in gran conto la sua cultura e anzi da disprezzarla. Allora potrebbe davvero concedersi nel modo pi fiducioso alla guida dell'autore, il quale potrebbe a sua volta arrischiarsi a parlargli proprio e soltanto sulla base della sua ignoranza e della consapevolezza della sua ignoranza. II quale autore, di fronte agli altri, non pretende per s che un forte ed esaltato sentimento di ci che proprio della nostra presente barbarie, ossia di ci che ci designa come i barbari del diciannovesimo secolo. Ora egli va cercando, con questo libro in mano, qualcuno che sia stato spinto qui e l da sentimenti analoghi. Lasciatevi trovare, voi solitari, alla cui esistenza io credo! Voi altruisti, che prendete su voi stessi il dolore per la degenerazione dello spirito tedesco! Voi contemplativi, il cui occhio incapace di scivolare con indagine precipitosa da una superficie all'altra! Voi dall'elevato sentire, di cui Aristotele loda il fatto d'essere riluttanti e inattivi, salvo che un grande onore e una grande opera non vi richiedano! Io parlo a voi. Non rinserratevi, per questa volta soltanto, nella caverna del vostro isolamento e della vostra diffidenza. Fate conto che il libro sia destinato a voi, sia il vostro araldo. Se voi stessi vi fate avanti sul campo di battaglia nella vostra armatura, chi vorr ancora volgersi all'araldo che vi ha chiamati? 3. Lo Stato greco Noi moderni a differenza dei Greci abbiamo due concetti che in un certo senso sono dati come palliativi a un mondo che sembra proprio un mondo di schiavi e che tuttavia evita timorosamente la parola schiavo: mi riferisco alla dignit dell'uomo e alla dignit del lavoro. tutto un affannarsi per perpetuare miserabilmente una vita miserabile; questa spaventosa necessit induce ad un lavoro divorante, che l'uomo o pi esattamente l'intelletto umano sedotto dalla volont contempla come qualcosa di assolutamente degno. Ma perch il lavoro possa rivendicare titoli onorifici, bisognerebbe prima di tutto che l'esistenza stessa, di fronte alla quale il lavoro non che un crudele strumento, possedesse maggiore dignit e valore di quanto non sia apparso finora alle filosofie e alle religioni prese sul serio. Nella necessit di lavorare di tutte le miriadi di uomini, che cosa possiamo mai trovare se non l'impulso a sopravvivere a tutti i costi, quello stesso impulso onnipotente in base al quale le piante pi rinsecchite penetrano con le loro radici nella roccia priva di terra? Da questa atroce lotta per l'esistenza possono emergere soltanto quegli individui che si lasciano senz'altro riplasmare dalle nobili chimere della cultura artistica, in modo da non pervenire a quel pessimismo pratico che la natura detesta come del tutto contrario ad essa. Nel mondo moderno, il quale, paragonato a quello greco, sembra per lo pi produrre abnormit e centauri, e nel quale l'individuo come quella creatura fantastica che s'incontra nell'introduzione alla poetica oraziana pittorescamente composto

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di pezzi diversi, spesso in uno stesso uomo si mostrano insieme la brama della lotta per l'esistenza e quella del bisogno artistico: e da questa innaturale commistione vien fuori la necessit di giustificare e di consacrare quella prima brama di fronte al bisogno artistico. Ecco perch si crede alla dignit dell'uomo e alla dignit del lavoro. I Greci non hanno bisogno di tali allucinazioni concettuali, tra loro si dice con una schiettezza spaventosa che il lavoro una vergogna e una sapienza, che si esprimeva in maniera pi nascosta e rara ma viva ovunque, arriv addirittura a dire che anche tutto ci che riguarda l'uomo uno spregevole e miserabile niente, il sogno di un'ombra. Il lavoro una vergogna, visto che l'esistenza di per s non ha nessun valore: eppure quando questa esistenza rifulge dell'affascinante ornamento delle seduzioni artistiche e sembra allora avere veramente un valore di per s, nonostante tutto vale ancora la tesi per cui il lavoro una vergogna e vale nel sentimento dell'impossibilit che l'uomo che lotta per la pura sopravvivenza sia un artista. Nei tempi moderni non l'uomo che ha bisogno dell'arte, ma lo schiavo a determinare le idee generali: colui che per poter vivere deve, in conformit della sua natura, definire tutte le sue relazioni con termini ingannevoli. Fantasmi come quelli della dignit dell'uomo o della dignit del lavoro sono i frutti striminziti di una schiavit che nasconde se stessa ai propri occhi. Tempo infelice, quello in cui lo schiavo ha bisogno di tali concetti e in cui sollecitato a riflettere su di s e al di l di s! Infelici seduttori, quelli che hanno dissolto lo stato di innocenza dello schiavo per mezzo del frutto dell'albero della conoscenza! Egli ora deve trascinarsi da un giorno all'altro con tali evidenti menzogne, riconoscibili da chiunque abbia la capacit di vedere a fondo nella presunta uguaglianza universale o nei cosiddetti diritti fondamentali dell'uomo, dell'uomo in quanto tale, o nella dignit del lavoro. Egli non pu di certo concepire a quale livello e a quale altezza anche solo approssimativamente si possa parlare di dignit, cio propriamente dove l'individuo procede del tutto al di l di se stesso e non pi costretto a lavorare e a produrre al servizio della sua sopravvivenza individuale. E proprio a questa altezza di lavoro, talvolta i Greci sono assaliti da un sentimento in tutto simile alla vergogna. Plutarco dice in qualche luogo, con istinto da antico greco, che a nessun giovane aristocratico verrebbe voglia, contemplando lo Zeus di Pisa, di diventare un Fidia, cos come non gli verrebbe voglia di diventare un Policleto, guardando la Era di Argo: e altrettanto poco desidererebbe di essere un Anacreonte o un Fileta oppure un Archiloco, per quanto si sia entusiasmato alle loro poesie. Il fatto che anche il creare artistico cade per il greco sotto il disonorevole concetto di lavoro, allo stesso modo che qualsiasi meschina opera manuale. Ma quando in lui si fa sentire la forza cogente dell'impulso artistico, allora egli deve creare e sottomettersi a quella necessit del lavoro. E come un padre ammira la bellezza e le doti del proprio figlio, e tuttavia pensa con riluttanza all'atto della sua procreazione, cos era per i greci. Lo stupore pieno di felicit di fronte al bello non lo ha accecato riguardo al modo del suo prodursi che gli appariva, come ogni produzione della natura, alla stregua di un bisogno prepotente, di una forte tensione verso l'esistenza. Lo stesso sentimento, in base al quale il processo generativo era trattato come qualcosa di vergognoso e da nascondersi, bench l'uomo l servisse a uno scopo pi alto che non la sua conservazione individuale, lo stesso sentimento velava anche la nascita delle grandi opere d'arte, nonostante che per mezzo di queste si inaugurasse una pi alta forma di esistenza, come per mezzo di

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quell'atto una nuova generazione. La vergogna perci sembra inserirsi l dove l'uomo ancora soltanto uno strumento di manifestazioni della volont che sono infinitamente pi grandi di quanto egli non possa mai essere nella figura singola dell'individuo. E cos abbiamo ora il concetto generale sotto cui bisogna ordinare i sentimenti che i greci nutrivano a proposito di lavoro e schiavit. L'una e l'altra cosa valeva per loro come una necessaria ignominia, di fronte alla quale si prova vergogna, essendo nello stesso tempo una necessit e un'ignominia. In questo sentimento di vergogna si nasconde l'inconscio sapere che quello che lo scopo vero e proprio ha bisogno di quelle premesse, ma che proprio in quel bisogno c' l'elemento orrido e ferocemente animalesco della Sfinge natura, che esibisce il suo corpo verginale nella glorificazione della libera vita artistica della cultura. La cultura, che anzitutto reale bisogno d'arte, giace su di un fondamento terrificante: e questo si d a conoscere nel vago sentimento della vergogna. Affinch si dia un terreno vasto, profondo e fertile per uno sviluppo dell'arte, necessario che la stragrande maggioranza sia al servizio della minoranza e che sia fatta schiava dei bisogni vitali, ben oltre la misura della sua indigenza individuale. A sue spese e attraverso il suo superlavoro quella classe privilegiata dev'essere sottratta alla lotta per l'esistenza, per produrre un nuovo mondo di bisogni e per soddisfarli. Analogamente dobbiamo intenderci sul fatto che, come verit amara, bisogna ammettere che la schiavit appartiene all'essenza di una cultura: una verit che certamente non lascia pi nessun dubbio circa il valore assoluto dell'esistenza. Essa l'avvoltoio che rode il fegato al fautore prometeico della cultura. La pena degli uomini che vivono di fatica dev'essere ancora accresciuta, per rendere possibile a una piccola schiera di uomini olimpici la produzione del mondo dell'arte. Qui sta l'origine di quel risentimento che i comunisti, i socialisti e anche i loro pi sbiaditi epigoni, la pallida razza dei liberali, hanno nutrito in ogni epoca contro le arti e anche contro l'antichit classica. Se davvero la cultura dovesse fare affidamento sulla comprensione del popolo, se qui non fossero in gioco forze inevitabili, che per il singolo sono legge e ostacolo, allora il disprezzo della cultura, la glorificazione della povert di spirito, la negazione iconoclastica delle esigenze artistiche sarebbero qualcosa di pi della rivolta della massa oppressa contro dei parassiti: sarebbe il grido della compassione a rovesciare le pareti della cultura; la tensione verso la giustizia e verso una proporzionata partecipazione al dolore travolgerebbe tutte le altre rappresentazioni. Effettivamente per breve tempo e in luoghi diversi un'onda straripante di compassione ha spezzato tutti gli argini della vita culturale; un arcobaleno di amore misericordioso e di pace apparso tra i primi bagliori del cristianesimo, e sotto di esso maturato il suo pi bel frutto, il Vangelo di Giovanni. Si danno per-anche molti esempi di grandi religioni che per un lungo periodo pietrificano un determinato livello culturale e recidono con una falce crudele tutto ci che vuole ancora crescere forte. E infatti una cosa non si deve dimenticare: la stessa crudelt che noi troviamo nell'essenza di ogni cultura, anche nell'essenza di ogni religione potente e in generale nella natura della potenza, che sempre cattiva; sicch analogamente facile capire quando una cultura con il suo grido di libert o per lo meno di giustizia spezza il troppo alto bastione dell'esigenza religiosa. Ci che in questo atroce ordine di cose vuol vivere e cio deve vivere, nel fondamento della sua essenza immagine del dolore originario e della contraddizione originaria, sicch non pu non essere colto da queirorga-

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no conforme al mondo e alla terra che la nostra vista come brama insaziabile di essere ed eterna autocontraddizione nella forma del tempo, cio come divenire. Ogni attimo inghiotte quello che l'ha preceduto, ogni nascita la morte d'un'infinit di creature; procreare e vivere e uccidere sono una cosa sola. Perci noi possiamo anche paragonare la grande cultura a un vincitore grondante sangue che nel suo corteo trionfale trascina come schiavi i vinti legati al suo carro: e questi una forza caritatevole li ha accecati, cosicch essi, quasi schiacciati dalle ruote del carro, tuttavia esclamano ancora: dignit del lavoro!, dignit dell'uomo!. La cultura, come una lasciva Cleopatra, continua a gettare le sue perle pi preziose nel suo calice dorato: perle, queste, che sono le lacrime della compassione per lo schiavo e per la sua miserabile condizione. dalla bolsaggine dell'uomo moderno che sorto l'enorme stato di crisi sociale del presente, non da vera e profonda piet per quella miserabile condizione; e se fu vero che i Greci si persero per via della loro schiavit, ancor pi vero che noi ci perderemo per via della nostra mancanza di schiavit: la quale non urt in alcun modo n il cristianesimo delle origini n il germanesimo, e tantomeno sembr loro riprovevole. Come ci di sollievo la considerazione dei servi della gleba medievali, con i loro rapporti giuridici e di costume, ordinati gerarchicamente, intimamente forti e delicati, e con il triste ambito della loro angusta esistenza come ci di sollievo, e come ci di monito! Ora, chi non pu riflettere sulla configurazione della societ senza malinconia, chi ha imparato a concepirla come il parto doloroso e progressivo di quegli uomini di cultura di cui s' detto, al cui servizio tutto il resto deve piegarsi, costui non si lascer pi ingannare da quel falso splendore di cui i moderni hanno soffuso il significato e l'origine dello Stato. Che cosa pu infatti significare per noi lo Stato, se non lo strumento con cui attivare il processo sociale sopra descritto e con cui garantirne una durata irrefrenabile? Fosse pure ancora cos forte nei singoli uomini l'impulso alla socievolezza, soltanto la morsa d'acciaio dello Stato a tenere talmente unite le grandi masse, che ormai una tale composizione chimica della societ, con la sua nuova costruzione piramidale, dovr durare. Ma da dove vien fuori questa subitanea forza dello Stato, il cui scopo va ben oltre la prospettiva e l'egoismo del singolo? Come sorto lo schiavo, la cieca talpa della cultura? Ce l'hanno rivelato i Greci, con il loro istinto per il diritto dei popoli, il quale anche nella pienezza della loro civilt e della loro umanit non ha cessato di pronunciare con labbra di bronzo parole come queste: al vincitore che appartiene il vinto, con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni e il suo sangue. La violenza il primo fondamento del diritto, e non c' diritto che, nel suo fondamento, non sia tracotanza, usurpazione, prepotenza. Qui noi osserviamo nuovamente con quale impietosa inflessibilit la natura, per giungere alla societ, si forgi il crudele artificio dello Stato ossia di quel conquistatore dal pugno di ferro che non se non l'oggettivazione dell'istinto di cui s' detto. Di fronte all'indefinibile grandezza e potenza di quei conquistatori l'osservatore si avvede che si tratta soltanto di mezzi in vista d'un'intenzione che in loro si manifesta e tuttavia si nasconde ai loro occhi. come se da essi sortisse un volere magico, tanto rapidamente e enigmaticamente si stringono ad essi le forze pi deboli e si trasformano mirabilmente per l'improvviso gonfiarsi di quella slavina di violenza sotto l'incantamento di quel nucleo creativo, in un'affinit fino a quel momento disconosciuta. Se ora noi osserviamo quanto poco si inquietano per quell'atroce origine dello Stato coloro che vi sono sottomessi, sicch a ben vedere non ci sono

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in alcun modo avvenimenti su cui la storia ci ammaestri peggio che sul configurarsi di quelle usurpazioni improvvise, violente, sanguinose e per lo meno su di un punto inspiegabili; se piuttosto noi vediamo come i cuori senza volerlo si schiudano alla magia dello Stato in divenire, con il presentimento d'un'intenzione invisibile e profonda l dove l'intelletto calcolatore capace di scorgere soltanto un'addizione di forze; se pensiamo che ora lo Stato con ardore considerato addirittura come se fosse lo scopo e l'apice dei sacrifici e dei doveri dei singoli: allora da tutto ci emerge la sterminata necessit dello Stato, senza la quale alla natura non sarebbe concesso di pervenire, attraverso la societ, alla propria redenzione, nell'apparenza, nello specchio del genio. Quante conoscenze possono essere superate dall'istintivo piacere dello Stato! Eppure si dovrebbe pensare che chi ha guardato a fondo in quella che l'origine dello Stato, d'ora in avanti cercher la sua salvezza solo nell'allontanarsene disgustato; dove, del resto, non si vedono monumenti di questa sua origine, terre devastate, citt rase al suolo, uomini rinselvatichiti, odio feroce tra i popoli? Lo Stato, dall'origine ignominiosa, fonte straripante di angoscia per la maggior parte degli uomini, fiamma divorante del genere umano in epoche spesso ricorrenti e tuttavia un'eco che ci fa dimenticare di noi stessi, un grido di guerra che ha ispirato infinite azioni veramente eroiche, forse l'oggetto pi alto e degno d'onore per la massa cieca ed egoistica, la quale soltanto nei momenti eccezionali della vita dello Stato reca sul volto una singolare espressione di grandezza! Per noi gi a priori dobbiamo figurarci i Greci come uomini politici in s, in riferimento alla loro arte d'un'altezza e d'un'unicit solari; e in effetti la storia non conosce un altro esempio d'una cos terribile esplosione dell'impulso politico e di un cos incondizionato sacrificio di tutti gli altri interessi al servizio di questo istinto dello Stato a meno che non si voglia designare con lo stesso titolo, per analogia e su basi simili, gli uomini del rinascimento italiano. Quell'impulso presso i Greci cos prepotente, ch'esso sempre di nuovo ricomincia a infierire contro se stesso e pianta i denti nella propria carne. Questa rivalit sanguinosa di una citt contro l'altra, di un partito contro l'altro, questa brama omicida di tutte quelle piccole guerre con quel trionfo da tigri sul cadavere del nemico atterrato, in breve il rinnovarsi senza fine di quelle scene troiane di battaglie e di atrocit nella cui contemplazione Omero da autentico greco si immerge pieno di piacere, questa ingenua barbarie dello Stato greco che cosa mai significa e donde trae giustificazione davanti al tribunale della giustizia eterna? Orgoglioso e sereno si fa avanti dinanzi ad esso lo Stato e conduce per mano una magnifica donna fiorente, la societ greca. Per questa Elena esso ha fatto tutte quelle guerre e quale canuto giudice potrebbe in tal caso condannarlo? In questa relazione misteriosa, che qui noi presentiamo, tra Stato e arte, brama politica e produzione artistica, campo di battaglia e opera d'arte, come gi osservato, lo Stato si d a conoscere soltanto per quella morsa di ferro che tiene sotto controllo il processo di formazione della societ: del resto senza Stato, nel naturale bellum omnium contro omnes, la societ in generale non pu penetrare con le sue radici in una vasta area e comunque non al di l del dominio della famiglia. Ora, dopo che la formazione degli Stati si generalmente diffusa, quella tendenza del bellum omnium contro omnes si concentra nelle nubi delle atroci guerre dei popoli di tanto in tanto e si abbatte per cos dire in pi radi ma ben pi forti tuoni e fulmini. Nelle pause dato tempo alla societ, sotto l'effetto concentrato e rivolto all'interno di quel bellum, di germinare e di verdeggiare ovunque, cos che

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non appena si danno giorni pi caldi, i fiori del genio possono sbocciare splendidamente. Rispetto al mondo politico dei Greci, non voglio nascondere in quali fenomeni del presente credo di riconoscere gravi forme degenerative della sfera politica, pericolose sia per l'arte sia per la societ. Se devono esserci uomini che per la loro stessa nascita sono sottratti per cos dire agli istinti del popolo e dello Stato, e che perci ammettono lo Stato solo a misura che possono comprenderlo nel loro stesso interesse: allora uomini del genere si rappresenteranno necessariamente come scopo supremo dello Stato una coesistenza il pi possibile indisturbata di grandi comunit politiche, nelle quali fosse loro concesso di perseguire i propri progetti senza condizionamenti. Con questa idea in merito essi promuoveranno la politica che offra ai loro progetti la massima sicurezza, mentre impensabile ch'essi, contro i loro progetti e guidati da una sorta di istinto inconscio, debbano offrirsi in sacrificio a ci cui tende lo Stato; impensabile dal momento ch'essi appunto non hanno quell'istinto. Tutti gli altri cittadini sono all'oscuro di ci che la natura persegue in essi con quel loro istinto dello Stato e seguono ciecamente; soltanto coloro che stanno al di fuori di questo istinto sanno quel che vogliono dallo Stato e quel che lo Stato deve garantire loro. Perci senz'altro inevitabile che tali uomini esercitino grande influenza sullo Stato, perch essi sono in grado di trattarlo come mezzo, mentre tutti gli altri, sottoposti alla potenza di quell'inconscia intenzione dello Stato stesso, non sono che mezzi in vista dello scopo che lo Stato si prefigge. Quindi per soddisfare per mezzo dello Stato la pi alta esigenza dei propri scopi egoistici, anzitutto necessario che lo Stato venga liberato da quegli atroci e non prevedibili spasimi della guerra, in modo che se ne possa dare un uso razionale; e in modo che essi possano tendere, quanto pi coscientemente possibile, a una situazione in cui la guerra impossibile. A questo proposito si tratta anzitutto di troncare e di depotenziare il pi possibile gli impulsi politici particolari e, attraverso la costituzione di grandi corpi statali equilibrati e di reciproche garanzie, di rendere il pi possibile inverosimile l'esito favorevole di una guerra di aggressione e quindi la guerra stessa: d'altra parte essi cercano di sottrarre la questione della guerra e della pace alla decisione dei singoli che detengono il potere per appellarsi piuttosto all'egoismo della massa o dei suoi rappresentanti: perci essi devono di nuovo dissolvere lentamente gli istinti monarchici dei popoli. A questo scopo essi corrispondono tramite la diffusione universale della concezione del mondo liberale e ottimistica, la quale ha le sue radici nelle dottrine dell'illuminismo francese e della rivoluzione, cio in una filosofia assolutamente non germanica, tipicamente latina, piatta e antimetafisica. Nel presente e dominante movimento delle nazionalit e nella contemporanea diffusione del suffragio universale non posso fare a meno di vedere anzitutto gli effetti della paura della guerra; e, sullo sfondo di questi movimenti, non posso anzi fare a meno di scorgere come i veramente timorosi della guerra quei solitari del denaro davvero internazionali e senza patria, i quali, in virt della loro naturale mancanza di istinto statale, hanno imparato a sfruttare la politica come strumento della borsa e lo Stato e la societ come apparato di arricchimento personale. Contro la diversione, che per questo verso da temere, dalla tendenza dello Stato alla tendenza del denaro, l'unico rimedio la guerra, nuovamente la guerra: nel cui sollevamento per lo meno diventa molto chiaro che lo Stato non fondato sulla paura del demone della guerra, quasi organismo di difesa di egoistici individui, ma produce piuttosto nell'amore per la patria e per i princpi uno slancio etico che

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si riferisce a un destino molto pi elevato. Se dunque io designo come caratteristica pericolosa del nostro modo di far politica l'utilizzazione dei pensieri della rivoluzione al servizio di una aristocrazia del denaro egoistica e priva di senso dello Stato, se io concepisco nello stesso tempo l'enorme diffusione dell'ottimismo liberale come risultato di una moderna economia del denaro tutta nelle mani di pochi, e se io vedo tutto il male della situazione sociale, insieme con la necessaria decadenza dell'arte, o come sorta da quella radice o come concresciuta con essa: allora mi si terr per buono il mio occasionale peana intonato alla guerra. Terribile risuona il suo arco d'argento: e anche se sopraggiunge come la notte, tuttavia Apollo, il vero dio della consacrazione e della purificazione dello Stato. Ma anzitutto, come sta scritto all'inizio del'Iliade, egli scaglia il dardo contro i muli e i cani. Subito per colpisce anche gli uomini, e dappertutto cataste di legna ardono con sopra cadaveri. Sia perci chiaro che la guerra una necessit per lo Stato cos come lo schiavo lo per la societ: e chi potr mai sottrarsi a queste conoscenze, non appena si interroghi onestamente sulle ragioni dell'insuperata perfezione dell'arte greca? Chi consideri la guerra e la sua possibilit in divisa, cio la classe dei soldati, in rapporto alla fin qui tratteggiata essenza dello Stato, deve convincersi che attraverso la figura della guerra e della classe dei soldati ci vien posta davanti agli occhi un'immagine o forse addirittura l'archetipo dello Stato. Qui noi vediamo, come effetto pi generale della tendenza alla guerra, una immediata divisione e un immediato smembramento della massa caotica in caste militari, dalle quali si eleva la costruzione della societ guerriera, a forma di piramide basata su di un infimo e vastissimo strato di schiavi. L'inconscio scopo dell'intero movimento costringe ciascun individuo sotto il suo giogo e produce anche in nature eterogenee una sorta di trasformazione chimica delle loro propriet, finch esse non vengono rese congeniali a quel fine. Nelle caste superiori si intuisce gi di pi ci di cui in fondo si tratta in questo processo interno, ossia della produzione del genio militare che noi gi abbiamo imparato a conoscere come il fondamento originario dello Stato. In alcuni Stati, come per esempio nella legislazione spartana di Licurgo, si pu percepire con chiarezza l'impronta dell'idea fondamentale dello Stato, cio appunto la produzione del genio militare. Se ora noi pensiamo all'originario Stato militare nella sua intensissima attivit e nel suo specifico lavoro e ci portiamo davanti agli occhi l'intera tecnica della guerra, non potremo fare a meno di correggere i nostri concetti, sorbiti da ogni parte, circa la dignit dell'uomo e la dignit del lavoro, e ci attraverso la questione se il concetto di dignit spetti anche a quel lavoro che ha come scopo la negazione dell'uomo pieno di dignit e anche a quell'uomo che si occupa di quel lavoro pieno di dignit, oppure se in questo compito guerriero dello Stato tali concetti non si sopprimano l'un l'altro, eome vicendevolmente contraddittori. Io devo pensare che l'uomo di guerra sia uno strumento del genio militare, cos come anche il suo lavoro; e che a lui, non in quanto uomo in assoluto e non genio, ma in quanto strumento del genio che pu anche gradire la sua soppressione come strumento dell'opera d'arte guerriera convenga un grado di dignit, e cio quella dignit di essere apprezzato come strumento del genio. Ma ci che qui proposto in un singolo esempio, vale anche nel senso pi generale: ciascun uomo, considerato nella globalit del suo agire, ha dignit solo in quanto, Io sappia o no, strumento del genio, dal che si deve trarre subito la conseguenza etica che l'uomo in s, l'uomo in assoluto, non possiede n dignit, n diritti, n doveri: solo come essere intera-

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mente condizionato e al servizio di fini inconsapevoli, l'uomo, pu giustificare la sua esistenza. Lo Stato perfetto di Platone sulla base di queste osservazioni certamente qualcosa di ancor pi grande di quanto credono i pi accesi tra i suoi sostenitori, per non parlare dell'ironica espressione di superiorit con cui i nostri intellettuali storicisti sanno mettere da parte un tale frutto dell'antichit. L'autentico fine dello Stato, l'esistenza olimpica e la sempre rinnovata generazione e preparazione del genio, a fronte della quale tutto il resto non che strumento, sussidio e condizione, qui trovato con una intuizione poetica e vigorosamente dipinto. Platone penetr con lo sguardo nell'Erma orrendamente devastata della vita statale di allora e colse nel suo intimo ancora qualcosa di divino. Egli perci credette che si potesse ancora tirar fuori quest'immagine divina e che il lato esteriore, crudamente e barbaramente distorto, non appartenesse all'essenza dello Stato: tutta l'esaltazione e la sublimit della sua passione politica si buttarono su quella fede, su quel desiderio e di quella vampa arse. Che egli nel suo Stato perfetto non abbia posto alla sommit il genio nel suo concetto generale ma soltanto il genio della sapienza e della conoscenza, ch'egli anzi abbia in generale bandito dal suo Stato l'artista geniale, ci fu una rigida conseguenza del giudizio socratico sull'arte, che Platone, in lotta con se stesso, aveva fatto suo. Questa lacuna piuttosto estrinseca e quasi casuale non ci deve impedire di riconoscere, nella concezione generale dello Stato in Platone, il geroglifico straordinariamente grande di una profonda e ancora tutta da interpretare dottrina segreta della connessione tra Stato e genio: ci che noi di questa dottrina segreta abbiamo creduto di intuire, l'abbiamo detto in questa prefazione. 4. Il rapporto della filosofia schopenhaueriana con una certa cultura tedesca Nella cara e infame Germania, la cultura cos decaduta da finir sulle strade, l'invidia per tutte le cose grandi regna cos spudoratamente e Io strepito di tutti coloro che corrono verso la felicit risuona in modo cos rintronante, che si deve possedere una fede ben robusta, quasi nel senso del credo quia absurdum est, per sperare ancora in un futuro della cultura e per poter ancora prima di tutto lavorare per essa insegnando pubblicamente in antitesi alla opinione pubblica della stampa. Coloro cui sta a cuore l'immortale zelo per il popolo, si devono liberare con la forza dalle incalzanti impressioni di ci che proprio ora presente e ha valore e devono far mostra di tenere tutto ci nel conto delle cose indifferenti. Devono far questo perch vogliono pensare e perch una visione ripugnante e un rumore confuso e mischiato ai suoni di tromba della gloria guerriera turba il loro pensiero, ma soprattutto perch essi vogliono credere nella germanit, e, perdendo con questa fede perderebbero anche le loro forze. Non vi irritino questi fedeli, quando molto di lontano e dall'alto in basso guardano alla terra delle loro promesse! Essi hanno paura di quelle esperienze cui si abbandona il benevolo straniero, quando vivendo tra tedeschi si meraviglia di quanto poco la vita ora in Germania corrisponda a quelle grandi individualit, opere e gesti che nella sua benevolenza aveva imparato a onorare come specificamente tedeschi. Dove il tedesco non pu innalzarsi alle cose grandi, egli d di s un'immagine poco meno che mediocre. La stessa famosa scienza tedesca, nella quale molte delle pi utili virt domestiche e familiari, ossia fedelt, autodisciplina, diligenza, modestia, politezza ap-

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paiono tradotte in una atmosfera pi libera e come trasfigurate, non peraltro in alcun modo il risultato di queste virt; visto da vicino, il motivo della spinta verso un conoscere illimitato, in Germania sembra piuttosto una mancanza, un difetto, una lacuna, che non uno straripare di forze, quasi l'effetto di una vita fiacca, povera e informe e anzi un'evasione di fronte alla meschineria e alla malvagit, di cui il tedesco senza tali diversioni sarebbe preda e che in ogni caso, nonostante la scienza, proprio nella scienza emergono ripetutamente. Quanto alla disciplina, nel vivere come nel conoscere e nel giudicare, i tedeschi si danno a conoscere come autentici virtuosi del filisteismo; ma se qualcuno vuole innalzarli al di sopra di loro stessi verso il sublime, allora si fanno pesanti come il piombo, e appunto come pesi di piombo si appendono ai loro veri grandi, per tirarli gi dall'etere verso di loro e verso la loro miseranda miseria. Pu darsi che questa giovialit di tipo filisteo non sia che una degenerazione di virt autenticamente tedesche una sorta di immersione nell'intimo di ci che singolo, piccolo, prossimo e nei misteri dell'individuo ma questa virt avvizzita oggi pi trista del vizio pi sbandierato; e ci in particolare da quando di questa propriet si preso allegramente coscienza, fino all'autoglorificazione letteraria. Ora gli intellettuali, tra i tedeschi notoriamente molto colti, e i filistei, tra i tedeschi notoriamente molto incolti, si danno apertamente la mano e stringono un patto gli uni gli altri sul come, d'ora in avanti, scrivere, poetare, dipingere, far musica e addirittura filosofare e, perch no, governare, per non star troppo lontani dalla cultura degli uni e per non avvicinarsi troppo alla giovialit degli altri. Questo ora lo si chiama la cultura tedesca di oggi. Al che ci sarebbe soltanto pi da chiedersi, da quale segno riconoscibile quell'intellettuale, dal momento che noi sappiamo che il suo fratello di latte, il filisteo tedesco, senza vergogna, quasi avesse perduto l'innocenza, si d a conoscere come tale in giro per il mondo. L'intellettuale oggi ha anzitutto una cultura storica: attraverso la sua coscienza storica egli si sottrae al sublime; cosa che al filisteo possibile mediante la sua giovialit. Non pi l'entusiasmo, che la storia suscita come ancora Goethe poteva pensare ma precisamente lo spegnimento di ogni entusiasmo ora il fine di questi ammiratori del nil admirar, quando cercano di comprendere tutto storicamente; ma a loro bisogna rispondere: Siete voi i matti di tutti i secoli! La storia vi far solo quelle confessioni che sono degne di voi! In ogni tempo il mondo fu pieno di banalit e di quisquilie: appunto queste e soltanto queste si sveleranno alla vostra cupidigia storica. Potete precipitarvi a migliaia sopra una determinata epoca resterete affamati come prima e gloriosi d'una salute che consiste nella fame. lllam ipsam quam iactant sanitatem non firmitate sed ieiunio consequuntur. (Dial. de orator., e. 25.) Tutto ci che essenziale la storia non ha voluto rivelarvelo, ponendosi piuttosto, senza essere vista, accanto a voi e deridendovi, col mettere nelle mani dell'uno un'azione politica, in quelle dell'altro una relazione diplomatica, in quelle di un altro ancora una data o un'etimologia o una ragnatela di fatti. Credete voi davvero di potere fare i conti con la storia come se si trattasse di fare un'addizione e a questo proposito voi tenete abbastanza per buona la vostra piatta intelligenza e la vostra cultura matematica? Come dev'essere seccante per voi sentire che altri parlano di cose, tratte da periodi storici noti a tutti, ma che voi non riuscirete assolutamente mai a concepire. Quando poi a questa cultura vuota d'ogni ispirazione che si chiama storica e a quel filisteismo astioso e nemico di ogni cosa grande si unisce an-

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che quella terza compagnia brutale ed esaltata la compagnia di quelli che rincorrono la felicit ecco allora in swnma un gridare cos confuso e un tumulto cos capace di storcere le membra che il pensatore con gli orecchi tappati e gli occhi chiusi se ne fugge nel deserto pi solitario, l deve pu vedere ci che quelli non potranno mai vedere, ci che risuona a lui dalle profondit della natura e dalle stelle. Qui egli si confronta con i grandi problemi che gli vagano appresso, le cui voci hanno un tono tanto terribile e privo di giovialit quanto eterno e antistorico. L'effeminato ricacciato indietro dal loro freddo respiro, mentre il calcolatore passa in mezzo a loro senza coglierne la presenza. Per con l'intellettuale che le cose vanno nel modo peggiore, quando costui si aggira intorno a questi problemi, a suo modo, con impegno e seriet. Per lui questi fantasmi si trasformano in grovigli di concetti e in vuote figure sonore. Inseguendoli per afferrarli egli crede di tenere in pugno la filosofia e cercandoli si arrampica su per la cosiddetta storia della filosofia e quando infine ha raccolto e accatastato un'intera nuvola di astrazioni e di nozioni, gli pu accadere che un vero pensatore gli si pari davanti sulla strada e faccia piazza pulita di tutto ci. Veramente un brutto affare, occuparsi di filosofia da intellettuale. Di tanto in tanto si convince che diventato possibile l'impossibile legame della filosofia con ci che ora si vanta d'essere la cultura tedesca; una sorta di creatura ibrida si gingilla e strizza l'occhio tra le due sfere e da una parte e dall'altra confonde la fantasia. Ma per intanto ai tedeschi che non vogliono lasciarsi confondere bisogna dare un consiglio. Essi possono domandarsi, di fronte a tutto ci ch'essi chiamano cultura: questa l'auspicata cultura tedesca, cos seria e creativa, cos liberatrice per lo spirito tedesco, cos purificatrice per le virt tedesche, che l'unico filosofo di questo secolo, Arthur Schopenhauer, dovrebbe riconoscere per sua? Qui avete il filosofo ora cercate la cultura che gli sia propria! E se potete presentire quale sia la cultura che corrisponda a un tale filosofo, allora con questo presentimento voi avete gi fatto giustizia della vostra cultura e di voi stessi! 5. Certame omerico Quando si parla di umanit, l'idea in fondo riguarda ci che separa e contraddistingue l'uomo dalla natura. Ma una tale separazione in realt non si d: le qualit naturali e quelle che si presumono specificamente umane sono cresciute insieme inseparabilmente. L'uomo, nelle sue forze pi alte e pi nobili, tutto natura e porta in s questo suo strano carattere ancipite. Le sue tendenze terribili e ritenute disumane non sono forse che il terreno fertile dal quale soltanto pu svilupparsi, nei sentimenti e nelle azioni e nelle opere, tutto ci che si chiama umanit. Cos i Greci, gli uomini pi umani dell'antichit, hanno in s un tratto di ferocia, di brama distruttiva alla maniera delle tigri un tratto che assai visibile anche in colui che l'immagine speculare del greco ingrandita fino al grottesco e cio Alessandro Magno ma che in tutta la loro storia cos come nella loro mitologia per noi, che l'accostiamo per mezzo del nostro edulcorato concetto di umanit, fonte di angoscia. Quando Alessandro fa bucare i piedi del bravo difensore di Gaza, Batis, e lega il suo corpo vivo al suo carro, per portarlo in giro tra lo scherno dei suoi soldati: ecco, questa la caricatura, che suscita ripulsione, di Achille, il quale di notte strazia il cadavere di Ettore trascinandolo alla stessa maniera; e anche qui c' per noi qualcosa che offende e ispira orrore. Noi qui penetriamo nell'abisso

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dell'odio. Ed lo stesso sentimento quello con cui ad esempio ci mettiamo di fronte al dilaniarsi sanguinario e senza fine di due partiti greci come per esempio durante la rivoluzione di Corcira. Quando il vincitore, in una battaglia tra citt, sulla base del diritto di guerra, passa per le armi tutti i cittadini maschi e vende come schiavi tutte le donne e i bambini, allora noi osserviamo nella sanzione di un tale diritto che il greco riteneva seriamente necessaria una piena esplosione del suo odio; in simili momenti il sentimento compresso e inturgidito defluiva: la tigre balzava fuori e una crudelt voluttuosa brillava nei suoi occhi terribili. Perch lo scultore greco doveva sempre di nuovo ritrarre scene di guerra e di battaglia in infinite ripetizioni, corpi d'uomini in tensione, i cui spasimi sono dovuti all'odio o alla tracotanza del trionfo, feriti che si contorcono, morenti che rantolano? Perch tutto il mondo greco giubilava di fronte alle immagini di battaglia deli'Iliade! lo credo che noi queste cose non le intendiamo abbastanza nel senso greco, anzi, credo che noi inorridiremmo, se mai le intendessimo in questo senso. Ma cosa c' dietro il mondo omerico, come una sorta di grembo materno di tutto ci che greco? In esso, grazie alla determinatezza, alla serenit e alla purezza di linee dello straordinario valore artistico, noi siamo gi portati oltre ci che semplice commistione: i colori di questo mondo, nell'illusione artistica, appaiono pi luminosi, pi dolci, pi caldi, e i suoi uomini, in questa calda luminosit cromatica, migliori e pi simpatici ma verso che cosa volgiamo lo sguardo quando, non pi accompagnati n protetti dalla mano di Omero, ci riportiamo al mondo preomerico? Soltanto nella notte e nella crudelt, nei parti di una fantasia abituata a ci che mostruoso. Di quale esistenza terrena sono il riflesso queste ripugnanti e terribili teogonie? Una vita sulla quale hanno potere soltanto i figli della notte, la lotta, la brama sessuale, l'inganno, la vecchiaia e la morte. Immaginiamoci l'aria, per noi gi difficile da respirare, della poesia esiodea come ancora pi torbida e buia e senza quegli addolcimenti e quelle purificazioni che da Delfi e dai numerosi santuari si diffondevano su tutta la Grecia: mescoliamo poi questa torbida aria di Beozia con la buia lascivia degli Etruschi; allora una tale realt ci presenterebbe un mondo di miti in cui Urano, Crono e Zeus e le lotte dei Titani dovrebbero apparirci come una liberazione; in questa atmosfera soffocante la lotta salute e salvezza, mentre la crudelt della vittoria il culmine della gioia di vivere. E cos, come in verit dall'omicidio e dalla sua espiazione che si sviluppato il concetto del diritto greco, allo stesso modo anche la cultura pi nobile raccoglie la sua corona di vittoria dall'altare dell'espiazione dell'omicidio. A partire da quell'epoca sanguinaria un solco profondo stato tracciato nella storia greca. I nomi di Orfeo, di Museo e il loro culto attestano a quali esiti abbia condotto l'idea persistente d'un mondo di lotta e di crudelt al disgusto per l'esistenza, alla concezione di questa esistenza come d'una colpa da espiare, alla fede circa l'identit di esistenza e colpa. Certo questi esiti per non sono specificamente ellenici: in essi la Grecia stabilisce una connessine con l'India e in genere con l'Oriente. Il genio greco aveva gi pronta un'altra risposta alla domanda: Qual lo scopo d'una vita di lotta e di vittoria?, e dette questa risposta lungo tutto il corso della sua storia. Per comprenderla, noi dobbiamo cominciare dal fatto che il genio greco dette libero corso a quella pulsione che si esprimeva in modo cos terribile e la tratt come se fosse giustificata: e ci mentre nella visione orfica permaneva l'idea che una vita radicata in tali pulsioni non fosse degna di essere vissuta. La lotta e il piacere della vittoria furono riconosciute: e nulla sepa-

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ra il mondo greco dal nostro, quanto il tono, da qui derivato, di singoli concetti etici come quelli di discordia e di invidia. Quando il viaggiatore Pausania, durante le sue peregrinazioni attraverso la Grecia, visit l'Elicona, gli fu mostrato un antichissimo esemplare del primo poema greco a carattere didattico e cio Le opere e i giorni di Esiodo, inciso su lastre di piombo e gravemente danneggiato dal tempo e dalle intemperie. Egli per si rese ugualmente conto che, diversamente dagli altri esemplari correnti, questo all'inizio non recava quel famoso piccolo inno a Zeus e cominciava invece con la sentenza: Sulla terra ci sono due dee Eris. Questo uno dei pensieri greci pi degni di nota e degno di essere scolpito per il futuro sul frontone dell'etica greca: Di tali Eris l'una, se si ha cervello, dovrebbe essere tanto lodata quanto l'altra spregiata; infatti queste due divinit hanno caratteri del tutto diversi. L'una suscita la mala guerra e il litigio, la crudele! Nessun mortale pu sopportarla, ma sotto il giogo della necessit, si giunge a onorare questa Eris che d dura pena, secondo il decreto degli immortali. Questa, la pi vecchia, ha generato la nera notte; l'altra invece, Zeus che domina dall'alto l'ha posta gi nelle radici della terra e tra gli uomini, in quanto molto migliore. Questa anche colei che spinge al lavoro l'inetto; e quando qualcuno che non ha nessuna propriet vede un altro che ricco, allora si affretta in qualche modo a seminare, a piantare, a far migliorie nella sua casa; il vicino fa a gara con il vicino nel cercare il benessere. Questa Eris buona per gli uomini. Anche il vasaio astioso verso il vasaio e il muratore verso il muratore, cos come il mendicante invidia il mendicante e il cantore invidia il cantore. Questi ultimi due versi, che trattano dell'odium figulinum, ai nostri dotti sembrano incomprensibili. Secondo il giudizio di costoro, i predicati astio e invidia si confanno soltanto alla cattiva Eris; perci essi non hanno nessuno scrupolo a designare questi versi come fuori di contesto o inseriti qui per sbaglio. Ci dev'essere avvenuto in quanto un'etica diversa da quella greca li ha inconsapevolmente condizionati: tant' che Aristotele non percepisce nessuna discordanza nel rapporto di questi versi con la buona Eris. E non soltanto Aristotele, ma tutta l'antichit greca la pensa diversamente da noi circa l'astio e l'invidia e giudica come Esiodo, il quale designa come cattiva una sola Eris, quella cio che trascina gli uomini gli uni contro gli altri in animose lotte distruttrici, e stima invece buona un'altra Eris, che, come gelosia, astio e invidia, sprona gli uomini all'azione, ma non all'azione della lotta distruttrice, bens a quella del certame. L'uomo greco invidioso, ma non sente questa sua caratteristica come una macchia, bens come qualcosa che in lui prodotto da una divinit benefica: quale abisso di giudizio etico fra noi e lui! Poich invidioso, egli sente anche, in occasione di qualsiasi eccesso di onore, di ricchezza, di magnificenza, di fortuna, posarsi su di lui l'occhio di un dio invidioso e teme questo sguardo; in questo caso egli come ammonito circa la precariet di ogni destino umano, e anzi prova ripugnanza per la sua stessa fortuna tanto da sacrificarne la parte migliore chinando il capo di fronte all'invidia divina. Questa idea non lo aliena affatto dai suoi di: al contrario il significato di questi a risultarne con ci meglio definito, nel senso che mai con essi pu competere l'uomo, il quale ha un'anima che si accende d'invidia contro qualsiasi altro essere vivente. Nel certame di Tamiri con le Muse o di Marsia con Apollo, nel toccante destino di Niobe viene in luce la terribile contrapposizione di due forze che non possono mai combattere tra di loro: uomo e dio. Ma tanto pi grande e tanto pi di sentimenti elevati un uomo greco,

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tanto pi intensa si sprigiona da lui la fiamma dell'ambizione, che divora chiunque lo segua. Aristotele una volta ha fatto una lista in grande stile di tali animosi combattenti: qui si trova l'esempio pi clamoroso, quello di un morto che pu suscitare in un vivo un'invidia divorante. Infatti in questi termini che Aristotele descrive il rapporto di Senofane di Colofone con Omero. Noi non comprendiamo in tutta la sua portata questo atteggiamento aggressivo nei confronti dell'eroe nazionale della poesia se non ci rendiamo conto ch'esso ha come radice, cosa che pi tardi varr anche per Platone, il desiderio sconfinato di sostituirsi al poeta rovesciato e di ereditarne la gloria. Ogni grande greco passa di mano la fiaccola del certame; ad ogni grande virt si accende una nuova grandezza. Quando il giovane Temistocle al pensiero degli allori di Milziade non poteva dormire, si scaten il suo impulso, precocemente destatosi durante la sua rivalit con Aristide, verso quella puramente istintiva e memorabile genialit del suo agire politico, di cui Tucidide ci parla. Come sono caratteristiche, in proposito, questa domanda e questa risposta: quando a un famoso avversario di Pericle fu chiesto chi dei due fosse il miglior lottatore della citt, egli infatti rispose: Anche se io lo buttassi a terra, lui negherebbe di essere caduto, raggiungerebbe il suo scopo e persuaderebbe coloro che lo hanno visto cadere. Se si vuole osservare questo sentimento veramente svelato nelle sue manifestazioni ingenue, il sentimento della necessit del certame come ci su cui lo Stato basa la sua salvezza, si pensi al senso originario dell'ostracismo: cos come l'hanno espresso per esempio gli Efesii quando hanno esiliato Ermodoro: Tra noi nessuno dev'essere il migliore; se qualcuno lo , lo sia altrove e presso altri. Ora, perch nessuno dev'essere il migliore? Perch se qualcuno lo fosse il certame si esaurirebbe e l'eterno fondamento di vita dello Stato greco sarebbe messo in pericolo. Pi tardi l'ostracismo viene a configurarsi diversamente nei confronti del certame: lo si usa quando evidente il pericolo che uno dei grandi antagonisti o capi di partito in competizione si sentano spinti, nell'ardore della lotta, verso mezzi nocivi e distruttivi o verso pericolosi colpi di Stato. Il senso originario di questa singolare istituzione non per quello di una valvola di scarico, bens quello di uno stimolatore: si mette da parte l'individuo che emerge, per ridestare nuovamente il gioco agonistico delle forze: pensiero, questo, contrario all'esclusivit del genio in senso moderno, ma tale da presupporre che, in un ordine naturale di cose, ci siano sempre pi geni che si spronano all'azione l'un contro l'altro e che, vicendevolmente, si mantengono nei limiti della misura. Questo il nocciolo dell'idea greca di certame: essa non sopporta la signoria di un singolo e ne teme i pericoli, e invece auspica come contraccettivo al genio un secondo genio. nella lotta che qualsiasi dote deve formarsi, cos ordina la pedagogia popolare greca: gli educatri moderni, invece, di niente hanno cos paura come dello scatenamento della cosiddetta ambizione. Qui si teme l'egoismo come se fosse il male in s con eccezione dei Gesuiti che in ci vanno d'accordo con gli antichi e che perci sono davvero i pi efficaci educatori del nostro tempo. Essi sembrano credere che l'egoismo ossia ci che individuale non sia che il motore pi potente, ma che il suo essere buono o cattivo gli derivi soltanto dagli scopi a partire dai quali esso si qualifica. Per gli antichi invece lo scopo dell'educazione agonistica era la prosperit delta societ, dello Stato. Ciascun ateniese per esempio doveva promuovere lo sviluppo di s attraverso la competitivita fino al punto d'essere massimamente utile ad Atene e portarle il minimo danno. Non si pot-

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va parlare di ambizione smisurata e al di fuori di ogni misurabilit, come invece accade per l'ambizione modernamente intesa: il giovane pensava al bene della sua citt madre, quando gareggiava nella corsa, nei lanci o nel canto; era per la gloria della citt ch'egli voleva accrescere la sua; dedicava agli di della sua citt la corona che i giudici gli ponevano sul capo per onorarlo. Ciascun greco fin dalla fanciullezza sentiva il desiderio bruciante di essere, nella lotta fra citt, uno strumento di salvezza per la propria: di ci si infiammava il suo egoismo e in ci trovava un freno e un limite. Perci gli individui nell'antichit erano pi liberi, in quanto i loro fini erano pi prossimi e pi raggiungibili. Invece l'uomo moderno ha per lo pi la via ovunque sbarrata dall'infinit, come il pie veloce Achille nell'immagine di Zenone di Elea: l'infinit lo trattiene, e lui non pu raggiungere la tartaruga neppure una volta. Ma allo stesso modo in cui gli educandi venivano educati a gareggiare tra loro, anche gli educatori a loro volta erano in competizione. Diffidenti e gelosi si presentavano i grandi maestri musicali, Pindaro e Simonide, l'uno accanto all'altro; in atteggiamento di sfida il sofista, cio il maestro dell'antichit di pi alto grado, si fa incontro al sofista; lo stesso tipo pi generale di insegnamento, per mezzo del dramma, veniva impartito al popolo sotto forma di una lotta senza quartiere tra i grandi artisti musicali e quelli drammatici. Incredibile! Anche l'artista ha del rancore verso l'artista. E se l'uomo moderno non teme niente in un artista pi della personale tendenza alla lotta, l'uomo greco invece conosce l'artista solo nella lotta personale. L dove l'uomo moderno subodora qualcosa di debole in un'opera d'arte, l'uomo greco cerca la fonte della sua qualit pi potente! Ci che per esempio nei Dialoghi di Platone ha una rilevanza artistica particolare, per lo pi il risultato di una competizione con l'arte dei retori, dei sofisti, dei drammaturgi del suo tempo, perseguito allo scopo di poter infine affermare: Guardate, io sono in grado di fare anche ci che possono fare i miei grandi rivali; s, e addirittura meglio di loro. Nessun Protagora ha immaginato miti belli come quelli che ho immaginato io, nessun drammaturgo un insieme cos vivace e avvincente come il Simposio, nessun retore ha concepito un discorso come quello che io presento nel Gorgia e io ora mi sbarazzo di tutto ci e liquido ogni arte imitativa! Soltanto il certame ha fatto di me un poeta, un sofista, un retore!. Quale problema ci si para davanti, se noi ci interroghiamo sul rapporto che intercorre tra il certame e la concezione dell'opera d'arte! Togliamo invece il certame della vita greca, subito ci affacceremo su quell'abisso preomerico che il feroce stato selvaggio di odio e di voglia d'annientamento. Questo fenomeno si mostra disgraziatamente piuttosto di frequente, quando una grande personalit a causa di un'azione straordinariamente esaltante sottratta alla competizione e, in base al suo giudizio e a quello dei suoi stessi concittadini, messa hors de concours. L'effetto, quasi senza eccezione, devastante; e se da quest'effetto in genere si ricava la conclusione che il greco non stato in grado di sopportare la gloria e la felicit, si dovrebbe con pi precisione dire ch'egli non stato in grado di sopportare la gloria senza un certame ulteriore ossia la felicit alla fine di un certame. Non c' esempio pi chiaro di quello fornito dal compimento del destino di Milziade. Posto a un'altezza solitaria dall'incredibile successo di Maratona e molto al di sopra di tutti gli altri combattenti, egli sente ridestarsi in s un volgare desiderio di vendetta contro un cittadino pario, per il quale nutriva inimicizia da molto tempo. Per soddisfare questa voglia, abusa della sua fama, dei beni dello Stato,

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della sua dignit di cittadino e si disonora. Sentendo di non riuscire, si abbassa a macchinazioni indegne. Egli intraprende una relazione intima e sacrilega con la sacerdotessa di Demetra, Timo, e di notte penetra nel sacro tempio dal quale ogni uomo era escluso. Appena ha scavalcato il recinto e si avvicinato al sacrario della dea, lo coglie improvvisamente il pauroso raccapriccio di un terrore panico: quasi schiantando e senza rendersene conto si sente respinto e saltando di nuovo al di l del recinto, precipita gi storpiato e gravemente ferito. Le macchinazioni devono essere abbandonate, lo aspetta il tribunale popolare, e una morte vergognosa imprime il suo suggello a una vita magnifica ed eroica, oscurandola per tutta la posterit. Dopo l'impresa di Maratona l'invidia dei celesti lo ha afferrato. E questa invidia divina si accende quando l'uomo sorpreso in una gloria solitaria senza nessun antagonista che lo contrasti. In quel momento egli ha solo gli di accanto a s e dunque egli li ha contro di s. Ma questi lo spingono a un'azione di hybris, e sotto di essa egli cade. Osserviamo ora che, cos come perisce Milziade, periscono anche i pi nobili Stati greci quando, per merito e per fortuna, dal campo di battaglia si sono portati al tempio di Nike. Atene, che aveva distrutto l'indipendenza dei suoi alleati e aveva punito con durezza le rivolte degli assoggettati, e Sparta, che dopo l'impresa di Egospotami fece valere in modo ancora pi pesante e crudele il suo predominio sulla Grecia, hanno allo stesso modo, sulla scorta dell'esempio di Milziade, affrettato la fine con azioni di hybris, a dimostrazione che senza invidia, gelosia e ambizione battagliera sia lo Stato sia l'uomo greco degeneravano. Tanto l'uno che l'altro diventano cattivi e crudeli, rancorosi e sacrileghi, insomma preomerici e perci sufficiente un terrore panico per farli cadere e farli sfracellare. Sparta e Atene si consegnano ai Persiani, come avevano fatto Temistocle e Alcibiade; essi tradiscono ci che propriamente ellenico, dopo aver rinunziato alla pi nobile delle fondamentali idee greche, ossia l'idea di certame: e Alessandro, copia rozza e sunto della storia greca, inventa allora il Greco cosmopolita e il cosiddetto ellenismo.
Finito il 29 dicembre 1872

Su verit e menzogna in senso extramorale

i. In un qualche angolo remoto dell'universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c'era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto pi tracotante e menzognero della storia universale: e tuttavia non si tratt che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigid, e gli animali intelligenti dovettero morire. Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver per ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l'intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternit, in cui esso non era; e quando nuovamente non sar pi, non sar successo niente. Per quell'intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di l della vita dell'uomo. Esso umano, e soltanto il suo possessore e produttore pu considerarlo con tanto pthos, come se in lui girassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch'essa con lo stesso pthos nuota nell'aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo. Non c' niente in natura di cos spregevole e dappoco che con un piccolo soffio di quella facolt conoscitiva non si possa gonfiare come un otre; e allo stesso modo in cui qualsiasi facchino vuol avere i suoi ammiratori, anche il pi orgoglioso degli uomini, il filosofo, convinto che da ogni lato gli occhi dell'universo siano puntati telescopicamente sul suo fare e sul suo pensare. degno di nota che a tanto giunga l'intelletto, qualcosa cio che concesso proprio solo come strumento ausiliario alle pi infelici, alle pi fragili, alle pi transitorie delle creature, per conservarle un minuto nell'esistenza; giacch esse altrimenti, senza quel supporto, avrebbero tutte le ragioni a volatilizzarsi tanto rapidamente quanto il figlio di Lessing. Quella tracotanza legata alla conoscenza e alla sensibilit, nebbia accecante che sta davanti agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell'esistenza, portando in se stessa la valutazione pi piena di lusinghe circa la conoscenza. Il suo effetto pi generale l'inganno ma anche gli effetti pi particolari portano con s qualcosa dello stesso carattere. L'intelletto, come mezzo per la conservazione dell'individuo, sviluppa le sue forze pi importanti nella simulazione; infatti questo il mezzo attraverso cui si conservano gli individui pi deboli, meno robusti, visto che a loro negato di condurre la battaglia per l'esistenza con le corna o con i morsi laceranti degli animali feroci. Nell'uomo quest'arte della simulazione tocca il suo culmine: qui l'ingannare, l'adulare, il mentire, e il fingere, lo sparlare dietro le spalle, il rappresentare, il vivere in una magnificenza d'accatto, il mascherarsi, le convenzioni che servono a nascondere, il recitare una parte dinanzi agli altri e a se stessi, in una parola l'incessante svolazzare intorno a quella fiamma che la vanit, tutto ci cos spesso la re-

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gola e la legge che niente pi inconcepibile del fatto che tra gli uomini possa emergere un impulso onesto e puro verso la verit. Essi sono profondamente immersi in sogni e illusioni, il loro occhio scivola soltanto sulla superficie delle cose e non vede che forme, in nessun modo la loro sensibilit conduce al vero, bastandole di ricevere stimoli ossia di giocare un gioco tattile sul dorso delle cose. Inoltre l'uomo durante la notte, per tutta la vita, si lascia ingannare in sogno, senza che il suo sentimento morale glielo impedisca; mentre devono esserci uomini che grazie alla forza di volont hanno eliminato il russare. Che cosa sa propriamente l'uomo di s? Davvero sarebbe capace, anche solo una volta, di avere di s una percezione completa, come se si trovasse in una vetrina illuminata? Non gli tace la natura quasi tutto, anche riguardo al suo stesso corpo, per confinarlo e imprigionarlo in una orgogliosa e illusoria coscienza, lontano dal viluppo delle interiora, dal rapido flusso del sangue, dai nascosti brividi delle fibre? Essa ha gettato via la chiave: e guai all'infausta curiosit di guardare dalla camera della coscienza attraverso una fessura all'esterno e nel basso e guai al presentimento che l'uomo poggi su ci che spietato, avido, insaziabile, omicida e stia sospeso in sogno, nella sua beata ignoranza, per cos dire sul dorso di una tigre! Dov' mai, in quale parte del mondo, sotto questa costellazione l'impulso alla verit? In quanto l'individuo vuole conservare se stesso di fronte ad altri individui, in uno stato di cose naturale egli si serve dell'intelletto per lo pi soltanto per la simulazione; ma poich l'uomo vuole anche esistere, sia per bisogno sia per noia, socialmente e come in un gregge, stipula un patto di pace e si adopera per cancellare dal suo mondo almeno il pi brutale bellum omnium contra omnes. Questo patto di pace porta qualcosa con s, che come il primo passo verso il raggiungimento di quell'enigmatico impulso alla verit. A questo punto cio viene fissato ci che da allora in poi dovr essere la verit, il che significa che si trovata una connotazione vincolante e uniformemente valida delle cose e che la norma linguistica istituisce anche le prime regole della verit; sicch si chiarisce qui per la prima volta il contrasto di verit e menzogna: il mentitore si serve delle connotazioni valide, le parole, per far apparire l'irreale come reale; egli dice per esempio d'essere ricco, mentre in questo caso la connotazione appropriata sarebbe povero. Stravolge le convenzioni basilari attraverso scambi arbitrari o addirittura inversione dei nomi. Se fa questo a proprio vantaggio e anzi in modo da recare dann, la societ non avr pi fiducia in lui e senz'altro lo bandir da s. Gli uomini qui fuggono non tanto il fatto di essere truffati, quanto il fatto di essere danneggiati attraverso la truffa. In fondo non l'inganno che in questo caso essi detestano, bens le brutte e nocive conseguenze di certi generi di inganni. Soltanto in un senso ristretto come questo l'uomo vuole anche la verit. Egli desidera gli effetti piacevoli, e atti a conservare la vita, della verit; verso la conoscenza pura, priva di conseguenze, egli indifferente, ed ha addirittura un atteggiamento ostile verso le verit che possono essere dannose e distruttrici. Inoltre: che ne delle convenzioni linguistiche? Sono forse strumenti della conoscenza, del senso della verit, nel senso che le connotazioni e le cose coincidono? Il linguaggio allora l'espressione adeguata di tutte le realt? Soltanto uno smemorato pu giungere a credere questo: che l'uomo capace di una verit nel grado sopra descritto. S'egli non s'accontenta della verit in forma di tautologia e cio di gusci vuoti, finir sempre per prendere le illusioni per delle verit. Che cos' una parola? Il riflesso sonoro di uno stimolo nervoso. Ma dedurre dallo stimolo nervoso l'esistenza

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d'una causa fuori di noi, gi il risultato d'una falsa e indebita applicazione del principio di causalit. Posto che nella genesi del linguaggio decisiva sia stata soltanto la verit, cos come il punto di vista della certezza nelle connotazioni, come possiamo noi ancora dire: La pietra dura, come se per noi la durezza fosse altrimenti nota e non soltanto uno stimolo del tutto soggettivo? Noi suddividiamo le cose in generi, designiamo l'albero come maschile, la pianta come femminile: che trasposizioni arbitrarie! E quanto al di l del canone della certezza! Noi parliamo di un serpente: la connotazione non tocca che il muoversi torcendosi e quindi potrebbe anche adattarsi al verme. Quali abbreviazioni arbitrarie, e che preferenze unilaterali per questa o per quella propriet di una cosa! Le diverse lingue poste l'una accanto all'altra dimostrano che nelle parole non mai la verit che importa o l'adeguatezza dell'espressione: diversamente, infatti, non ci sarebbero cos tante lingue. La cosa in s (il che appunto sarebbe la pura verit senza scopo) risulta del resto del tutto inconcepibile all'inventore di un linguaggio e assolutamente non degna d'essere perseguita. Costui connota soltanto le relazioni delle cose con gli uomini, per l'espressione delle quali egli si serve delle pi ardite metafore. Uno stimolo nervoso tradotto anzitutto in immagine! prima metafora. L'immagine nuovamente riplasmata in un suono! seconda metafora. E ogni volta un completo salto di orizzonte, dentro uno nuovo e del tutto diverso. Si pu pensare a un uomo completamente sordo e che non abbia mai avuto percezione alcuna del suono e della musica: come costui osserva meravigliato sulla sabbia cose come le figure sonore di Chladni poi scopre che la loro causa nel vibrare della corda e infine pronto a giurare ormai di sapere cos' ci che gli uomini chiamano suono, cos di tutti noi per quel che riguarda il linguaggio. Noi crediamo di sapere qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di alberi, colori, neve e fiori e tuttavia non disponiamo che di metafore delle cose, che non esprimono in nessun modo le essenze originarie. Allo stesso modo in cui il suono prende l'aspetto di figura tracciata sulla sabbia, cos l'enigmatica X della cosa in s prende l'aspetto di uno stimolo nervoso, poi di un'immagine, infine di un suono. Dunque non c' niente di logico nell'origine del linguaggio e tutto il materiale su cui e con cui pi tardi l'uomo della verit, il ricercatore, il filosofo lavora e costruisce, vien fuori, se non proprio dal paese delle nuvole, certo in nessun caso dall'essenza delle cose. Riflettiamo in particolare sulla formazione dei concetti: ogni parola diviene senz'altro concetto, dal momento che essa non deve servire come ricordo per una esperienza originaria del tutto singolare e individualizzata, cui deve il suo sorgere, ma piuttosto deve adattarsi a innumerevoli casi pi o meno simili e cio, in senso stretto, mai identici, quindi a casi puramente diseguali. Ciascun concetto sorge dall'eguagliare il non eguale. Certamente mai una foglia del tutto eguale a un'altra, e certamente il concetto di foglia formato attraverso il lasciar cadere queste differenze individuali ossia attraverso la dimenticanza di ci che distingue, sicch spunta l'idea che nella natura al di l delle foglie ci sia qualcosa come la foglia, una sorta di forma originaria, sulla base della quale tutte le foglie sarebbero plasmate, disegnate, sfumate, colorate, graffite, dipinte, ma da mani inesperte, tanto che nessun esemplare possa riuscire corretto e sicuro come riflesso fedele della forma originaria. Noi chiamiamo un uomo onesto; perch costui oggi si comportato cos onestamente? Poniamo la questione. La nostra risposta tende a essere: a causa della sua onest. L'onest! come dire di nuovo: la foglia la causa delle foglie. Noi non sappiamo nulla di una tale qualit essenziale, che si chiama onest, ma certo conosciamo in-

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numerevoli azioni individuali e perci disuguali, che noi attraverso la soppressione delle disuguaglianze paragoniamo e allora definiamo come azioni oneste; infine a partire da queste noi formuliamo.una qualitas occulta cui diamo nome: onest. La dimenticanza di ci che reale e individuale ci d il concetto cos come anche la forma, l dove invece la natura non conosce n forme n concetti, e neppure generi, bens soltanto una X per noi inattingibile. Del resto anche la nostra contrapposizione di individuo e genere antropomorfica e non scaturisce dalla natura della cosa, anche se noi non ci arrischiamo a dire che non la esprime: questa infatti sarebbe un'affermazione dogmatica e in quanto tale non dimostrabile, come quella che le si oppone. Che cos' dunque la verit? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verit sono illusioni, delle quali si dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non pi come monete. Noi continuiamo a non sapere da dove scaturisca l'impulso alla verit: giacch noi finora abbiamo preso atto del dovere, che la societ impone per esistere, di essere sinceri, e cio di usare le metafore secondo le consuetudini; il che significa, da un punto di vista morale: noi abbiamo preso atto del dovere di mentire secondo una salda convenzione, di mentire cio tutti insieme in uno stile vincolante per tutti. Ora, certamente l'uomo si dimentica che le cose stanno cos; dunque egli mente nel modo indicato, incoscientemente e per consuetudini secolari e proprio attraverso questa incoscienza, proprio attraverso questo dimenticare egli perviene al sentimento della verit. Insieme con il sentimento d'essere obbligato a designare una cosa come rossa, una seconda come fredda e una terza come muta, sorge in lui un impulso che ha per scopo la verit: per contrasto con il mentitore, cui nessuno crede e che tutti escludono, l'uomo si convince della dignit, della fidatezza e dell'utilit della verit. Egli pone ora il suo agire, in quanto essere razionale, sotto il dominio delle astrazioni: non sopporta pi di lasciarsi trascinare dalle impressioni in concetti tiepidi e incolori, per legare ad essi il carro della sua vita e del suo agire. Tutto ci che separa l'uomo dall'animale dipende da questa capacit di piegare ad uno schema le metafore intuitive, quindi di risolvere un'immagine in un concetto; infatti nell'ambito di tale schematismo possibile ci che non lo sarebbe mai con le prime impressioni intuitive: costruire un ordinamento piramidale secondo caste e gradi, creare un nuovo mondo di leggi, privilegi, sottodivisioni, limitazioni che stia di fronte all'altro mondo delle prime impressioni come ci che pi solido, pi generale, pi conoscibile e dunque come ci che pi perentorio e imperativo. Mentre ciascuna metafora intuitiva individuale e senza niente di eguale a s tanto da saper sottrarsi a qualsiasi catalogazione, la grande costruzione dei concetti attesta la rigida regolarit di un columbarium romano e ispira alla logica quel rigore e quella freddezza che sono propri della matematica. Chi si ispiri a questo rigore, potr credere a malapena che anche il concetto, fatto d'osso come un dado a otto facce e rovesciabile come questo, tuttavia non persiste che come il residuo di una metafora, e che l'illusione della artistica trasposizione di uno stimolo nervoso in immagine, se non la madre certo la progenitrice del concetto. Per all'interno di questo gioco di dadi dei concetti verit l'uso di qualsiasi dado conforme-

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mente alle prescrizioni: contare con precisione i punti segnati, tenere cataloghi esatti e non sovvertire mai l'ordine gerarchico e la successione delle classi. Come i romani e gli etruschi spartivano il cielo per mezzo di rigide linee matematiche e in ciascuno spazio cos delimitato confinavano un dio, cos ciascun popolo ha sopra di s un tale cielo concettuale spartito matematicamente e capisce che se si vuol giungere alla verit ciascun dio concettuale debba essere ricercato soltanto nella sua sfera. Qui si pu di certo ammirare l'uomo come un potente genio della costruzione, capace di ergere su fondamenta mobili e per cos dire sull'acqua corrente un arco concettuale infinitamente complicato; e di certo per trovare stabilit su tali basi bisogna che la costruzione sia fatta di ragnatele, cos leggera da lasciarsi trasportare dalle onde e cos salda da non essere soffiata via dal vento. In questo modo l'uomo, come genio costruttivo, s'innalza al di sopra delle api: queste costruiscono sulla cera, ch'esse raccolgono dalla natura, egli invece sulla pi sottile materia dei concetti, che deve fabbricarsi da s. Egli da ammirare ma non a causa del suo impulso verso la verit, verso la conoscenza pura delle cose. Se qualcuno nasconde un oggetto dietro un cespuglio, e poi torna l a cercarlo e lo trova, non che per lui ci sia molta gloria in questo cercare e trovare: ma proprio cos stanno le cose quanto alla ricerca e alla scoperta della verit entro l'ambito della ragione. Se io produco la definizione di un mammifero e poi dichiaro, alla vista di un cammello: guarda, un mammifero! certo con questo una verit viene portata alla luce, ma essa di valore limitato, mi pare; in tutto e per tutto essa antropomorfica e non contiene un solo singolo punto che sia vero in s, reale e universalmente valido, al di l della prospettiva dell'uomo. Il ricercatore di simili verit in fondo non cerca che la metamorfosi del mondo nell'uomo; egli si affatica per comprendere il mondo come cosa umana e nel migliore dei casi consegue con la sua lotta il sentimento di un'assimilazione. Allo stesso modo in cui l'astrologo considera le stelle al servizio dell'uomo e le tratta in connessione con la sua felicit e il suo dolore, cos un tal ricercatore tratta tutto il mondo come asservito all'uomo, come l'eco infinitamente ripetuta di un suono originario, come il riflesso moltiplicato di un'immagine originaria, ossia dell'uomo. Il suo procedimento questo: considerare l'uomo come misura di tutte le cose, dove per si incomincia con un errore, che consiste nel ritenere che all'uomo queste cose siano date immediatamente, come puri oggetti. Egli dimentica dunque le metafore intuitive che stanno alla base in quanto metafore, e le prende per le cose stesse. Soltanto attraverso la dimenticanza di quel primitivo mondo di metafore, soltanto attraverso l'indurimento e l'irrigidimento di una originaria massa di immagini sgorgante con flusso impetuoso da quella facolt originaria che la fantasia umana, solo attraverso la fede invincibile che questo sole, questa finestra, questo tavolo siano delle verit in s, in breve solo se l'uomo si dimentica di s come soggetto e anzi come soggetto che crea artisticamente, egli pu vivere con tranquillit, con sicurezza e con coerenza; se gli fosse possibile uscire solo per un attimo dalle pareti di questa fede che lo tiene prigioniero, immediatamente della sua autocoscienza non ne sarebbe pi nulla. Gi gli costa molta fatica ammettere che l'insetto o l'uccello percepiscono un mondo del tutto diverso rispetto a quello dell'uomo, e che chiedersi quale sia la pi giusta delle due percezioni assolutamente privo di senso, poich qui si dovrebbe misurare in base al paradigma della giusta percezione e cio in base a un paradigma che non esiste. Ma in generale a me sembra che la giusta percezione il che significherebbe l'espres-

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sione adeguata di un oggetto nel soggetto sia un'assurdit contraddittoria: infatti tra due sfere assolutamente separate come tra soggetto e oggetto non c' nessuna causalit, ma semmai una relazione estetica, ossia, secondo me, una trasposizione allusiva, una traduzione che tenta di fare il verso in un linguaggio del tutto estraneo. Ma a tale fine ci vorrebbe comunque una sfera intermedia e una forza intermedia in cui liberamente poetare e inventare. La parola apparenza contiene molte seduzioni, perci io la evito il pi possibile: infatti non vero che l'essenza delle cose si manifesti nel mondo empirico. Un pittore, cui mancassero le mani e che volesse esprimere con il canto l'immagine che gli si agita di fronte, sveler sempre qualcosa in pi con questo scambio di ambiti di quanto il mondo empirico non sveli dell'essenza delle cose. Perfino il rapporto tra uno stimolo nervoso e l'immagine che ne ricavata non necessario; quando per la stessa immagine ricavata milioni di volte e trasmessa per molte generazioni, finendo con l'apparire sempre a tutti gli uomini come lo stesso esito d'uno stesso principio, allora finisce per acquistare per tutti lo stesso significato, quasi che fosse l'unica immagine necessaria e quasi che quel rapporto tra l'originario stimolo nervoso e l'immagine indotta sia uno stretto rapporto di causalit; cos come un sogno, che si ripetesse eternamente, sarebbe senz'altro sentito e giudicato come realt. Ma l'indurimento e l'irrigidimento di una metafora non accreditano per niente la necessariet e l'inconfutabile giustezza di questa metafora. Chiunque abbia familiarit con riflessioni del genere, ha provato una profonda diffidenza: contro una simile forma di idealismo, ogni volta che si perfettamente convinto dell'eterna coerenza, della generale validit e dell'infallibilit delle leggi di natura; sicch ne ha tratto questa conclusione: qui tutto, per quanto noi penetriamo nelle altezze del mondo telescopico e nelle profondit di quello microscopico, sicuro, architettato, infinito, fatto con misura e senza lacune; la scienza avr eternamente da scavare in questi pozzi con successo e tutto ci che si trover sar messo in connessione senza che si contraddica. Come tutto ci somiglia poco ai prodotti della fantasia: se infatti si trattasse di questo, da qualche parte l'apparenza e l'irrealt dovrebbero venir fuori. Invece bisogna proprio dire: se ciascuno di noi avesse, per s, una diversa percezione, se noi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure sulla base dello stesso stimolo nervoso uno di noi vedesse rosso e l'altro blu, e a un terzo la stessa cosa apparisse un suono, allora nessuno parlerebbe a proposito della natura di conformit alla legge, ma la si concepirebbe piuttosto, questa conformit, come una creazione del tutto soggettiva. Inoltre: cos' per noi in generale una legge di natura? In s non ci nota, bens soltanto nella sua relazione con altre leggi di natura, le quali a loro volta ci sono note soltanto come relazioni. Tutte queste relazioni dunque non fanno che rimandare le une alle altre, mentre le loro essenze in tutto e per tutto risultano a noi incomprensibili; soltanto ci che noi vi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, dunque i rapporti di successione e i numeri, ci sono realmente noti. Tutto ci che di prodigioso noi ammiriamo nelle leggi di natura ed esige da noi spiegazione e potrebbe portarci a diffidare dell'idealismo, sta proprio tutto e soltanto nel rigore matematico e nell'insuperabilit delle rappresentazioni spaziali e temporali. Queste siamo noi a produrle in noi stessi e da noi stessi con quella necessit con cui il ragno tesse la tela; se noi siamo costretti a concepire tutte le cose soltanto sotto queste forme, allora non c' da meravigliarsi che noi in tutte le cose propriamente percepiamo soltanto queste forme: tutte infatti devono portare in s le leggi del numero e il nu-

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mero proprio la cosa pi prodigiosa nelle cose. Tutta la conformit alle leggi, che ci fa impressione sia nel corso degli astri sia nel processo chimico, in fondo coincide con quelle propriet che noi introduciamo nelle cose, sicch siamo noi a impressionare noi stessi. Da ci risulta allora che quell'artistica formazione di metafore, con la quale in noi comincia qualsiasi forma di sensazione presuppone gi quelle forme e dunque in esse che si realizza. Soltanto in virt della salda persistenza delle forme originarie si spiega la possibilit che l'edificio concettuale debba poi a sua volta costituirsi in base alle metafore stesse. Si tratta infatti di un'imitazione dei rapporti spaziali, temporali e numerici nel campo delle metafore.
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Alla elaborazione dei concetti lavora originariamente, come abbiamo visto, il linguaggio, e in tempi successivi la scienza. Allo stesso modo in cui l'ape allestisce le sue celle e nello stesso tempo le riempie di miele, cos la scienza lavora instancabilmente a quel grande columbarium dei concetti che il cimitero delle intuizioni, e vi costruisce sempre nuovi e pi alti piani, e puntella, ripulisce, rinnova le antiche celle e anzitutto s'adopera per riempire quello smisurato edificio a compartimenti e collocarvi in ordine l'intero mondo empirico, ossia il mondo antropomorfico. Se gi l'uomo d'azione vincola la sua vita alla ragione e ai suoi concetti, per non essere spazzato via e per non perdersi, a sua volta il ricercatore costruisce la sua capanna proprio sotto la torre della scienza, per aiutarne lo sviluppo e per trovare un riparo sotto il bastione che gi c'. E di riparo ha bisogno: giacch ci sono potenze terribili che continuamente gli si fanno incontro e contrappongono alla verit scientifica delle verit di tutt'altro genere e dalle insegne pi varie. Quell'impulso verso la formazione di metafore, quell'impulso fondamentale dell'uomo di cui neppure per un attimo non si pu non tenere conto, perch allora non si terrebbe conto dell'uomo, in realt non represso e anzi a malapena controllato, dal momento che con i suoi prodotti evanescenti, ossia i concetti, viene edificato un nuovo mondo, regolare e saldo come un baluardo. Esso cerca per s un nuovo ambito d'azione, un nuovo alveo, e lo trova nel mito e in generale nell'arte. Continuamente scompagina i cataloghi e gli scomparti dei concetti esibendo nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente mostra la bramosia di rifare il mondo attuale dell'uomo desto in modo variopinto, irregolare, privo di conseguenze, incoerente, esaltante ed eternamente nuovo come il mondo dei sogni. Di per s l'uomo nello stato di veglia convinto d'essere desto grazie alla rigida e regolare ragnatela dei concetti, ma proprio perci crede di sognare non appena quella ragnatela concettuale viene lacerata dall'arte. Pascal ha ragione quando afferma che se sognassimo tutte le notti lo stesso sogno, ne saremmo presi come dalle cose di tutti i giorni: Se un operaio fosse certo di sognare per dodici ore filate tutte le notti di essere un re, io credo dice Pascal che sarebbe altrettanto felice di un re il quale sognasse tutte le notti dodici ore di essere un operaio. Il giorno di un popolo che viva nell'emozione mitica, come per esempio i Greci pi antichi, in virt del prodigio continuamente operante proprio del mito, in realt pi simile al sogno che alla veglia del pensatore scientificamente disincantato. Quando ogni albero pu parlare come se in lui ci fosse una ninfa, quando sotto le spoglie di un toro un dio carpisce vergini, quando la stessa dea Atena improvvisamente vista attraversare le piazze di Atene su di un bel

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cocchio in compagnia di Pisistrato e gli onesti ateniesi ci credono allora in ogni momento, come in sogno, tutto possibile, e l'intera natura circonda l'uomo come se essa non fosse che una mascherata di di che scherzosamente si sono messi a ingannare gli uomini in tutte le forme. L'uomo stesso per ha una invincibile inclinazione a lasciarsi ingannare ed come rapito dalla felicit quando il rapsodo gli racconta per vere delle leggende epiche o quando l'attore a teatro fa la parte del re pi regalmente che nella realt. L'intelletto, quel maestro di simulazione, libero e sollevato da quello che invece il suo ufficio di schiavo, finch pu ingannare senza far danno, e cos celebra i suoi Saturnali; mai esso pi eccitato, pi ricco, pi orgoglioso, pi agile, pi audace. Con piacere temerario esso scompiglia le metafore e smuove le pietre miliari dell'astrazione, e cos per esempio designa il fiume come quella via semovente che porta l'uomo l dove altrimenti egli dovrebbe recarsi a piedi. Ora poi esso si liberato dei segni di servit; dopo essersi premurato con triste operosit di mostrare la via e gli strumenti a un povero essere desideroso di vivere, dopo essersi dato a ruberie e a grassazioni come un servo a favore del padrone, ora diventato lui padrone e pu togliersi dal volto l'espressione del bisogno. Rispetto a ci che faceva allora, ci che fa ora porta il segno della simulazione, cos come ci che faceva allora portava il segno della deformazione. Egli copia la vita umana, ma la prende per una cosa seria e d mostra di trovarcisi a suo agio. Quella smisurata struttura concettuale appigliandosi alla quale quel miserabile che l'uomo si salva durante la sua vita, per l'intelletto liberato nient'altro che un sostegno o un giocattolo per le sue temerarie attivit artistiche: e quando esso distrugge queste cose, le scompagina e poi con ironia le rimette insieme, accoppiando le cose pi estranee e separando le cose pi affini, allora chiaro ch'esso non ha pi bisogno di quei sotterfugi della miseria e non pi guidato da concetti bens da intuizioni. Non c' una strada regolare che da queste intuizioni conduca nella terra degli schemi spettrali, delle astrazioni: la parola non fatta per queste cose, tant' che l'uomo di fronte ad esse ammutolisce e si mette a parlare con metafore che sono semplicemente proibite o con concetti inverosimili, per corrispondere creativamente all'impressione della forte intuizione con cui ha a che fare almeno attraverso la distruzione e l'irrisione delle vecchie costruzioni concettuali. Ci sono epoche nelle quali l'uomo razionale e l'uomo intuitivo stanno l'uno accanto all'altro, il primo col terrore dell'intuizione, il secondo con lo scherno per l'astrazione: tanto restio alla ragione quest'ultimo, quanto all'arte il primo. Entrambi vogliono dominare la vita: l'uno, in quanto sa affrontare le principali necessit con accortezza, intelligenza e coerenza, l'altro in quanto una sorta di eroe traboccante di gioia che non vede quelle necessit e considera reale solo la vita che la simulazione trasforma in apparenza e in bellezza. Quando l'uomo intuitivo, come per esempio nella Grecia pi antica, adopera le sue armi in maniera pi vigorosa e vincente del suo antagonista, in caso favorevole pu prender forma una civilt e pu istituirsi il dominio dell'arte sulla vita; quella simulazione, quel ripudio della miseria, quella magnificenza delle intuizioni metaforiche e in generale quell'immediatezza dell'inganno accompagnano tutti gli eventi di una tale vita. N la casa, n il passo, n la veste, n il vaso d'argilla attestano d'essere stati inventati dal bisogno; ma piuttosto come se in essi dovesse esprimersi una sublime felicit e una serenit olimpica e in un certo senso un giocare con ci che serio. Mentre l'uomo guidato da concetti e da astrazioni grazie a questi respinge solo l'infelicit senza per procurarsi

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la felicit dalle sue astrazioni, mentre egli mira il pi possibile alla liberazione dal dolore, l'uomo intuitivo a sua volta stando nel cuore di una civilt, dalle sue intuizioni ottiene non solo una protezione dal male, ma anche, in flusso continuo, rischiaramento, serenit, redenzione. Certo egli soffre pi intensamente, quando soffre; anzi, egli soffre pi di frequente, perch non accetta di imparare dall'esperienza e sempre di nuovo cade nel medesimo tranello. Nel dolore egli tanto irragionevole quanto nella felicit, giacch grida ad alta voce e non si d pace. Quanto diversamente si comporta lo stoico, in una disgrazia analoga, ammaestrato com' dall'esperienza, lui, che si domina grazie al concetto! Egli, che in altre occasioni cerca unicamente la rettitudine, la verit, la liberazione dagli inganni e la difesa dalle seducenti sorprese, esibisce ora, nell'infelicit, il capolavoro della simulazione allo stesso modo in cui il suo antagonista l'aveva esibito nella felicit; non mostra un volto che si contrae e si scompone, ma per cos dire una maschera con tratti di dignitoso equilibrio, e non grida n altera la sua voce. E se un temporale si abbatte su di lui, si avvolge nel suo mantello e lentamente s'incammina sotto di esso.

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