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PROLOGO

1 Dobbiamo incontrarci fra tre giorni alla torre d’ombra, dopo il calar del sole.
E’ urgente, fate in modo di esserci. -
Haza rilesse il biglietto tre volte.
<< Eppure doveva già essere qua. Voglio dire.. ci ha detto lui che voleva
vederci no? >> a parlare era stata Meifay, che ora guardava gli altri due in
attesa della risposta.
Asamir se ne stava seduto vicino al tavolo con le braccia incrociate e senza
dire una parola da quando era arrivato.
<< Sephiro non è mai stato molto affidabile, però arriverà. Ne sono sicuro >>
rispose Haza. Rimasero in silenzio per il resto del tempo, Asamir sempre
seduto, Haza con il biglietto in mano e Meifay si guardava in giro.
Si trovavano nella torre d’ombra, un luogo circondato dalle acque e dove il
sole non splendeva mai.
Era una torre completamente bianca, alta quindici metri, e con grandi finestre
per ogni piano.
<< Siete qui >> tutti e tre si girarono e guardare Sephiro.
<< Sei arrivato finalmente >> lo riprese Haza << Al calar del sole. Non c’è
male se si pensa che la luna si è alzata da un pezzo >>
Si sedettero tutti quanti intorno al tavolo, tranne Asamir che lo era già.
<< Vi ho chiesto di venire qua oggi per parlare di una questione di massima
importanza >> cominciò Sephiro, poi vedendo che nessuno rispose continuò
<< Bisogna usare i libri, è giunto il momento >> a questo punto parlò Meifay
<< No Sephiro, non possiamo ancora. È troppo presto e i libri sono ancora
troppo potenti. Dobbiamo aspettare. >> Sephiro scrutò Meifay con sguardo
feroce, poi si voltò verso Haza che fece un cenno di assenso in direzione di
Meifay, e per ultimo guardò Asamir, che non fece niente.
<< Voi non capite. Si stanno prendendo gioco di noi, ci stanno rovinando.
Credono di esserci superiori, vi rendete conto? Non ci temono più, non
credono più a noi, non ci rispettano! Io dico che bisogna ricominciare da
capo.>>
<< Non essere così drastico Sephiro >> disse Haza in un sussurrò << Gli
esseri umani non sono poi così male. Io li osservo sai? Li studio in ogni
particolare. Mi incuriosiscono. Tu che ne pensi Meifay? >>
<< Io ho già detto cosa penso. Non è ancora tempo. E anche se potessimo
prendere i libri non lo farei lo stesso. Dobbiamo dargli un’altra possibilità >>
concluse lei.
Seguì un attimo di silenzio in cui nessuno parlò, né si guardarono in faccia.
<< Che assurdità >> un ghigno si formò sule labbra di Sephiro << Non ho
mai sentito una tale assurdità. Sono millenni che li sopportiamo, troppo tempo
che ci maltrattano. Qualche centinaio di anni fa non erano così. Dì un po’
Haza, chi pregavano gli umani quando le tempeste squarciavano i cieli?
Pregavano te, ti imploravano di farla cessare. Ora ti pregano solo nei periodi
di siccità. Non ti temono.
E tu Meifay? Chiedevano a te di far cessare i terremoti e di vegliare sul loro
raccolto. E adesso le foreste sono dimezzate, usano più legna di quanta gliene
serva realmente.
Ma non è finita, pregavano Asamir perché i maremoti finissero, e affinché la
pesca fosse più ricca e generosa. Ora usano le loro navi per attraversare il
mare e i laghi, si credono degli dei.
E in quanto a me? Di me non hanno più paura. Una volta non avevano paura
di me, avevano terrore. Glielo leggevo negli occhi, mi imploravano di non
bruciare le loro case, di aver pietà del loro bestiame. Ora mi usano per
cucinare il loro maledetto cibo. Insomma siamo o non siamo gli Elementi? Noi
mandiamo avanti questo marciume di mondo, e a noi spetta il dovere di
decidere quando e come ricominciare da zero >> urlò sbattendo il pugno sul
tavolo. Traboccava di rabbia.
<< No Sephiro è inutile che ti arrabbi. Questo non cambierà la nostra
decisione. >>
Sephiro non trattenne più la sua rabbia e con zampilli di fuoco che si
sprigionavano dalle sue braccia, si gettò verso Meifay .Ma qualcosa glielo
impedì.
Asamir che fino a quel momento non si era mosso e non aveva detto niente, si
era alzato di scatto e aveva afferrato le braccia di Sephiro, che iniziarono a
emettere fumo.
<< Stai zitto >> disse semplicemente e Sephiro dovette obbedire, ritornando al
suo posto e cercando di darsi un contegno.
<< Bene, allora è deciso. Per adesso non si farà proprio niente. Possiamo
andare >> sentenziò Haza.
E dopo queste parole si dissolsero tutti nell’aria.
NELLA FORESTA

La città di Fena sorgeva nella regione ovest del mondo conosciuto. Era
completamente circondata da una fitta foresta, che i cittadini chiamavano
semplicemente La Foresta. C’è da dire che gli abitanti di questa piccola
cittadina non erano dotati di grande fantasia per i nomi, basti pensare a come
chiamarono gli unici due fiumi che attraversavano la zona, uno Fine e l’altro
Fano poi, quando verso la fine della selva questi due fiumi si univano per dar
vita ad un solo corso d’acqua, la gente lo definiva unicamente Il Grande Fiume.
Ma se per i nomi la fantasia era scarsa, non si poteva dire altrettanto per le
storie sulla vecchia foresta. Ne giravano di tutti i tipi, e naturalmente la più
classica era quella che narrava di una vecchia strega che si aggirava furtiva per
la foresta mangiando i bambini, ma questa storia è conosciuta in media da
qualsiasi città del mondo conosciuto. Altre narravano di spiriti imprigionati agli
alberi con catene magiche, che con il loro luccichio attiravano i passanti e
quando questi erano abbastanza vicini succhiavano loro via l’anima. Oppure di
una creatura gigantesca vagamente somigliante ad un orso, che intrappolava le
prede nella sua tana e le faceva morire di fame, per poi sbranarli pezzo per
pezzo con i suoi enormi e affilatissimi denti. Ma la più stravagante delle storie
era sicuramente quella delle felci assassine. Una volta la vecchia massaia Rea
aveva giurato davanti all’intera città, di averne vista una strangolare il suo cane.
In seguito si scoprì che era stata lei stessa a strangolarlo, ma c’era ancora gente
disposta a crederle riguardo alla storia della felce.
Tuttavia queste non erano storie create per spaventare i bambini, anzi erano
proprio gli adulti i primi a crederci, e per questo motivo nessuno sapeva cosa
c’era al di là della foresta, quindi Fena rimase sempre una città completamente
isolata dal resto del mondo.
Naturalmente non mancavano giovani avventurieri che partivano per esplorare
la selva in tutta la sua grandezza, ma quando tornavano dal loro viaggio non
facevano in tempo ad aprire bocca, che venivano subito condotti a farsi
benedire dal sacerdote di Fena. Questa pratica veniva usata per essere sicuri che
i giovani non fossero sotto qualche incantesimo o diavoleria simile, e quando
questi ultimi cercavano di spiegare che nella foresta non c’era niente che non
andasse, le loro parole avevano la straordinaria capacità di sbriciolarsi nel
vento.
Solo una persona sembrava ascoltare con interesse le storie di chi tornava dal
viaggio, ed era una bambina di tredici anni che si chiamava Elemirè.
Quel giorno la ragazzina era andata ai margini del bosco, non molto distante da
casa sua. Al pensiero di quello che stava per fare, un brivido di eccitazione
misto a paura le percorse la schiena facendola tremare. Provava sempre quella
sensazione quando era sull’argine di quella foresta che a lei tanto piaceva, ma
che suo padre detestava più di qualunque altra cosa. Immediatamente pensò che
forse stesse facendo un errore, forse non doveva addentrarsi nel suo regno come
lo chiamava lei, suo padre l’avrebbe picchiata come l’ultima volta che l’aveva
scoperta a girovagare tra gli alberi, e i segni delle percosse subite erano ancora
evidenti sulle braccia. Ma le ferite che più le bruciavano non si potevano vedere
ad occhio nudo, perché risiedevano nel suo animo. Non aveva mai capito
perché suo padre fosse così ostile nei confronti della foresta, e del perché la
picchiava se lei ci entrava.
Questi pensieri la frenarono ancora per qualche istante, ma poi entrò, come
fosse una cosa naturale, come se fosse un richiamo troppo suadente per
resistervi, e si chiese se quella foresta non nascondesse veramente qualcosa di
magico.
Camminò per mezz’ora, i lunghi capelli biondi risplendevano alla sottile luce
che penetrava dal folto degli alberi, e i suoi occhi verdi si mimetizzavano
perfettamente nella vegetazione, quasi ne facessero parte.
Il percorso che seguì non fu difficile, anche perché erano quasi tre anni che ci
andava di nascosto e ormai sapeva tutti i tragitti più facili e meno insidiati dai
rovi, e finalmente si fermò in una piccola radura circondata da enormi sequoie
che alla vista sembravano giganteschi e inquietanti guardiani del luogo.
Tutt’intorno ad Elemirè c’erano pianticelle di ogni tipo e tantissimi fiori
coloratissimi. Veniva da chiedersi come fosse possibile che crescessero tanto
belli con così poca luce. Elemirè si sedette vicino a dei tulipani dal colore rosso
fuoco, avendo cura di non schiacciarne neanche uno, e rimase lì a contemplare
la bellezza di quel posto e la serenità che le veniva infusa nell’animo.
Un sottile venticello le scompigliò i capelli, e lei si immaginò nelle sembianze
di un’aquila mentre cavalcava quella brezza leggera, e si faceva trasportare con
eleganza in luoghi a lei sconosciuti. Come avrebbe voluto avere un bel paio di
ali per poter volar via da quel posto, finalmente avrebbe potuto esplorare il
mondo, vedere le città al di la della foresta, conoscere persone nuove e culture
diverse dalla sua, ma ciò che le sarebbe piaciuto di più era vedere il mare. Non
l’aveva mai visto di persona ma lo sognava spesso, un’immensa distesa d’acqua
di un azzurro limpido e cristallino, e nei suoi sogni lei era sempre a pochi passi
dalla riva, con l’acqua che la bagnava dolcemente fino alle ginocchia. Si
scopriva a guardare l’orizzonte con una tristezza a lei sconosciuta, il vento le
faceva volar via qualcosa dalla mano e la ricopriva in un abbraccio che sapeva
di conforto, poi un turbinio di foglie di ciliegio le scorreva davanti agli occhi e
una lacrima le scendeva dal viso. Allora lei si girava e poi più niente. Il sogno
finiva sempre così, lei che si girava a guardare qualcosa e poi si svegliava, e
l’unica cosa che le rimaneva era la tristezza e un senso di vuoto.
Dopo un po’ che stava lì seduta a occhi chiusi, immersa nei suoi pensieri e nella
tranquillità, un rumore la fece ritornare in sé. Si girò cauta per vedere chi fosse
e quando individuò un cespuglio che si muoveva in maniera innaturale, si alzò
mormorando.
<< Finalmente!! >>
Si incamminò lenta e attenta a non far rumore, doveva aggirare quel cespuglio.
Spostò un ramo basso che altrimenti le avrebbe impedito il cammino e proseguì
per un piccolo sentiero di sassi, che aveva costruito proprio lei. Quando arrivò
al cespuglio, vide una coda rossiccia spuntare dalle foglie, e dovette premere le
mani sulla bocca per non scoppiare a ridere.
<< Si vede che qualcuno qua ha voglia di giocare a nascondino >> mormorò
rivolta al cespuglio, che subito si mosse goffamente, e dopo qualche secondo ne
uscì fuori una volpe.
<< Ciao Var!! Sai, se la gente ti conoscesse, sono sicura che smetterebbe di
andare in giro a dire che le volpi sono furbe >> disse la bambina rivolgendo
alla volpe il suo sorriso più furbo. Lui la fissava con delusione perché era stato
scovato subito.
<< E dimmi Var.. gli altri dove sono nascosti? >> domandò lei con uno sguardo
da angioletto. Ma la volpe le si rivolse con uno sguardo indignato che sembrava
significare “Non te lo dirò mai”.
<< Come? E perché non vuoi dirmelo? Dai Var.. tu sei sempre stato il mio
preferito lo sai.. >> provò a piagnucolare lei, ma dalla volpe venne solo un
ostinato silenzio.
<< E va bene.. vorrà dire che li cercherò da sola, contento ora? >>
Elemirè si alzò e andò di nuovo verso la radura. Una volta arrivata si guardò
intorno per cercare gli altri suoi amici.
Lo sguardo le si posò su un gruppo di rami caduti che lei stessa aveva
raggruppato per terra, però c’era qualcosa di strano.. guardò meglio e ancora
una volta dovette fare uno sforzo enorme per non scoppiare a ridere. Dietro ai
rami si intravedevano due occhi scuri come la notte e, con un po’ più di
attenzione si potevano vedere anche delle corna che però, dovette ammettere
anche lei, erano perfettamente mimetizzate. Andò dritta verso la piccola catasta
di legno e fece finta di appoggiarsi per riposare, poi guardò gli occhi che
spuntavano da una fessura tra i rami e disse << Hey Cor, se non te ne fossi
accorto ti ho trovato.. esci fuori.. avanti >> Elemirè era divertita, e quando vide
il cervo uscire a testa bassa per l’umiliazione, si divertì ancora di più.
<< Io ve l’avevo detto che in questo gioco sono troppo forte, ma voi continuate
ad insistere.. >> disse rivolgendosi alla volpe ed al cervo che ora si erano messi
in centro alla radura, entrambi sconvolti dal fatto che si fossero fatti prendere
subito.
Elemirè si stava già preparando per andare a vedere se c’era qualcun’altro, ma
le grida di un’aquila la distrassero. Guardò in alto cercando di capire da che
direzione venisse l’animale, ma il folto degli alberi era troppo fitto e non si
poteva vedere neanche un angolo di cielo.
<< Lian!!! Lian siamo quaggiù! >> si mise ad urlare Elemirè, che
evidentemente conosceva l’aquila.
Dopo qualche istante il rumore di ali che sfregano contro i rami annunciò
l’arrivo dell’animale. Elemirè vide l’aquila farsi strada attraverso le foglie di un
abete e poi volare verso di lei, ma era strana, doveva essersi fatta male, così fu
la bambina a compiere i pochi metri che li separavano, permettendo all’animale
di potersi riposare a terra.
Quando vide che l’aquila aveva un profondo taglio sull’ala, le si strinse il cuore.
<< Lian.. chi ti ha fatto questo? >> chiese Elemirè con gli occhi lucidi, e
quando tentò di prender tra le mani l’ala ferita, l’aquila cominciò a fare dei
versi disumani ed a sbattere le ali freneticamente nel tentativo di alzarsi. Ma era
sfinita e non ce l’avrebbe mai fatta ad allontanarsi, questo Elemirè lo sapeva.
Sentiva la sofferenza della sua amica, gliela leggeva negli occhi. Il viso della
ragazzina si fece improvvisamente serio, attese che l’aquila si calmasse e poi
prese l’ala tra le sue mani. Lian ricominciò subito ad agitarsi sbattendo le ali,
ma Elemirè tenne la presa molto salda e non la lasciò fuggire. Il dolore rese
Lian estranea ad ogni sentimento di amicizia, tanto che cominciò a beccare il
braccio della bambina, e in pochi minuti per terra si disegnò una piccola pozza
di sangue. Var e Cor erano come pietrificati davanti a quella scena
raccapricciante, non capivano cosa stava tentando di fare Elemirè, ed erano
incapaci di muovere anche il più piccolo muscolo, Lian era completamente
impazzita.
Il sangue iniziò a scendere copiosamente dal braccio di Elemirè, ma lei non
disse niente. Non un lamento, non un gemito, neppure una smorfia di dolore ad
incresparle i fini lineamenti del viso. Teneva gli occhi chiusi e sembrava non
curarsi delle cose che stavano accadendo tutt’intorno a lei.
Poi improvvisamente aprì gli occhi, e mentre innumerevoli goccioline di sudore
le imperlavano la fronte, guardò Lian e le sorrise. L’aquila si era calmata, sulla
sua ala non c’era più ombra del taglio. Provò ad alzarsi in volo, ma era ancora
troppo debole e riuscì a fare solo due piccoli cerchi a tre metri da terra, poi
ridiscese e si mise davanti a Elemirè.
Grazie Elemirè, ma come hai fatto? Pensò Lia, e la bambina, che aveva il dono
di riuscire a capire gli animali, sorrise stanca e rispose. << Ho solo pensato
che.. bè.. non volevo che tu soffrissi. Tutto qua.. >>
L’aquila la guardò con gratitudine, e la bambina rimase seduta per un po’ a
riposarsi, poi si guardò il braccio. Era martoriato dalle beccate ricevute, e
pulsava. Il sangue non scendeva quasi più e cominciavano a formarsi le prime
croste intorno alle ferite. Elemirè cominciava solo ora a sentire dolore, ma la
cosa non le importava. Piuttosto era preoccupata perché suo padre sicuramente
avrebbe capito che era andata nella foresta. Quelle ferite non avrebbe potuto
procurarsele da nessun’altra parte. E se non le avesse più permesso di uscire?
Cercando di scacciare quei pensieri negativi, Elemirè si alzò, ma subito le
venne un capogiro e dovette appoggiarsi ad un albero per non cadere. Var le si
avvicinò e cominciò a leccarle una mano. Elemirè lo guardò con affetto. Var era
veramente il suo preferito, era stato il primo animale con cui lei avesse mai
parlato, e poi aveva quello strano ciuffetto bianco sopra l’occhio destro che le
piaceva troppo. << Var ascolta, devo andare al Fano a lavarmi, altrimenti poi
mio padre mi sgrida, come possiamo fare? Io non ho le forze sufficienti per
camminare.. >> Disse Elemirè sedendosi per terra. La volpe la guardò
pensierosa per qualche istante, poi si girò verso Cor. Il cervo seppe subito cosa
fare e così, dopo non più di cinque minuti, erano già partiti alla volta del fiume,
Elemirè in groppa a Cor. Per quasi tutto il tragitto la ragazza era in una specie
di semi incoscienza, percepiva solo il morbido pelo della sua amata volpe
scorrerle di tanto in tanto tra le dita, e pensò che non ci fosse niente di più bello.
Lei non avrebbe mai abbandonato Var, per niente al mondo. E dopo questo
dolce pensiero, cadde in un sonno profondo.
Si risvegliò un’ora più tardi con una sensazione strana agli occhi. Erano umidi
ma non si ricordava di aver pianto. Ne aprì uno e capì subito cosa era successo:
Var le aveva leccato gli occhi per farla svegliare. Aprì anche l’altro e
sbadigliando si mise seduta, e vide che Var era davanti a lei con la lingua di
fuori, pronto per ricominciare a leccarle gli occhi.
<< Potevi trovare un modo migliore per svegliarmi, anziché leccarmi gli occhi..
no? >> sussurrò Elemirè alla volpe, la quale ricaccio la lingua in bocca e
abbassò le orecchie in segno di scusa. Per tutta risposta Elemirè gli accarezzò la
testa.
Quando la bambina si riprese un po’ dalla stanchezza, si pulì gli occhi con la
manica, poi si alzò e si guardò intorno. << Siamo arrivati >> mormorò tra sé e
sé, e si diresse verso il fiume, dove Cor stava bevendo. <<Grazie per avermi
portato fin qui Cor, sei un vero amico >> disse Elemirè al cervo, poi si
inginocchiò sulla riva del Fano e immerse il braccio ferito. L’acqua era gelata e
tagliente, e il braccio pulsava più che mai. Poco alla volta il fiume portava via il
sangue incrostato di Elemirè, che appariva come sottili fili rossi che andavano a
mescolarsi nell’acqua fino a scomparire dalla vista. Elemirè chiuse gli occhi e
pensò che in fondo non faceva così male, anche se forse era per il fatto che
l’acqua era fredda. Restò inginocchiata alla riva per una decina di minuti, a
godersi quella sensazione di benessere, poi però decise a malincuore che era ora
di tornare indietro. Doveva anche escogitare un piano per fare in modo che suo
padre non vedesse il braccio, altrimenti sarebbero sicuramente stati guai seri.
Aprì gli occhi e con un po’ di esitazione estrasse il braccio dall’acqua. Si
ritrovò a pensare che forse il Dio del fiume l’avrebbe guarita. Si, adesso
avrebbe abbassato lo sguardo sul braccio e le ferite non ci sarebbero più state.
Con questa speranza nel cuore guardò il braccio. No, il Dio del fiume non aveva
avuto pietà per lei, il braccio era ancora pieno di buchi e lividi, solo che ora non
c’era più tutto quel sangue di prima.
Si rimisero in marcia solo in tre: Elemirè, Cor e Var. Lia li aveva salutati al
fiume, dicendo che voleva farsi un volo fino al Fine.
Elemirè era un po’ preoccupata, gli occhi puntati sulla coda rossa di Var,
pensava ad un piano per coprire con cura il braccio. Quel pensiero la
accompagnò fino alla radura, dove dovette salutare i suoi amici. << Ciao Cor,
grazie ancora per quel che hai fatto! >> e gli diede una grattata dietro le
orecchie, poi si girò verso Var. << Var io vado. Non so se domani verrò, però
farò di tutto per esserci, va bene? >> lui le leccò una guancia, ed Elemirè lo
abbracciò con affetto, facendo affondare le dita nel pelo, poi gli diede una
carezza sulla testa e se ne andò.
Quando arrivò in città, Elemirè si accorse che doveva essere molto tardi, il sole
iniziava a scomparire dietro le fronde degli alberi ad ovest, forse era già ora di
cena. Sarebbe dovuta già essere a casa, ma prima doveva fare una cosa, quindi
corse più veloce che poteva per il viale di terra battuta della città. Svoltò a
destra dove c’era la bottega del signor Teco, il fornaio di Fena, e sentendo il
profumo del pane le vennero i crampi allo stomaco. Ma non era il momento di
pensare al cibo, avrebbe mangiato più tardi, e si fiondò verso la casa dei Gali.
La vedeva già in lontananza, la loro casa era la più bella di Fena.
Era fatta completamente di legno lavorato e rifinito con cura maniacale, e ai lati
della porta d’ingresso c’erano due leoni, anch’essi di legno. Dietro la casa c’era
una stalla di loro proprietà, vi allevavano maiali, pecore e galline perché il
Signor Gali era un macellaio, anzi era il miglior macellaio di Fena. Alcuni
andavano dicendo che le lame dei coltelli del Signor Gali, erano state forgiate
direttamente dagli Dei, donandogli così l’abilità di cui era dotato.
In realtà il Signor Gali discendeva da una lunga stirpe di macellai, quindi si può
dire che quel lavoro l’aveva nel sangue da quando era nato.
Quando Elemirè arrivò dai Gali, era ormai senza fiato e le faceva male un
fianco. Attese qualche istante per riprendere fiato, e aggirò la casa per andare
sul retro. Si diresse verso la finestra che stava sulla destra e si aggrappò sul
bordo per guardare dentro, poi prese a bussare. Si sentì un rumore di passi,
dopodiché qualcuno aprì la finestra per vedere chi aveva bussato. Si chiamava
Livor ed era un ragazzo di quattordici anni, magro come un chiodo, con una
folta chioma di capelli neri e due occhi azzurri talmente grandi, che sembrava
perennemente spaventato. Era un tipo un po’ strano, con uno sguardo
indecifrabile. Non si riusciva mai a capire cosa gli passasse per la testa, se era
triste o felice o arrabbiato. Non è che lo facesse apposta o non provasse
emozioni, anzi ne provava tantissime, ma comunque il massimo della sua
espressività era un sorriso appena accennato, anche se solo in casi eccezionali,
quando era particolarmente di buon umore. Ma Elemirè si fidava cecamente di
lui, loro erano amici. Lei aveva il privilegio di essere l’unica persona, o quasi,
ad accendere il sorriso spontaneo sulla faccia di Livor. Ogni tanto anche Livor
era andato nella foresta con lei, ma ora che aveva iniziato ad aiutare il padre con
la macelleria non aveva più molto tempo. In ogni caso, Elemirè sapeva che
poteva contare sul suo appoggio in caso di bisogno, e ora aveva bisogno.
Livor si sporse ancora un po’ dalla finestra, e con quello sguardo un po’
inquietante guardò la ragazzina.
<< Elemirè, ma che ci fai qui? No.. non dirmelo.. >> cominciò il ragazzo, ma
Elemirè lo interruppe. << Livor.. io.. >> ma la ragazza non finì la frase, perché
questa volta fu Livor ad interromperla. << Va bene Elemirè.. >> disse il
ragazzo portandosi una mano alla fronte per scacciare una mosca, che poi
schiacciò contro il muro con un pezzo di carta, tutto questo senza che la minima
espressione gli passasse sul volto. << Diciamo che sei stata da me tutto il
pomeriggio a giocare, che non ci siamo accorti dell’orario e che la prossima
volta staremo più attenti. E se tuo padre non ti crede, diciamo pure che verrò io
a parlarci per convincerlo.. >> la ragazza gli sorrise con gratitudine, sapeva che
Livor avrebbe capito al volo quello che gli stava per chiedere, e non diede
nemmeno il tempo al ragazzo di finire il discorso che già si stava allontanando,
quindi Livor dovette sporgersi dalla finestra per urlarle << Elemirè, ricorda che
non potrò coprirti per sempre! >> la ragazza che ormai era già lontana, si girò e
gli urlò << Sei un amico Livor! >> poi fece un cenno di saluto con la mano e
corse via. Livor stette per un po’ a vederla correre via, sempre con quegli occhi
troppo grandi, poi chiuse la finestra e andò in camera sua.
Cinque minuti più tardi Elemirè arrivò davanti alla porta di casa sua, ancora una
volta col fiato corto e il fianco indolenzito.
Aveva programmato tutto. Sarebbe entrata in casa silenziosamente e avrebbe
sgattaiolato nella sua camera, poi avrebbe cercato una vestaglia a maniche
lunghe che coprisse bene il braccio, e tutto sarebbe andato per il meglio. Il
giorno dopo poi, si sarebbe curata le ferite con le erbe medicinali che coltivava
sua madre. E se suo padre si fosse arrabbiato perché aveva fatto tardi, avrebbe
cercato di patteggiare. Poteva sempre proporsi per andare ad aiutare sua madre
al mercato.
Si, ce l’avrebbe fatta. Aprì piano la porta, attenta a non fare il minimo rumore,
ma ci fu una brutta sorpresa ad attenderla.
Suo padre la aspettava in piedi, braccia conserte dietro la porta, e l’ultima cosa
che Elemirè ricordò di aver visto quella sera, fu la faccia livida di rabbia di suo
padre.
LA DECISIONE DI ELEMIRE’

Livor si svegliò presto, fuori era ancora buio. Stette a guardare il soffitto per un
po’, senza che nessun pensiero gli si formasse nella mente. Poi però si mise a
pensare che in fondo non era niente male starsene lì sdraiato a guardare in alto.
Le travi di legno nascondevano tante immagini, bisognava solo dare libero
sfogo alla fantasia e le trovavi. Ecco che ora ci provava: una mucca con le
orecchie da elefante, una gallina con la zampa rotta, una lumaca con la sua scia
che lo fece rabbrividire; a lui le lumache non piacevano, pensava che fossero
frutto del demonio. Un coniglio, una mosca.. già.. una mosca. Al pensiero di
quella che gli aveva dato fastidio tre giorni prima, Livor perse interesse e
distolse lo sguardo.
Si tirò a sedere sul letto e tastò le lenzuola in cerca dei pantaloni e della
casacca, poi quando si fu vestito andò in cucina per fare colazione.
<< Oh ciao caro, non sapevo che fossi già sveglio.. >> a parlare era stata la
madre di Livor, la signora Filla, era una donna bassa e un po’ grassoccia, con
dei folti capelli ricci e gli occhi azzurri come quelli del figlio, ma non grandi
altrettanto. La gentilezza della signora Filla era ormai proverbiale a Fena, e per
questo tutti le chiedevano dei favori. Non riusciva mai a dire di no.
<< ..Stamattina si mangia pane e burro, sei d’accordo
caro? >> Livor la guardò con i suoi occhi esagerati e inespressivi, e fece di sì
con la testa, pensando che la domanda che gli era stata posta fosse abbastanza
stupida, dato che pane e burro lo mangiavano tutte le mattine.
<< Oh.. c’è anche il latte, Molly si è lasciata mungere senza troppe storie oggi..
>> Molly era la capra. Un’animale vecchio, scontroso e apparentemente senza
voglia di vivere.
La colazione la consumò lentamente, la madre di sottofondo che parlava, e
parlava.. non la smetteva più. Se Livor avesse potuto cambiare qualcosa a sua
madre, sicuramente l’avrebbe fatta meno loquace. Ma tanto lui aveva imparato
a non ascoltarla, ogni tanto faceva dei movimenti di assenso con la testa, e lei
era contenta. E continuava a parlare.
Mentre addentava un pezzo di pane, Livor percepì una sensazione strana alla
bocca dello stomaco, ma non era qualcosa di fisico. Provò ad interrogare il
proprio Io interiore per capire quale emozione fosse e poi capì. Preoccupazione.
Ora sapeva che cosa fosse quella sensazione, ma non riuscì a capire a cosa fosse
dovuta, quindi interrogò ancora il suo Io per avere informazioni. Elemirè.
Ma certo. Associò preoccupazione ad Elemirè e capì. Erano tre giorni che non
la vedeva in giro, e la cosa aveva un che di misterioso dato che la vedeva
sempre. Decise che dopo aver avuto la lezione quotidiana di macelleria da suo
padre, sarebbe andato a casa della ragazza per vedere se stava bene.
Bene, ora era tutto a posto, di altre emozioni non ne sentì, per Elemirè aveva già
trovato una soluzione, quindi poté tornare al presente. Finì il resto del pane in
un solo boccone, bevve il latte a lunghe sorsate e si preparò per andare dal
padre, che lo stava aspettando nel retrobottega.
Quella mattina l’aria era fredda, e Livor fece di corsa i tre metri che separavano
la bottega da casa sua.
Passò dietro il bancone dove venivano vendute le carni, e aprì una porta che
dava su un corridoio, lo attraversò lentamente e arrivò ad un’altra porta, dove
c’era una stanza che non serviva a nulla. Era semplicemente la stanza che
portava al luogo dove venivano tagliate le carni. L’odore del sangue gli trafisse
le narici; non si era ancora abituato a quel “profumo di carne” come lo
chiamava suo padre. Aprì l’ultima porta che lo separava dal Signor Gali,
chiedendosi perché mai dovessero essercene così tante, ed entrò.
<< Figliolo! Non ti aspettavo così presto! Entra ragazzo! >> questo era il
Signor Gali. Un uomo alto, grosso e molto forte. Aveva due folti baffi, occhi
neri come la pece e pochi capelli in testa. Era sempre allegro e di ottimo umore
e, pur non facendo apposta, anziché parlare normalmente, urlava sempre come
un forsennato. <<Ciao papà, Ciao Quar.. >> disse rivolgendosi al ragazzino che
stava tagliando un coniglio lì accanto. Quar sferrò un colpo di mannaia su una
coscia del coniglio, e poi salutò Livor.
<< Figliolo, oggi per te ho un lavoro speciale! Ho qua una coscia di vitello, e tu
avrai l’onore di tagliarla! Per un macellaio apprendista è come avere in mano
l’oro, non sei contento? >> Lo sguardo del Signor Gali era pieno di gioia,
quello del figlio un po’ meno, ma comunque Livor si limitò a fare un cenno di
assenso.
<< E bravo il mio ragazzo! >> urlò il Signor Gali dando una pacca sulla spalla
al figlio, che quasi cadde. Ed ecco il vizio che avrebbe tolto a suo padre se solo
avesse potuto. Quelle pacche erano davvero micidiali, non le sopportava.
<< Bene figliolo, ricordati; devi seguire la pellicina senza romperla! Hai capito?
Al lavoro, forza! >>
E Livor ubbidì con non poca rassegnazione, pensando che se avesse potuto
cambiare qualcosa di se stesso, sarebbe stato sicuramente quel lavoro.

Elemirè guardò dritta davanti a sé. Il mare cristallino si stagliava imponente e


immenso, l’odore di salsedine le trafisse dolcemente le narici. Guardò a destra,
poi a sinistra. Tutt’intorno a lei gli scogli si ergevano alti e massicci, e l’acqua
che si increspava contro di essi formava una densa schiuma bianca. La
ragazza si tolse gli stivaletti e cominciò a camminare sulla sabbia, poi
d’improvviso si ritrovò in mare, a pochi passi dalla riva. L’acqua la bagnava
fino alle ginocchia, il vento le soffiava tra i capelli.
Quella brezza leggera le fece volare via qualcosa dalla mano, e lei sentì
montare la tristezza dentro di sé. Diede uno sguardo all’orizzonte, il mare
sembrava non finire più. Delle foglie di ciliegio le danzarono di fronte e gli
occhi cominciarono a bruciarle, una lacrima le scese sul viso.
<< Elemirè.. Elemirè.. >> qualcuno la chiamava. Diede un’ultima occhiata
all’orizzonte, mentre il vento la abbracciava. << Elemirè.. Elemirè.. >> la
ragazza si girò lentamente per vedere chi fosse..

<< Elemirè, non ti svegliavi più.. hai fatto un bel sogno? >> la ragazzina si
guardò intorno. Si trovava nella sua stanza, era stato solo un sogno, pensò con
un po’ di amarezza. Guardò la donna che l’aveva chiamata, era alta e bella.
Aveva capelli color sabbia legati con un nastro rosso, e gli occhi verdi come i
suoi. Si chiamava Masa. << Ciao mamma >> disse sbadigliando Elemirè.
<< Ciao tesoro, dormito bene? Ho portato delle erbe, adesso ti medico le ferite
e poi ti porto la colazione, va bene? >>
Elemirè non rispose, si sdraiò di lato sul letto e guardò fuori dalla finestra.
Doveva essere mattino inoltrato, il sole era alto in cielo. Aveva trascorso gli
ultimi tre giorni a letto, incapace di alzarsi perché le faceva male tutto. Suo
padre doveva averla picchiata molto, aveva lividi su tutto il corpo, e sullo
zigomo destro c’era anche un taglio. Lei ricordava solo lo schiaffo che le aveva
tirato in faccia il padre, poi era svenuta e quando si era risvegliata si trovava già
a letto.
Per tutti e tre i giorni, la madre l’aveva medicata e le aveva portato da
mangiare, ma del padre non si era vista neanche l’ombra. Un dolore al braccio
la distolse dai suoi pensieri e si girò di scatto. Masa le stava mettendo delle erbe
sulle ferite che le aveva fatto Lian, l’aquila. Elemirè osservava la mano della
madre; nonostante facesse due lavori, tra cui uno era coltivare il piccolo
orticello dietro casa, le sue mani erano belle e delicate. Spalmava le erbe con
piccoli gesti esperti. Elemirè non sapeva come facesse sua madre a conoscere
l’arte medica e le erbe, ma restava incantata ogni volta che la vedeva medicare
qualcuno. C’era eleganza nei suoi movimenti.
<< Non ti preoccupare tesoro, tuo padre non ha visto queste ferite >> la
rassicurò la madre indicando il braccio << e non sarò di certo io a dirglielo, ma
sa comunque che sei andata nella foresta >> continuò. Poi guardò la figlia con
aria stanca e sofferente, le accarezzò una guancia con la mano affusolata, che
scaldò il cuore di Elemirè. << Devi stare attenta bambina mia. Lo sai che tuo
padre non vuole che vai nella foresta. E io non posso fare niente per fargli
cambiare idea >> gli occhi della donna diventarono lucidi, poi però rivolse un
sorriso alla figlia e chiese: << Come sta il tuo amico.. come si chiamava.. ah si
Var? >>
Elemirè guardò la madre e lentamente si tirò su a sedere per farsi medicare la
schiena.
<< Var sta bene, ma mamma.. perché papà non vuole che io vada nel bosco?
Non è un luogo pericoloso.. ci sono stata tante volte e non mi è mai successo
niente.. >>.
Masa si alzò a prendere uno straccetto, con il quale cominciò a pulire la schiena
della figlia che era percorsa dal un lungo livido blu. << Non lo so Tesoro, non
lo so.. >> la conversazione si concluse così, e fra le due calò il silenzio.
Masa continuò a medicare la figlia senza dire una parola, la vista delle ferite le
laceravano l’anima. E senza farsi vedere da Elemirè, pianse in silenzio,
pensando che fosse solo colpa sua se si trovavano in quella situazione.
<< Buongiorno signorino Livor! Bella giornata non trova? Davvero ottima! >>
urlò il signor Toni sporgendosi dalla porta della sua bottega di vino. << Già,
davvero bella. Buona giornata >> rispose Livor con l’aria impassibile di
sempre. Aveva appena finito di mangiare e si stava dirigendo verso casa di
Elemirè.
Forse dovrei comprarle qualcosa.. pensò. D’altro canto non era di buon gusto
andare a casa di qualcuno senza portare niente.
Si guardò in giro per vedere cosa poteva comprare, dopo la bottega del vino
c’era il fioraio, no, pensò, troppo scontati. Entrò in una via sulla destra e vide la
sartoria, il fruttivendolo, la macelleria di suo padre, tutta roba che non andava
bene.
Ma certo! Il fornaio, che idea brillante. E congratulandosi con se stesso, mise
le mani in tasca dirigendosi verso la panetteria.
<< Buongiorno signorino Livor! Ha visto che splendida giornata? Cosa posso
fare per voi? >> disse in tono gioviale il Sig. Teco.
<< Già, davvero bella. Mia dia una decina di biscotti per favore. >> rispose
Livor, soffermandosi a guardare le mani grassocce del panettiere, che subito
corsero verso un i dolci.
Era davvero grasso e sudaticcio, pensò il ragazzo. Probabilmente ogni cinque
biscotti sfornati, uno se lo mangiava, e se si pensa che ne faceva veramente tanti
allora forse si poteva spiegare la sua mole.
La mente di Livor stava formulando pensieri poco graditi, facendo immaginare
al ragazzo la scena del sig. Teco nel retrobottega, che prendeva un biscotto
ancora unto e bollente, e con sguardo febbrile lo divorava in meno di un
secondo, scoppiando poi in una risata malvagia.
<< Ecco a voi signorino, lo metto in conto. Se può farmi un favore già che è
qua, dica a sua madre che mia moglie avrebbe bisogno di un favore. Non saprei
dirle esattamente che cosa in questo momento.. può farlo? >> chiese il
panettiere, e Livor fece segno di sì con la testa. Non era mai riuscito a spiegarsi
come avesse fatto quel coso grosso e flaccido a sposarsi. E il suo modo di
parlare poi; ogni volta che pronunciava la “S” emetteva un fischio fastidioso.
<< Glielo dirò, buona giornata. >> e uscì dalla bottega.
Bene, si disse Livor, ho i biscotti che sicuramente piaceranno ad Elemirè. Ora
posso andare da lei. Ma non fece in tempo a finire questo pensiero, che un
gruppetto di ragazzini all’incirca della sua età, gli si parò di fronte. In testa c’era
Sam, il figlio del panettiere. Livor lo guardò pensando che questa era
decisamente una persecuzione.
<< Ciao Livor, vieni con noi? >> disse Sam grattandosi una guancia paffuta. <<
Leo giura di aver visto la massaia Rea dare la colpa ad un cespuglio per.. per
che cosa Leo? >> domandò girandosi verso l’amico. << Per avergli rubato i
calzini stanotte >> rispose un ragazzo magro e biondo.
<< Si, quello. Allora vieni? >> Livor non proferì parola, scosse solo la testa,
guardando i rotoli di grasso che si formavano sotto il mento di Sam, e pensando
che quel ragazzo da grande sarebbe diventato proprio come il padre.
<< Va bene, comunque non sai cosa ti perdi. Ci vediamo un’altra volta! >> e
corse via con tutti i suoi amici dietro.
A Livor quei ragazzi non stavano particolarmente simpatici, pensava che
fossero stupidi e noiosi. Andavano sempre a spiare la povera signora Rea con la
semplice scusante che era pazza; non che non lo fosse, ma a Livor non andava
di prenderla in giro.
Quella donna non aveva avuto una vita facile, il marito era morto dopo
neanche un anno che erano sposati, e l’unica cosa che le era rimasta era il cane.
Si diceva che un giorno era entrata nel bosco perché le era scappato dentro il
cane, e che quando ne uscì circa tre giorni dopo, aveva completamente perso il
senno della ragione.
Livor continuò il suo tragitto, il pacchetto di biscotti sotto braccio e il pensiero
ad Elemirè.
D’improvviso il ragazzo sentì un debole guaito e vide una coda rossa sfregargli
la gamba. << Ciao Var, non ti si vede spesso da queste parti >> disse Livor
senza smettere di camminare. La volpe gli trottava al fianco sperando che lui si
fermasse per un istante, ma siccome il ragazzo continuava a camminare
imperterrito, cominciò a guaire insistentemente, tirando con i denti un lembo
dei pantaloni del ragazzo.
<< Mi dispiace amico, è Elemirè quella che parla con gli animali, non io. Che
poi mi sono sempre chiesto come faccia a capirvi >> ammise Livor <<
Comunque se ti interessa io sto andando da lei. Se vuoi venire, penso che le
farebbe solo piacere >> disse dando alla volpe una grattata dietro le orecchie.
Alla fine Var seguì Livor, che ora stava svoltando un angolo che lo avrebbe
condotto in minor tempo alla casa della ragazza, e si ritrovò di fronte una donna
corpulenta e dai modi bruschi << Buongiorno Ragazzo. Non trovi che sia
proprio una bella giornata? Se non fosse per quel mascalzone di mio figlio,
giuro che se mi capita sotto mano lo strozzo.. >> disse la donna tutta
infervorata, gli occhi gonfi di rabbia. << Già, proprio bella. Arrivederci >>
rispose semplicemente lui senza degnarla di uno sguardo.
<< Ma che maniere, che strano quel ragazzo.. >> Livor sentì sussurrare alla
donna. Ormai lui non ci faceva più caso, ma erano tanti quelli che in paese lo
consideravano strano. Chi diceva che non sorrideva mai, che non parlava mai,
che non aveva amici all’infuori di quella ragazzina, pure lei strana peraltro.
Voci più maligne invece dicevano che non era figlio del sig. Gali e sua moglie,
che lo avevano trovato da qualche parte e spacciato per loro. Altrimenti come si
spiegherebbe? Con una madre gentile e premurosa, e un padre energico e
allegro come poteva nascere uno che era l’esatto contrario di loro?
Comunque a lui non interessava quello che la gente andava dicendo, sua madre
e suo padre non avevano mai avuto problemi con il suo modo di fare e di
essere, e questo poteva bastare.
Dopo una decina di minuti raggiunse la casa di Elemirè, la volpe sempre al suo
fianco, e bussò.
<< Buongiorno Signora Masa, Elemirè è in casa? >> disse Livor alla madre
della ragazza che aveva aperto la porta.
<< Certo caro, entra pure. Vedo che hai portato un amico con te. Ciao Var! >>
esclamò Masa accarezzando la volpe, che la guardò con aria strana.
<< Allora Livor, come stai? >> domandò la donna al ragazzo, il quale le rivolse
uno dei suoi rari sorrisi e le disse che stava bene.
<< Ero preoccupato per Elemirè, sono tre giorni che non la vedo. Le è successo
qualcosa? >>
<< Bè caro, forse è meglio se te lo spiega lei. Perché non vai di sopra? Io
intanto vi preparo una tazza di thè.. >> gli disse la Masa distogliendo lo sguardo
dal ragazzo.
Sapeva che Livor voleva molto bene ad Elemirè, e che erano molto affezionati,
per questo decise che li avrebbe fatti parlare da soli. Lei non doveva essere
presente.
Livor si alzò dalla sedia dove si era accomodato e prese i biscotti, poi si diresse
verso le scale che portavano alla camera di Elemirè, Var al suo fianco.

Elemirè era seduta sul suo letto, aveva sentito rumore di passi sulle scale e
sperava che non fosse suo padre. Quando sentì bussare si alzò per andare ad
aprire la porta, con il cuore in gola per la paura. La socchiuse quanto bastava
per vedere chi fosse, ma quando vide il viso inespressivo dell’amico la
spalancò. << Livor!! >> urlò la ragazza improvvisamente piena di gioia, e gli
gettò le braccia al collo, stringendolo a se fino quasi a soffocarlo. Elemirè era
talmente felice che non faceva neanche caso ai dolori delle percosse. Livor, il
suo migliore e unico amico era andato a trovarla, e ora contava solo questo. Era
visibilmente emozionata, quindi Livor aspettò che si staccasse, poi senza dire
una parola gli sorrise come non sorrideva a nessuno, e le indicò la volpe.
<< Var.. ma che ci fai qui? Che bello vederti >> abbracciò anche la volpe,
facendo affondare le mani nel pelo, e se alla vista di Livor era contenta, adesso
lo era ancora di più. I suoi più cari amici erano andati da lei, non poteva
chiedere di più.
<< Ti ho portato dei biscotti, spero ti piacciano >> le disse Livor indicandole la
scatola che aveva in mano.
<< Comunque.. cosa è successo? Non ti si vedeva più in giro. Ero preoccupato
sai.. >>
Prima di iniziare a raccontare l’accaduto, si sedettero sul letto con le spalle al
muro. Elemirè appoggiò la testa sulla spalla dell’amico, e Var si acciambellò
sulle gambe della ragazzina.
Dopodiché iniziò a raccontare quello che era successo dall’ultima volta che si
erano visti. Partì con il raccontare di quello che era accaduto a Lian quando era
andata nella foresta, e poi di come suo padre si era infuriato e l’avesse
picchiata, gli disse che era svenuta dopo il primo schiaffo e che da allora suo
padre non si faceva vivo con lei. << Però mamma mi è sempre stata affianco,
mi ha curata e mi ha fatto mangiare in camera. Guarda.. >> e gli mostrò il
braccio che ora era coperto solamente da lievi cicatrici tonde << Non si vedono
più neanche le ferite di Lian >>. Poi continuò dicendogli anche del suo stato
d’animo; era angosciata e si sentiva in colpa perché non riusciva a farsi
accettare dal padre, e allo stesso tempo non capiva perché la trattasse così male.
Ed infine gli raccontò del sogno ricorrente che aveva fatto anche quella mattina.
<< Bè Elemirè, tuo padre è proprio un grande mistero. Non mi piace il fatto che
ti picchi così, sono molto.. >> Livor stette qualche secondo in silenzio per
interrogarsi e capire come si sentiva, poi si girò verso Elemirè e continuò a
parlare << Molto arrabbiato, sì. Sono davvero arrabbiato. Mentre per il sogno
direi che non è niente di preoccupante, sul serio. Anche io ho un sogno
ricorrente sai. Vuoi sentirlo? >> la ragazza fece segno di si.
<< Io sogno sempre che una vecchia e mostruosa lumaca gigante mi mangi.
Veramente orribile >> la faccia di Livor era inespressiva come sempre, ma
rivivere il sogno lo faceva stare male. Quell’orrenda e bavosa lumaca enorme lo
chiamava a sé, e lui non poteva fare altro che andargli incontro, perché le
gambe non obbedivano più al resto del corpo. Poi quando gli era arrivato
talmente vicino da poter sentire l’orrendo e fetido alito della bestia,
quest’ultima lo inghiottiva.
Elemirè tentò di frenare la risata. Era veramente un sogno assurdo, e la fobia
che Livor aveva nei confronti delle lumache, era ancora più inconcepibile. La
ragazza guardò verso il suo amico e d’un tratto non ce la fece più, gli scoppiò a
ridere in faccia.
Var sembrò capire come doveva sentirsi Livor, dato che pochi giorni prima
anche lui aveva subito una grande umiliazione da lei, e rivolse al ragazzo uno
sguardo di comprensione e appoggio.
Passarono il resto del pomeriggio a ridere e scherzare, Masa portò loro il tè e
una ciotola di latte a Var, e insieme mangiarono i biscotti del Sig. Teco.

<< Bene Elemirè, io devo andare ora. E’ quasi ora di cena, i miei mi staranno
aspettando >> disse Livor.
<< No dai non andare, resta ancora un po’.. >>
<< Non posso, passerò domani a trovarti. D’accordo? >>
<< Allora ti accompagno all’ingresso! >>
Saltarono giù dal letto ed Elemirè fece strada fino alla porta d’entrata, poi si
fermò per fare gli ultimi saluti ai due amici.
<< Dunque noi due ci vediamo domani >> disse la ragazza rivolta a Livor,
dopodiché si rivolse a Var. << Ti sono davvero grata per questa visita amico
mio. Quando starò meglio verrò io a trovarti va bene? >> e grattandogli la testa
fece per aprire la porta, ma quella si aprì da sola.
Un uomo alto e dallo sguardo severo si stagliava di fronte a loro. Scrutò Livor
per qualche secondo, senza dare segno di averlo visto veramente ne tantomeno
dava l’impressione di volergli parlare, poi il suo sguardo si posò su Elemirè. Le
gambe della ragazza presero a tremare di fronte a suo padre. Era visibilmente
scossa, e Livor che se ne accorse, le strinse la mano senza farsi vedere
dall’uomo, ed Elemirè si sentì più tranquilla.
Il padre di Elemirè, entrò in casa sempre scrutando la figlia, poi abbassò lo
sguardo e vide Var.
Sirio cambiò improvvisamente; gli occhi ora emanavano ira e così ogni suo
singolo respiro, che era diventato affannato e pesante. La pelle del viso era tesa
e digrignava i denti; non sembrava più la stessa persona.
Poi improvvisamente scattò in avanti e afferrò Var per una zampa,
trascinandolo fuori di casa. Livor prese subito a seguire il padre della ragazza
ed Elemirè gli andò dietro di corsa in preda al terrore, e con le lacrime agli
occhi.
<< Non fargli del male, ti prego >> gli urlò disperata ma il padre non la
ascoltava. Var era in preda ai guaiti, e mordeva la mano di Sirio nella speranza
che quest’ultimo lo lasciasse.
Sirio si fermò soltanto al limitare della foresta, dove lasciò cadere malamente la
volpe, che tentò più volte di rialzarsi ricadendo subito dopo a terra. Elemirè,
sempre piangendo, si gettò sulla volpe accarezzandola e chiedendole scusa.
<< Scappa.. scappa.. >> gli sussurrava la ragazza all’orecchio, ma la volpe era
troppo debole e non si muoveva. Poi un rumore metallico li fece tutti trasalire,
ed Elemirè fu scaraventata lontano dalla spinta del padre.
La scena che vide le fece ghiacciare il sangue nelle vene. Anche le lacrime
avevano cessato di caderle sul viso. Vide la lama del coltello che suo padre
stringeva in pugno, la vide scendere sulla gola di Var.
Non te lo permetto.
E con questo pensiero si lanciò sulla volpe per proteggerla. Sentì il ferro
squarciarle la spalla che subito cominciò a bruciarle, e poi il suo sangue che
scendeva sempre più caldo verso la schiena. Quando la lama fu estratta le venne
uno svenimento, ma resistette. Non poteva perdere coscienza proprio adesso,
Var era in pericolo e lei doveva resistere.
Poi qualcuno la scaraventò di nuovo a terra, ma lei era così stordita che quasi
non se ne accorse.
Non sento più il dolore, pensò, sto svenendo. Ma chi c’è sdraiato da parte a
me? Livor? Perché Livor è sdraiato da parte a me?
Livor..
Era confusa, c’era qualcosa di estremamente sbagliato; girò la testa verso Var
per vedere come stava, e la scena che le si presentò fu talmente sconvolgente
che la confusione svanì in un attimo, per lasciare il posto ad una spietata
lucidità.
<< Var.. >> la volpe giaceva immobile in una pozza di sangue. La gola era
lacerata da un taglio profondo, la bocca aperta in un eterno grido di dolore e gli
occhi erano rivoltati verso l’alto.
Sirio guardava quella scena da un paio di metri più in dietro, le braccia, come i
vestiti, macchiate del sangue della volpe, il coltello ancora in mano. E nel suo
sguardo non si leggeva neanche un accenno di risentimento.
Elemirè che si era alzata ed era andata verso la volpe, alzò gli occhi verso la
casa, dove vide sua madre pietrificata contro la parete, gli occhi imperlati di
lacrime.
Non hai fatto niente, non fai niente neanche adesso. Perché non mi difendi?
PERCHE’ NON MI DIFENDI?
Voleva gridarle queste parole, voleva che il suo urlò riecheggiasse nella mente
di sua madre per l’eternità, che la sua rabbia le piombasse addosso fino alla fine
dei suoi giorni, rendendole la vita un inferno. Ma non le uscì una parola, non
riuscì a dire niente.
Con movimenti innaturalmente calmi, prese Var fra le braccia. Il sangue ora le
ricopriva le braccia fino ai gomiti, ma non le importava, come non le importava
del bruciore alla spalla. Semplicemente si girò, e varcò la soglia della foresta
senza guardarsi indietro, sicura di non essere seguita da nessuno, sicura che
quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto i suoi genitori.

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