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Antenati: Milena Jesenská

di Claudio Canal
da Nuvole, settembre 2005

Antenata di chi? Si sarebbe chiesta sbalordita Milena Jesenská alla proposta


di comparire in una micropinacoteca di avi a nostro uso e consumo. Avrebbe
forse captato a malapena il nostro bisogno a tutti i costi di genealogie alle
volte strampalate. Si sarebbe distratta in fretta di fronte alla nostra
malinconica fobia per la memoria in tutte le sue varianti. "Noi conosciamo
perfettamente il passato e ce ne curiamo inutilmente giacché non
possiamo cambiarlo; conosciamo perfettamente anche l'avvenire e ce
ne curiamo non meno inutilmente giacché non siamo in grado di
indovinarlo né di plasmarlo a nostro piacere. L'unica cosa di cui non
sappiamo niente è il presente, questo pomeriggio, l'ora stessa che
stiamo vivendo. Custodiamo il passato come un tesoro e speculiamo
sull'avvenire, ma sprechiamo irrimediabilmente il presente. Siamo a
malapena coscienti del fatto che la vita è proprio il presente, "unicamente" il presente. Così,
prepariamo del tè e ci diciamo che ciò non è che un intermezzo tra quello che è stato e quello che
sarà. Ma in realtà non è così, in realtà questa è la vita. La vita non è altro che questo. Senza
glorie, banale, piena di delusioni, per meglio dire: un'unica grande delusione, un eterno stare
seduti in sala d'attesa, un eterno aspettare un treno diretto che non viene. Ma questa radura
sabbiosa piena di erica e di esili pinastri dalle chiome filtra la luce del sole, è stupenda, e tu,
stupido cuore, non pensare adesso all'uomo che ti ama troppo o troppo poco, non pensare al
mantello nuovo con la fodera vecchia o alla lettera che devi spedire all'ufficio delle imposte, non
pensare ad altro che a ciò che vedi. Pensa esclusivamente a questo, coglilo nella sua pienezza,
dimentica tutto il resto, senza essere triste o allegro, felice o pieno di desideri, perché tutto ciò è
assurdo; sii presente e cerca, Dio mio, cerca di vedere soltanto quest'ora e di gustare tutto ciò
che essa ti offre" [Národní Listy, 22 agosto 1926]

Filosofi accademici e pensatori di strada avrebbero ruminato a lungo sulla frammentazione del tempo lineare
che qui Milena Jesenská ci propone con piglio extracategoriale. Una linea di pensiero che si attaglia con
precisione a questa donna, profondamente presa dall'imminenza della vita da non lasciarsene sfuggire alcun
frammento anche quando il dolore avrebbe suggerito altre traiettorie. Impiantare un culto degli antenati
suppone una certa disposizione alla celebrazione e Milena Jesenská sembra sottrarsene. Morta nel maggio
1944 nel campo di concentramento di Ravensbrück, Milena sarebbe del tutto svanita nella polvere dei
sommersi dal filo spinato copiosamente teso dal Novecento, secolo interminabile. Se non fosse avvenuta nel
1952 la pubblicazione in Germania di un libro Briefe an Milena che la riguardava. Queste Lettere a Milena
avevano un mittente che da trent'anni era uscito dalla vita per entrare nella memoria europea come
visionario scandagliatore dei tempi a venire. Franz Kafka di Praga.

"Cara signora Milena,


la pioggia che durava da due giorni e una notte è appena cessata,
forse soltanto provvisoriamente, ma certo è un avvenimento degno di
essere festeggiato, e io lo faccio scrivendo a Lei" incipit la prima
lettera dell'aprile 1920. "E ora, nonostante tutto, i 'migliori saluti';
che importa se cadono a terra già al cancello del giardino, la Sua
forza è forse tanto maggiore. Suo K" chiude l'ultima del 25 dicembre
1923. Quel fascio di lettere avrebbe prodotto una delle più indelebili icone
della Grande Letteratura Europea, Milena di Kafka, oggetto sentimental
erotico dello scrittore.
Figura dell'anima di Kafka e di noi lettori e lettrici in vario tentivo di
identificazione e distanziamento. Studiosi molto sicuri di sé ne avrebbero
trattato come un'articolazione del romanzo europeo, alla pari di Anna
Karenina, Madame Bovary o Manon Lescaut. Per dislocarla dalla mistica
letteraria e riportarla "in vita" ci sarebbero volute due donne intrinseche alla
sua esistenza: Jana Cerná alias Jana Krejcarova alias Honza, figlia di Milena,
e Margarethe Buber Neumann, che la incontrò e la vide morire a
Ravensbrück. I loro libri avrebbero certificato l'esistenza di Milena Jesenská oltre il mito letterario.

Praga è la zona europea dove si fomentano spazi di speranza nei primi decenni dell'inesauribile secolo
breve. Milena avrebbe avuto la sua formazione nel primo liceo femminile [e la sua de-formazione nel lager
femminile] per poi entrare in piena baldanza nell'humus cittadino dove l'Europa immaginaria dava prova di
sé. Metti in fila i nomi e hai quell'Europa che sente il vento che spira dal futuro: Karel Capek, Max Brod,
Franz Kafka, Karel Teige, Franz Werfel, Jaroslav Seifert, Julius Fucík.…Scrittori di pura chiaroveggenza, di
nuda pietà, anticipatori d'estetica, poeti del caos, narratori del sublime, rivoluzionari ostaggi del destino. Le
loro opere d'amore, che fossero parole, musica, disegni, azioni, Milena le sa osservare, riconoscere,
trasformare in gesti di quotidiana maturità. Che scriva per i giornali cui collabora, che aggreghi le persone
inaggregabili, che abiti l'anima di alcune, che traduca Rosa Luxemburg, che derida gli occupanti tedeschi,
Milena Jesenská lo fa sempre con passo lieve "La leggerezza è un dono di Dio. Nella leggerezza c'è più
verità, più morale, più spirito. Le persone più leggere sono al tempo stesso le più pesanti e,
giacché stanno alla sommità, sono sole" [Tribuna, 28 luglio 1928] anche se "Il lavoro del reporter
assomiglia spesso a quello di una jena. Egli se ne va in giro col suo taccuino e si appunta le
disgrazie altrui per riferirne sui giornali. Se lo facesse senza nutrire almeno un poco di speranza
nell'utilità delle sue parole stampate, non meriterebbe neppure una stretta di mano" [Pritomnost,
27 ottobre 1937].

La pesantezza dei tempi non l'avrebbe fatta ricredere. La sua appassionata partecipazione al comunismo
creativo degli anni Venti si trasforma in critica radicale del mito sovietico appena ha sentore della fine che vi
fanno gli esuli austriaci, i combattenti in Spagna, i comunisti tedeschi: " Molti di loro sono stati arrestati,
altri inviati, detenuti, in Siberia o nelle grandi zone industriali. A questo punto viene da chiedersi:
chi ha veramente realizzato le grandi opere in Unione Sovietica, le dighe, le chiuse, i canali?"
[Pritomnost, 8 marzo 1939]. Il confronto con il nazismo è diretto. L'Europa è divorata da un cancro e le
metastasi stanno per invadere Praga: "Dabbasso, nel seminterrato, vivono anche due emigrati, due
socialisti tedeschi. Hanno soltanto un permesso di soggiorno provvisorio, nessun altro
documento, sono senza lavoro, e tutti gli abitanti del palazzo - cechi, tedeschi ed ebrei - sono
alquanto infastiditi della loro presenza. Perché un emigrato - è un negro e, per giunta, un negro
in mezzo a bianchi, fuori posto qui, damned nigger! In questi quattro anni l'Europa è cambiata al
punto che oggi è piena di negri…" [Pritomnost, 30 marzo 1938]. Di questa malattia grave l'Europa deve
ancora guarire, come sappiamo e come Milena intuiva.

Il suo confronto con il nazismo sarà radicale, di opposizione attiva.


Tale da guadagnarle il triangolo rosso di prigioniera politica, numero
4714, blocco 1. "Vi è mai capitato di giacere in una stanza buia,
di guardare, nell'oscurità, il soffitto, impietriti dal terrore e
dalla sofferenza e, d'improvviso, da qualche parte sopra di voi,
un bambino comincia a piangere "per voi"? Avete mai avuto la
sensazione che a teatro degli uomini muoiano, lottino o cantino
"per voi"? Non vi è mai capitato di vedere un uccello che vola
"per voi", le ali spiegate, tranquillo, felice, e che poi dispare in
lontananza per non tornare più? Non vi siete mai imbattuti in
una strada il cui selciato può sopportare soltanto il numero di
passi che vi occorrono per liberarvi dal vostro dolore? Io sono
fermamente convinta che il mondo ci venga in aiuto. Non so
come, né attraverso che cosa. Interviene improvvisamente, insperatamente, semplicemente,
pietosamente. A volte, pero', la salvezza è dolorosa quasi quanto il dolore stesso" [Tribuna, 25
febbraio 1921].

Si sarebbe riconosciuto Lévinas in questa


traccia dell'Altro evocata da Milena? Non lo
sappiamo. Così come non sappiamo perché
Miriam, la sorella di Mosé, venga qualificata del
titolo di "profeta". Nel momento in cui il fratello
è tratto dal Nilo dalla figlia del Faraone, Miriam
"osserva da lontano". Certa esegesi rabbinica
suggerisce che questa semplice posizione di
attesa e di vigilanza la consacra e la innalza al
rango di profeta. Pur dentro agli eventi Milena
ha sempre "osservato da lontano": " Qui
viviamo in una trappola per topi. In un
modo o nell'altro, alla fine moriremo tutti
qui. Non vedo nessun'altra uscita.
Semplicemente non possiamo finir
bene…A lungo termine non sono
pessimista. Ma nulla di ciò che può
succedere a breve distanza è buono per noi" [lettera a Willi Schlamm, 12 agosto 1938].

Il suo inconscio "osserva da lontano", disposto a vedere in forma di sogno scaglie di futuro più di vent'anni
prima di finire in una baracca di Ravensbrück: "Non so dove fossi, in un luogo infinitamente lontano
da casa - in America? In Cina? Da qualche parte, all'altro capo della terra, mentre l'intero pianeta
era sconvolto da una guerra o da una peste, o dal diluvio universale. Della catastrofe in atto io
non sapevo niente di preciso. Ma una folle fretta, una folle agitazione mi trascinavano con gli altri
nella fuga. Non sapevo dove stavamo fuggendo. Non chiesi neppure perché fuggivamo. Da una
stazione partivano, uno dopo l'altro, treni interminabili alla volta del mondo, tutti strapieni. Gli
impiegati delle ferrovie erano in preda al panico, nessuno voleva rimanere lì per ultimo. Gli
uomini lottavano per un posto come per la loro vita. Fra me e i binari si frapponeva una folla
immensa, non avevo alcuna speranza di farmi largo attraverso di essa. Ero disperata.
"Sono giovane, non posso morire!" gridai. Ma davanti a me c'erano altre persone giovani. E i
biglietti erano quasi esauriti. Il treno che stava partendo era l'ultimo. Alla luce del giorno, i
semafori verdi e rossi lampeggiavano minacciosamente. Non avevo salvezza. Fu allora che
qualcuno mi toccò la spalla. Mi voltai e uno sconosciuto mi dette in mano un biglietto, dicendomi:
"Con questo lei può andare in tutto il mondo. Può passare il confine e avere un posto sul treno.
Non abbia paura e sia coraggiosa. Ma ora vada, si affretti, è tempo"…
…Nel momento stesso in cui il treno partì, avvenne la catastrofe. La terra sprofondò in un
baratro, il mondo si trasformò in un'immensa rete ferroviaria lungo la quale viaggiavano uomini,
uomini che non avevano più patria. I binari posavano sopra l'abisso e le locomotive sfrecciavano
a velocità forsennata. Finalmente il treno si fermò al confine. "Controllo! Tutti a terra!" gridò il
conduttore. La gente affluì al casotto dei doganieri, soltanto io rimasi indietro, senza passaporto,
senza bagaglio. Nella mano stringevo convulsamente il biglietto. Brividi di freddo mi correvano
lungo la schiena. Un doganiere mi si avvicinò e mi chiese i documenti. I secondi si trasformarono
in un'eternità. Aprii il biglietto. Il doganiere, impaziente, si appoggiò ora su una gamba, ora
sull'altra, tendendomi la mano. Sembrava deciso a non farmi passare. Io guardai il biglietto. Vi
lessi, scritto in venti lingue diverse: "Condannata a morte" Un sudore freddo m'imperlò la fronte.
Il mio cuore smise di battere. Un nodo di paura spasmodica, dolorosa mi strinse il petto.
Un'angoscia mortale mi prese alla gola. Allora, aggrappandomi a una tenue speranza, già sul
punto di morire, già all'ultimo respiro, dissi al doganiere con tono supplice: "Che sia soltanto una
parola d'ordine perché io possa arrivare più facilmente all'altro capo del mondo?"

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