di Claudio Canal
da Nuvole, settembre 2005
Filosofi accademici e pensatori di strada avrebbero ruminato a lungo sulla frammentazione del tempo lineare
che qui Milena Jesenská ci propone con piglio extracategoriale. Una linea di pensiero che si attaglia con
precisione a questa donna, profondamente presa dall'imminenza della vita da non lasciarsene sfuggire alcun
frammento anche quando il dolore avrebbe suggerito altre traiettorie. Impiantare un culto degli antenati
suppone una certa disposizione alla celebrazione e Milena Jesenská sembra sottrarsene. Morta nel maggio
1944 nel campo di concentramento di Ravensbrück, Milena sarebbe del tutto svanita nella polvere dei
sommersi dal filo spinato copiosamente teso dal Novecento, secolo interminabile. Se non fosse avvenuta nel
1952 la pubblicazione in Germania di un libro Briefe an Milena che la riguardava. Queste Lettere a Milena
avevano un mittente che da trent'anni era uscito dalla vita per entrare nella memoria europea come
visionario scandagliatore dei tempi a venire. Franz Kafka di Praga.
Praga è la zona europea dove si fomentano spazi di speranza nei primi decenni dell'inesauribile secolo
breve. Milena avrebbe avuto la sua formazione nel primo liceo femminile [e la sua de-formazione nel lager
femminile] per poi entrare in piena baldanza nell'humus cittadino dove l'Europa immaginaria dava prova di
sé. Metti in fila i nomi e hai quell'Europa che sente il vento che spira dal futuro: Karel Capek, Max Brod,
Franz Kafka, Karel Teige, Franz Werfel, Jaroslav Seifert, Julius Fucík.…Scrittori di pura chiaroveggenza, di
nuda pietà, anticipatori d'estetica, poeti del caos, narratori del sublime, rivoluzionari ostaggi del destino. Le
loro opere d'amore, che fossero parole, musica, disegni, azioni, Milena le sa osservare, riconoscere,
trasformare in gesti di quotidiana maturità. Che scriva per i giornali cui collabora, che aggreghi le persone
inaggregabili, che abiti l'anima di alcune, che traduca Rosa Luxemburg, che derida gli occupanti tedeschi,
Milena Jesenská lo fa sempre con passo lieve "La leggerezza è un dono di Dio. Nella leggerezza c'è più
verità, più morale, più spirito. Le persone più leggere sono al tempo stesso le più pesanti e,
giacché stanno alla sommità, sono sole" [Tribuna, 28 luglio 1928] anche se "Il lavoro del reporter
assomiglia spesso a quello di una jena. Egli se ne va in giro col suo taccuino e si appunta le
disgrazie altrui per riferirne sui giornali. Se lo facesse senza nutrire almeno un poco di speranza
nell'utilità delle sue parole stampate, non meriterebbe neppure una stretta di mano" [Pritomnost,
27 ottobre 1937].
La pesantezza dei tempi non l'avrebbe fatta ricredere. La sua appassionata partecipazione al comunismo
creativo degli anni Venti si trasforma in critica radicale del mito sovietico appena ha sentore della fine che vi
fanno gli esuli austriaci, i combattenti in Spagna, i comunisti tedeschi: " Molti di loro sono stati arrestati,
altri inviati, detenuti, in Siberia o nelle grandi zone industriali. A questo punto viene da chiedersi:
chi ha veramente realizzato le grandi opere in Unione Sovietica, le dighe, le chiuse, i canali?"
[Pritomnost, 8 marzo 1939]. Il confronto con il nazismo è diretto. L'Europa è divorata da un cancro e le
metastasi stanno per invadere Praga: "Dabbasso, nel seminterrato, vivono anche due emigrati, due
socialisti tedeschi. Hanno soltanto un permesso di soggiorno provvisorio, nessun altro
documento, sono senza lavoro, e tutti gli abitanti del palazzo - cechi, tedeschi ed ebrei - sono
alquanto infastiditi della loro presenza. Perché un emigrato - è un negro e, per giunta, un negro
in mezzo a bianchi, fuori posto qui, damned nigger! In questi quattro anni l'Europa è cambiata al
punto che oggi è piena di negri…" [Pritomnost, 30 marzo 1938]. Di questa malattia grave l'Europa deve
ancora guarire, come sappiamo e come Milena intuiva.
Il suo inconscio "osserva da lontano", disposto a vedere in forma di sogno scaglie di futuro più di vent'anni
prima di finire in una baracca di Ravensbrück: "Non so dove fossi, in un luogo infinitamente lontano
da casa - in America? In Cina? Da qualche parte, all'altro capo della terra, mentre l'intero pianeta
era sconvolto da una guerra o da una peste, o dal diluvio universale. Della catastrofe in atto io
non sapevo niente di preciso. Ma una folle fretta, una folle agitazione mi trascinavano con gli altri
nella fuga. Non sapevo dove stavamo fuggendo. Non chiesi neppure perché fuggivamo. Da una
stazione partivano, uno dopo l'altro, treni interminabili alla volta del mondo, tutti strapieni. Gli
impiegati delle ferrovie erano in preda al panico, nessuno voleva rimanere lì per ultimo. Gli
uomini lottavano per un posto come per la loro vita. Fra me e i binari si frapponeva una folla
immensa, non avevo alcuna speranza di farmi largo attraverso di essa. Ero disperata.
"Sono giovane, non posso morire!" gridai. Ma davanti a me c'erano altre persone giovani. E i
biglietti erano quasi esauriti. Il treno che stava partendo era l'ultimo. Alla luce del giorno, i
semafori verdi e rossi lampeggiavano minacciosamente. Non avevo salvezza. Fu allora che
qualcuno mi toccò la spalla. Mi voltai e uno sconosciuto mi dette in mano un biglietto, dicendomi:
"Con questo lei può andare in tutto il mondo. Può passare il confine e avere un posto sul treno.
Non abbia paura e sia coraggiosa. Ma ora vada, si affretti, è tempo"…
…Nel momento stesso in cui il treno partì, avvenne la catastrofe. La terra sprofondò in un
baratro, il mondo si trasformò in un'immensa rete ferroviaria lungo la quale viaggiavano uomini,
uomini che non avevano più patria. I binari posavano sopra l'abisso e le locomotive sfrecciavano
a velocità forsennata. Finalmente il treno si fermò al confine. "Controllo! Tutti a terra!" gridò il
conduttore. La gente affluì al casotto dei doganieri, soltanto io rimasi indietro, senza passaporto,
senza bagaglio. Nella mano stringevo convulsamente il biglietto. Brividi di freddo mi correvano
lungo la schiena. Un doganiere mi si avvicinò e mi chiese i documenti. I secondi si trasformarono
in un'eternità. Aprii il biglietto. Il doganiere, impaziente, si appoggiò ora su una gamba, ora
sull'altra, tendendomi la mano. Sembrava deciso a non farmi passare. Io guardai il biglietto. Vi
lessi, scritto in venti lingue diverse: "Condannata a morte" Un sudore freddo m'imperlò la fronte.
Il mio cuore smise di battere. Un nodo di paura spasmodica, dolorosa mi strinse il petto.
Un'angoscia mortale mi prese alla gola. Allora, aggrappandomi a una tenue speranza, già sul
punto di morire, già all'ultimo respiro, dissi al doganiere con tono supplice: "Che sia soltanto una
parola d'ordine perché io possa arrivare più facilmente all'altro capo del mondo?"