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IV LESPRESSIONE O DETERMINAZIONE DELLESSERE LE CATEGORIE, LE PROPRIET TRASCENDENTALI

E I SOMMI PRINCIPI DELLA METAFISICA

Nella Quaestio I De Veritate1 S. Tommaso afferma che lespressione o determinazione dellessere pu avvenire in due modi: a) in modo che la determinazione restringa lestensione del concetto di essere (cio che appartenga solo a certi enti) tali sono le categorie, generi sommi dellessere, prima tra tutte la sostanza. b) in modo che la determinazione sia coestensiva allessere stesso (cio appartenga a tutti gli enti) tali sono le propriet trascendentali dellessere (in Tommaso res - unum - aliquid verum - bonum, ma propriamente riducibili a unum - verum - bonum).

1. Determinazioni restrittive. Le categorie. La sostanza Le determinazioni dellessere che ne esprimono e delimitano soltanto determinati generi o ambiti si dicono categorie. In Aristotele le categorie sono definite i supremi generi dellessere, e rappresentano predicati che distinguono diversi modi di essere. Rivestono una funzione logica e ontologica ad un tempo, giacch permettono di ricondurre gli enti alla loro essenza pi generale, e quindi di definirli. Egli ne distingue dieci, non tutte ugualmente fondamentali, e di fatto la tavola delle categorie varia nei pensatori successivi, riducendosi notevolmente, ad es., con gli Stoici. Il modo fondamentale dellessere quello della sostanza, cio di ci che esiste in s e per s, ci che sussiste e costituisce il sostrato di inerenza. La sostanza, che tra le categorie occupa il primo posto, concepita come un centro di inerenza delle altre categorie in una disposizione, potremmo dire, a raggiera, piuttosto che come una prima partizione di campo tra n possibilit di classificazione in una tabella. Essa, cio, non si pone allo stesso livello delle altre, ma si costituisce in una sorta di centro gravitazionale, verso il quale tutte le altre tendono. Con sostanza (ousa) la tradizione metafisica classico-scolastica designa la realizzazione principale e originaria dellessere trascendentale, senza la quale non avrebbe neppure senso parlare di essere: sostanza la condizione dellessere di qualsiasi realt.
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S. Tommaso dAquino, De Veritate, q. I, a. 1.

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La sostanza lessente di cui ogni modalit predicabile. Secondo la riflessione aristotelica essa non inerisce ad altro, ma piuttosto le altre cose le ineriscono2; capace di sussistere separatamente o per s; qualcosa di determinato3; di unitario4; che esiste in atto5. Tommaso definisce la sostanza unessenza cui compete di per s di esistere (Essentia cui competit per se esse)6. La questione della sostanza di importanza tale che Aristotele scrive che la stessa indagine sullessere si traduce in unindagine intorno alla sostanza7, in quanto in essa va riconosciuta la realizzazione concreta ed effettiva dellessere. La sostanza non in questione come alcunch di passibile di dimostrazione, in quanto il darsi di qualcosa richiede che esso si dia come ci cui compete lessere in proprio (essere per s) oppure come ci che ha lessere in altro. Ora, non ha senso lessere in altro se non si d un altro, che dovr avere lessere per s. La sostanza dunque la condizione dellessere di ogni realt. Alla sostanza inerisce laccidente, cui anteriore. Le anteriore tanto nellordine ontologico (in quanto sua condizione dessere) quanto nellordine logico (perch non si ha concetto di ens in alio senza avere il concetto di quellaliud che per s). La sostanza mi si manifesta nellunit con la quale si presenta un complesso di fenomeni, che si mostrano intrinsecamente uniti: in una molteplicit si mostra una qualche unit, e poich dove c unit c essere, in quella molteplicit di aspetti si manifesta una realt che vi sta a fondamento. Rispetto allinnegabilit della sostanza, il problema piuttosto se sia giustificata laffermazione di una sua reale distinzione rispetto alle qualit che cadono immediatamente sotto lesperienza. Ma il soggetto sperimenta in se stesso la propria permanenza al di l del mutare del complesso delle qualit che pure a s ineriscono (stati percettivi, pensieri, sentimenti, ecc.), cogliendo cos la distinzione tra sostanza e accidenti. Quanto allaccidente vanno distinti un significato logico e un significato fisico (non, si noti, nel senso materiale o empirico del termine, ma della sua concreta realt, della sua natura physis), che riguardano rispettivamente il modo di predicazione (piano concettuale, o forma ideale dellessere nel sistema di Rosmini) ed il modo di essere (piano reale). Cos lintelligenza un accidente fisico delluomo, in quanto non esiste lintelligenza, separatamente concepita, ma luomo intelligente, mentre non un accidente logico delluomo, in quanto ne un predicato necessario. In ontologia interessa laccidente fisico, che esprime la realt cui compete lessere non in s ma nellinerire in altro. Vi sono ancora accidenti assoluti (quantit e qualit, che determinano la sostanza in se stessa), relativi (relazione, azione, passione, luogo, tempo, avere, giacere, che esprimono una relazione ad unaltra sostanza) e modali (le determinazioni di altri accidenti, come la velocit,
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Aristotele, Metafisica, VII, 1029a 8-9. ivi, 1029a 27-28. 4 ivi, 1037b 27. 5 Cfr. Metafisica, VIII, 2-3. 6 Summa Theologiae, I, q. 3, a. 5. 7 Cfr. Metafisica, IV, 2.

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che il modo dessere di unazione, che gi a sua volta un accidente). E ancora accidenti proprio (derivante dallelemento specifico) e comune (dallelemento generico); intrinseco (determina in qualche modo la sostanza) ed estrinseco (indica il rapporto di altro con la sostanza, che non la modifichi come lesser conosciuto). Quanto alla categoria della relazione, vi va distinto: - un soggetto (ci che si riferisce ad altro ad es. il padre come soggetto della relazione di paternit); - un termine (laltro cui la relazione si riferisce il figlio); - un fondamento della relazione (la causa per cui il soggetto si riferisce al termine la generazione). Vi sono relazioni reali e relazioni ideali. Queste ultime sono poste solo dal pensiero (non tutte sono poste dal pensiero, sebbene tutte siano conosciute, o scoperte, dal pensiero).

2. Determinazioni coestensive. Le propriet trascendentali dellessere Le determinazioni che appartengono allessere in tutta la sua estensione, e dunque ad ogni ente, si dicono propriet trascendentali dellessere. Il primo trattato sui trascendentali la Summa de bono di Filippo il Cancelliere, redatta intorno al 1230-1236, dove vengono descritti nella triade unum - verum - bonum, tuttavia la dottrina dei trascendentali rimonta almeno alla riflessione ontologica di S. Agostino, illuminata dal principio di creazione, che lo port, in superamento del dualismo gnostico manicheo, al riconoscimento dellintrinseca e generale bont del creato e dellinconcepibilit del male come alcunch di avente la bench minima consistenza ontologica e, perci, alla piena equazione essere bene. Da Agostino, poi, potremmo risalire sino a Platone e riconoscere tra le righe del Timeo, come avremo modo di vedere poco oltre, la prima embrionale formulazione del trascendentale bonum. S. Tommaso enumera cinque propriet trascendentali: res, unum, aliquid, verum e bonum, che si riducono a tre fondamentali (unum, verum e bonum) se si ricomprendono nellunum la res che esprime lessere nella sua identit e accezione assoluta, e aliquid, che parimenti rimanda ad unum, confermando cos la terna di Filippo il Cancelliere. Potremmo, perci, cos schematizzare: Res Unum Aliquid

Verum

Bonum

La dottrina dei trascendentali tiene a sfondo lintendimento dellessere non solo come concetto pi comune, ma quale perfezione pi elevata, o massima, che si fa coincidere con lessenza di Dio.

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I trascendentali sono allora i primi attributi della natura divina, e di l illustrano pure i rapporti con le creature, cosicch - dallUno procede il molteplice, - dal Vero procede lintelligibilit degli enti, - dal Bene viene la ragione (causa finale) per cui gli enti (essenze) sono tratti dal nulla e posti in essere (tratti allesistenza): il sommo Bene, Dio, , con le parole di S. Alberto Magno, la causa causarum, la bonitas in causa, per cui il nome di Bene eminenter attribuitur a theologis divinae essentiae, nominantes ipsam essentiam divinam bonitatem8. Egli , secondo lespressione di S. Tommaso, causa della bont di tutte le cose9. Le propriet trascendentali appartengono, dunque, per essenza allipsum esse subsistens e competono per partecipazione agli enti. Ancora. Le propriet trascendentali dellessere, secondo gli autori della II Scolastica, sono pienamente convertibili con la nozione di ens: Unum, verum et bonum cum ente convertuntur. Tale carattere di convertibilit particolarmente evidente laddove S. Alberto Magno, maestro dellAquinate, riduce la funzione dei trascendentali relazionali verum e bonum e dello stesso trascendentale identitario unum a quella di modalit variamente significanti la medesima res nella sua essenza e perci tutte riconducibili alla nozione fondamentale di ens nella sua determinatezza ontica:
Bonum non addit rem aliquam supra ens, unde bonitas rei est essentia sua, et huiusmodi sunt veritas et unitas, sed addunt tantum modum significandi, unde bonitas est essentia sub alia ratione significata10.

Cos, la bont e parimenti la verit e la stessa unit designerebbero la stessa essenza dellente, significata, per, secondo unaltra ratio, un modo, unangolazione prospettica che nulla aggiunge allens come tale. Per S. Tommaso lUno aggiunge allente la connotazione della negazione, in quanto dice che indiviso. Bont e Verit aggiungono la connotazione di una relazione, rispettivamente con la volont (relazione appetitiva) e con lintelletto (relazione conoscitiva). Nella Quaestio I De Veritate lAquinate distingue innanzitutto: 1) i trascendentali che investono ogni realt in s considerata (res e unum) e 2) i trascendentali che investono ogni realt considerata in ordine ad altro da s (aliquid, bonum e verum):
E anche questo secondo modo [di aggiungere qualcosa al significato essere, secondo rispetto a quello di specificarlo nelle categorie] pu essere duplice: secondo che accompagni [1] ogni ente considerato in se stesso o ac8 9

S. Alberto Magno, Super Dionysium De divinis nominibus, IV, 1. S. Tommaso, Summa contra Gentiles, III, 17, 2.
S. Alberto Magno, Super Dionysium De divinis nominibus, IV, 5.

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compagni [2] ogni ente in ordine ad altro. Se accompagna [1] ogni ente preso in se stesso, esprimer nellessere qualche cosa in senso o [1a] affermativo o [1b] negativo. Ma [1a] non si trova cosa che possa essere affermata di ogni ente preso in se stesso, se non la sua propria essenza, secondo la quale si dice che ; e cos si impone questo nome: cosa (res), nome che differisce da quello di essere (ens) perch, secondo Avicenna, [...] il nome essere preso dallatto di essere (actus essendi), mentre il nome cosa esprime la quiddit (quidditas) o essenza dellente. [1b] La negazione poi che accompagna ogni ente considerato assolutamente, lindivisione, che espressa dal nome uno (unum); luno infatti non altro che lessere indiviso (indivisum)11.

Perci: 1a) res indica che lessere luogo del significare: ogni manifestazione dellessere significante, intelligibile. Il significato in unit detto essentia o quidditas. 1b) unum indica che lessere sempre identico a s (indivisum in se): ogni manifestazione dellessere qualcosa di determinato; ogni realt determinata ha una sua unit intrinseca.
Se invece il modo dellessere si considera [2] dellessere relativamente ad altro, ci si pu fare ancora in due maniere. In una maniera, [2a] secondo la divisione (divisio) di un ente dallaltro (alterum), e ci espresso dal nome aliquid; si dice infatti aliquid da qualcosa daltro (aliud quid); per cui, come lente si dice uno in quanto indiviso in s (indivisum in se), cos si dice aliquid in quanto diviso da ogni altro. [2b] In unaltra maniera si dice lessere relativamente ad altro, secondo la convenienza di un ente con un altro; e ci non pu avvenire se non si prenda qualche cosa che sia capace di corrispondere ad ogni ente. E questo qualche cosa lanima, la quale in qualche modo ogni cosa (est quodammodo omnia) [...]. Ora, nellanima c la potenza conoscitiva e la potenza desiderante (adpetitiva). Dunque, [2bI] la convenienza dellessere (convenientia entis) con il desiderio (adpetitus) espressa dal nome bene (bonum). E [2bII] la convenienza dellessere con lintelletto (intellectus) espressa dal nome vero (verum).

Cos, 2a) aliquid designa ogni realt altra, e indica che lessere sempre non contraddittorio; 2b) bonum e verum assumono a punto di riferimento lanima in quanto capace di accedere al trascendentale, in cui scopre una adaequatio rispetto al proprio desiderio e al proprio intelletto: 2bI) bonum dice dellessere come riconosciuto adeguato allanima in quanto desiderante: ogni manifestazione dellessere fruibile come risposta al desiderio; 2bII) verum dice dellessere come riconosciuto adeguato allanima in quanto essa intelletto. I modi dellessere sono trascendentali perch trascendentale lessere stesso, e tale il senso della verit: veritas est qua ostenditur id quod est. Si ha qui la nozione di verit come manifestazione, come orizzonte trascendentale, nel quale si articolano gli stessi significati trascendentali or ora descritti.
11

Ibid.

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2.1. Unum (res / aliquid). Il trascendentale identitario. Quanto allunit trascendentale dellessere, ogni ente necessariamente uno: indiviso in s e distinto da ogni altro (ogni realt tale in quanto ha una sua unit, anzi, possiamo dire che tanto pi reale quanto pi una). Vi sono diversi gradi di unit: - lunit dellassolutamente semplice (propria solo di Dio); - lunit del composto, che pu essere unit sostanziale (unum per se), o accidentale (unum per accidens). Si ha unit sostanziale quando uno lessere delle diverse parti che lo compongono (es. luomo: le sue diverse componenti e parti hanno significato solo come parti dellente - uomo, cos se concepisco lintelletto e la volont, o ancora se vedo un braccio, penso trattarsi del braccio di un uomo, n posso pensarlo come indipendente o a s). Si ha unit accidentale quando ogni parte come ente ha una sua autonomia (es. in un cumulo di sassi ogni sasso concepibile individualmente e di fatto separabile; tra cavallo e cavaliere i due sussistono individualmente; ). Quanto alla formazione nellintelletto del concetto di uno, a) si coglie innanzitutto loggetto come ente (qualche cosa) b) nella molteplicit e diversit delle qualit sensibili (per cui luna non laltra) traiamo il concetto di distinzione; c) neghiamo che questa distinzione o divisione sia interna a ciascuno degli enti che abbiamo conosciuto. Ciascuno di essi, in altri termini, si distingue dagli altri enti, ma non si distingue da s: indiviso, uno. d) nel considerare i diversi enti unitari si ha il concetto di molteplice o moltitudine. Al concetto di uno sono connessi i concetti di identico (essere identico con se stesso) e distinto (da un altro). LUnit dellessere ha due significati principali: a) lessere principium numeri, il primo elemento della numerazione, che risponde al problema della risoluzione di tutte le cose, vale a dire del molteplice alluno, e b) lindivisione interna dellente e la sua distinzione da tutti gli altri, che risponde al problema dellente in s (unit / indivisione), per cui si afferma un principio di unit dellente al di l della pluralit degli elementi che lo costituiscono. Tale propriet massima nellipsum esse subsistens, che esclude ogni composizione e divisione. Osserviamo in proposito che Uno non equivale a semplice, e che il grado di unit dellente varia secondo la molteplicit degli elementi costitutivi. Al di l di questo variare, ogni ente conserva la propria unit come il suo proprio essere. Vediamo con ci stabilito il principio per cui unumquodque sicut custodit suum esse, ita custodit suam unitatem12. Scrive in merito lo stesso Tommaso:

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S. Tommaso dAquino, Summa Theologiae, I, q. 11, a. 1.

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Ogni cosa si rapporta allessere come si rapporta allindivisione, perch, dice il Filosofo, lente si dice uno in quanto indiviso. Di conseguenza quelle cose che sono indivise in forza della loro stessa natura (per se), possiedono lunit pi autenticamente (verius) delle cose che sono indivise solo accidentalmente, come per esempio il bianco e Socrate, i quali formano ununit accidentale (unum per accidens). Ora, fra le cose che hanno unit in forza della loro stessa natura (quae sunt unum per se), quelle che sono indivise assolutamente possiedono lunit pi autenticamente (verius) di quelle indivise rispetto a qualcosa di generico o di specifico o di analogico. E, infatti, quelle cose che non sono indivise assolutamente ma soltanto con riferimento o al genere o alla specie o allanalogia (proportione). Invece ci che assolutamente indiviso (simpliciter indivisum) si dice uno assolutamente ed uno anche numericamente. Ma anche fra le cose dotate di unit si d gradazione. Ce ne sono infatti alcune che sono indivise in atto ma divisibili in potenza, e ci pu avvenire in tre modi: o mediante divisione quantitativa o mediante divisione essenziale o mediante divisione sia quantitativa che essenziale. La prima riguarda il continuo; la seconda le cose composte di materia e forma, o di essenza e essere; la terza riguarda i corpi naturali. [...] Vi sono per cose non divisibili n in atto n in potenza, e anche di queste si danno varie categorie. Alcune includono nella loro definizione qualcosa di estraneo allidea di indivisibilit; per esempio il punto, oltre allindivisibilit include ache liea di posizione (situm). Invece altre cose contengono soltanto lidea di indivisibilit, per esempio lunit che principio del numero, e tuttavia hanno bisogno di qualche cosa che non sia essa stessa unit, ossia della sostanza. Dal che risulta che ci in cui non vi nessuna composizione di parti, nessuna continuit di dimensioni, nessuna molteplicit di accidenti, e non abbisogna di alcun soggetto per poter esistere, sommamente e veramente uno (summe et vere unum est),come conclude Boezio. E quindi la sua unit principio di ogni unit e misura dogni cosa13.

2.2. Verum e Bonum. I trascendentali relazionali. Verum e Bonum scaturiscono dallidentit dellessere dellente nellatto che ne fa termine di una relazione rispettivamente intellettiva e volitiva. In questa relazione salva loggettivit dellessere, cui spetta essere riconosciuto per tale dallintelletto e, in rapporto a tale riconoscimento, intenzionato come bene dalla volont. Possiamo cos schematizzare: Verum [Res] Unum < Bonum Intelletto
Volont

>

Soggetto intellettivo e volitivo

Si noti il nesso solidale onto-etico del movimento che innesca la doppia relazione, circa il quale ci sovviene la somma massima delletica di Rosmini, segui il lume della ragione, che egli determina nellimperativo generale Ama lessere, ovunque lo conosci, in quellordine chegli presenta alla tua intelligenza14.

13 14

S. Tommaso dAquino, In I Sententiarum, d. 24, q. 1, a. 1. A. Rosmini, Principi della scienza morale, c. I, art. VII, Citt Nuova, Roma 1990, p. 110.

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2.2.1. Verum. La relazione al soggetto in quanto intellettivo. La Verit ha i significati: a) gnoseologico o logico; b) linguistico o semantico; c) ontologico, dove, nelladaequatio rei et intellectus si d quella dimensione relazionale di questa propriet trascendentale cui pocanzi accennavamo. Tale relazione veritativa, - rispetto a Dio sostanziale (o essenziale), e dipende dalla partecipazione dellente allessere; - rispetto allintelletto umano accidentale, il che significa che la verit dellessere dellente non dipende dalla conoscenza (o, per cos dire, dal riconoscimento - ammissione - o meno del suo statuto ontologico effettivo da parte della soggettivit pensante). 2.2.2. Bonum. La relazione al soggetto in quanto volitivo. Il Bene come propriet trascendentale si trova gi affermato nel Timeo di Platone, laddove si dice che il Demiurgo, alieno dallinvidia, volle che ogni cosa fosse per massimo grado a lui somigliante [...] Dio volle dunque che luniversalit delle cose fosse buona e che per quanto possibile, nullo fosse il male15. Tale propriet esprime la conformit allente con la facolt appetitiva e quindi la relazione dellente alla volont (appetibilit dellente). Tale relazione desiderante (volitiva), - da parte di Dio, ipsum esse subsistens, Bont ontologica essenziale; - da parte della volont umana o di qualche altro ente intelligente bont ontologica accidentale, il che significa che la bont dellessere dellente non dipende dallappetibilit (o, per cos dire, dallelezione o meno a proprio fine da parte della soggettivit desiderante).
Dio ama tutti gli esseri esistenti, perch tutto ci che esiste in quanto esiste buono; infatti lessere di ciascuna cosa un bene, come un bene del resto ogni sua perfezione. Ora, la volont di Dio causa di tutte le cose e per conseguenza ogni ente ha tanto di essere e di bene nella misura in cui oggetto della volont di Dio. Dunque ad ogni essere esistente Dio vuole qualche bene. Perci, siccome amare vuol dire volere a uno del bene, evidente che Dio ama tutte le cose esistenti. Dio, per, non ama come noi. La nostra volont infatti non causa della bont delle cose; al contrario, mossa da essa come dal proprio oggetto, e quindi il nostro amore con il quale vogliamo del bene a qualcuno non causa della bont di costui, perch anzi la sua bont , vera o supposta, provoca lamore che ci spinge a volere che gli sia mantenuto il bene che possiede e acquisti quello che non ha, e ci adoperiamo a tale scopo. Lamore di Dio invece infonde e crea la bont delle cose16.

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Platone, Timeo, 28. S. Tommaso dAquino, Summa Theologiae, I, q. 20, a. 2.

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Si osservi che i trascendentali relazionali Verum e Bonum, dipendono entrambi da una relazione contingente e accidentale da parte delluomo, ma sostanziale da parte di Dio. Ci significa che essi sono permanentemente al riparo dalle oscillazioni del riconoscimento dei soggetti intellettivi e volitivi finiti (non sempre si riconosce lessere dellente per ci che e a volte non lo si conosce affatto, per il semplice motivo che non lo si incontra neppure , n lo si desidera sempre rettamente, cio in ordine al suo essere) in quanto stabilmente ed eternamente intenzionati da Dio come tali. Capovolgendo la questione, possiamo affermare che Dio un postulato della struttura trascendentale della verit e bont dellessere, in quanto si rende necessario che si dia almeno Una relazione che riconosca permanentemente lessere nella sua effettiva realt (verum) e costantemente lo intenzioni nella sua positivit finale (bonum). Possiamo allora cos riprendere il nostro schema: N Verum Dio < J [Res] Unum < P Bonum - - Intelletto - - Volont > Soggetto intellettivo e volitivo

2.2.3. Applicazione della dottrina dei trascendentali ai dati scritturali. A questo punto diversi testi e affermazioni e di fondamentale importanza della Scrittura possono essere proficuamente riletti alla luce della dottrina dei trascendentali. A titolo di esempio [tra le osservazioni pi diffusamente prodotte a lezione]: - Lesclamazione del centurione in Mc 15,39 veramente questuomo era figlio di Dio , chiave di volta per la comprensione dellintero Vangelo di Ges Cristo, Figlio di Dio (Mc 1,1) di Marco, traducibile in una relazione di riconoscimento della realt nellattuato piano di adeguazione del Verum. Cos tutta linnervazione kerygmatica del Nuovo Testamento. - Il concetto di Verit, cos decisivo nella tessitura del Vangelo secondo Giovanni, rappresenta una relazione di riconoscimento da alcuni, come Pilato, mancata diretta alla realt di Cristo Ges, via, verit e vita (cfr. Gv 14,6), e verit quale rivelatore del Padre (cfr. Gv 14,9). - La generale bont del creato (Gen 1) confermata e trasfigurata dalla Redenzione di Cristo, e Paolo pu annunciare che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio (Rm 8,28). 2.2.4. Pulchrum. Un terzo trascendentale relazionale? Gli autori della II Scolastica sovente nominano la propriet del Pulchrum accanto ai trascendentali, ma i testi di S. Alberto Magno e di Tommaso in particolare spingono a ritenere che la intendessero come una specificazione interna al Bonum e non direttamente riferibile allens e con esso convertibile, per cui si ha limpressione che il pulchrum sia riconducibile non ad una propriet dellente in quanto tale, ma ad una propriet del buono in quanto buono17.

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Cos N. Varisco, Le propriet trascendentali dellessere nel XIII secolo. Genesi e significati della dottrina, Padova, Il Poligrafo, 2007, p. 321; cfr. J.A. Aertsen, Medieval Philosophy and the Transcendentals. The case of Thomas Aquinas, Leiden, Brill, 1996, p. 344.

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2.2.5. Dai trascendentali ai prima principia dellontologia metafisica. Lattribuzione allessere delle tre propriet trascendentali di unum, verum e bonum d luogo ai tre supremi principi della metafisica: il principio di identit (e il complementare principio di non contraddizione); il principio di ragion sufficiente o di intelligibilit del reale; il principio di finalit o teleologico.

3. Principio di evidenza logica o principio di identit / non contraddizione. Il principio di non contraddizione deriva immediatamente dal principio di identit / determinazione. In certo modo possiamo dire che ne laspetto complementare, che sorge di fronte al tentativo di negazione dellidentit di alcunch. Aristotele, nel libro IV della Metafisica, afferma che
il principio pi sicuro di tutti quello intorno al quale impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio pi noto (infatti tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico. Infatti, quel principio che di necessit deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non pu essere una pura ipotesi, e ci che necessariamente deve conoscere chi voglia conoscere qualsivoglia cosa deve gi essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa18.

Dopodich enuncia detto principio nel modo seguente:


impossibile che la stessa cosa convenga e non convenga ad un tempo a una stessa cosa sotto il medesimo rispetto19.

Se il principio di identit esprime la realt elementare del concetto (quella della suprema nozione di essere), il principio di non contraddizione esprime lesigenza implicita, o realt elementare di ogni proposizione. Il principio di non contraddizione la prima proposizione, dipende dalla prima nozione. Poco oltre, Aristotele scrive:
Alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato: infatti, ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, impossibile che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe alinfinito, e in questo modo, per conseguenza, non ci sarebbe affatto dimostrazione. [...] Tuttavia, anche per questo principio si pu dimostrare limpossibilit in parola, per via di confutazione: a patto, per, che lavversario dica qualcosa. Se, invece, lavversario non dice nulla, allora ridicolo cercare una argomen-

18 19

Aristotele, Metafisica, IV, 1005b12-17. Ivi, IV, 1005b19-21.

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tazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile a una pianta. E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di principio: invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non di dimostrazione. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nellesigere che lavversario dica che qualcosa , oppure che non (egli, infatti, potrebbe subito obiettare che questo gi un ammettere ci che si vuol provare), ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, n con s medesimo n con altri; se, invece, lavversario concede questo, allora sar possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sar gi qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sar colui che dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, quegli si avvale di un ragionamento. Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione20.

Il principio di non contraddizione non pu dunque essere dimostrato, in quanto non va ricondotto ad altra proposizione pi evidente, essendo esso stesso la prima evidenza logica. Esso pu essere soltanto confermato per confutazione. Lavversario, infatti, che ne tentasse la negazione, si troverebbe pur sempre nella condizione di affermare qualcosa, fosse anche una semplice parola dotata di significato. Secondo il principio di non contraddizione, in altre parole, non possibile che A sia al tempo stesso B e non B, perch cos A non avrebbe pi alcun significato determinato. Il principio di non contraddizione fa dunque s che il negatore dellidentit si autoneghi nello stesso atto del pronunciare la negazione. In altre parole il suo atto ne produce lautotoglimento. Linnegabilit del principio consiste, in altri termini, che esso ci la cui negazione autonegazione. Contrariamente a quanti affermano che il principio di non contraddizione ha un mero valore logico, dobbiamo pure affermare la sua valenza ontologica, il suo riferimento allessere reale, la sua portata logico-ontologica, giacch lessere stesso che si presenta al pensiero, e si presenta nella forma dellincontraddittoriet, per cui ritenere che il principio di non contraddizione valga su un puro piano logico, senza che possa dire nulla in riferimento alla realt, viziato dal presupporre una radicale alterit dellessere rispetto allorizzonte del pensiero, che in realt invece lo stesso orizzonte dellapparire dellessere. 4. Principio di evidenza fenomenologica Accanto allevidenza logica e a ci che ne discende, lontologia metafisica poggia, come gi detto, sullevidenza dellesserci di qualcosa, quale dato in presenza alla coscienza pensante. Gi Aristotele, al seguito dellanalisi della struttura del principio di non contraddizione, di fronte allobiezione del diverso (e persino contraddittorio) intendimento dellapparire di alcunch di determinato da parte di diversi soggetti, risultante dallesperienza comune, afferma:
20

Ivi, IV, 1006a6-28.

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Ci che appare non esiste in generale, ma ci che appare esiste per colui al quale appare e quando appare e in quanto e nel modo in cui appare. Accade, quanto prima, di cadere in affermazioni contrarie, solo qualora si voglia discutere senza tener conto di quelle determinazioni. , infatti, possibile che alla stessa persona una cosa sembri miele alla vista e non al gusto; ed anche possibile, dal momento che due sono gli occhi, che le cose non appaiano identiche alluno e allaltro, nel caso che essi abbiano diversa capacit visiva. Tuttavia, a coloro che affermano che ci che appare vero e che quindi tutte le cose sono egualmente false e vere, perch le stesse cose non appaiono identiche a tutti, n appaiono sempre identiche ad un medesimo individuo, ma spesso appaiono nello stesso tempo come contrarie [...], ebbene, a costoro risponderemo che le loro argomentazioni non valgono se ci si riferisce allo stesso senso, sotto lo stesso rapporto, nello stesso modo e nello stesso tempo, e che pertanto questo dovr essere vero. E per questa ragione necessario dire a coloro che discutono non perch convinti della difficolt ma solo per amore di discutere, che non ci che appare in generale vero, ma ci che appare a questo dato individuo. E, come si detto, essi devono, necessariamente, far relative tutte le cose: relative allopinione e relative alla sensazione21.

E. Severino osserva che qui Aristotele non nega, dunque, semplicemente, che ci che appare vero, ma anzi stabilisce il significato autentico di questa tesi. Se lapparire, la manifestazione della realt sensibile viene adeguatamente intesa, e riconosciuta nella sua determinata struttura (ci che non facevano coloro contro i quali il testo qui polemizza), certamente si dovr dire che tutto ci che appare vero nella misura e nel modo in cui appare , ma ci non porter affatto alla negazione del principio di non contraddizione22. Il principio di evidenza fenomenologica in senso stretto afferma semplicemente che qualcosa c, qualcosa si d, qualcosa dato in presenza, indipendentemente dalla sua natura. Tale principio diventer prevalente nel pensiero contemporaneo, fino alloblio dellevidenza logica, almeno nella sua valenza onto-logica. Husserl ne far il principium principiorum, intendendolo come esperienza vissuta della verit nel senso di un riempimento dellintenzione, cio di un riempimento dellapertura intenzionale della coscienza delle determinazioni individuanti di un oggetto, per cui tale oggetto le appare in carne e ossa. Loriginario del sapere la sinergia dellevidenza logica e fenomenologica, in quanto se il principio di evidenza logica principio del pensare, pur vero che il pensare originariamente il pensare di ci che dato, ossia un pensare reale, cosicch valore ontico e valore logico fanno immediatamente circolo come circolo a) della non-contraddittoriet e b) della sua immediata referenza alla realt evidente. Entrambi questi principi sono di fondamentale importanza; leventuale smarrimento delluno a vantaggio dellaltro genera inevitabilmente prospettive parziali che si ripercuotono pesantemente nei risultati dellindagine teoretica.

Aristotele, Metafisica, IV, 1011a22-1011b5. E. Severino, Aristotele, il principio di non contraddizione, in: Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi, 2005, p. 289, n. 2.
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