133
1.
Francesco Zambon
Il bestiario igneo di Giacomo da Lentini
1
Cfr. Bruni 1990, pp. 210-273 e Brugnolo 1995, pp. 265-337.
2
Giacomo da Lentini, Poesie, p. 346.
3
Panvini 1994, p. 99.
4
Cfr. Antonelli 1979, pp. 346-347.
134
Raimbaut, incentrata sul tema della fedeltà amorosa, si chiude con il distico
(ed. Pattison, vv. 64-65):
[Come mai non muore la fenice / non sarà mai che io non vi sia amico]
Analago il senso del bisticcio con il verbo fenir, ancora, nella seconda
tornada del sirventese Pos ubert ai mon ric tezaur di Peire Vidal (ed. Avalle,
vv. 90-94), dove pure fenics rima con amics ed è già presente il tema
siciliano della gioiosa autodistruzione dell'amante nella donna amata (o nel
fuoco amoroso):
[Amica, tanto vi sono amico, / che verso le altre sembro nemico / e voglio essere
in voi fenice, / poiché non amerò mai altra donna / e in voi compirò il mio amore]
135
perire.8 L'uccisione del mostro per mezzo di un cristallo o di un vetro
opposto al suo sguardo è descritta, fra i bestiari, soltanto dalla versione
lunga del Bestiaire di Pierre de Beauvais, composta però tra il 1245 e il
1268: “Chi volesse uccidere questa bestia dovrebbe avere un vaso traslucido
di cristallo o di vetro, attraverso il quale possa vedere la bestia chiaramente.
In modo che, quando tiene la testa dentro al vetro o al cristallo, il basilisco
non possa vedere colui che vi si trova dentro e il suo sguardo si fermi sul
vetro o sul cristallo: giacché esso ha una natura tale per cui, quando lancia il
suo veleno attraverso gli occhi e questo si ferma su qualche ostacolo, il
veleno rimbalza su di esso e ne provoca la morte”9.
Le fonti di questo capitolo non sono state ancora studiate adeguatamente:
manca del resto a tutt'oggi una esauriente Storia del basilisco. Florence
McCulloch si limita a classificare la descrizione di Pierre de Beauvais (o
piuttosto di un suo continuatore) fra il “materiale non-bestiario” contenuto
nella sua opera.10 Tale descrizione ci riporta in realtà a una tradizione molto
precisa, e cioè ai temi magico-fantastici inclusi nelle leggende orientali e
bizantine relative ad Alessandro Magno. La tecnica per uccidere il basilisco
opponendo uno specchio al suo sguardo è uno dei consigli di Aristotele ad
Alessandro contenuti nel Secretum secretorum, risalente a un originale
(Kitâb Sirr al-‘asrâr) che sarebbe stato tradotto dal siriaco in arabo da
Yahya ibn al-Bitriq (IX secolo) e poi diffuso in Occidente attraverso varie
traduzioni latine e volgari; sappiamo che il maestro Teodoro lo riassunse per
l'imperatore Federico II.11 Il tema si ritrova poi nei Gesta romanorum e in
alcune redazioni interpolate della Historia de preliis Alexandri Magni. Nei
Gesta si legge: “Alessandro regnò, ottenendo il dominio di tutto il mondo.
Una volta gli accadde di radunare un grande esercito e di assediare una città:
in questo stesso luogo subì numerose perdite fra i suoi soldati e fra altre
persone senza che fossero feriti. Meravigliandosi molto di ciò, chiamò i
filosofi e chiese loro: "Maestri, come può accadere questo, che i miei soldati
muoiano improvvisamente senza ferite?" Quelli risposero: "Non c'è da
stupirsi, giacché sopra le mura della città c'è un basilisco, dal cui sguardo i
soldati sono avvelenati e muoiono". Chiese allora Alessandro: "Che rimedio
c'è contro il basilisco?" Gli risposero: "Si ponga uno specchio in alto fra
l'esercito e le mura, dove si trova il basilisco; quando guarderà nello
8
Se ne veda il testo in Giacomo da Lentini, Poesie, pp. 400-401.
9
Art. XVb: Basilecoc, in Pierre, Best. (ed. Rebuffi), p. 178,13-22: “Qui ceste beste voldroit
tuer, il li covenroit avoir I cler vaisel de cristal ou de voire, par coi il peüst veïr la beste
parmi la clarté. Que quant il aroit la teste el voire ou el cristal, que il ne peüst celui
aperchoivre qui dedens seroit, et que li regars de la beste arestast al cristal ou al voire, que
la beste a tel nature, quant ele gete son venin per les ex et s'il areste encontre alcune cose,
qu'il resorst sor lui ariere; et si l'en covient morir”.
10
Cfr. McCulloch 1962, pp. 199-200.
11
Cfr. Kantorowicz 1994, p. 306.
136
specchio, il riflesso del suo sguardo tornerà verso di lui e così morirà". E
così fu fatto”.12
La storia è ripresa in termini ancor più immaginosi nella Historia de
preliis, che peraltro un letterato della mouvance fredericiana, il giudice
Quilichino da Spoleto, versificò nei distici della Historia Alexandri Magni.13
Nella cosiddetta recensione J3 si racconta: “Inoltrandosi per il passaggio
orientale, camminò per sette giorni su quel sentiero strettissimo; l'ottavo
giorno trovarono un basilisco orribile e fetido a causa della decrepitezza, che
era talmente velenoso da corrompere l'aria non solo con il puzzo ma con lo
stesso sguardo, per quanto esso si estendeva. Così, passando, Macedoni e
Persiani cadevano senza vita al solo sguardo del serpente. I soldati,
scorgendo tale pericolo, non andavano oltre dicendo: “Davanti a noi sul
cammino sta il potere degli dèi, che ci mostra come non dobbiamo
proseguire oltre la traversata”. Allora Alessandro si avviò da solo sulla cima
del monte, in modo da poter scorgere da lontano la causa di una simile
peste. E stando sulla cima del monte, vide il basilisco che stava in mezzo al
passo e dormiva sempre. Ma quando sentiva avvicinarglisi un uomo o un
animale, apriva gli occhi e tutti quelli che guardava morivano
immediatamente. Visto ciò, Alessandro scese subito dal monte e stabilì dei
limiti che nessuno doveva oltrepassare. Poi fece costruire un grande scudo
lungo sei cubiti e largo quattro, e all'esterno fece inserire sulla supercifie
dello scudo un grandissimo specchio e fece fare delle calzature di legno alte
un cubito. Preso lo scudo sul braccio e indossate le calzature ai piedi, si
avviò in direzione del basilisco tenendo contro di sé lo scudo, in modo che
non si vedessero assolutamente né il capo né i fianchi né i piedi. E ordinò a
tutti i suoi soldati di non tentare assolutamente di superare i limiti. Quando
fu vicino al basilisco, quello aperse gli occhi e guardò lo specchio con
rabbia: contemplando se stesso nello specchio, subito fu ucciso. Quando si
accorse che era morto, Alessandro gli salì sopra, chiamò i suoi soldati e
disse: “Venite e guardate chi vi uccideva”. Accorsi, quelli videro il basilisco
morto. E subito, per ordine di Alessandro, lo bruciarono, elogiando fra loro
la sapienza di Alessandro”.14 Con qualche variante, che la avvicina alla
12
Gesta Romanorum, cap. 139; cfr. Oesterly 1872, pp. 493-494: “Alexander regnavit, qui
dominium tocius mundi obtinuit. Accidit semel quod grandem exercitum collegit et
quandam civitatem circumdedit, et in eodem loco plures milites et alios sine vulnere amisit.
Cum vero de hoc multum miraretur, philozophos vocavit et ait eis: O magistri, quomodo
poterit hoc esse, quod subito sine vulnere milites mei moriuntur? At illi dixerunt: Mirum
non est; est enim quidam basiliscus super murum civitatis, cujus aspectu milites inficiuntur
et moriuntur. Ait Alexander: Quale remedium est contra basiliscum? Cui dixerunt: Ponatur
speculum elevatum inter exercitum et murum, ubi est basiliscus, et cum in speculum
respexerit, reflexus ejus intuitu ad se ipsum redit et sic morietur. Et factum est”.
13
Cfr. Pfister 1912, pp. 249-301.
14
Cfr. Historia de preliis, pp. 152-154: “Et dum per medium transitum orientis intraret,
ambulavit per dies VII et per illud artissimum iter; VIII vero die invenerunt basiliscum
137
notizia del Bestiaire di Pierre de Beauvais, la narrazione si trova anche nel I
libro del Tresor di Brunetto Latini: “Sappiate che Alessandro li trovò e fece
fare delle grandi ampolle di vetro in cui entravano alcuni uomini e potevano
vedere i basilischi, senza che questi li vedessero; e i soldati li uccidevano
con le frecce: in tal modo il suo esercito ne fu liberato”.15
Vi è in tutte queste descrizioni del basilisco un evidente incrocio con il
mito antico di Medusa - una delle tre Gorgoni - quale è narrato da
Apollodoro (II,4,2): essa è uccisa da Perseo, il quale si serve di un
lucentissimo scudo nel quale può osservare l'immagine riflessa del mostro
(che ha capelli di serpenti) prima di tagliargli la testa; fra gli oggetti magici
impiegati nell'impresa vi è anche l'oscuro elmo di Ade che rende invisibili.16
La fusione tra questa leggenda e quella del basilisco è stata probabilmente
favorita dal racconto di Lucano, secondo cui dal sangue di Medusa
gocciolato al suolo sarebbero nati tutti i serpenti velenosi del luogo e fra
questi il basilisco “che emette sibili capaci di atterrire tutti gli altri mostri, e
uccide prima ancora di mordere e attorno a sé per largo tratto mette in fuga
ogni vivente per regnare solo sulle sabbie deserte”.17 Come osserva Massimo
orribilem et dierum antiquitate fetidum, qui tante venositatis erat, ut non solum fetore sed ex
ipso visu, quantum contemplari poterat, aerem corrumpebat. Transeuntes itaque Macedones
et Perse solo visu serpentis cadebant exanimes. Milites cernentes tale periculum non
amplius procedebant dicentes: “Deorum virtus ante nos in itinere consistit, que nos amplius
non transire demonstrat”. Tunc Alexander cepit solus per superiorem partem montis
ascendere, ut a longe posset causam tante pestilentie previdere. Et cum in superiori parte
montis consisteret, vidit basiliscum in medio tramite consistentem, et dormiebat continuo.
Cum autem sentiebat hominem vel animal appropinquare sibi, aperiebat oculos et quotquot
aspiciebat, ilico interibant. Quod cum vidisset Alexander, continuo descendit de monte et
constituit terminos, quos nullus presumeret excedere. Et fecit fieri clipeum magnum longum
cubitis VI et latum cubitis IIII, et ab exteriori parte in superficie clipei fecit speculum
maximum interponi fecitque sibi subtellares ligneos per cubitum altos. Et accipiens clipeum
in brachio suo et subtellares in pedibus cepit contra basiliscum opposito sibi clipeo incedere
ita, quod nec caput nec latera nec pedes ullatenus videri poterant. Et precepit universis
militibus suis, ut nullus terminos excedere attemptaret. Cum autem propinquus esset
basilisco, aperuit ille oculos et irato animo inspiciens speculum semet ipsum contemplans in
speculo illico extinctus est. Alexander itaque sentiens illum exanimem ascendit super eum et
vocans milites suos ait: “Venite et videte occisorem vestrum”. At illi festinantes viderunt
basiliscum mortuum. Et continuo illum iussu Alexandri Macedones cremaverunt et
laudabant omnes ad invicem sapientiam Alexandri”. La stessa descrizione si legge, in forma
abbreviata, anche nelle Guerre di Alessandro medioinglesi (XV secolo): cfr. Alessandro,
pp. 295-297 (testo e traduzione a cura di C. Bologna) e 604-605 (commento dello stesso
studioso).
15
Tresor, cap. 140: “Et sachiés que Alixandres les trova, et fist faire grandes ampoles de
voirre ou homes entroient dedens ki veoient les basiliques, mais il ne veoient ceaus, ki les
ocioient des saietes; et par itel engin en fu delivrés il et son ost”.
16
Cfr. Graves 1963, pp. 295-296.
17
“[..] sibilaque effundens cunctas terrentia pestes, / ante uenena nocens, late sibi summouet
omne / uulgus et in uacua regnat basiliscus harena”, Phars. IX, 724-726; trad. it. in Lucano,
Farsaglia, p. 471.
138
Izzi, qui “troviamo la ragione per cui di tutte le valenze velenose del
basilisco, è quella legata allo sguardo che acquista la preminenza: si tratta di
una fusione tra due elementi della mitologia classica, la Gorgone dallo
sguardo pietrificante e il suo figlio naturale, il basilisco che sparge la morte
con la sua sola presenza”.18 Il mito della Gorgone, del resto, è incluso fra le
descrizioni di animali e di mostri contenute nella redazione bizantina del
Fisiologo; vi si legge che il suo capo fu usato da Alessandro per sbaragliare i
nemici: “Chi veda un serpente o un altro animale, oppure un proprio
nemico, e gli mostra per arte [magica] la testa della Gorgone, lo incenerisce,
come faceva il re Alessandro, che per mezzo di essa dominò tutti i popoli”.19
In un capitolo extravagante, contenuto in alcuni manoscritti del Physiologus
greco, si legge anche che il basilisco - capace di disseccare gli arbusti e di
rendere deserte le città con il suo fiato - cammina con il capo rivolto
all'indietro; per ucciderlo, i dotti lo abbagliano dirigendo i raggi del sole
verso i suoi occhi per mezzo di uno specchio: l'animale, non vedendo più la
propria ombra, muore.20 Nella misura in cui Giacomo da Lentini poteva
conoscere queste leggende, legate anche alla magia catottrica, la sua
similitudine è dunque evocatrice di un ricco complesso leggendario e
simbolico: Alessandro Magno, l'Oriente, Perseo e Medusa, gli specchi
magici...
Tuttavia anche qui la fonte immediata, già indicata di sfuggita da
Gaspary21 ma non segnalata da Fratta,22 è provenzale. A proposito della
similitudine fra lo sguardo micidiale della donna e quello avvelenato del
basilisco, Garver - citato anche da Vuolo - rileva come non abbia precedenti
nella poesia trobadorica.23 Quella dell'uccisione del mostro per mezzo dello
specchio è invece sviluppata nella celebre canzone Si com l'arbres per
sobrecargar di Aimeric de Peguilhan, anche in altri punti utilizzata dai
Siciliani (ed. Shepard-Chambers, vv. 25-32):
18
Izzi 1982, p. 110.
19
Fisiologo, pp. 246-247. Per l'incrocio fra la leggenda del basilisco e il mito della Gorgone
nella tradizione del Fisiologo, cfr. Goldstaub 1895, p. 379.
20
Cfr. Fisiologo, pp. 246-247.
21
Cfr. Gaspary 1882, p. 105 nota 2.
22
Cfr. Fratta 1996.
23
Cfr. Garver 1907, p. 280, e Vuolo 1962, p. 136.
139
[Non conosco nessun “sì” con il quale scambierei il vostro “no”, cosicché spesso
il mio sorriso si volge in pianto; ed io come un pazzo provo gioia del mio dolore e
della mia morte, quando vedo il vostro viso. Come il basilisco che gioiosamente va a
uccidersi quando si guarda e si vede nello specchio, così voi siete specchio di me,
giacché mi uccidete quando vi vedo e vi guardo].
A proposito di questo passo, che riassume i temi più tipici del Notaro, le
postille di Torraca edite da Aniello Fratta rimandano precisamente ad
Aimeric, in associazione - per i versi finali - a Bernart de Ventadorn, Can
vei la lauzeta mover: “Miralhs, pus me mirei en te, / m'an mort li sospir de
preon” [“Specchio, dopo che mi sono mirato in te, / i sospiri mi hanno
ucciso dal profondo”].25 In ogni caso, con l'evocazione del basilisco, siamo
nel cuore di una costellazione tematica e simbolica che comprende quasi
tutti gli ingredienti fondamentali del laboratorio poetico di Giacomo da
Lentini: fuoco, luce, vetro, specchio, sguardo, immagine...
Molti di essi sono presenti o impliciti anche nelle altre similitudini dei
due sonetti considerati: in essi infatti gli emblemi animali non sono
semplicemente giustapposti come tessere di un prezioso mosaico, ma in
parte si sovrappongono conferendo rilievo e spessore simbolico particolari
ad alcuni temi o parole chiave, secondo una tecnica applicata
sistematicamente in quegli stessi anni da Richard de Fournival nel Bestiaire
d'amours. È intorno a questi temi e a queste parole, in realtà, che si
agglutina e orbita il bestiario di Giacomo. Nel sonetto Sì como 'l parpaglion,
infatti, i temi del fuoco e dell'incendio sono comuni a parpaglione e fenice
24
Panvini 1962, p. 293.
25
Cfr. Fratta 1996, p. 21.
140
(nonché allo zitello), quello del gioco / diletto al parpaglione e allo zitello,
mentre quello della rinascita è esclusivo della fenice: il cuore dell'amante è
dunque una sorta di “mostro dei mostri”, in cui si assommano le proprietà
meravigliose di più creature.
Analogo, ma più complesso, il caso del sonetto Lo basalisco a lo
specchio lucente. Ai temi della luce e del fuoco (che qui associano fenice e
basilisco, anche perché secondo molte descrizioni - da Isidoro fino a
Hildegart von Bingen - il fiato di quest'ultimo è infuocato e incenerisce ogni
cosa), della morte (che affianca gli stessi due animali al cigno) e della
rinascita (ancora riservato alla sola fenice), si aggiungono quelli dello
sguardo (basilisco e pavone), del canto (cigno) e del turbamento (pavone),
mentre si intensifica quello della gioia, già presente nell'immagine dello
zitello in Sì como 'l parpaglion; questo tema - fondamentale nel Notaro - è
anzi la vera filigrana del sonetto, attraversando tutte le “nature” zoologiche
come dato accessorio rispetto a quelli più caratteristici e insoliti (lo specchio
in cui si vede il basilisco, l'incendio della fenice ecc.).
La rete di collegamenti potrebbe essere facilmente estesa anche agli
emblemi animali o mitologici di altri componimenti - dello stesso Giacomo
o di poeti diversi: in particolare alle due sequenze di sonetti nelle quali
Santangelo aveva creduto di poter riconoscere due tenzoni poetiche fra vari
autori, rispettivamente “sul canto e l'amore” e “sul parpaglione e il fuoco
d'amore”.26 Del primo gruppo fanno parte, oltre a Lo basalisco, Un oseletto,
che canta d'amore di Rinaldo d'Aquino, l'adespoto Quando gli ausignuoli e
gli altri agielli, Quando l'aire rischiara e rinserena di Bondie Dietaiuti,
L'usciel fenice quando ven'al morire di Giovanni d'Arezzo, Guardando
basalisco venenoso (attribuito da Santangelo a Rinaldo) e l'adespoto
Guardando la fontana, il buon Narciso. Al secondo appartengono, insieme a
Sì como 'l parpaglion (anche questo attribuito da Santangelo a Rinaldo
d'Aquino), gli adespoti Lo mio folle ardimento m'à conquiso e Lo
parpaglion, guardando a la lumera, infine Chi non avesse mai veduto foco
dello stesso Giacomo. Più che di vere e proprie tenzoni, si tratterà di quel
lavoro in collaborazione o di variazione su temi fissi - o testi trobadorici -
sul quale insistono gli studiosi più recenti della Scuola poetica siciliana.27 Il
confronto fra tutti questi componimenti, in ogni caso, permette di osservare
l'espansione ulteriore di alcuni temi chiave - come quelli del fuoco (che
genera anche l'immagine della salamandra) e dello sguardo (che si articola
intorno al mito di Narciso in Guardando la fontana, il buon Narciso ed è
presente anche nella lunga similitudine della pantera nella canzone Pir meu
cori allegrari di Stefano Protonotaro). Esso lascia affiorare anche
collegamenti sotterranei come quello fra il cigno e la fenice, in virtù del
26
Cfr. Santangelo 1928, pp. 204-230.
27
Cfr. in particolare Bruni 1990, p. 255.
141
canto in punto di morte (che è anche un dato tradizionale del mito feniceo);
nel sonetto L'uscel fenice di Giovanni d'Arezzo, infatti, il riferimento al
favoloso uccello ingloba sia il tema del canto sia quello dell'incendio:28
[...]
28
Santangelo 1928, pp. 213-214.
29
Cfr. Favati 1963 e Bianchini 1996, pp. 26-47.
30
Cligès, vv. 714-716, in Chrétien, Oeuvres, p. 190.
31
Cligès, vv. 724-726, in Chrétien, Oeuvres, p. 191.
142
sciogliere il rebus e si troverà in essi la più completa esposizione della
dottrina amorosa di Giacomo da Lentini. La similitudine del parpaglione è
forse scattata, per interferenza con i testi di Folchetto e di Elias Cairel, a
partire da quella della candela in Chrétien; ma il parpaglione attiva inoltre i
temi del fuoco, della luce, dell'incendio. Nel primo sonetto, la fenice evoca
ancora incendio, poi morte e vita nel fuoco; nel secondo il basilisco
condensa fuoco, sguardo, vetro, specchio, morte; la fenice - di nuovo -
incendio e morte / vita nel fuoco. Le altre similitudini dei due sonetti -
zitello, pavone, cigno - aggiungono o ricalcano i temi della luce / fuoco,
dello sguardo, del canto. Un basilisco-fenice (o un parpaglione-fenice) è
dunque l'amante che accoglie nello specchio del cuore, attraverso il vetro
degli occhi, l'immagine (il dardo igneo) della donna e ne brucia di un fuoco
nascosto e inestinguibile. Giacomo ripete spesso che questo fuoco appiccato
dalla pintura interiore è esperienza propriamente ineffabile (cfr. almeno la
canzone Amando lungiamente): l'araldica zoologica è la soluzione poetica a
questo problema espressivo. Sintomaticamente, in Madonna dir vo voglio
(vv. 24-31), è proprio l'emergenza di questa tematica a sviluppare l'altro
emblema equivalente del “bestiario igneo” di Giacomo, quello della
salamandra, la cui evocazione si dissolve in una dichiarazione di impotenza
a dire gli effetti della vita nel foc'amoruso:32
32
Giacomo da Lentini, Poesie, pp. 12-13.
143
2.
Francesco Zambon
Il bestiario della Sapienza celeste
33
Cfr. Castelli 1892.
34 Cfr. Lauchert 1890, pp. 1-12.
35 Cfr. Crespi 1927.
36 Cfr. Frizzi 1877. Si vedano anche Palermo 1860, II e Bariola 1879.
37 Lauchert 1890, p. 4.
38 Ibid., p. 4.
144
costituisca semplicemente “una rielaborazione in versi del Fisiologo”,39
paragonabile ai Bestiaires francesi di Philippe de Thaün e di Guillaume le
Clerc? In realtà, se alla sua base si trovano in effetti le “nature” del
Fisiologo, vi compare anche un numero considerevole di notizie
supplementari che sarebbe inutile cercare nel bestiario greco o nelle sue
versioni latine e volgari. Certo, i versi di Cecco sull’unicorno (III,XLV,4-6:
“Dentro nel cor li prende umilitade; / vedendo la pulzella a·lei s’aplica, /
così lo prende la virginitate”)40 ripetono la leggenda tradizionale: “…gli
mettono davanti una casta vergine; allora l’animale balza nel suo seno, e lei
lo riscalda e lo nutre: poi lo conduce al palazzo regale”.41 Ma i versi che
precedono (ibid., 1-3: “Quante l’alicorno è fera forte, / che l’alinfante
combatte e nimica / e molte volte l’uom conduce a morte!”) non trovano
alcun riscontro nel Fisiologo. Sicché, se si volessero integrare i riferimenti
“fisiologici” con tutte le altre fonti necessarie a spiegare il testo dell'Acerba,
bisognerebbe risalire a Plinio, Solino, Ambrogio, Isidoro e altri ancora. Ma
non ci s’inganni: quest’opera di raccolta o, se si preferisce, di
“incrostazione”, di nuovi materiali intorno allo scheletro dell’opuscolo greco
fu dovuta non tanto all’erudizione o alla fantasia del poeta ascolano, quanto
alla folta schiera dei compilatori di enciclopedie e bestiari latini,
specialmente a partire dal XII secolo.42
Cecco d’Ascoli utilizzò una di queste compilazioni: e precisamente il De
rerum proprietatibus di Bartolomeo Anglico, la cui larga diffusione
nell’Italia settentrionale è stata già da tempo riconosciuta. In particolare,
Vittorio Cian ne ha studiato un volgarizzamento mantovano nella sua ampia
monografia su Vivaldo Belcalzer e l’enciclopedismo italiano,43 studio più
recentemente approfondito da Ghino Ghinassi.44 Dante stesso, sembra, era a
conoscenza dell’opera e del resto, come notifica un documento citato dal
Cian, “il De proprietatibus rerum era il manuale classico di scienze naturali
più in uso nelle scuole di Parigi”, tanto che “lo troviamo registrato
nell’elenco ufficiale dei testi che i librai parigini davano in prestito agli
studenti a un prezzo determinato da apposita tariffa”.45 E non soltanto la
versione di messer Vivaldo ne documenta la diffusione tra Lombardia,
39 Ibid., p. 4.
40 Le citazioni dell'Acerba sono tratte dall'edizione di B. Censori ed E. Vittori indicata in
bibliografia. Gli eventuali emendamenti al testo fornito in questa edizione, piuttosto
corrotto, sono stati inseriti fra parentesi uncinate < >: le correzioni sono state operate sulla
base del confronto con le edizioni dell'Acerba fornite da Rosario 1926 e Crespi 1927. Per la
sezione zoologica, si veda ora anche Morini 1996.
41 Carmody 1941, p. 128.
42 A questo proposito si vedano specialmente Sbordone 1949 e Mc Culloch 1962.
43 Cfr. Cian 1902.
44 Cfr. Ghinassi 1965.
45 Cian 1902, p. 49.
145
Veneto e Toscana intorno ai primi decenni del ‘300 - periodo in cui si
colloca verosimilmente la composizione dell’Acerba - ma lo stesso Brunetto
Latini nella sezione zoologica del Tresor, che il suo più recente editore, il
Carmody, ritiene derivato in massima parte dal terzo libro del De Bestiis,46
sembra in realtà aver utilizzato l’enciclopedia di Bartolomeo.47 Della sua
fortuna negli ambienti scientifici e culturali italiani l'Acerba offre una
ulteriore, precisa testimonianza, come si potrà concludere da un dettagliato
confronto fra i due testi.
In alcuni casi, Cecco non andò oltre una trascrizione pressoché letterale
del testo latino, come nel capitolo sulla “noticora” (III,XIII,1-6):
Bartolomeo:48
Nocticoras est noctis corvus; sic dicitur eo quod noctem amat, quia de ncte volans
cibum querit et querendo clamitat: cuius clamor est volucribus odiosus, ut dicit
Isi(dorus). Est autem avis lucifuga et solem videre non potest; sepulchra et loca
mortuorum inhabitat et frequentat; in parietibus et in locis rimosis nidificat; ova
columbarum et monedularum frangit et devorat et cum eis pugnat. Hec dicitur noctua
quasi de nocte acute tuens; de nocte autem videt, ex orto autem splendore solis eius
visus hebetatur.
46 Erroneamente attribuito a Ugo di San Vittore; il testo è edito in PL 127, coll. 15-164.
Sull'attribuzione, cfr. Mc Culloch 1962, addenda p. 31.
47 Cfr. Introduzione a Brunetto, Tresor, p. XXVII. Lo studioso peraltro avverte che questo
bestiario “non basta a spiegare l'origine delle conoscenze del Latini”: certo, almeno per
alcuni capitoli, sembra si possano sostituire i numerosi rimandi di Carmody con il solo
riferimento all'enciclopedia di Bartolomeo.
48 Bart. Anglico, De propr. rerum, XII,287.
146
così, dovendo ricondurre il leopardo alla significazione dell'astuto e crudele
Tentatore, ritaglia solo poche indicazioni dal lungo capitolo di Bartolomeo
(III,XL,1-12):
Leopardus est bestia sevissima de leonis et pardi adulterio generata, ut dicit Isi(dorus)
li.xii. Nam ut dicit Pli(nius) leone cum parda aut pardo cum leena concubente [...].
Saliendo non currendo insequitur predam: et si in tertio saltu predam non rapit vel in
quartu, pre indignatione sistit et victus retrocedit; [...] unde timens leonem, facit foveam
subterraneam duplex orificium habentem, unum per quod intrat et aliud per quod exit.
Est autem fovea illa in utroque orificio valde ampla et in medio magis stricta. Veniente
itaque leone in foveam se mergit, quem persequens leo foveam cum impetu subintrat,
ubi triumphare putat de leopardo, sed propter magnitudinem corporis per medium fovee,
ubi strictior est, libere transire nequit, quem sciens leopardus ita in strictura impeditum,
illam foveam egreditur, et nunc in parte opposita foveam intrans, leonem a tergo
morsibus et unguibus aggreditur [...]. Leopardus quando egrotat sanguinem capre
agrestis bibit.
147
la precisione della descrizione (“qual ha due bocche et è in mezzo stretta”)
presuppone nell'Ascolano la conoscenza diretta dell'originale (“in utroque
orificio valde ampla et in medio magis stricta”), frainteso dal
volgarizzamento toscano: “la quale ingegnosamente è facta con due bocche
tanto strecte iscarsamente quant'elli tanto solamente possa esciere”.51
Certo, non sarebbe difficile ricomporre il mosaico di notizie offerto dai
capitoli dell'Acerba attingendo ora al Fisiologo, ora a Brunetto, ora ad
Alberto Magno e agli altri testi addotti dagli interpreti: tutti attingevano a
loro volta ad un comune patrimonio naturalistico-simbolico. Ma in nessuno
di questi testi è possibile ritrovarle interamente e nell'ordine osservato da
Cecco, tranne che nel De rerum proprietatibus di Bartolomeo.52 Inoltre, nei
non rari casi di discordanza tra le varie fonti, la versione adottata dal poeta è
sempre quella di Bartolomeo, spesso in evidente contrasto con le altre.
Crespi, che sosteneva la derivazione dal De animalibus di Alberto, si è
trovato spesso nella necessità di attribuire alla “fantasia” o a clamorose
sviste di Cecco le divergenze che risultavano dai suoi raffronti. Così per il
capitolo sul grifone; Alberto, dopo aver descritto il misterioso animale
mezzo aquila e mezzo leone che abita nei monti iperborei ed è tanto robusto
da sollevare un cavallo col cavaliere in groppa, conclude:53
Dicunt autem in montibus illis esse aurum, et gemmas, et maxime smaragdos. Dicunt
etiam, quod si gryphes in nidis sunt, propter speciale iuvamentum ponunt achates
lapides
51 Camus (1909, p. 10) scrive: “Abbiamo qui un primo esempio dei miscugli in questione.
Scavarsi un tana non è proprio di un felino, ma della iena, e tutto ciò che abbiamo letto
dovrebbe figurare sotto la rubrica 'De la natura de la hiena', nel capitolo che segue quello
del leopardo nell'Acerba”. Ma neppure qui la confusione, se confusione c'è, è attribuibile a
Cecco.
52 Partendo dalle indicazioni contenute nella prima edizione del presente saggio (1974),
Costantini e Camuffo 1988 hanno mostrato come il De proprietatibus rerum di Bartolomeo
Anglico sia anche una delle principali fonti del lapidario che segue la sezione zoologica
dell'Acerba.
53 Alberto Magno, De animal., p. 638.
148
Ma basta leggere il succinto paragrafo di Bartolomeo de griphe per
scagionarlo completamente dall’accusa (XIII,19):
Griphes inter volatilia recitantur Deuteronomio xiiii. Et dicit ibi glosa: quod griphes est
quadrupes, capite et alis aquile similis et reliquo corpore similis est leoni et habitat in
hyperboreis montibus, equis et hominibus maxime infestus; in nido suo reponit lapidem
smaragdum contra venenosa animalia montis.
Quamvis autem venenosa comedant […] venenum tamen naturam earum non superat
nec immutat.
Ciconia vel ibis est avis fluvialis que seipsam purgat rostro suo; quia quando ex ciborum
multitudine sentit se gravatam aquam marinam intra rostrum recolligit quam per anum
ad interiora infundit; que remolliendo cibi compacti duriciam mordicando intestina
superflua ejicit et emittit.54
ibid., 4-6:
149
Se mai in fallo truova suo compagna,
<l>a sdegna, e mai con lei non s’avicina:
sola pensando va per la campagna.
…femine fidem servat in qua si masculus aliquo casu adulterum concubitum persenserit,
ultra secum non coabitat, sed rostro si potest eam transverberat atque necat.
ibid., 9:
Castelli, senza alcun serio fondamento, affermò non soltanto che Cecco
d’Ascoli conoscesse di prima mano Platone, Aristotele, Euclide, Avicenna e
tutti gli altri autori citati nelle sue opere, ma “che egli abbia avuto altresì
piena conoscenza delle opere di Alberto Magno, da cui Dante attinse a larga
mano, dei [sic] Livres dou Tresor di Brunetto Latini, della Composizione del
mondo di Ristoro d’Arezzo, di tutte le moralisasiones [sic], dei lapidarii,
bestiarii, physiologi, dei trattati e delle enciclopedie più accreditate nelle
scuole d’allora, e del libro dottrinale più notevole del sec. XIII, lo Speculum
majus di Vincenzo di Beauvais”.55 Ma, per quanto i trattati latini e i capitoli
astrologici dell’Acerba presuppongano una cultura non superficiale, lo
studio del bestiario può far sorgere qualche dubbio sull’effettiva ampiezza
della erudizione di Cecco, e soprattutto sulla sua presunta “chiaroveggenza”
scientifica.56 Lo stesso raffronto tra il poema e il De animalibus di Alberto
Magno (che costituirebbe solo uno degli innumerevoli testi noti a Cecco!)
mostra come, se Alberto sottoponeva non di rado al vaglio della critica e
dell’osservazione sperimentale le “nature” tradizionali, l’Ascolano si
accontentasse invece di quanto trovava nell’enciclopedia di Bartolomeo o
nei pochi altri compendi da lui consultati. Dello struzzo aveva scritto
Alberto (p. 645):
De hac ave dicitur, quod ferrum comedat et digerat: sed ego non sum hoc expertus: quia
ferrum a me pluribus struthionibus obiectum comedere noluerunt.
150
Anche qui le sue parole riecheggiano chiaramente quelle di Bartolomeo
(XXX,33):
…sed propter ponderositatem sui corporis cum avibus in aera non levatur […] Tante
enim caliditatis est quod ferrum digerit et consumit.
…cuius caro est tam dura ut vix putredinem senseat nec facile coquitur
57 Cfr. anche Menichetti 1965, Introd., pp. LVIII-LIX. Castelli 1892 (p. 129-130) sosteneva
una poco probabile origine popolare di questi versi dell'Acerba.
58 “…falsum nisi pro tanto sicut dicit Galen(us) in libro complexionum, quod videlicet
salamandra si in igne parvo tempore moretur, ignis impressionem non efficit in ea: sed si
diu moretur, adurit eam ignis”.
151
Un giudizio dunque, eccezionalmente nell’Acerba, fondato sull’osser-
vazione sperimentale, per quanto elementare (“quel che già vidi…”, “di lui
s’acorge ‘l naso…”); ma forse la sua segreta ragione sta nell’allusione
astrologica, inutile e compiaciuta: “o quando ‘l Sol in Cancro mostra
pompa”. Ben nota è l’importanza dell’astronomia e dell’astrologia (cui è
interamente dedicato il primo libro dell’Acerba) nella cultura di Cecco,59 e
non è strano quindi che egli vi si riferisca di continuo anche trattando degli
animali, i cui occulti rapporti di simpatia e antipatia con gli astri venivano
indagati sin nelle più antiche tradizioni.60 Dall’enciclopedia di Bartolomeo
egli ne desunse numerosi esempi, come testimoniano tra gli altri i capitoli
sullo struzzo e sull’ostrica,61 ma in qualche caso tali riferimenti sembrano
introdotti nella materia zoologica dallo stesso poeta: l’intero paragrafo sullo
scorpione, del tutto estraneo alla tradizione dei “bestiari”, è stato aggiunto
da Cecco nella sezione dedicata ai rettili: “Quando la Luna inluma
Scarpione, / la prima faccia che figura scolpe / non può da scorpion aver
lesione” (III,XXXV,1-3).
Circa la possibile conoscenza da parte di Cecco di bestiari italiani,
Goldstaub e Wendriner si sono pronunciati negativamente scrivendo che
“non è possibile constatare un influsso dei nostri bestiari su Cecco”.62 Frizzi,
smentito poi da Bariola e da Lauchert, aveva dal canto suo affermato che le
notizie dell’Acerba sugli animali e sulle pietre preziose “sembrano attinte al
Tesoro di Brunetto Latini, seppure [Cecco] non ricorse direttamente alla
tradizione volgare, essendo allora quelle cognizioni abbastanza note e
comuni”:63 ad ogni modo, i brani che egli cita in appoggio alla sua tesi
(sull’aquila e sul pellicano) derivano chiaramente, specie il secondo, da
Bartolomeo Anglico.64 In realtà, per alcuni capitoli, Cecco utilizzò
59 Sulle numerose opere astrologiche di Cecco si vedano soprattutto Boffito 1898, 1903,
1905a, 1905b e Thorndike 1949 (Commento alla Sfera del Sacrobosco).
60 Se ne riconoscono ampie vestigia nel Fisiologo greco, poi passate nelle sue versioni
latine e romanze.
61 Dello struzzo, ad esempio, scrive l'Ascolano: “De giugno, quando vede quelle stelle /
lobatte in oriente bene aperte, / sotterra l'uova, scordasi di quelle” [III,IX,4-6]. E
Bartolomeo, nel capitolo De struthione: “Item quando venit tempus ut ova pariat, ad stellas
que vocantur virgilie sive pleiades oculos levat; non cum ova ponit nisi quando illa stellatio
oritur vel ascendit: cum enim viderit stellam circa mensem Iunii arenam fodit et ibi ponit
ova sua”.
62 Goldstaub e Wendriner 1892, p. 187 nota 2.
63 Frizzi 1877, p. 486.
64 L'Acerba: “Il policano col paterno amore / tornando al nido fatigando l'ale, / tenendo li
suo nati sempre al core, / vede<l>i uccisi dall'impio serpe / e tanto per amor de lor li 'incale
/ che lo suo lato fin al cor discerpe. // Piovendo 'l sangue sopra li suoi nati / dal cor, che
sente le gravose pene, / de mort<e> alla vita son tornati” [III,VI,1-9]. Bartolomeo, De propr.
rerum: “Hanc autem naturaliter odit serpens, propter quod serpens dum pro pastu mater exit
nidum repens per arborem pungit et interficit pullos suos super quos mater rediens lugere
152
effettivamente un bestiario italiano, e cioè la versione toscana del Tresor
falsamente attribuita a Bono Giamboni,65 della cui lettura recano traccia
numerosi passi del terzo libro dell’Acerba. Della iena per esempio si legge
(III,XLI,1-9):
Hyene è una bestia, che l’una volta è maschio e l’altra è femina, ed abita quivi ove abbia
presso cimitero di uomini morti, e cavano li corpi degli uomini, e mangianli (fr.: “et
mangue les cors des mors”). […] Ma li più dicono, ch’egli non ritorna quindi ond’egli è
entrato. Ed usano nelle case, ove son stalle, e contraffanno la boce dell’uomo, e del
cane, e divoranli (fr.: “et contrefait la vois as homes”) […] E sappiate che in Etiopia
giace questa bestia con la lionessa (fr.: “gist ceste beste avec la femele du lion”), ed
ingenera una bestia che ha nome cococie o ver corococte, che contraffà altresì la boce
dell’uomo (fr.: “ki autresi ansiut la vois des homes”).
per tridum fertur, deinde in pectore se vulnerat et sanguinem super eos respergens eos a
morte suscitat” [XX,29]. runetto, Tresor: “Pelican est .i. oisel en Egypte, de cui li ancient
dient que leur faons fierent o les eles luer pere enmi le visage, por quoi il se corroucent en
tel maniere que il les occient. Et quant la mere les voit tuez, ele plore et fait grandisme dolor
.iii. jors; tant que en la fin ele naffre ses costez a son bec et fait le sanc espandre sur ses fiz,
tant que por ochoison dou sanc resordent et tornent en vie” (p. 150).
65 Cfr. Segre 1953, pp. 62-63.
66 Da cui deriva probabilmente anche il capitolo del Tresor.
67 Il testo del Tesoro è citato dall'edizione di L. Carrer indicata in bibliografia.
153
sicché suo tristo canto più non sona.
Essi riportano una “natura” descritta nel capitolo Del cuculo, e di sua
viltade, nel Tesoro italiano, di cui non è traccia né in Bartolomeo né nel
Tresor (II, p. 202):68
E sappiate che ‘l cuculo non canta di state, poi che le cicale cominciano loro canto, che
lo odiano molto, che quando le cicale l’odono cantare, incontanente vanno ov’egli è, ed
entrangli sotto l’ali, e non ha podere di levarlise da dosso, e tanto gli fanno noia,
mordendogli le sue carni, che non sta in luogo fermo, anzi va volando di uno arbore in
altro, e non becca mai, e sì si lascia morire. In questa maniera ha la cicala potere
d’uccidere il cuculo.
*
* *
68 Nell'Acerba sono facilmente riscontrabili anche altre tracce della lettura del Tesoro. I
versi di Cecco sulla scimmia: “Forte s'allegra, nella Luna nuova, / la simia, e, quando è
mezza, s'atrista / che par che sopra lei pensier piova” [III,XLVI,1-3] riecheggiano per la
prima parte quasi alla lettera il Tesoro: “...e molto s'allegra della luna nuova, e della tonda
si conturba maravigliosamente” (p. 262), mentre nella seconda ricordano più da vicino
Bartolomeo: “nova luna exultant, media et cava tristantur” [XVIII,94]. Cfr. anche il
capitolo sullo struzzo.
69 Fisiologo, p. 218 (e cfr. le note). La traduzione è nostra.
154
La presente rassegna delle fonti del bestiario cecchiano, per quanto
incompleta,70 permette non solo di individuare con sicurezza alcune delle
letture che hanno ispirato l’Acerba, ma anche, e soprattutto, di correggere
alcune interpretazioni correnti del poema, o almeno di una sua parte: poco
interessato alle questioni scientifiche come alle tradizioni popolari, Cecco
d’Ascoli utilizzò le nozioni di zoologia che gli offrivano le enciclopedie più
consultate del tempo, come un repertorio di emblemi o di simboli. E se il
commento di Crespi al bestiario dell’Acerba appare ormai del tutto
inservibile, saranno anche da rivedere le interpretazioni che prestano a
Cecco una cultura e delle intenzioni che egli non aveva. A tale scopo,
occorre considerare anche la “cornice” entro cui il “libro delle bestie” si
colloca: esso è infatti introdotto da un capitolo sulla donna e sulla natura
dell’amore. L’accostamento, tutt’altro che insolito nelle letterature
medievali, è stato da taluni interpretato come un’esplicita assimilazione
dell’amore ai “moti e alle funzioni animali”. Scrive Castelli: “Terminato il
libro secondo, ch’è un trattato delle virtù, comincia il libro terzo, ch’è degli
animali, col capitolo sull’amore, e in tal modo riconduce la questione ne’
suoi veri confini, in quelli cioè della storia naturale, che comprende pure
l’astrologia e la fisiologia”.71 Certo, è vero che tutta la prima parte del
capitolo consiste in una disquisizione sugli influssi astrali e sulle
determinazioni fisiche dell’amore,72 e che Cecco avverte di non voler
“trattar d’amore divino”; ma l’avvertenza non deve intendersi valida oltre il
luogo cui si riferisce, poiché il seguito del testo, in cui s’innesta il bestiario,
ha una natura completamente diversa. Vi si parla infatti di una passione
spirituale del poeta che non ha più nulla a che vedere con il fuoco dei sensi
(III,I,109-12 e 115-20):
70 Le “nature” della “lumerpa”, dell'uranoscopo, dello stellino e poche altre non sono
presenti né in Bartolomeo né nel Tesoro: si potrebbe risalire ad Alberto Magno (per la
“lumerpa”), Plinio (per l'uranoscopo) ecc., ma è più probabile che anche in questi casi
Cecco si sia servito di qualche compilazione zoologica del suo tempo.
71 Castelli 1892, p. 106.
72 Dalla quale si sviluppa la polemica con Dante sull'immutabilità dell'amore nato negli
amanti “per consimil stella” [III,I,61-72].
155
donna mirando nel beato loco
che pace con dolcezza par che spire.
Questa donna che dà beatitudine, nemica delle genti oscure che la “vista
carnal<e> vanno pur cherendo”, cioè di coloro che non sanno elevarsi dalle
cose materiali alle celesti, è divenuta senza dubbio una Donna simbolica,
proiettata nel “beato loco” di una dimora superiore. Nel capitolo seguente,
con cui esordisce il “bestiario” e in cui essa viene paragonata alla fenice e ad
altri uccelli, Cecco è ancor più esplicito: la definisce l’”alma bella”
“tra<scesa> al mondo per salute umana” (v. 8), la “fontana” di grazia (v. 11)
per coloro che ne sono degni, colei che “morse […] col disio soverchio”
(corrispondente all’excessus mentis dei mistici), la “luce” del poeta (vv. 14-
15), cioè “quella parte dell’anima che è luce della Sapienza che vuole
ricongiungersi a lei”.73 Per quanto nel mondo appaia rivestita di figura
umana, essa “fu nanti ‘l tempo e nanti ‘l cel” (v. 22), e - come egli spiega -
“fa beata nostra umanitade / seguendo ‘l ben che per lei s’acquista” (vv. 23-
24). I mirabili versi con cui si era concluso il primo capitolo sono
particolarmente eloquenti (III,I,133-40):
156
Cecco si riferisce dunque in modo esplicito al linguaggio simbolico
comune anche alla poesia amorosa di Dante. Alcuni esegeti, come
Lauchert,74 hanno voluto interpretare la misteriosa Donna come un emblema
della Virtù. Ma l’angelica creatura descritta nell’Acerba non sembra davvero
riducibile a una personificazione morale. È evidente che qui è rappresentata
la Sapienza celeste, madonna Intelligenza, l’icona femminile dei “Fedeli
d’Amore” cristiani e islamici.75 Il miglior commento a questi versi di Cecco
potrebbero essere le parole con cui Henry Corbin riassume la dottrina
dell’amore divino in Ibn ‘Arabî: “Di una vera potenza spirituale è investita
l’Immagine umana la cui bellezza manifesta sotto forma sensibile Dio [dice
Cecco: “Quest’è la donna qual mai non coverse / spera dell’umana
qualitade, / avegna che nel mondo qui co<n>verse”], Bellezza che è
l’attributo divino per eccellenza, e poiché il suo potere è un potere spirituale
[Cecco: “La guida delli celi la conduce”, “fa beato l’omo”], è una potenza
creatrice. Essa crea l’amore nell’uomo [Cecco: “Da questa vien la dolce
luce / che luma l’alma de desio d’amore”], desta in lui la nostalgia che lo
conduce oltre la propria apparenza sensibile [Cecco: “Tolle la viltà di questa
vita / al tristo amor che commete offes<a> / amando più che <Deo> cosa
nutrita”, cioè la creatura più del Creatore], e che sollecitando la sua
Immaginazione attiva [Cecco: “Allora cresce lo ‘ntelletto agente / mirando
di bellezza la <salute>”] a produrre per essa quello che i nostri trovatori
chiamavano “amore celeste” (l’amore spirituale di Ibn ‘Arabi), lo porta alla
conoscenza di sé, cioè alla conoscenza del suo signore divino [“…fa volar la
mente nostra accesa / nel gran disio dello ben divino”]”.76 E proprio alla
poesia sufica fanno pensare alcune espressioni dell’Acerba di cui è difficile
trovare l’equivalente perfino negli stilnovisti, come la formula: “Dunqua, io
so’ ella”, che rinvia alle dottrine dell’unio mystica in Al Hallâj: “Io sono
colui che ama, e colui che io amo è me. Siamo due spiriti che abbiam preso
albergo in un sol corpo”,77 o in Rûmî: “Due figure, due forme ma un'anima
sola, tu e io”, “Tu e io senza più tu né io ci uniremo nell’estasi”.78 Luigi
157
Valli ricorda a tale proposito la figura “moglier e marito” di Francesco da
Barberino, immagine alchimistica della coniunctio sive coitus, e un passo di
Averroè: “la massima beatitudine dell’animo umano è nella sua suprema
ascensione. E dicendo ascensione intendo il suo perfezionarsi e nobilitarsi in
modo che si congiunga con la intelligenza attiva e siffattamente uniscasi a
quella che diventi uno con essa”.79
Il bestiario dell'Acerba - e in modo particolare la sezione iniziale dedicata
gli uccelli, simboli universali delle creature angeliche - si dispiega come un
manto intessuto degli emblemi appartenenti alla Donna celeste. Attraverso
le figure multiformi degli esseri alati traspare nitidamente quest’unica
figura, i cui attributi misteriosamente si riflettono nelle “nature” della fenice
o dell’aquila o della cicogna. La simbolica provenienza orientale della
Sophia (cui alludono per esempio anche le vesti lavorate “a la nobele guisa
di Suria” o il lapidario orientale dell’Intelligenza) è indicata sia nella
descrizione della fenice (“morendo nasce […] / in quelle parti calde
d’oriente”),80 sia in quella della “lumerpa” (“Inelle parti d’Asia maggiore /
lumerpa nasce…”, III,IV,1-2). Così il canto innalzato dai volatili diventa un
simbolo del linguaggio immateriale e angelico dell’Ispiratrice, quello che il
Corano (XXVII,15) chiama appunto “linguaggio degli uccelli” (III,X,1-2):
II,XII,1:
III,XXV,1-2:
158
freme” (III,XX,2-3), e così via. La contrapposizione fra uccello e serpente è
uno dei fondamentali geroglifici sacri, riscontrabile nelle tradizioni
occidentali come in quelle orientali; Guénon scrive che essa rappresenta “la
lotta degli angeli contro i demòni, delle potenze celesti contro le potenze
infernali, cioè l'opposizione tra gli stati superiori e gli stati inferiori”: nella
tradizione indù la incarna il combattimento fra il Nâga (serpente) e il
Garuda: “il Garuda è l'aquila, e, altrove, è sostituito da altri uccelli come
81
l'ibis, la cicogna, l'airone, tutti nemici e distruttori dei rettili”. Si può forse
scorgere in questi passi un esempio di quegli “aspetti dualistici e
oscuramente demonici” osservati da qualche interprete in numerosi passi
dell’opera di Cecco.82
Se i versi dedicati all’Ispiratrice divina, misterioso centro dell’Acerba,
mostrano la precisa traccia di conoscenze esoteriche, la maggior parte del
terzo libro si configura invece come un tradizionale bestiario (e lapidario)
moralizzato.83 Nelle sezioni dedicate agli animali acquatici e terrestri non si
parla più della celeste Sapienza, ma della semplice Virtù, che incomincia a
sostituirsi a “costei” fin dagli ultimi capitoli sugli uccelli: “L’uom ch’è
prode figliuol di vertu<t>e / più fa col core che non fa con la bocca…”
84
(III,XIX,13-4). La provenienza enciclopedica di quasi tutto il “materiale”
zoologico che vi è contenuto testimonia comunque del suo carattere ancora
simbolico, o più propriamente allegorico. Nell’enciclopedia il mondo “non è
che un’immensa esemplificazione” delle verità spirituali o morali, “e la
scienza universale – o enciclopedia – che lo indaga e rappresenta, viene ad
essere una grande moralisatio scientifica insieme e religiosa. Anzi in questa
enciclopedia moralizzata la scienza non è più fine a se stessa, ma deve
servire ed è subordinata di continuo ad un’altra scienza superiore, la
teologia”.85 Lo dimostra anche la presenza, in gran parte dei manoscritti più
antichi del De rerum proprietatibus, di glosse marginali che illustrano il
senso allegorico delle notizie riportate e che risalgono con ogni probabilità
allo stesso autore.86 Nel proemio, del resto, egli aveva scritto (e le parole
non hanno, come vorrebbe il Cian, “un significato puramente generico”):
“Quest'opera riuscirà utile a me e forse ad altri che non conoscono le nature
e proprietà delle cose disseminate nei libri dei santi e dei filosofi, al fine di
comprendere gli enigmi delle Scritture (ad intelligenda enigmata
81
Guénon 1978, p. 57.
82 Cfr. Mazzantini 1929, p. 147.
83 Sul lapidario dell'Acerba, si vedano Battelli 1927 e Costantini e Camuffo 1988.
84
Si veda però la recente interpretazione di Claudio Ciociola, il quale ritiene che i deittici
presenti nel testo (“questa”, “questa donna” ecc.) si riferiscano alle illustrazioni delle
diverse virtù che Cecco aveva previsto di inserire e che non furono poi realizzate nei
testimoni superstiti (cfr. Ciociola 1992, pp. 22-24).
85 Cian 1902, p. 56.
86 Cfr. Meyer 1988 e Van den Abeele 1999, p. 126.
159
scripturarum), che sono state trasmesse e velate dallo Spirito Santo sotto i
simboli e le figure delle realtà naturali e artificiali (sub simbolis et figuris
proprietatum rerum naturalium et artificialium), come mostra il beato
87
Dionigi nella Gerarchia angelica”.
Dinanzi ad un universo divenuto nella Scrittura e nel sapere del
medioevo semplice riflesso delle verità eterne, si trattava quindi di costituire
un organismo coerente di nozioni che fosse in grado di interpretarlo secondo
i suoi sensi superiori. Rimane sempre sottinteso, anche se Bartolomeo o altri
non lo dicono espressamente, che la “natura” dell’unicorno - per citare solo
un esempio - serve a spiegare lo “et exaltabitur sicut unicornis cornu meum”
del Salmo. D’altronde, molti dei miti e delle leggende che si tramandavano
intorno agli animali come verità scientifiche non erano che sacri emblemi
dell’antichità: ne aveva coscienza Alberto Magno, il quale distingue
chiaramente in vari passi del De animalibus le nozioni comprovate
dall’indagine naturalistica dai geroglifici appartenenti alle dottrine
88
teologiche, all’alchimia ecc. Al termine del capitolo sul basilisco egli
scrive (p. 667): “Quanto insegna Ermete, cioè che il basilisco genera in
vitro, non lo intende del basilisco reale, ma di un elisir alchemico con il
quale si trasmutano i metalli”.89 Altrove, dopo aver narrato con ricchezza di
particolari la leggenda della fenice, egli mostra di non essere all'oscuro della
sua origine esoterica concludendo (p. 638): “Come dice Platone, noi non
dobbiamo criticare le cose che vengono tramandate nei libri dei sacri
templi”.90
Andranno quindi radicalmente corrette, e non solo per quanto riguarda il
bestiario, alcune recenti interpretazioni del poema, come quella di Achille
Tartaro, il quale scrive che “documento della crisi, L’Acerba ci scopre in
particolare l’avvenuta dissoluzione dell’aspirazione di totalità che aveva
animato sul piano concettuale come su quello delle strutture letterarie il
messaggio di Dante”, e che la visione teologica unitaria del fiorentino “cede
alla settorialità scientifica di Cecco”.91 In realtà, la configurazione
enciclopedica dell’Acerba non comporta, almeno in linea di principio,
alcuna “settorialità scientifica” intesa in senso moderno. Il Tartaro è qui
forse ancora condizionato dall’immagine ottocentesca, quale risulta
87
Cfr. Cian 1902, p. 56. Questi princìpi erano stati formulati da sant'Agostino nel De
doctrina christiana, cfr. qui cap. II, “Teologia del bestiario”, pp. 24-25.
88
Cfr. in proposito, qui, II, “Teologia del bestiario”, pp. 37-38.
89
“…et quod Hermes docet basiliscum generare in vitro, non intelligit de vero basilisco,
sed de quodam elixir alchimico quo metalla convertuntur”.
90
“…et sicut dicit Plato, non sunt a nobis calumnianda quae libris sacrorum delubrorum
conscripta referuntur”.
91 Tartaro 1971, p. 484.
160
soprattutto dal libro di Castelli e persiste nel commento di Crespi, di un
Cecco d’Ascoli anticipatore della scienza sperimentale e ricco di intuizioni
precorritrici. Il superamento di tale immagine,92 cui necessariamente
conduce lo studio delle fonti culturali di Cecco, dovrebbe portare
innanzitutto ad una correzione del suo rapporto con Dante: rapporto che non
sarà più da porre nei termini di una contrapposizione tra cultura simbolico-
teologica (nell’Alighieri) e cultura materialistica, scientifica, settoriale
(nell'Ascolano). Le ragioni del contrasto, espresso apertamente
nell’Acerba,93 andranno cercate a un altro livello. Nel suo complesso, il
poema appartiene ancora alla letteratura degli specula e delle compilazioni
moralizzate, e non si discosta molto, nonostante tutto, dai canoni
compositivi del Tresor di Brunetto Latini: si potrebbe parlare, in
contrapposizione alla “scienza sacra” su cui è rigorosamente fondato il
simbolismo della Commedia, di una “scienza moralizzata”, i cui originari
fondamenti simbolici sono stati obliati (come nelle sezioni astrologiche,
magiche ecc.) oppure ridotti a significazioni superficiali, generalmente di
carattere morale (come nella maggior parte del bestiario).
Lo stesso episodio della Donna-Intelligenza, sul piano delle strutture
propriamente letterarie e stilistiche, conferma tale atteggiamento in qualche
modo “reazionario”. Esso si configura infatti come una tipica canzone
cortese prestilnovistica - alla Rigaut de Berbezilh o alla Inghilfredi, per
intenderci - in cui il ragionamento d'amore si esprime attraverso una
concatenazione di metafore zoologiche (o anche “lapidarie”, “erbarie” ecc.):
il procedimento stilistico è quello tradotto in “genere” dal Bestiaire
d’Amours di Richard de Fournival, ossia l’adattamento della materia dei
repertori moralizzati alla casistica amorosa. L’archetipo culturale è evidente
nell’Acerba come nell’esempio estremo di questa poesia emblematica, il
Mare amoroso: e lo stesso Tartaro non ha mancato di osservare come “il
fondamentale criterio giustappositivo” del “bestiario” cecchiano sia
“mutuato dalle compilazioni enciclopediche e lasciato penetrare nella
tessitura sintattica del dettato”.94 Del resto, se il termine di Mare evoca, tra
gli altri,95 il significato di compendio, miscellanea e simili, il titolo
dell’Acerba, secondo alcune recenti interpretazioni,96 deriverebbe da
acervus (mucchio, coacervo) nell’identica accezione. Gli stilnovisti, nel
respingere queste forme letterarie, coerentemente rifiutarono anche la
161
cultura che ne stava alla base (o viceversa): in Guinizzelli, Cavalcanti o
Dante non vi è quasi più alcun esempio delle metafore animali e minerali
tanto frequenti in un Chiaro Davanzati. Non a torto, quindi, si è parlato per
Cecco di “antistilnovismo”,97 ma, anziché riferire il termine alla sola
invettiva contro le donne, si dovrebbe estenderlo al complessivo
atteggiamento culturale del poeta; al pari dell’autore dell’Intelligenza, che
illustrò le qualità della sua divina Ispiratrice per mezzo del “lapidario di
Evax”, l’Ascolano ricorse alle meccaniche accumulazioni del Mare amoroso
e della lirica siciliana. È vero che nell’Acerba non si tratta più di una donna
o di una passione terrestre - né vi mancano echi del linguaggio stilnovistico
- ma è proprio la letteratura enciclopedica ad offrire esempi di questa
reinterpretazione spirituale del bestiario: oltre al De avibus dello pseudo-
98
Ugo di San Vittore, che descrive le tappe della vita mistica, si può pensare
al Poème moralisé sur les propriétés des choses parzialmente edito da
Raynaud,99 in cui gli animali e le altre creature del mondo divengono figure
della Vergine Maria.
Dopo l’Acerba e l’Intelligenza, la cultura enciclopedica che le ispirava
sarebbe quasi interamente scomparsa dalla nostra letteratura maggiore (a
meno di non comparirvi in forma caricaturale come nel Morgante del Pulci
o nel curioso Bestiario di Leonardo),100 per rifugiarsi nelle raccolte di
emblemi e di geroglifici dell’età rinascimentale. Ma già nei versi
dell’Ascolano si respira un’atmosfera “anacronistica” e quasi pietrificata che
a volte possiede un fascino misterioso. Si riconoscono qua e là mirabili
figure e frammenti perfetti, come i pochi capitoli sull’Intelligenza attiva: ma
queste gemme poetiche sono disperse nei morti cataloghi di un sapere ormai
dimenticato. “Il simbolo resta, ma, quando lo ‘spirito’ si è ritirato, è ormai
soltanto una forma vuota”, ha scritto Guénon a proposito dei residui
occidentali della consocenza sacra: è quanto si può dire dell’Acerba, che
vale forse di più per ciò che nasconde che per ciò che rivela.
162
3.
Francesco Zambon
Il mito della fenice nella poesia romanza del medioevo
101
Weil 1974, p. 22.
102
Hubaux e Leroy 1939.
103
Van den Broek 1972.
163
direttamente - è quello di essere un uccello solare: animale sacrum Soli lo
definiscono Manilio104 e Tacito,105 mentre Orapollo afferma
categoricamente che “la fenice è simbolo del sole”.106 Tale carattere risulta
già dal suo aspetto fisico, quale si trova descritto nella maggior parte delle
fonti: secondo Achille Tazio, che riassume nel romanzo Leucippe e
Clitofonte (II secolo d.C.) i dati tradizionali, le sue ali sono un misto di oro e
di porpora, e il suo capo è circondato da una raggiera di penne - quasi una
corona - che simboleggia appunto il sole.107 Inoltre, in molte versioni il suo
incendio rinnovatore ha luogo nella città di Eliopoli, centro del culto solare
egizio. Come ha mostrato Marcel Detienne,108 questi dati trovano conferma
anche nella sua stretta affinità e quasi “consustanzialità” con gli aromi di
natura ignea - in particolare il cinnamomo, la mirra, l'incenso - di cui essa si
serve per costruirsi il rogo. La natura solare della fenice diventa del tutto
esplicita nelle descrizioni che la mettono in rapporto con il ciclo giornaliero
o annuale del sole. In un apocrifo veterotestamentario del II secolo dopo
Cristo, la Apocalisse greca dello pseudo-Baruc, il profeta assiste al levarsi
del sole preceduto sull'orizzonte dalla fenice, che accompagna l'astro - cinto
di una corona d'oro - lungo tutto il suo percorso diurno formando uno
schermo ai suoi raggi perché non brucino gli esseri viventi sulla terra;
l'uccello-satellite riappare, stremato dal calore che ha dovuto filtrare per
tutto il giorno, all'ora del crepuscolo, allorché gli angeli tolgono al sole la
sua corona per rinnovarla. Questo testo, insieme ad altre fonti,109 ha indotto
qualche studioso a pensare che la fenice possa essere stata in principio la
personificazione mitica del pianeta Venere, Phôsphóros o Lucifer il mattino
e Hésperos o Vesper la sera; come hanno osservato Hubaux e Leroy, “il
mito della fenice, che attribuisce tanta importanza al concetto di identità,
interpreterebbe poeticamente una scoperta astronomica che sembra essere
stata fatta in tempi antichissimi ed era degna di ispirare meditazioni ai
mitografi come agli astrologi: quella che la stella del mattino è lo stesso
astro che la stella della sera”.110 Assai più frequente è tuttavia l'associazione
del mitico uccello a un lungo ciclo di anni, sulla cui durata peraltro le fonti
divergono: per alcuni è di 500 o 540 anni, per altri di 1000, per altri ancora
104
Cfr. Plinio, Nat. hist., X,4.
105
Tacito, Annales., VI,28.
106
Orapollo, Hierogl.., I,34. Sul carattere solare della fenice, si veda Van den Broek, pp.
233 sgg.
107
Leucippe e Clitofonte, III,25.
108
Cfr. Detienne 1975, p. 33.
109
Una descrizione analoga si trova per esempio nel cosiddetto Fisiologo di Vienna; se ne
veda il testo in Hubaux e Leroy 1939, pp. XXXIV-XXXVI. Sulla fenice come scorta del
sole, cfr. Van den Broek 1972, pp. 261-304.
110
Hubaux e Leroy 1939, p. 4.
164
né più né meno di 1461. Quest'ultima cifra, fornita da Tacito,111 è quella che
definisce la durata del cosiddetto periodo sothiaco, cioè il numero di anni
dopo il quale - il 15 giugno, giorno della piena del Nilo e inizio dell'anno
secondo il calendario civile egiziano - il sole sorge insieme alla stella più
luminosa del cielo, Sothis o Sirio: poiché la rivoluzione di Sirio dura 365
anni e un quarto, ciò avviene ogni 365 anni e un quarto x 4, cioè ogni 1461
anni. Più difficile è dare un'interpretazione delle altre cifre, che comunque
stanno in vario modo a indicare il Grande Anno, cioè il ciclo al termine del
quale - secondo la cosmologia classica - il sole, la luna, i pianeti e le stelle
fisse completano la loro corsa e ritornano alla posizione di partenza:
Manilio, citato da Plinio, fa del resto coincidere espressamente la vita della
fenice con la durata del Grande Anno.112 In ogni caso, essa è il simbolo
dell'apokatástasis, del periodico rinnovamento dell'universo che segue la sua
distruzione alla fine di ogni ciclo e dà inizio a una nuova età dell'oro; ne era
ancora consapevole Orapollo: “Quando [gli Egiziani] vogliono
simboleggiare il grande rinnovamento ciclico degli astri raffigurano la
fenice; alla sua nascita, infatti, ha luogo un rinnovamento delle cose”.113
Tale rinnovamento cosmico, dopo un Grande Anno o una sua porzione, è
raffigurato dalla caratteristica fondamentale che gli scrittori antichi
attribuiscono concordemente alla fenice: quella di morire e di rinascere
periodicamente. Esistono però versioni discordanti del mito, riconducibili a
due modelli fondamentali.114 Il primo, meno diffuso, è inaugurato dalla più
antica descrizione che ci sia pervenuta del fantastico uccello, quella fornita
da Erodoto - il quale peraltro non nasconde i propri dubbi circa la veridicità
di quanto riferisce - nel II libro delle Storie: “C'è - scrive - un altro uccello
sacro in Egitto, che si chiama fenice. Io non l'ho visto se non dipinto: infatti
esso appare in Egitto molto raramente; a quanto dicono gli Eliopolitani, ogni
cinquecento anni, quando gli muore il padre [...]. Dicono cioè che, partita
dall'Arabia, [la fenice] trasporta il corpo del proprio padre nel tempio del
Sole, avvolto nella mirra, e qui lo seppellisce. E lo trasporterebbe in questo
modo: prima fa con la mirra un grosso uovo e vi introduce il padre, poi con
altra mirra tappa il buco fatto nell'uovo, in modo che, introdotto il cadavere,
il peso sia lo stesso, e infine, così spalmatolo di mirra al di fuori, trasporta
l'uovo con dentro il corpo in Egitto, nel tempio del Sole”.115 Erodoto non
accenna alla nascita della nuova fenice che, secondo questa tradizione,
avverrebbe a partire da un verme formatosi durante la decomposizione dei
111
Tacito, Annales., VI,28,3.
112
Plinio, Nat. Hist.., X,5.
113
Orapollo, Hierogl., II,57.
114
Cfr. Van de Broeck 1972, pp. 146-161.
115
Erodoto, Storie, II,73.
165
resti paterni. Secondo l'altra tradizione - quella che ha goduto di maggior
successo e si è finalmente imposta come la versione standard del mito - la
fenice, giunta a una estrema vecchiaia, si adagia in un nido pieno di aromi
preziosi e vi si incendia, per effetto del calore solare o per virtù degli aromi
stessi; dalle ceneri nasce infine la nuova fenice. Entrambe le tradizioni - che
si trovano non di rado contaminate fra loro - presentano comunque
oscillazioni su numerosi punti di dettaglio: in particolare sulla provenienza
della fenice (India, Arabia, Etiopia, Libano o un più generico Oriente), sulle
modalità e sul luogo della sua morte (collocata ora nella stessa India, ora
nella mitica Pancaia, altra terra solare, ma per lo più in Egitto) e sulle fasi
della rinascita (che secondo qualche fonte attraversa alcuni stadi intermedi:
verme, uovo, uccellino). Una mirabile sintesi del mito classico si legge nel
carme De ave phoenice attribuito a Lattanzio (III secolo), dove tutte le sue
componenti tradizionali - comprese le due versioni della morte e della
rinascita - sono fuse in una narrazione visionaria e ricca di risonanze
simboliche. Lattanzio, o chi per lui, riferisce che la fenice nasce in un luogo
beato situato a Oriente, il boschetto del Sole, al centro del quale scaturisce
una fonte che lo inonda dodici volte all'anno: unico al mondo, l'uccello
segue costantemente Febo nel suo corso, segnando le ore diurne e notturne.
Trascorsi mille anni, la fenice sente il suo corpo appesantito dalla vecchiaia
e parte per il nostro mondo allo scopo di rinnovarsi; giunge in Siria (che da
essa avrebbe ricevuto il nome di Fenicia), sceglie un'alta palma (che le
dovrebbe il suo nome greco phoînix) e vi costruisce in cima un nido o un
sepolcro: “seu nidum sive sepulchrum: / nam perit ut vivat, se tamen ipsa
creat” [“un nido o un sepolcro: infatti muore per vivere, creando però se
stessa”]. Dopo averlo riempito con i più preziosi aromi orientali, si immerge
per dodici volte in un'onda sacra e si installa nel nido stesso, attendendo il
sorgere del sole. Allo spuntare del primo raggio, rivolge all'astro un canto
meraviglioso; poi, quando il disco solare si è interamente svelato, lo saluta
tre volte battendo le ali, spande sul proprio corpo i profumi che aveva
raccolto in Oriente e si infiamma, colpita da un raggio etereo che si
congiunge alla fiamma scaturita dal nido: rapita da una morte vitale -
genitali morte - si riduce così in cenere. Ma la natura inumidisce questa
cenere, la condensa e la feconda: ne esce così una larva lattiginosa senza
membra, che a poco a poco cresce assumendo la forma di un uovo: da
questo, terminato il periodo di incubazione, esce infine la nuova fenice.
Questa cresce nutrendosi solo del nettare caduto dal cielo e, una volta
divenuta adolescente, ritorna al proprio paese scortata dal coro di tutti gli
esseri alati; prima, però, avvolge i resti paterni in un globo di mirra, di
balsamo e di incenso e li porta a Eliopoli, deponendoli sopra l'altare del
santuario. Qui tutti accorrono a vedere la prodigiosa creatura: le sue piume
sono vermiglie, con riflessi dorati e iridescenti; il suo becco è avorio e
diamante, i suoi occhi brillano come due ametiste con una fiamma scarlatta
166
al centro, il suo capo è circondato da un nimbo raggiante. Il poema si
conclude con alcuni versi che esprimono efficacemente il paradosso su cui si
incentra tutto il mito feniceo:116
[Destino e morte fortunati quelli di questo uccello, cui Dio ha concesso di nascere da
se stesso! Maschio o femmina o né l'uno né l'altro, felice creatura, che non conosce i
vincoli di Venere! La sua Venere è la morte; la morte, il suo solo amore: per poter
nascere, desidera morire. È il proprio figlio, padre, erede; è insieme la nutrice e la
nutrita. È lei e non lei, la stessa e non la stessa, conquistando con la morte una vita
eterna].
116
De ave phoenice, vv. 161-170.
167
preghiera, e facciamo salire un profumo spirituale mediante buoni
comportamenti”.117 L'anonimo redattore ha dunque ripreso la versione più
corrente del mito (incendio della fenice e sua resurrezione dalle ceneri),
contaminandola però - come numerosi altri scrittori - con quella di tipo
erodoteo (Eliopoli, il verme da cui si sviluppa la nuova fenice) e
introducendo un elemento originale: la scansione in tre giorni della rinascita
(verme, uccellino, uccello adulto), che allude ai tre giorni trascorsi dalla
morte alla resurrezione di Gesù. Nell'allegoria, il prodigio è additato come
una prova naturalistica della resurrezione stessa e non manca di essere
sfruttato anche il riferimento agli aromi, interpretati come un simbolo degli
insegnamenti spirituali di Cristo.
La fortuna di questo tema fu enorme nella letteratura come nell'arte
cristiana sino alla fine del medioevo e anche oltre: la fenice diventò una
delle figure cristiche per eccellenza. Ma non fu questa la prima utilizzazione
del mito classico da parte degli autori cristiani. Il più antico testo cristiano
che vi faccia riferimento è la Lettera ai Corinzi di Clemente Romano (95-98
d.C.), dove il sacro uccello è citato come argomento a favore della
resurrezione della carne. Scrive Clemente: “Carissimi, notiamo come il
Signore ci mostri di continuo la futura resurrezione di cui ci diede come
primizia il Signore Gesù Cristo risuscitandolo dai morti. Osserviamo,
carissimi, la resurrezione che avviene di volta in volta. Il giorno e la notte ci
mostrano la resurrezione; cessa la notte e sorge il giorno; se ne va il giorno e
sopraggiunge la notte. Prendiamo i frutti. In che modo e in qual parte
germoglia il seme? Uscì il seminatore e gettò nella terra i semi; secchi e
nudi caduti nella terra si dissolvono. Poi la grandezza della provvidenza del
Signore li fa rinascere, e da uno solo crescono molti e portano frutto”.118
Segue la narrazione del mito feniceo, presentato nella versione “erodotea” e
perciò senza alcun riferimento al rogo e alla rinascita dalle ceneri. E
Clemente commenta: “Riteniamo, dunque, cosa grande e straordinaria che il
creatore dell'universo opererà la risurrezione di coloro che lo hanno servito
santamente nella sicurezza di una fede sincera. Non ci comprova anche in un
uccello la grandezza della sua promessa?”.119 La stessa idea è sviluppata da
Cirillo di Gerusalemme nelle Catechesi e da Tertulliano nel De
resurrectione mortuorum. Anche Tertulliano, per sostenere la tesi della
resurrezione futura, parte dall'osservazione della natura che continuamente
distrugge per rinnovare, con l'alternanza del giorno e della notte, con quella
delle stagioni, con il ciclo di morte e di rinascita nella vegetazione:
“Meraviglioso è il modo: conservatrice da rapinatrice, afferra per restituire,
distrugge per custodire, uccide per vivificare, per reintegrare danneggia, per
117
Fisiologo, cap. 7.
118
Clemente, 2 Cor 14,1-5, trad. it. in Padri apostolici, p.
119
Ibid., 16,1, trad. it. in Padri apostolici, p.
168
ingrandire, prima sbriciola, se è vero che restituisce tutte le cose più ricche e
più belle di quando le ha distrutte, davvero, con una distruzione che è un
profitto, con un'offesa che è un'usura e con un danno che è un lucro. Mi basti
dirlo una volta sola: tutto quanto l'universo è ricorrente: tutto quello che tu
incontri, è stato, tutto quello che perderai, sarà: niente non sarà una seconda
volta: tutto quanto ritorna nel suo stato dopo che se ne è allontanato, tutto
quanto incomincia quando ha finito, tutto finisce perché possa nascere:
niente perisce se non per salvarsi”.120 Ma lo scrittore africano si rende conto
che l'esempio dei cicli naturali è insufficiente e - con mossa analoga a quella
di Clemente e di Cirillo - ne indica uno a suo giudizio più convincente e
paradossale, quello della fenice: “Se l'universo non ti raffigura a sufficienza
il fenomeno della resurrezione, se niente del genere ti sigilla ciò che è stato
creato da Dio, in quanto si sostiene che le singole cose dell'universo non
tanto muoiono quanto cessano e si pensa che esse non tanto siano rianimate
quanto riformate, accetta il seguente esempio, completo e sicuro, che vale
per questa speranza, se è vero che esso riguarda una cosa animata, soggetta
tanto alla vita quanto alla morte. Mi riferisco a quell'uccello che è tipico
dell'Oriente, famoso perché è unico, straordinario a causa della sua
discendenza, il quale, eseguendo di sua spontanea volontà il suo funerale, si
rinnova, con una morte che è la sua nascita morendo e succedendo a se
stesso, di nuovo fenice quando non è più oramai nessuno, di nuovo lui
stesso quando non è già più, il medesimo-altro. Che cosa c'è di più evidente
e di più testimoniato a vantaggio di questa causa, o in favore di quale altra
cosa esiste una prova siffatta? Lo dice anche Dio nella sua scrittura: "e
fiorirai come una fenice" [Sal 92,13], cioè rifiorirai dalla morte, dal tuo
funerale, in modo da credere che anche dal fuoco si può ricavare la sostanza
corporea. Che noi valiamo più di molti passeri, ce lo ha assicurato il
Signore: niente di straordinario, se noi valiamo di più anche delle fenici”.121
In questi passi la fenice diventa quindi figura, prima ancora che di Cristo,
dello stesso cristiano o dell'uomo in generale, destinato alla resurrezione e
alla vita eterna dopo la morte: figura quindi dell'uomo escatologico
reintegrato nella sua pienezza e perfezione originaria, nella condizione di
immortalità che gli apparteneva nel Paradiso terrestre e che è destinato a
riconquistare - “con una morte che è la sua nascita” - alla fine dei tempi.
Non diversa sembra essere la simbologia implicita nel De ave phoenice di
Lattanzio - dove all'uccello sono attribuite altre caratteristiche “edeniche”
come androginia e verginità - e in varie sue raffigurazioni paleocristiane
come quelle della Catacomba di Priscilla a Roma o della Basilica di
120
Tertulliano, De resurr. mort., 12,5-6.
121
Ibid., 13,1-4.
169
Aquileia.122 Del resto il parallelo tra la fenice e l'anima che vive dopo la
morte è uno dei dati più antichi del mito. Nella religione egiziana il benu -
originariamente connesso al dio solare Re o a Osiride, dunque ai temi della
creazione e rigenerazione del mondo - poteva essere anche una figura del
morto che rinasce nell'oltretomba; nel capitolo 17 del Libro dei morti sono
pronunciate queste parole a nome dell'anima del defunto: “A me appartiene
lo ieri, io conosco il domani. Fu fatta la lotta degli dei al mio comando. Io
conosco questo dio grande [Re o Osiride] che è in esso. Io sono questa
grande fenice che è in Eliopoli che custodisce ed enumera per Quel che
è”.123 E all'imbalsamazione del benu morto, di cui parlano numerosi testi
egiziani, potrebbe in qualche modo risalire la descrizione dell'uovo di mirra
in cui la fenice seppellisce il padre morto nella versione “eliopolitana” del
mito. Anche nel mondo classico la fenice è stata interpretata come un
simbolo dell'anima. Nel frammento 304 di Esiodo, citato da Plutarco nel
Tramonto degli oracoli, è detto che la fenice vive nove volte più del corvo,
cioè 972 “generazioni” (= anni):124 questa cifra (di cui i mille anni di vita
che numerose fonti attribuiscono alla fenice rappresentano forse un
arrotondamento) fu poi indicata come corrispondente alla durata delle
peregrinazioni che l'anima deve compiere dopo la morte prima di una nuova
incarnazione.125 Il mistero della fenice diventa così quello della
sopravvivenza dell'anima nella dottrina orfico-pitagorica della
metempsicosi.
A queste concezioni può essere in qualche modo avvicinata la simbologia
esoterica della fenice che figura in uno dei testi gnostici di Nag ‘Hammâdi,
la cosiddetta Origine del mondo (II, 5). Dopo aver richiamato la tripartizione
antropologica degli gnostici (“Fino al termine del mondo vi sono tre uomini
con le loro stirpi: il pneumatico dell'eone, lo psichico, e il terrestre”), il
redattore paragona le “tre fenici del paradiso” (quella “immortale”, quella
che “dura mille anni” e quella “che sarà consumata”) ai tre battesimi, quello
“pneumatico”, quello “di fuoco” e quello “di acqua”.126 Le tappe progressive
della conversione sono dunque segnate dalle diverse fasi che le fonti
assegnano al rinnovamento della fenice: immersione nell'acqua, incendio nel
fuoco, rinascita. Uccello unico, che compendia in sé i tre momenti del
tempo, la fenice ha naturalmente il suo habitat nel Paradiso, terra delle
origini e regno escatologico, qui identificato con l'Egitto. “Questi grandi
segni apparvero soltanto in Egitto. Nessun'altra regione è contrassegnata
122
Cfr. Van den Broeck 1972, pp. 381-382. In alcuni scritti è suggerito anche il rapporto
fra il rogo della fenice e quello del martire cristiano; cfr. Tardieu 1974, p. 247.
123
Testi egizi, p. 272. Cfr. in proposito Van de Broeck 1972, p. 21.
124
Plutarco, De def. orac.., 11; 415 C.
125
Cfr. Van den Broek, pp. 132-145.
126
Origine del mondo, 122,8-14, in Testi gnostici, p.
170
così da assomigliare al paradiso di Dio”.127 In definitiva la fenice - che
riunisce in sé tutti gli opposti: origine e fine, vita e morte, Oriente e
Occidente, maschio e femmina - diventa qui una figura dello gnostico, che
ha operato in sé la congiunzione degli estremi e raggiunto la condizione
perfetta di monachós: “Ma il verme generato dalla fine - dichiara l'Origine
del mondo - è anche un uomo; a suo riguardo sarà scritto: "Il giusto crescerà
come fenice"; ora la fenice prima appare viva, poi muore, e risorge
nuovamente, essendo essa un segno per colui che si manifesterà al termine
dell'eone”. Osserva in proposito Michel Tardieu: “L'apocatastasi, che è
rigenerazione escatologica, è anche ritorno all'origine. Dopo aver seppellito
suo padre, la giovane fenice ritorna verso la patria d'origine; così, lo
gnostico, al termine della sua apodêmía nel mondo, "ritorna al luogo da cui
è venuto". Uccello di ogni giorno, ma anche presente all'origine e alla fine,
la fenice è signora del tempo. È quindi abilitata a svolgere il ruolo di tipo o
di testimone dell'esistenza giusta e felice, sia nell'età dell'oro che nella
parusia [...] Uccello delle palme e del sole, divenuto, dopo aver percorso i
tre momenti del tempo, testimone dell'esistenza giusta, la fenice è il simbolo
perfetto dello gnostico, anche lui viaggiatore in paese straniero, ma che
sempre si ricorda della sua patria e vi fa ritorno”.128
*
* *
127
Ibid., 122,33-123,2, in Testi gnostici, p.
128
Tardieu 1974, p. 261.
129
Rigaut de Berbezilh, p. 123.
171
fenis, don non es mais us,
que s'art e pois resortz sus,
eu m'arsera, car sui tan malanans
e mos fals ditz messongiers e truans;
resorsera en sospirs et en plors
la on beutatz e iovenz e valors
es [...].
[E s'io potessi imitare / la fenice, che è sempre una sola / e si arde e poi risorge, / io
mi arderei, perché sono tanto sventurato / nelle mie false parole menzognere e
perfide; / risorgerei in sospiri e in pianti / là dove si trovano bellezza e giovinezza e
valore...].
172
Giovanni, esuma e trafuga il corpo dal cimitero portandolo in una torre,
costruita dallo stesso Giovanni all'interno di un magnifico verziere: qui,
dopo qualche tempo, Fénice rinviene e può trascorrere più di un anno di
perfetta felicità con il suo amante. I due saranno scoperti ma, dopo la
provvidenziale morte di Alis, potranno infine coronare il loro sogno
d'amore.
Lo stesso Chrétien, presentando Fénice, fornisce la spiegazione del suo
nome citando il mitico uccello:
[La fanciulla si chiamava Fénice, / e non senza ragione: / perché, come l'uccello
fenice / è più bello di tutti gli altri / ed è unico al mondo, / così Fénice, a mio parere,
/ non aveva uguale in bellezza. / Fu un miracolo e un prodigio: / mai Natura poté
operare / in modo da farne una simile].
130
Cligès, vv. 2707-2716, in Chrétien, Oeuvres, p.
131
Cfr. Polak 1972, pp. 304-316.
173
carbonchi,132 con cui, apparendo, essa illumina tutto il palazzo, è la stessa
con la quale nell'ultimo romanzo di Chrétien, il Conte del Graal, il sacro
Piatto appare a Perceval nel castello del Re Pescatore, facendo impallidire la
luce di tutte le candele; e “molt sainte chose” [“santissimo oggetto”],133
come il Graal, è detto da maestro Giovanni il suo corpo quando viene
rinchiuso nella bara come una reliquia “en leu de saintuaire” [“dentro a una
chiesa”].134 Anche le torture che le sono inflitte dai medici prima della
sepoltura non possono non far pensare alla passione di Cristo, cui rinvia del
resto lo stesso simbolo della fenice, o al martirio di una santa.
La centralità di questi temi “fenicei” nel romanzo è confermata anche dal
parallelismo con la vicenda di Cligès, la cui figura finisce per sovrapporsi a
quella di Fénice in una medesima storia simbolica di morte e di rinascita.
Già quando egli arriva al seguito di Alis nella reggia di Colonia la sua
bellezza - dice Chrétien - si fonde con quella della fanciulla come in un
unico raggio di sole nascente che illumina tutto il palazzo (si noti il
riferimento all'aurora, tradizionale nel mito antico):
Un po fu li jorz enublez,
mes tant estoient bel andui,
antre la pucele et celui,
c'uns rais de lor biauté issoit,
don li palés resplandissoit
tot autresi con li solauz
135
qui nest molt clers et molt vermauz.
[La giornata era un po' nuvolosa / ma entrambi erano tanto belli / - la fanciulla e
Cligès - / che dalla loro bellezza emanava un raggio / di cui splendeva il palazzo, /
simile al sole / che sorge luminoso e vermiglio].
Poi, mentre Fénice sta mettendo in opera il suo piano, Cligès dimostra
tutto il suo valore combattendo al torneo di Oxford, dove indossa
successivamente quattro armature - una nera, una verde, una vermiglia e una
bianca - e affronta con ciascuna di esse i quattro più famosi cavalieri di
Artù. Prima che l'eroe indossi l'ultima armatura e, vinti i primi tre avversari,
concluda in parità il duello con lo zio Galvano, Chrétien commenta: “Par
tans sera de quatre mue, / se il chascun jor par costume / oste et remet
novele plume” [“Presto Cligès avrà fatto quattro mude, / togliendosi e
riprendendo / ogni giorno un nuovo piumaggio”].136 Anche Cligès è dunque
132
Cligès, vv. 2732-2733, in Chrétien, Oeuvres, p.
133
Ibid., v. 6078, in Chrétien, Oeuvres, p.
134
Ibid., v. 6076, in Chrétien, Oeuvres, p.
135
Ibid, vv. 2736-2742, in Chrétien, Oeuvres, p.
136
Ibid., vv. 4892-4894, in Chrétien, Oeuvres, p.
174
una sorta di fenice che, dopo aver affrontato ogni prova mortale, rimette
“novele plume”; l'equivalenza delle due immagini è confermata dal
paragone di Fénice con un astore in muda, implicito nel pretesto che egli
inventa per potersi recare senza suscitare sospetti alla torre dove si nasconde
la fanciulla: “un ostor i a mis en mue, / si dit que il le vet veoir” [“Vi ha
lasciato un astore in muda / e dice che va a vederlo”].137 .La fusione ideale
dei due protagonisti - affermata dallo stesso Cligès nel lamento pronunciato
davanti a Fénice creduta morta: “une chose estiens andui” [“eravamo una
cosa sola”]138 - è del resto sottolineata anche da Chrétien quando descrive la
loro felicità amorosa: “Einsi est lor voloirs comuns / con s'il dui ne fussent
que uns” [“Così il loro desiderio è comune / come se loro due fossero uno
solo”].139 Non si può non sottoscrivere, a questo riguardo, il commento di
Charles Méla: “"Novele plume": l'immagine così formulata a proposito di
Cligés permette di intendere metaforicamente un poco oltre "la plume" di
cui è fatto il letto della falsa morta, mentre il pretesto dell'astore in muda
abbraccia, nell'accostamento di tutti i termini, la realtà segreta della
trasmutazione in corso. Cligès ne ha portato i colori - volta a volta nero,
verde, vermiglio e bianco - secondo cui si dispone la materia dell'Opera. Il
corpo di Fénice, fra le mani di Thessala, dei medici di Salerno e
dell'architetto Giovanni, ne ha subìto la passione e ne ha portato il processo
dalle ombre sotterranee fino alla sua risalita alla luce del giorno per
l'apertura della torre su un verziere paradisiaco”. Le vicende intrecciate dei
due protagonisti - egli conclude - traducono “l'unità di una medesima
operazione, dalla quale rinascerà un uomo nuovo, per grazia di un amore che
ha saputo vincere le proprie tenebre”.140
Il paragone fra la donna e la fenice, praticamente assente nella poesia
trobadorica,141 si ritrova in un manoscritto del galante Bestiaire d'amours di
Richard de Fournival, dove il mitologema messo a profitto è, come in
Chrétien, l'unicità dell'esemplare. Di qui passa nella versione toscana del
trattato nota con il titolo di Diretano Bando: “Così siete sola al mondo -
dichiara il corteggiatore all'amata - come uno uccello c'ha nome fenice, che
unqua non se ne truova se non è una. E quando è vecchia, allora sì s'arde.
Veramente anzi che la se arda, reca al fuoco un'erba c'ha natura, che poi ch'è
arsa nascie adesso una altra fenice; e così non è se non una”.142 Ma in area
137
Ibid., vv. 6304-6305, in Chrétien, Oeuvres, p.
138
Ibid., v. 6241, in Chrétien, Oeuvres, p.
139
Ibid., vv. 6327-6328, in Chrétien, Oeuvres, p.
140
Méla 1992, pp. 17-18.
141
Si può indicare soltanto il senhal “Bels Fenics” in una canzone di Raimon Bistors di
Arles. Cfr. Bianchini 1996.
142
Grion 1869, p. 282.
175
italiana - dove peraltro, come si è detto, ebbe larghissima diffusione la
similitudine fra il mitico uccello e l'amante che arde nel fuoco della passione
- fu Cecco d'Ascoli a elaborare nel capitolo secondo del III libro dell'Acerba
il primo grande emblema della Donna-fenice. Egli vi tratta di una misteriosa
Donna beatificante e celeste che rappresenta la divina Sapienza o
Intelligenza, cioè la rivelazione teofanica che illumina con la sua luce la
parte superiore della nostra mente - l'intelletto passivo - e stacca gli uomini
dalle cose materiali per innalzarli alla contemplazione delle realtà eterne. Di
essa Cecco afferma che preesiste a tutte le cose (“fu nanti 'l tempo e 'anti 'l
cel suo vista”),143 è di natura puramente spirituale anche se appare fra gli
uomini,144 illumina “di splendor divin” l'intelletto passivo, che si accresce
“mirando di bellezza la sua luce”,145 e in questo modo “fa volar la mente
nostra accesa / nel gran disio dello ben divino”,146 assicurandogli salvezza e
beatitudine: “E l'anima, ch'a luce fu creata / per sol montare nelle dolci
scale, / per li occhi di costei divien beata”.147 Al culmine della visione
beatificante, che provoca un'uscita della mente dai suoi limiti umani, si
realizza la trasformazione del contemplante nella Donna celeste, la unio
mystica con lei:
176
della Sapienza divina” che, mutando progressivamente carattere, assume poi
la forma di un più tradizionale bestiario moralizzato. Questa Donna, egli
dice, è simile alla fenice che “morendo nasce”: quando si sente gravata
dall'età, accende infatti una fiamma con il battito delle sue ali nelle calde
regioni dell'Oriente e si incendia; dopo essersi così trasformata “in polver
trita”, riprende vita per virtù della Luna e torna nel suo stato primitivo,
rimanendo sempre unica al mondo (“al mondo non è mai più che una”).150
La descrizione - che, come avviene nella maggior parte del bestiario
dell'Acerba, segue fedelmente il capitolo sulla fenice del De proprietatibus
rerum di Bartolomeo Anglico151 - sintetizza dunque, con la sola eccezione di
un insolito riferimento all'influsso lunare, i dati più correnti della leggenda.
Ma del tutto originale è la spiegazione allegorica che segue:
Così costei, che <alterna> al tempo more
per la grifagna gente obscura e ceca,
accende fiamma de desio nel core;
ardendo, canta delle giuste note;
col dolce foco l'ignoranza spreca,
e torn'al mondo per l'ecelse rote.
150
L'Acerba, III,II,25-36.
151
Cfr. qui il cap. XI, “Il bestiario della Sapienza celeste. Gli animali simbolici
dell'Acerba”, pp. 143-150.
152
L'Acerba, III,II,37-44.
153
Cfr. ibid., III,II,14.
177
so ch'io mi dica, s'io non taccio, dove la fenice non è più immagine della
Donna ma del poeta stesso che, combattuto da opposti sentimenti, canta in
punto di morte: “Sì ch'io ridendo vivo lagrimando, / come fenice nella morte
canto”.154 Sembra così delinearsi quella identificazione fra amante e
Sapienza divina, quel mistico congiungimento con la paredra o con l'“Io
celeste”, che egli aveva descritto al culmine della precedente trattazione:
“Dunqua, io so' ella”. Il canto della fenice, del resto, potrebbe essere riferito
di riflesso anche all'anima che, illuminata dalla luce della Sapienza,
proclama la vera dottrina: tanto più che, poco più avanti, nel capitolo
dedicato al cigno è detto che l'anima desiderosa di conquistare questa Donna
“canta, nella morte, inamorata / andando al suo Fattor così beata”.155 La
fenice di Cecco d'Ascoli rinnova dunque, a distanza di secoli, quella del
trattato II, 5 di Nag ‘Hammâdi, che “prima appare viva, poi muore, e risorge
nuovamente, essendo essa un segno per colui che si manifesterà al termine
dell'eone”: simbolo dello gnostico che, grazie al battesimo spirituale, ritorna
alla sua patria celeste dopo aver patito l'esilio nel mondo inferiore. E gli
ardui versi dell'Acerba si illuminano di un cupo bagliore se si pensa che, per
non aver rinunciato a dissipare l'ignoranza cantando “delle giuste note”, il
poeta ascolano - tragica fenice - finì arso sul rogo.
Lo stesso complesso di idee esoteriche si ritrova nel mito del misterioso
uccello Simurgh - la fenice persiana - descritto nell'epopea mistica islamica,
in particolare nelle opere di ’Attâr et di Sohravardî. Nell'Arcangelo
purpureo, Sohravardî narra che la Simurgh ha il suo nido in cima all'albero
solare Tûbâ, che sorge sulla montagna Qâf e rappresenta il centro del
Malakût o “paradiso” cui l'anima fa ritorno dopo essere evasa dalla prigionia
terrestre: ogni volta che una di esse scompare sulla terra, dove si dirige per
assicurare la sussistenza della vegetazione, una nuova Simurgh spicca il
volo dall'albero Tûbâ. In un altro trattato, l'Incantesimo di Simurgh,
Sohravardî riferisce che ogni upupa, in primavera, abbandona il suo nido e
vola verso la montagna Qâf: qui, dopo essersi spogliata con il proprio becco
delle vecchie piume, diventa una Simurgh, che porta un piumaggio
multicolore, si nutre di fuoco e, modulando un suono meraviglioso dal quale
derivano tutte le conoscenze, risveglia dal sonno i dormienti. Ma il racconto
più straordinario è certamente quello che conclude Il verbo degli uccelli di
’Attâr, riassunto anche da Borges nel Manuale di zoologia fantastica. Vi si
narra come la schiera degli uccelli intraprenda un lungo e penoso viaggio
alla ricerca della Simurgh; dopo molti anni di vagabondaggio per valli e per
montagne, solo pochissimi - trenta - sopravvivono, con corpi e anime
154
Se ne veda il testo in Rosario 1926, p. 156. Sul problema attributivo e sui rapporti fra
questo sonetto e il petrarchesco Pace non trovo (CXXXIV), si veda Santagata 1990, pp.
234-236.
155
L'Acerba, III,X,7-8. Cfr. in proposito Zambon 1983, p. 419.
178
distrutti, e incontrano un araldo che li invita a tornare a casa per non
rimanere incendiati dal lampo che balena dalla sublime creatura. Ma i trenta
superstiti, poiché già dentro di loro divampa l'incendio, non desistono e
riescono infine a contemplare Simurgh, annientandosi e rinnovandosi
completamente nella sua visione: “Nell'immagine del volto di Simurgh
contemplarono il mondo, e dal mondo videro emergere il volto di Simurgh.
Osservando più attentamente si accorsero che i trenta uccelli altri non erano
che Simurgh, e che Simurgh era i trenta uccelli: infatti, volgendo
nuovamente lo sguardo verso Simurgh, videro i trenta uccelli, e guardando
ancora se stessi rividero lui. O meraviglia, questo era quello e quello era
questo”.156 È evidente come, in tutti questi testi, la Simurgh rappresenti il
doppio divino di ogni essere umano, unico e pur diverso per ciascuno, che
come in uno specchio abbagliante e incendiario vi contempla la propria vera
identità. Commenta Henri Corbin: “Essa è l'Io celeste e l'Angelo protettore,
il Volto imperituro di quell'essere; corrisponde alla Natura Perfetta che è
insieme padre e figlio del mistico, perché si nutre alla fiamma del suo Graal;
ciò significa che, in questo modo, l'essere umano muore al suo io inferiore.
Quando la combustione è completa, l'anima umana (l'upupa) è diventata
quella fenice-simurgh che, rinascendo dalle proprie ceneri, spicca il volo "in
primavera" verso l'Oriente, verso la vetta della montagna Qâf”.157 La
coincidenza con la fenice-Sapienza di Cecco d'Ascoli non potrebbe essere
più completa.
Ma il mito feniceo elaborato da Cecco non è forse la cristallizzazione
simbolica di un tema presente anche in altri poeti del suo tempo e che
costituisce una delle grandi novità della poesia amorosa italiana rispetto ai
modelli trobadorici, quello della morte della Donna? Nella lirica provenzale,
infatti, esso è del tutto marginale, pur prefigurandosi in quelli della
lontananza o della superiorità sociale della domna: dei quarantatre planhs o
lamenti funebri che ci sono pervenuti solo cinque sono dedicati alla dama
dell'autore e uno di questi, il bellissimo chan-plor, è di un poeta italiano,
Lanfranco Cigala. Ma già presso i Siciliani, con le grandi canzoni Morte,
perché m'ài fatta sì gran guerra di Giacomino Pugliese e Amando con fin
core e con speranza di Pier delle Vigne, questo tema - in accordo con un
crescente astrattismo del discorso amoroso - incomincia ad assumere un
ruolo sempre più importante, fino a culminare nelle figure - decisive per
tutta la poesia amorosa occidentale - di Beatrice e di Laura. Se la morte di
Beatrice nella Vita nova, come avevano già suggerito Perez e Pascoli, deve
essere messa in rapporto con quella della biblica Rachele che, secondo
l'esegesi mistica di Riccardo di san Vittore, rappresenta l'excessus mentis per
mezzo del quale si superano i limiti umani e ci si eleva alla contemplazione
156
Verbo degli uccelli, p. 206.
157
Corbin 1971, p. 233.
179
delle realtà divine, il suo senso profondo non differisce molto da quello che
Cecco d'Ascoli attribuisce alla morte della sua Donna-fenice. Del resto, la
sola spiegazione plausibile - e perfettamente logica - che sia stata fornita
della terza giustificazione addotta da Dante nella Vita nova per tacere della
morte di Beatrice (“tractando converrebbe essere me laudatore di me
medesimo, la qual cosa è al postutto biasimevole a chi lo fa”)158 rimane
quella proposta da Luigi Valli con riferimento all'esegesi vittorina: “Nessuna
lode più alta poteva fare Dante a se stesso che raccontare di essere giunto a
un altissimo sviluppo di spirito mistico e a quell'excessus mentis nel quale
consiste appunto la morte di Beatrice o, che fa lo stesso, di Rachele”;159
tanto più se si mette questo passo in rapporto con le parole dell'Epistola a
Cangrande in cui Dante, a proposito del “trasumanar” nel primo canto del
Paradiso, cita il rapimento di san Paolo al terzo cielo e rinvia fra l'altro
proprio a Riccardo di san Vittore gli invidi ai quali ciò non bastasse.160 Che
il mito di Beatrice avesse qualche rapporto con quello della fenice-Sapienza,
è quanto lascia intendere anche un altro passo di cui non è stata data finora
una spiegazione soddisfacente: gli ultimi due versi del sonetto attribuito a
Cino da Pistoia Infra gli altri difetti del libello, in cui Dante è rimproverato
di non aver riconosciuto, quando contemplò la sua Donna in Paradiso,
“l'unica fenice / che con Sion congiunse l'Appennino”.
Non sorprende perciò che nel Canzoniere petrarchesco Laura trovi nella
fenice uno dei suoi grandi emblemi, la cui ombra simbolica si allarga dalle
Rime in Vita a quelle in Morte. Nelle prime - secondo una ormai consolidata
tradizione lirica - Petrarca aveva già riferito a se stesso la leggenda nella
prima strofa della canzone, di gusto tipicamente “medioevale”, Qual più
diversa et nova (CXXXV), dove il mitico uccello è la prima delle meraviglie
convocate a rappresentare la sua strana condizione di amante:
158
Vita nova, XIX,2.
159
Valli 1928, p. 374.
160
Cfr. Ep. Cani Grandi de la Scala, 28,80.
161
RVF CXXXV, vv. 5-15.
180
Il volo della fenice che si incendia volontariamente nel sole (dato
abbastanza inconsueto, ma in qualche modo latente nelle fonti162 e già
formalizzato nella canzone Per gir verso la spera del Frescobaldi)
rappresenta dunque il voler del poeta che si consuma nel suo amore per
Laura, identificata qui al sole secondo una simbologia frequente nel
Canzoniere, e continuamente rinasce per tornare ad ardere in questo fuoco; è
un tema classico della poesia amorosa, che si ritrova in altre formule di
sapore “feniceo” come quella del sonetto CLXIV, v. 2: “mille volte il dì
moro et mille nasco”. Al modello simbolico dell'Acerba sono invece
riconducibili, malgrado la parziale diversità degli elementi descrittivi, i testi
in cui il meraviglioso uccello diventa una figura di Laura: si tratta dei sonetti
CLXXXV, CCX, CCCXXI (cui va aggiunto il contiguo CCCXX) e della
“canzone delle visioni” (CCCXXIII). In questo gruppo di liriche,
intimamente connesse tra di loro, non si trova rappresentata soltanto la
bellezza e unicità della donna, ma è anche - e soprattutto - cifrato il grande
mito della morte e rinascita in una dimensione puramente immateriale di
colei “che 'n terra morendo, al ciel rinacque”.163 Nei primi due sonetti, che
appartengono alle Rime in Vita, non viene ancora fatto alcun riferimento al
sacrificio dell'uccello: sono evocati soltanto gli splendidi colori del suo
piumaggio, la sua origine orientale, la sua unicità. Ma è probabile che la
scelta dell'emblema prefigurasse già in qualche modo, per il Petrarca, il
funereo destino di Laura. Nei sonetti CCCXX e CCCXXI, invece, il volo
altero di Questa fenice (“che per lo nostro ciel sì altera vola”) è ormai un
“ultimo volo”, quello della morte, e sulla terra non sono rimasti che il nido
vuoto e la cenere. Questo scenario trova la sua rappresentazione più
compiuta nella penultima strofa della canzone Standomi un giorno solo a la
fenestra, dove l'emblema della fenice segue altre rappresentazioni
simboliche della morte di Laura e in particolare quelle del lauro schiantato
dalla folgore (str. 3) e della fontana inghiottita dall'abisso (str. 4):
162
Isidoro, Etymol., XX,7,22) scrive per esempio che la fenice “rogum sibi instruit et
conuersa ad radium solis alarum plausu voluntarium sibi incendium nutrit”.
163
RVF CCCXXXI, v. 28.
181
quasi sdegnando, e 'n un punto disparse:
164
onde 'l cor di pietate et d'amor m'arse.
164
Ibid. CCCXXII, vv. 49-60.
165
Cfr. Hubaux e Leroy 1939, pp. 56-65, e Van den Broeck 1972, pp. 305-334.
166
Contini 1979, p. 24.
167
Cfr. Zambon 1983, pp. 421-422.
182
coincidere: fine (“ogni cosa al fin vola”) e felicità (“or se' nel ciel felice”) si
fondono nel geroglifico della fenice.
In realtà, la “resurrezione” di Laura resta taciuta perché, nel mito
petrarchesco, essa spetta non tanto alla donna quanto all'io-poeta, che la
fenice non raffigura soltanto nella canzone CXXXV, ma - in maniera più
dissimulata - anche nel gruppo di liriche in cui la mitica creatura diventa un
emblema di Laura. Nella prima strofa di Qual più diversa et nova i dati
riferiti all'io erano l'unicità e mancanza di compagno (simbolo di “diversità”
e di amore non contraccambiato), il volo verso il sole (corrispondente a
quello del desiderio verso Laura), il volontario incendio (cioè la “morte”
amorosa) e la resurrezione (il continuo rinascere del desiderio grazie al
quale il ciclo ricomincia). Alcuni di questi motivi persistono anche nelle
altre poesie fenicee, combinandosi con i dati pertinenti a Laura. Nel sonetto
CLXXXV non è tanto Laura-fenice a incendiarsi, ma è il poeta che arde
dentro al fuoco acceso da Amore nei capelli luminosi di lei (“un liquido
sottile / foco che m'arde”), mentre in CCCXX il “nido” vuoto di Laura è
quello in cui ora vive Petrarca. Anche negli altri testi l'incendio è sempre
riferito all'amante: nei sonetti CCCXX e CCCXXI esso è provocato dagli
occhi o dal viso della donna (“da' belli occhi suoi, che 'l cor m'ànn'arso”;
“arsi quanto 'l mio foco ebbi davante”; “il bel viso onde quel lume venne /
che vivo et lieto ardendo mi mantenne”), nella canzone Standomi un giorno
la fiamma “di pietate et d'amor” è invece suscitata dalla morte di Laura. La
similitudine “tradizionale” di Qual più diversa et nova non è dunque
superata dalle successive, ma continua a essere operante nello sviluppo di un
mito poetico che intreccia le figure dell'amante e dell'amata in un unico
emblema di morte e di rinascita. A entrambi si riferiscono - ma con
significati diversi - l'unicità, il nido, il volo verso l'alto, la morte volontaria;
a Laura soltanto spettano la luce e la cenere; al solo Petrarca il fuoco e la
rinascita. Spiccato da uno stesso nido, il volo celeste della donna è fusione
nel sole e irradiazione di una luce che tutto illumina; quello dell'io-poeta è
invece incendio amoroso in questa fiamma. Ma, sorprendentemente, le
ceneri che restano di questo rogo sono quelle di Laura, vittima del suo
funereo destino, mentre al Petrarca è riservata - in quanto amante e poeta -
una dolorosa resurrezione. In realtà, la polisemia del simbolo suggerisce
l'inseparabilità delle due vicende, simili in ciò a quelle di Fénice e di Cligès:
in Laura anche Petrarca si inciela, in Petrarca anche Laura risorge e ottiene
vita immortale. Il mito petrarchesco della fenice può essere sintetizzato da
questo schema:
183
La fenice petrarchesca è cifra del necessario e inesorabile dileguare della
donna in quanto essere reale, fisico, e del suo risorgere come fantasma
interiore o mito poetico; essa è per eccellenza la figura di Laura, come di
ogni cosa che al fin vola e proprio in questo - grazie alla poesia - raggiunge
eternità, perfezione, bellezza assoluta. Perciò la sua rinascita non può essere
detta: essa coincide con la scrittura stessa, è la possibilità stessa del
ragionare, dello scrivere di Laura. Dalle ceneri, nelle quali si sono
consumati insieme il poeta e la sua donna, nasce la nuova fenice del canto
poetico, del supremo canto petrarchesco, potremmo quasi dire del suo
“canto feniceo”.
Dopo essere stata Osiride e Cristo, anima trasmigrante post mortem e
cosmo che si rinnova al compimento del Grande Anno, dopo aver incarnato
la perfezione dello gnostico e la resurrezione del cristiano, la fenice - alle
soglie della modernità - diventa dunque donna. In questa sua estrema
rinascita essa naturalmente reca ancora su di sé l'impronta sacrale che ne
aveva segnato la storia più antica, e in particolare quella cristica. Ma il mito
è ormai annesso al campo di quella esperienza amorosa intorno alla quale
ruotano la letteratura e il pensiero del medioevo occidentale. In Cecco o in
Dante - come nei “platonici” di Persia - questo amore è riflesso o tramite di
un itinerarium mentis in Deum; ma già in Chrétien de Troyes e poi in
Petrarca, “inventori” rispettivamente del romanzo e della lirica moderni,
esso è ormai al centro di una ricerca di identità psicologica e sociale che
assume la donna come specchio enigmatico dell'io. Il volo della fenice
petrarchesca è sospeso esattamente su questo crinale che divide Oriente e
Occidente, sacro e profano, trascendenza e immanenza; le sue ali hanno
184
ancora i profumi e la luce dell'Oriente, ma sono ormai chiuse nei plumbei
orizzonti occidentali: “Fama ne l'odorato et ricco grembo / d'arabi monti lei
ripone et cela, / che per lo nostro ciel sì altera vola” - il nostro cielo, quello
dell'uomo e della storia, non più quello dell'Eden orientale. Con il passare
dei secoli queste ali dovevano farsi così pesanti da poter essere facilmente
impallinate dall'erudizione di Leopardi, che nel capitolo dedicato alla fenice
nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi ironizza dottamente su
questo “pregiudizio universale”.168 Ma il midollo più interno del mito resiste
fino al nostro tempo; una terrestre fenice è ancora l'anguilla di Montale,
anche se il suo rogo si è ridotto a una piccola scintilla: “la scintilla che dice /
tutto comincia quando tutto pare / incarbonirsi, bronco seppellito”. Sono
pressappoco le parole usate da Tertulliano nella grande pagina sulla fenice
del De resurrectione mortuorum: “Tutto quanto incomincia quando ha
finito, tutto finisce perché possa nascere: niente perisce se non per
salvarsi”.169
168
Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, XVI, in Leopardi, Prose, p. 854.
169
Tertull., De resurr. mort., 12,6.
185
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