produzione e
conservazione dei
metalli
Le fucine di Bienno
Carlo Grassini
Unibs
A.A. 2007-2008
S OMMARIO
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LE FUCINE DI BIENNO
STORIA DI ANTICHI MESTIERI E GENIALI INVENZIONI
Fu però nei secoli successivi all’anno Mille che si formò e si consolidò la tradizione
siderurgica della Valle Camonica e, più in generale, di tutte le valli bresciane. La Val
Trompia, in particolare, si “specializzò” già dal XIII sec. (ma soprattutto nel Quattrocento)
nella produzione di armi e armature di gran pregio, che venivano commissionate dalla
Repubblica di Venezia, dal Papa, dall’Imperatore. In Val Camonica, invece, l’orientamento
commerciale era più indirizzato verso l’utensileria di uso domestico e gli attrezzi da lavoro:
pentolame, secchi e recipienti vari, mestoli, vanghe…
Per supportare una produzione così intensa e richiesta, nella valle erano presenti, dislocate
nelle diverse zone, tutte le strutture necessarie: a partire dalle miniere, fino ai forni per la
preparazione del ferro, e alle fucine per la forgiatura dei manufatti. Questo modello della
siderurgia camuna conobbe nella storia momenti di grande fortuna alternati a flessioni più
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o meno marcate [3], ma mantenne la sua grande importanza, economica e sociale, fino
almeno ai primi anni del secolo scorso.
Poi, gradualmente, l’avvento delle nuove tecnologie come l’acciaieria elettrica, e gli
importanti avvenimenti storici ed economici del Novecento hanno modificato la situazione,
portando alla scomparsa dell’antica arte della “ferrarezza” in favore di uno sviluppo più
prettamente industriale della siderurgia. Le miniere sono state abbandonate nel 1920, gli
ultimi forni dismessi negli anni Trenta; le fucine sono ormai quasi tutte scomparse, le poche
rimaste in attività hanno prevalentemente interesse storico o folcloristico.
LE MINIERE
Il primo, fondamentale, passo per la produzione
del ferro è l’estrazione del minerale ferrifero. La
Val Camonica ne ha da sempre avuto grande
disponibilità, grazie alle numerose miniere
dislocate lungo la valle, sfruttate nel corso dei
secoli.
F IGURA 2: L E MINIERE BRESCIANE NEL 1888 [3] cui veniva deposto il minerale.
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Il minerale estratto veniva portato in superficie con apposite gerle (zarlì) da ragazzini che
potessero muoversi attraverso gli stretti cunicoli; all’esterno, veniva separato a seconda del
tipo (vena morella, vena ladina, vena bianca) e privato delle scorie più grossolane
(soprattutto dello zolfo) mediante una prima sommaria cottura in piccoli forni (reglane), e
infine, trasportato a valle
verso il forno fusorio.
Il lavoro in miniera si
svolgeva, generalmente nel
periodo invernale. Quando,
al disgelo, i cunicoli si
riempivano d’acqua,
diventando pericolosi ed
impraticabili, la maggior
parte degli uomini scendeva
al paese per dedicarsi alla
stentata agricoltura dei
luoghi, mentre in prossimità
delle miniere restavano, per
un mese ancora, gli addetti
alla prima fusione.
IL CARBONE
Sia per le preliminari
operazioni di arrostitura del
minerale, effettuate nei
pressi della miniera al fine di
privarlo della maggior parte
della ganga, che per
l’operazione di riduzione vera
e propria che aveva luogo nei
forni, il combustibile
utilizzato era carbone di
legna. Questo veniva
prodotto grazie
all’abbondante legname dei
numerosi boschi della Valle,
con un procedimento detto
del poiàt, termine di
etimologia ignota che sta ad
indicare un cumulo
semisferico di legna, dotato
di sfiatatoio alla sommità
(Figura 3).
abilità dai “carbonari”, quindi F IGURA 3: P REPARAZIONE DEL CARB ONE DI LEGNA CON IL
ricoperto di terra umida e PROCEDIMENTO DEL "P OIÀT "
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frasche per isolare dall’aria; successivamente la legna all’interno veniva accesa per portare
la temperatura agli oltre 400°C richiesti. Era assolutamente necessario che la combustione
avvenisse senza sviluppo di fiamma: allo scopo i carbonari sorvegliavano giorno e notte il
poiàt, per gli 8-10 giorni consecutivi che l’intero processo richiedeva. A ciclo concluso, il
carbone preventivamente raffreddato veniva messo nei sacchi, i quali venivano trasportati
a valle a dorso d’asino o a spalla d’uomo, e successivamente su carretti, o su zattere
sfruttando i corsi d’acqua.
I carbonari lavoravano nelle cosiddette aiali, piccoli spiazzi circolari di pochi metri quadrati,
che essi stessi preparavano per collocarvi il poiàt. Ancora oggi, in molte località di
montagna camune, è possibile rinvenire le aiai carbunére, con il loro strato di terra nera, su
cui cresce solo erba.
I FORNI
Documenti relativi ai forni fusori nella valle
risalgono almeno al XIII secolo. Il più antico finora
conosciuto è quello di Cerveno. Esso è frutto della
decisione del comune di costruire una struttura
che raccogliesse i minerali delle miniere circostanti.
Per il periodo precedente non esistono finora
testimonianze di edifici, per cui è pensabile che
esistessero strutture più semplici e rozze.
Posteriori furono senz'altro quelli di Paisco,
Loveno, Grumello e Pisogne.
In primo luogo si radunava il minerale sufficiente. Esso, una volta trasportato, era collocato
in appositi depositi chiamati scottari. La quantità di minerale usato veniva registrata con
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precisione; inoltre si raccoglieva il carbone sufficiente per produrre la colata, preso dalle
aiali e deposto accanto al forno. Il sistema di raffreddamento era indispensabile e quindi si
controllavano i canali che conducevano l'acqua dai torrenti vicini.
La posizione dei forni, soprattutto in alta montagna, li esponeva a rischi di diverso genere:
valanghe, alluvioni, danneggiamenti da parte del cielo e della neve.
LE FUCINE
La fucina era l'ultimo anello della trasformazione del ferro e il suo lavoro presupponeva una
grande abilità artigianale. A differenza dei forni fusori, le fucine furono sempre di tipo
privato, data la particolarità del lavoro che vi veniva svolto. Tra il 1400 ed il 1500 se ne parla
in vari documenti.
Le fucine richiedevano la
presenza dell'acqua corrente
per azionare i magli. Esse
quindi si trovavano lungo i
torrenti alpini ed erano
anche esposte a inondazioni
e distruzioni dovute
all'impetuosità delle acque.
Ciò lascia supporre una tradizionale diversificazione e specializzazione delle fucine, alcune
delle quali producevano attrezzature agricole, altre oggetti d'uso domestico, come secchi,
mestoli, padelle e pentole. Sembra inoltre che, sin dal 1300, la produzione di utensili per
l'agricoltura e per la casa fosse parallela a quella di armi (sebbene in questo settore fosse la
vicina Val Trompia a dominare il mercato). Famoso divenne il mercato degli schioppi di varia
grandezza prodotti a Bienno, nella Valle dei Magli, dove è rimasta ancora una fucina in cui si
lavora impiegando la ruota idraulica.
Per approfondire la struttura delle fucine e il funzionamento degli impianti che in esse
venivano utilizzati, si rimanda al capitolo successivo.
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B IENNO E LA “V ALLE DEI M AGLI ”
Nell’ambito della Valle Camonica, una zona di primaria importanza per la lavorazione del
ferro nella storia è costituita dalla Val Grigna, detta, proprio per l’abbondanza di fucine che
la contraddistingueva, “Valle dei Magli”. Qui, nel Seicento, erano ben una quindicina i magli
funzionanti, oltre a sei forge “per farranze”, tre mulini e una segheria; nel 1870 le fucine
erano aumentate a 24 e producevano strumenti da cucina e da lavoro venduti non solo in
Italia. Tuttora è attiva una fucina idraulica per la produzione di utensili artigianali, mentre
un’altra è stata trasformata in museo etnografico didattico per la dimostrazione dei metodi
di lavorazione tradizionale.
La valle prende il suo nome dal torrente che l'attraversa, la Grigna. Il suo imbocco si colloca
presso il comune di Esine, nella media Valle Camonica, e prosegue lungo i territori di Berzo,
Bienno e Prestine. Si conclude in testata al Passo di Croce Domini (1892 m).
Gli antichi autori concordano nell' affermare l'importanza di Bienno come uno dei centri
principali della siderurgia e che doveva a ciò la propria ricchezza. Nella letteratura
scientifico-naturalistica tuttavia non sono menzionate miniere nel territorio di Bienno in
senso stretto, ma nelle sue vicinanze, come il giacimento cuprifero di Campolungo o la
miniera di ferro di Piazzalunga [1].
Viene quindi spontaneo chiedersi perché una zona priva di miniere sia diventata un
importante centro siderurgico: certamente non fu solo l' abbondanza d'acqua a
determinare la presenza di un così grande numero di fucine, ma la ricchezza del suo
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patrimonio boschivo, che forniva in quantità il carbone necessario per gli impianti
siderurgici.
Lo sviluppo della “ferrarezza” biennese sembra tuttavia limitato alla presenza di fucine:
infatti non sono documentati nella storiografia locale forni fusori a Bienno. Da dove veniva
dunque il ferro che veniva lavorato nelle fucine biennesi? Sappiamo che esisteva un forno
fusorio a Berzo, già diroccato nel secolo scorso, oltre che numerosi altri impianti in tutta la
valle. Inoltre si hanno notizie che testimoniano che in gran parte il ferro veniva importato
dalla vicina Val di Scalve [1].
I L “V ASO R É ”
Fin dall'antichità l’acqua è stata usata per azionare ruote idrauliche e impianti di
insufflazione necessari alla produzione siderurgica. Perciò un tempo fucine, mulini,
segherie, forni fusori erano situati direttamente lungo
la Grigna.
Il canale anticamente era costruito in legno di larice o castagno (a causa della proprietà di
questo legno di diventare molto resistente a contatto con l’acqua) e posto su pali di
sostegno, mentre nella sua versione “moderna” è in cemento armato. L'unico tratto
rimasto di questa più antica canalizzazione si trova nel centro abitato di Bienno.
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Le cascate artificiali usate per le fucine vengono convogliate in tubi di ferro, le trombe,
lungo le quali l'acqua precipita sui coppi (cop) delle ruote sottostanti, con forza incremen-
tata sia dalla costrizione del flusso entro la "tromba", sia dalla soluzione di far cadere
l'acqua in modo che le ruote girino in senso contrario alla direzione del flusso della
condotta aerea (Figura 8).
Armonizzati fra loro, tutti questi accorgimenti riescono a far battere in senso verticale magli
del peso di due quintali. Prima di entrare nella tromba l'acqua viene filtrata da una griglia,
una sorta di cancelletto, detto rèhstèlét che, bloccandoli, impedirà ai corpi estranei più
grossi di arrecar danno ai coppi.
La cascata che fa funzionare il mulino impiega una quantità d'acqua molto inferiore a quella
di una fucina, essendo più limitata l'energia di cui ha bisogno la rotazione delle macine.
Convogliata in un canale aperto ed obliquo di legno (gora), l'acqua cade nello stesso senso
del flusso del Vaso sulle pale della ruota sottostante, più ampia, ma meno massiccia di
quella della fucina.
Quando, fino a non molto tempo fa, le fucine attive erano numerose e ricorrevano periodi
di secca estiva, i fabbri s'accordavano per lavorare a turno, una settimana di giorno ed una
di notte, per sfruttare il più possibile la scarseggiante risorsa idrica.
Fino al 1950 circa, in assenza degli odierni impianti sanitari pubblici, l'acqua del Re veniva
impiegata per regolari operazioni di pulizia delle strade e degli scoli; anche il bucato, prima
dell'avvento delle lavatrici, veniva fatto con l'acqua del Vaso Ré negli appositi lavatoi,
dislocati lungo il suo corso, alcuni dei quali tuttora esistenti. Da sempre campi e orti sono
stati irrigati con l'acqua del Ré quando le fucine, ormai a riposo, non la richiedevano di sera,
e anche questa funzione, com'è comprensibile, era scrupolosamente regolata da orari e
norme studiati apposta per soddisfare tutta la comunità. Dal 1901 al 1976 il Vaso ha
prodotto anche energia elettrica per la comunità di Bienno.
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LA FUCINA
La tipica fucina biennese è un locale quadrangolare molto alto e buio, annerito dal fumo,
situato sempre fra il Vaso Ré e la strada, parzialmente interrato per attutire vibrazioni e
rumori del maglio. Non ha vere e proprie finestre, ma aperture disposte disordinatamente
sulle pareti e, in particolare, i cosiddetti finehtrai, che si aprono sul tetto per dare un po' di
luce all'ambiente, ma, soprattutto, per far uscire il fumo.
Il pavimento è in semplice terra battuta, nera di caligine e mista a scaglie ferrose. Quando
al calore del forno si assomma quello dell'estate, il pavimento viene sovente irrorato con
acqua del Ré, per rinfrescarlo ed abbassare così la temperatura dell'ambiente.
F IGURA 9: I NTERNO DI UNA TIPICA FUCINA : IN EVIDENZA (A) IL FORNO PER IL RISCALDAMENTO DEL
METALLO , (B) IL MAGLIO E (C) LA RUOTA IDRAULICA A PALE [6]
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rispetto a quella del maglio principale. Nelle ultime fucine attive, i maglioli non sono più
utilizzati, e anche le cesoie non sono sempre presenti, dato che vengono impiegate le
macchine più moderne per la rifinitura dei prodotti.
Indispensabile è l'incudine, con il suo corredo di mazzette e martelli per i colpi più leggeri.
Appese alle pareti si trovano innumerevoli tenaglie di varie misure, utilizzate nella
manipolazione del ferro.
La fucina non ha magazzino, poiché il lavoro dei fabbri non è mai stato tale da richiederne
uno. Prodotti semilavorati e finiti si accatastano, di volta in volta, presso la porta, insieme
alle materie prime. Solo la legna godeva di un proprio deposito, seminterrato od in
soppalco, al pari della creta impiegata per la costruzione e la riparazione del forno.
Quest’ultima era conservata in una piccola cantina (caniì) interamente scavata nel terreno,
priva di finestre, con un'unica porticina sul cui architrave è facile trovare incisa la data di
costruzione della fucina.
IL M A GLI O
Il macchinario più imponente presente nella fucina, nonché il più importante per la sua
funzione, è senza dubbio il maglio (mài).
Esso è sostanzialmente un grosso martello, del peso di oltre due quintali, azionato da un
meccanismo a camme che lo fa battere ciclicamente su di un grosso incudine fisso, piantato
nel terreno sopra materiale isolante come segatura e stracci, per evitare le vibrazioni
dovute ai colpi.
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Lo scopo del maglio è di fornire la forza necessaria per la
deformazione plastica del ferro riscaldato preventivamente
nel focolare. Analizziamo nel dettaglio il funzionamento di
questo ingegnoso meccanismo.
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solidi supporti, solitamente grosse pietre di granito profondamente infisse nel terreno,
dette sòc.
La testa d’asino presenta nella sua parte bassa una scanalatura, fatta per alloggiare un
utensile di acciaio detto bòca o bocchetta, la cui forma varia a seconda del tipo di
lavorazione che deve essere eseguita. La bocchetta, nei ripetuti colpi del maglio, batte
contro il pezzo da lavorare che viene appoggiato su un’altra bocchetta corrispondente,
inserita nell’incudine. Quest’ultima è infissa in un’ampia massa di metallo, in buona parte
sprofondata nel terreno, che deve sopportare la continua pressione del maglio.
IL FO CO L AR E
In altra parte della fucina,
solitamente lateralmente
alla testa del maglio, o
comunque nei suoi pressi, si
trova il forno o focolare.
Per tutta la giornata F IGURA 15: F OCOLARE DELLA F UCINA MUSEO DI B IENNO .
lavorativa, nel forno arde il
fuoco necessario per riscaldare il ferro da forgiare. La brace necessaria per portare il ferro
ad incandescenza è stata per secoli prodotta con il carbone di legna, che ha la proprietà di
non generare fiamma anche arrivando ad alte temperature.
Dopo la seconda guerra mondiale con l'apertura delle frontiere, si cominciò ad usare
carbone fossile, come da tempo avveniva in altri stati. Gli anni più recenti, infine, hanno
visto un'ulteriore sostituzione dei combustibili nei forni: nafta, metano ed energia elettrica
hanno soppiantato per sempre il tradizionale carbone.
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è dibattuta), si introdusse e si diffuse un nuovo, straordinario metodo per aerare il fuoco: la
tromba idroeolica, in bresciano detta tina de l’ora.
Si trattava di un geniale sistema che utilizzava l'acqua per ricavarne un flusso d'aria
costante. Dal Vaso Ré veniva fatta derivare dell'acqua, convogliata poi in una tubazione
verticale (tromba) ricca di piccole fessure perimetrali destinate a richiamare aria. Al suo
imbocco, l'acqua era scompigliata dal taia aiva, legno a forma triangolare, che frantumava
il getto prima di farlo cadere nella tina, contenitore di capacità inferiore al metro cubo, un
tempo costruito in legno cerchiato. Un masso di granito, posto sul fondo della tina,
assolveva al compito di impedire che la caduta dell'acqua scavasse nel terreno e di favorire,
nel contempo, la polverizzazione dell'acqua già "tagliata" e la produzione di una buona
quantità d'aria, prima di lasciarla fluire nel canale di scarico attraverso il sifone.
L'aria così prodotta, per effetto della pressione che si determinava nella "tina" ne usciva
lungo un tubo metallico (canalòt de l'ora), che, dopo varie curve e gomiti nel locale della
fucina, la convogliava nella parte inferiore del forno, ravvivando continuamente la
combustione.
F IGURA 16: S CHEMA DI FUNZIONAMENTO DELLA " TINA DE L ' ORA " [7]
IL L AV O R O N E L L A F U CI N A
In una fucina è possibile trovare uno o più magli di peso diverso, per produrre manufatti
differenti. Essi sono sempre collocati a poca distanza dal forno in modo che il brahchì, il
lavorante più giovane e meno esperto, con pochi movimenti delle braccia possa servire il
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maìhster, il mastro che svolge il lavoro di battitura e che è, solitamente, il lavoratore più
anziano. Quando questi assesta gli ultimi colpi sul pezzo in lavorazione, il brahchì con
lunghe tenaglie gli porge un altro pezzo rovente, appena tolto dal forno.
Il pezzo di ferro incandescente è trattenuto, per mezzo di lunghe tenaglie, dal lavorante che
lo sposta in continuazione: l’abilità del maìhster consiste proprio in questi movimenti. Nel
minor numero di colpi possibile, per evitare che il ferro si raffreddi troppo nel frattempo, il
pezzo di metallo deve essere colpito più volte in vari punti; schiacciandolo
progressivamente assumerà la forma dell’oggetto desiderato: vanga o pala, zappa o
martello, scure o falce.
Esiste anche un'incudine su cui vengono lavorati con martelli e mazzette di varie forme i
pezzi più piccoli.
È un lavoro sincronizzato, oggi facilitato dal fatto che il fuoco non richiede più l'intervento
diretto dell'uomo, il che ha risolto molti problemi rispetto al tempo in cui veniva acceso a
legna, alimentato dal carbone e ravvivato continuamente da un apposito soffio d'aria.
Gli ultimi brahchì degli anni Cinquanta, raggiungevano a malapena l'età di quattordici -
quindici anni. Anticamente, il brahchì era un bambino nel senso letterale del termine,
appartenente per lo più alle famiglie meno abbienti.
Alle quattro del mattino, a volte anche prima, zoccolando nella notte e rincuorandosi con
una canzone, si recava nella fucina con il compito di preparare ben acceso e vivo il fuoco,
perché alle cinque, all'arrivo dei fabbri si potessero subito portare ad incandescenza i pezzi
da lavorare. Un tempo, grande era il suo daffare anche per l'insufflazione, attuata a mano
con un soffietto, sino all'avvento provvidenziale della tina dè l'ora.
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C ONCLUSIONE
La breve panoramica che abbiamo presentato sulla storia della siderurgia camuna e sulla
lavorazione del ferro nelle fucine di Bienno non può certo dirsi esaustiva di un argomento
tanto vasto e che tanta importanza ha per la storia, economica e sociale, del territorio
bresciano intero, e non solo della Valle Camonica.
Tuttavia, lo scopo non era certo quello di fare una approfondita ricerca storica e
archeometallurgica, quanto quello di raccontare delle “vecchie storie” per fornire degli
spunti di riflessione su un mondo oramai quasi scomparso, fatto di duro lavoro, di geniali
espedienti e di onesta laboriosità, dal quale tanto, anche oggi, in uno scenario pure così
mutato, possiamo imparare.
Tuttavia, dato che è stato fonte di benessere e di orgoglio per i biennesi e per tutti i
bresciani per molti secoli, recuperare le storie e le testimonianze di un passato così
importante (cosa che i biennesi e i camuni in generale sanno fare con grande intelligenza e
lungimiranza, come testimoniano le numerose lodevoli iniziative in proposito) è per noi
utile e proficuo. Perché il lavoro e l’intelligenza dei nostri antenati, che pur privi delle
conquiste della scienza del XX secolo hanno saputo creare, inventare, produrre,
raggiungendo alte vette qualitative e conquistando una posizione di rilievo nella siderurgia
europea, non siano dimenticati. Per imparare qualcosa da loro. E, magari, per ringraziarli.
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B IBLIOGRAFIA
1. Costanza Cucini Tizzoni, Marco Tizzoni (a cura di) – La miniera perduta (Comune di
Bienno, 1999)
a
2. Benia Panteghini – Bienno – il ferro, l’acqua, il fuoco (2 edizione) (Comune di
Bienno)
3. Andrea Bellicini – La siderurgia bresciana – storia, aspetti geografici, problemi
economici (Astra, Milano, 1987)
4. Franco Bontempi – Economia del ferro – Miniere forni e fucine in Valcamonica dal
XV al XIX secolo (Circolo Culturale Ghislandi)
5. Manlio Calegari, Carlo Simoni - Boschi, miniere, forni – Cultura del lavoro nelle
valli bergamasche e bresciane (Grafo edizioni, Brescia, 1994)
6. Progetto Techne – Culture e strumenti del lavoro: la ruota idraulica – Il maglio (Ed.
La Scuola, Brescia, 1989)
7. Ivana Passamani Bonomi, Lucia Morandini Ruggeri – Alla scoperta del Vaso Ré
lungo il racconto disegnato dall’acqua (Comune di Bienno)
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