di Davide Bennato
namici come MySQL [http://www.
L’INTELLIGENZA OPEN SOURCE
Li usiamo spesso, alcuni di noi tutti i
giorni. C’è chi lo fa per sentirsi la co-
scienza in pace e quindi per evitare
di installare prodotti commerciali
senza averne la licenza. Chi lo fa
per un motivo etico-politico perché
in questo modo ribadisce istanze
polemiche rispetto all’industria del
software. C’è chi invece lo fa perché
ne conosce i pregi e la qualità del
codice che ne consente il funziona-
mento. È il software open source,
vero protagonista della rivoluzione
informatica di questi ultimi anni. I
termini “rivoluzione” e “informatica”
spesso sono accoppiati nelle iper-
com/software/staroffice]. Il mon-
boli giornalistiche legate al mondo
del computer e internet, ma in que-
sto caso l’assonanza è qualcosa di
più di una semplice scelta retorica.
Perché protagonista?
Tutti conosco la storia di Linux, il
sistema operativo nato dall’insod-
disfazione per i sistemi operativi
didattici di Linus Torvald e che non
avrebbe potuto vedere la luce se
non fosse stato sostenuto da una
community di appassionati. Scrive-
re un sistema operativo è qualcosa
di complesso e organizzato in ma-
niera minuziosamente tayloristica:
ricorda le strategie di costruzione
delle cattedrali. I processi produt-
tivi del software libero sono meno
strutturati, c’è una comunità inter-
nazionale che attraverso strumenti
informatici – in principio furono i
newsgroup, adesso i wiki – coor-
dina le diverse attività avvalendosi
della libera partecipazione delle
persone. Questo modo di proce-
dere è stato paragonato da Eric
Raymond, personaggio importante
della scena hacker internazionale,
al bazar, una forma organizzativa
rizomatica, complessa, partecipata
e autopoietica. Ma se Linux è sotto
gli occhi di tutti, soprattutto perché
alternativa importante dei sistemi
operativi commerciali, esistono altre
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decine di casi di successo di prodotti
open source, sui quali i mezzi di co-
municazione poco hanno indugiato
ma che rappresentano la nervatura
delle attività informatiche che ogni
giorno si svolgono nel mondo. Come
per esempio Apache [http://www.
apache.org] il celebre software per i
server web che rappresenta circa il
46% dei siti mondiali (dati Netcraft
aggiornati ad aprile 2009). Oppure
a linguaggi di scripting come PHP
[http://www.php.net] che sono
diventati scelte obbligate per svi-
luppare applicazioni lato server.
Spesso in coppia con database di-
mysql.com], anche questo prodotto
dal mondo dell’open source e so-
stenuto in tempi recenti da giganti
come Sun Microsistem, ovvero la
società che sta dietro Java e che ha
colto l’importanza della diffusione di
questo database, è sempre più pro-
tagonista della nascita dei servizi
web 2.0. Dagli esempi fin qui citati
si potrebbe pensare che il software
open source sia roba da esperti di
internet che difficilmente vanno a
finire nelle mani dei semplici utenti.
Sbagliato. Molti conoscono – e non
riescono a farne a meno – le carat-
teristiche di navigabilità di prodotti
come Firefox o client email come
Thunderbird [http://www.mozil-
la-europe.org]. Mentre molti di noi
sono utenti, oppure semplicemente
hanno sentito parlare, di pacchetti
alternativi a Microsoft Office come
Open Office [http://www.openoffice.
org] o StarOffice [http://www.sun.
do dell’open source è in costante
fermento: nuovi progetti nascono,
altri si stabilizzano, altri muoiono
oppure cambiano nome. Il modo
per seguire questo susseguirsi di
applicazioni non è semplice. Un
ottimo punto di partenza è senza
dubbio Sourceforge [http://www.
sourceforge.org] un archivio il cui
scopo è quello di contribuire alla
nascita delle comunità di sviluppa- sonati pacchetti commerciali. Ce
tori di software open fornendo loro ne sono di tutti i tipi: da Gimpshop,
uno spazio digitale in cui nascono versione open di Photoshop, a
i progetti, vengono archiviati i dati Avidemux, versione alternativa
e vengono seguiti nello sviluppo. di Moviemaker. Ma perché tutte
Un altro esempio di applicazione queste persone decidono di la-
interessante è Osalt [http://www. vorare gratuitamente per un pro-
osalt.com] in grado di aiutare getto software lungo, complesso
l’utente inesper- e senza essere pagati? Molti
to (ma anche hanno cercato di rispondere a
quello smaliziato) questa domanda. Per mettere
a cercare un’al- alla prova le proprie capacità
ternativa open di programmazione, per
source ai più bla- sviluppare prodotti per poi
essere commercializzati
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in forma alternativa, per mostrare
che un altro mondo software è pos-
sibile. Ma spesso il motivo è quello
di far parte di una comunità specia-
le, in cui ci sono programmatori bril-
lanti, in cui il proprio valore si misu-
ra in quanto elegante è il codice, in
cui si possono far nascere modelli
di business nuovi come hanno fat-
to Niklas Zenstroom e Janus Friis
che hanno messo a frutto il proprio
know how nel progettare protocolli
peer to peer grazie a Kazaa e che
hanno così dato vita a Skype [http://
www.skype.com], il più famoso sof-
tware di VOIP che tanto fa tremare
le compagnie telefoniche.
Queste nuove forme commerciali
e lo sviluppo di modelli di business
hanno fatto nascere diversi studi
che cercano di comprendere il tipo
di economia sviluppata da queste
applicazioni. Fra gli altri, famosa
l’analisi di Yochai Benkler che nel
suo La ricchezza delle Reti intro-
duce il concetto di commons based
peer production, ovvero produzione
tra pari basata su risorse comuni,
per illustrare il diverso modello eco-
nomico a cui i progetti open source
hanno dato vita. Il tema delle nuove
forme economiche basate sulla pro-
duzione condivisa, introduce l’idea
che quella open source è una ri-
voluzione profondamente cultura-
le, di cui l’aspetto tecnologico è
semplicemente uno tra gli aspetti
possibili. Gli esempi sono davvero
tanti. Il progetto Creative Commons
di Lawrence Lessig nasce come ri-
sposta alternativa al copyright in cui
la condivisione è condizione neces-
saria per lo sviluppo della creatività
e deve le sue forme originarie pro-
prio alle licenze software che sono
nate per migliorare la distribuzione
del software open. Anche i compor-
tamenti sociali legati al web 2.0 si
ispirano alle forme di collaborazio-
ne collettiva spontanea tipica dei
progetti open source: Wikipedia
è basata su questo principio, gli
user generated content di servizi
come Flickr o Youtube sono basati
su questo principio. Persino forme
sofisticate di collaborazione come
il crowdsourcing – ovvero le forme
emergenti di intelligenza collettiva
nata dall’aggregazione di diverse
competenze professionali e semi-
professionali – sono riconducibili ad
un processo lavorativo di tipo open
source. Continuando ad analizzare
il movimento del software open,
c’è qualcosa che appare in tutta la
sua forza: è l’etica hacker. Ciò che
rende assolutamente interessante
l’etica hacker, non è tanto la sua
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pubblicità prase
componente hacker, quanto la
sua componente etica, ovvero la
sua particolare disciplina del la-
voro che si esprime in norme che
devono essere seguite dai membri
della comunità per poterne fare
parte. Essere hacker non vuol dire
essere smanettone, ma vuol dire
far proprie le regole della comunità
hacker che sono condivisione, ov-
vero la conoscenza deve essere pa-
trimonio di tutti, indipendenza del
sapere rispetto a chi lo ha prodotto,
libertà di circolazione del sapere e
della conoscenza. Se si ragiona un
attimo su queste dimensioni, ci si
rende conto che fanno parte del-
l’ethos del lavoro scientifico: l’etica
hacker e le norme deontologiche
dello scienziato moderno hanno le
stesse caratteristiche. Questo vuol
dire che gli hacker sono una forma
di scienziato contemporaneo, una
specie di particolare lavoratore
della conoscenza. Similmente an-
che il software open source ha le
stesse caratteristiche di condivisio-
ne indipendenza e libertà.
Questo vuol dire semplicemente
una cosa: non è l’open source ad
essere intelligente.
È l’intelligenza ad essere open
source.
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