Radici ebraiche della fede cristiana
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Questo libro rifiuta certi estremismi di alcuni, ma invita ad attingere con sobrietà alla lingua ed alla cultura ebraiche per una migliore interpretazione del Nuovo Testamento ed una più completa compren-sione di alcuni eventi lì descritti.
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Radici ebraiche della fede cristiana - Giuseppe Guarino
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Le affermazioni di questa studiosa gettano luce sul fenomeno della cultura religiosa ebraica che si spinge al di fuori dei suoi confini, per divenire la cultura propria di chiunque voglia avvicinarsi alla fede del Dio unico ebraico.
In questo contesto non sarà inopportuno notare un ulteriore dettaglio nelle parole dell'Apocalisse: quando Giovanni si riferì a Dio come Colui che è, che era e che viene
, esprimeva una valenza - evoluzione universalistica di un termine ebraico, simile a quella che ha portato alla nascita ed uso di "pantokrator". Giovanni conosceva il Tetragramma, YHVH (in ebraico יהוה), il Nome di Dio rivelato a Mosè nell'Antico Testamento, ma anziché proporlo nell'originale, preferì trasmetterne il significato al lettore di lingua greca.
Le quattro consonanti ebraiche vengono vocalizzate nel testo Masoretico, e, aggiungendo semplicemente le vocali alla sequenza delle consonanti, avremo nel nostro alfabeto YeHoVaH.
In proposito Asher Intrater, ebreo messianico, nel suo libro Chi ha pranzato con Abrahamo
(ed. Perciballi) scrive qualcosa che può spiegare il perché delle parole dell'apostolo Giovanni: Aggiungendo le vocali
e,
o,
a alle consonanti YHVH, si ottiene il nome YeHoVaH. In questa struttura verbale, la
e (sh’va) indica il tempo versale futuro, la
o (holom) il presente e la
a (patach) il passato, dando al nome YeHoVaH il significato di
Egli sarà, Egli è, Egli era: in altre parole, l’Eterno
. Potremmo quindi ipotizzare che Giovanni stesse letteralmente traducendo ed universalizzando l'espressione ebraica צבאות יהוה (Adonai Sebaoth) tradotta di solito nell'Antico Testamento Signore degli Eserciti
.
Molto importante per la corretta lettura del senso dell'incarnazione del Figlio di Dio, è la comprensione del termine greco Logos (Λόγος) – utilizzato nell'originale greco del Vangelo di Giovanni e di solito tradotto Parola
dai protestanti mentre i cattolici preferiscono Verbo
, seguendo la lezione dell'antica versione latina della Bibbia.
"Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio." (Giovanni 1:1)
Si tratta di un vocabolo importante perché nel mondo della filosofia greca il concetto di Logos era già esistente quando Giovanni scriveva il suo Vangelo. Ma ciò non deve indurre a cadere nell'errore di immaginare che l'apostolo si ispirasse a concetti estranei al mondo ebraico: anche qui, una terminologia presa in prestito dalla lingua greca, esprime un concetto profondamente semitico. Gli antichi scrittori cristiani di lingua greca - come Giustino (nel II sec. d.C.) – hanno colto l'occasione per esprimere il senso dell'incarnazione ai non ebrei, proprio sfruttando questa somiglianza fra il Logos greco e quello neotestamentario.
Nulla accade per caso, ne sono profondamente convinto. La lingua ebraica è nata e cresciuta con la fede nel Dio unico ed è per questo che esprime meglio di ogni altra il linguaggio delle cose di Dio. Quella greca aveva raggiunto una grande diffusione ed una maturità perfetta proprio nel momento in cui venne a contatto con l'Antico Testamento: nelle mani giuste, permise di esprimere al meglio qualsiasi tipo di concetto, dal più concreto al più astratto. Divenne la lingua della Settanta prima e del Nuovo Testamento poi, il perfetto veicolo attraverso il quale la fede in Cristo poté essere diffusa in tutto il mondo.
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ORIGINALI IN EBRAICO PERDUTI ?
Il Nuovo Testamento è una raccolta di scritti fondamentalmente indipendenti. È un solo libro, insieme all’Antico Testamento, se ne consideriamo l'unità di intento, gli scopi, e, naturalmente, l'ispirazione dello Spirito Santo. Ma da un punto di vista squisitamente letterario, i libri raccolti nelle Scritture cristiane sono stati scritti in parti diverse del globo, per motivi diversi, da persone diverse, in momenti diversi e per diversi destinatari.
È più che legittimo interrogarci e chiederci: Vi sono parti del Nuovo Testamento che sono state scritte in ebraico?
Fino al 1947, anno in cui vennero scoperti i cosiddetti rotoli del Mar Morto, una domanda di questo genere era impensabile. Infatti era comunemente ritenuto che la lingua parlata in Israele durante il primo secolo fosse l'aramaico
² e non l'ebraico, che si pensava fosse una lingua morta. Speculazioni e teorie si sono infrante sotto il peso delle evidenze: oltre l'85% dei manoscritti rinvenuti nelle grotte di Qumran erano scritti in ebraico. Oggi, quindi, è corretto pensare che se il Nuovo Testamento non venne scritto in greco, l'unica altra lingua nella quale può essere stato scritto è l'ebraico.
Quando si parla di un originale aramaico del vangelo di Matteo, è soltanto l'eco di pubblicazioni ormai datate. È pressoché certo che vi fosse un Matteo semitico che circolava nel periodo della Chiesa antica e che doveva essere scritto in ebraico. Ma per parlare concretamente di un originale ebraico di Matteo dovremmo prima stabilire in quale rapporto l’ipotetico vangelo semitico stava con il Matteo canonico, del quale esiste solo la versione in greco.
Eusebio di Cesarea scrive nel quarto secolo, riportando la credenza comune della Chiesa: Matteo, avendo già proclamato il vangelo in ebraico, quando stava per andare ad altre nazioni, lo mise per iscritto nella sua lingua natia, e così supplì alla sua assenza con loro, per mezzo del suo scritto
. Storia Ecclesiastica, libro 1, capitolo 24.
Tutto nel vangelo di Matteo è ebraico: luoghi, idee, la gente, la cultura, ecc... Ma la verità è che se anche l'autografo di questo vangelo era realmente in ebraico, ne è comunque sopravvissuta soltanto la versione in greco. È quindi saggio parlare di ciò che sappiamo e di un testo in nostro possesso, piuttosto che avventurarci alla cieca nel regno delle congetture. Più avanti in questo libro parlerò di nuovo della possibilità di un Matteo ebraico.
Recentemente è stata sostenuta la tesi della composizione originale in ebraico anche per il vangelo di Marco. Jean Carmignac è uno studioso che stimo moltissimo. Ritengo la sua opera La nascita dei Vangeli Sinottici
indispensabile sia per lo studioso sia per chi è interessato alla questione da semplice credente. Egli sostiene che il greco di Marco è troppo facile a tradursi in ebraico e che ciò dimostrerebbe che il secondo Vangelo, come noi lo possediamo, altro non sarebbe che la traduzione letterale di un originale ebraico perduto. La sua teoria è senz'altro affascinante e per molti versi seducente. Ma non vi è alcuna concreta prova oggettiva a sostegno di questa tesi. Marco, infatti, ci è stato preservato in greco soltanto e lo stesso Eusebio citato poco fa narra proprio che l'evangelista mise per iscritto in greco le memorie dell'apostolo Pietro. In ultimo, se mai fosse del tutto accertato che dei frammenti di Marco si trovavano nella grotta 7 di Qumran come sostengono O'Callaghan e Thiede, la possibilità di un originale semitico diviene ancora più remota.
Non vi è alcun motivo valido per dubitare delle parole che troviamo all'inizio del vangelo di Luca.
"Poiché molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione dei fatti che hanno avuto compimento in mezzo a noi, come ce li hanno tramandati quelli che da principio ne furono testimoni oculari e che divennero ministri della Parola, è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall'origine, di scrivertene per ordine, illustre Teofilo, perché tu riconosca la certezza delle cose che ti sono state insegnate." (Luca 1:1-4)
L'evangelista parla di altri scritti sulla vita di Gesù. Con evidente mentalità greca riassicura Teofilo, il suo ipotetico primo destinatario, di aver effettuato accurate ricerche che rendono attendibile quanto sta per narrare. L'accuratezza del lavoro di ricerca dell'autore del terzo vangelo è dimostrata dal fatto che, abbandonato il livello di greco quasi classico e retorico della sua introduzione, conserva nel resto del suo scritto un numero di semitismi persino superiore a quello degli altri due sinottici. Ciò è chiaro sintomo che egli ha attinto a dei documenti o memorie autentiche, in ebraico, e che si è sforzato di rimanere il più fedele possibile al pensiero ebraico, anche a spese del livello letterario suo greco.
Alcuni sostengono che l'epistola agli Ebrei sia stata originariamente composta in ebraico e che la traduzione in greco oggi in nostro possesso sia stata eseguita da Luca. Non vi sono prove che ciò sia accaduto, nessuna traccia nelle evidenze manoscritte. Al contrario, vi sono delle citazioni all'inizio del libro che sembrano armonizzarsi con il contesto solo se provengono dalla versione in greco dell'Antico Testamento (LXX). Questo l'ho riscontrato personalmente studiando l'inizio di questo meraviglioso trattato - il termine epistola sta un po' stretto a questa porzione della Scrittura, anzi non gli si addirebbe affatto se non fosse per la chiusa. Solo congetture quindi su un possibile originale ebraico di Ebrei. Le uniche prove oggettive, la consolidata e variegata tradizione manoscritta, sono a favore di una composizione in greco anche per questo