Introduzione
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appartenendo alla struttura gerarchica della Chiesa, interessa tuttavia indiscutibilmente
alla sua vita e alla sua santità” (LG 44).
2
che è la Chiesa. La vocazione religiosa è chiamata di Dio “per la più grande
santità della Chiesa”. C’è un dinamismo di vita trinitaria che anima la Chiesa,
guidandola verso la piena partecipazione alla vita divina. Lo Spirito Santo non è
un sobillatore di sette misteriche di perfetti, ma è l’architetto geniale di un
edificio spirituale che è patria di tutti.
L’eccellenza della vocazione religiosa produce una maggior gloria della
Trinità la quale − nel compimento del mistero di Cristo − trasmette alla Chiesa
la sua santità. Nel linguaggio della Bibbia la gloria di Dio non è risonanza
effimera di grandezze umane. Essa costituisce invece la manifestazione del Dio
santo e salvatore nella storia degli uomini.
In questo orizzonte di storia della salvezza dobbiamo ricordare che santa
Chiara non è un reperto da museo, né una defunta da commemorare. È un
membro vivo del corpo di Cristo, e la sua esperienza evangelica appartiene al
nostro cammino di santificazione sulle vie del Vangelo, all’interno della Chiesa.
La teologia del Nuovo Testamento ci insegna che i carismi, nella Chiesa,
non si agitano in modo selvaggio, ma sono sottoposti alla valutazione sapiente
dell’autorità ecclesiale. Non sono l’apoteosi dell’individualismo, ma il sigillo di
una vita donata nel servizio della comunità. Già san Paolo sottolinea il
necessario legame tra l’effervescenza dei possibili doni dello Spirito e il
necessario discernimento ecclesiale:
“Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio che restiate nell’ignoranza. Vi sono
[…] diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma
uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera
tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per
l’utilità comune” (1Cor 12,1.4-7).
3
l’insegnamento della lettera ai Corinzi scrive:
“E questi carismi, straordinari o anche più semplici e più largamente diffusi, siccome
sono soprattutto appropriati e utili alle necessità della Chiesa, si devono accogliere con
gratitudine e consolazione. I doni straordinari però non si devono chiedere
temerariamente, né con presunzione si devono da essi sperare i frutti dei lavori
apostolici; ma il giudizio sulla loro genuinità e sul loro esercizio ordinato appartiene a
quelli che presiedono nella Chiesa, ai quali spetta specialmente, non di estinguere lo
Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono” (ivi 12).
Questa unità armoniosa della Chiesa, nella grazia dello Spirito, può essere
compresa solo nell’accoglienza profonda della nostra professione di fede. Nel
terzo articolo del Simbolo Apostolico professiamo di “credere la Chiesa”.
Diciamo “credo in Dio”, ma non diciamo “credo nella Chiesa”, perché la Chiesa
non è Dio. Diciamo invece “credo la Chiesa”, nel contesto dell’articolo del
Credo che tratta dello Spirito Santo, per indicare che crediamo all’azione dello
Spirito nella Chiesa. Crediamo dunque che la Chiesa è animata e assistita dallo
Spirito santificatore, che guida i credenti “alla verità tutta intera” (Gv 16,13).
4
vissuta e professata della Chiesa.
2. L’orizzonte francescano:
“exemplo et doctrina beati Francisci” (RegCh VI,1)
1
Cf. T. MATURA, François d’Assise “Auteur spirituel”. Le message de ses écrits, Les
Èditions du Cerf, Paris 1966.
5
assume una forza obbligante perenne. La forma vivendi ricevuta assurge ad
oggetto di una promessa irrinunciabile: la fedeltà di santa Chiara è rivolta a Dio
e alla volontà di san Francesco.
“Ed io, Chiara, […] pianticella del padre santo, poiché meditavo, assieme alle mie
sorelle, la nostra altissima professione e la volontà di un tale padre, […] del santo
padre nostro Francesco − che ci era colonna e nostra unica consolazione dopo Dio e
sostegno […]” (TestCh 37-38).
Notiamo che Innocenzo III morì nel 1216; quindi possiamo ritenere che
questo testo risalga alla primitiva formulazione della Regola, approvata
oralmente dal Papa negli anni 1209-10, agli inizi dell’avventura minoritica. A
quei tempi certamente il piccolo gruppo di giovani penitenti assisani non doveva
fronteggiare complicate problematiche istituzionali. L’adesione al “signor Papa”
è espressione di una fede semplice e spontanea, che cerca il sigillo ecclesiale ad
un desiderio di vita evangelica sperimentato come dono dello Spirito.
6
L’ultimo capitolo della Regola non bollata riprende l’ispirazione iniziale e
la conferma, qualificando il testo legislativo come un progetto di vita stabile e
obbligante.
“E da parte di Dio onnipotente e del signor Papa, e per obbedienza io, frate Francesco,
fermamente comando e ordino che nessuno tolga o aggiunga scritto alcuno a quelle
cose che sono state scritte in questa vita, e che i frati non abbiano un’altra Regola” (ivi
XXIV,4).
Non è banale notare che la ferma ed esclusiva obbedienza alla Regola, che
Francesco impone ai frati, è proposta “da parte di Dio onnipotente e del signor
Papa”. Mi sembra impossibile trascurare l’importanza di queste affermazioni
programmatiche, che si collocano all’inizio della vita minoritica. Per una giusta
considerazione di queste proclamazioni solenni di fedeltà al pontefice è utile uno
sguardo comparativo alle grandi regole monastiche precedenti. Le regole
monastiche classiche, come quelle di Pacomio, di Basilio, di Agostino, di
Benedetto non hanno riferimenti cospicui al vescovo di Roma, essendo state
composte in situazioni ecclesiali profondamente diverse da quella medievale2.
Questo non vuol dire − evidentemente − che queste forme di vita monastica più
antiche non fossero radicate nella comunione ecclesiale. Ma non avevano
bisogno di esplicitare, in maniera normativa, una comunione già profondamente
vissuta nella fede.
È solo nei codici monastici più moderni, generati in un contesto ecclesiale
post-gregoriano, che il ruolo del papato viene progressivamente più accentuato.
Il vincolo con la S. Sede è vissuto molto esplicitamente, ad esempio, dai primi
monaci certosini, dai cistercensi e dagli eremiti carmelitani. A vario titolo e con
peculiarità proprie, tutte queste esperienze monastiche si pongono
programmaticamente “sotto le ali della protezione apostolica”3, come si esprime
l’Exordium Parvum dei primi monaci cistercensi. Ma in nessun’altra Regola, ci
pare, possiamo trovare lo spessore dell’obbedienza diretta contenuta nella
Regola minoritica, che assume la sottomissione al Papa e alla Chiesa romana
nella sua struttura portante.
Mi sembra che Francesco tematizzi ed affermi molto più chiaramente
degli altri fondatori il suo legame di obbedienza verso la Chiesa romana.
2
Cf. G. TURBASSI, Regole monastiche antiche. Studium, Roma 1974.
3
I PADRI CISTERCENSI, Una medesima carità. Gli inizi cistercensi, a cura di A.
AZZIMONTI, Qiqajon, Magnano (BI) 1996, 54; cf. anche I PADRI CERTOSINI, Fratelli nel
deserto. Fonti certosine II. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, a cura di
C. FALCHINI, Qiqajon, Magnano (BI) 2000.
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Probabilmente l’affermazione più categorica e tagliente di Francesco è quella
contenuta nel capitolo XIX della Regola non bollata, dal titolo estremamente
significativo: “che i frati vivano cattolicamente” (quod fratres vivant catholice).
“Tutti i frati siano cattolici, vivano e parlino cattolicamente (Omnes fratres sint
catholici, vivant et loquantur catholice). Se qualcuno poi a parole o a fatti si
allontanerà dalla fede e dalla vita cattolica e non se ne sarà emendato, sia espulso
totalmente dalla nostra fraternità. E riteniamo tutti i chierici e tutti i religiosi per
padroni in quelle cose che riguardano la salvezza dell’anima e che non deviano dalla
nostra religione, e veneriamone l’ordine sacro, l’ufficio e il ministero nel Signore” (ivi
XIX,1-4).
Tutti gli studiosi sottolineano che la Regola non bollata presenta una
tonalità più spirituale, libera e profetica; mentre la bollata sarebbe più giuridica
e condizionata dagli interventi della Curia romana. Si dice, di solito, che la
prima conserva più fedelmente il fascino e la spontaneità della primitiva
esperienza francescana. Ebbene: notiamo che proprio in questo testo, più libero
e spontaneo, l’adesione di Francesco alla Chiesa e l’appartenenza
orgogliosamente cattolica hanno un tono più gagliardo. La conformità ecclesiale
riguarda l’essere, il vivere e il parlare, coinvolgendo dunque l’adesione
intellettuale, morale e pastorale nella vita della Chiesa. Francesco è persino
intransigente e intollerante verso i frati che non siano, vivano e parlino da
cattolici. Per chi si allontana “dalla fede e dalla vita cattolica” Francesco impone
senza remissione la totale espulsione dalla fraternità (a nostra fraternitate
penitus expellatur).
Anche la Regola bollata, nondimeno, ripete all’inizio e alla fine il
principio dell’obbedienza al papa Onorio:
“Frate Francesco promette obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi
successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a
obbedire a frate Francesco e ai suoi successori. […]
Inoltre, impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei
cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di
questa fraternità, affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa
Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, l’umiltà e il santo Vangelo
del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso” (Rb I,2-3; XII,3-
4).
8
correttore dell’itinerario di fede cattolica della comunità minoritica. Scompare
invece la normativa così sbrigativamente severa della Regola non bollata, che
prevedeva l’espulsione immediata dall’Ordine dei frati che non vivessero
cattolicamente.
Notiamo che il testo della Regola bollata, quella scritta sotto l’influsso
della Curia romana, è meno esigente, quanto al vivere da cattolici, rispetto alla
precedente Regola non bollata!
Un’altra testimonianza non trascurabile ci deriva dalla Lettera a tutto
l’Ordine, scritta certamente dopo il 1219, che ci fa capire come Francesco
avesse dell’essere cattolico un concetto molto concreto e quotidiano4. In questo
testo, rivolto a tutti i frati, Francesco richiama l’attenzione su alcuni punti
qualificanti della loro professione religiosa: la celebrazione della S. Messa e
dell’Ufficio divino, la venerazione per la Sacra Scrittura, l’osservanza della
Regola.
Per Francesco è frate minore, ed è cattolico, chi osserva queste norme. Il
Santo esprime un giudizio duramente intransigente nei confronti di quei frati che
vengano meno ai doveri connessi con lo stato religioso:
“Quei frati, poi, che non vorranno osservare queste cose, non li ritengo cattolici, né
miei frati; non li voglio neppure vedere né parlare con loro, finché non abbiano fatto
penitenza. Lo stesso dico anche per tutti gli altri che vanno vagando, incuranti della
disciplina della Regola; poiché il Signore nostro Gesù Cristo dette la sua vita per non
venir meno all’obbedienza del Padre santissimo” (LOrd 44-46).
4
In questa lettera, come in quella A tutti i chierici sulla riverenza al Corpo del
Signore, troviamo una risonanza al decreto papale Sane cum olim del 22 novembre 1219. In
esso papa Onorio III, applicando i decreti del Concilio Lateranense IV, esortava alla
celebrazione e alla partecipazione devota all’Eucaristia. Cf. C. PAOLAZZI, Lettura degli
“Scritti” di Francesco d’Assisi, Ed. Biblioteca Francescana, Milano 2002, 239-249.
9
Mi sembra importante, in un’analisi di questo tipo, tener presente il
criterio dell’attestazione multipla, ossia il fatto che le stesse affermazioni
ricorrano in numerosi testi, diversi tra loro per tempo di composizione e per
genere letterario. L’ultima testimonianza ci deriva dal Testamento di san
Francesco, che rievoca i tempi mitici dell’inizio e nello stesso tempo esorta i
frati ad una fedeltà eroica ai valori irrinunciabili della vocazione minoritica.
Nella ricostruzione degli ideali originari del francescanesimo è difficile
sopravvalutarlo. Certamente è un testo che non risente dell’influenza del
cardinale Ugolino o della Curia romana. È dettato per i frati, dal fondatore ormai
morente, come conferma e incoraggiamento alla fedeltà vocazionale.
La fedeltà alla Chiesa è affermata, se possibile, in maniera ancora più
forte che negli scritti precedenti.
“Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo
la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se mi
facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. E se io avessi tanta sapienza,
quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo,
nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà. […]
E tutti gli altri frati siano tenuti a obbedire così ai loro guardiani e a recitare l’ufficio
secondo la Regola. E se si trovassero dei frati che non recitassero l’ufficio secondo la
Regola, e volessero comunque variarlo, o non fossero cattolici, tutti i frati, ovunque
sono, siano tenuti, per obbedienza, ovunque trovassero uno di essi, a consegnarlo al
custode più vicino al luogo ove l’avranno trovato. E il custode sia fermamente tenuto,
per obbedienza, a custodirlo severamente, come un uomo in prigione, giorno e notte,
così che non possa essergli tolto di mano, finché non lo consegni di persona nelle mani
del suo ministro. E il ministro sia fermamente tenuto, per obbedienza, a farlo scortare
per mezzo di tali frati che lo custodiscano giorno e notte come un prigioniero, finché
non lo consegnino al signore di Ostia, [ossia al cardinal protettore] che è signore,
protettore e correttore di tutta la fraternità” (TestF 6-7.30-33).
10
Francesco non è riconducibile a schemi di comodo. Quando sono in gioco i
valori capitali della vocazione minoritica, come la povertà, la vita evangelica, o
l’obbedienza alla Chiesa, Francesco sa diventare intransigente.
Possiamo credere che santa Chiara non abbia accolto, insieme a tutti gli
altri insegnamenti di Francesco, anche questo sul legame strettissimo con la
Chiesa?
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evangelica e la custodia ecclesiale del carisma delle Sorelle Povere. Il cardinal
protettore deputato alla cura dei frati vigilerà anche sulle figlie di santa Chiara.
“Inoltre le sorelle siano fermamente tenute ad avere sempre come governatore,
protettore e correttore, quel cardinale della santa Chiesa romana che sarà stato
assegnato ai frati minori dal signor Papa; affinché suddite sempre e soggette ai piedi
della stessa santa Chiesa, salde nella fede cattolica, osserviamo in perpetuo la povertà
e l’umiltà del Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, e il santo
Vangelo, come abbiamo fermamente promesso. Amen” (ivi XII,12-13).
Scopo del visitatore era di tenere desto il rapporto con i frati minori e con
la Chiesa. Mi sembra notevole tuttavia che il visitatore non sia un delegato del
ministro dei frati, ma che sia nominato dal cardinale protettore. È un po’ quello
che avviene oggi per gli Assistenti delle Federazioni delle Clarisse, che vengono
nominati dalla S. Sede, non dai ministri provinciali. Al visitatore è demandata la
5
Cf. GIORDANO DA GIANO, Cronaca 14.
12
custodia e la correzione dell’osservanza della forma di vita, quella ricevuta da
Francesco (cf. ivi VI).
Non si può nemmeno ricondurre a mera formalità burocratica l’esame
diligente che viene prescritto per l’accoglienza delle novizie. Nelle aspiranti si
richiede la risoluta confessione della fede e dei sacramenti della Chiesa, unita
alla ferma volontà di osservarla sino alla fine (cf. ivi II,3-4).
Più che in altri testi però è nel Testamento di Chiara che troviamo la
testimonianza più convincente della sua fiducia nei confronti della Chiesa. Le
parole della Santa ci offrono la memoria appassionata dei primi tempi eroici
della comunità di S. Damiano, e insieme affermano con vibrante impegno la
fedeltà futura alla quale le sorelle si sentono impegnate6. Chiara espone innanzi
tutto il ricordo di un doppio legame passato, che ha caratterizzato gli inizi della
comunità damianita.
“E come io sono stata sempre diligente e sollecita nell’osservare io medesima, e nel
fare osservare la santa povertà, che abbiamo promessa al Signore e al santo padre
nostro Francesco, così le sorelle che succederanno a me in questo ufficio, siano
6
Sul Testamento di Chiara si è svolto un acceso dibattito, provocato dal libro di W.
MALECZEK, Chiara d’Assisi. La questione dell’autenticità del Privilegium paupertatis e del
Testamento, Ed. Biblioteca Francescana, Milano1996. Questo autore ha sostenuto che il
Privilegium Paupertatis sarebbe un falso, fondamentalmente perché la sua redazione non
corrisponde allo stile della cancelleria papale del tempo. Maleczek ne deduce che, se il testo
del Privilegium Paupertatis è falso, sono falsi tutti i documenti che ne parlano. Siccome il
Testamento di Chiara parla del Privilegium Paupertatis lo studioso conclude che anch’esso
sarebbe un falso. Secondo le sue ipotesi questo testo sarebbe nato sicuramente nell’ambito
della riforma delle Clarisse nel periodo dell’Osservanza, cioè nel 1400. Le autrici della
falsificazione del Privilegium e del Testamentum andrebbero cercate tra le clarisse del
monastero di Perugia. Scopo della doppia falsificazione sarebbe stato quello di potersi
liberare di quelle suore che si opponevano alla riforma dei monasteri secondo criteri di
maggiore povertà. Quindi tutti i codici che riportano il Testamento di Chiara, secondo
Maleczek, dovrebbero essere del 1400, quando i monasteri osservanti si stavano riformando.
Abbiamo quattro manoscritti che riportano il Testamento e tutti, come il manoscritto di
Uppsala e quello di Messina, secondo questa tesi, dovrebbero per forza essere stati scritti alla
fine del 1400. Al contrario Attilio Bartoli Langeli ha pubblicato una ricerca di fondamentale
importanza: A. BARTOLI LANGELI, Gli autografi di frate Francesco e di frate Leone, “Corpus
Christianorum, Autographa Medii Aevi” V, Turnhout 2000. Dopo un’eruditissima ed
esaustiva ricerca condotta sul manoscritto di Messina, conclude che esso risale al XIII secolo.
Egli arriva anche a scrivere: “La mia opinione è che il manoscritto messinese sia della mano
di frate Leone” (125). Pare troppo affrettata dunque la certezza con cui alcuni autori ritengono
che il Privilegium Paupertatis e il Testamentum di Chiara (e anche le affermazioni contenute
nella Legenda) siano dei falsi. Lo stesso dicasi per l’asserita esclusione di rapporti tra S.
Damiano e Innocenzo III. Tutta la loro sicurezza pare basata sull’opera citata di Maleczek,
che sembra essere molto discutibile. Cf. anche N. KUSTER, Il “Privilegio della povertà” di
Innocenzo III e il “Testamento” di Chiara: autentici o raffinate falsificazioni?, in Forma
Sororum 36 (1999), 2-15, 82-95, 162-179, 242-257; 37 (2000), 31-44, 109-125, 182-194.
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obbligate ad osservarla e a farla osservare dalle altre fino alla fine. Ma ancora, per
maggior cautela, mi preoccupai di ricorrere al signor papa Innocenzo, durante il
pontificato del quale ebbe inizio il nostro Ordine (sub cuius tempore coepimus), ed ai
successori di lui, perché confermassero e corroborassero con i loro papali privilegi
(eorum privilegiis facere roborari), la nostra professione della santissima povertà, che
promettemmo al nostro beato padre, affinché mai, in nessun tempo ci allontanassimo
da essa” (TestCh 40-43).
Una nota delle Fonti Francescane (vecchia edizione) vede qui un preciso
riferimento al Privilegio della povertà, che Chiara ottenne una prima volta da
papa Innocenzo III nel luglio del 1216 e che si fece confermare dai suoi
successori. Forse il riferimento non è così ristretto. Il richiamo ai “loro” privilegi
è troppo generale per leggervi un rimando esclusivo al Privilegio della povertà
del 1216. Credo che ci si riferisca, in maniera globale, alle ripetute approvazioni
(formali e informali) e alla protezione offerta da Innocenzo III, e
successivamente dai vari pontefici alla forma di vita condotta a S. Damiano.
Uno di questi interventi positivi (non il solo) è stato il Privilegio della Povertà.
In ogni caso viene qui attestato che il primo Papa che approvò e protesse le
sorelle di S. Damiano fu Innocenzo III. Ma torneremo tra breve su questo
problema. Notiamo intanto che, dalla memoria delle origini, Chiara trae il
coraggio per effettuare un doppio affidamento, che qualificherà il futuro della
comunità:
“Per la quale cosa, piegando le ginocchia e inchinandomi profondamente, anima e
corpo, affido in custodia alla santa madre Chiesa romana, al sommo Pontefice, e
specialmente al signor cardinale che sarà deputato per la Religione dei frati minori e
nostra, tutte le mie sorelle, le presenti e quelle che verranno, perché, per amore di quel
Signore, che povero alla sua nascita fu posto in una greppia, povero visse sulla terra e
nudo rimase sulla croce, abbia cura di far osservare a questo suo piccolo gregge −
questo che l’altissimo Padre (Dominus Pater), per mezzo della parola e dell’esempio
del beato padre nostro Francesco, generò nella sua santa Chiesa, proprio per imitare la
povertà e l’umiltà del suo diletto Figlio e della sua gloriosa Madre vergine −, la santa
povertà, che a Dio e al beato padre nostro Francesco abbiamo promessa, e si degni
ancora di infervorare e conservare le sorelle in detta povertà” (ivi 44-47).
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Chiara si pone tra la maternità di Maria e la maternità della Chiesa. Le damianite
riconoscono nella Chiesa la loro Madre perché Dio Padre le ha generate − per
mezzo di Francesco − nella Chiesa Madre, come generò Gesù nella Vergine
Madre. La maternità ecclesiale deriva dalla fecondità di Dio. Non è una
soggezione giuridica ma un legame genetico. Francesco è strumento
provvidenziale della divina generazione. E come Cristo è nato ed è vissuto
povero con sua Madre, così le sorelle vogliono assumere la sua povertà e
chiedono alla Chiesa di farsene custode.
In parallelo all’affidamento ecclesiale c’è quello all’Ordine dei frati
minori:
“Inoltre, come il Signore donò a noi il beatissimo padre nostro Francesco come
fondatore, piantatore e sostegno nostro nel servizio di Cristo e in quelle cose che
promettemmo a Dio ed al medesimo nostro padre, ed egli, finché visse, ebbe sempre
premurosa cura di coltivare e far crescere noi, sua pianticella, con la parola e con le
opere sue; così io affido le mie sorelle, presenti e future al successore del beato padre
nostro Francesco e ai frati tutti del suo Ordine, perché ci siano d’aiuto a progredire
sempre di più nel bene nel servizio di Dio e soprattutto nell’osservare meglio la
santissima povertà” (ivi 48-51).
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La via del Signore non costituisce un itinerario da percorrere in modo
individualistico. Della propria vocazione si rende conto anche alla Chiesa.
Tradire la propria vocazione è un’ingiuria a Cristo, alla Madonna, a san
Francesco e alla Chiesa, ossia a tutti coloro che ne sono, a vario titolo, autori e
cooperatori. Nel progetto di vita religiosa delle sorelle povere resta essenziale
questa volontà di rimanere “suddite e soggette ai piedi della santa Chiesa”
(RegCh XII,13), ossia di vivere “secondo la forma della santa Chiesa romana”
(TestF 6), come aveva deciso Francesco.
(continua)
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