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«Quaderni di storia», 63, gennaio/giugno 2006, pp.

282-286

ANCORA SUL VANGELO DI GIOVANNI, 20, 7

Nella riflessione di Hegel, tra la Fenomenologia dello spirito e le Lezioni sulla filosofia della
storia, la «figura del sepolcro», del «sepolcro vuoto» che è meta delle crociate, sempre inattingibile
ed incompiuto oggetto a cui tende, nel proprio frustrato anelito alla piena conoscenza, la «coscienza
infelice», acquisisce tutta una serie di valenze simboliche e di implicazioni gnoseologiche. «La
coscienza non si trova mai in presenza della sua vita, ma solo del sepolcro. (…) C'è una crociata
della coscienza sensibile per il possesso del qui; c'è una dialettica dell'animo pio alla ricerca del
sepolcro; l'uno e l'altro si corrispondono, ed entrambi non concludono nulla». Su ogni
investigazione puramente razionale, esclusivamente umana, che voglia spingersi oltre la soglia del
fenomeno, che tenti di gettare lo sguardo nelle tenebre che avvolgono ciò che sta al di là del
naturale e del sensibile, grava il monito insito nella vacuità del sepolcro, nella parola dell'angelo che
domanda alle donne perché cercano fra i morti colui che è vivo. Lo sguardo timoroso di Pietro,
accorso al sepolcro, e parakypsas, chinatosi cautamente per scrutare nel buio, i suoi occhi esitanti
sul limitare dell'ombra, che scorgono soltanto gli othonia, i linteamina, cioè le bende, o meglio i teli
(Lc, 24, 12), e non quel sudario in cui risiede, come si vedrà, il nodo interpretativo essenziale della
questione, possono essere - e ciò non sfuggiva ai commentatori antichi - emblema di questa
distanza, di questa oltranza dell'oggetto rispetto alla percezione sensibile e alla conoscenza
razionale, di questo, per così dire, iato conoscitivo.
Tale dismisura ermeneutica - che ricalca, in definitiva, l'essenziale «differenza ontologica» tra
l'umano e il divino, il tempo e l'eterno - configura il fondo insondabile, l'intrico forse insolubile
connessi ad un controverso passo del quarto vangelo, su cui ha sollevato nuove questioni Silvano
Villani, prima con il libro Il mistero del sepolcro vuoto (Milano, Eleuthera, 2000), poi con l'articolo
Il rebus del quarto Vangelo, Gv 20, 7. Che ne pensano i grecisti?, apparso su «Quaderni di storia»,
n. 57 (2003), pp. 215-222. Che, sollecitato o meno dal libro di Villani, Jean Galot abbia proposto,
con l'avallo di Charles de Cidrac, una nuova traduzione di un passo apparentemente limpido e
piano, tanto da indurre Agostino (Tractatus in Johannis Evangelium, CXX, 8) a rinunciare al
«divino diletto» di indugiare sui dettagli minuti e «di per sé evidenti» offerti da quelle righe, per
affrettarsi verso la trattazione di punti più ardui, non deve a mio avviso destare particolare stupore,
né far pensare ad una opportunistica manipolazione, ad una cautelosa forzatura della lettera del testo
volte a preservare l'interpretazione canonica da dubbi e problemi. Sono proprie di ogni testo denso,
complesso, carico di sfumature interpretative, di implicazioni culturali, di valenze e risonanze
storiche - e a maggior ragione della scrittura sacra, che deve costringere entro il mezzo, fatalmente
mutevole, parziale, polisenso, delle lingue umane, la verità soprannaturale ed eterna della
rivelazione e del Verbo -, la vertiginosa ricchezza, la molteplicità inesauribile ed insondabile dei
significati, dei valori, delle esegesi. Come osservava, nella sua eterodossa, e per l'epoca scandalosa,
Vita di Gesù, Ernest Renan, nella cui riflessione lo spirito indagatore del metodo storico non sembra
avere del tutto oscurato la giovanile fede, il Cristo - la cui vita, per lo storico che ha sostituito al
canone della fede quello, altrettanto severo, ma meno umano e vitale, dello scientismo, «finisce con
il suo ultimo sospiro» - ha fondato il «culto puro», la «religione assoluta», i cui simboli «non sono
immoti dogmi, ma immagini capaci di infinite interpretazioni». La perpetua vitalità di un messaggio
risiede anche nella varietà e nella fecondità delle sue riletture, risemantizzazioni, riscritture, che non
possono certo fondarsi sul nulla, sull'arbitrio del singolo interprete, ma che neppure possono essere
represse e troncate dall'aderenza ad una pretesa oggettività e letteralità dei fatti e dei testi - a quella
«lettera», a quel gramma che, secondo un'antitesi paolina (2Cor., 3, 6) pregna di valenze
ermeneutiche, «uccide», mentre «lo Spirito (pneuma) vivifica».
Del resto, la traduzione proposta dal Galot («il sudario (…) era posto in mezzo ai teli senza
essere disteso, ma distintamente ripiegato su se stesso») in luogo dell'interpretazione finora invalsa
(«il sudario (…) non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte»), che a parere di Villani
dovrebbe indurre a credere che qualcun altro fosse presente nel sepolcro quando il corpo di Cristo lo
lasciò, non sembra priva di riscontri e di verosimiglianza sul piano lessicale. È interessante notare
che il greco ha eis ena topon (alla lettera «in un solo luogo», «in unum locum» nella Vulgata), non
«in un altro luogo» («in alterum locum», «in alium locum», per citare sintagmi impiegati da
Girolamo, in corrispondenza di eis topon allon, nel tradurre Num. 23, 12), che sarebbe più
verosimile incontrare se choris significasse «separatamente», «a parte». Altrettanto rilevante appare
l'uso dello stesso infrequente verbo entulissein, che ha rare attestazioni classiche (ad esempio in
Aristofane, Pluto 692 e Nuvole 987), ma che è impiegato - forse non a caso - in due passi evangelici
(Mc, 27, 59 e Lc, 23, 53) per indicare l'atto di avvolgere nella sindone il corpo di Gesù; il che
farebbe pensare che il sudario fosse rimasto nello stesso assetto, nella stessa postura che aveva
assunto al contatto del corpo: un sudario che parrebbe, dunque, piuttosto «avvolto su se stesso»
(«involutum», dice la Vulgata), come vuole l'interpretazione di Galot, che non «piegato» (che
Girolamo, così attento, come dice l'epistola a Pammachio De optimo genere interpretandi, ad
auscultare il «mysterium» che è insito nello stesso «verborum ordo», avrebbe più verosimilmente
reso «complicitum»). Né mancano, già nel greco classico, esempi di choris usato nel significato di
«distintamente», pur se con riferimento ad operazioni di carattere più mentale, argomentativo,
retorico, che non pratico e tecnico: ad esempio, Platone utilizza l'avverbio in un passaggio (Sofista,
248a) che allude alla diairesis, alla «distinzione» tra ghenesis e ousia, e Isocrate, in una pagina
dell'orazione Sullo scambio dei beni, impiega la locuzione choris poiein per indicare, in accezione
retorica, la «distinzione» schematica dei kephalaia, dei punti essenziali e dei membri logici del
discorso (XV, 68).
Non deve sorprendere, a mio avviso, la duplice valenza, concreta ed intellettuale, di questa
distinctio. Tommaso d'Aquino - maestro di dialettica, esempio inarrivabile di sottigliezza
intellettuale e di esattezza terminologica -, nel commento al passo in questione contenuto nelle sue
Super Evangelium Sancti Ioannis lecturae (per l'esattezza Caput XX - lectio I), vedeva nel sudario
(«separatum ab aliis, et involutum, et in unum locum») un simbolo della «divinitas Christi occulta
(…) et separata ab omni creatura», e nel fatto che esso fosse «involutum (…) quasi in modum
circuli», tanto che non se ne potevano scorgere «nec initium nec finis», una spia della «celsitudo
divinitatis (…), quae nec coepit esse nec desinit»; il sudario era, poi, avvolto su se stesso «in unum
locum», in un solo punto, quasi a significare che «Deus non habitat ubi est scissura mentium», ma
dove gli intelletti e le anime sono una cosa sola nella fede e nell'amore di Dio, «unum per
caritatem». Pare quasi che si possa scorgere, nell'esegesi di Tommaso, una sorta di sublime ironia
che frena lo sforzo conoscitivo ed interpretativo della ragione alle soglie del sepolcro, al cospetto
della «celsitudo Dei», davanti al mistero della resurrezione. E in effetti, quasi a confondere e a
smarrire ulteriormente la ragione, la hegeliana «coscienza infelice», che non riesce ad abbracciare, a
mensurare la profondità del Deus absconditus che non ha né principio né fine, arriva una ulteriore
contraddizione, un altro paradosso legato al conflitto e al dissidio delle interpretazioni. Anche la
lettura finora prevalente, pur se con varie sottili sfumature - quella cioè che vedeva il sudario
«piegato in un luogo a parte» -, è stata a volte considerata, nella tradizione esegetica più autorevole
e più vicina, non solo cronologicamente, al clima e allo spirito dell'originale, come una ulteriore
conferma, più che un motivo di dubbio, in merito alla veridicità della risurrezione. Giovanni
Crisostomo (esegeta ligio, in coerenza con gli orientamenti della scuola antiochena, ad una
interpretazione letterale, avulsa dalla tropologia e dall'allegorismo), nelle Omelie sul Vangelo di
Giovanni (per l'esattezza 85, 4-5), osserva che l'ipotetico profanatore del sepolcro non sarebbe stato
così folle da sprecare tempo nello spogliare il corpo e nel riporre ordinatamente il sudario,
accrescendo così il pericolo di essere scoperto. Inoltre, il fatto che il modesto corredo funebre fosse
ancora intatto, non corroso dalla putrefazione e dai vermi, era, per il Crisostomo, conferma della
peculiare natura del corpo di Cristo - sarkinon asarkon, «di carne senza carne», per usare una
suggestiva espressione patristica - nel lasso di tempo, sospeso e silenzioso, che divide, avvolto dal
mistero e dalle tenebre, la morte dalla resurrezione. Analogamente, stando all'interpretazione data
da Cirillo di Gerusalemme nel libro XII del suo commento giovanneo, proprio vedendo il «sudario
avvolto» Pietro e Giovanni credono che Cristo sia davvero risorto, che «abbia spezzato i vincoli
della morte, che un giorno la scrittura aveva predetto».
Due traduzioni diverse, e anzi per certi aspetti antitetiche, possono, senza eccessivo sforzo,
essere fatte convergere verso la conferma di una duplice verità, divisa fra storia e fede. È, questo,
uno dei tanti frangenti in cui si deve inevitabilmente ricorrere al "circolo ermeneutico" delineato, tra
Patristica e Scolastica, dal pensiero cristiano: «Crede ut intelligas, intellige ut credas». Sebbene non
manchino, in un senso e nell'altro, possibili riscontri, alle soglie del sepolcro la filologia deve
cedere il posto alla fede. E la parola delle Scritture conferma di essere semeion antileghomenon (Lc,
2, 34), «segno di contraddizione» - non solo nel senso, primo e più evidente, di un messaggio che
obbliga a scegliere, a schierarsi, che non può non creare divisioni e contrasti, ma anche in quello
ulteriore, che è forse dato scorgere, di un segno, di un intreccio e di una foresta di segni linguistici,
di grammata, di "tracce" scritturali che non possono, per la loro umana finitezza, per la loro
polivalenza irredimibile, non andare soggetti ad una pluralità di possibili, e sempre parziali, letture.
Davanti al mistero della risurrezione, il filologo e l'ermeneuta urtano contro la barriera
invalicabile del noli me tangere. Come osservava, in margine a Gv, 20, 17, l'Agostino del De
Trinitate (I, IX, 18), la risurrezione - l'impalpabile, sovrumana evidenza della "carne senza carne",
della "carne santa", come la chiamava Cirillo nel seguito del passo citato - non tollera verifiche
certe, oggettive, "positive", rifugge il «tactus» che «finem facit notionis». Non si può, in definitiva,
che ripetere, con un pensatore per eccellenza laico come Wittgenstein, che «su ciò, di cui non si può
parlare, si deve tacere», limitandosi ad intravedere la sfera del «Mistico», di ciò che sta al di là o al
di sopra delle parole, e dunque della comprensione, dell'uomo.
Come ci ricorda, nell’omelia sul Prologo del Vangelo di Giovanni, l’accesa e immaginifica
teologia mistica di Giovanni Scoto Eriugena, «Monumentum Christi est divina Scriptura, in qua
divinitatis et humanitatis eius mysteria densissima veluti quadam muniuntur petra». Nel sepolcro di
Cristo, come nello spesso mistero di una scrittura che deve essere pazientemente indagata e
interpretata, sono chiusi e murati i sensi riposti e segreti della parola, che ad una mera “ragione
raziocinante” strettamente ancorata al principio di non contraddizione possono apparire (si ricordi
Tertulliano, De carne Christi, V, 4: «prorsus credibile est, quia ineptum est: (…) certum est, quia
impossibile») come paradossi insolubili o assurdi. Sema è, letteralmente, tanto segno quanto
sepolcro, così come monumentum è sia sepolcro che testimonianza. Il “paradosso” e lo “scandalo”
di una morte apportatrice di vita, di un dio che muore per risorgere, per divenire «primogenitus
mortuorum», corrispondono alla condizione di una parola, di una scrittura che giacciono pietrificate
e murate, nell’attesa che lo sguardo del fedele o dell’interprete, meglio se animati e ispirati dallo
stesso logos pneumatikos, dallo stesso spirito che mosse gli eventi e i pensieri da cui esse
scaturirono, le tocchino, le illuminino e le facciano rivivere.
Se ci si perdona l’indebita e falsa estensione dell’etimologia, il sema e il soma divengono e si
fanno, essi stessi, semeia: lo stesso sepolcro, il corpo stesso di Cristo sono testo, parola, segno da
interpretare, da scomporre e ricomporre, in un incessante processo (storico e filologico nella misura
in cui, pur se fondato su un messaggio di origine e valore eterni e sovrastorici, può andare soggetto
ai diversi orientamenti e ai mutamenti della civiltà e della cultura), senza che, forse, si possa
pretendere di pervenire mai ad una soluzione definitiva.

Matteo Veronesi

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