Socio fondatore di Codici | Agenzia di ricerca sociale e Presidente di Codici | Cooperativa sociale. Esperto di ricerca,
progettazione e intervento in campo sociale, ha una formazione a carattere storico e sociologico. impegnato sui temi
legati alle migrazioni, alla devianza giovanile, ai consumi di sostanze e all'economia illegale e marginale. Per contatti:
massimo.conte@codiciricerche.it
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S. Dagerman, Bambino bruciato, 1994, Iperborea Milano
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S. Dagerman, op. cit., pag. 152
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Il riferimento doveroso agli autori inclusi nel volume n.2/2010 della Rivista Gli Asini
[]Credo che non ci sia gioia pi grande che vendicarsi della sporcizia. La purezza un severo
padrone, caro Bengt, ma ubbidirle porta alla felicit. Per questo bisogna ubbidirle, ubbidirle in
ogni cosa, anche se lubbidienza pu condurre a seri conflitti. []5
Vorrei sostenere, inoltre, che perdere la propria purezza pu condurre a comportamenti e condotte che
sono di segno opposto. Comportamenti attraversati dalla violazione del proprio corpo come di quello altrui
perch latto di vendicarsi, in assenza di una possibile rivolta, pu essere vissuto solo volgendolo contro di
s o contro il simile a s.
Non se ne avr a male, spero, Karen se utilizzo la sua storia per provare a spiegarmi. Cominciamo da pochi
particolari per poterla inquadrare. Karen una giovane peruviana che vive nei pressi di Bergamo con la
madre e la nonna. La madre lavora a Milano come ausiliaria in una residenza per anziani e tutti i giorni
porta Karen con s in macchina. Quando la mamma ha il primo turno, Karen vede lalba dalla sala dattesa
della residenza per anziani, sonnecchiando stesa alla meno peggio su una delle poltrone, poi saluta la
madre per andare a scuola. Alluscita da scuola trova la mamma che la riporta a casa. Se la mamma ha il
turno serale Karen resta ad aspettarla facendo avanti e indietro dalla macchinetta del caff nella sala
dattesa per sgranocchiare qualcosa.
Per molto tempo la vita di Karen scorre cos: i viaggi in macchina, la scuola, le attese, i fine settimana
sempre in famiglia. Poi, succede qualcosa. Karen si stanca. Si stanca del sacrificio, si stanca delle attese, si
stanca di sentire sempre la stessa storia da parte della mamma.
Ecco, c un problema con la storia che le racconta la mamma. una storia che suona come una condanna.
La mamma ha avuto Karen senza avere un rapporto di coppia, la cresce da ragazza madre sotto la vigilanza
severa della propria di madre, negando a se stessa ogni desiderio per il dovere di offrire alla propria figlia la
possibilit di un futuro. La mamma di Karen viene in Italia, trova un primo lavoro, si fa raggiungere dalla sua
famiglia, fa pi lavori contemporaneamente per fare fronte a tutte le spese e mettere da parte i soldi per gli
studi della figlia, rinuncia a delle storie damore per non fare soffrire Karen. La diremmo una storia
esemplare.
Forse il problema proprio questo, troppo esemplare. Ci che esemplare chiede di essere preso a
modello, di diventare norma di condotta. La domanda, cruciale a questo punto della storia, se
sostenibile per una ragazza di diciassette anni una norma di condotta fatta di sacrificio e di umilt: mettere
la propria vita a disposizione di altri, chinare la testa, accettare il peso della giornata, rimandare la
soddisfazione.
Per tornare alle parole di Bengt, Karen si trova schiacciata tra il proprio essere inesperta del mondo e,
proprio per questo, desiderosa di provare piacere nellesplorazione della vita e il proprio essere educata per
corrispondere alle attese del modello esemplare rappresentato dalla propria storia familiare. La richiesta di
sacrificarsi per essere adeguata al sacrificio, di essere fedele alla storia familiare, entra in collisione con il
desiderio di essere diversa.
Non c possibilit di costruire una narrazione o una memoria condivisa con la propria madre: da una parte
una tradizione di dolore e sacrificio che chiede di essere insegnamento morale; dallaltra una saturazione
della capacit di ascolto. Durante una delle nostre conversazioni Karen usa unespressione che mi colpisce;
lei dice che in macchina la storia della madre, ripetuta al ritorno con le stesse parole dellandata, diventa
rumore, un fastidioso rumore di fondo. Non c pi il senso della parola, ma unecolalia che trasforma tutto
in rumore.
Karen vive lo stesso rapporto critico con il proprio tempo che ho visto in altri ragazzi con una esperienza
simile. Sono ragazzi che non riescono a vivere il passato perch la migrazione ha introdotto una
discontinuit che non consente loro di recuperare la propria storia allinsegna di una coerenza. Essere
giovani in migrazione, una migrazione non scelta ma subita, costringe a vivere una rottura, uno
sradicamento che cristallizza la memoria e priva della possibilit di rivivere il proprio passato insieme ai suoi
protagonisti. Non possono neanche riconoscersi nel passato dei propri genitori perch non ne sono stati
partecipi, non hanno contribuito a determinarlo, ma ne hanno solo subito le conseguenze. Sono ragazzi che
non riescono a vivere il presente perch il presente duro, faticoso, carico della delusione che nasce in chi
ha sperato di essere speciale e si trova a essere immigrato, figlio di immigrati. Come si fa a diciassette anni
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ad accettare di essere in fondo alla scala sociale, di essere additato e trattato come straniero, come
invasore? Questi ragazzi leggono i giornali, ascoltano le persone sui mezzi pubblici, loro stessi disprezzano
altri stranieri: insomma hanno ben chiara la loro posizione nella societ. In ultimo, sono ragazzi che non
riescono a vivere il futuro, troppo simile al presente che gli fa schifo, troppo simile al presente dei propri
genitori. Come si fa a credere nel futuro quando limmagine delladulto che dovrebbe porsi come loro
modello di socializzazione limmagine di un perdente della nostra societ? Dignitoso, di valore come
persona (mettiamoci tutte le delicatezze del caso), ma pur sempre perdente.
Karen privata del tempo. Una volta rimosso il passato, rifiutato il presente e annichilito il futuro a lei resta
la possibilit di vivere di frammenti e di intermittenze. La vita scorre in modo non lineare, ma puntiforme,
nella difficolt di ricostruire una trama, esistenziale e vitale, unitaria.
Verrebbe da dire, no grazie. Il fatto che questi ragazzi non si possono permettere linglese compito di
Bartleby6. Non possono rispondere con la formula agrammaticale I would prefer not to, capace di creare
unarea di indeterminatezza che sostituisce la volont di nulla con lavanzare di nulla di volont7.
Sono arrabbiati e disorientati, hanno unurgenza espressiva di ben altro tenore. Non possono
semplicemente ritirarsi e dichiararsi renitenti a una battaglia quotidiana in cui non si riconoscono. Ma non
possono neanche rivoltarsi. Non possono anche perch loro sottratta la possibilit stessa di rivolta.
Come pu Karen rivoltarsi contro la propria madre, come fa a ribellarsi a una storia esemplare, come pu
rivendicare per s una tensione morale che possa contrapporsi a quella della madre? Contro un esempio
non ci si pu scagliare. Allo stesso modo Karen non pu rivoltarsi contro la societ o contro la condizione
umana. Pu dire no, certo che pu farlo, ma priva di ogni possibilit di azione creatrice. Il suo il no del
rifiuto, non della rivolta perch non in condizione di parlare la lingua del progetto, della tensione al
cambiamento: priva del tempo futuro (io far, io sar), priva di una dimensione collettiva (noi
possiamo), priva della possibilit di affermazione (io sono). Altri riescono a mantenere una propria voce,
ma per ragazze e ragazzi come Karen pi difficile. Prima occorre che siano ripristinate le condizioni
minime di affermazione di s. Prima occorre che sia nuovamente sostenibile misurarsi con la dimensione
dellaspirazione a sognare e pensare un mondo possibile di cui essere cittadini.
La rivolta, chiama in causa il conflitto, la contrapposizione di un diverso ordine morale allordine
dominante, di un diverso progetto di societ alla societ attuale. Se al conflitto tolgo la tensione morale e
lidea di progetto resta solo la violenza.
Karen entra in una banda, subisce riti di ingresso allinsegna della violenza, subisce punizioni per supposte
violazioni delle regole. Come Karen, Juan fa lo stesso, anzi di pi. Juan incide il proprio corpo, lo tatua, lo
ferisce coltivando le proprie cicatrici, protagonista di molti scontri in strada, per due volte si avvicina
pericolosamente a uccidere.
Non mi interessa, in questo momento, fare il sociologo dei gruppi di strada dei giovani latinoamericani. Per
questo rimando a un prossimo articolo o ai testi che potete trovare sul nostro sito8. Qui, voglio sottolineare
un aspetto.
Negli ultimi anni a Milano la maggior parte degli episodi che hanno visto protagonisti ragazzi appartenenti
ai gruppi di strada riguarda aggressioni tra pari: giovani che aggrediscono altri giovani che vivono la loro
stessa e identica condizione sociale ed esistenziale. Sono rapine, risse, tentativi di omicidio, omicidi, stupri
che hanno in gioco non un valore economico o uno status (almeno, non in modo prevalente), ma una
questione ben pi complicata da affrontare.
Karen e Juan fanno la stessa cosa: colpiscono se stessi, colpiscono altri ragazzi in tutto identici a loro.
Aggrediscono luguale a s. Se ci pensiamo, anche questa una differenza cruciale dalla rivolta: non
esercito il conflitto contro colui o ci che reputo parte di una irriducibile alterit (il padrone, lo stato, i
fascisti) ma aggredisco ci che sono io. Lidentit dellaggressore, quella per cui indosso la maschera del
cattivo per indossare una identit sociale che mi dichiari costitutivamente diverso dalla societ, sostituita
dallaggressione allidentit, intesa come medesimit: laggressione al mio doppio.
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Il ragionamento di Karen tutto qui: non posso rivoltarmi contro mia madre, non posso rivoltarmi contro la
mia storia familiare, non sono in condizione di cambiare la mia vita. Ci che posso fare colpire me e il mio
doppio. Tutto ci che ho a disposizione vendicarmi della perdita della mia purezza colpendo lunica che
ho: me stessa.
Karen si fermata in tempo. Ha chiesto aiuto e ha trovato la forza di assumersi la responsabilit di quello
che sta succedendo. In questo momento sta lavorando seriamente per non perdere lanno scolastico e
ricostruire il rapporto con la propria famiglia. Lei ha trovato una strada. Altri, come lei, ci sono riusciti.
Altri ancora non ce lhanno fatta e stanno vivendo fino in fondo le conseguenze della propria guerra
personale. Juan tra questi. Quello che non cessa di colpirmi quanto in questi ragazzi sia presente lidea
della propria morte: lidea di essere dei morti che camminano e che la vita sia solo attesa della fine. Una
disperazione di s che priva del futuro e che nasce dallidea di essere definitivamente sporchi, impuri. Una
condizione di perdita della propria purezza che esibita nel corpo, con tatuaggi che non possono essere
rimossi, prima ancora che interiorizzata.
Mi rivolgo unultima volta a Bengt e lascio a lui la responsabilit di una chiusura provvisoria. Io, per ora,
chiudo il libro e vado a dormire.
[]Vi chiederete perch. Voglio rispondervi. Perch sono stanco di vivere. Stanco di vivere qui,
in questo mondo di piccoli cani, piccoli sentimenti, piccoli piaceri, piccoli pensieri. Bisogna
accontentarsi, ma io non voglio accontentarmi. Accontentarmi come un cagnolino. [] Nel
mondo dei piccoli cani tutto fluido, comprese le pietre. Sopra le pietre dellonest scorrono
quelle della disonest. Anche le maschere portano delle maschere. Mettere unaltra maschera
viene definito smascherare. Il mondo dei piccoli cani un mondo dove si ha vergogna di
vivere. Se morire non fosse ugualmente vergognoso, molti lo farebbero. Del resto anche avere
vergogna vergognoso nel mondo dei piccoli cani. A chi si trova male nel mondo dei piccoli
cani non resta che diventare un cane grosso. Lunico vantaggio di essere un cane grosso che
non si ha vergogna di morire. Di vergognarsi di vivere neanche un cane grosso pu evitarlo,
anzi un cane grosso meno ancora degli altri. []9