Rosaria Zanetel
Ho sempre trovato odioso il modo sbri-
gativo di chiamare i luoghi secondo la
loro collocazione geografica: l’Oriente,
l’Occidente, il Nord Est, il profondo Sud,
l’estremo Nord….. Mi chiedo: ma qual è
il posto di osservazione privilegiato nel
mondo che fa da perno centrale, punto
di riferimento universalmente valido per
tutte queste etichette? Per esempio per
me, nata nel Trentino, Padova è molto a
Sud di Trento, non tanto geografica-
mente, ma per mentalità e storia.
D'altra parte una grande distanza divide
anche Trento da Bolzano, dalla sua tradi-
zione sud tirolese, che ne fa a sua volta
un meridione per il nord Tirolo di Inns-
bruck.
E come metterla con l’amica romana che
chiamando da Roma non mi risparmia
mai un “E allora, che si dice su da voi al
nord?”. Per non parlare della cognata al-
saziana che mi considera in quanto Ita-
liana una rappresentante di una Europa
così a sud da sfiorare l’Africa (quella del
nord, naturalmente!)
E la suddivisione Occidente ed Oriente,
che pretende molto semplicistica-mente
di porre Europa e Stati Uniti di qua e tut-
to il resto del mondo di là: cosa c’è di
più impreciso e vago?
Insomma tutto è tremendamente e
stupidamente relativo.
Introduzione
Una famiglia trentina si trasferisce a Padova
Padova, 25 Febbraio
Padova è molto a sud di Trento
e “fuori” dalla Valsugana
LA PIANURA PADANA
Quando compii nove anni, la zia Agnese, zia di mia mamma e maestra
in pensione che viveva con noi da alcuni anni, pensò di farmi un bel
regalo: un viaggio a Padova, per visitare il suo famoso “Cimitero
Monumentale”.
Lei era una patita dei luoghi solennemente religiosi: mi prometteva
sempre che se avessi fatto la brava mi avrebbe portato nientemeno che
a Lourdes. Io che avevo visto delle diapositive, per altro avveniristiche
per quegli anni, che la zia aveva portato da uno dei suoi numerosi
viaggi in “quell’angolo di Paradiso”, come lo chiamava lei, piene di
ammalati, di barelle, di visi tristi e pallidi, ero terrorizzata da questa
promessa-minaccia, ma naturalmente non l’avevo mai detto a nessuno
in famiglia.
La prospettiva di andare a Padova, di cui nulla ricordavo se non la
magia di quel grande chiarore del mio primo viaggio in pianura con i
genitori, mi fece superare il senso di gelo che la parola cimitero mi
aveva un po’ messo nelle ossa: “Sarà un monumento “, mi ripetevo la
notte prima della partenza, quando non riuscivo proprio ad addormen-
tarmi, “non un vero cimitero con i morti” .
E dunque una mattina di fine Giugno partimmo con il primo treno,
quasi all’alba: la zia Agnese, la signorina Schmidt (un’anziana
maestra in pensione sua ex collega di scuola) e la sottoscritta.
Non dormii assolutamente durante il tragitto. Ormai, dati i molti viag-
gi fatti con i genitori ogni Settembre, ero abituata a starmene in treno
per molte ore senza stancarmi, sempre intenta ad elaborare storie e si-
tuazioni sullo sfondo di quel paesaggio mutabile e vario che scorreva
fuori dal finestrino. Con gli anni avevo cominciato ad attribuire anche
un titolo a questi lungometraggi, a seconda della destinazione (viaggio
per Ancona, viaggio per Roma, viaggio per Torino ….) e dei sottoti-
toli: “pecore sotto la pioggia, mare freddo con nave, finestre illumina-
te di case nella notte, braccia che salutano visi tristi, …” ; titoli e sot-
totitoli che scrivevo su un quadernetto dalla copertina nera con una e-
tichetta bianca tutta smerlata su cui avevo scritto: “Diario di una re-
gista in viaggio” e che ho tenuto ben nascosto per anni, temendo deri-
sioni da parte di mia sorella più grande, sempre pronta a ridicolizzare
ogni mia fantasticheria (bambocciate, le chiamava lei, raccontandole
con gran risate a tutti i suoi amici ...).
Tutto questo impegno mi rendeva i viaggi in treno veloci e leggeri;
così anche quel giorno arrivai alla famosa Padova con gli occhi ben
aperti e con un nuovo film per il mio diario, dal titolo: “Viaggio per
Padova – fuori dalla valle la luce si accende nella pianura ” (da
bambini non si teme il ridicolo anche se si dà sfogo alla poesia...).
E dunque, per nulla stanca, alle nove di mattina oltrepassai il grande
cancello del famoso “Cimitero monumentale di Padova”, tanto o-
sannato dalla zia Agnese. Per mia fortuna l’anno precedente con i
genitori avevo visitato in lungo e in largo Roma, perciò mi sembrò di
ritrovare qui la fastosità delle fontane romane (la cosa di Roma che mi
aveva affascinato di più), quei marmi chiari, quegli angeli dall’espres-
sione gioiosa con le grandi ali spiegate ... insomma, tirai un sospiro di
sollievo, si trattava davvero solo di monumenti, non di morti; mi rilas-
sai finalmente, pregustando ciò che la giornata a Padova mi avrebbe
riservato, una volta esaurito il “tema” cimitero.
Questa zia Agnese aveva molte rigorose regole di comportamento (“le
massime eterne” le chiamavamo noi nipoti) che governavano la sua
vita di Maestra e con cui ci ossessionava la vita, però tra le odiatissime
regole (non parlare o cantarellare a tavola, non fischiettare se c’erano
degli adulti, non dire parolacce, non pestare troppo i piedi camminan-
do, non, non, non…) ce n’era qualcuna che ci piaceva e che apprezza-
vamo, essendo a nostro favore. Una di queste era: “Quando si viag-
gia, si deve farlo in modo comodo e signorile, altrimenti non si go-
dono le bellezze né naturali né artistiche: meglio stare a casa” . Ero
certa perciò che la zia “non si sarebbe fatta mancar nulla (special-
mente all’ora di pranzo, data la sua fama di buongustaia, comprovata
da una taglia extra forte). E infatti la “massima del viaggiar comodi e
signorilmente” mi permise di godere Padova, per esser la prima volta
che la vedevo in modo consapevole, da un’ottima angolatura. Finita la
visita al cimitero e raggiunto il centro della città, la zia ci condusse su-
bito in un bel ristorante, che lei ben conosceva, ma di cui non ricordo
il nome. Ricordo solo che i suoi tavolini erano disposti uno in fila al-
l’altro sotto il portico di una piazza (Piazza dei Signori) in fondo alla
quale scorsi sopra un arco un grande orologio, che mi sembrò un
qualcosa di meravigliosamente magico, incantevole, con quei colori
azzurro e oro e con quel gran leone alato in pietra che da sotto sem-
brava lo sorreggesse. Purtroppo la zia Agnese era, come mia mamma,
“Maestra per vocazione e a tempo pieno”, così mi rovinò l’incanto,
frastornandomi la testa con la spiegazione complicatissima di come
funzionava quel famoso marchingegno. Io ero incapace di prestarle at-
tenzione, affascinata e quasi abbagliata dalla luce forte che illuminava
la piazza e che contrastava con l’ oscurità della volta bassa sotto cui si
trovavano i tavoli. Provavo la stessa sensazione di mistero e un po’
ansiogena di quando si entra nei suk delle città arabe: questi visi in
ombra sotto il portico, in cui vedevo brillare occhi lucenti, quelle voci
dai toni alti con un accento diverso dal mio, tutte quelle biciclette che
sfrecciavano come un’orda di cavallette, quella polvere gialla solleva-
ta dal traffico nell’afa del mezzogiorno….
Insomma una bella cascata di emozioni che, aggiunta alla spossatezza
per la notte insonne, il viaggio in treno, la lunga passeggiata in cimite-
ro, mi stava facendo svenire. Finalmente la zia smise la sua pedante
lezione da maestra e mi permise di consultare il menu: dopo un piatto
di gnocchi di patate con ragù (ne sento ancora il sapore, da quanto li
gustai!) cominciai a riprendere fiato e a guardarmi di nuovo intorno
incuriosita.
Ero abituata a pranzare in ristorante una volta alla settimana, esatta-
mente ogni giovedì, giornata di vacanza da scuola, quando mia mam-
ma portava tutte e tre noi figlie a Trento per “respirare aria di città”.
Prendevamo il treno delle 7.30 di mattina, così alle 9 eravamo già a
far colazione in un bar di piazza del Duomo, poi un bel giro per ne-
gozi ed infine il pranzo al Forst, un vecchio e famoso ristorante di
atmosfera elegante e silenziosa. Non ricordo cosa mangiavo (non sono
mai stata molto interessata al cibo!), ma ricordo le pareti ricoperte di
un legno scuro, così come il soffitto. Una parte della sala era riservata
al bar ed accanto a comode poltrone c’erano i quotidiani infilati in
quelle stecche di legno che tenendoli ben tesi e spalancati, ne facili-
tano la lettura e che vedo ancora adesso in certi locali pubblici del
Trentino.
In confronto a quel garbato pasteggiare, questo pranzo a Padova mi
parve un’orgia di profumi e di colori, anche perché si mangiava al-
l’aperto, cosa questa che a Trento non avevo fatto mai in nessuna sta-
gione. A rendere più esotica l’atmosfera contribuiva anche il camerie-
re, che, magro, con dei baffetti scuri, andava avanti e indietro scansan-
do agilissimo i passanti: la fascia scura che gli stringeva alta la vita e
le sue movenze così veloci me lo fecero sembrare un ballerino di fla-
menco. Non ero ancora andata in Spagna, ma così me la immaginavo!
Insomma neanche a Siviglia, in quell’estate torrida in cui la vidi la pri-
ma volta, provai queste fantastiche sensazioni.
Per il resto del giorno mi riempii gli occhi e le orecchie di immagini e
di rumori, ma non ho ricordi precisi.
La zia non smise mai di insegnare, illustrando tutto con esattezza e
precisione scolastica, mentre io ero solo attenta a non mostrarmi
stanca ed annoiata: la zia non avrebbe assolutamente compreso. Per
tutti gli anni che visse con noi, quando noi bambine osavamo pronun-
ciare la parola “stanchezza”, lei sbottava: “Con i bambini Ranzi
camminavamo tutto il giorno senza bere neanche un goccio d’acqua e
sono diventati tutti dottori”. Non abbiamo mai avuto voglia di chie-
derle chi fossero questi Ranzi, ma ridemmo sempre di loro, immagi-
nandoli noiosissimi e pedanti, rachitici, con occhialetti da miopi dalle
lenti spesse. Una volta io li avevo anche disegnati su un foglio, che
poi avevo messo sotto il piatto della zia, che non aveva proprio ap-
prezzato la cosa…..
E dunque, tornando alla giornata padovana con la zia Agnese e la si-
gnorina Schmidt, non si poteva concludere naturalmente se non con la
visita alla Chiesa di Padre Leopoldo (allora forse non ancora Beato)
che, assieme a Sant’Antonio, era in cima alla hit parade religiosa della
zia. Per il santuario di Padre Leopoldo lei è stata una vera e propria
promoter: nel negozio annesso alla Chiesa comprò per anni centinai di
“ricordini” e di opuscoletti illustranti la vita del Padre cappuccino, di-
stribuendoli poi tra parenti e conoscenti. Per noi di famiglia era nor-
male trovare l’effigie di Padre Leopoldo dappertutto: sotto i materassi,
sotto i cuscini del divano e delle poltrone, in fondo ai cassetti, negli
armadi, in ogni tasca di giacche e cappotti, nei libri, nei quaderni,
nelle borse e nelle valigie: senza mai dirlo apertamente, nessuno di noi
osò mai spostare una di queste immaginette, né si prese mai in giro la
zia per questa sua “mania”, come si faceva per molte cose che la ri-
guardavano. Il fatto è che quando ero molto piccola mio padre si era
ammalato gravemente ad un occhio e sembrava che anche l’altro po-
tesse venire compromesso dallo stesso malanno. Senza esitare un mi-
nuto, la zia Agnese si era precipitata subito a Padova “da Padre Leo-
poldo” (come diceva lei, anche se credo che il frate fosse già morto)
per implorare la guarigione. Fatto sta che mio padre migliorò e scam-
pò il pericolo del secondo intervento. Per questo in famiglia nessuno si
permise mai nessun accenno poco riguardoso nei confronto di Padre
Leopoldo, anzi. Ho ancora nei cassetti dei mobili che da casa dei miei
genitori sono arrivati ora in casa mia le famose immaginette del Santo
e non mi sogno proprio di spostarle.
Un’ estate si fece vivo con una lunga lettera uno zio tedesco, cugino
del padre di mio papà. Era un generale in pensione che viveva ad
Essen, nel bacino della Rhur, in Germania, di cui si era sentito parlare
in passato tra i parenti di Primiero, ma che nessuno aveva mai cono-
sciuto. Nella lettera spiegava a mio padre , “liebe nipote Antonio”, che
aveva voglia di incontrare i suoi parenti italiani e che aveva scelto lui
come primo anello di congiunzione per questa rimpatriata.
Non abbiamo mai capito perché toccò a mio padre questo onore. Tra
le ipotesi più plausibili c’era quella del comune nome Antonio, anzi
Antooooonio, con la “o” stretta, secondo la pronuncia di questa spe-
cie di zio tedesco.
Fatto sta che un pomeriggio di metà Agosto “Onkel Antooonio” arri-
vò alla stazione di Trento con un treno proveniente da Monaco di Ba-
viera, assieme alla sua amata Frau Margaretha.
Quando lo vedemmo, non fummo nemmeno meravigliati, da quanto il
suo aspetto rispondeva perfettamente ai canoni di un ritratto di un “per
fetto generale tedesco”: occhi azzurri e sguardo gelido, passo pesante
e cadenzato, testa ben eretta sul collo.
Dopo una certa soggezione iniziale, con l’andar dei giorni noi bambi-
ne non gli demmo più molto importanza, ci faceva anzi divertire con
quei modi da attore tedesco un po’ vecchiotto e ridicolo. Purtroppo in-
vece mio padre, il “liebe” nipote ritrovato, si divertiva davvero poco:
lo zio si rivelò nei suoi riguardi una presenza incombente ed inces-
sante: “Antooonio, diritto il busto e sguardo fiero”, gli imponeva di
continuo con uno sguardo severo. Questo nipote sempre seduto o alla
scrivania o al pianoforte o in poltrona a leggere lo aveva deluso.
“Antooonio, ginnastica, ginnastica, ginnastica” vociava quando,
uscendo la mattina quasi all’alba dal bagno, passava davanti alla
stanza dei miei genitori, dove mio padre, il povero Antoooonio, dor-
micchiava ancora tutto tranquillo.
La sfortuna era che non esisteva nessun altro maschio in casa da in-
quadrare nel suo reggimento e dunque il povero papà era l’unico ber-
saglio di tutto questo energico e militaresco autoritarismo teutonico.
L’ “operazione – Padova”, che non credo sia stata della più facili, ini-
ziò a Luglio, con un viaggio a Padova dei miei genitori e la sotto-
scritta, per iscrivere me al Liceo classico Tito Livio e per cercare un
appartamentino in affitto per le due figlie e la nonna, che come al so-
lito ci avrebbe seguito e si sarebbe presa cura di noi.
Intanto era mattina inoltrata e, via via che il tempo passava, il sole
sembrava sempre più una torcia infuocata; altro che brezza di mare.
Un’afa, una luce forte, tutto quel traffico caotico trasformarono ben
presto la città in una bolgia dantesca, rendendo la ricerca dell’apparta-
mentino un vero inferno, specialmente per mio padre, costretto a
guidare dal centro alle periferie, seguendo la macchina dell’agente
immobiliare.
Questa era una signora bionda, piuttosto corpulenta: “Ciò, non sarà
facile”, disse subito: “Ciò, in un solo giorno”, “Ciò, con tutti ‘sti
requisiti”. Insomma era una “ciòda” purissima, pensai dentro di me
ridacchiando. Così infatti vengono definiti con un pizzico di sarcasmo
(e po’ di disprezzo?) i Veneti nel Trentino per quel “ciò” che così
spesso compare nel loro dialetto.
Che vitalità sotto le nostre finestre, che paese allegro era Strigno.
Chissà se lo è ancora? Spero e credo proprio di sì!
“C’è Angela, per piacere?”. “Mi chi è questa Angela, non si è sem-
pre chiamata Angelina?”, pensavo con un certo fastidio quando
qualche collega di mia mamma la cercava al telefono.
Già, amava cosi tanto questa città mia mamma, che quando anche lei,
con mio padre e la nostra sorella più piccola, si trasferì definitiva-
mente a Padova, adottò il suo nome ufficiale, quello dei documenti:
Angela. Con questo nome si sentì una vera cittadina padovana, non
con quel nomignolo “Angelina”, così banalino, così paesano, “No, no,
basta “paesanerie” come diceva lei “se Dio vuole, siamo in città”.
Fu davvero l’ unica in famiglia a sentirsi da subito padovana a tutti gli
effetti; per quanto riguarda il papà e la nonna, rimasero sempre e solo
“primierotti”, delle mie sorelle non so che dire, non ho mai affrontato
con loro questo argomento. Di me posso dire che, dopo aver lasciato
la valle in cui sono nata e di cui non ho per altro nessuna nostalgia,
non so più di dove realmente sono: mi sento come una trottola che
gira gira gira senza decidere mai dove fermarsi. Il fatto di aver in se-
guito sposato uno straniero mi ha ancora di più complicato la vita.
Credo di essermi fatta una specie di malsana convinzione: mi sento
sempre straniera. Se sono a Padova, sono trentina, se sono a Trento
sono padovana, se sono al sud (da qualsiasi parte del mondo), sono
nordica, se sono al nord, mi sento meridionale. L’unica certezza, al-
meno spero, è di essere Europea, non “cittadina del mondo”, che mi
sembra un po’ vago ed utopistico, ma Europea. Bah; certo che deve
darvi una bella base di sicurezza questa piattaforma su cui poggiate
saldamente i piedi per tutta la vita, tutti voi che avete radici così ben
definite e profonde, non come me, che traballo di qua e di là nella
continua e faticosa ricerca di un punto d’appoggio (“Cerco un centro
di gravità permanente…. “ diceva una vecchia canzone di Battiato)
come un mappamondo senza piedistallo.
Certo che quando girando per il centro di Padova passo davanti al
mio liceo Tito Livio, entro nel cortile nuovo del “Bò” attraversandolo
da un portone all’altro (“scorciatoia” che di frequente usiamo noi che
là abbiamo frequentato Giurisprudenza), mi fermo un momento sotto i
portici di fronte al Duomo e guardo il profilo del Battistero sullo sfon-
do del cielo al tramonto, mi siedo sotto i grandi alberi di piazza Capi-
taniato nei giorni caldi dell’estate, mi rifugio in una mattinata d’inver-
no in un bar del Ghetto per bere un buon caffè e fare due chiacchiere
con qualche amica..., in questi momenti mi dico: “Voglio proprio be-
ne a Padova, qui è casa mia, qui c’è tutto il mio mondo, eh sì, solo qui
mi sento a casa... però, però, però... non sono padovana”.
Certo che non “toccare” le persone a cui sono molto affezionata è poi
diventata anche per me una abitudine, non sempre apprezzata da chi
mi frequenta: spesso le amiche con cui ho più confidenza restano di
stucco vedendo con quanta foga mi lancio ad abbracciare con moine
sdolcinate delle perfette sconosciute, mentre con loro non mi lascio
mai andare in “sdilinquimenti”, come chiamo io le effusioni, se non
nei momenti epocali (lauree, nascita figli, partenza per almeno un an-
no, matrimoni...)
Qualche mattina salivo in macchina con mio padre per andare a pren-
dere l’autobus vicino alla scuola in cui insegnò qui a Padova, la scuola
elementare Rosmini nel quartiere Arcella, proprio accanto al Santuario
dove morì Sant Antonio.
Mio padre si chiamava Antonio, ma non lo coinvolse mai più di tanto
questa vicinanza alla Chiesa del suo protettore. Quello che gli piacque
subito dell’Arcella fu invece il fatto che da qui, nelle mattine limpide,
si potevano scorgere le montagne. Me lo faceva notare sempre:
“Guarda come sembrano vicine le cime questa mattina, guarda, c’è
anche un po’ di neve, eh già infatti ieri sera avevo freddo ai piedi”. E’
un fatto strano questo, ma capita anche a me: quando ho freddo ai pie-
di, nevica in montagna. Nessuno in famiglia, a parte me e mio padre,
aveva questa netta percezione della neve a così grande distanza: quan-
do abitavamo già a Padova, certe sere d’autunno il papà si alzava dal
divano stropicciandosi le mani e diceva rabbrividendo un po’:
“Nevica in montagna, perché ho freddo ai piedi”. E sì che non era
particolarmente freddoloso, anzi! Il primo anno che insegnò qui a Pa-
dova tornava da scuola scandalizzato per come venivano “stracoperti”
i bambini: “Non riescono nemmeno a camminare da quanto sono in-
fagottati”, diceva ridendo, “hanno la sciarpa fin sugli occhi. Me do-
mando cosa i farìa su da noi”, concludeva in dialetto.
Naturalmente quel “da noi” si riferiva alla valle di Primiero, dove an-
che i bambini erano per lui i più forti del mondo.
Si affezionò molto a questi suoi “scolari” padovani; li affrontava ogni
mattina con quel suo tono ironico e distaccato, che lo portava a trattare
anche i ragazzini come fossero degli adulti. Lo scorso anno, mia so-
rella ebbe un piccolo intervento ad un occhio e quando l’oculista che
la stava operando lesse sulla cartella clinica il cognome “Zanetel”, e-
sclamò tutto sorpreso: “Il mio maestro si chiamava così, non sarà mi-
ca sua figlia?”. Mia sorella, già mezza tramortita dalla paura … dei
ferri, ebbe un brivido: “E se questo ha brutti ricordi del suo mae-
stro?” . Fu tentata (Giuda infida!) di negare… , ma poi diede fiducia
al papà e esalò un tremulo “Sì”. Il “Che piacere!” e l’enfasi con cui
fu pronunciata l’esclamazione, rimisero in circolo il sangue nelle vene
di mia sorella, che fu subissata per il resto dell’intervento dalle più
belle parole che un vecchio alunno possa dire nel ricordo del suo
“Maestro di vita”, come l’oculista definì mio padre, maneggiando an-
cora con più cura (crediamo noi) l’occhio di mia sorella!
Tornano al rapporto di mio padre con Padova, un continuo motivo di
fastidio fu per lui il dialetto padovano parlato dalle donne, anzi “in
bocca alle donne”, come diceva lui. “Le donne padovane sono quasi
tutte belle, più belle che da noi “ (noi Primierotti of course) diceva
spesso (fu infatti molto felice quando nacque la prima nipotina pa-
dovana: “E’ proprio di corporatura veneta, bionda e massiccia”, e-
sclamò soddisfatto quando la vide al di là del vetro della nursery), “
però quando parlano in dialetto, diventano sgraziate, sembrano tutte
brutte. Il dialetto veneto ha una bella musicalità solo se parlato dagli
uomini, in bocca alle donne cambia suono, diventa volgare e rende
volgari anche loro” concludeva.
Quando si trattava di armonia dei suoni, mio padre non intendeva ra-
gione: chi si macchiava di “lesa musicalità” era per lui persona non
proprio disgustosa, ma di certo sgradevole o giù di lì.
Era un grande appassionato di musica mio padre, specialmente di
quella per organo, in quanto da bambino aveva avuto la fortuna di co-
noscere a Fiera di Primiero, il professor Giuseppe Terrabugio, uno dei
massimi esperti di musica per organo e da lui aveva appreso tutto ciò
che sapeva di musica, seguendo i suoi insegnamenti per tutti gli anni
dell’adolescenza. Abbiamo ancora molti spartiti musicali scritti a ma-
no da mio padre: spesso doveva disegnare anche il rigo musicale non
solo le note. Sono dei fogli che da bambina guardavo con indifferen-
za, abituata a vederli sparpagliati sul tavolo del salotto, sulla scrivania,
dappertutto, ma adesso li apprezzo in tutta la loro preziosità e mi ren-
do conto ora di quanta perizia fosse dotato mio padre per poter riu-
scire a tracciare con tratto sicuro e deciso, con inchiostro di china, sen-
za sbagliare, tutte quelle note, quegli spazi, quelle volute… Mi spiego
adesso perché mio padre stava tanto chino su queste “scartoffie”, co-
me le chiamava mia mamma, stufa probabilmente di vederlo perenne-
mente assorto in questo suo mondo dei suoni, in cui si immergeva
ogni volta che aveva un momento libero. In casa abbiamo sempre
avuto il pianoforte e ogni pomeriggio sul tardi il papà si sedeva al
piano e immancabilmente attaccava le sue suonate di organo. Non
appena si udivano i primi accordi, si alzava un coro di voci: ”No,
basta ‘sta musica lagnosa, basta Antonio”, brontolava la mamma.
“Basta papà, amen, la messa è finita, andiamo in pace ….” , rincara-
vamo noi figlie, alzando il volume della radio o della televisione ….
Lui sorrideva, continuando a suonare imperterrito, con le mani molto
premute sulla tastiera, quasi abbandonate, come è d’uso per chi suona
l’organo.
La musica: mi son sempre chiesta se anche nel Veneto era d’uso nelle
famiglie, dedicare ad essa tanto spazio o se anche questa è un’abitudi-
ne per così dire nordica (forse un retaggio della Haus Musik?).
Finchè siamo vissuti nel Trentino infatti, molte sere, specialmente
d’inverno, arrivavano in casa amici o ex alunni di mio padre, ognuno
con uno strumento diverso e si improvvisavano serate musicali, in cui
si passava dalla musica d’opera a quella sacra, dalle sonate classiche
ai pezzi di musica leggera. Di solito la mamma suonava il mandolino
o il violino, il papà si divideva tra chitarra, fisarmonica, pianoforte.
Anch’io certe volte venivo chiamata, mio malgrado, per qualche sona-
tina a quattro mani con mia sorella più grande, partecipando così a
questa orchestra da casa, ma mi agitavo così tanto, che le mie mani fa-
cevano solo confusione sulla tastiera.… ero proprio negata. Ricordo
che ad ogni mio accordo sbagliato mi arrivava uno scappellotto sulla
nuca da parte di mio padre, che non mi picchiava mai, per nessun mo-
tivo, ma sentir disarmonie e stonature lo mandava letteralmente in be-
stia. Era anche direttore del coro del paese e, quando tornava a casa
dalle prove, si lamentava con mia mamma brontolando torvo (lui che
di solito era sempre di umore sereno):”Ho di nuovo spaccato la bac-
chetta (quella con cui dirigeva) addosso al muro per non spaccarla in
testa a quegli ubriaconi che stonano come delle bestie”.
Tornando a quelle serate musicali che animavano allegramente la ca-
sa, ricordo che una sera un ragazzo si sedette alla tastiera del piano di-
cendo rivolto a mio padre: “Maestro, senta, questo sì che è ritmo” e
iniziò a suonare, dimenando mani e piedi e testa e braccia, gettandosi
addosso al pianoforte con tutte le sue forze, quasi aggredendolo. Ne
uscì un frastuono meraviglioso: “E’ rock and roll”, disse il ragazzo
alla fine del brano. Quel ritmo coinvolgente e nuovo mi conquistò e
influenzò il mio gusto musicale per tutta la vita, tanto da permettermi
di affrontare ancora con la giusta energia un mega concerto dei Public
Enemy (che forse non è rock, ma di certo è “ritmo”) tre anni fa al Ma-
dison Square Garden di New York.
Tornando al rapporto di mio padre con Padova, la città in cui comin-
ciò a vivere verso i cinquant’anni, oltre al “dialetto in bocca alle don-
ne” altra cosa che lo infastidiva molto erano quelle chiese di periferia,
con quei mattoni rossi, quelle facciate senza storia e … scandalo
massimo, quasi nessuna possedeva un organo. Che differenza con le
nostre chiese del Trentino: anche le più piccole hanno molto spesso un
antico organo!
Eh sì, queste cose sono importanti anche per me.
A parte questi “leggeri fastidi”, Padova fu per mio padre un posto in
cui visse molto volentieri e in cui si inserì molto serenamente, anche
per quanto riguarda il suo lavoro e tutto ciò che lo concerneva.
I luoghi che lo videro con più frequenza furono di certo le biblioteche
(specialmente la Civica) in cui potè approfondire i suoi studi di sto-
rico. Da uomo moderno qual era, si era munito di un piccolo registra-
tore, sul quale leggeva a bassa voce i brani dei testi che gli interessa-
vano e poi a casa riascoltava e trascriveva. Era entusiasta di quello che
“scovava” in questa sue ricerche storiche, che gli servivano per com-
pletare un nuovo libro in cui voleva raccogliere tutti gli studenti tren-
tini che avevano frequentato l’Università di Padova, sempre alla ri-
cerca di questi fili di congiunzione che la cultura intesse tra le genti.
Noi figlie, naturalmente, non lo abbiamo mai accompagnato in queste
sue incursioni nelle sue amate biblioteche; se proprio dovevamo usci-
re con uno dei genitori, preferivamo andar per negozi e bei bar con la
mamma. Lo prendevamo molto in giro per quelle sue tediose frequen-
tazioni: “Attento papà, che hai la muffa attaccata ai baffi” , gli dice-
vamo quando rientrava tutto entusiasta da quei lunghi pomeriggi di
studio. “Ci attacchi la muffaggine anche a noi” rincarava mia mam-
ma. Lui sorrideva felice della nostra allegria.
Certo che fu merito di mio padre se ho imparato ad amare e ammirare
specialmente l’aspetto storico culturale di Padova, le sue biblioteche,
l’Università, le antiche Scuole ricche di storia.
Università e centri commerciali,
dove Padova non è
né a nord, né a sud, né a est, né a ovest
“Ma che bestemmie stai dicendo, non ti augurerai per caso che que-
ste mostruosità lentamente soppiantino le vecchie piazze dei centri
storici con tutto il fascino della loro atmosfera!”. Ma no, ma no, come
potrei; non mi capite proprio. Anch’io, come voi e forse anche di più,
apprezzo, anzi “venero” con grande commozione i nostri centri storici,
dove la vita si dipana secondo ritmi più naturali (“a misura d’uomo”
per dirla con una frase abusata) e dove le antiche pietre affinano il tuo
gusto e ti fanno riflettere sul tempo passato che scorrendo lento sopra
di esse le ha levigate e scolorite ..”Ah, meno male, sei ancora dei no-
stri, non ti si è cementificato cuore e cervello!” No, no, cari amici,
però sono queste pietre che, se i tuoi padri non le hanno calpestate pri-
ma di te, mentre tu le percorri ti chiedono: da dove vieni straniero? Da
Nord, da Sud, da Est o da Ovest?
L’eterno dilemma.
“Varda che sarà meio che anden in zo”, mi dice l’amica, riportando-
mi alla realtà, “l’è tardi e zo là ghe sarà già la solita nebbia” aggiun-
ge sospirando, rammaricata di lasciare la “sua” Trento.
Saliamo in macchina e dopo pochi chilometri riprendo la statale
Valsugana, diretta “in zo”, a sud, a Padova, appunto.
fine