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Riflessioni sul nord e il sud del mondo

Rosaria Zanetel
Ho sempre trovato odioso il modo sbri-
gativo di chiamare i luoghi secondo la
loro collocazione geografica: l’Oriente,
l’Occidente, il Nord Est, il profondo Sud,
l’estremo Nord….. Mi chiedo: ma qual è
il posto di osservazione privilegiato nel
mondo che fa da perno centrale, punto
di riferimento universalmente valido per
tutte queste etichette? Per esempio per
me, nata nel Trentino, Padova è molto a
Sud di Trento, non tanto geografica-
mente, ma per mentalità e storia.
D'altra parte una grande distanza divide
anche Trento da Bolzano, dalla sua tradi-
zione sud tirolese, che ne fa a sua volta
un meridione per il nord Tirolo di Inns-
bruck.
E come metterla con l’amica romana che
chiamando da Roma non mi risparmia
mai un “E allora, che si dice su da voi al
nord?”. Per non parlare della cognata al-
saziana che mi considera in quanto Ita-
liana una rappresentante di una Europa
così a sud da sfiorare l’Africa (quella del
nord, naturalmente!)
E la suddivisione Occidente ed Oriente,
che pretende molto semplicistica-mente
di porre Europa e Stati Uniti di qua e tut-
to il resto del mondo di là: cosa c’è di
più impreciso e vago?
Insomma tutto è tremendamente e
stupidamente relativo.

Solo al polo nord non nascono terroni


Resta il fatto che ogni posto, quando ci
vivi o quando ci transiti, e le persone
con cui condividi la vita sono il perno di
tutti i tuoi punti cardinali, il centro
attorno al quale ruota tutto il tuo mondo.
Rosaria Zanetel
Laureata in Giurisprudenza a Padova, ha fondato con il marito Gihad Kabrib,
medico siriano laureato a Padova, una piccola casa editrice specializzata in
testi di lingua araba, cinese, ungherese.

Ha ideato e curato un progetto editoriale relativo a storici istituti scolastici


padovani (Liceo Tito Livio, Istituto Calvi, Università di Padova).

Negli ultimi anni ha scritto tre romanzi, due di natura autobiografica:


“Musulmane che ho conosciuto” - “Padova è molto a sud di Trento” - “Caro
Giorgino... baci, la zia Lilli”
dedicato a me stessa
e alla fatica
di stare
in equilibrio
INDICE

Introduzione
Una famiglia trentina si trasferisce a Padova

- Padova è molto a sud di Trento e “fuori” dalla


Valsugana: la PIANURA PADANA
− Padova con la zia Agnese, “Maestra”, e la signorina
Schmidt: colorita città andalusa
− Padova con gli zii tedeschi: mediterranea metropoli
gioiosa
− Padova con i genitori : … se fata, ciò
− La nonna primierotta a Padova, nell’appartamentino di
via Buonarroti
− Una montanara al Liceo Classico Tito Livio
− La mamma diventa padovana e per l’occasione cambia
nome
− Il papà diventa maestro alla scuola Rosmini all’Arcella,
da dove si vedono le montagne
− Università e centri commerciali, dove Padova non è né a
nord, né a sud, né a est, né a ovest

Torno a Trento dopo tanti anni. La trovo più nordica


che mai, però….
Introduzione

Rileggendo tutto ciò che ho scritto a proposito di “Padova è molto a


sud di Trento”, mi vien da pensare: c’è un senso in tutto quello che
dico? Sono sensazioni troppo personali per farne un libro?
Il tarlo dell’autocritica, sempre vigoroso e pieno di salute, comincia a
rosicchiare senza tregua: gnam gnam gnam. A chi chiedere consiglio?
Ho diversi amici che stimo molto e con cui potrei parlarne.
Mi affido al caso: proprio oggi mi ha mandato una e mail la mia amica
Arianna che da un po’ di anni gira per il mondo, a seguito del marito,
il cui lavoro cambia sede di continuo. Siccome le voglio rispondere
subito, metto in allegato i miei appunti sul libro, chiedendole una sua
impressione.
Questa la sua risposta.

Carissima Lali (così mi chiamano gli amici),

in questo momento mi trovo comodamente seduta in giardino (ho


deciso di scriverti su carta e di riportare successivamente il mio
scritto sul computer), all'ombra, ed una piacevole brezza marina fa
muovere le foglie delle palme tanto da sembrare degli strumenti
musicali in concerto. Insomma ho l'atmosfera giusta per scriverti e
per dire che il tuo libro è bellissimo!
L'ho letto tutto d'un fiato ma mi prefiggo di leggerlo con più calma
quando l'avrò riportato su carta. Credo che questo sia uno dei libri
più belli che tu abbia scritto: qui ritrovo la Lali con i suoi ricordi,
le sue riflessioni ed il suo bisogno di capire dove sono le sue radici.
Hai perfettamente ragione: sud/nord, est/ovest, tutto è relativo.
Padova sembra una città "araba" rispetto alla più compassata
Trento e Trento è decisamente meno austera di Innsbruck.
In questo tuo libro ho ritrovato molto me stessa; anch'io come te a
quindici anni mi sono trasferita da Napoli a Conegliano. E come te
provo, verso Conegliano, lo stesso sentimento di appartenenza che
tu provi per Padova, cioè mi sento coneglianese, ma in fondo non lo
sono. Del resto non mi sento neanche napoletana, perché non sono
di là. Allora dovrei sentirmi calabrese, ma non ho avuto il tempo di
affezionarmi a quei luoghi; avevo un anno quando i miei si sono
trasferiti a Napoli, e poi... quel mio cognome (Fiertler) austriaco !?
Ti dirò che sono anche le persone che ti circondano che mettono a
volte attorno a te dei paletti, seppur involontariamente, e ti fanno
sentire una persona che viene da fuori. Come per te il "Tito Livio",
il primo impatto che ho avuto con Conegliano è stata la mia fre-
quentazione presso il Liceo Scientifico della città. Ebbene, al con-
trario di te che venivi dal nord, io invece venivo dal sud. In un pri-
mo momento l'accoglienza in classe è stata non dico fredda, ma
indifferente, fatta eccezione per una mia compagna, tuttora amica,
che è stata molto carina e gentile nei miei riguardi (forse perché a-
veva il papà meridionale? Devo dire che anch'io ero intimorita da
questa mia nuova realtà; a quei tempi ero più timida di ora e troppo
occupata a fare fronte ai miei problemi esistenziali di adolescente.
Fatto sta che quell'anno per me e` stato disastroso, tanto è vero che
sono stata bocciata ed ho dovuto ripetere il IV anno. La classe suc-
cessiva è stata decisamente migliore (è lì che ho conosciuto Anna),
sia perché i compagni erano più aperti e giocherelloni e sia perché
io ero più reattiva, meno chiusa e più sicura di me. Sono passati or-
mai un bel po’ di anni da quando ne avevo quindici ed ho passato
ben ventisei anni della mia vita in Veneto. Mi sentirei di dire che
appartengo a Conegliano, anzi al Veneto, cosi` includo anche gli
anni trascorsi a Padova per l’Università, anni che sono stati indi-
menticabili. Invece le espressioni che alcune persone del luogo u-
sano nei miei riguardi mi fanno capire che non sono una di loro. Un
esempio: quest'estate, mentre ero in Italia , Anna ha organizzato u-
na cena con i compagni di classe del liceo. E` stata davvero una
piacevole ed allegra rimpatriata, ma nel ricordo di questi miei com-
pagni io sono e rimarrò, simpaticamente, sempre quella ragazza ve-
nuta da Napoli, soprannominata Flipper (il nome del delfino di una
serie televisiva della mia giovinezza, che aveva una particolare as-
sonanza con il mio cognome), che non parlava dialetto e che aveva
quel cognome cosi` difficile da pronunciare?! .
Il mio cognome... anche quello! Con questo cognome austriaco non
mi sono mai sentita di appartenere a nessun luogo; storpiato da tut-
ti dal sud al nord d'Italia (fatta eccezione per l'Alto Adige), storpia-
to persino dai miei stessi cugini Fiertler che si trovano in Calabria,
che ormai stanchi di essere chiamati nelle più svariate forme, hanno
deciso che è meglio presentarsi come Fiertler anziché con la corret
ta pronuncia tedesca "Firtler".... Credo che i loro figli non sappia-
no nemmeno della particolarità di questa pronuncia. Ma forse que-
sto esempio del cognome fa capire che in fondo loro sono e si sen-
tono calabresi. Come del resto mio fratello, che ha sempre vissuto a
Napoli, ed è molto orgoglioso e fiero di appartenere al Sud.
Hai ragione tu , anch'io come te mi sento di appartenere all'Euro-pa
e su questo ne ho la certezza, soprattutto ora che vivo tanto lon-tano
da lì ed esigo che il mio cognome venga pronunciato come
realmente deve essere pronunciato, perchè è un cognome europeo
che viene dall'Austria e deve essere rispettato come tale nella sua
autentica pronuncia. Per il resto, le tue radici, cara Lali, ti vengono
trasmesse dai piacevoli ricordi che hai dei tuoi genitori, dai loro
racconti, dal senso della Storia che aveva tuo padre, dalla signori-
lità di tua madre, dalla nonna che ti ha seguito con amore, seppur
asburgico, in tutti gli anni della tua infanzia, giovinezza e maturità,
dai luoghi legati ai racconti della tua vita e, perchè no, dalla zia
Agnese il cui ricordo è ancor ora riposto nel cassetto del mobile di
famiglia attraverso l'immaginetta di Padre Leopoldo.
E Padova? Be' questa città ti ha aiutato ad aprirti al mondo già con
il primo viaggio in quel luogo all'età di cinque anni, quando hai
scoperto il "nulla" della Pianura Padana che, sembrerebbe un pa-
radosso, ma ti ha dato il senso della scoperta di nuovi orizzonti.
Ancora complimenti e auguri. Un abbraccio affettuosissimo,
Arianna

Le rispondo subito: Cara Arianna, grazie, hai annientato il tarlo.

Padova, 25 Febbraio
Padova è molto a sud di Trento
e “fuori” dalla Valsugana

LA PIANURA PADANA

“Padova è molto a sud di Trento”. Me ne resi conto già da molto mol-


to bambina, avrò avuto al massimo cinque anni, quando venni per la
prima volta a Padova.
Ogni anno a fine estate, prima dell’inizio della scuola, i miei genitori,
maestri elementari in un paese del Trentino, organizzavano per noi fi-
glie un viaggio, anzi, un “viaggio – studio”, come lo chiamava solen-
nemente mia mamma, sempre compresa nel suo ruolo di insegnante e
per la quale il dilettevole non era tale se non era unito all’utile. I viag-
gi erano in treno (la famosa Fiat seicento sarebbe entrata in famiglia
alcuni anni dopo) e diventarono sempre un po’ più lunghi ed articolati
via via che noi bambine crescevamo: questo con meta Padova fu uno
dei primi viaggio – studio di fine estate di cui io mi ricordo.
Partimmo molto presto, quando tutto era ancora immerso in quel tor-
pore tremulo che avvolge al mattino le valli di montagna, un residuo
del buio della notte che non vuol andarsene e che contribuì ad accre-
scere la mia trepidazione e la mia eccitazione. Quando il treno arrivò,
fui la prima a salire, preoccupata di riuscire a trovare un posto a sedere
accanto al finestrino, in quanto mi piaceva moltissimo stare seduta ad
osservare il paesaggio che scorreva mutevole e vario al di là del vetro,
un lungo film fatto da un susseguirsi ininterrotto di immagini sempre
diverse, sfondo ideale per quelle magiche storie che la mia fantasia a-
mava tanto creare…
E dunque anche quella mattina mi ero allegramente seduta alla mia
postazione, attendendo questo nuovo “film” piena di entusiasmo e di
liete aspettative. Ma ecco che, dopo circa un’ora dalla partenza, la
valle cominciò a farsi sempre più stretta e buia; le pareti delle mon-
tagne, dai contorni irregolari come le ganasce di una tenaglia arrug-
ginita, si stavano orribilmente trasformando, per la mia fantasia di
bambina impressionabile, nella bocca di un orco imbestialito pronto
ad inghiottirci da un momento all’altro. Le mie peggiori aspettative
sembrarono avverarsi quando con un gran fracasso il treno si incuneò
rabbioso in una strettoia buia che mi gelò il sangue.
Come ho già detto, io sedevo accanto al finestrino e ricordo come fos-
se adesso che in pochi secondi tutto quel frastuono stridente cessò, si
fece un gran silenzio e un bagliore diffuso, aggressivo come una scia-
bolata, invase il vetro, trasformandolo in una lastra lucentissima.
Quando riuscii ad affrontare quel bagliore e a guardar fuori, non vidi
nulla, anzi “vidi il nulla”: una distesa vuota e immobile che si perdeva
nel cielo. “Ecco bambine,” disse mia madre, che non perdeva mai l’
occasione di insegnare (e poi… si trattava di un viaggio – studio!)
“siamo fuori dalla valle, siamo in Pianura Padana.”
E lo scrivo con tutte le maiuscole: PIANURA PADANA, da quanto
importante e solenne mi sembrò quell’ espressione.
Sentii un capogiro, come quando in altalena mi spingevano troppo in
alto, così in alto da farmi temere di precipitare giù giù nella volta del
cielo. Ecco, proprio così pensai terrorizzata, qui mi sto inabissando nel
vuoto più vuoto. Contemporaneamente lo stridere del treno sulle rotaie
ricominciò a ringhiare, espandendosi tremendo in quella immensa
cupola senza confini. Chiusi gli occhi, anzi li serrai con forza, non
volevo vedere più nulla.
Tenni gli occhi chiusi molto a lungo, così a lungo che mi svegliai
quando sentii il papà che diceva alla mamma: ”Te l’avevo detto che la
Rosaria è ancora troppo piccola per questi viaggi, siamo già a Pado-
va e ha sempre dormito”.
Di quel primo giorno a Padova non ricordo nient’altro, se non
quell'immane sensazione di fare un salto nel vuoto, di valicare un
confine importante che provo ancora ogni volta che attraverso quella
strettoia sempre battuta dal vento che all’altezza di Pove del Grappa,
appena a Nord di Bassano, immette dalla Valsugana alla pianura.
“E’ un altro mondo” dico sempre a chi mi sta vicino in macchina e io
non so ancora, dopo tanti anni, da che parte di questo confine sta il
mio cuore .
Padova con la zia Agnese, Maestra,
e la signorina Suster
colorita città andalusa

Quando compii nove anni, la zia Agnese, zia di mia mamma e maestra
in pensione che viveva con noi da alcuni anni, pensò di farmi un bel
regalo: un viaggio a Padova, per visitare il suo famoso “Cimitero
Monumentale”.
Lei era una patita dei luoghi solennemente religiosi: mi prometteva
sempre che se avessi fatto la brava mi avrebbe portato nientemeno che
a Lourdes. Io che avevo visto delle diapositive, per altro avveniristiche
per quegli anni, che la zia aveva portato da uno dei suoi numerosi
viaggi in “quell’angolo di Paradiso”, come lo chiamava lei, piene di
ammalati, di barelle, di visi tristi e pallidi, ero terrorizzata da questa
promessa-minaccia, ma naturalmente non l’avevo mai detto a nessuno
in famiglia.
La prospettiva di andare a Padova, di cui nulla ricordavo se non la
magia di quel grande chiarore del mio primo viaggio in pianura con i
genitori, mi fece superare il senso di gelo che la parola cimitero mi
aveva un po’ messo nelle ossa: “Sarà un monumento “, mi ripetevo la
notte prima della partenza, quando non riuscivo proprio ad addormen-
tarmi, “non un vero cimitero con i morti” .
E dunque una mattina di fine Giugno partimmo con il primo treno,
quasi all’alba: la zia Agnese, la signorina Schmidt (un’anziana
maestra in pensione sua ex collega di scuola) e la sottoscritta.
Non dormii assolutamente durante il tragitto. Ormai, dati i molti viag-
gi fatti con i genitori ogni Settembre, ero abituata a starmene in treno
per molte ore senza stancarmi, sempre intenta ad elaborare storie e si-
tuazioni sullo sfondo di quel paesaggio mutabile e vario che scorreva
fuori dal finestrino. Con gli anni avevo cominciato ad attribuire anche
un titolo a questi lungometraggi, a seconda della destinazione (viaggio
per Ancona, viaggio per Roma, viaggio per Torino ….) e dei sottoti-
toli: “pecore sotto la pioggia, mare freddo con nave, finestre illumina-
te di case nella notte, braccia che salutano visi tristi, …” ; titoli e sot-
totitoli che scrivevo su un quadernetto dalla copertina nera con una e-
tichetta bianca tutta smerlata su cui avevo scritto: “Diario di una re-
gista in viaggio” e che ho tenuto ben nascosto per anni, temendo deri-
sioni da parte di mia sorella più grande, sempre pronta a ridicolizzare
ogni mia fantasticheria (bambocciate, le chiamava lei, raccontandole
con gran risate a tutti i suoi amici ...).
Tutto questo impegno mi rendeva i viaggi in treno veloci e leggeri;
così anche quel giorno arrivai alla famosa Padova con gli occhi ben
aperti e con un nuovo film per il mio diario, dal titolo: “Viaggio per
Padova – fuori dalla valle la luce si accende nella pianura ” (da
bambini non si teme il ridicolo anche se si dà sfogo alla poesia...).
E dunque, per nulla stanca, alle nove di mattina oltrepassai il grande
cancello del famoso “Cimitero monumentale di Padova”, tanto o-
sannato dalla zia Agnese. Per mia fortuna l’anno precedente con i
genitori avevo visitato in lungo e in largo Roma, perciò mi sembrò di
ritrovare qui la fastosità delle fontane romane (la cosa di Roma che mi
aveva affascinato di più), quei marmi chiari, quegli angeli dall’espres-
sione gioiosa con le grandi ali spiegate ... insomma, tirai un sospiro di
sollievo, si trattava davvero solo di monumenti, non di morti; mi rilas-
sai finalmente, pregustando ciò che la giornata a Padova mi avrebbe
riservato, una volta esaurito il “tema” cimitero.
Questa zia Agnese aveva molte rigorose regole di comportamento (“le
massime eterne” le chiamavamo noi nipoti) che governavano la sua
vita di Maestra e con cui ci ossessionava la vita, però tra le odiatissime
regole (non parlare o cantarellare a tavola, non fischiettare se c’erano
degli adulti, non dire parolacce, non pestare troppo i piedi camminan-
do, non, non, non…) ce n’era qualcuna che ci piaceva e che apprezza-
vamo, essendo a nostro favore. Una di queste era: “Quando si viag-
gia, si deve farlo in modo comodo e signorile, altrimenti non si go-
dono le bellezze né naturali né artistiche: meglio stare a casa” . Ero
certa perciò che la zia “non si sarebbe fatta mancar nulla (special-
mente all’ora di pranzo, data la sua fama di buongustaia, comprovata
da una taglia extra forte). E infatti la “massima del viaggiar comodi e
signorilmente” mi permise di godere Padova, per esser la prima volta
che la vedevo in modo consapevole, da un’ottima angolatura. Finita la
visita al cimitero e raggiunto il centro della città, la zia ci condusse su-
bito in un bel ristorante, che lei ben conosceva, ma di cui non ricordo
il nome. Ricordo solo che i suoi tavolini erano disposti uno in fila al-
l’altro sotto il portico di una piazza (Piazza dei Signori) in fondo alla
quale scorsi sopra un arco un grande orologio, che mi sembrò un
qualcosa di meravigliosamente magico, incantevole, con quei colori
azzurro e oro e con quel gran leone alato in pietra che da sotto sem-
brava lo sorreggesse. Purtroppo la zia Agnese era, come mia mamma,
“Maestra per vocazione e a tempo pieno”, così mi rovinò l’incanto,
frastornandomi la testa con la spiegazione complicatissima di come
funzionava quel famoso marchingegno. Io ero incapace di prestarle at-
tenzione, affascinata e quasi abbagliata dalla luce forte che illuminava
la piazza e che contrastava con l’ oscurità della volta bassa sotto cui si
trovavano i tavoli. Provavo la stessa sensazione di mistero e un po’
ansiogena di quando si entra nei suk delle città arabe: questi visi in
ombra sotto il portico, in cui vedevo brillare occhi lucenti, quelle voci
dai toni alti con un accento diverso dal mio, tutte quelle biciclette che
sfrecciavano come un’orda di cavallette, quella polvere gialla solleva-
ta dal traffico nell’afa del mezzogiorno….
Insomma una bella cascata di emozioni che, aggiunta alla spossatezza
per la notte insonne, il viaggio in treno, la lunga passeggiata in cimite-
ro, mi stava facendo svenire. Finalmente la zia smise la sua pedante
lezione da maestra e mi permise di consultare il menu: dopo un piatto
di gnocchi di patate con ragù (ne sento ancora il sapore, da quanto li
gustai!) cominciai a riprendere fiato e a guardarmi di nuovo intorno
incuriosita.
Ero abituata a pranzare in ristorante una volta alla settimana, esatta-
mente ogni giovedì, giornata di vacanza da scuola, quando mia mam-
ma portava tutte e tre noi figlie a Trento per “respirare aria di città”.
Prendevamo il treno delle 7.30 di mattina, così alle 9 eravamo già a
far colazione in un bar di piazza del Duomo, poi un bel giro per ne-
gozi ed infine il pranzo al Forst, un vecchio e famoso ristorante di
atmosfera elegante e silenziosa. Non ricordo cosa mangiavo (non sono
mai stata molto interessata al cibo!), ma ricordo le pareti ricoperte di
un legno scuro, così come il soffitto. Una parte della sala era riservata
al bar ed accanto a comode poltrone c’erano i quotidiani infilati in
quelle stecche di legno che tenendoli ben tesi e spalancati, ne facili-
tano la lettura e che vedo ancora adesso in certi locali pubblici del
Trentino.
In confronto a quel garbato pasteggiare, questo pranzo a Padova mi
parve un’orgia di profumi e di colori, anche perché si mangiava al-
l’aperto, cosa questa che a Trento non avevo fatto mai in nessuna sta-
gione. A rendere più esotica l’atmosfera contribuiva anche il camerie-
re, che, magro, con dei baffetti scuri, andava avanti e indietro scansan-
do agilissimo i passanti: la fascia scura che gli stringeva alta la vita e
le sue movenze così veloci me lo fecero sembrare un ballerino di fla-
menco. Non ero ancora andata in Spagna, ma così me la immaginavo!
Insomma neanche a Siviglia, in quell’estate torrida in cui la vidi la pri-
ma volta, provai queste fantastiche sensazioni.
Per il resto del giorno mi riempii gli occhi e le orecchie di immagini e
di rumori, ma non ho ricordi precisi.
La zia non smise mai di insegnare, illustrando tutto con esattezza e
precisione scolastica, mentre io ero solo attenta a non mostrarmi
stanca ed annoiata: la zia non avrebbe assolutamente compreso. Per
tutti gli anni che visse con noi, quando noi bambine osavamo pronun-
ciare la parola “stanchezza”, lei sbottava: “Con i bambini Ranzi
camminavamo tutto il giorno senza bere neanche un goccio d’acqua e
sono diventati tutti dottori”. Non abbiamo mai avuto voglia di chie-
derle chi fossero questi Ranzi, ma ridemmo sempre di loro, immagi-
nandoli noiosissimi e pedanti, rachitici, con occhialetti da miopi dalle
lenti spesse. Una volta io li avevo anche disegnati su un foglio, che
poi avevo messo sotto il piatto della zia, che non aveva proprio ap-
prezzato la cosa…..
E dunque, tornando alla giornata padovana con la zia Agnese e la si-
gnorina Schmidt, non si poteva concludere naturalmente se non con la
visita alla Chiesa di Padre Leopoldo (allora forse non ancora Beato)
che, assieme a Sant’Antonio, era in cima alla hit parade religiosa della
zia. Per il santuario di Padre Leopoldo lei è stata una vera e propria
promoter: nel negozio annesso alla Chiesa comprò per anni centinai di
“ricordini” e di opuscoletti illustranti la vita del Padre cappuccino, di-
stribuendoli poi tra parenti e conoscenti. Per noi di famiglia era nor-
male trovare l’effigie di Padre Leopoldo dappertutto: sotto i materassi,
sotto i cuscini del divano e delle poltrone, in fondo ai cassetti, negli
armadi, in ogni tasca di giacche e cappotti, nei libri, nei quaderni,
nelle borse e nelle valigie: senza mai dirlo apertamente, nessuno di noi
osò mai spostare una di queste immaginette, né si prese mai in giro la
zia per questa sua “mania”, come si faceva per molte cose che la ri-
guardavano. Il fatto è che quando ero molto piccola mio padre si era
ammalato gravemente ad un occhio e sembrava che anche l’altro po-
tesse venire compromesso dallo stesso malanno. Senza esitare un mi-
nuto, la zia Agnese si era precipitata subito a Padova “da Padre Leo-
poldo” (come diceva lei, anche se credo che il frate fosse già morto)
per implorare la guarigione. Fatto sta che mio padre migliorò e scam-
pò il pericolo del secondo intervento. Per questo in famiglia nessuno si
permise mai nessun accenno poco riguardoso nei confronto di Padre
Leopoldo, anzi. Ho ancora nei cassetti dei mobili che da casa dei miei
genitori sono arrivati ora in casa mia le famose immaginette del Santo
e non mi sogno proprio di spostarle.

Tornando a quella giornata a Padova con la zia Agnese, quando rag-


giungemmo la Chiesa di Padre Leopoldo ero proprio agli sgoccioli:
ormai vedevo solo la punta dei miei piedi e il terreno sotto di essi.
Nel momento più mistico, quando la zia chiese una benedizione par-
ticolare ad uno dei frati che mi disse di chiedere nel mio intimo a Pa-
dre Leopoldo qualcosa che mi stesse a cuore, l’unica implorazione che
mi sorse spontanea fu: “Speriamo che si trovi facilmente un taxi per
andare in stazione.”
E all’uscita della chiesa, un bel taxi era pronto là davanti, proprio per
noi: “Varda che straca ‘sta putea” disse il tassista sollevandomi da
terra e appoggiandomi premuroso sul sedile della macchina.
Fu il primo padovano che mi rivolse direttamente la parola e la dol-
cezza di quel dialetto così strascicato, quell’abbraccio comprensivo e
paterno, mi fecero concludere proprio teneramente quella giornata a
Padova con la zia Agnese, Maestra e la sua amica signorina Schmidt.
Padova con gli zii tedeschi
mediterranea metropoli gioiosa

Un’ estate si fece vivo con una lunga lettera uno zio tedesco, cugino
del padre di mio papà. Era un generale in pensione che viveva ad
Essen, nel bacino della Rhur, in Germania, di cui si era sentito parlare
in passato tra i parenti di Primiero, ma che nessuno aveva mai cono-
sciuto. Nella lettera spiegava a mio padre , “liebe nipote Antonio”, che
aveva voglia di incontrare i suoi parenti italiani e che aveva scelto lui
come primo anello di congiunzione per questa rimpatriata.

Non abbiamo mai capito perché toccò a mio padre questo onore. Tra
le ipotesi più plausibili c’era quella del comune nome Antonio, anzi
Antooooonio, con la “o” stretta, secondo la pronuncia di questa spe-
cie di zio tedesco.
Fatto sta che un pomeriggio di metà Agosto “Onkel Antooonio” arri-
vò alla stazione di Trento con un treno proveniente da Monaco di Ba-
viera, assieme alla sua amata Frau Margaretha.
Quando lo vedemmo, non fummo nemmeno meravigliati, da quanto il
suo aspetto rispondeva perfettamente ai canoni di un ritratto di un “per
fetto generale tedesco”: occhi azzurri e sguardo gelido, passo pesante
e cadenzato, testa ben eretta sul collo.
Dopo una certa soggezione iniziale, con l’andar dei giorni noi bambi-
ne non gli demmo più molto importanza, ci faceva anzi divertire con
quei modi da attore tedesco un po’ vecchiotto e ridicolo. Purtroppo in-
vece mio padre, il “liebe” nipote ritrovato, si divertiva davvero poco:
lo zio si rivelò nei suoi riguardi una presenza incombente ed inces-
sante: “Antooonio, diritto il busto e sguardo fiero”, gli imponeva di
continuo con uno sguardo severo. Questo nipote sempre seduto o alla
scrivania o al pianoforte o in poltrona a leggere lo aveva deluso.
“Antooonio, ginnastica, ginnastica, ginnastica” vociava quando,
uscendo la mattina quasi all’alba dal bagno, passava davanti alla
stanza dei miei genitori, dove mio padre, il povero Antoooonio, dor-
micchiava ancora tutto tranquillo.
La sfortuna era che non esisteva nessun altro maschio in casa da in-
quadrare nel suo reggimento e dunque il povero papà era l’unico ber-
saglio di tutto questo energico e militaresco autoritarismo teutonico.

A differenza del marito, ferreo generale, la moglie, la cara Frau Mar-


garetha era una donna pigra e rilassata, bionda e di aspetto imponen-
te. Fin dal primo momento, ciò che ci colpì di lei fu la sua sover-
chiante eleganza. Aveva riempito la stanza di così tanti vestiti che, es-
sendo l’ armadio un po’ piccolo, si era dovuto stendere un filo per sor-
reggere degli appendiabiti tra le due finestre. Per ogni occasione del
giorno cambiava non solo abbigliamento, ma anche profumo, scarpe,
borsa. Quando non era in casa, noi bambine entravamo di nascosto
nella sua stanza guardare tutto quel ben di Dio: “E’ come essere a
Parigi”, così diceva mia sorella più grande e noi due piccole natu-
ralmente le credevamo, sentendoci partecipi di una grande avventura.

Mia nonna, sempre pronta ad appioppare nomignoli, la chiamò subito


“la generala margarina” (forse per quei chili di troppo, il nome Mar-
garetha e il colore chiaro della pelle?) e non la badava molto.
Invece mia mamma era al settimo cielo, sia per il militarismo pom-
poso dello zio, con i suoi frequenti baciamano, che per l’eleganza
“parigina” della moglie. Facevano salotto tutti i pomeriggi, invitando
anche altre signore. Per fortuna d’estate il paese si riempiva di amiche
di mia mamma che venivano in villeggiatura e così c’era quella vitali-
tà di cui lei aveva bisogno e che in fondo piaceva molto anche a noi
tutti.
Mio padre invece si arrabattava a portare in giro per i dintorni questo
anziano scalpitante atleta, tanto per stancarlo, ma tornava stanco e
spossato solo lui. “Wir sind gecommen” urlava il generale “Siamo di
ritorno”, e mio padre si rifugiava mogio mogio in cucina dove la non-
na gli preparava subito un caffè forte con la grappa o un bicchierino
del famoso “Vov” fatto in casa.
Tutta questa lunga introduzione per illustrare bene i personaggi con
cui feci il mio terzo viaggio a Padova.
Quando ormai la pesante ospitalità stava per finire, mancavano due
giorni alla partenza degli zii, si decise di passare una giornata a Pado-
va, città sacra a Sant’Antonio, comune protettore di zio e nipote.
”Tanto per concludere in bellezza”, dissero i miei genitori e “mostra-
re un po’ di Italia a questi tedesconi”, aggiunse mia mamma, che
sempre ebbe verso i Tedeschi quell’astio che mia nonna, austroungari-
ca di nascita, aveva invece per gli Italiani, anzi “i Taliani”, come
diceva lei.
Era una questione di generazioni diverse, quella prima e quella dopo il
ritorno dell’Italia nel Trentino, l’una legata indissolubilmente ai ri-
cordi dell’Austria felix (se così fu) e l’altra legata alla gioia di una
Italia ritrovata. C’è da dire che il primo contatto di mia nonna con l’I-
talia non fu dei più felici. Risaliva a quando, durante la prima guerra
mondiale, la gente di Primiero fu portata profuga in Liguria: al loro
arrivo fu chiesto ad ognuno di scrivere una croce su un foglio. Stupore
generale “Perché una croce e non la firma?”. Così scoprirono, con
grande scandalo, che “in Italia” c’era anche chi non sapeva scrivere,
cosa inesistente “sotto l’Austria”, anche nei ceti più bassi. La nonna
ricordava sempre quel fatto e ad esso aggiungeva tanti altri piccoli e-
pisodi che la fecero rimanere affettuosamente legata per tutta la vita
alle sue origini “sotto l’Austria”.
Questo profondo contrasto familiare, tra la mamma così “italiana” e la
nonna così “tedesca”, ha influenzato molto il mio carattere, abituando-
mi o costringendomi a cogliere il bene e il male negli opposti e impe-
dendomi spesso di prendere una posizione netta a favore di una o del-
l’altra parte.
L’italianità di mia mamma raggiungeva l’apice quando ci spingevamo
in viaggio verso Nord, lungo la val d’Adige. Non appena arrivavamo
ad Egna-Neumarkt e nei cartelli segnaletici compariva accanto alla
scritta in italiano quella in tedesco, da quel momento in poi la mamma
si rifiutava di profferire anche una sola parola di tedesco, che pur co-
nosceva abbastanza bene. Lo riprendeva in uso se arrivavamo in Au-
stria. “Finchè sono in Italia”, diceva,” voglio parlare italiano e pre-
tendo che mi capiscano, questi crucchi”.
Credo che per lei i “crucchi” fossero gli altotesini, mentre quando
parlava di “tedesconi” si riferiva agli Austriaci e Germanici.
Ricordava i primi anni di insegnamento in una valle dell’Alto Adige
come se fosse stata deportata in Siberia: “ Quei crucchi”, diceva,
“sono freddi, ridono solo se sono ubriachi”. Insomma, frasi che senti
da bambina e che ti ronzano poi nella testa per tutta la vita, lasciando
un’ impercettibile, ma indelebile traccia.
E dunque, tornando al viaggio con gli zii tedeschi, si noleggiò una
grande macchina con autista (la stessa che quotidianamente collegava
il paese alla stazione ferroviaria) e partimmo per Padova tutti, eccetto
la nonna, ben contenta di starsene un po’ in pace.
La disposizione dei posti in macchina non fu a mio favore. Avendo
una odiatissima sorella minore, lei naturalmente riuscì a piazzarsi da-
vanti, in braccio al papà, vicino all’autista ed allo zio, e io finii dietro
con l’altra sorella, schiacciata tra le due signore, stordita non poco dal
potentissimo profumo della "generalona". Per tutto il viaggio vidi solo
la testa di mio padre che mi sedeva proprio davanti, felicissimo di po-
ter stare finalmente seduto per due ore senza sentirsi angariare dal ge-
nerale zio. Durante il viaggio indicava spesso col braccio allo zio i
luoghi, parlando di “grenzen” (confini), Austria, Italia, altopiano di
Asiago, Ortigara, truppe in ritirata, bombardamenti, ferrovia, rife-
rendosi di certo al fatto che la Valsugana fu teatro di molte vicissi-
tudini storiche sia nella prima che nella seconda guerra mondiale.
Il mio unico pensiero fu di non vomitare, visto che soffrivo e soffro di
nausea in macchina, perciò stetti sempre molto ferma, con lo sguardo
fisso in avanti. Ogni tanto sentivo mia mamma che anticipava alla
liebe Margaretha le bellezze di Padova, una vera città italiana, preci-
sava.
Finalmente la macchina si fermò. Lo zio generale fu naturalmente il
primo a toccare terra: oplà, lieve flessione delle ginocchia e ritto in
piedi, pronto alla marcia. L’autista lo guardò non so se meravigliato o
divertito e aiutò tutti gli altri a scendere, dandoci appuntamento per il
tardo pomeriggio.
Mi guardai intorno felice di non aver vomitato in viaggio e la felicità
si moltiplicò all’infinito per la bellezza di ciò che vidi: una piazza così
grande e luminosa (Prato della Valle) che non avevo visto nemmeno a
Roma, e sì che là ne avevo ammirate di piazze. “Wie wunderbar!”
esclamò per tutti lo zio, con voce meno tonante del solito, quasi inti-
midito anche lui da questa immensa distesa armoniosamente incorni-
ciata da case e palazzi e dalla facciata di una basilica (Santa Giustina)
che sembrava un miraggio lontano sospeso in un tremolio azzurro.
Mia mamma si sentì fierissima della prima impressione e disse:
“L’Italia è tutta bella”, come se qui si fosse più in Italia che nella
nostra vallata.
Respirammo tutti profondamente e stemmo un po’ zitti a goderci il
momento.
Dopo brevi parlottii, sentii che nominarono Sant’Antonio Kirche e ci
incamminammo per una strada dagli alti portici (via Luca Belludi) in
quest’ordine di marcia: davanti naturalmente il generale zio con il pa-
pà, che aveva cominciato a sfogliare una guida di Padova in tedesco,
dietro le tre bambine “a manina” e in fondo, a chiudere il drappello, le
due signore.
Il mio stomaco, rimessosi dalla scombussolata del viaggio, comincia-
va a implorare un buon cappuccino caldo con qualche pastina, “In
fondo è ora di colazione, sono ore che siamo in viaggio ” borbottavo a
bassa voce per non farmi sentire e non sembrar capricciosa, sempre di-
ligente nel fare la brava bambina…. “Voio caffelatte bono”, urlò mia
sorella più piccola: quanto la odiavo per quella sua possibilità di dire e
fare quello che voleva, senza nessun ritegno. Infatti, come feci notare
a mia sorella più grande, nessuno la sgridò, nessuno parlò di “capric-
ci”, anzi, tutti risero e mia mamma disse: “Poverina, è stata anche
troppo buona, non è come le due grandi che sono abituate a viaggia-
re!”. “Eh già” brontolai tra di me “quella ce l’ha sempre vinta, per-
ché è piccola, nessuno si accorge di quanto prepotente è, ogni sua pa-
rola è legge..” Ma intanto , ”per merito di quell’odiosa”, come mi
fece osservare mia sorella più grande in tono ironico ( lei non condi-
videva con me questo rancore esistenziale contro la piccola), dopo al-
cuni minuti eravamo seduti in un bar accanto alla basilica per godere
di una delle più belle colazioni della mia vita. Ancora adesso quando
passo per piazza del Santo in qualche mattina d’estate mi torna vivido
il ricordo di quella colazione: Padova ci accolse proprio in un abbrac-
cio sontuoso anche quella volta, come sempre.
Finita la Fruhstuck, entrammo nella Basilica del Santo di cui quel
giorno notai solo il pavimento tutto sconnesso e basta, in quanto ero
tutta presa a mugugnare sulla mia situazione di bambina non compresa
e dunque camminavo torva e a testa bassa.
E’ incredibile come si possa essere tristi e perdutamente disperati da
bambini quando si soffre di gelosia nei confronti di una sorellina più
piccola. Ricordo che ogni volta che si doveva fare qualche foto di fa-
miglia, tutti dicevano: “Rosaria, sorridi, dai sorridi”. E io pensavo:
“Sì, sorridi, basta che sorrida quella là, a cui tutti vogliono bene…”.
Dicono che ancora adesso la gelosia sia il mio più grosso difetto.
Ma torniamo a quella mattinata a Padova con gli zii “tedesconi”.
Finita la visita al Santo, ci incamminammo per una via larga (via Ce-
sarotti), svoltammo a destra, raggiungendo un ponticello (ponte Cor-
vo) da cui si scorgeva in lontananza, svettante da una macchia di ver-
de intenso, la basilica del Santo; sentii mio padre che indicando agli
zii i campanili e la cupola diceva:”….zwei minareti, moschea ”; lo zio
si illuminò tutto ed esclamò “Ia, ia” e poi captai un “Istambul, Santa
Sofia??? ”.
Bravo papà, come avevi ragione: è da Ponte Corvo che si gode la più
bella vista del Santo ed è da là che la Basilica sembra più orientale che
mai.
A quel punto il generale zio aveva ripreso tutte le sue forze e con pi-
glio atletico fece un bel dietrofront e ci immergemmo negli oscuri
portici di una stretta via (via San Francesco) per entrare nel cuore di
Padova.
Per quanto ricordo (a parte i miei mugugni esistenziali) la giornata fu
divertente e leggera, anche perché sia il papà che la mamma erano
troppo impegnati con i parenti - ospiti per preoccuparsi di arricchire
la nostra educazione con continui insegnamenti come facevano in tutti
i famosi viaggi - studio e ci lasciarono abbandonate al bighellonaggio
più assoluto.
Per quanto riguarda mio padre, di solito sempre sorridente, era molto
serio, con quella guida in tedesco piazzata a cinque centimetri dagli
occhiali da miope: di tanto in tanto lanciava qualche imprecazione in
italiano, sottovoce, quando lo zio guardava da un’altra parte.
Mi faceva tenerezza, mi sembrava di vederlo come un bambino da-
vanti a un padre troppo severo e mi sentivo sua complice (io, esperta
in sindrome di incompresa) così ogni tanto mi avvicinavo dandogli la
mano.
Anche la mamma quel giorno non fu Maestra neanche per un minuto;
era tutta spensierata e più che i monumenti guardava le vetrine dei
negozi, in cui entrava e usciva con la generala che faceva incetta di
belle cose. “Viele danke Angelina”, continuava a dire a mia mamma,
probabilmente per averla portata in questo eden di eleganza. Questa
euforia dispendiosa si riflettè beneficamente anche su noi bambine:
tutto il giorno si entrò ed uscì da bei bar e gelaterie. Mi pareva di es-
sere nel posto più allegro e vitale del mondo.
A un certo punto della giornata entrammo in un locale che mi sembrò
diversissimo da tutti quelli che avevo visto nella mia vita: divani di
velluto, grandi specchi dorati, tavolini di marmo. Mia mamma tornò
per un momento in sé, nel suo ruolo di madre-maestra, e disse:
“Attenzione bambine, questo è il famoso caffè Pedrocchi, il più famo-
so di Padova. Il caffè dove gli studenti universitari possono entrare e
sedersi senza consumare nulla”. Aggiunse anche altre informazioni,
ma io mi soffermai solo su questo particolare della “consumazione”
che nella mia testa si trasformò nell’idea che “se fai l’ Università puoi
bere gratis tutto quello che vuoi in questo bel bar ”. Per molti anni
quando sentivo che qualcuno frequentava l’ Università a Padova, lo
immaginavo spaparanzato su questi bei divani a bere cioccolate e
cappuccini gratis.
Purtroppo, mentre mi stavo godendo la morbidezza delle eleganti
poltroncine in attesa della mia bella coppa di gelato, la mia cara so-
rellina piccola cominciò a scalpitare e così mi incaricarono di portarla
un po’ fuori all’aperto, dove lei adocchiò subito accanto alla porta di
ingresso del bar dei leoni di pietra scura, su uno dei quali si arrampi-
cò come una selvaggia. “Che vergogna” pensavo, “che vergogna,
vedranno tutti che stupida è, guarda che incivile, non rispetta neppure
i monumenti.” Non le dicevo niente, sperando che rompesse qualche
pezzo del magnifico leone, magari la coda o un orecchio, in modo che
si beccasse qualche tremendo castigo dai miei una volta per tutte.
Naturalmente non cadde il leone, ma cadde lei, si mise a urlare e chi si
prese il tremendo castigo fui io: “Cattiva, come al solito non ti prendi
abbastanza cura della piccola”, disse mio padre, rammaricato. “Per
castigo, niente gelato”, aggiunse mia madre, sempre educatrice.
Ecco cosa mi ricordano i leoni davanti al Pedrocchi.
A parte tutto (e il “tutto negativo” voleva sempre dire per me la pre-
senza di mia sorella più piccola) quella giornata fu perfetta .
“Che bella città Padova” mormorò mia mamma con un sospiro
quando scendemmo dalla macchina la sera tardi, nel silenzio del paese
tra i monti.
Gli zii furono molto riconoscenti verso i miei genitori, sia per la per-
fetta ospitalità nel suo insieme, che per la bella giornata padovana e
quando alcuni giorni, arrivò il giorno della partenza, al momento dei
saluti il generale stesso si intenerì abbracciando il suo liebe nipote
Antoooonio con un affetto che ci stupì e non ci fece nemmeno ridere,
anzi ci commosse un po’.
Solo la nonna chiuse tutto l’avvenimento con un “Aufwiedersehen” in
tedesco e un “meno male che l’è finida” in dialetto primierotto.
Il Natale successivo arrivò un pacco da Essen, dove “i generaloni”
vivevano, che conteneva i seguenti regali: per il papà una pipa nel suo
bel contenitore di osso e due pesi da ginnastica (“ginnastica, ginnasti-
ca Antooonio!”); per la mamma una borsettina da sera di coccodrillo,
che fa ancora bella mostra di sé su un mobile in casa di mia sorella;
per la nonna un foulard di seta di cui lei non seppe mai che farsene,
per mia sorella grande un servizio di manicure da borsetta, per me un
orso di peluche che non avevo mai avuto e per mia sorella piccola una
bambola di marca Trudi, che fu subito battezzata Trudona.
Padova con i genitori
… se fata ciò

Poichè mia sorella più grande doveva iniziare l’ Università, si decise


che metà della famiglia, cioè mia nonna e noi due figlie maggiori, si
sarebbe trasferita a Padova: io per seguire gli ultimi tre anni del Liceo,
mia sorella per iscriversi alla facoltà di Fisica.

L’ “operazione – Padova”, che non credo sia stata della più facili, ini-
ziò a Luglio, con un viaggio a Padova dei miei genitori e la sotto-
scritta, per iscrivere me al Liceo classico Tito Livio e per cercare un
appartamentino in affitto per le due figlie e la nonna, che come al so-
lito ci avrebbe seguito e si sarebbe presa cura di noi.

Non ero molto entusiasta di questa novità, in quanto avevo frequentato


i due anni del Ginnasio a Trento, vivendo là con la nonna e mia sorella
più grande, e l’i-dea di affrontare una nuova scuola non mi garbava
molto. Per il resto prevedevo che la mia vita non sarebbe cambiata
molto: tutta la settimana scuola-casa, casa-scuola, Sabato e Domenica
ritorno al paese in Valsugana per trovare il resto della famiglia.

E dunque non partecipai con molto entusiasmo a questa spedizione a


Padova, che mi obbligava ad abbandonare nel bel mezzo di Luglio,
per un giorno intero, la compagnia di amici, compagnia che si ricom-
poneva ogni estate e con cui vivevo per tre mesi immersa in una at-
mosfera di vacanza così intensa che perdere anche solo una giornata
mi sembrava una immane sciagura.
E dunque quella mattina salii in macchina già di pessimo umore, ri-
promettendomi, per ripicca, “partecipazione zero”, atteggiamento che
ogni bravo adolescente sa gestire molto bene nei casi di sottomissione
forzata ai voleri dell’autorità familiare.

Arrivammo a Padova in macchina la mattina davvero presto; immagi-


no che i miei genitori fossero molto preoccupati, non doveva essere
un’impresa facile fare tante cose in un giorno solo. Ciò non ci impedì
di raccogliere le forze, per prima cosa, con una delle solite belle cola-
zioni al bar, che in un nessun viaggio mancarono mai.

Non ricordo assolutamente dove fossimo, ma ricordo che eravamo se-


duti all’aperto e mio padre esclamò: “Pare di essere ad Ancona, senti
che profumo di mare”. Effettivamente l’aria era quasi salmastra e al-
l’orizzonte tremolava una nebbiolina azzurra che poteva sembrare un
mare lontano. Mia mamma sospirò: “Eh, al sud si sta bene, è un’altra
atmosfera…”.

Primo impegno in agenda fu la mia iscrizione al Liceo: di questo mio


primo incontro con il “Tito Livio”, al quale mi sarei poi affezionata
così tanto, ricordo solo l’ immagine di un gruppo di ragazzi e ragazze
seduti davanti al liceo su un muretto che costeggiava un canale. Basta.
Nient’ altro per quel primo impatto. Purtroppo quel muretto e quel
canale non li avrei più rivisti, in quanto proprio quell’estate una get-
tata di asfalto cancellò irrimediabilmente tutto...

Intanto era mattina inoltrata e, via via che il tempo passava, il sole
sembrava sempre più una torcia infuocata; altro che brezza di mare.
Un’afa, una luce forte, tutto quel traffico caotico trasformarono ben
presto la città in una bolgia dantesca, rendendo la ricerca dell’apparta-
mentino un vero inferno, specialmente per mio padre, costretto a
guidare dal centro alle periferie, seguendo la macchina dell’agente
immobiliare.

Questa era una signora bionda, piuttosto corpulenta: “Ciò, non sarà
facile”, disse subito: “Ciò, in un solo giorno”, “Ciò, con tutti ‘sti
requisiti”. Insomma era una “ciòda” purissima, pensai dentro di me
ridacchiando. Così infatti vengono definiti con un pizzico di sarcasmo
(e po’ di disprezzo?) i Veneti nel Trentino per quel “ciò” che così
spesso compare nel loro dialetto.

L’imponente signora padovana mi ricordava la ostetrica che aveva


seguito mia mamma quando era incinta di mia sorella più piccola e
che doveva essere di certo veneta in quanto si rivolgeva a mia mamma
chiamandola “signora Sanetel”, invece che Zanetel, scatenando ogni
volta che arrivava l’ilarità di noi bambine. Noi la chiamavamo “la
signora Sane” (sgridatissime da mia madre, per la quale non era edu-
cativo che delle bambine schernissero un adulto) ed avevamo anche
inventato un linguaggio “alla Sane”, che consisteva nel parlare pro-
nunciando esse al posto della zeta e (tanto per divertirci di più) zeta al
posto della esse. Mio padre, sempre pronto agli scherzi, rideva molto
quando ci sentiva e diceva a mia madre seccata: “Guarda che in fondo
è un esercizio di linguaggio, lo fanno senza malizia, non ve-derla
come un’offesa alla signora “Sane””, come ormai anche lui chiamava
la gentile ostetrica. Precisava poi che questa storpiatura “Sanetel”
faceva risaltare molto bene l’etimologia del nostro cognome
“Zanetel”, che deriva dal veneto “Zane”, non dal tedesco, come po-
trebbe far supporre quella troncatura finale. La goccia di sangue te-
desco ci viene fornita dalla nonna, l’origine del cui cognome “Taufer”
non sembra dar adito a dubbi.

Ma torniamo alla giornata padovana dedicata alla ricerca dell’apparta-


mentino: dopo ore e ore di stressanti giri per la città, quando io comin-
ciavo a sperare che l’impresa andasse a monte, ben felice di tornarme-
ne alle mie vecchie abitudini, sentii la voce baritonale della corpulenta
agente immobiliare che esclamava: “Ciò, ecco quello che fa per voi:
recente costruzione, due stanze, angolo cottura, bagno, zona Santis-
sima Trinità”.

I sospiri di sollievo e l’entusiasmo dei miei genitori, mi fecero capire


che purtroppo il mio trasferimento a Padova era cosa fatta … “ciò ”.
La nonna primierotta a Padova
nell’appartamentino di via Buonarroti

Verso la fine di Settembre, prendemmo possesso del nuovo apparta-


mentino di Padova: mia sorella più grande, io e mia nonna.
Per quest’ultima abitare a Padova o a Trento non avrebbe presentato
nessuna differenza: al di fuori della valle di Primiero, ogni posto le era
estraneo allo stesso modo. Nel valutare luoghi e persone, per lei non
esisteva un nord e un sud, un est e un ovest, ma un “dentro” e un “fuo-
ri”: dentro la valle di Primiero e fuori la valle di Primiero.
Anche in mio padre, suo adorato figlio unico, si annidava questo con-
fine immaginario; pur avendo trascorso nella sua valle solo i pochi an-
ni dell’infanzia, la prendeva sempre come termine di riferimento:
“Noi mangiamo così, pensiamo così, facciamo così, usiamo così…”,
esclamava spesso. Ogni volta gli chiedevo polemica: “Senti, papà, ma
questi “noi” sono gli Italiani, gli Europei, gli uomini, i maestri, i
biondi, i miopi…?”. Lui rispondeva ironico e scherzoso: “Noi Prmiie-
mierotti naturalmente”.
Ho scoperto per caso la settimana scorsa che la moglie del mio giova-
ne dentista padovano è di Fiera di Primiero e, a detta del marito, anche
lei si trincera spesso dietro a quel famoso“da noi è così”, intendendo
con quel “noi” i Primierotti, punto di riferimento per lei basilare ed
esistenziale.
Tornando a mio padre, questo suo modo di pensare lo rese ben dispo-
sto e aperto a tutte le culture, in quanto, una volta appurato che solo a
Primiero era tra la sua gente, tutto il resto del mondo fu per lui eguale,
mai nessuna preclusione per mondi diversi, anzi. Amava molto la sto-
ria e dunque si sforzava sempre di cercare le radici storiche comuni,
sostenendo che alla fine si trova sempre un punto di unione dal quale
partire per intendersi.
La stessa espressione, quel “da noi…”, la sento pronunciata spessissi-
mo anche da mio marito che, nato in Siria, vive qui in Italia ormai da
quarant’anni anni, eppure anche lui quando dice “da noi” si riferisce
ancora alle sue origini natie. Lui è ancora più selettivo di mio padre,
perché il suo “noi” comprende la famiglia (“la tribù” dico io polemi-
ca!) e basta, non tutta la Siria in generale o la cittadina in cui è nato e
in cui vivono ancora familiari e parenti, no, quel “noi” per lui significa
solo e sempre “famiglia”.
Tornando a mio padre, noi tre figlie, quando lui si inoltrava in queste
analisi storiche finalizzate alla ricerca delle comuni radici tra le varie
popolazioni, lo trovavamo barbosissimo e lo prendevamo anche in gi-
ro: “Tu papà vedi Celti dappertutto”, gli dicevamo, dal momento che
spesso in questi discorsi lo sentivamo far riferimento ai per noi miste-
riosi Celti, come progenitori di varie etnie. “Resterete delle ignoranti,
perché ignorate la storia” borbottava, sempre con quel sorriso ironi-
co ma affettuoso che a noi figlie piaceva tanto e di cui ancora sentia-
mo nostalgia anche dopo tanti anni.
Quando gli presentai come mio probabile “moroso” quel mio compa-
gno di università arabo siriano, che poi in effetti sposai, pensai: “Spe-
riamo riesca a trovare qualche connessione, qualche radice comune
che gli renda questo ragazzo un po’ meno straniero, di sicuro non
potrò contare sui Celti…”.
Per un po’ lo vidi molto preoccupato, lo intuivo dal fatto che mi guar-
dava sempre di sfuggita e con un’espressione seria, così insolita in lui.
Capisco che non deve essere stato facile neanche per lui, pur così a-
perto a nuove esperienze e conoscenze, abituarsi a questa novità.
Però, dopo alcuni mesi, sentii che parlando con degli amici, a cena, di-
ceva che dobbiamo renderci conto che gli Arabi hanno influenzato
molto positivamente delle vaste zone non solo della Spagna, ma anche
del sud Italia e dunque...
Capii che era fatta, il ragazzo era stato accolto. “Niente Celti, questa
volta papà, vero?” , gli buttai là prima di andarmene a letto quella se-
ra. “Ringrazia la storia” borbottò lui sorridendo….
Tornando alla nonna, degna madre “primierotta” di tale figlio, in
qualsiasi posto abitassimo, il suo stile di vita fu lo stesso: usciva da ca-
sa ogni giorno di mattina presto per fare la spesa e la domenica per
andare a messa. Basta.
Invece quando d’estate andavamo a Siror, il paese della valle di Pri-
miero dove lei era nata e dove abbiamo sempre conservato il suo vec-
chio appartamento ricavato nell’antica scuola davanti alla chiesa, la
nonna si trasformava completamente: era sempre in giro, a visitare le
sue numerose sorelle, nipoti, amiche, conoscenti, chiacchierona, alle-
gra, socievolissima… insomma, irriconoscibile.
Per tutto il resto dell’anno, quando era “fuori dalla sua valle”, come
diceva lei, finito di cucinare per tutti noi, compito che si accollò finchè
visse, si ritirava nella sua stanza, chiudendo anche la porta; non che
fosse triste o arrabbiata, no, era sempre serena, ma diceva che non a-
veva niente da dirci; eravamo noi ad entrare ogni tanto nella sua stan-
za per scambiare qualche parola con lei.
In questo nuovo piccolo appartamento di Padova, che occupammo per
tre anni finchè la famiglia non si riunì al completo, la nonna non potè
mai isolarsi: la sua stanza in pratica era il salotto-studio con angolo
cottura, che la sera si trasformava in camera da letto. Questo fatto mi
piacque sempre molto, perché mi piaceva vederla seduta sul divano
mentre studiavo. Apriva sempre un libro di preghiere, guardando vec-
chie foto, che ogni tanto, quasi furtivamente, baciava. Una volta le
chiesi che preghiere facesse ogni pomeriggio e lei mi rispose: “Prego
per avere una buona morte”. Nei momenti tragici della vita, ho sem-
pre ricordato e sempre ricorderò queste sue semplici e terribili parole.
E dunque, tornando a quei primi giorni a Padova di noi due nipoti e
della nonna, il mattino dopo il nostro arrivo la nonna, come al solito,
dopo averci portato il caffè a letto (quanto ci viziava e ci coccolava
con queste premure...), uscì per andare a fare la spesa in un negozietto
di alimentari che era proprio davanti a casa. Tornò con un sorrisetto
divertito. “I è simpatici, ‘sti Padovani, i ciacera, i ciacera, ma i è
gentili”.
Per lei il chiacchierare troppo era sempre un segnale negativo, però in
questa occasione quel “ma” era indice di una giudizio altamente posi-
tivo.
Il negoziante, per darle il benvenuto, le aveva regalato tre baci peru-
gina “Anche per le nipoti”. “Nol me compra mia coi baci, ghe vol al-
tro” ci disse ridendo e alzando le spalle con sufficienza, quando ci ri-
ferì la gentilezza.
Per mia nonna ogni manifestazione di affetto era sospetta: quando noi
ci avvicinavamo per darle un bacio, e conoscendo la sua reazione-al-
lergica lo facevamo spesso, lei si scostava di scatto e diceva: “Sta’
lontana, l'è baci de Giuda”.
Però baci o non baci, la sua prima impressione di questa città nuova fu
davvero positiva. Le era piaciuta questa cordialità di “Vasco de Ga-
ma”, come avevamo battezzato noi ragazze il gentile negoziante, per il
suo aspetto così scuro, con quei capelli neri “come un torero spagno-
lo” aveva sentenziato mia sorella più vecchia, che sognava sempre po-
sti lontani. E dunque per merito di Vasco de Gama, ogni giorno la
nonna tornava dalla spesa sempre con quel sorrisetto divertito per tutto
quel vociare, quel mercanteggiare, quel battibeccare salace a cui assi-
steva in quel negozio di quartiere, dove tutti si conoscevano, parlava-
no apertamente “dei so afari” senza quella riservatezza tanto familia-
re a mia nonna. “Insoma par de eser a teatro ” concludeva divertita e
con simpatia per questo unico angolo di Padova che lei frequentò.
La cosa che però la disturbava e che non accettò mai era “tuto ‘sto
darse del tu”. Bisogna pensare che mio padre le si rivolgeva ancora
con il voi: “Voi mamma” le diceva e anche mia madre, donna così
moderna, si era dovuta suo malgrado adeguare a questa forma desueta.
“Voi nonna”, la chiamava, mettendosi nella prospettiva di noi nipoti.
Non piaceva proprio alla nonna questa abitudine del “tu”: ricordo che
molti anni dopo, quando dovemmo ricoverarla in ospedale qui a Pa-
dova, un’ infermiera le si rivolse dicendole “E ti noneta …..”. Lei la
fulminò con gli occhi, con quel poco di energia che le era rimasta, e
mi sussurrò angosciata: “Stame sempre vicina, qua i se tol masa con-
fidenza”. E’ stata l’unica volta che mia nonna mi ha rivolta aperta-
mente una richiesta di aiuto.
“Allora, nonna, come sta oggi Vasco de Gama?”, così salutavo ogni
giorno la nonna tornando dal liceo nel piccolo appartamento di via
Buonarroti. Grande presenza per la nostra piccola vita familiare questo
Vasco...
E fu per merito suo se fummo testimoni di una grande svolta nel com-
mercio al minuto di Padova. Andò così: un bel giorno la nonna ci rac-
contò che nel palazzo accanto avevano aperto un nuovo negozio di
alimentari. I proprietari erano “Do bei zovanoti biondi” , disse la non-
na. Anche loro il primo giorno la accolsero con grande cordialità e le
diedero in omaggio tre roselline per lei e “Anca par ‘e nipotine!” . Lei
disse, tornata a casa: “I è furbi, ma i ga i prezi più boni, più varietà,
roba più fresca e i ghe sa far. Me sa che el pore Vasco el dovrà se-
rar”.
Infatti il povero Vasco dopo non molto tempo dovette chiudere davve-
ro il suo negozietto, anche se noi, e penso con noi anche altri affezio-
nati clienti, fino alla fine cercammo di comprare da lui alcuni prodotti,
impietosite dall’immane sciagura che rappresentò per lui il fiorire ri-
gogliosissimo di questo vicino così invadente. Alla fine venne assunto
come commesso nel nuovo moderno negozio, cosicchè ci tranquiliz-
zammo tutte noi di famiglia e la spesa si fece sempre in questo che fu
il primo degli Alì Market padovani.
Una montanara
al Liceo classico Tito Livio di Padova

“Oh, abbiamo una montanara tra noi”. Di certo il professor Lino


Lazzarini, indimenticabile professore di italiano, non si rese conto di
quanto bene mi fece questa frase che egli borbottò quando, scorrendo
il registro di classe il primo giorno di scuola, vide che ero nata in Val-
sugana e che avevo frequentato il Ginnasio a Trento. Non so perché,
ma invece che farmi sentire “diversa”, mi sembrò che questa sua usci-
ta mi avesse dato una collocazione privilegiata nel gruppo dei miei
compagni. Scoprii poi, con l’andar degli anni, che il professore amava
particolarmente la montagna, per quello nell’appellativo di “montana-
ra” avevo sentito un’ intonazione quasi di ammirazione.
Non essere di Padova non mi creò nessun problema nei rapporti con i
miei compagni di classe.

Avevo avuto un maggior senso di estraneità a Trento, dove pesò molto


la mia nascita in “valle” e non in città: durante i due anni del Ginna-
sio, nessuno dei compagni di classe mi invitò mai ad una delle famose
“festine del sabato pomeriggio”, che erano il collante per amicizie al
di là della scuola. Rimasi perciò sempre una “straniera”.

Invece questo Liceo di Padova mi sembrò accogliermi con un caldo


abbraccio: il primo sabato di Ottobre ero già in casa di una compagna
di classe per la “festina” di apertura anno scolastico. Fui così felice.
Pensai che forse l’ ambiente padovano era più metropolitano di quello
della piccola città di Trento, più abituato a persone che vengono da
fuori e perciò disposto ad accogliere una “straniera”.

A distanza di anni penso che il “respiro” metropolitano fosse più che


altro dentro di me, un’ impronta data dalla “voglia di città” di mia
madre e dalla entusiasta propensione ad affrontare nuovi ambienti che
fu di mio padre.

Anni fa ho curato un libro di ricordi di ex alunni del Tito Livio e ho


scoperto con mia grande meraviglia che, diversamente da me, molti
ebbero invece un impatto gelido con il famoso Liceo, in cui esisteva (e
esisterebbe ancora) un certo ambiente chiuso, fatto da figli di famiglie
più in vista nel contesto cittadino, che di solito abitano “in centro”.
Carlo Barotti, spiritosissimo medico padovano, leader della goliardica
Banda Lenguazza, scrive in questo libro di ricordi “…..ero andato ad
abitare a Paltana, oltre il ponte del Bassanello e mi chiamavano ter-
rone”.
Che la mia provenienza “montanara”, e dunque chiaramente dal nord,
mi abbia aiutato?

Come avevamo fatto finchè studiavamo a Trento, ogni sabato po-


meriggio mia sorella ed io tornavamo a Strigno, in treno a trovare ge-
nitori e sorella.

Non appena arrivate in paese, andavamo alla scuola elementare, per


incontrare subito i nostri genitori che per decenni insegnarono nelle
“postelementari” (si chiamavano classe sesta, settima, ottava): una i-
stituzione scolastica, credo retaggio austriaco, che permise a molti ra-
gazzi trentini di raggiungere un'istruzione superiore senza muoversi
dai paesi di origine, dove non sempre c'erano le scuole medie. A que-
sto proposito, ricordo che mio padre si diede molto da fare (quanti
viaggi a Roma, quante discussioni con politici vari!) per riuscire a far
parificare questo titolo di studio a quello delle scuole medie, cosa che
permise a questi ragazzi di poter poi intraprendere la loro carriera la-
vorativa con un titolo scolastico avanzato.

Abbiamo ancora la prova, quando andiamo a Strigno, poche volte a


dire il vero, di quanta riconoscenza e affetto abbiano gli ex ”scolari”
dei miei genitori per i “Maestri Zanetel” e la cosa ci fa piacere.

Strigno: adesso che ci penso il paese era un'immagine molto concreta


di una suddivisione nord – sud, in quanto la strada statale che va a
Castel Tesino e poi al passo Broccon divide il paese in due parti: a
nord la zona più rurale, raccolta attorno ad una piazza che, mi pare,
chiamavamo “piazoleta”, a sud quella degli uffici, estesa attorno alla
bellissima piazza del Municipio dove, accanto ad altre costuzioni im-
portanti, sorgeva e sorge imponente e solenne la casa dove abitavamo,
e dove sono nata, ex palazzo Castelrotto. Che fosse un palazzo con u-
na sua storia secolare l'abbiamo saputo solo anni fa da Adone Toma-
selli, ex alunno e pupillo di mio padre, amico nostro fraterno, pittore
illustre e storico appassionato.

Che vitalità sotto le nostre finestre, che paese allegro era Strigno.
Chissà se lo è ancora? Spero e credo proprio di sì!

La domenica pomeriggio, un po' malinconiche, ce ne tornavamo a


Padova, nel famoso appartamentino di via Buonarroti, dove la nonna
ci faceva trovare, immancabile, per anni, la famosa “minestra di orzo
con wurstel”, secondo una ricetta primierotta, che ci rincuorava e ci
faceva sentire “a casa”.
La mamma diventa padovana
e per l’occasione cambia nome

“C’è Angela, per piacere?”. “Mi chi è questa Angela, non si è sem-
pre chiamata Angelina?”, pensavo con un certo fastidio quando
qualche collega di mia mamma la cercava al telefono.
Già, amava cosi tanto questa città mia mamma, che quando anche lei,
con mio padre e la nostra sorella più piccola, si trasferì definitiva-
mente a Padova, adottò il suo nome ufficiale, quello dei documenti:
Angela. Con questo nome si sentì una vera cittadina padovana, non
con quel nomignolo “Angelina”, così banalino, così paesano, “No, no,
basta “paesanerie” come diceva lei “se Dio vuole, siamo in città”.
Fu davvero l’ unica in famiglia a sentirsi da subito padovana a tutti gli
effetti; per quanto riguarda il papà e la nonna, rimasero sempre e solo
“primierotti”, delle mie sorelle non so che dire, non ho mai affrontato
con loro questo argomento. Di me posso dire che, dopo aver lasciato
la valle in cui sono nata e di cui non ho per altro nessuna nostalgia,
non so più di dove realmente sono: mi sento come una trottola che
gira gira gira senza decidere mai dove fermarsi. Il fatto di aver in se-
guito sposato uno straniero mi ha ancora di più complicato la vita.
Credo di essermi fatta una specie di malsana convinzione: mi sento
sempre straniera. Se sono a Padova, sono trentina, se sono a Trento
sono padovana, se sono al sud (da qualsiasi parte del mondo), sono
nordica, se sono al nord, mi sento meridionale. L’unica certezza, al-
meno spero, è di essere Europea, non “cittadina del mondo”, che mi
sembra un po’ vago ed utopistico, ma Europea. Bah; certo che deve
darvi una bella base di sicurezza questa piattaforma su cui poggiate
saldamente i piedi per tutta la vita, tutti voi che avete radici così ben
definite e profonde, non come me, che traballo di qua e di là nella
continua e faticosa ricerca di un punto d’appoggio (“Cerco un centro
di gravità permanente…. “ diceva una vecchia canzone di Battiato)
come un mappamondo senza piedistallo.
Certo che quando girando per il centro di Padova passo davanti al
mio liceo Tito Livio, entro nel cortile nuovo del “Bò” attraversandolo
da un portone all’altro (“scorciatoia” che di frequente usiamo noi che
là abbiamo frequentato Giurisprudenza), mi fermo un momento sotto i
portici di fronte al Duomo e guardo il profilo del Battistero sullo sfon-
do del cielo al tramonto, mi siedo sotto i grandi alberi di piazza Capi-
taniato nei giorni caldi dell’estate, mi rifugio in una mattinata d’inver-
no in un bar del Ghetto per bere un buon caffè e fare due chiacchiere
con qualche amica..., in questi momenti mi dico: “Voglio proprio be-
ne a Padova, qui è casa mia, qui c’è tutto il mio mondo, eh sì, solo qui
mi sento a casa... però, però, però... non sono padovana”.

Tornando alla mamma, fu davvero amore a prima vista quello che la


legò a Padova, che divenne da subito la “sua” città. “Dove è la mia
famiglia, là sono le mie radici“, era solita dire, però a Padova le sue
radici affondarono molto profondamente, trovando subito il loro
humus naturale. Il calore di Padova fu per lei quasi palpabile, le co-
lorò la vita a tinte vivaci. Non passava giorno che a tavola non escla-
masse, anche dopo anni che abitavamo qui: “Certo che questi Pado-
vani sono proprio simpatici, aperti, sorridenti, disponibili…altro che
quei “freddi” su da noi”.

E lo diceva con quella smorfia di amarezza e di disgusto, che la fred-


dezza di sentimenti o meglio il ritegno a mostrarli, le provocò sempre.

Reputava “fredde” anche noi figlie, in quanto educate dalla nonna, a


sua volta considerata una “fredda”. Spesso si lamentava con noi tre,
anche adulte, dicendo con gran tormento: “So che mi volete bene, ma
siete così fredde”. Forse non aveva torto.

L’educazione nordica e austera della nonna ha davvero influenzato


molto il nostro modo di esternare i sentimenti, rendendoci parche di
effusioni e dunque “fredde” secondo mia mamma. A parte il riferi-
mento ai “baci di Giuda”, che gettava l’ombra del tradimento su ogni
bacio che le volevamo dare, un’altra manifestazione di affetto da cui
la nonna si ritraeva quasi di scatto era quando per strada volevamo
prenderla affettuosamente sottobraccio: “Lasème star” diceva ridendo
ironica, “me par che me porteghe in prison, come i gendarmi”. Noi le
volevamo bene ancora di più, capivamo che questa rudezza scherzosa
valeva più di mille abbracci, e ancora adesso ci manca il calore della
sua presenza silenziosa e intelligente.

Certo che non “toccare” le persone a cui sono molto affezionata è poi
diventata anche per me una abitudine, non sempre apprezzata da chi
mi frequenta: spesso le amiche con cui ho più confidenza restano di
stucco vedendo con quanta foga mi lancio ad abbracciare con moine
sdolcinate delle perfette sconosciute, mentre con loro non mi lascio
mai andare in “sdilinquimenti”, come chiamo io le effusioni, se non
nei momenti epocali (lauree, nascita figli, partenza per almeno un an-
no, matrimoni...)

Invece la mamma sarebbe stata tutto un abbraccio, tutta una “smance-


ria da meridionali” come brontolavamo noi figlie preferendo di gran
lunga l’austerità ruvida della nonna.

Era di lignaggio nobile la mamma, confermato da un bel “de” che pre-


cedeva il suo cognome e da un certo tono pomposo, altero, “nobile”
appunto. Era monarchica in pectore e si rammaricava di aver votato
per la repubblica nel referendum del 194, facendone quasi responsabi-
le mio padre, che di certo l’ aveva ben influenzata in tal senso. “Non è
stato di sicuro il tuo unico voto a cambiar le sorti dell’Italia, sta’
tranquilla, la maggioranza era netta”, la rassicurava mio padre, ben
contento sotto i baffi per lo scampato pericolo.

Tornando al rapporto di mia madre con Padova, come ho già detto,


questa diventò da subito la sua città e da vera padovana la mamma
prese fin dai primi mesi l’abitudine di andare a fare la spesa “sotto al
Salone” (una miriade di storici negozietti specialmente di alimentari
che si incastrano come occhi lucenti nelle gallerie al pianoterra del
Palazzo della Ragione) e presso le bancarelle che quotidianamente oc-
cupano le tre belle piazze del centro: piazza delle Erbe, della Frutta e
dei Signori. Si fece subito i suoi fornitori di fiducia a cui si abituò a
chiedere “lo sconto” e lo scrivo tra virgolette, perché questa fu un’ al-
tra caratteristica di Padova che mi aveva piuttosto stupito, direi quasi
scandalizzato: nessun altro in famiglia volle mai mercanteggiare “co-
me in un suq arabo”, diceva polemica e con un certo spregio mia so-
rella più grande. Solo mia mamma trovò l’ abitudine molto simpatica e
la fece subito sua: tutto quello che Padova le offriva, era per lei pia-
cevole e festoso: sembrava vivesse un’eterna vacanza.
Siccome insegnava, poteva andare poche volte in centro di mattina,
ma il pomeriggio, se era libera, non mancava mai di farsi un giretto
nelle Piazze e dintorni. Adesso non occorreva più aspettare il Giovedì
per andare a Trento e far colazione o merenda in qualche bar del cen-
tro: ogni pomeriggio era buono. Anche noi figlie andavamo volentieri
con lei, in quanto sapevamo che non sarebbe mai mancata, alla fine
dello shopping, una buona cioccolata calda o un cappuccino con pa-
stine, sedute in qualche bel bar. Devo dire che quei momenti passati
con mia mamma in centro a Padova sono stati i più belli per la nostra
relazione madre-figlia, per altro piuttosto burrascosa.
Eh già, sono proprio figlia di una vera padovana, però, però….. non
son certa di esserlo io.
Il papà diventa maestro alla scuola Rosmini
all’Arcella
da dove si vedono le montagne

Qualche mattina salivo in macchina con mio padre per andare a pren-
dere l’autobus vicino alla scuola in cui insegnò qui a Padova, la scuola
elementare Rosmini nel quartiere Arcella, proprio accanto al Santuario
dove morì Sant Antonio.
Mio padre si chiamava Antonio, ma non lo coinvolse mai più di tanto
questa vicinanza alla Chiesa del suo protettore. Quello che gli piacque
subito dell’Arcella fu invece il fatto che da qui, nelle mattine limpide,
si potevano scorgere le montagne. Me lo faceva notare sempre:
“Guarda come sembrano vicine le cime questa mattina, guarda, c’è
anche un po’ di neve, eh già infatti ieri sera avevo freddo ai piedi”. E’
un fatto strano questo, ma capita anche a me: quando ho freddo ai pie-
di, nevica in montagna. Nessuno in famiglia, a parte me e mio padre,
aveva questa netta percezione della neve a così grande distanza: quan-
do abitavamo già a Padova, certe sere d’autunno il papà si alzava dal
divano stropicciandosi le mani e diceva rabbrividendo un po’:
“Nevica in montagna, perché ho freddo ai piedi”. E sì che non era
particolarmente freddoloso, anzi! Il primo anno che insegnò qui a Pa-
dova tornava da scuola scandalizzato per come venivano “stracoperti”
i bambini: “Non riescono nemmeno a camminare da quanto sono in-
fagottati”, diceva ridendo, “hanno la sciarpa fin sugli occhi. Me do-
mando cosa i farìa su da noi”, concludeva in dialetto.
Naturalmente quel “da noi” si riferiva alla valle di Primiero, dove an-
che i bambini erano per lui i più forti del mondo.
Si affezionò molto a questi suoi “scolari” padovani; li affrontava ogni
mattina con quel suo tono ironico e distaccato, che lo portava a trattare
anche i ragazzini come fossero degli adulti. Lo scorso anno, mia so-
rella ebbe un piccolo intervento ad un occhio e quando l’oculista che
la stava operando lesse sulla cartella clinica il cognome “Zanetel”, e-
sclamò tutto sorpreso: “Il mio maestro si chiamava così, non sarà mi-
ca sua figlia?”. Mia sorella, già mezza tramortita dalla paura … dei
ferri, ebbe un brivido: “E se questo ha brutti ricordi del suo mae-
stro?” . Fu tentata (Giuda infida!) di negare… , ma poi diede fiducia
al papà e esalò un tremulo “Sì”. Il “Che piacere!” e l’enfasi con cui
fu pronunciata l’esclamazione, rimisero in circolo il sangue nelle vene
di mia sorella, che fu subissata per il resto dell’intervento dalle più
belle parole che un vecchio alunno possa dire nel ricordo del suo
“Maestro di vita”, come l’oculista definì mio padre, maneggiando an-
cora con più cura (crediamo noi) l’occhio di mia sorella!
Tornano al rapporto di mio padre con Padova, un continuo motivo di
fastidio fu per lui il dialetto padovano parlato dalle donne, anzi “in
bocca alle donne”, come diceva lui. “Le donne padovane sono quasi
tutte belle, più belle che da noi “ (noi Primierotti of course) diceva
spesso (fu infatti molto felice quando nacque la prima nipotina pa-
dovana: “E’ proprio di corporatura veneta, bionda e massiccia”, e-
sclamò soddisfatto quando la vide al di là del vetro della nursery), “
però quando parlano in dialetto, diventano sgraziate, sembrano tutte
brutte. Il dialetto veneto ha una bella musicalità solo se parlato dagli
uomini, in bocca alle donne cambia suono, diventa volgare e rende
volgari anche loro” concludeva.
Quando si trattava di armonia dei suoni, mio padre non intendeva ra-
gione: chi si macchiava di “lesa musicalità” era per lui persona non
proprio disgustosa, ma di certo sgradevole o giù di lì.
Era un grande appassionato di musica mio padre, specialmente di
quella per organo, in quanto da bambino aveva avuto la fortuna di co-
noscere a Fiera di Primiero, il professor Giuseppe Terrabugio, uno dei
massimi esperti di musica per organo e da lui aveva appreso tutto ciò
che sapeva di musica, seguendo i suoi insegnamenti per tutti gli anni
dell’adolescenza. Abbiamo ancora molti spartiti musicali scritti a ma-
no da mio padre: spesso doveva disegnare anche il rigo musicale non
solo le note. Sono dei fogli che da bambina guardavo con indifferen-
za, abituata a vederli sparpagliati sul tavolo del salotto, sulla scrivania,
dappertutto, ma adesso li apprezzo in tutta la loro preziosità e mi ren-
do conto ora di quanta perizia fosse dotato mio padre per poter riu-
scire a tracciare con tratto sicuro e deciso, con inchiostro di china, sen-
za sbagliare, tutte quelle note, quegli spazi, quelle volute… Mi spiego
adesso perché mio padre stava tanto chino su queste “scartoffie”, co-
me le chiamava mia mamma, stufa probabilmente di vederlo perenne-
mente assorto in questo suo mondo dei suoni, in cui si immergeva
ogni volta che aveva un momento libero. In casa abbiamo sempre
avuto il pianoforte e ogni pomeriggio sul tardi il papà si sedeva al
piano e immancabilmente attaccava le sue suonate di organo. Non
appena si udivano i primi accordi, si alzava un coro di voci: ”No,
basta ‘sta musica lagnosa, basta Antonio”, brontolava la mamma.
“Basta papà, amen, la messa è finita, andiamo in pace ….” , rincara-
vamo noi figlie, alzando il volume della radio o della televisione ….
Lui sorrideva, continuando a suonare imperterrito, con le mani molto
premute sulla tastiera, quasi abbandonate, come è d’uso per chi suona
l’organo.

La musica: mi son sempre chiesta se anche nel Veneto era d’uso nelle
famiglie, dedicare ad essa tanto spazio o se anche questa è un’abitudi-
ne per così dire nordica (forse un retaggio della Haus Musik?).
Finchè siamo vissuti nel Trentino infatti, molte sere, specialmente
d’inverno, arrivavano in casa amici o ex alunni di mio padre, ognuno
con uno strumento diverso e si improvvisavano serate musicali, in cui
si passava dalla musica d’opera a quella sacra, dalle sonate classiche
ai pezzi di musica leggera. Di solito la mamma suonava il mandolino
o il violino, il papà si divideva tra chitarra, fisarmonica, pianoforte.
Anch’io certe volte venivo chiamata, mio malgrado, per qualche sona-
tina a quattro mani con mia sorella più grande, partecipando così a
questa orchestra da casa, ma mi agitavo così tanto, che le mie mani fa-
cevano solo confusione sulla tastiera.… ero proprio negata. Ricordo
che ad ogni mio accordo sbagliato mi arrivava uno scappellotto sulla
nuca da parte di mio padre, che non mi picchiava mai, per nessun mo-
tivo, ma sentir disarmonie e stonature lo mandava letteralmente in be-
stia. Era anche direttore del coro del paese e, quando tornava a casa
dalle prove, si lamentava con mia mamma brontolando torvo (lui che
di solito era sempre di umore sereno):”Ho di nuovo spaccato la bac-
chetta (quella con cui dirigeva) addosso al muro per non spaccarla in
testa a quegli ubriaconi che stonano come delle bestie”.
Tornando a quelle serate musicali che animavano allegramente la ca-
sa, ricordo che una sera un ragazzo si sedette alla tastiera del piano di-
cendo rivolto a mio padre: “Maestro, senta, questo sì che è ritmo” e
iniziò a suonare, dimenando mani e piedi e testa e braccia, gettandosi
addosso al pianoforte con tutte le sue forze, quasi aggredendolo. Ne
uscì un frastuono meraviglioso: “E’ rock and roll”, disse il ragazzo
alla fine del brano. Quel ritmo coinvolgente e nuovo mi conquistò e
influenzò il mio gusto musicale per tutta la vita, tanto da permettermi
di affrontare ancora con la giusta energia un mega concerto dei Public
Enemy (che forse non è rock, ma di certo è “ritmo”) tre anni fa al Ma-
dison Square Garden di New York.
Tornando al rapporto di mio padre con Padova, la città in cui comin-
ciò a vivere verso i cinquant’anni, oltre al “dialetto in bocca alle don-
ne” altra cosa che lo infastidiva molto erano quelle chiese di periferia,
con quei mattoni rossi, quelle facciate senza storia e … scandalo
massimo, quasi nessuna possedeva un organo. Che differenza con le
nostre chiese del Trentino: anche le più piccole hanno molto spesso un
antico organo!
Eh sì, queste cose sono importanti anche per me.
A parte questi “leggeri fastidi”, Padova fu per mio padre un posto in
cui visse molto volentieri e in cui si inserì molto serenamente, anche
per quanto riguarda il suo lavoro e tutto ciò che lo concerneva.
I luoghi che lo videro con più frequenza furono di certo le biblioteche
(specialmente la Civica) in cui potè approfondire i suoi studi di sto-
rico. Da uomo moderno qual era, si era munito di un piccolo registra-
tore, sul quale leggeva a bassa voce i brani dei testi che gli interessa-
vano e poi a casa riascoltava e trascriveva. Era entusiasta di quello che
“scovava” in questa sue ricerche storiche, che gli servivano per com-
pletare un nuovo libro in cui voleva raccogliere tutti gli studenti tren-
tini che avevano frequentato l’Università di Padova, sempre alla ri-
cerca di questi fili di congiunzione che la cultura intesse tra le genti.
Noi figlie, naturalmente, non lo abbiamo mai accompagnato in queste
sue incursioni nelle sue amate biblioteche; se proprio dovevamo usci-
re con uno dei genitori, preferivamo andar per negozi e bei bar con la
mamma. Lo prendevamo molto in giro per quelle sue tediose frequen-
tazioni: “Attento papà, che hai la muffa attaccata ai baffi” , gli dice-
vamo quando rientrava tutto entusiasta da quei lunghi pomeriggi di
studio. “Ci attacchi la muffaggine anche a noi” rincarava mia mam-
ma. Lui sorrideva felice della nostra allegria.
Certo che fu merito di mio padre se ho imparato ad amare e ammirare
specialmente l’aspetto storico culturale di Padova, le sue biblioteche,
l’Università, le antiche Scuole ricche di storia.
Università e centri commerciali,
dove Padova non è
né a nord, né a sud, né a est, né a ovest

Eh sì, un po’ dissacrante l’accostamento, ma è specialmente in queste


due realtà (Università e centri commerciali) che i padovani e coloro
che vengono da “fuori”, un fuori vicino e un fuori lontano, si incontra-
no, si “miscelano”, dando origine ad un melting pot di genti diverse
(o meglio: una “malta umana” come dice la mia amica Paola che,
odiando luoghi comuni, americanismi e neologismi banali e abusati
cerca di svilirli e sbeffeggiarli inventando “paolismi inediti” come li
chiama lei), insomma un crogiolo di varia umanità che fa di Padova
una città cosmopolita.
Per quanto riguarda il mondo universitario, esso è per sua natura co-
smopolita, in quanto la cultura non ama i confini, e Padova accoglie
da secoli nella sua antica e gloriosa Università un gran numero di
studenti di varia provenienza, la cui sola presenza dovrebbe essere per
la città garanzia di internazionalità e di apertura al mondo.
Mi è sempre piaciuto, e mi piace, passare nella zona degli Istituti uni-
versitari (via Loredan, via Marzollo, Porta Portello…) e vedere “gli
studenti universitari”: chi da solo, chi in coppia, chi in gruppo, una
volta, nel passato, con pochi libri tenuti scomposti sotto il braccio,
adesso con i pesanti zaini che fanno un tutt’uno con i loro corpi, a cui
sono attaccati come zavorra dalla prima elementare, anzi, dall’asilo e
da cui non si staccano mai, penso neanche di notte, eterni viaggiatori
senza avventura.
Sono così uguali in tutto il mondo gli studenti universitari, con quella
impronta di impegno e disimpegno che traspare anche dalla loro anda-
tura, a momenti lenta e pigra, a momenti spedita e determinata. Io che
li osservo molto, mi diverto a cercar di intuire in base alla dose di
sprint che muove il loro passo come è la loro situazione scolastica: re-
cente fregatura in qualche esame, colloquio con professore “carogna”,
tesi di laurea non approvata… tutto ciò li piega ad angolo di novanta
gradi, sguardo a terra e gambe molli. Nient’altro li riduce così, né pro-
blemi d’amore, né crisi esistenziali profonde….
L’Università di Padova ha diverse sedi staccate, a parte quelle che si
raggruppano nella zona così detta “degli Istituti”, ma queste sedi,
sparse qual e là per la città, sono più nascoste, si notano meno, sono
come oppresse da questa Padova che nel suo nucleo centrale e storico
respira a pieni polmoni l’atmosfera delle “Piazze”, con il loro mondo
di bottega e ne è completamente pervasa.
Eppure il Bò, antica e preziosa sede dell’Università, è proprio a due
passi da quelle “Piazze”, ma quanto poco è amato e conosciuto dalla
maggioranza dei Padovani. Ne ho avuto prova anche poco tempo fa,
quando passeggiando un pomeriggio per il centro con dei padovani
“doc” siamo passati davanti al “Bò’” e io ho voluto entrare un mo-
mento (come faccio spesso) nel cortile vecchio, così emblematico, con
tutti quegli stemmi di studenti provenienti da tutto il mondo, del co-
smopolitismo di questa Università. Gli amici sono rimasti meravi-
gliati, interessati, stupiti della bellezza di quello spazio: non lo ave-
vano mai visto o, per essere più precisi, non lo avevano mai “osserva-
to”. E non sono persone ignoranti, no, direi che sono anche molto at-
taccati alla loro città, ma tutto ciò che concerne la vita universitaria lo
ritengono un qualcosa che riguarda chi fa l’Università, non il padova-
no in genere, che invece mi sembra molto affezionato al Santo, alle
Piazze e alle vecchie botteghe “sotto al Salone” oltre che al quartiere
dove è nato.
Un’altra bella “concentrazione cosmopolita” di vita studentesca uni-
versitaria è piazza Capitaniato, ma anch’essa non rientra nell’itinera-
rio usuale di un padovano, che preferisce, uscendo da piazza dei Si-
gnori, girare o per via Dante o verso piazza del Duomo, quasi per un
istintivo rifiuto di questo mondo così “diverso” che è il mondo uni-
versitario. Credo che pochissimi padovani sappiano che nell’atrio del
palazzo costruito da Gio Ponti, dove si trova la Facoltà di lettere, in
piazza Capitaniato, c’è una magnifica statua di Arturo Martini (un'al-
tra è al Bo, nell’atrio che immette nel cortile nuovo, ai piedi della sca-
linata) e che la scala che porta ai piani superiori è un capolavoro del
razionalismo.
Eppure l’Università degli Studi di Padova (per dirla in modo solenne)
è una delle più antiche del mondo ed è secondo me l’immagine più
rappresentativa della città, anche all’estero. C’è da dire che chi vi ha
trascorso gli anni dell’Università ama molto Padova e la ricorda per
tutta la vita con nostalgia e riconoscenza. Ho potuto rendermi conto di
ciò alcuni anni fa quando ho raccolto in un libro i ricordi scritti da ex
studenti dell’Università di Padova: il filo conduttore che li lega uno
all’altro è il senso di aver trascorso là dentro gli anni più costruttivi
della vita, quelli che ti fanno diventare cittadino del mondo, per quel-
l’atmosfera cosmopolita a cui ti abitui e che ti diventa familiare.
Mi vien da pensare che per i suoi studenti universitari, italiani o stra-
nieri, Padova è come un’ arancia succosa e polposa dai cui spicchi,
gustati piano, con cura, uno dopo l’altro, anno dopo anno, sgorga una
linfa vitale, un gustoso cocktail fatto di nozioni culturali e di momenti
di giovinezza, che ti scorre dentro energetico e cristallino e ti “carbu-
ra” per tutta la vita.
E’ nell’immediata periferia, nei grandi supermercati e centri commer-
ciali sorti numerosi in questi ultimi anni, che questa succosa ed ”ele-
gante” arancia (se mai un frutto può definirsi elegante….) si trasfor-
ma, anzi si deforma, si dilata, diventando qualcosa di molto simile alla
newyorkese “grande mela”, addentata a morsi, non dico con rabbia,
ma di certo con voracità, da un’orda di persone, che, non per colpa lo-
ro, ma perché così va il mondo, di Padova vogliono cogliere non di
certo la cultura, ma il benessere economico, inteso come quella cater-
va di beni anche inutili con cui rimpinzarsi come in un delirio.
Come nel resto del mondo, anche a Padova in questi anonimi conteni-
tori di cemento simili a prefabbricati (e forse lo sono?), si ha davvero
la sensazione che il mondo ormai è tutto eguale e che noi siamo parte
di questo mondo.
Solo negli Emirati Arabi mi è capitato di notare dei centri commerciali
“diversi”, strutturati all’esterno come cattedrali e decorati all’interno
con cristalli e marmi preziosi, forse perché in questi paesi senza storia
si cerca di recuperare il tempo perduto, imprimendo tracce, orme, ben
visibili, su terre che nulla hanno visto finora, se non deserto; perciò
tutto è eccessivo, che siano monumenti o palazzi o case private o mer-
cati, tutto deve essere ben visibile, un eccesso di immagine che recu-
peri in pochi decenni secoli di vuoto deserto.
Tornando a Padova e ai suoi “ipermercati”, devo dire che, a differenza
della maggioranza degli amici che temono snaturamenti e perdita di i-
dentità, a me piace la loro atmosfera, proprio per la totale mancanza di
riferimenti storici e ambientali. E’ un universo pensato per andare be-
ne a tutti e quindi non appartenente a nessuno, edulcorato e rassicuran-
te, dove tutti noi nel momento che entriamo veniamo (più o meno con-
sapevolmente) attratti nella scia di un pifferaio subdolo che ci trascina
dolcemente nel mondo del mercato, cullati da musiche in sottofondo
che danno alla tua vita, finchè stai qui dentro, un ritmo e una dimen-
sione completamente irreale e fatta per soddisfarti. In questi conteni-
tori ci si muove ormai in tutto il mondo secondo uno stesso codice di
comportamento, il cui linguaggio, fatto di segni ed immagini, è uguale
ovunque: una specie di esperanto nato spontaneamente e entrato, faci-
le e sbrigativo, nel nostro modo di comunicare. La P ti segnala rassi-
curante come un faro nella notte che un parcheggio vasto e accoglien-
te è a tua disposizione; se la P è sovrastata da una linea vuol dire che il
parcheggio è coperto, cosa questa utilissima che ti permette di trovare
la tua macchina alla giusta temperatura sia nei rigori del freddo inver-
nale che nei bollori del caldo estivo. Dalla P in poi, in qualsiasi parte
del mondo ti trovi, i tuoi passi saranno guidati facilmente da queste
icone così familiari, veri salvavita. Se poi qualcosa non ti è chiaro,
una bella “i” immancabile ormai dai supermercati ai musei, agli ae-
roporti, alle stazioni… ti indica il porto sicuro dove approdare per le
informazioni più svariate.
In questo mondo virtuale anche le stagioni rispondono a criteri di mer-
cato, non a quelli naturali e dunque sono le stesse ovunque nel mondo.
L’autunno inizia subito dopo ferragosto, quando, mentre fuori la calu-
ra regna ancora incontrastata, dentro i centri commerciali compaiono
dall’oggi al domani degli stand cosparsi di foglie giallo oro di pura
plastica, cadute da improbabili rami secchi anch’essi di pura plastica,
stand in cui la vista di maglioni dal collo alto, cappottoni e pellicce
caldissime ti convince subdolamente che … ormai è inverno e devi
pensare che sarà un inverno freddissimo, così freddo che di certo il tuo
vecchio abbigliamento non ti sarà sufficiente. Così tu, caduta nella
trappola di questa realtà virtuale mossa dalle astute leggi del mercato,
esci nei 38 gradi umidi della realtà “reale” con un qualcosa di caldis-
simo la cui vista ti farà sembrare l’atmosfera esterna ancora più irre-
spirabile e non vedrai l’ora di tornare a casa per sbattere il nuovo ac-
quisto il più lontano possibile. Ma qua dentro, in questo mondo rego-
lato dalle leggi del commercio, autunno è anche e direi specialmente
all’egida del “tutto per la scuola”, il che vuol dire una sarabanda di
inutilità realmente indescrivibile. Si va dai maxiquaderni formato e-
xtra large su tre facciate dei quali Dante avrebbe potuto scrivere tutta
la Divina Commedia, alle confezioni composte da un centinaio di
pennarelli o matite colorate che non rispecchiano più una visione colo-
rata del mondo, un arcobaleno naturale, no, propongono per ogni colo-
re una ventina di sfumature surreali e quasi allucinogene, come se
questi bambini di sei anni dovessero ritrarre un mondo surrealista….. ;
per non parlare di quelli che una volta chiamavamo “astucci”: sono
diventati valige ventiquattrore, dei veri set di sopravvivenza in cui
nulla manca, nemmeno il … filo interdentale!. Ma ecco che, finito
settembre, nei centri commerciali siamo già in inverno: tutto per lo sci
e per il Natale. A proposito del Natale: secondo questo calendario dei
consumi l’ “avvento” (quel periodo di tempo che per noi cristiani pre-
para al Natale e che dura poche settimane) comincia a fine ottobre,
contemporaneamente alla campagna presciistica, ed è il periodo in cui
l’edonismo da supermercato dà il meglio di sé e diventa una vera e
propria scorpacciata, un’ abbuffata per stomaci forti che non riguar-da
solo i Paesi a maggioranza cristiana, no, la “legge del mercato” è
riuscita là dove secoli di disquisizioni teologiche non riusciranno mai:
ha fatto adottare questa festa religiosa ovunque, naturalmente nel suo
aspetto più commerciale.
Ma ecco che non si fa nemmeno a tempo a tirare un po’ il fiato e già ai
primi di gennaio, quando nel nostro emisfero è ancora il gelo e il fred-
do a farla da padroni, negli edulcorati centri commerciali irrompe co-
lorata e gioiosa la primavera, che vuol dire biancheria nuova per noi e
per la casa, costumi di carnevali esotici, anticipazione della nuova
fashion primavera-estate, il tutto immerso in piramidi ciclopiche di
uova di Pasqua sempre più mastodontiche (che siano quelle dei dino-
sauri?).
Ma ecco che le stagioni “commerciali” avanzano ossessive e senza
tregua: inizia appena aprile e sulle pareti dei grandi supermercati com-
paiono allettanti e sfolgoranti le immagini di mari azzurri dalle onde
alte almeno tre metri, cavalcate da magnifici surfisti la cui vista ti
convince che … è ora di estate!
Insomma quella che viene comune-mente definita la “shopping
experience” (che la mia amica Paola tradurrebbe “tempo perso a far
spese inutili”) è una strategia di mercato dietro la quale non c’è di
certo il … pifferaio magico, no, no ci sono schiere di scienziati di va-
rie discipline: non solo economisti, ma psicologi, architetti, sociologi,
ingegneri del suono e perfino progettisti di parchi di divertimento, che
hanno creato attorno allo shopping un corollario di “servizi aggiunti-
vi”. Ed è così che nascono all’interno di questi spazi delle performan-
ce di musica dal vivo, o anche bar con gallerie d’arte, ristoranti etnici
con ricostruzioni ambientali rigorosamente fedeli, boutique con ser-
vizio massaggi, librerie che a rotazione presentano autori o conferenze
Insomma, questa è la realtà in cui volenti o nolenti trascorriamo molte
ore della nostra vita.
“Tu, mia cara, noi no di sicuro”, sento già l’esclamazione disgustata
degli amici “ed è inutile che tu voglia indorare la pillola con queste
disquisizioni psico - socio culturali (sic), si tratta di squallore allo
stato puro, che, dalla precisione con cui lo hai descritto, dimostri di
conoscere molto molto bene, troppo bene per non esserne stata cor-
rotta e contaminata…. Altro che: “ringrazio mio padre per avermi
fatto amare l’aspetto culturale di Padova”….”.
Non ho molti punti fermi nella mia vita a cui ancorarmi, ma uno di
questi è di certo la critica dei miei amici più cari, una costante con cui
mi misuro di continuo, un “chiacchericcio” fitto e costruttivo senza il
quale non potrei vivere e che mi ronza nelle orecchie ironico e sfer-
zante anche quando credo di essere qui sola davanti a un computer.
Grazie, grazie, carissimi amici, che vorrei nominare ad uno ad uno,
ma penso sia inutile, tanto sapete già quanto bene vi voglio e quanto
ho bisogno di voi!
E visto che sono in vena di ringraziamenti, vorrei farne uno particolare
a “mia sorella più piccola” (anche per dimostrarle che non la odio più)
per essersi rovinata gli occhi a leggere tutto questo libro in anteprima
su computer correggendo qua e là sviste non da poco (lei sì che mi ha
sempre voluto bene!).
Parto da Padova una mattina di metà Febbraio in compa-gnia di una
simpatica amica che è nata a Trento, dove è vissuta fino a poco tempo
fa, prima di trasferirsi a Padova.
Altre volte sono andata a Trento gli scorsi anni, magari per vedere
qualche bella mostra nel restaurato palazzo Albere o perché ci arriva-
vo per caso dopo un giro nei dintorni (Valsugana, Val d’Adige…), ma
questa volta il mio viaggio ha proprio come meta precisa Trento e con
uno scopo anch'esso ben preciso: ritrovare (se mai ancora c’è) quella
atmosfera di capitale nordica che caratterizzava così pesantemente
Trento quando la visitavo ogni settimana in compagnia di mia mamma
negli anni dell'infanzia e quando c'ero vissuta negli anni dell'adole-
scenza.
Arriviamo in città verso le undici di mattina; troviamo facilmente po-
sto per la macchina in un moderno parcheggio sotterraneo a più piani
collocato sotto la piazza Fiera, in pieno centro, accanto alla quale ri-
trovo ripulita e ben restaurata piazza Garzetti, dove ho abitato nei due
anni del Ginnasio, solo per il periodo della scuola, in un appartamen-
tino di un vecchio palazzo, coccolata e nutrita a forza (ah ... la mia
inappetenza!) dalla nonna.
Ed ora eccomi qui, dopo tanto tempo, in una mattinata invernale, sere-
na e gelida.
Che silenzio! I passi risuonano sull’acciottolato di piazza Garzetti e-
sattamente come quando la attraversavo ogni mattina per raggiungere
il vicino liceo classico Prati, infreddolita e pallida proprio come adess-
o. Solo che questa mattina sono naturalmente più tranquilla e rilassata:
mi aspettano cose ben più gradevoli che le odiose interrogazioni… Io
faccio parte di quelle persone che per tutta la vita ritengono che nulla
(o quasi) sia peggio di dover affrontare l’inquisitorio occhio di un pro-
fessore che ti esamina. “Brr, mi vengono ancora i brividi se penso a
quelle mattinate”, dico all’amica, guardando con affetto, ma con sol-
lievo, visto che non devo entrarci, la bella e curatissima facciata del
Liceo Prati. Al suo fianco ritrovo la chiesa della Santissima Trinità,
dove per due anni ho mercanteggiato ogni mattina, con promesse di
“fioretti” degni di una martire paleocristiana, i miei voti più sofferti.
Mi accorgo che parlo sottovoce, non solo per il ricordo del Ginnasio,
incubo che mi fa ancora tremare la voce, ma anche per non turbare il
silenzio che “incombe” su tutta la città.
Abbandoniamo questo angolo di passione (per me) e ci avviamo verso
sinistra, dove scorgo un po’ più avanti, il famoso negozio detto in pas-
sato “Bazar Chesani”, il primo vero grande negozio che vidi da bam-
bina. ”A proposito”, dico all’amica, “tu hai mai saputo il perché di
questo termine arabo-persiano “bazar”?” Come me, anche lei non si
spiega questa strana etimologia, anche per la distanza abissale che di-
videva il vecchio negozio “Chesani” da un “bazar” arabo! A questo
proposito, le viene in mente un’altra stranezza, che io non conoscevo
per niente, e mi fa notare che sul davanti del palazzo delle Poste, qui
accanto, alla nostra destra, fanno bella mostra di sé dei massicci abbe-
veratoi per ... cammelli. Questa è bella! Mi spiega che sono il frutto di
un errore degli ingegneri progettisti del palazzo, che hanno inviato a
Trento dei progetti destinati a Tripoli in Libia (si parla dell’epoca
coloniale italiana). Allora vuol dire che a Tripoli sarà esistito (e forse
esiste tuttora) un palazzo con abbeveratoi per cavalli invece che per
cammelli … Che storia!
Se da ragazzina avessi saputo di questa “contaminazione” con il
mondo arabo, potevo prenderla come un presagio di quella che poi
sarebbe stata la mia vita, visto il mio matrimonio con un arabo, anche
se nel mio caso non si è trattato di uno sbaglio di indirizzi mi sembra.
Benchè il giorno che ho conosciuto il mio futuro marito nella biblio-
teca universitaria di via San Biagio a Padova, io in effetti avrei dovuto
andare per consultare un libro in una biblioteca dell’Istituto di Anato-
mia in via Falloppio, dunque un vero e proprio errore di indirizzo.
Ecco, ecco cos’ha segnato la mia vita, dandole una virata così radi-
cale. Esattamente come per i poveri abbeveratoi di cammelli.
“Iallah iallah”, esclamo in arabo, tanto per stare in tema “andiamo a
vedere cos’è rimasto del Bazar Chesani” .
Il vecchio negozio è diventato un grande store a tre piani, specializza-
to in tutto ciò che può servire a uno sportivo, con tessuti di alta tecno-
logia, molto futuristico. A proposito di tessuti “tecnici”, racconto al-
l’amica che anni fa una coppia di miei cugini trentini sono stati molti
mesi in Patagonia per conto di una famosa marca di abbigliamento
sportivo per collaudare in quella terra fredda e ventosa (ricordo che le
foto e i filmati li ritraevano sempre piegati in avanti quasi ad angolo
retto per reggere l’onda del vento) la resistenza al vento e alle basse
temperature di tessuti destinati allo sport (abbigliamento, calzature,
zaini, tende ecc.). Certo che mi fa ridere poi vedere questi giacconi
nati per reggere certi climi, addosso ad amici che li sfoggiano per fare
un giretto in centro a Padova, dove la temperatura in pieno inverno è
in media di 8 gradi (sopra zero naturalmente)!
Ci aggiriamo per il moderno “store” cercando qualche residuo del
vecchio negozio e con grande gioia mia e della mia amica trentina
notiamo che è rimasto all’interno quel profumo di vecchio negozio,
quell’atmosfera che evoca in noi la gioia delle prime compere fatte
con le mamme nella nostra infanzia ed adolescenza…. Pur essendoci
nel sottofondo la solita musica dei grandi magazzini, anche qui come
nel resto della città il brusio non è assordante, i commessi parlano sot-
tovoce, insomma è rimasto quel non so che che ci ricorda il vecchio
negozio Chesani, quella sua atmosfera composta e un po’ rigorosa.

Uscite da là, iniziamo il famoso “giro al sass”, un percorso canonico,


che comprende alcune vie del centro, i migliori negozi, i vecchi ri-
storanti. Tra questi c’è ancora il ristorante “Al Forst”, dove andavo a
pranzo con i miei genitori. Non voglio entrare, per non restare delusa,
ma la mia amica, che spesso viene a Trento, mi rassicura che anche
l’interno è ben conservato, come l’esterno, con le pareti in legno scu-
ro, i vecchi tavoli.
Continuiamo a camminare, inoltrandoci verso la piazza del mercato
mattutino all’aperto. C’è molta gente, ma il vociare è molto smorzato:
“La varde siora che bele verze sode, l’è roba nossa, genuina, le vien
dai orti de la val de Non”, mi dice con voce appena un po’ più alta del
normale il proprietario di un banchetto di verdura. “Siora”: eh già,
anche se dentro mi sento tornata la bambina e la ragazzina di tanti
anni fa, il mio aspetto esteriore è quello di una “siora”…. Mi sento im-
provvisamente fuori casa, estranea a quell’atmosfera così rigorosa e
un po’ scostante, forse avevano ragione i miei genitori, penso: Padova
è più allegra, più energetica, mi viene nostalgia del brusio delle Piazze
di Padova, quel vociare veneto privo di tanti riguardi:“ Bea merce
fresca stamatina done!” (altro che “siore”), quella confusione “medi-
terranea” e colorita .…
Non ne parlo con l’amica, lei è più trentina di me, non vorrei offender-
la con questa mia improvvisa nostalgia, e continuiamo la nostra pas-
seggiata da “siore”, sottobraccio, esattamente come facevano le nostre
mamme.

Raggiungiamo in pochi minuti (la città è così piccola) la piazza del


Duomo: grigia e austera, sbarrata nella parte Nord Est dal palazzo
Pretorio, dimora per secoli dei principi - vescovi, mentre sul lato Sud
si erge imponente la fiancata del Duomo, che serra la piazza come
un’alta muraglia. Certo che questa prospettiva architettonica è quasi
simbolica di cosa deve essere stato il potere della Chiesa per la città di
Trento: che chiusura, che rigore, che severità emanano ancora da que-
st’angolo della piazza, cuore non solo fisico, ma anche spirituale della
città. Ma quanto è durato questo dominio del principe vescovo? E
quanto ha influito sulla storia di Trento? Come al solito quando mi
scopro così ignorante (molto spesso quando si tratta di storia) ripenso
a mio padre, a quante volte esclamava rivolto a noi tre figlie: “Voi
ignorate la storia e così non potete capire niente di niente”.
Verissimo, papà . Mi riprometto di informarmi un po’ meglio al mio
ritorno a Padova… ( Il dominio temporale della Chiesa, in varie
forme, è durato a Trento dal IV sec. fino al 1777 quando il vescovo
Pietro Virgilio di Thun und Hohenstein cedette al Tirolo il potere
temporale).
Nel frattempo la mia amica, probabilmente stanca di star dietro alle
mie elucubrazioni, si è avviata verso il centro della piazza, illuminato
dai raggi del sole e si è fermata presso la settecentesca fontana del
Nettuno, silenziosa e addormentata in questa gelida mattina d’inverno,
senza i soliti zampilli d’acqua che la movimentano e le danno vita. I
passanti sono veramente pochissimi: qualche studente e qualche pro-
fessore della vicina Università, signore anziane con immancabile cap-
pellino, qualche coppia di mezza età.

Rompe la monotonia un gruppo di giovani donne con delle minigonne


nere, stivaloni e corti giubbottini di pelo, assieme a dei ragazzi con ne-
ri capotti di pelle aderentissimi, jeans, camicie a righe: due fotografi
scattano di continuo, ruotando attorno ai ragazzi per cambiar inqua-
dratura: il Duomo, il palazzo, la piazza (un set di qualche casa di mo-
da?). Con tutto ciò, le voci sono smorzate, i passanti non si scompon-
gono e non si interessano a questo evento mondano, si limitano a
guardare di sfuggita e continuano a camminare.

Tipico degli abitanti di Trento questo atteggiamento, che è anche il …


farsi gli affari propri e lasciare che gli altri si facciano i loro.

Mi adeguo, e guardo anch’io di sfuggita il set di modelli, sofferman-


domi invece sui bei palazzi che circondano la piazza: non me li ri-
cordavo così colorati. Forse gli affreschi sono stati restaurati da poco?
In uno di questi edifici, sotto un basso portico, intravedo il bar in cui
facevo colazione con la mamma ogni Giovedì mattina: che cioccolate
e che crapfen!
Non ci sembra ancora ora di leccornie e scegliamo di nutrire invece lo
spirito, entrando all’interno del duomo, che ci accoglie nella sua rigo-
rosa e austera penombra: in una cappella c’è il crocefisso che ha “pre-
sieduto” spiritualmente tutte le fasi dello storico Concilio di Trento (si
dice che reclinò il capo per dare il suo assenso alla fine del Consesso:
una delle poche cose del Concilio che ricordo… proprio la più
storicamente fantasiosa):“E’ durato diciannove anni” mi sussurra
l’amica, tanto per anticipare le mie fustigazioni mentali “ e si è svolto
in varie sessioni. Pensa quanto ha influenzato anche la vita cittadina,
con tutte quelle presenze importanti, senza pensare a quello che ha
voluto dire per la storia del cattolicesimo”. Ecco, penso, meglio che
non ci pensiamo, altrimenti sprofondo nuovamente nel nulla della mia
ignoranza. Mi viene solo in mente un proverbio trentino, che forse è
nato in quell’epoca, e che uso spesso anch’io: “Lasa che i cante in
dom!”, che io interpreto così: ”Lascia pure che i potenti sentenzino in
duomo, tanto poi tocca a noi, al nostro buon senso di persone normali,
darci da fare … ”.
Nella cappella accanto a quella del Crocefisso, una Madonna addolo-
ratissima ci osserva con il cuore sanguinante trafitto da una spada
che, colpita da un raggio di sole, sembra irradiare la luce all’interno
della navata. Nel sottofondo un sussurro di musica gregoriana. Mi ri-
cordo che venivamo spesso in duomo con i miei genitori per qualche
concerto di organo. Che peso al cuore: mi sento schiacciata dai ricor-
di. Sento il bisogno di uscire all’esterno.
Di fronte alla facciata del duomo si apre la via Verdi, dove si trova la
famosa Università di Sociologia di Trento, da cui negli anni settanta
partì quella scossa di ribellione che esplose poi in tutta Italia, ma tutto
questo non ha lasciato traccia, almeno formalmente, nella vita ordinata
e austera della città. Ne parlo con l’amica, che ha vissuto quegli anni
qui e anche lei mi conferma che tutto quell’uragano era rimasto ester-
no al tessuto vitale e storico di Trento, un torrente in piena, che non ha
neanche minimamente corroso la dura roccia che fa da piedistallo a
questa città.
Le ricordo che anche a Padova, in quei turbolenti anni ’70, tutto quel
guerreggiare, quello scompiglio violento sembrava riguardare una
crosta superficiale del contesto cittadino, non ha mai intaccato l’atmo-
sfera padovana pacifica e solida, in tutti i sensi.
Ci accontentiamo di queste considerazioni da “babe”(così definiva
mio padre noi tre figlie quando parlavamo tanto per chiacchierare,
senza approfondire…. cioè sempre secondo lui). Questa non è di certo
mattinata di analisi socio politiche (caro papà): riprendo l’amica sotto-
braccio (strano per me, che non amo i contatti fisici, si vede che in
questa giornata di memorie lontane mi sento gelare dai ricordi e ho bi-
sogno di sentirmi vicino qualcuno) e ci avviamo nuovamente verso la
piazza del duomo.

A proposito dell’Università di Trento, la mia amica, che ha i nipoti i-


scritti qui, mi racconta che ogni studente, per gli anni in cui è iscritto,
può noleggiare dall’Università una bicicletta, lasciando una caparra
abbastanza minima, che gli sarà poi restituita, e che con lo stesso
sistema ogni studente può “noleggiare” anche un computer portatile.
Sono queste iniziative marginali che rendono questo Ateneo, pur così
giovane rispetto ad altri storici Atenei, uno dei più avanzati in Italia:
“L’intraprendenza trentina, sempre all’avanguardia!” sottolinea la
mia amica.

Lasciamo la piazza del duomo avviandoci per via Belenzani, la via


Grande. La successione dei bei palazzi rinascimentali, che la affian-
cano è bruscamente interrotta ogni tanto da alte costruzioni a torre di
pietra grigia, specie di campanili mozzati in alto, che danno anche a
questa via, pur ariosa ed aperta, quel tono rigoroso e severo che per-
vade tutto il centro di Trento.

Con grande sorpresa mi soffermo davanti a un bar che ho visto citato


in un settimanale il mese scorso come uno dei pochi Internet caffè ita-
liani che hanno attuato un sistema di collegamento web particolar-
mente moderno. Eh, è proprio vero, lo riconoscevano anche i miei ge-
nitori, pur non amando molto Trento, che questa è sempre stata un cit-
tà silenziosamente all’avanguardia. Probabilmente fa parte del caratte-
re dei Trentini (in senso lato, non solo gli abitanti di Trento città) es-
sere tenaci e autocritici ed agire senza darsi troppa importanza, appa-
rentemente tradizionalisti e legati ad un viver saldamente “montana-
ro”, ma sempre pronti al miglioramento e alla modernizzazione. Certo
che questo bar di Trento è forse poca cosa, ma è molto simbolico di
tutto ciò: senza dar tanto nell’occhio, senza tanto rumore, ecco che
trovo qui, in una atmosfera apparentemente immobile un vento di
progresso che è raro trovare anche nelle grandi capitali.
Mi viene in mente la vicina Rovereto, dove il mese scorso ho visitato
un Museo (il famoso MART) dell’architetto Botta, strabiliante per la
sua modernità. E poi, mi sembra che un quartiere di Trento verrà com-
pletamente riorganizzato dall’architetto Renzo Piano.
Faccio notare tutto ciò all’amica, che rimane compiaciuta, ma non sor-
presa, non avendo lei nessun dubbio sulla … superiorità della gente
trentina!
Sono io che sto esaminando Trento con una lente di ingrandimento,
sempre combattuta tra amore e odio, divisa tra le mie origini e la città
dove vivo attualmente.
Credo che sia un difetto di tutti noi questo continuo fare confronti,
fare scale di preferenze, dare punteggi, non solo ai luoghi, ma anche
alle persone, ai vestiti, ai film, alle musiche, alle macchine, alle squa-
dre di calcio ... insomma, siccome odiamo gli esami, non ci sembra
vero di esaminare tutto e tutti e di dare anche dei voti.
Ma ecco che improvvisamente il silenzio di questa fredda mattinata
trentina è rotto dal suono tetro e lugubre di una sirena: “L’è la sirena
del mezodì”, mi rassicura la mia amica. Non mi ricordavo per nulla di
questa usanza; contemporaneamente le saracinesche dei negozi si
chiudono rumorosamente e il silenzio è ancora più profondo di prima.
Se prima i passanti erano rari, qualche studente e professore della vi-
cina università, qualche impiegato, qualche coppia di anziani usciti
per l’aperitivo dalle belle case del centro, qualche signora con amiche
interessate allo shopping, ora le strade si svuotano.
Rimangono qua e là quei gruppetti di giovani nordafricani, simili a
stormi di uccelli rapaci, che ho notato abbastanza numerosi in giro per
la città. Avevo attribuito alla loro presenza quel passare discreto ma
frequente di una volante della polizia, che si aggira anche nella vie più
strette, fermandosi spesso in piazza del duomo. Eh sì, purtroppo ritro-
vo anche qui, come a Padova, questa piaga che è la presenza di squal-
lidi e pericolosi rappresentanti di una immigrazione illegale che tanto
danneggia non solo noi italiani, ma anche gli stranieri che legalmente
ed onestamente cercano di inserirsi nella nostra società per trovare si-
curezza e lavoro. Forse sono così critica su questo argomento e spesso
intransigente, perché ho vissuto l’iter di chi viene in Italia onestamen-
te, e so quanta fatica comporta inserirsi in modo corretto nella nostra
società, proprio per questo non intendo rendermi complice di chi co-
mincia questo iter dalla porta dell’illegalità.
Altro che cercare quanto è nordica Trento rispetto a Padova, sono
sottigliezze frivole in confronto ai problemi di convivenza che po-
tranno sorgere in futuro anche per noi italiani se l’inserimento dei
nuovi arrivati non verrà condotto con senso della legalità e della
giustizia.
’Nden a scaldarne, a panza voda se sente de più anche el fredo” , la
voce della mia amica interrompe con un bel tempismo le mie solite
elucubrazioni e finalmente entriamo in un bar pasticceria (la stessa
dove mia nonna portava mia mamma bambina) per scaldare cuori e
corpi, conclude l’amica scrutando premurosa il mio pallore.
Ci voleva proprio.
Siamo le uniche clienti (a quest’ora a Trento si pranza, non si va in
pasticceria) e la proprietaria si dimostra chiacchierona e socievolis-
sima, come molti Trentini, che sembrano all’inizio freddi e scostanti,
ma poi, presa un po’ di confidenza ... “Sem come i motori diesel”,
dice la simpatica signora, “gavem bisogno de scaldarse, ma dopo
partim in quarta e no ne fermem più…”. Infiliamo una gran serie di
banalità, dal tempo meteorologico, che non è più quello di una volta,
ai “tempi” che anche quelli non sono più quelli di una volta…. “Per
fortuna”, penso io, che amo poco le scomodità del passato, il cui e-
lenco è ben impresso nella mia mente come una triste litania. Visto
che sono in vena di ricordi, una di queste scomodità che ancora mi fa
rabbrividire era la mancanza in casa del riscaldamento centralizzato,
che ci costringeva d’inverno a girare da una stanza all’altra con degli
sbalzi di temperatura più adatti ad un duro addestramento per un
trekking in Tibet che ad una tranquilla e quotidiana vita familiare.
Quando vado in casa di qualche amico “salutista” che ha ripristinato
l’uso della stufa a legna o del caminetto come unica fonte di calore,
trovo subito una bella scusa per inventare impegni impellenti che mi
impediscono di trascorrere una notte ospite in quel di certo per me
regno delle nevi! E, tanto per continuare a ricordare “quant’erano belli
i tempi passati”, era forse bello essere senza telefono in casa? Quando
per parlare con qualcuno si era costretti a stare ore nel posto del te-
lefono pubblico (di solito un bar) per aspettare una telefonata, che
spesso arrivava proprio il secondo dopo che tu, stanco di aspettare, te
n’eri tornato a casa… Beati non solo i telefoni fissi, ma anche i cellu-
lari: io sono stata tra le prima a comprarlo e non me ne stacco mai.
E tutti gli elettrodomestici? Dai più grandi ai più piccoli? Hanno fatto
più loro per la liberazione delle donne, che i moti femministi dello
scorso secolo. E radio, televisori e stereo che ben piazzati qua e là per
la casa, quasi in ogni stanza, fanno sì che ognuno si possa godere tran-
quillamente la sua musica, il suo programma preferito senza intermi-
nabili discussioni per metter d'accordo i gusti di ogni familiare. E il
computer che ci permette di scrivere, collegarsi, informarsi in modo
così veloce ed aggiornato? E la facilità dei trasporti, che ci dà la possi-
bilità di raggiungere in poche ore posti che una volta nemmeno te li
sognavi?
Insomma, abbasso i brutti tempi passati, brontolo tra di me come al
solito, guardandomi bene dall’esternare all’amica e alla gentile si-
gnora queste mie “brontole”, accolte sempre dagli amici con una serie
di: “ uh, ah, tu vuoi sempre essere originale…”.
Mentre io me ne sto andando “per campi” (come ci diceva un profes-
sore di diritto costituzionale quando riteneva che andassimo fuori te-
ma), visto che oggi sono qui per analizzare la nordicità di Trento, non
per brontolare sul passato, noto che la mia amica è rimasta perfetta-
mente in tema: sta infatti raccontando di come sia gradevole andare
“per uffici” a Trento, dove si fa correttamente la fila, dove gli impie-
gati trovano subito la tua pratica, dove ti trattano con un certo rispetto
… mentre “zo a Padova, ‘l’è en disastro” . “Eh, qua se va ancora
secondo la vecia Austria”, risponde la giovane cameriera che si era
unita alle nostre “babe”.
Eh, già. La vecchia Austria ….; la cosa che mi colpisce è che a rim-
piangerla sia una ragazza che avrà al massimo vent’anni. Forse ripete,
senza convinzione e senza capirne il senso, una frase che ha sentito
qua e là, una specie di intercalare - soluzione a tutti i mali…
Vorrei farle notare (ma preferisco non sollevare polemiche) quanto è
italiana Trento, con quel monumento a Cesare Battisti, patriota italia-
no ucciso dagli Austriaci, monumento che dall’alto, sul Doss Trento,
sovrasta e domina la città, ben visibile da lontano anche per chi tran-
sita lungo la valle dell’Adige. E con il Castello del Buonconsiglio, nel
cui giardino interno sono stati uccisi i martiri Damiano Chiesa e Cesa-
re Battisti e il cui “Museo del risorgimento e della lotta per la libertà”
è uno dei punti più rappresentativi della città. Insomma, lasciamo stare
l’Austria, penso io, che siamo in Italia.
Resta il fatto che tutto ciò mi conferma come per i trentini sia ancora
radicato il senso della estraneità del Veneto: una distanza fisica così
irrilevante (un’ora di macchina) nasconde un confine vitale e reale.
Altro che “boundaries are only conceptual fictions”, come sostengo-
no molti sociologi e antropologi. Ci sono, ci sono i confini dentro di
noi… Ripenso a quando i miei parenti trentini mi chiedono anche a-
desso, dopo tanti anni che non vivo più qua: “Come fai a vivere giù a
Padova? Non ti senti sola? Va bene che dopo tanto tempo (si tratta di
trent’anni, vorrei precisare!!) avrai fatto le tue amicizie, ma qui è
un’altra cosa, qui è la tua terra!” Io sto zitta, per non ferirli, ma per
me le cose sono andate molto diversamente, non è a una “terra” che
mi affeziono, ma alle “persone” e quelle sono eguali ovunque le in-
contri.
Eh già, questa è la soluzione che mi ha permesso di ovviare alla man-
canza di quelle radici che legano la maggior parte di voi ad un luogo
per tutta la vita, luogo a cui tornate ogni tanto col pensiero e che vi
identifica profondamente: io colloco le mie radici in quelle persone
che stimo e che posso conoscere ovunque, punti di riferimento sparsi
qua e là senza collocazione geografica.
“Varda che la ciocolata la diventa freda, lasa star i pensieri, marò-
ca, e bevi”. E già, la mia amica affettuosamente si preoccupa per me,
che, “maròca”, perdo tempo in elucubrazioni mentre sul tavolino del
bar cioccolata e strudel mi aspettano profumati e fragranti. Ma da do-
ve viene quel termine ”maròca”? Mi viene in mente il “bazar” Che-
sani, gli abbeveratoi dei cammelli ed ora anche questo ”maròca” dalla
chiara etimologia araba…
Boh, lasciamo stare, preferisco impegnarmi seriamente sul cibo, devo
recuperare le energie spese in questa giornata così piedna di forti emo-
zioni.
Dopo un’oretta, usciamo dal bar e continuiamo il giro per la città, ma
ben poco ci resta da vedere. Riprendiamo la macchina e ci avviamo
nella vicina periferia: ed ecco che tutta quell’atmosfera rigorosa e ben
caratterizzata di Trento viene cancellata, spazzata via in un baleno (dal
”soffio della modernità” avrebbe detto ironico il mio professore di
italiano) e mi compaiono davanti, quasi familiari e rassicuranti i pre-
fabbricati di un centro commerciale. Ecco che anche qui, come a Pa-
dova, fuori dalle storiche mura, tutto è genericamente “cemento”. E
dunque Trento è di certo molto “a Nord” di Padova, però solo nel suo
cuore antico, mentre fuori è … il mondo.
Guidata dalla ben visibile “P” trovo facilmente parcheggio, al coperto
naturalmente, così ritroverò la macchina bella calduccia; porte ami-
chevoli si spalancano silenziose esattamente a dieci centimetri dal no-
stro passo, come se un valletto invisibile stesse proprio aspettando noi
e in un baleno entriamo nel centro commerciale e veniamo accolte
dalla solita musica ad alto volume e dal solito brusio di quel solito
melting pot (la famosa “malta umana” cara Paola) che mi è tanto fa-
miliare e alla quale ho concesso tanto spazio (forse troppo?!) in que-
sto mio libro.
Insomma: la “grande mela” Trento è uguale uguale alla “grande
mela” Padova, addentata e assaporata dalle stesse persone e io, finchè
sono qua dentro, sono semplicemente una di quelle persone che popo-
lano questa “piazza”.
“Bella roba, che orrore, e che malinconia che ci fai” . Eh sì cari
amici miei che amate l’atmosfera dei centri storici delle nostre belle
città, avete ragione: per voi tutto ciò è “orrore” e ve ne ritraete con
sdegno. Invece io, e forse non sono la sola, quando mi trovo in questi
“spazi anonimi” (che siano grandi stores, centri commerciali, super-
markets, ma anche aeroporti, stazioni di metropolitane, di treni …) mi
sento ben amalgamata con la comunità cosmopolita e trasversale che
le popola, proveniente da “radici” così diverse e a cui mi lega un ras-
sicurante sentimento di appartenenza, quasi un’identità non di certo
culturale, ma fatta di comuni bisogni da soddisfare, di comuni espe-
rienze di certo fugaci ed effimere, ma ricorrenti, quasi quotidiane nella
loro scadenza. Insomma, cari miei (carissimi amici, di cui sopra), con
tutte le riserve del caso, bisogna ammettere che questi mondi virtuali
sono le nuove piazze.

“Ma che bestemmie stai dicendo, non ti augurerai per caso che que-
ste mostruosità lentamente soppiantino le vecchie piazze dei centri
storici con tutto il fascino della loro atmosfera!”. Ma no, ma no, come
potrei; non mi capite proprio. Anch’io, come voi e forse anche di più,
apprezzo, anzi “venero” con grande commozione i nostri centri storici,
dove la vita si dipana secondo ritmi più naturali (“a misura d’uomo”
per dirla con una frase abusata) e dove le antiche pietre affinano il tuo
gusto e ti fanno riflettere sul tempo passato che scorrendo lento sopra
di esse le ha levigate e scolorite ..”Ah, meno male, sei ancora dei no-
stri, non ti si è cementificato cuore e cervello!” No, no, cari amici,
però sono queste pietre che, se i tuoi padri non le hanno calpestate pri-
ma di te, mentre tu le percorri ti chiedono: da dove vieni straniero? Da
Nord, da Sud, da Est o da Ovest?
L’eterno dilemma.

“Varda che sarà meio che anden in zo”, mi dice l’amica, riportando-
mi alla realtà, “l’è tardi e zo là ghe sarà già la solita nebbia” aggiun-
ge sospirando, rammaricata di lasciare la “sua” Trento.
Saliamo in macchina e dopo pochi chilometri riprendo la statale
Valsugana, diretta “in zo”, a sud, a Padova, appunto.

fine

Nota dell’autrice: Le frasi in dialetto, sia padovano che trentino, sono


probabilmente inesatte, questo a conferma di come non sono più tren-
tina, ma non sono nemmeno padovana.
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