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Francesco Dammacco, laurea in medicina e Master di formazione, dirige il


Centro di diabetologia pediatrica dellospedale Pediatrico Giovanni XXIII di
Bari. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni e interventi su temi legati alla
formazione del paziente con il diabete e al dialogo fra paziente e Team.
Alberto Pattono, si laureato in filosofia teoretica alluniversit di Milano.
Giornalista professionista, collabora da molti anni con Roche Diagnostics quale
direttore editoriale di Modus, Pediatria e diabete e di alcuni siti web.

Francesco Dammacco, Alberto Pattono


Autobiografia e pensiero narrativo

Nel dialogo con il paziente cronico, il terapeuta non pu contare solo


sul pensiero logico-scientifico. Ottenere lempowerment, significa anche
lavorare insieme sulla descrizione autobiografica che il paziente fa di se
stesso e del suo diabete utilizzando gli strumenti del pensiero narrativo.
Questo libro riassume gli approcci teorici elaborati negli ultimi due
decenni dalla Psicologia culturale, propone alcune metodologie sviluppate
nellambito di diverse scienze umane e approfondisce un approccio
formativo e autoformativo sperimentato nellambito della Diabetologia
pediatrica. Il tutto con lobiettivo di stimolare cos come avvenuto con
lEducazione Terapeutica la riflessione fra i Team diabetologici italiani.

Francesco Dammacco, Alberto Pattono

Autobiografia
e pensiero narrativo

Lempowerment del paziente diabetico

Francesco Dammacco, Alberto Pattono

Autobiografia
e pensiero narrativo
Lempowerment del paziente diabetico

Roche Diagnostics S.p.A.


Diabetes Care
Editing: In Pagina - Milano
Grafica: www.ideogramma.it
Stampa: Global Print, Gorgonzola (MI)
In copertina: disegno di Sergio Bellotto

INDICE

Premessa
Introduzione come invito
Lapproccio narrativo in Diabetologia

pag. 5
pag. 7
pag. 13

STIMOLI
Pensiero logico e narrativo
Come fatta una storia
La narrazione autobiografica

METODOLOGIE
La conversazione autobiografica
Redigere una autobiografia
Narrative Therapy
La conversazione terapeutica

pag. 17
19
29
39

APPLICAZIONI
Il modello dellempowerment
Lavorare sul racconto
Lautobiografia formativa di un diabetologo
Un racconto autobiografico formativo

pag. 89
91
105
115
127

Quasi una conclusione

pag. 135

Bibliografia

pag. 141

pag. 47
53
67
71
83

PREMESSA

Cosa questo libro? Perch proporre alla Diabetologia italiana una riflessione su temi quali la Psicologia narrativa o lautobiografia formativa? Rispondere alla seconda domanda facile:
i componenti dei Team diabetologici, sia delladulto sia pediatrici, hanno una consapevolezza particolare delle molteplici dimensioni che la patologia assume, riassume e in parte nasconde, sanno bene quale ruolo attribuire ai vissuti del paziente (e della sua
famiglia) e hanno imparato a conoscere e gestire i continui rimandi fra il versante per cos dire fisiologico e quello psicologico della condizione cronica.
Ignorando o considerando residuali questi aspetti difficile ottenere quel livello di adesione del paziente alla terapia che passa
attraverso un buon autocontrollo glicemico, pilastro insostituibile
della terapia del diabete.
I Team diabetologici sono pi esposti allentusiasmo nei numerosi successi e allo scoraggiamento nei casi opposti. Dagli insuccessi la Diabetologia spesso riuscita a trarre collettivamente e
nellesperienza del singolo lo stimolo a una comprensione pi
ampia e profonda della relazione fra paziente e Team Medico.
nata cos lEducazione Terapeutica: un approccio sul quale Roche Diagnostics ha creduto molto, creando occasioni di contatto, di incontro e di studio. Linteresse che lEducazione Terapeutica ha riscosso, ora anche in ambito pediatrico, conferma la fertilit di questa direzione di ricerca. In molti sensi la riflessione sulla
narrazione in generale e sulla autobiografia in particolare pu essere considerata il naturale proseguimento dellEducazione Tera-

peutica. una riflessione svolta in anni piuttosto recenti fatta propria da scuole psicologiche diverse. Riteniamo che la Diabetologia italiana rappresenti un terreno particolarmente adatto a cogliere questi stimoli. Soprattutto ora.
Torniamo ora alla prima domanda. Cosa vuole essere questo libro? Non una metodologia belle pronta da mettere in atto domani mattina nei Centri di Diabetologia pediatrica o delladulto
e nemmeno un elenco di ricette complementari o alternative da
utilizzare come tali nella prassi del dialogo che si instaura fra la
persona con il diabete e il Team.
Pi che un elenco di ricette questo libro la descrizione di alcuni
utensili di cucina, utensili che potrebbero risultare utili sia in Diabetologia Pediatrica (nella gestione dellansia della famiglia e poi
del paziente adolescente) sia nella Diabetologia internistica (nella gestione del paziente non compliant).
Ritengo che Alberto Pattono, direttore editoriale di Modus e Pediatria e Diabete, sia riuscito a rendere in maniera chiara e articolata seppur per forza di cose sintetica, lo spazio teorico aperto
dalla riflessione sul pensiero narrativo e sullautobiografia, sia le
metodologie che da questa discendono.
A Francesco Dammacco poliedrico e instancabile ricercatore di
stimoli e approcci va il duplice merito di aver dato origine al nostro interesse verso questi temi e di aver approfondito, le possibili modalit di utilizzo dellautobiografia formativa in un contesto diabetologico.
Ci quanto sta dietro a questo libro. E oltre? Oltre occorre
ne siamo ben coscienti unopera di riflessione e di messa a punto che solo la Diabetologia italiana pu compiere, metabolizzando e facendo suoi se lo ritiene questi input. Occorre un dialogo, una riflessione comune. La disponibilit di Roche Diagnostics
a organizzarne le forme massima, anche se queste sono ancora da valutare e dipenderanno dallascolto che tali suggerimenti avranno.
Massimo Balestri
Roche Diabetes Care

INTRODUZIONE COME INVITO

Ora mi trovo a scrivere questa introduzione.


Che in realt, come tutte le introduzioni, lo sguardo che si
rivolge allindietro quando si sosta, in un momento di incertezza e indecisione, su una soglia prima di varcarla verso un
nuovo cammino.
In effetti mi rendo conto di essere giunto alla fine di un percorso e dal punto di osservazione e di sosta che personalmente ora ho raggiunto mi accingo a scrivere parole dinvito
per altri a percorrere lo stesso sentiero di conoscenza e consapevolezza.
Fuor di metafora, questa introduzione la riflessione conclusiva di una personale esplorazione pedagogica prima di proporla ad altri con la lettura delle pagine di questo libro.
E se, come immagino per un Medico diabetologo, limmediato impulso indotto dalla sola visione del titolo pu essere
quello di non leggere non solo il libro ma neppure la sua
introduzione, questultima, allora, vorrebbe essere letta per
invitare, invece, a un istante di ripensamento.
La domanda cui questinvito deve dare una preliminare risposta se valga la pena al lettore di seguirlo.
La mia risposta personale s, perch le parole e i racconti di
questo libro richiedono di essere sottoposti a verifica per una
loro conferma o abbandono.
Questo libro pone lattenzione su quanto il senso e lesperienza comune da sempre insegnano e dicono sulloperare
delle persone.
Non forse credibile che le nostre azioni, i nostri comportamenti possano riflettere le nostre convinzioni, le nostre pre7

messe, insomma tutto linsieme di significati con i quali abitualmente attribuiamo un senso al nostro mondo e alla nostra
vita? A usare un linguaggio pi colto, ma per significare la
stessa cosa, diremmo che ciascuno di noi si formata una
teoria soggettiva della conoscenza che supporta e motiva il
nostro agire.
E non altrettanto credibile che il complesso di conoscenze
di ciascuno di noi si sia costituito, e continuamente si rimodelli, nel corso delle esperienze soggettive di vita? come
dire che la teoria soggettiva di conoscenza viene elaborata in
parallelo con lo sviluppo del S personale.
E risalendo indietro, questultimo pu essere considerato
come un sistema, a molte dimensioni e anche multiplo, di
rappresentazioni e di significati che si venuto formando nel
processo continuo di interazione dellindividuo con il sistema
di significati del contesto culturale. Il S personale, quellIo
che mi affascina considerare come multiplo, come tanti io
da riscoprire e tesorizzare, la risultante di un processo sociale di costruzione durante lintero ciclo vitale.
Se ridiscendiamo il sentiero in senso inverso, constatiamo che
il S personale e la teoria soggettiva di conoscenza hanno
una storia di formazione comune e che entrambi, poi, influenzano lidea che ci costruiamo della nostra attivit e di conseguenza dello stesso nostro agire professionale (S professionale). E tutto sempre e di nuovo reciprocamente.
Ma perch queste considerazioni su quanto il senso comune
ci dice, riscritte, poi, con parole pi forbite? Che importanza
possono avere per noi, per la nostra professione e a cosa e
dove ci invitano?
A me hanno dato un ulteriore insight formativo, un invito a
guardare dentro per vedere finalmente ci che prima il
semplice guardare non mi consentiva di notare.
E cio che, detto in modo diretto, nella mia attivit professionale in ambito diabetologico, come terapeuta e come
educatore allautogestione, devo ri/conoscere di essere guidato dalla mia visione di terapeuta e di educatore. E che questultima si formata nel corso della mia vita professionale in
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parallelo con lo sviluppo del mio S personale. Noi agiamo


come siamo e siamo come agiamo.
E dove pu condurci questo ulteriore insight? A una scelta.
Non proprio come quella del Poeta nel mezzo del cammino
della vita, e neppure come la necessit delleroe mitico che
deve attraversare il luogo oscuro e inesplorato, o discendere
agli Inferi o superare la prova decisiva per annullare il suo passato e se stesso prima di ri/sorgere o ri/nascere rigenerato.
Non certo con la stessa valenza universale, ma con il medesimo significato, anche per lindividuo gi indicato il percorso da intraprendere per un cambiamento significativo: quello
di un viaggio nel luogo inesplorato di se stessi, scendere nel
passato della propria vita, ritrovare i molti Io che si pu
essere stati, per una riconciliazione e una programmazione
del futuro della propria vita.
E non questo esplorare che si fa ogni volta che si vuole
cambiare o intraprendere una nuova attivit se non addirittura una nuova fase della vita?
Che poi non uno scoprire nuovi paesaggi, ma un guardare
con occhi diversi gli stessi luoghi.
Leducatore, quindi, nel suo processo di formazione dovrebbe
includere anche, se non addirittura preliminarmente, un attento percorso di conoscenza di se stesso.
Ma seguendo quali segnali e in quale dimensione?
Restando nellambito della propria esperienza di vita e raccontandola a se stesso (e agli altri) con lautobiografia formativa. A
questo invita la moderna pedagogia della formazione.
Per acquisire maggiore consapevolezza delle proprie capacit
e possibilit privilegiato il metodo dellesplorazione autobiografica: e nello scrivere la propria esperienza di vita non solo si
confermano le vie imboccate, che ci hanno condotto alle nostre attuali conoscenze e convinzioni, ma anche, e si dovrebbe
dire soprattutto, si possono ri/scoprire i tanti sentieri non percorsi, a indicare forse capacit e possibilit non esplorate.
Il raccontare e, meglio, scrivere la propria autobiografia , in
realt, un ri/scrivere la propria vita, un ri/conoscerla per il
fatto di trovare nuove parole e quindi nuovi significati.
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Questo, in estrema sintesi, consentono di fare il pensiero narrativo, la narrazione, il racconto, che luomo utilizza per attribuire significati e quindi un senso alla propria vita e al mondo
in cui vive.
Ma ritorniamo alla domanda iniziale per non disperderci in
questi affascinanti territori del pensiero con i loro seducenti
richiami culturali.
A che possono servire lautobiografia formativa e il pensiero
narrativo e le loro applicazioni nella formazione del terapeuta diabetologo o addirittura al paziente con diabete? A questo punto, per, bisogna, almeno, noi diabetologi, essere
coerenti, se prima non lo si era stati.
La parola imperante in questa fase della Diabetologia :
Educazione Terapeutica.
Tutti si fanno il dovere di proclamarla. E quindi di ammettere
che il diabetologo, o chi in generale coinvolto nella clinica
del diabete, oltre che il terapeuta in senso stretto deve avere
capacit educative. Il che significa semplicemente che il diabetologo deve formarsi anche una vocazione e capacit educativa specifica per educare il suo paziente diabetico allautogestione.
NellEducazione Terapeutica, linterazione terapeutica consiste
essenzialmente in uneducazione allautogestione. Non solo
fornire conoscenze specifiche, non solo usare strategie comportamentali per migliorare la compliance, ma soprattutto un
intervento integrato che consenta al paziente di fare scelte
informate per lautogestione della sua condizione.
Ma tutto questo possibile nellambito di una visione del trattamento del diabete che considera il paziente partner paritario, come lempowerment.
Non solo il diabetico deve essere educato allautogestione, ma
anche il diabetologo non pu esimersi da una formazione
pedagogica personale per essere in grado di educare il diabetico allautogestione. Il diabetologo deve condividere in questo caso la teoria educativa dellempowerment, con la quale
deve confrontare la propria teoria soggettiva delleducazione,
che si formato nel corso della sua attivit professionale.
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La coerenza professionale dovrebbe richiedere al terapeuta


una consapevolezza della propria filosofia educativa e di
quanto questa influenzi la sua pratica professionale. Per poi
verificarne lefficacia nella educazione del suo paziente diabetico allautogestione.
Questa introduzione, gi troppo lunga, vuole essere quindi
linvito a scrivere una autobiografia formativa per una migliore conoscenza di se stessi e della propria teoria professionale, per una condivisione dellempowerment come strategia
per realizzare lEducazione Terapeutica nel diabete.
La lettura del libro pu guidare a percorrere questo sentiero
formativo.
Francesco Dammacco

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LAPPROCCIO NARRATIVO
IN DIABETOLOGIA

Mille anni sono stati pi che sufficienti. Dalla Scuola salernitana alla fine dello scorso secolo la medicina occidentale
moderna ha raffinato sempre pi il suo paradigma: combattere le patologie acute costruendo e individuando modelli
oggettivi sempre pi dettagliati dellorganismo e della patologia.
Cartesio nel primo Seicento non fece che razionalizzare e
spiegare quanto la scienza stava gi facendo: cercare dietro
ogni soggettivit una oggettivit; dietro ogni organismo un
meccanismo. A questa cesura radicale dobbiamo lo straordinario sviluppo di quelle che oggi si chiamano scienze della
vita e delle relative tecnologie.
Alla fine dei suoi mille anni di storia la medicina moderna e
occidentale ha il pieno controllo della porzione di realt che
si era assegnata. Gran parte delle patologie acute oggetto
e modello della medicina occidentale e moderna sono
debellate o curabili, soprattutto nei Paesi avanzati.
Proprio per questo il nuovo millennio si apre con la sfida della
patologie croniche anzi delle condizioni croniche.
A questo punto chiaro che i paradigmi sono da rivedere. I
diabetologi sono stati i primi a sentire disagio, a capire che
non solo quanto avevano imparato allUniversit ma i presupposti stessi della scienza medica si stavano rivelando insufficienti o, per meglio dire, inappropriati.
Quando parliamo di patologie croniche, di condizioni, un
approccio cartesiano e meccanicistico serve a poco. Lo stesso pensiero logico razionale non ha voce in capitolo quando
la terapia consiste nel modificare le abitudini dei pazienti.
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Ancora una volta la Diabetologia si trova allavanguardia.


Prima disciplina a prevedere lautocontrollo e quindi lempowerment del paziente (oggi applicato con successo nella terapia di altre condizioni).
Prima disciplina a interrogarsi su cosa accade nel vissuto del
paziente, a ritenere che il compito del Medico inizi (invece
che termini) con la prescrizione. Prima ad accorgersi dellimportanza di impadronirsi di nuove conoscenze, nuovi approcci il counseling; lascolto attivo, il coaching, la gestione della
motivazione la Diabetologia oggi in grado di fare un ulteriore passo avanti.
Esiste per il rischio di un equivoco: non si tratta di acquisire
anche qualche conoscenza di psicologia; n genericamente
di tenersi aggiornati e fare shopping di metodologie.
Il Medico oggi davanti a una scelta chiara fra quello che in
definito pensiero razionale e pensiero narrativo.
Si tratta di due approcci paralleli, non antitetici ma profondamente diversi. Il pensiero razionale in medicina allapice
della sua parabola; ma curare una condizione cronica utilizzando il pensiero logico-razionale difficile. Le persone
quando devono pensare a se stesse adottano lapproccio
narrativo. Noi siamo la nostra storia e se vogliamo cambiare
non dobbiamo modificare quello che sappiamo ma quello
che diciamo o che viene detto di noi stessi.
Curare, essere di aiuto a una persona che vive una condizione cronica significa anche aiutarla a modificare dei racconti,
quelle narrazioni che governano i significati da lei attribuiti a
se stesso, al cibo, al corpo, alla malattia
Questa la sfida di oggi. Una sfida che la Diabetologia ha
saputo raccogliere partorendo dal proprio cervello, come
Atena da Giove, lEducazione Terapeutica. Parallelamente la
psicologia, che anche essa era caduta nelle secche del razionalismo, ha approfondito aiutandosi con lantropologia, la
filosofia e lo studio dellapprendimento linguistico una serie
di approcci narrativi o culturali.
Questo il momento di compiere un salto di paradigma.
Siamo in quei momenti cos ben mostrati da Kuhn in cui la
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scienza scoperti i limiti dei paradigmi da cui partita si


muove in una apparente terra di nessuno prima di scoprire il
nuovo paradigma che rende conto di tutti questi limiti e di
quanto si fatto per superarli.
Non si tratta quindi di aggiungere una competenza in pi o
di affrontare lennesima metodologia ma di capire che quello
che la Diabetologia sta cercando e in molti casi sta raggiungendo avviene gi adesso allinterno di un contesto narrativo. Cosa lEducazione Terapeutica se non un tentativo di
curare agendo sui vissuti prima ancora che sui parametri
ematologici del paziente?
Quando il diabetologo avendo delegato la gestione delle
glicemie al paziente si accorge di essere divenuto un gestore delle motivazioni, cosa sta facendo se non curare i significati? Questa che ai diabetologi (e ai pazienti) oggi appare
come terra incognita invece il solido terreno sulla quale la
psicologia culturale ha lavorato negli ultimi ventanni, tracciando teorie e modelli, stabilendo legami nuovi e dando vita
a metodologie solide.
Il libro ha lobiettivo di illustrare a grandi linee queste costruzioni, nate al di fuori della Diabetologia e solo in parte applicate al suo interno e precisamente:

Elementi utili per una rivalutazione del pensiero narrativo e della sua pari dignit con il pensiero causale-logico
che caratterizza la scienza e il fare Medico.

Proposta di una riflessione portata avanti dalla psicologia


costruttivista prima e poi dalla psicologia culturale sul
ruolo del linguaggio e della comprensione/costruzione
di storie non solo nella evoluzione psicologica dellindividuo ma dellintero essere sociale.

Cenni a esperienze e studi recenti sulla evoluzione della


comprensione e costruzione di storie in et pediatrica.

Riflessioni sulle caratteristiche strutturali di quella particolare forma di narrazione che lautobiografia.
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Alle sezioni del 2 capitolo, che intendono incentivare la riflessione proponendo in forma estremamente sintetica alcuni stimoli culturali provenienti dalla ricerca psicologica e filosofica, si accompagnano quattro proposte metodologiche
pi o meno formalizzate come tali.
La conversazione autobiografica. Utilizzando fonti diverse (di
scuola sociologica e psicologica) si sono delineate le condizioni di possibilit di un intervento nel quale un terzo invita
una persona a scrivere un racconto autobiografico.
Redigere unautobiografia. Sulla scorta soprattutto del lavoro di Duccio Demetrio si accennato al vissuto della persona
che si appresta a redigere una autobiografia e sugli effetti
formativi che questa attivit pu avere.
La Narrative Therapy. Questo approccio psicoterapeutico
gi stato sperimentato con lo scopo di favorire una narrazione alternativa dei termini del problema, aprendo la strada a
comportamenti differenti.
La conversazione terapeutica. Sulla base dello studio di
Francesco Dammacco si accennata una metodologia di
counseling tesa a intervenire sulla narrazione che il paziente
fa di una condizione per lui problematica.
Sarebbe arbitrario e riduttivo trovare fra queste metodologie
qualcosa di pi di unaria di famiglia, mentre il loro rapporto
con le riflessioni proposte come introduzione pi diretto Al
termine di ogni sezione sono indicate alcune letture consigliate, scelte fra i libri pi accessibili (nel senso letterale e
traslato). In bibliografia sono riportati comunque i testi di riferimento a livello scientifico. Alcune citazioni sono state riportate con alcuni interventi di editing che non ne alterano il
senso ma permettono di inserirle meglio nel contesto e rendono pi agevole la lettura.
Lultima parte del libro riporta le riflessioni di Francesco
Dammacco sulla autobiografia come esperienza formativa e
un esempio di autobiografia formativa.

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STIMOLI

Pensiero logico e narrativo


Come fatta una storia
La narrazione autobiografica

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PENSIERO LOGICO E
PENSIERO NARRATIVO

Ospedali, Universit, Centri di ricerca, Aziende sono istituzioni che devono la loro stessa esistenza al pensiero logico/paradigmatico. Tutti noi per utilizziamo nella vita quotidiana un
approccio diverso: quello che sulla scorta dei lavori di Jerome
Bruner si iniziato a chiamare pensiero narrativo.
Il pensiero narrativo non un pensiero minore o illogico, n
una semplice modalit della comunicazione. Il pensiero narrativo una forma di comprensione della realt parallela a
quella logica e di pari dignit. Di questo ci si rende conto
ormai da tempo anche in ambito scientifico: Gli sviluppi
metodologici della ricerca e la riflessione epistemologica hanno reso in gran parte infondata e obsoleta [...] lopposizione fra
spiegazione storico clinica (narrativa) e spiegazione naturalistica (causale) (Battacchi, 1997). Basti pensare solo per fare un
esempio a quanto scriveva Thomas Kuhn (1962) sul ruolo delle
metafore nello sviluppo delle concezioni scientifiche.
Andrea Smorti (Smorti, 1994 p.92), docente di Psicologia
dello sviluppo a Firenze, ha riassunto con un interessante
schema il confronto fra il pensiero logico (da lui definito
paradigmatico) e quello narrativo.
PENSIERO PARADIGMATICO

PENSIERO NARRATIVO

Tipico del ragionamento scientifico


Orientamento verticale
Libero dal contesto
Nomotetico e paradigmatico
Validato attraverso la falsificazione
Costruisce leggi
Estensionale

Tipico del ragionamento quotidiano


Orientamento orizzontale
Sensibile al contesto
Ideografico e sintagmatico
Validato in termini di coerenza
Costruisce storie
Intensionale
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Il pensiero paradigmatico tipico del ragionamento scientifico e consiste nel mettere sempre in relazione un caso individuale con categorie generali secondo un processo verticale di subordinazione o di sovraordinazione (Smorti, 1994,
p. 92).
Nella prassi di un Centro di Diabetologia, ad esempio, la condizione di una persona con la glicemia alta ascritta (cio
inserita nellambito pi ampio) alla condizione pi generale
diabete. Le particolarit di quella persona sono residuali: il
fare scientifico procede per induzione, privilegia le comunanze
e le somiglianze fra i vari fenomeni.
Al contrario il pensiero narrativo approfondisce quanto avviene in quella persona, in quel diabete.

La verit nel pensiero narrativo


Diversamente dalle costruzioni generate da procedure logiche e scientifiche, che possono venire eliminate tramite falsificazione, le costruzioni narrative possono raggiungere solo
la verosimiglianza. I racconti sono dunque una versione
della realt la cui accettabilit governata dalla convenzione
e dalla necessit narrativa, anzich dalla verifica empirica e
dalla correttezza logica (Bruner, 1990, p. 17).
Il pensiero narrativo per non privo di falsificazioni. Come
scrive Smorti (Smorti, 1994, p. 136): Anche il pensiero narrativo ha le sue procedure di validazione: la storia deve persuadere chi la costruisce e chi lascolta, ci significa che deve
apparire verosimigliante in due sensi.
Il ragionamento narrativo insomma falsificato dallinverosimile cos come quello logico dalla contraddizione. Non c'
la verit da scoprire, ma dei racconti di vita da valutare in
base a criteri formali o pragmatici (coerenza, semplicit, persuasivit, efficacia) (Smorti, 1997).
Il pensiero logico razionale un costrutto culturale preciso:
sia nello sviluppo formativo di una persona sia in quello di
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una civilt possibile identificarne la nascita e lo sviluppo.


Piaget ha scoperto con quali difficolt il pensiero logico si
affermi nelladolescente mentre gli storici sono concordi nel
far risalire a dopo il Rinascimento il primato della razionalit
nelle scienze.
Al contrario, il pensiero narrativo appare connaturato sia a
ogni bambino sia a ogni cultura. Le prime spiegazioni del
mondo sono narrative: i miti. Nella grecia classica, che forgi
le basi della razionalit occidentale, il mito era onorato come
forma di spiegazione del reale. La retorica latina classica consigliava di adottare anche nelle sedi razionali del Foro o del
Senato non solo la spiegazione logica, lexplanatio ma quella narrativa degli exempla.

Un linguaggio che fa pensare


Stiamo parlando quindi di un pensiero che primordiale e
fondativo, un pensiero che non utilizza il linguaggio ma
nasce nel linguaggio. La riflessione sul ruolo costitutivo del
linguaggio relativamente recente nella storia della cultura.
Dewey nel 1958 fu il primo a ipotizzare che il linguaggio fosse
uno strumento per segmentare, ordinare, predicare intorno,
categorizzare e cos via che, quando applicato allesperienza,
apporta una maggiore coerenza cognitiva e potenza nellorganizzazione di quella esperienza.
Una forma forte di questo punto di vista (citiamo da Bruner,
Lucariello, 1989) venne introdotta nel 1885 da von Humboldt,
il quale diceva che il linguaggio costitutivo del pensiero,
se non dellesperienza stessa. Questo come dire che la
forma stessa del pensiero umano imposta dalla natura del
linguaggio.
Fu lo psicologo russo Lev Vygostkij (1962) a definire i rapporti fra pensiero e linguaggio in una forma coerente con i dati
sperimentali. Secondo Vygostkij, linguaggio e pensiero sono
due flussi separati. Il pensiero inizia come forma autonoma,
ma effettua un salto di qualit quando e nella misura in cui
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attraverso il linguaggio si collega al magazzino della conoscenza e delle procedure di una cultura.
In questo senso il linguaggio non puro mezzo. Le parole
che il bambino trova e impara non sono neutre, ma gi cariche di connotazioni culturali, di significati assegnati dalla
comunit nella quale il bambino (ma lo stesso vale per chi da
adulto si inserisce in un contesto nuovo) si inserito. In questo senso corretto dire che quando noi usiamo il linguaggio, questo e altri sistemi simbolici a loro volta mediano il
pensiero e imprimono il proprio marchio sulle nostre rappresentazioni della realt (Bruner, 1990, p. 17).

Il linguaggio per co-nascere al mondo


Il costruttivismo di Vygostkij si unito al post-strutturalismo di
Nelson Goodman (1978) e alla filosofia esistenzialista di
Maurice Merleau Ponty, generando per opera soprattutto
dello psicologo americano Jerome Bruner (1915) la scuola
della psicologia culturale.
Secondo la psicologia culturale, attraverso il linguaggio e
specificatamente attraverso le storie, luomo non solo conosce (nel senso di gnosis, di conoscenza fattuale) il mondo
ma letteralmente co-nasce (il termine di Merleau Ponty) al
mondo: si inserisce in un contesto che composto da significati, si apre a una valorizzazione condivisa culturalmente
dalla sua famiglia e poi via via da contesti sempre pi ampi:
societ e culture. Le storie, ha scritto Bruner sono la
moneta corrente di una cultura (Bruner, 2002, p. 15).
attraverso le narrazioni che luomo nel suo sviluppo ottiene
le informazioni pi importanti per lui: i significati. la narrazione a generare valore, ad avvolgere ogni donazione di
senso, ogni percezione. Filosofi postmoderni come Jacques
Derrida, Francois Lyotard o psicanalisti come Jacques Lacan
hanno portato alle estreme conseguenze questi presupposti
definendo gli individui come letteralmente prodotti dalla
narrazione e precisamente dal linguaggio. Riassume bene la
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Crossley (Crossley, 2000, p. 26) dicendo che un tema centrale del postmodernismo l'idea che la conoscenza non sia
data dalla logica o dalla razionalit, ma dalle curve e dai
movimenti del linguaggio. Per quanto noi ci si creda i padroni del linguaggio pi corretto dire che il linguaggio si impadronisce di noi.
La psicologia bruneriana arrivata a questi esiti partendo
dalla rivolta allo sperimentalismo psicologico degli anni 40 e
50 accusato di non saper render conto dei significati.
Approfondendo il concetto di significato, Bruner colse come
la sua costruzione non semplicemente il prodotto dellattivit cerebrale, qualcosa che il cervello computa quando
viene fornito linput adeguato ma piuttosto unattivit interpretativa socialmente condivisibile (Olson, 1999).
Da questo principio discendono due conseguenze. La prima
la centralit dei significati.
Ci che viene scambiato in una cultura e ogni contesto
sociale ha una cultura: una Nazione, una Professione, un
Ospedale, un Ambulatorio proprio la attribuzione di significato. Dietro ogni azione, conscia o inconscia, c sempre
magari sottaciuta una narrazione che la sola a spiegare il
perch, la ragione ultima che presiede a una istituzione (il tal
Centro di Diabetologia), a una azione (la terapia del Diabete),
al fatto che una persona ne sia coinvolta.
La seconda conseguenza il primato del senso rispetto alla
tradizionale divisione posta da ogni psicologia classica: cio
la divisione fra interno ed esterno di un soggetto o fra una
persona e laltra diventano permeabili. una astrazione
razionale, cartesiana quella che vede da una parte un S
pienamente compiuto, legislatore e re del suo mondo, e dallaltra un contesto esterno pi o meno importante.
Questo S nasce e vive avvolto in una cultura, che attraverso
il linguaggio propone ai singoli soggetti delle valorizzazioni e
lo fa tramite delle narrazioni cariche di significati, le storie
appunto. Ovviamente ciascuno di noi ha spazi di azione ampi
nei confronti degli stimoli e delle attribuzioni di significato
che riceve. Ciascuno di noi produce e mette in circolo nuove
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narrazioni. A questo punto diventa chiaro come noi non


scopriamo noi stessi nella narrazione ma piuttosto creiamo
noi stessi nella narrativa (Crossley, 2000, p. 27).
Una versione particolarmente chiara e radicale di questa posizione data da Mair (Mair, 1988). Le storie sono abitazioni,
noi viviamo dentro e attraverso le storie. Esse escogitano
mondi. Noi non conosciamo il mondo altro che come un
mondo di storie. Le storie danno forma alla vita, esse ci tengono uniti e ci tengono separati. Noi abitiamo le grandi storie
della nostra cultura. Noi viviamo attraverso le storie, noi siamo
vissuti dalle storie della nostra razza e del nostro territorio [Le
storie hanno una funzione] avvolgente e costituente.
Il termine storie volutamente utilizzato in maniera ambigua. Il discorso vale infatti sia per le narrazioni che ciascuno
di noi produce su se stesso, sia per quelle socialmente condivise da una famiglia (i miti familiari), su una istituzione (le
famose mission aziendali), o su uno Stato (gli Usa guardiano del mondo, lItalia, grande proletaria). In questo senso
storia sovrapponibile al termine ideologia, ma anche
parte dellattivit formativa e informativa di una societ consiste nel produrre, mantenere vive, arricchire e adeguare
delle storie socialmente condivise. Alcune istituzioni della
nostra societ possono essere guardate come macchinari per
produrre una versione e definitiva e consensuale di una serie
di eventi (Fasulo, Pontecorvo 1997).
Eccoci quindi in un contesto assai differente da quello della
classica psicologia. In un contesto nel quale le narrazioni non
sono pi considerate ricostruzioni a posteriori dell'esperienza, ma forniscono il testo dellesperienza. [...] Forniscono i format e gli schemi dellesperienza stessa (Olson, 1999).
Non solo il pensiero primitivo ma anche quello scientifico
a far uso del mitologema. Quando Kuhn sottolinea il ruolo
fondativo che le metafore possono avere nella scienza (le
onde dellacqua per spiegare quelle elettromagnetiche) non
ammette un elemento narrativo allinterno della scienza
stessa?
Un docente e rettore di facolt come Umberto Eco, semiolo24

go e massimo esperto dellestetica medioevale, parlando del


suo libro Il Nome della Rosa afferm di aver voluto spiegare
con un romanzo concetti che sarebbe stato difficile, forse
impossibile, illustrare utilizzando le categorie del pensiero
logico. La narrazione la forma attraverso la quale far circolare un pensiero razionale diverso, ma almeno altrettanto valida degli schemi e delle regole scientifiche.

25

Letture consigliate
Andrea Smorti
Il pensiero narrativo: Costruzione
di storie e sviluppo della conoscenza
sociale.
Giunti (Smorti 1994)
Psicologo particolarmente attento ai
contributi della filosofia e dellantropologia (vicino in questo alla sua maestra Ada
Fonzi), Andrea Smorti autore di alcune
fra le poche ricerche sperimentali sul
pensiero narrativo svolte in Italia. Il suo
libro, non complesso e capace di potenti sintesi, oltre a essere centrato sulla questione del pensiero narrativo rappresenta unottima introduzione ai temi trattati in questo
volume.

Mario Groppo, Veronica Ornaghi, Ilaria


Grazzani, Letizia Carrubba
La psicologia culturale di Bruner:
aspetti teorici ed empirici.
Raffaello Cortina
(Groppo et al 1999)
Gli psicologi del Centro di ricerca per le
tecnologie dellistruzione della facolt di
Psicologia dellUniversit Cattolica di
Milano fondata da Mario Groppo possono essere considerati il principale nucleo
italiano della psicologia culturale bruneriana. Questo recente libro, scritto in
maniera chiara e scorrevole, fa il punto sugli aspetti innovativi della
teoria di Bruner rispetto al panorama della psicologia di fine 900 e
pu essere considerato una delle migliori introduzioni al tema.

26

Approfondimenti
BETTELHEIM, B. (1975)
Il mondo incantato delle fiabe.
Feltrinelli, Milano 1977.
CHOMSKY, N. (1968) Language and mind.
Harcourt, Brace & World, New York.
HARR, R., GILLETT, G. (1994)
La mente discorsiva.
Raffaello Cortina Editore, Milano 1996.
HEIDEGGER, M. (1927)
Essere e tempo.
Longanesi, Milano 1976.
KANEKLIN, C., SCARATTI, G. (a cura di) (1998)
Formazione e narrazione.
Raffaello Cortina Editore.
LEVI-STRAUSS (1962)
Il pensiero selvaggio.
Il Saggiatore, Milano 1979.
MC INTYRE, A. (1981)
Dopo la virt.
Feltrinelli, Milano 1988.
VYGOTSKIJ, L.S. (1934)
Pensiero e linguaggio.
Laterza, Roma-Bari 1990.
WOOD, D. (1991)
Paul Ricoeur: Narrative and interpretation.
Routledge, London.

27

COME FATTA UNA STORIA

Una volta definito che le narrazioni non sono mai neutrali,


non nascono per riprodurre qualcosa, ma per creare qualcosa di nuovo: un nuovo ordine nello stato delle conoscenze e
delle relazioni intrattenute dagli interlocutori (Fasulo, Pontecorvo, 1997) emerge come queste storie agiscano quale
potente (e in fondo principale) elemento formativo.
Secondo la psicologia sociale costruttivistica il s si forma
nel corso delle relazioni con gli altri mediante un processo di
negoziazione della propria immagine.
Le storie quindi hanno tutte un compito: devono raggiungere un obiettivo. Per far questo devono rispettare certe
regole. Quali sono queste regole? Gli psicologi e i filosofi
impegnati in questa ricerca hanno dovuto adottare un
approccio per forza di cose interdisciplinare. Da Aristotele in
poi, la narrativa stata oggetto di attenzione da parte di studiosi (di letteratura) di religioni, storia, antropologia, sociologia, psicoanalisi e relativamente di recente psicologia e
pedagogia. Gli studi sulla narrativa sono frammentati fra centinaia di libri e riviste in tutte queste discipline (McCabe
1991, p. XI).

Fabula e sjuzhet
Nei decenni centrali del Novecento, diverse scuole si sono
poste lobiettivo di ritrovare delle costanti nella produzione
narrativa sia alta che popolare.
La ricerca sul pensiero narrativo individua in particolare due
29

contributi: quello dei formalisti russi e quello di Burke. Dai


formalisti Bruner riprende due concetti: quello di funzione e
la divisione fra fabula e sjuzhet. Il concetto di funzione
nasce dallo studio di Propp sulle fiabe. Secondo Propp (1928)
le fiabe possono essere ridotte a un numero limitato di strutture relativamente indipendenti dallambiente che le ha
generate, allinterno delle quali una serie di figure svolgono
ruoli intercambiabili. Cos come in una equazione la variabile
x pu essere sostituita da qualsiasi (o da molti) valori, in una
fiaba la figlia del re pu essere sostituita dalla contadina o
dalla bambina. Possono essere quindi paragonate fra loro (e
divenire fungibili) storie apparentemente assai differenti.
Nella suddivisione fra fabula e sjuzhet (ripresa da Barthes con
i termini storia e discorso) la fabula la materia prima del
racconto e rappresenta lunione di tre elementi costitutivi: la
situazione, i personaggi e la consapevolezza della situazione
che li caratterizza (Groppo, Ornaghi et al. 1999, p. 32).
In pratica il sjuzhet ha a che fare con gli aspetti pragmatici
come ottenere una certa reazione dalluditorio attraverso
aspetti come lintonazione, la gestualit o una violazione alla
struttura temporale canonica (flash-back, flash-forward).

I copioni
Dallo strutturalismo americano invece la psicologia culturale
ha preso una analisi proposta da Kenneth Burke (1945) secondo la quale i racconti di buona fattura risultano composti da
cinque elementi: un attore', una azione, uno scopo, una
scena, uno strumento. A questi Bruner aggiunge un sesto
elemento: il problema, che consiste in almeno uno squilibrio
fra i cinque elementi. Lattore vuol compiere una azione per
uno scopo in una scena ma manca di uno strumento, o lazione non raggiunge lo scopo, o esiste una azione ma non se
ne conosce lattore e cos via.
pensabile un racconto privo di problemi che descriva solo
la pentade di Burke? La risposta s, anzi i racconti senza vio30

lazioni, rappresentano proprio la prima forma narrativa della


quale il bambino si impadronisce. La psicologia culturale ha
elaborato al riguardo il termine script (traducibile con
copioni ma qualcuno preferisce schemi).
Lo script il copione, la sceneggiatura di situazioni abituali
in cui una serie di azioni vengono compiute in funzione di uno
scopo, con un ordine prevedibile o, in contesto spazio-temporale specifico, da soggetti che svolgono ruoli prestabiliti
(Calamari, 1995, p. 77).
I copioni non sono racconti ma contesti ripetitivi. Acquistare
un giornale in edicola, prendere il tram, andare al ristorante
sono copioni per ladulto. Anche in macchina allasilo o fare
colazione al mattino sono copioni per un bambino. Alcune
situazioni possono essere copioni per qualcuno ed eccezionali per altri: fare la glicemia o iniettarsi una sostanza sono un
copione per il paziente diabetico, eccezionali per altri. Per il
bambino l'acquisizione precoce di queste strutture cognitive
un compito evolutivo fondamentale, non solo per la socializzazione, nota la Calamari (ibidem).
Detto per inciso, perfettamente possibile immaginare per
ogni copione mille sjuzhet, questo precisamente quanto ha
fatto Raymond Queneau (1947) nel suo Esercizi di stile, nel
quale il copione di un uomo che sale su un autobus e nota
una persona che aveva scorto poche ore prima viene proposto attraverso numerosi trattamenti.

Canone e violazione
Quella di Queneau una provocazione in quanto il copione
non un buon racconto. Non lo perch annoia, ma soprattutto perch, raccontando di situazioni canoniche, banali e
culturalmente note e accettate non offre dei significati. Un
copione un racconto che non ha nulla da fare.
Una buona narrazione prevede infatti una violazione del
copione. E di questo il bambino si accorge subito: I bambini di quattro anni possono non sapere molto sulla loro cultu31

ra, ma distinguono bene ci che canonico e sono solleciti


nellelaborare una storia che renda conto di ci che si discosta dai canoni scrive Bruner (Bruner, 1990, p. 86) che aggiunge: labilit non solo di individuare ci che culturalmente
canonico, ma anche di tener conto di deviazioni che possano
poi essere incorporate nella narrazione [...] non semplicemente una acquisizione mentale bens una acquisizione di
pratica sociale, che conferisce stabilit alla vita sociale del
bambino (Bruner, 1990, p. 74) .
Spesso il racconto inizia descrivendo una fase di equilibrio in
cui tutto procede in modo normale: allinterno di una scena
lattore compone delle azioni per raggiungere uno scopo servendosi di mezzi appropriati. A un certo punto compare una
rottura in questa normalit, avviene un imprevisto, quello che
Labov chiama un evento precipitante che crea una situazione di squilibrio.

La funzione antropologica della narrazione


Bruner in una delle sua pi alate intuizioni trova in questo rapporto regola ed eccezione, canonicit e violazione la funzione sociale, antropologica della narrazione. Secondo il fondatore della psicologia culturale (Bruner, 1990, p.59) La funzione del racconto quella di trovare uno stato intenzionale che
mitighi o almeno renda comprensibile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico.
Si tratterebbe insomma di una attivit di rielaborazione
della violazione effettuata per rendere comprensibile levento eccezionale e tenere a freno levento misterioso [reiterando] le norme della societ senza essere didattico (Bruner, 1990, p. 62).
Attraverso una narrazione la singola persona o una comunit
recuperano la frattura che la violazione ha creato e la inseriscono, attraverso un processo analogico e qualitativo, in un
contesto noto.
Bruner (1990) cita uno studio di Joan Lucariello nel quale ai
32

bambini di un asilo nido venivano proposte gli inizi di possibili storie e venivano invitati a continuarle. Le storie non canoniche producevano rispetto alle altre un abbondante flusso di
invenzione narrativa, una elaborazione dieci volte maggiore.
Bruner si collega alle spiegazioni della mitopoiesi effettuate
dalla scuola filologica tedesca (Paideia di Jaeger) e francese
(gli studi di Jean Pierre Vernant) cos come dallantropologia
culturale, proponendo la narrazione come forma di reintegrazione della violazione nel corpo sociale, sottolineando la
propensione dell'uomo a comunicare storie di umana diversit e a rendere le interpretazioni congruenti con le pi diverse
scelte di morali e gli obblighi istituzionali predominanti in
ogni cultura (Bruner, 1990, p. 74).
Volendo riassumere in una formula, potremmo dire che davanti a una violazione, mentre la scienza disegna, come insegna la teoria di Kuhn una nuova teoria o rivede quella esistente, il pensiero narrativo elabora una storia. Tutte le teorie cos come tutte le storie derivano, quindi, dallo scontro fra
una norma e una violazione e dal desiderio di liberare la
prima dalla minaccia della seconda.

La narrazione come tecnica di problem solving


In un certo senso la narrazione pu essere considerata una
tecnica di problem solving. I procedimenti narrativi intesi
come attribuzione di senso vengono messi in atto a partire da
un problema. [...] In alcuni casi una pi attenta analisi della
situazione sufficiente a produrre coerenza [...] in altri il contesto deve essere ampliato includendovi anche elementi che
vadano oltre il dato immediatamente contingente. Questo
pu avvenire secondo diversi tipi di procedimento. Ognuno
di essi pu esser usato da solo o in interazione con gli altri
(Smorti, 1994, p. 122).
Questo vero anche in senso letterale. Nel bambino, cos
come nella produzione di storie da parte di comunit primitive, di fronte a un fatto nuovo la prima reazione interroga33

re la memoria alla ricerca degli antecedenti, quelli che la retorica latina definiva gli exempla. Laddove questi non saltino
subito allocchio (se cos fosse la situazione non sarebbe problematica) si utilizza un ragionamento analogico per trovare
nel passato una coppia situazione-comportamento simile per
qualche aspetto alla coppia presente e nella quale il legame
chiaro e plausibile (Smorti, 1994, p. 126).
Analizzando i monologhi di una bambina a due-tre anni,
Emily, Carol Feldman ha rintracciato processi cognitivi tesi a
rendere ragione di un comportamento attraverso nessi narrativo-casuali ed arrivata a ipotizzare (Feldman, 1989, pp.
102-103) che il ragionamento logico in realt dipenda da o
cresca sulla base di quella che si ritiene essere la sua antitesi:
la forma narrativa del linguaggio.

Le caratteristiche di una narrazione


Rielaborando diversi scritti di Bruner, Smorti (1994) propone
un riassunto delle caratteristiche di una narrazione.

Sequenzialit: Gli eventi sono disposti in un processo


temporale e hanno una durata e non potrebbero essere
descritti se non in questa dimensione.

Particolarit e concretezza: La narrazione tratta di avvenimenti e questioni riguardanti le persone.

Opacit referenziale: In una narrazione non si pu parlare di verit o falsit, ma solo di verosimiglianza e questa risulta dalla coerenza del racconto.

Scomponibilit ermeneutica: La narrazione sempre prodotta a partire da un determinato punto di vista del narrante ed recepita in base al punto di vista dellascoltatore. Il significato della narrazione non dipende dunque
solo dai segni e dalla loro organizzazione ma anche dagli
interpretanti.

34

Appartenenza a un genere: Sebbene particolare e concreta, la narrazione pu essere inserita in un genere o tipo
sia per quanto riguarda la fabula sia il suzhjet cio il modo
di raccontare.

Intenzionalit: I soggetti compiono delle azioni, sono


mossi da scopi e ideali, posseggono delle opinioni, provano degli stati d'animo... insomma nella narrazione sono
presi in esame nella loro caratteristica di possedere stati
mentali.

Incertezza: La narrazione si svolge secondo un livello


di realt incerto. Il linguaggio metaforico, e congiuntivo come dice Ricoeur (1983), la narrazione una sorta di
metafora della realt necessaria per renderne possibile
una nuova lettura.

Il doppio paesaggio
Queste ultime due caratteristiche ci rimandano a un aspetto
della narrazione. La composizione pentadica infatti rende
conto della trama del racconto. Ma un buon racconto prevede sia la trama, sia lintenzionalit, vale a dire laspetto
affettivo, la donazione di significato che i personaggi mettono in atto. Bruner (1986) (1990b) al riguardo parla di doppio
scenario, o paesaggio duplice.
Secondo Bruner nel racconto si delineano due tipi di scenari; lo scenario dellazione composto dagli elementi che costituiscono l'azione stessa (ad esempio lagente, lo scopo etc) e
lo scenario della coscienza che prende in considerazione ci
che i personaggi e il narratore pensano, provano, percepiscono (Groppo, 1999).
Fra questi due elementi vi deve essere una discordanza. I racconti infatti non si occupano di come sono andati i fatti (a differenza dei referti, delle cronache, delle ricostruzioni, delle
esposizioni), ma di come i protagonisti interpretano le cose e
di quali significati le cose hanno per loro (Bruner, 1990, p. 61).
35

Bruner (1990, p. 61) sottolinea come levoluzione della letteratura in questo senso coincida nel Novecento con la detronizzazione del narratore onnisciente, a conoscenza sia del
mondo cos come era, sia delle modalit attraverso le quali i
personaggi lo stavano trasformando.
Nel racconto il paesaggio interiore reso nella narrazione in
molti modi, per esempio con quelle che Bruner (1986) definisce trasformazioni congiuntivizzanti'. Si tratta di usi lessicali
e grammaticali che mettono in evidenza gli stati soggettivi, le
circostanze attenuanti, le possibilit alternative. I fatti non
sono separati dalle opinioni, ma immersi in esse.

36

Letture consigliate
Jerome Bruner
La ricerca del significato.
Per una psicologia culturale.
Bollati Boringhieri 1992
Della sterminata bibliografia di Jerome Bruner
stata tradotta soprattutto la parte strettamente pedagogica. Questo saggio (o il pi
recente ma meno incisivo La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura e vita (Laterza 2002)
rende conto non solo delle teorie della psicologia culturale ma del
loro radicamento nelle filosofie pi avanzate dellultima parte del 900.
Con maestria e abilit (c chi lo paragona in questo a Freud) Bruner
si sposta dalla filosofia allantropologia, alla letteratura.

W.J.T. Mitchell (a cura di)


On Narrative. The Univ. of Chicago Press
Il fantasma di Roland Barthes aleggia su questo
libro che raccoglie i testi di un seminario,
Narrative: the illusion of sequence, tenuto nellottobre 1979 allUniversit di Chicago, poi editi
dalla rivista Critical Inquiry (1080 vol. 7 n 1 e
1981 vol. 7 n 4). Interroga figure di primo piano
della filosofia (i francesi Derrida e Ricoeur, lamericano Goodman) delletnografia, della psicologia, della critica letteraria e perfino la scrittrice Ursula K. Le Guin.

Massimo Ammaniti, Daniel Stern (a cura di)


Rappresentazioni e narrazioni.
Laterza 1991
Una collezione di saggi ben scelti, anche se pensati soprattutto per un pubblico di psicologi, fra i
quali spicca il chiarissimo La costruzione narrativa
della realt di Bruner.

37

Approfondimenti
ARISTOTELE
Poetica. Rizzoli, Milano.
BAMBERG, M.G.W. (1997)
Narrative development: six approaches.
Mahwan, N.J., Erlbaum.
CIPRIANI, R. (a cura di) (1987)
La metodologia delle storie di vita.
Dallautobiografia alla life history. Euroma, Roma.
ECO, U. (1994)
Sei passeggiate nei boschi narrativi.
Bompiani, Milano.
JAEGER W. (1986)
Paideia: La formazione delluomo greco.
La Nuova Italia, Firenze
LEVI STRAUSS, C. (1963)
Structural anthropology.
Basic Books, New York.
PROPP, V. (1988)
Morfologia della fiaba. Einaudi, Torino.
RODARI, G.(1997)
Grammatica della fantasia.
Introduzione all'arte di inventare storie. Einaudi, Torino.
SHANK, R.C., ABELSON, R.P. (1977)
Scripts, plans, goals and understanding.
An inquiry into human knowledge structures.
Erlbaum, Hillsdale.
VERNANT J.P. (1971)
Mito e pensiero presso i greci. Einaudi, Torino
38

LA NARRAZIONE AUTOBIOGRAFICA

Tutte le narrazioni sono in qualche modo autobiografiche.


Fra queste spiccano per la loro significativit le mitologie e le
autobiografie. Il racconto autobiografico non solo pieno di
senso, ma nasce proprio per dare senso. Una profonda
ragione per la quale noi raccontiamo storie a noi stessi (o a un
confessore, a un analista o a un confidente) precisamente
per dare senso a quanto abbiamo incontrato nella nostra
vita (Bruner, Lucariello, 1989). Letteralmente la narrazione
autobiografica ci costituisce.
Ciascuno di noi cerca di dare alle nostre frammentarie e spesso confuse esperienze un senso di coerenza riarrangiando gli
episodi della nostra vita in storie (McAdams, 1993, p.11).
In questo senso possibile definire l'atto autobiografico
come inevitabilmente formativo. Chi ha terminato una narrazione su se stesso non pi letteralmente quello di prima.
Non lo perch nellatto stesso di raccontarsi ha ridefinito i
rapporti con il S intrapsichico da una parte e con quello
interpersonale, culturale dallaltra. Come ben scrive Demetrio Ogni autobiografia stata scritta perch lautore
aveva bisogno di attribuirsi un significato, anzi ben pi di uno
e presentarsi al mondo (Demetrio, 1996, p. 60).

Autobiografia e cultura
Guardiamo un attimo a questo secondo aspetto. Scrive
Veronica Ornaghi (Groppo, Ornaghi et al., 1999, p. 77) che la
funzione finale dellautobiografia lauto-collocazione: attra39

verso lautobiografia collochiamo noi stessi in un mondo culturale simbolico; ci identifichiamo con una comunit e indirettamente in una cultura pi ampia.
Questo aspetto non immediatamente intuitivo. Lauto-biografia potrebbe apparire un atto solipsistico. Un S che si
interroga e si narra a se stesso (fra le tante definizioni di S ne
proponiamo una derivata da Bruner: il S ci che ci permette di definire una continuit fra la persona che si addormentata ieri sera e quella che si svegliata stamattina).
In realt la nostra visione di noi stessi profondamente
mediata da elementi interpersonali. La conversazione nella
quale narriamo di noi stessi un momento di questa mediazione: il modo con cui parliamo agli altri del nostro passato
viene interiorizzato, diventando cos il modo con cui ne parliamo a noi stessi (Haden, Fivush et al., 1997).
Bruner parla al riguardo di S distribuito, riferendosi proprio al fatto che il S non solo dentro la persona, ma anche
al di fuori di essa, e cio in quei 'blocchi' contestuali, in quei
pezzi di mondo che la narrazione si incarica di portare 'dentro' il soggetto (Smorti, 1997, p. 31).
Una seconda modalit di influenza culturale data dai generi letterari stessi. Noi non possiamo che leggere la nostra vita
sulla base di uno dei modelli letterari che troviamo a disposizione nella cultura: il Bildungsroman, lepopea personale, il
racconto intimista, la tragedia e cos via.
Trzebinski (1997) ha approfondito la retroazione della cultura
nella autorappresentazione, parlando di Sistemi narrativi sul
S che definisce come le trasformazioni creative dei modelli narrativi prodotti da una cultura i quali forniscono le particolari condizioni entro le quali gli eventi possono essere interpretati.
Per fare un esempio, nel Novecento una cultura satura di
valorizzazioni in merito allimportanza della competizione
edipica ha fatto rientrare nellautobiografia episodi che nel
secolo precedente non sarebbero stati letteralmente nemmeno percepiti.
Ancora un secolo prima la nascita di un figlio o aspetti relati40

vi alla vita familiare non sarebbero entrati nella narrazione di


un maschio adulto. E questo non perch sarebbe stato difficile parlarne, ma perch letteralmente questi aspetti non
sarebbero stati colti.

La vita come testo


Sul fronte intrapsichico la posizione della psicologia culturale
particolarmente radicale. Secondo Bruner lautobiografia
non il resoconto pi o meno tendenzioso di una vita oggetto della narrazione ma la vita stessa.
Attraverso latto autobiografico noi ci rappresentiamo a noi
stessi, e i cambiamenti della vita non sono riflessi, quanto
provocati da mutamenti di accento e di significato allinterno
delle nostre narrazioni.
In questo senso la psicologia culturale molto vicina alla psicoanalisi: un freudiano come Francesco Corrao pienamente in sintonia con lapproccio culturale quando afferma che
Ogni volta che si stabiliscono nuovi obiettivi esplicativi e che
si sollevano nuove questioni si svilupperanno nuove versioni
del passato. Ogni costruzione costituisce allora un testo narrativo che si sostituisce al precedente, trasformandolo attraverso variazioni interpretative che operano recisioni o riduzioni tematiche, ricontestualizzazioni, risignificazioni, rivalutazioni (Corrao, 1990).
Naturalmente questo ruolo forte non attribuibile a tutti gli
atti narrativi che hanno per argomento noi stessi. Per meglio
definire la natura delle autobiografie rispetto ad altri testi,
Bruner richiama la distinzione operata da White (1981) fra
annali, cronache e storie. Gli annali constano di eventi
selezionati, fissati approssimativamente con date; le cronache hanno la funzione di creare grumi di significato per
sequenze di eventi [...] ma a loro volta esse seguono il loro
pieno significato quando vengono incorporate in una storia
che nella sua completezza include un resoconto sistematico
della natura dellordine morale delle cose in cui si vanno svol41

gendo le cronache (Groppo, Ornaghi et al., 1999, p. 77). Per


fare un esempio, il racconto dell'insegnante severo in terza
media un annale, che si inserisce nella cronaca la mia lotta
contro il potere scolastico, che assume significato in un contesto storico come la mia continua ricerca di autonomia in
una cultura conformista.
Una distinzione simile quella di Martin (Martin, 1986, p. 75).
[Nellautobiografia] qualcuno descrive il significato personale delle esperienze passate dalla prospettiva del presente.
Questa definizione del genere lo distingue dalla memoria
(di solito una registrazione degli eventi di pubblico interesse
come la carriera di uno statista), dalla reminiscenza (registrazione di una relazione o di ricordi personali senza enfasi sul
s) e dal diario (nel quale la registrazione immediata dell'esperienza non alterata da una pi tarda riflessione).

Il patto autobiografico
In un certo senso quindi la narrazione autobiografica pura
fiction. Linsegnante in terza media potrebbe non essere
stato affatto severo. Questo non toglie assolutamente valenza al racconto autobiografico. Raccontarsi di se stessi
come inventare una storia su chi e cosa siamo, su cosa accaduto e perch facciamo quello che facciamo, scrive nel suo
pi recente libro Bruner (Bruner, 2002, p. 64).
Eppure lautobiografia si presenta come il racconto vero.
Chi propone una riflessione autobiografica non negozia assolutamente le asserzioni di fatto che devono solamente essere
verosimili (requisito richiesto a ogni produzione narrativa).
Philippe Lejeune (1986) analizza con attenzione lautobiografia data alle stampe e il complesso contratto che lautore e
il lettore sottoscrivono. In questo patto autobiografico lautore si impegna a svolgere su di s un discorso veridico. Che
questo sia poi tale questione che interessa allo storico non
al lettore: Scrittore autobiografico non chi dice la verit su
se stesso, ma chi dice di dirla (Lejeune, 1986, p. 33).
42

Qualcosa di simile avviene anche quando lautobiografia


prodotta per se stessi o allinterno di una conversazione. Chi
racconta di se stesso impegnato soprattutto nella rilettura
dei significati da attribuire agli eventi. In questo processo
alcuni eventi possono perdere di importanza, altri essere
riscoperti.
Corrao (1991) cita uno psicoanalista assai vicino alla psicologia culturale: Roy Schfer, ogni risconto del passato una
ricostruzione guidata da una strategia narrativa che detta
come selezionare da una moltitudine di particolari possibili,
quelli che possono essere riorganizzati, trasformati in un altro
racconto che abbia un filo e che esprima il punto di vista del
desiderio sul passato .
Questo aspetto importante in quanto nellautobiografia
lautore finge spesso di citare dei fatti che hanno bisogno
di una elaborazione o che ne ebbero diverse in momenti differenti. In realt, la strategia narrativa che ha permesso di
ricordare quel fatto (e non altri) e di ricordarne certi aspetti (e
non altri) gi leffetto di una valutazione (di un punto di
vista del desiderio come scrive Schfer). Ed questo aspetto, non la presunta onniscienza dellautore nei confronti della
sua vita, a conferire apoditticit al narrare autobiografico.

Il tempo dellautobiografia
Con amabile paradosso Kierkegaard (citato in Alheit, Bergamini, 1996 p. 21) scriveva nei Frammenti filosofici che La vita
pu essere capita solo allindietro. Nel frattempo deve essere vissuta in avanti. In realt le cose sono pi semplici: lautobiografia un racconto sempre fatto al presente. Questo
vero sia in senso letterale (Bruner scrive di non aver mai trovato un resoconto autobiografico nel quale almeno un terzo
dei verbi non fossero al presente) sia in senso traslato.
L'autobiografia ha una curiosa caratteristica, scrive Bruner
(Bruner, 1990, p. 117). un resoconto fatto da un narratore
nel qui ed ora e riguarda un protagonista che porta il suo
43

stesso nome e che esistito nel l e allora e la storia finisce nel presente quando il protagonista si fonde con il narratore.
Questo spiega la contemporaneit del racconto autobiografico. Luso del passato non deve trarre in inganno. Scrive
Schfer (Schfer, 1980, p. 31): Spesso le storie che noi raccontiamo su noi stessi sono storie di vita o autobiografiche;
noi le collochiamo nel passato. Per esempio possiamo dire:
Fino a quindici anni ero fiero di mio padre o ho avuto una
infanzia assolutamente infelice. Queste storie sono racconti
di ora. Noi cambiamo molti aspetti di queste storie su noi
stessi o sugli altri man mano che cambiamo, in peggio o in
meglio, le domande implicite o effettuate delle quali queste
storie rappresentano le risposte.
Lautobiografia quindi la risposta ambientata nel passato
di una domanda e di una necessit di significazione presente, anzi in qualche modo futura.
Il ruolo del futuro centrale nellautobiografia (specialmente
del giovane). Nellautobiografia, scrive una studiosa relativamente autonoma della scuola Bruneriana come la Calamari
(Calamari, 1995, p. 109): Il passato viene ricostruito in funzione del presente, delle esigenze e delle capacit cognitive
attuali (...) Non solo il presente dipende dal passato ma il passato dipende dal futuro.
Precisamente la Calamari definisce il passato, o meglio lultima versione del passato, come lo sfondo su cui possono
stagliarsi limmagine di s attuale e la prospettiva temporale
sul futuro (Calamari, 1995, p. 11). La prospettiva sociologica
su questo punto del tutto convergente. Alheit e Bergamini
(Alheit, Bergamini, 1996, p. 29) citano Osterman quando afferma che la memoria del passato diventa una illusione retrospettiva determinata egualmente dal passato, dal presente e
dal futuro. A parlare non solo la persona che diventata al
momento in cui la storia di vita comincia a essere narrata, ma
anche la persona che vorrebbe essere (nel futuro).
Lautobiografia quindi un racconto impregnato di futuro. Sia
nel senso di ritrovare nel passato precisamente gli aspetti che
44

ci si prepara a cogliere, sia nel ricercare allinterno di se stessi un' intelaiatura mentale ottimale per costruire sia dei 'possibili scenari' in cui inserire gli eventi futuri, desiderati o indesiderati, sia anche immagini, ruoli, attivit future del S
(Trzebinski, 1997). Ed questo aspetto sia detto per inciso
che rende cos interessante sollecitare narrazioni autobiografiche in contesti formativi, per esempio con adolescenti o
con giovani adulti.

Il S individuale e il S collettivo
Lautobiografia mette in scena il S. A differenza della poesia,
del gesto artistico o della meditazione per, questo S
posto in relazione con quanto lo circonda. Lo storico legge
volentieri le autobiografie anche se lo fa con uno sguardo
opposto rispetto a quello del terapeuta. Si interessa poco
allindividuo e molto alla maniera con la quale lindividuo
condivideva valori e significati comuni.
Alheit e Bergamini, (Alheit, Bergamini, 1996, p. 33) citano al
riguardo Habermas (1981). Le persone [...] possono formare
una identit personale soltanto se riconoscono che la
sequenza delle proprie azioni costituisce una biografia descrivibile in modo narrativo e possono formare una identit
sociale soltanto se riconoscono di mantenere, attraverso la
partecipazione alle interazioni, la propria appartenenza a
gruppi sociali.
Ma che rapporto c fra il soggetto autobiografico in quanto
gettato in un mondo e il suo essere in s, per usare un linguaggio heideggeriano.
Il filosofo francese Paul Ricoeur (1990) propone una interessante distinzione al riguardo fra lIdem, cio ci che il soggetto
ha in comune con gli altri, e lIpse: ci che il soggetto riconosce come individuale. Ricoeur sottolinea come lIpse invece di
essere immerso in un Idem (cio in una cultura, una nazione,
una ideologia) ne sia in qualche modo definito. In altre parole
lIdem propone delle costanti (dei copioni, delle grandi narra45

zioni) che sono condivise e fatte proprie dai soggetti. A ben


vedere, per, ogni autobiografia si caratterizza attraverso
eventi critici, svolte, eccezioni che permettono di trasgredire una norma, rischi che la persona ha corso come unemigrazione, la malattia, la disoccupazione; un'avventura volontariamente cercata, casi fortunati, successi sul lavoro.
Sottolineando questo aspetto, Smorti (Smorti, 1997, p. 33)
nota la somiglianza fra questo tipo di narrazioni e quelle che
Bruner definisce trasgressioni alla canonicit e commenta:
Sono queste svolte che conferiscono al soggetto la sensazione che quella vita che ha vissuto sua e di nessun altro,
consentendogli di costruire quel versante intenzionale della
sua identit che Ricoeur chiama Ipse.

Levoluzione del S
Analizzando un ricordo dinfanzia di Leonardo da Vinci (Freud,
Opere, vol. 6, pp. 229-230) Sigmund Freud fu il primo a slegare il ricordo autobiografico da ogni legame fattuale. Al pari
del sogno o dellatto mancato, i ricordi autobiografici dinfanzia non vengono fissati e ripetuti a partire dallepisodio
vissuto, come avviene per i ricordi coscienti della maturit,
ma ripresi in un periodo successivo quando linfanzia gi
trascorsa e quindi modificati, falsati, posti al servizio di tendenze posteriori, cos che in linea del tutto generale non possono essere rigorosamente distinti dalle fantasie.
Nel testo ricordato Freud propone un paragone con la storiografia: finch un popolo piccolo e debole non pensa
certo a scrivere la sua storia; la memoria cosciente che un
uomo ha dei fatti della sua maturit assolutamente paragonabile a quella storiografia e i ricordi d'infanzia corrispondono realmente, quanto a origine e attendibilit, alla storia
tardivamente e tendenziosamente rielaborata dellepoca primitiva di un popolo.

46

Lesperienza autobiografica
Chi si d il compito di redigere una autobiografia si colloca in
un contesto particolare che potremmo definire esperienza
autobiografica. Lesperienza autobiografica vicina in parte
alla meditazione, in parte alla produzione di una opera artistica e comporta un certo distanziarsi dal flusso abituale delle
cose, un immergersi in qualcosa daltro che paradossalmente
il proprio essere. Demetrio fra gli autori che in questi anni
sottolineano il valore formativo e in un certo qual modo terapeutico dellesperienza autobiografica. Si tratta prima di tutto
di una sorta di ginnastica mentale: Lautobiografia obbliga il
nostro cervello ad analizzare, smontare e rimontare, classificare e ordinare, a collegare, a connettere, a mettere in sequenza cronologica o financo a inventare (Demetrio, 1996, p. 192).
In un certo senso, lesperienza autobiografica somiglia a un
esercizio spirituale: Leducazione allautobiografia contribuisce quindi alla creazione sia di una mentalit filosofica e scientifica, sia di una sensibilit maggiore alla solidariet per gli
altri, sia infine di un habitus intellettuale i cui effetti si riverberano in campi diversi (Demetrio, 1996, p. 194). Sotto il profilo
formativo lautobiografia pu contribuire grazie alla sua
facolt relazionale [...] ad alleviare solitudini, prevenire disagi, prevedere esiti, restituire agli altri il legittimo bisogno di
sapere come li stiamo curando, li stiamo educando, li stiamo
amando. Lautobiografia ci migliora e quindi, un poco, ci
cambia. (Demetrio, 1996, p. 193). In un contesto differente,
simile a quello del counseling (Trzebinski, 1997) sottolinea
come la possibilit di immaginare in maniera narrativa il proprio ruolo e le proprie decisioni riguardo ad avvenimenti presenti o futuri, rafforza l'impegno della persona nello svolgimento dei propri compiti, riduce quello stato di paralizzante
conflittualit che precede le decisioni, mobilita e dirige lattenzione e pertanto potenzia e stabilizza le attivit.
Una buona capacit di simulare mentalmente eventi possibili,
rende pi efficaci le attivit di programmazione ed esecuzione dei piani.
47

Letture consigliate
Philippe Lejeune,
Il patto autobiografico.
Bologna, Il Mulino, 1986
Questo testo ripercorre levoluzione storica e teorica dellautobiografia affrontandola dal punto di vista storico, psicologico
(poich lautobiografia coinvolge la memoria dellindividuo, la costruzione della
personalit e lautoanalisi) e soprattutto
formale: La particolarit dellautobiografia risiede nel fatto che pi di altri generi
essa esibisce il suo contratto di lettura
nota Lejeune che analizza i possibili e impliciti patti autobiografici
che lautore stringe con il lettore.

48

Approfondimenti
CASTIGLIONI, M. (2002)
La ricerca in educazione degli adulti.
L'approccio autobiografico. Unicopli, Milano.
DEMETRIO D., ALBERICI A. (2002)
Istituzioni di educazione degli adulti.
Vol. I: Il metodo autobiografico. Guerini Scientifica.
GEERTZ, C. (1973)
Interpretazione di culture. Il Mulino, Bologna 1987.
GERGEN, K,J. (1991)
The saturated self. Basic Books, New York.
GERGEN, K.J. (1979)
Il s fluido e il s rigido. In: GIOVANNINI, D. (a cura di)
Identit personale teoria e ricerca. Zanichelli, Bologna,
pp. 12-26.
JACOBSON, E. (1954)
Il s e il mondo oggettuale. Martinelli, Firenze 1974.
LEVI, P. (1963)
La tregua. In: Se questo un uomo. La tregua.
Einaudi, Torino 1989.
PIAGET, J. (1950)
Autobiography. In: BORING, E.G. et al. (a cura di)
A history of psychology in autobiography.
Clark University Press, Worcester, MA, vol. IV.
SCARATTI, G., CONFALONIERI, E. (2000)
Storie di crescita. Approccio narrativo e
costruzione del s in adolescenza. Unicopli, Milano.
SPENCE, D.P. (1984)
Verit narrative e verit storica.
Martinelli, Firenze 1987.
SPENGEMANN, W. (1980)
The form of autobiography.
Yale University Press, New Haven.
49

METODOLOGIE

La conversazione autobiografica
Redigere una autobiografia
Narrative Therapy
La conversazione terapeutica

51

LA CONVERSAZIONE AUTOBIOGRAFICA

La riflessione autobiografica pu essere sollecitata sostanzialmente in due modi:


proponendo allinterlocutore di redigere una autobiografia
scritta
proponendo il racconto autobiografico strutturato nel corso
di un incontro.
Questa seconda modalit definita fra gli studiosi di psicologia e scienze sociali conversazione autobiografica. La conversazione autobiografica si distingue dalla sporadica citazione di
aneddoti in quanto si pone ex ante lobiettivo di ripercorrere,
con un certo approfondimento e soprattutto in maniera globale, tutta la vita del paziente. Potremmo paragonarla a una
anamnesi qualitativa. La conversazione autobiografica avr
quindi un setting, una metodologia e degli obiettivi.
A differenza dellanamnesi, la conversazione autobiografica
poco interessata ai fatti e molto allinterpretazione che di
questi fatti il paziente ha dato. Duccio Demetrio parla di una
biografia insieme cognitiva e degli affetti: A noi interessa svelare con il nostro intervistato il mondo dei significati da lui o da
lei attribuiti alle sue scelte (Demetrio, 1996).
Nonostante la sua apparente semplicit, la conversazione
autobiografica ha delle dinamiche complesse. Secondo la psicologia culturale, il racconto di se stessi e, pi in generale, la
donazione di significati, viene rielaborata e ripensata nel corso
di ogni conversazione. Raccontare agli altri di se stessi, scrive nel suo ultimo libro Jerome Bruner, non quindi una cosa
semplice. Dipende da cosa noi pensiamo che loro pensano
noi dovremmo essere (Bruner, 2002, p. 66).
53

Il setting della conversazione autobiografica


Le riflessioni metodologiche concordano sulla necessit di
dedicare uno o pi incontri specificatamente alla conversazione autobiografica.
Il luogo
Alheit e gli studiosi di scienze sociali consigliano labitazione
stessa del paziente o un luogo neutro e piacevole (bar, giardini). Ma nellambito sanitario, sar ben difficile seguire questa indicazione. Si tratter quindi probabilmente di un
ambiente ospedaliero o universitario, probabilmente lo studio di un componente del Team o una saletta multifunzionale. Non detto che questo sia negativo. Silvia Kanizsa
(Kanizsa, 1988, p. 122) cita al riguardo una ricerca condotta da
Widery e Stackpole secondo la quale i soggetti con un basso
livello di predisposizione allansia, al contrario di quelli con un
alto livello di predisposizione all'ansia, consideravano pi
credibile una situazione di colloquio tra loperatore alla sua
scrivania e l'utente seduto di fronte. Secondo la Kanizsa
importante che l'ambiente sia connotato in modo professionale, anche perch altrimenti lutente ne avrebbe una pessima impressione (Kanizsa, 1988, p.122).
Aspetti prossemici
La psicologia che si riferisce in generale a conversazioni in
ambiente Medico sottolinea come sia importante piuttosto
luso che loperatore fa dellambiente [...] cio se egli se ne
serve per tenere a distanza lutente o per lavorare (Kanizsa,
1988, p. 122).
La situazione classica in ambito ospedaliero-assistenziale
vede lintervistatore e il paziente seduti ai lati opposti di una
scrivania. Questo potrebbe essere scorretto non solo e non
tanto perch la scrivania pone una distanza fra i due interlocutori, ma perch costringe ambedue a guardarsi in viso.
Se ci si siede a fianco del soggetto, consiglia (Alheit,
Bergamini, 1996, p. 57), non si obbligati a guardarlo in
viso, se non girando volutamente la testa. Questa posizione
54

ci rende liberi di scegliere, a seconda del caso, se sostenere lo


sguardo dellintervistato per lungo tempo o se lasciarlo libero
di guardare altrove, a volte fissando il vuoto, per raggiungere
un ricordo lontano; sempre pronti, per, a intervenire con lo
sguardo per comunicargli il nostro costante interesse.

Registratore e taccuini
La conversazione autobiografica prelude in genere a una attivit di analisi di quanto detto. Va quindi registrata. Il registratore pu essere posto in un luogo visibile ma non troppo vicino ai due interlocutori e non deve attirare lattenzione n del
paziente n dellintervistatore. Al contrario delle videoregistrazioni, che possono falsare landamento dellincontro, la
presenza di un audio registratore pesa sulla spontaneit
della conversazione solamente allinizio. Conviene quindi non
far coincidere linizio della registrazione con quello della narrazione, meglio accendere lapparecchio prima ancora che il
paziente entri nello studio o comunque nella fase preliminare alla narrazione vera e propria. Il registratore pu condizionare alcuni soggetti. [...] Limportanza del registratore va
sminuita, dicendo, per esempio, che la registrazione servir
per essere pi precisi nelle fasi successive della ricerca
(Alheit, Bergamini, 1996, p. 56).
Limpiego del registratore permette di concentrarsi sullintervista, ma non esime lintervistatore dal prendere alcune note
sullandamento del colloquio. In questo modo possibile:
segnare informazioni che possono non risultare dalla registrazione;
annotare alcune affermazioni (o vuoti nella narrazione) che
potrebbero essere oggetto di un approfondimento.
interessante notare come prendendo appunti lintervistatore partecipi alla narrazione. Spesso scrivere serve per riempire le pause di silenzio della conversazione, per non far
pesare lattesa, sottolinea (Alheit, Bergamini, 1996, p. 57)
mentre il ricercatore scrive brevi note, lintervistato si sente
55

libero di formulare con calma il pensiero che intende comunicare.


Inoltre, prendendo appunti lintervistatore gestisce il colloquio sottolineando il suo interesse per quanto si sta dicendo
e viceversa, non prendendoli, pu disincentivare il paziente
dallapprofondire un aspetto poco importante.

Il ruolo dellintervistatore
Quale ruolo deve svolgere colui che sollecita e/o ascolta una
narrazione autobiografica?
Disponibilit allascolto
La conditio sine qua non da parte di chi si impegna in una
conversazione autobiografica ovviamente un atteggiamento di disponibilit e di interesse. Demetrio, ma con molta pi
energia Silvia Kanizsa, sottolineano la necessit di una pratica dell'ascolto che significativamente Silvia Kanizsa propone
nell'insieme delle relazioni fra curante e paziente: La lunga
pratica di comunicazione che ciascuno di noi fa continuamente fa s che spesso non ascoltiamo ci che ci viene detto
presumendo gi di saperlo. In sostanza noi udiamo solo ci
che vogliamo udire e ascoltiamo solo ci che coincide con i
nostri obiettivi mentre cessiamo di ascoltare non appena
abbiamo incasellato le persone. [...] Questo atteggiamento di
non ascolto proprio non solo delloperatore sanitario ma
anche del malato. Quest'ultimo, avendo altrettanto sommariamente valutato chi gli sta innanzi, potrebbe non osare dire
ci che prova o pensa o alterarlo per paura di far brutta figura o tentare di dire o fare le cose che pensa ci si aspetti da lui
nell'ambiente ospedaliero.
Loperatore deve essere conscio di questa possibilit di distorsione nella comunicazione derivante dai tentativi del malato
di difendersi e di apparire nella miglior luce possibile scegliendo, fra le cose da comunicare, quelle che gli sembrano
migliori per loccasione (Kanizsa, 1988, pp. 71-72).
56

Partecipazione non asettica


Gli autori che si sono occupati del tema sono singolarmente
concordi nel ritenere non adeguato l'atteggiamento 'freddo'
tipico ad esempio dell'analista freudiano o dello sperimentatore che somministra test proiettivi. Demetrio (Demetrio,
1996, p. 182) propone il modello del moderato ascoltatore
che non imperturbabile o asettico ma comunica incoraggiamento.
La conversazione pu essere favorita se, prima dellintervista,
il ricercatore racconta qualcosa di s: chi , cosa fa, perch si
interessa cos intensamente alle interviste biografiche ecc.,
abbastanza per superare le resistenze iniziali, presentarsi, rassicurare e conquistare cos la fiducia dellintervistato e facilitare linizio della narrazione (Alheit, Bergamini, 1996, p. 53).
Demetrio, parlando dellutilit di uno scambio di doni, si
scosta dallopinione di altri autori consentendo allintervistatore la possibilit di restituire al narratore immagini altrettanto private. Alheit, Bergamini, (1996, p. 53) ammoniscono
per di Non raccontare troppo, [...], per non influenzare la
storia che seguir. Spesso, soprattutto nella ricerca sociale
lintervistato pone molte domande per aggiustare il tiro del
suo racconto in base allidea che si fatto del ricercatore e
della sua ricerca, l'interpretazione di (Alheit, Bergamini,
1996, p. 53) che consiglia, se le domande dellintervistato sono
troppe, di rimandare le risposte al termine dellintervista.
Atteggiamento non valutatorio
Riassumendo il pensiero di C.R. Rogers, la Kanizsa prosegue
sottolineando l'importanza di un atteggiamento non valutatorio.
Secondo Rogers fondamentale che gli individui non vengano mai valutati dal terapeuta: anche la valutazione positiva
infatti crea disturbo prima di tutto perch implica lesistenza
di quella negativa e in secondo luogo perch nasce comunque dallesterno dellindividuo e quindi sovrappone a lui le
credenze, i modi di pensare e i valori dellaltro (Kanizsa,
1988, p. 102).
57

Una raccomandazione simile a quella di Francesco Dammacco che suggerisce al terapeuta (Dammacco 2000, p. 143) di
non partecipare allincontro con pregiudiziali attitudini, prevenzioni, etichette o informazioni [...] che possano compromettere una sincera, onesta e comprensiva interazione.
Coscienti dell'asimmetria
Posti questi paletti, la natura privata e informale della conversazione autobiografica rende facile cadere nell'errore
opposto: un atteggiamento amichevole. Fra chi sollecita
una narrazione autobiografica e chi la propone vi soprattutto in un contesto terapeutico una asimmetria. Kanizsa
(1988, p.77) cita ancora C.R. Rogers: Nel rapporto fra i due
protagonisti ce n uno, loperatore che deve essere cosciente del processo che intende instaurare per aiutare l'altro, il
cliente, a modificare costruttivamente la propria personalit.

La struttura della conversazione autobiografica


Come iniziare? La prima fase dellincontro dedicata a spiegare le regole del gioco o meglio a ripeterle visto che probabilmente queste erano state delineate in precedenza invitando il paziente allincontro. opportuno iniziare lintervista
in modo informale, parlando un po in generale della ricerca
che si sta conducendo e, soprattutto, accertarsi che gli accordi presi in precedenza con lintervistato siano stati recepiti e
accettati: la struttura narrativa del racconto, cio il fatto che
non si faranno domande, il contenuto biografico, la garanzia
dellanonimato, luso del registratore, ecc., spiega Alheit,
Bergamini (1996, p. 55). Spesso il paziente arriva allincontro
preparato soprattutto per quel che riguarda alcuni aspetti
della narrazione. In genere lintervista presenta un andamento abbastanza regolare. Linizio formale e si avverte che
il soggetto si presenta come vorrebbe essere visto e d limpressione di aver gi preparato in precedenza le cose da dire.
In un secondo tempo il colloquio entra in una fase pi pro58

fonda, spontanea, durante la quale le pause si fanno pi lunghe, ma senza pesare, il tono della voce pi basso. (Alheit,
Bergamini, 1996, p. 55).
Se questo non accade, si pu far tesoro di alcuni consigli dati
da Kanizsa (Kanizsa, 1988, p. 142) parlando dellintervista non
direttiva. L'intervistatore delimita il campo con alcune frasi
che centrano il problema ma permettono allintervistato di
iniziare a parlare scegliendo il punto da cui partire. [...]
importante che le domande stimolo siano sufficientemente
ampie per permettere al malato di orientare la risposta.
La struttura
Generalmente i pazienti organizzano i loro capitoli in maniera quasi cronologica, partendo dallinfanzia. Con altre persone funziona meglio una suddivisione tematica: pu esserci
un capitolo sulle relazioni, uno sulla scuola e il lavoro e cos
via, afferma Crossley (Crossley, 2000). Interessante al riguardo il canovaccio di intervista proposto da (McAdams 1993)
nel decimo capitolo del suo libro.
1)

Pensa alla tua vita come a un libro e associa ogni


parte della vita a un capitolo:
dai un titolo a ogni capitolo e descrivi a grandi
linee quali saranno i contenuti.

2)

Eventi chiave momenti particolari che sono accaduti


in particolari tempi e luoghi:
il momento pi bello della tua vita;
il momento pi brutto della tua vita;
episodi nei quali avvenuto un profondo cambiamento nella tua comprensione di te stesso;
i primi ricordi anche se non particolarmente importanti;
un importante ricordo dellinfanzia;
un importante ricordo delladolescenza;
un importante ricordo dellet adulta;
altri momenti che si impongono positivi o negativi.
59

3)

Descrivi quattro delle persone pi importanti della


tua vita spiegando la relazione che hai avuto con ciascuna di queste e il modo con il quale queste hanno
avuto un impatto sulla tua vita.

4)

Progetti, previsioni o sogni per il futuro.

5)

Ansie e problemi.
Descrivi due aree della tua vita caratterizzate da uno
stress significativo o un conflitto o un problema difficile o una sfida. Per ciascuna area spiega in dettaglio
il problema e fornisci una breve storia di come si sviluppata e il piano per gestirlo in futuro.

6)

Ideologie personali:
convinzioni religiose,
orientamenti politici,
valori pi importanti della vita.

7)

Tema principale.
Guardando alla tua vita come un libro, puoi identificare un tema centrale, un messaggio o una idea che
attraversa il testo?

Le domande dellintervistatore
Mc Adams il pi normativo fra gli autori che si sono occupati di conversazione autobiografica. Egli stesso afferma comunque che il protocollo indicato non deve essere considerato un modulo da riempire, n come una check-list di tematiche che devono risultare tutte affrontate nella conversazione. Si pu considerare come una griglia di domande o temi
che possono essere proposti alla riflessione qualora, pi per
stanchezza che per inibizioni o per la difficolt di mantenere
un andamento cronologico, la conversazione autobiografica
si incagli. Generalmente sconsigliabile interrompere la narrazione con delle domande, a meno che il paziente non abbia
60

costruito la sua narrazione in modo da sollecitarle (in questo


caso astenersi dal porre domande sarebbe indizio di scarsa
attenzione).
Le domande dovrebbero essere messe da parte per la fase
successiva consiglia (Alheit, Bergamini, 1996, p. 54), che
aggiunge Di solito il narratore per prima cosa narra spontaneamente tutto larco della sua vita. Va ascoltato con interesse, anche se lascia dei vuoti in relazione a certe fasi della sua
vita, sia che lo faccia consciamente sia inconsciamente.
Ricordarsi per di questi vuoti per quando ha finito di raccontare tutta la storia. [] Quando lintervistato ha sicuramente finito di narrare e di frequente lo dichiara: non c
altro , allora lintervistatore pu cominciare a chiedere.
Con le sue domande lintervistatore potrebbe inconsciamente dirigere il racconto. Kanizsa (Kanizsa 1988 p. 125), citando
M. Pages parla di non direttivit. Il terapeuta deve evitare di
imprimere al cliente qualsiasi direzione. Questo non facile
in quanto la narrazione insieme trama di eventi ed esplicitazione di significati. Al terapeuta interessano soprattutto i
significati, ma comprensibile che parte della sua attenzione
sia attirata dagli eventi, dal plot. Pi in generale, come sottolinea Alheit (Alheit, Bergamini, 1996, p. 54), bisogna Evitare
le domande dirette tipo perch? e a che scopo?, soprattutto nelle prime fasi dellintervista.
In genere la narrazione della storia, una volta avviata, non ha
bisogno di domande dirette, al massimo solo di qualche battuta di rinforzo. Ma se proprio si ritiene di doverne fare,
meglio formulare domande del tipo: Cosa successo dopo?
oppure Descriva un episodio. Se invece si chiede Perch
si mette il narratore della situazione di dover dare delle spiegazioni, di doversi in qualche modo giustificare. Allora si
passa dallo schema narrativo a quello argomentativo/giustificativo e va persa la voglia di narrare. Talvolta pu essere interessante provocare il narratore a produrre argomentazioni,
spiegazioni e teorie interpretative. Ma ci dovrebbe aver
luogo, in modo esplicito, solo alla fine del racconto, quando
il narratore non ha pi niente da narrare.
61

Metodologie di trascrizione
In alcuni contesti la narrazione registrata il punto di partenza di una analisi attenta. In questo caso importante definire
e adottare degli standard di trascrizione dellintervista stessa.
Alheit (Alheit, Bergamini, 1996, p. 60) consiglia di iniziare con
una trascrizione grezza del testo, individuando pause,
sospiri, risate ecc. Cambi di tono, conclusione di periodi e
incisi vanno riportati nel testo con limpiego della relativa
punteggiatura interpretativa e altri segni grafici definiti.
La metodologia richiede che si vada a capo non solo a ogni
atto vocale (utterance) ma anche a ogni unit di significato, variazione di tempo, di luoghi e di persone. Trattandosi
di trascrizione di un testo parlato, difficile lindividuazione di
unit di significato ben definite, secondo le regole grammaticali. I criteri da seguire per andare a capo possono essere: mantenere il ritmo del parlato, isolare gli incisi, individuare frasi contrastanti, cambiamenti nelle unit di tempo e
nei soggetti/protagonisti della storia ecc. nota Alheit (Alheit,
Bergamini, 1996, p. 61).
Le righe del testo vengono poi numerate per poterle individuare con facilit durante le successive fasi dellanalisi del
testo. Una volta giunti a una trascrizione fedele del testo si
pu iniziare lanalisi del contenuto, andando alla ricerca di
parole chiave, temi e passi significativi. In una seconda fase si
assoceranno a questi punti dei commenti. Solo in una terza
fase si andr a costruire una categorizzazione con la scelta di
un numero limitato di macro-concetti o categorie ciascuno
dei quali sussume pi concetti.

Codifica della trascrizione


La scheda che segue (Alheit, Bergamini, 1996, p. 61) propone
alcuni segni grafici per la trascrizione di un testo registrato.
Gli autori si ispirano alla Semi-interpretative Working
Transcription, metodo (HIAT) Ehlich & Rehbein, 1976;
62

Quasthoff, 1980 (in Alheit, 1994b), con alcuni adattamenti e


laggiunta della punteggiatura interpretativa. Tali segni,
bench ampiamente usati, non sono riconosciuti universalmente. In ogni caso, quale che sia il sistema scelto, limportante che venga dichiarato. bene ricordare che i simboli
servono per mantenere il pi possibile le caratteristiche del
parlato e che il loro impiego non deve appesantire troppo il
testo scritto, rendendo difficoltose la lettura e lanalisi.
pausa ritmica
-pausa breve
--pausa lunga
(pausa in [s])
pausa lunga o interruzione della
narrazione (causa dellinterruzione e sua
durata in secondi)
=
simbolo di legame
sottolineato
accento enfatizzante o articolazione
particolarmente chiara di una parola e
di un sintagma
[]
testo indecifrabile (durata in secondi nel
caso di passaggi lunghi e incomprensibili)
[A: adesso voglio parole che si sovrappongono
[B: ma tu
parola taglia_
segno di interruzione di parola
=e
estensione non fonetica alla fine di una
parola, specialmente con e
/parola (ridendo)/
annotazione di un passo commentato
I:
intervistatore
,
cambio di intonazione (per inciso, paparola o frase usata come intercalare,
domanda retorica)
?
tono interrogativo
!
tono esclamativo

puntini di sospensione

discorso diretto riportato dallintervistato.

63

Conclusione
Vale la pena di citare un passo dal libro di Duccio Demetrio
(1996) Raccontarsi: lautobiografia come cura di s: Nella conversazione biografica chi ha parlato di pi ha fatto molte cose
ha rievocato episodi che sembravano dimenticati;
ha sperimentato una libera associazione di idee e ci che significa saltare da un ramo allaltro dellalbero o della giungla
della propria vita;
ha potuto fruire della presenza di uno sconosciuto che, probabilmente non rivedr pi o in ben altre circostanze per
sfogarsi;
ha osservato se stesso agire al passato e ha sentito come se
tutto ci fosse accaduto a un altro;
ha rivisto alla moviola momenti accanto ai quali non si era
soffermato pi di tanto;
ha collegato episodi, scoperto nessi fra una circostanza e laltra;
ha detto di s soltanto una parte di quel che avrebbe potuto dire e ha saggiato la possibilit di proseguire anche da
solo;
ha reagito a stimoli inusuali in rapporto alle poche domande
chiave che gli le sono state rivolte.
E molto altro ancora (Demetrio, 1996, p. 182).

64

Letture consigliate
Silvia Kanizsa
Che ne pensi? Lintervista nella pratica didattica.
Carocci Editore 1988
Allieva di Riccardo Massa, ricercatrice allIstituto di
Pedagogia e docente alla Scuola universitaria di
discipline infermieristiche di Milano, Silvia Kanizsa
si interessa da tempo al rapporto fra operatori sanitari e utenti del servizio sanitario. Il libro sicuramente da consigliare, non ultimo per la sua semplicit e chiarezza, anche se a volte esuli dal tema, risente troppo della
scuola rogersiana alla quale la Kanizsa legata e non entra nello specifico delle patologie croniche.

Peter Alheit, Stefania Bergamini


Storie di vita.
Metodologia di ricerca per le scienze sociali.
Guerini 1966
Teoria e prassi (con minuziose indicazioni
metodologiche e tecniche e casi concreti)
della narrazione biografica. Questo testo, che
riporta lavanzata elaborazione tedesca in materia, si presta a chi intende studiare e mettere
in relazione fra loro una serie di autobiografie
in un approccio non clinico ma di costruzione di teorie.
Michele L. Crossley
Introducing Narrative Psychology.
Open University Press 2000
Un libro chiaro, semplice e recente che riassume le teorie in materia di psicologia narrativa
non senza interessanti riferimenti alla filosofia
esistenzialista. Inutilmente allungato (pur essendo breve) da capitoli ed excursus... autobiografici della giovane e ambiziosa autrice.
65

Approfondimenti
BALINT, M. (1961)
medico, paziente, malattia. Feltrinelli, Milano.
DE LILLO, P. (a cura di) (1971)
Lanalisi del contenuto. Il Mulino, Bologna.
DEMETRIO, D. (1997)
Il gioco della vita. Kit autobiografico.
Trenta proposte per il piacere di raccontarsi.
Guerini e associati, Milano.
FREIDSON, E. (1977)
Il controllo del cliente e la pratica professionale del medico.
In: MACCACARO, G.A., MARTINELLI, A.
Sociologia della medicina. Feltrinelli, Milano.
GALIMBERTI, C. (1992)
La conversazione. Prospettive sullinterazione psicosociale.
Guerini, Bologna.
KAHN, R.L., CANNEL, C.F. (1968)
La dinamica dellintervista. Marsilio, Bologna.
LAI, G. (1980)
Le parole del primo colloquio. Boringhieri, Torino.
LUMBELLI, L. (1972)
Comunicazione non autoritaria. Franco Angeli, Milano.
QUADRIO, A., UGANZIO, V. (a cura di) (1980)
Il colloquio in psicologia clinica e sociale.
Prospettive teoriche e applicative. Franco Angeli, Milano.
SEMI, A.A. (1985)
Tecnica del colloquio. Raffaello Cortina Editore, Milano.

66

REDIGERE UNA AUTOBIOGRAFIA

Lautobiografia il genere letterario pi accessibile, esistono


diari tenuti da persone appena in grado di leggere e scrivere. Tutti abbiamo una storia e anche una matita scrive
Manfred Schneider (1999). La piena coincidenza dellautore
con loggetto della narrazione (e spesso anche con il destinatario) rende lautobiografia la forma narrativa pi libera che
si possa immaginare. Lo scrittore, ha notato Demetrio in una
intervista (Demetrio 2003) sollecita capacit cognitive emotive e creative in misura molto superiore alla dimensione
orale. Nello scrivere di s il soggetto mette in gioco tutto
quanto di meglio ha da dare. Si tratta quindi di una attivit
nobile e culturale al massimo grado
Chi si trova a sollecitare una narrazione autobiografica pu
per trovare utile disporre se non di una metodologia in
senso stretto, di alcune indicazioni o spunti da suggerire al
paziente. Lagile libro di Demetrio Raccontarsi: lautobiografia come cura di s (che potrebbe essere proposto come tale
al paziente) contiene diversi spunti che citiamo in questo
paragrafo con qualche taglio o intervento.

Raccolta dei materiali


La prima fase della stesura di una autobiografia quella che
Demetrio definisce lista autobiografica: una elencazione il pi
esaustiva possibile di materiali che dovrebbero essere posti in
ideali raccoglitori. Demetrio consiglia di creare delle pagine
nelle quali inserire tema per tema tutto ci che viene in mente.
67

Demetrio propone (1996, pp. 149-150)


la pagina dei personaggi-chiave della mia vita;
la pagina degli oggetti;
la pagina degli interni fondamentali (stanze, cortili, vicoli);
la pagina dei paesaggi (campagne, spiagge);
la pagina delle sensazioni pi antiche (odori, suoni, colori);
la pagina delle scene (quadri viventi, gruppi di famiglia);
la pagina dei compagni di gioco o di scuola ;
la pagina degli amori (persone, animali, giochi);
la pagina dei viaggi;
la pagina dei dolori;
la pagina delle conquiste (non solo amorose);
la pagina delle rinunce;
la pagina dei dolori;
la pagina delle prove superate (e fallite);
la pagina delle richieste di aiuto;
la pagina delle cose belle;
la pagina delle fughe;
la pagina delle responsabilit assunte;
la pagina delle trasgressioni;
la pagina dei sogni (raggiunti o eterni);
la pagina delle condivisioni;
la pagina degli ideali ecc.
In questo modo chi si appresta a redigere la propria autobiografia si trova con un gran numero di eventi. Per citare lautore: A queste pagine fatte di cose, vanno aggiunti i nessi per
raccogliere quanto ha animato le cose. Come farli risaltare?
Demetrio propone da una parte una griglia autobiografica,
un grande schema nel quale in ascisse sono indicate le pagine e in ordinata delle fasce corrispondenti alla prima infanzia, alla seconda infanzia, alla quasi adolescenza, alladolescenza, alla prima maturit e cos via. Nei rettangoli che si
formano a ogni incrocio possono essere inseriti gli eventi o gli
elementi raccolti nelle pagine.
Demetrio propone anche schemi pi liberi: linee di lettura
trasversali delle proprie esperienze che definisce ricerche.
68

Gli elementi ritrovati con la lista autobiografica potrebbero


quindi essere riportati in altri tipi di pagine:
la ricerca del piacere;
la ricerca della felicit;
la ricerca della protezione;
la ricerca della bellezza [...];
la ricerca di Dio;
la ricerca degli altri;
la ricerca del denaro;
la ricerca del successo;
la ricerca del mistero;
la ricerca della tranquillit o dellinquietudine;
la ricerca della morte e del rischio;
la ricerca dellavventura o della normalit.
La lista immensa conclude Demetrio (1996, p. 151).

Da dove iniziare?
Come esporre una autobiografia? Uno schema pu essere
utile. Demetrio (1996, p. 159) propone questa strutturazione
Incipit (la mia vita ha inizio, dispongo di...)
ricordi evidenti di cose (oggetti, volti, rumori ecc.)
riflessioni d'apertura
figure che mi hanno aiutato
antefatti, fatti
Ruit (la mia vita ha avuto un corso e corre attraversando...)
educazione ricevuta
la mia famiglia
ambienti di vita e dinfanzia
figure adulte
coetanei
giochi
crisi, rotture, scoperte, attese, abbandoni
bilanci, tappe, desideri, apogei
fughe, incontri, amicizie, passioni
69

Exit (la mia vita si conclude a questo punto, almeno per ora)
risultati raggiunti
risultati non conseguiti
capacit
scopi ulteriori
programmi (con laggiunta degli eventi riconducibili a tutto
quanto contrassegna il nostro ruit dellultimissimo periodo).

Letture consigliate
Duccio Demetrio
Raccontarsi: lautobiografia
come cura di s
Raffaello Cortina 1996
Quello di Demetrio, docente di Educazione
degli adulti presso lIstituto di pedagogia
dellUniversit di Milano sicuramente il
primo nome italiano che viene citato parlando di autobiografia. Il testo di piacevole lettura, colto e leggero nel senso che
Calvino avrebbe dato al termine.
Lautobiografia, anzi fare autobiografia,
proposto (soprattutto agli anziani) come gesto prevalentemente
individuale, come dono da fare a se stessi. uno dei pochi testi in
italiano e in assoluto che tratta dellautobiografia come pratica
formativa per i terapeuti.

70

NARRATIVE THERAPY

La Narrative Therapy una metodologia di psicoterapia adottata a partire dai primi anni 80 in Australia e in Nuova
Zelanda per opera di Michael White e David Epston, che
enfatizza limportanza delle storie e del linguaggio nello sviluppo e nellespressione di problemi intrapersonali ed interpersonali (Shapiro, Ross, 2002).
interessante notare come nella terapia narrativa lintervento consista quasi unicamente in continue ridescrizioni del
problema proposto inizialmente dal paziente o dalla famiglia.

Il ruolo del terapeuta


La metodologia di White ed Epston, come del resto quella
della conversazione terapeutica, prevede una profonda revisione del ruolo del terapeuta. In primo luogo una riduzione
delle distanze tra pazienti (anzi clienti per usare il termine
adottato nella Narrative Therapy) e terapeuta. La riduzione
delle distanze non dovuta tanto agli aspetti prossemici o di
comunicazione verbale e non verbale, quanto alla assoluta
ignoranza che il clinico professa. Il terapeuta non solo non
deve avere idee preconcette sul paziente ma neppure e qui
si nota un aspetto pi radicale rispetto alla Conversazione
terapeutica deve utilizzare le sue conoscenze scientifiche
sulla natura clinica del Problema che il paziente, anzi il 'cliente pone.
In senso stretto il terapeuta un ascoltatore di storie, anzi
uno scambiatore di storie; un abile sceneggiatore che
71

accoglie le storie dei suoi clienti come doni degni di ogni


onore e offre in cambio nuove storie che consentano nuovi
significati, risoluzioni alternative, speranza e autodeterminazione, riassume Umberta Telfener nella sua prefazione (White,
1992). Come nella Conversazione terapeutica, nella Narrative
Therapy il terapeuta tale non in quanto esperto del sistema
ma suo perturbatore, per usare ancora un termine della
Telfener (Telfener, 1992).
Questo non essere esperti non solo un habitus mentale che
il terapeuta deve sovrapporre alla sua competenza clinica. Il
terapeuta la White non un -ologo, White, Epston e i
loro collaboratori del Dulwich Centre di Adelaide e dellanaloga struttura di Auckland non si presentano come specializzati in una patologia: nella loro casistica si possono trovare
situazioni che possono essere fatte risalire a problemi psichiatrici poco gravi come encopresi, fobie, paure e ansie
cos come gravi e per certi studiosi organici quali schizofrenia e anoressia. White ed Epston sono psichiatri di formazione, ma ritengono che nella relazione lesperto il cliente. Le
informazioni sono tutte prodotte dall'utente, scarse quelle
suggerite dal terapeuta (Telfener, 1992).

Dare un nome al Problema


Loggetto dellintervento del terapeuta il Problema, quale
che sia la sua classificazione nel DSM o nellenciclopedia clinica. Anzi linsieme delle narrazioni condivise per spiegare
e vivere questo problema.
I clienti della Narrative Therapy sono persone (pi spesso
gruppi familiari) che vengono in terapia quando il loro problema ha totalmente invaso la loro esperienza e le loro percezioni al punto che tendono a interpretare le altre esperienze direttamente o indirettamente, attraverso le lenti stesse
del problema (Telfener, 1992). Sono famiglie o persone
saturate come afferma White dal Problema (White insiste
sulla P maiuscola).
72

Il primo passo della Narrative Therapy consiste nel dare un


nome al problema. Trovandosi in un ambiente Medico la
famiglia mostra volentieri la competenza acquisita attraverso
precedenti contatti con medici fornendo una descrizione
scientifica. Ci accade quando le persone sono state incoraggiate a usare una classificazione scientifica per descrivere le loro preoccupazioni. Queste ritrascrizioni provocano una
decontestualizzazione del problema e quindi diminuiscono le
possibilit di scelta disponibili alle persone per intervenire
nella vita del problema (White, 1992, p. 47).
In prima battuta quindi il terapeuta (che si guarda bene dal
sollecitare o leggere cartelle cliniche o altri resoconti di terzi)
si vede servire una narrazione-spiegazione che Bateson,
riprendendo un termine ironico del Malato immaginario, definisce dormitiva del problema.
White (White, 1992, p. 148) cita Bateson (1972) quando afferma che Tutte le spiegazioni che prepongono come fattore
causale una qualit o una entit interna o la sua mancanza
sono secondo Bateson (1972) spiegazioni dormitive che
fanno addormentare la nostra capacit critica.
Invece che cercare la causa consideriamo quali possibilit
alternative avrebbero potuto ragionevolmente realizzarsi e
poi chiediamo perch molte di queste alternative non sono
state seguite in modo che levento particolare stato uno di
quei pochi che, in realt, potevano accadere (Bateson 1972).
Quello che White intende dire che le famiglie e i pazienti
propongono spontaneamente situazioni bloccate. Volendo
fare un processo alle intenzioni si potrebbe pensare che il
cliente si rivolge al terapeuta pi per mettere in scena o confermare uno scacco che nella speranza reale di trovare una
soluzione. La Telfener cita Bateson quando definisce patologico un sistema che ha perso la capacit di ricevere informazioni in quanto filtra e seleziona solo i messaggi coerenti
con la sua organizzazione sintomatica (Telfener, 1992).
Quello proposto al terapeuta un universo impenetrabile,
una narrazione che non ammette interventi di sorta.
Il terapeuta deve evitare di cadere nelle trappole del paralo73

gismo causale e per far ci per prima cosa fa piazza pulita di


tutto il vocabolario che lo accompagna. Cercher quindi di
scoprire nelle narrazioni quale termine viene utilizzato nella
narrazione familiare (ad esempio sentire le voci per gli episodi di schizofrenia) e in mancanza di queste descrizioni originarie ne proporr una lui.

Lesternalizzazione
A questo punto parte il primo momento della Narrative
Therapy. Al problema, cos individuato e nominato, viene
data una vita propria.
Attraverso una operazione squisitamente semantica, il terapeuta ripropone quanto ascoltato dalla famiglia cambiando
punto di osservazione e mettendo in scena da una parte un
Problema come se il sintomo avesse una vita propria e non
fosse in nessun modo sotto la volont e il controllo della persona (Telfener, 1992), dallaltra un cliente (persona o famiglia) che oggetto degli attacchi o comunque infastidito dal
Problema. Se si volesse cercare un genere letterario sarebbe quello dei racconti dellhorror in cui una famiglia o una
casa invasa dai fantasmi.
Nel lavoro con i bambini encopresici [White] ha inventato la
figura della Subdola Pup, un interlocutore dispettoso e
separato dal bambino. Ha poi riunito lintera famiglia facendola combattere contro tale figura, dipingendola come il
comune nemico, dispettoso, sporco, scomodo. Questa tecnica gli permetteva di non criticare i bambini, di non farli demoralizzare e di escludere ogni possibilit che i genitori si sentissero colpevoli o dessero la colpa al figlio (Telfener, 1992).
White non teme di descrivere cos gli episodi di encopresi
come lazione di una Subdola Pup su una famiglia, lansia
come Paura blu e cos via. A cosa serve lesternalizzazione?
In primo luogo, scrive White consente alle persone di differenziarsi dalle storie dominanti che hanno strutturato la loro
vita e le loro relazioni.
74

Con questa semplice operazione, realizzata tutta allinterno


delle narrazioni ricevute dalla famiglia, il terapeuta fa piazza
pulita di storie, pensieri, riserve mentali, sensi di colpa,
alleanze e in generale di tutte le donazioni di senso che si
sono venute a creare nellarco a volte di molti anni allinterno
di una famiglia o di una persona fino a calcificarsi in strutture
necessarie e immodificabili.
White ha descritto analiticamente i vantaggi della esternalizzazione:
diminuisce i conflitti tra le persone circa la responsabilit
nei confronti del Problema;
riduce il senso di fallimento durante i tentativi di risolvere
il Problema [le famiglie o le persone che si rivolgono alla
Narrative Therapy vengono in genere da una lunga coesistenza con il Problema;
unisce le persone in una battaglia comune contro il sintomo anzich metterle una contro laltra;
permette alle persone di riconquistare una fetta della loro
vita sottraendola al dominio del Problema;
permette di considerare il Problema meno seriamente
(Telfener, 1992).
In una formula si potrebbe dire che dopo questo intervento
di ri-descrizione il Problema non la persona o la relazione.
Il Problema invece il Problema stesso (White, 1992, p. 34).
I casi narrati da White, Epston e dai loro collaboratori (peraltro con felice mano narrativa) si soffermano spesso nel sottolineare come questa operazione sia sufficiente per operare
gi nel setting in cui avviene un visibile alleviamento della
tensione psicologica. Gli autori non si stupiscono di ci: lesteriorizzazione permette infatti di far uscire le persone da
un mondo di problemi che sono intrinseci alle persone e alle
loro relazioni per inserirle invece in un mondo di esperienze,
un mondo in continuo cambiamento. In esso le persone trovano nuove possibilit di una azione affermativa, nuove
opportunit per agire in modo flessibile (White, 1992, p. 38).
75

Linfluenza relativa
Il secondo passo (ma in realt una modalit che serve a proporre e introdurre la descrizione esteriorizzata del problema
laddove questa non venga colta al volo) consiste nel sollecitare ai componenti della famiglia una descrizione il pi possibile dettagliata della maniera in cui il Problema incide sulla
loro vita. Sollecitare queste descrizioni ha due obiettivi:
Chiedere alla famiglia delleffetto che il problema ha sulle
relazioni fornisce informazioni sul modo in cui i componenti della famiglia hanno partecipato alla perpetuazione
del problema (Bateson 1972).
Permettere al/ai clienti di privare una descrizione esteriorizzata del problema.
Questo processo viene avviato fin dal primo colloquio e le
persone vengono immediatamente coinvolte nellattivit di
separare la loro esistenza e le loro relazioni dal problema
(White, 1992, p. 37). La descrizione dellinfluenza relativa rischia di risultare stereotipata e a tinte fosche, restituendo e
rafforzando limmagine di una famiglia o di una persona
sostanzialmente arresa al problema. In questa direzione il
terapeuta pu utilizzare il suo status di esperto inteso non
come esperto del problema ma esperto di storie e far capire di aver sentito narrazioni simili. Su questa base aiutano
affermazioni del tipo poteva andare molto peggio o come
mai sei riuscito ad evitare certi errori che secondo la mia
esperienza con altre famiglie sarebbero potuti essere commessi?. Pu anche essere utile chiedere di esprimere linfluenza relativa del problema in termini percentuali.

Le situazioni uniche
Dopo questa prima serie di domande, che incoraggia le persone a delineare linfluenza che il problema ha nella loro vita,
una seconda serie le incoraggia invece a delineare la propria
influenza sulla vita del problema (White, 1992, p. 38). Siamo
76

cos alla terza stazione di questa metodologia: la ricerca


delle cosiddette situazioni uniche, un termine che White ha
mutuato da Goodman (1961).
Le situazioni uniche sono occasioni nelle quali linfluenza relativa del Problema su un cliente stata inferiore o diversa da
quella solita. Situazioni in cui il Problema avrebbe potuto
avere la sua influenza sulla persona ma questa non ha permesso che ci accadesse. Queste situazioni uniche devono
essere narrate da ogni componente della famiglia presente
nellincontro. In mancanza di episodi passati, le situazioni uniche possono essere collocate anche nel futuro. Possono
essere individuate anche attraverso un esame delle intenzioni o dei progetti della persona per sfuggire allesistenza dei
problemi. Al limite, la stessa decisione di recarsi dal terapeuta
pu essere descritta come situazione unica, come un tentativo cosciente del cliente di non farsi sopraffare dal problema.
A questo punto entra in scena quellelemento di teatralit
(intesa come perfetta gestione di tutte le componenti comunicative e non comunicative) che rappresenta a parere di
molti laspetto meno riproducibile della terapia narrativa.
Il terapeuta, che pure aveva sollecitato la famiglia a narrare la
situazione unica, deve:
1) dare prova di grandissimo stupore e sorpresa, perfino
incredulit. Davvero sei stato capace di questo? Ma come
hai fatto.
2) Sollecitare informazioni dettagliatissime sullo stato emotivo che ha fatto seguito alla situazione unica sia presso la persona che lha raccontata che presso gli altri E come ti sei
sentito dopo che ..., Cosa ti hanno detto i tuoi genitori,
amici, compagni etc.. Si tratta di quella che in Narrative
Therapy si chiama ri-descrizione unica.
3) Proporre una narrazione a tinte anche caricate sulleffetto
che questa situazione unica pu avere avuto sul Problema
(certo che la Paura blu se ne tornata a casa con le pive nel
sacco questa volta!).
77

Quello che il terapeuta non deve assolutamente fare sollecitare il cliente a ripetere queste situazioni uniche. La narrazione che il terapeuta restituisce non quella edificante in
cui la situazione unica rappresenta il primo passo di una serie
di cambiamenti, ma quella aperta in cui la situazione unica
apre uno squarcio nella storia condivisa della famiglia e ne
fa intravedere una diversa. Il terapeuta deve sollecitare il
cliente a descrivere quale futuro si colleghi a queste ridescrizioni uniche (White, 1992, p. 72) ma deve stare molto
attento a non parteggiare per la soluzione alternativa. White
molto preciso al riguardo.
Un incoraggiamento vi deve essere, e in questo la Narrative
Therapy esce dallambito puramente narrativo, non procede
unicamente a livello cognitivo, troppo astratto, ma incoraggia
un comportamento fattuale ed emotivo alternativo di tutti nei
confronti del problema (Telfener, 1992), ma il terapeuta deve
essere estremamente cauto nel motivarle. Anzi laddove nel
prosieguo della terapia (che consta generalmente di tre o
quattro sedute) il cliente raccontasse di nuove situazioni uniche o prendesse impegni formali ad aumentarle, il terapeuta
dovr mostrarsi scettico (sempre sulla base della propria
esperienza con altre famiglie), cos come sempre pi stupito
dei risultati raggiunti. White non si perita di aprire la porta
dello studio e chiamare colleghi invitandoli a partecipare del
suo stupore. Remare contro dichiarandosi scettici o stupiti
serve anche a creare un contesto narrativo nel quale la famiglia pu inserire le ricadute. Il significato attribuito alle ricadute dipende dal contesto ricevente. Nel contesto della rete
dei presupposti di famiglia, le ricadute sono spesso spiegate
come un ritorno al punto di partenza. In periodi di tensione
come quelli delle ricadute i componenti della famiglia sono
particolarmente inclini a riprendere le vecchie idee programmate e a seppellire le nuove. Questa tendenza pu essere
contrastata se il terapeuta contribuisce alla creazione di un
contesto nel quale le ricadute siano eventi previsti nel nuovo
corso di vita (White, 1992, p. 118). Devono quindi essere presentate ex ante e non ex post come aspetti inevitabili.
78

Pratiche di reincorporazione
White ed Epston sulla scorta di una attento studio della letteratura antropologica relativa ai riti di passaggio, hanno
dedicato molta attenzione allultimo momento dellintervento terapeutico, quello teso a stabilizzare e confermare il
nuovo comportamento.
Per questa ragione, il dialogo non assume pi una dimensione privata, interpersonale, ma pubblica. Le porte dello studio si spalancano (spesso letteralmente) trasformando lultima seduta in una pratica di reincorporazione. Si tratta di
approcci che implicano lindividuazione e attivazione di un
pubblico per lautenticazione del cambiamento e per la legittimazione delle conoscenze alternative, spiega White che
elenca alcune possibilit:
Celebrazioni, premi e riconoscimenti di fronte a persone
significative
Attestati e lettere di referenze
Consultazione delle persone in senso formale in relazione
alle conoscenze che hanno permesso loro di liberare la propria vita.
White produce (e pubblica orgogliosamente) attestati firmati
da Societ per la lotta ai fantasmi dellEmisfero Australe e
altre semi-serie istituzioni che certificano lo status acquisito,
sollecita i clienti a esporli e farli conoscere, o invita allultima
seduta persone fino a quel momento rimaste esterne al setting (suoi collaboratori, insegnanti o figure di riferimento per
il bambino).
Lobiettivo proprio mettere in scena una re-inclusione del
cliente in un contesto nel quale il Problema non ha pi alcun
potere perturbante (o in cui il suo potere perturbante stato
notevolmente ridotto).
anche significativo che lultimo momento della terapia preveda il cambio di status del cliente che diviene consulente
(attraverso la richiesta di poter utilizzare lesperienza fatta dal
cliente per aiutare altri clienti alle prese con gli stessi problemi).
79

Narrative Therapy e diabete


Lapproccio della Narrative Therapy pu essere utilizzato in
Diabetologia e specificatamente nella gestione di alcuni
aspetti del dialogo fra paziente e Team? In letteratura parrebbe risultare finora solo una esperienza in questo senso
(Shapiro, Ross, 2002).
Il caso proposto quello di un 51 enne maschio bianco, diabetico da diversi anni, il cui cattivo autocontrollo aveva contribuito allinsorgere di complicanze. La non compliance resistente a ogni informazione aveva frustrato paziente e Medico.
Il primo passo dellintervento stato quello di isolare la non
compliance (anzi il not caring) esternalizzandolo in quanto
problema. Il Nonmicuro potremmo tradurre, divenuto cos
oggetto della analisi comune di diabetico e diabetologo uniti
per la prima volta in un fronte comune. Liberato dal senso di
colpa e sollecitato a raccontare, il paziente ha fatto scaturire
la narrazione e le donazioni di senso che stavano dietro al suo
comportamento. La frase chiave stata tutti sanno che per
controllare il diabete bisogna avere una grande forza di
volont come Mary Tyler Moore, io non sono fatto cos, per
questo sono fregato.
Scavando intorno a questa equazione fra autocontrollo e
Mary Tyler Moore, attrice protagonista di una sitcom e testimonial della JDF, stato possibile individuare come il
Nonmicuro derivasse da alcune narrazioni socialmente condivise su come i maschi dovrebbero gestire la patologie: vale
a dire, fregandosene e senza esagerare con le costrizioni
(Shapiro, 2002).
Si venuta a creare quindi una narrazione nella quale la scarsa compliance del paziente derivava dallinfluenza che su di
lui avevano alcune attese della societ e pressioni sociali relative ai ruoli maschili. Cos impostato, il problema, stato possibile sollecitare al paziente alcune narrazioni uniche relative
a situazioni in cui, pur trovandosi soggetto a queste pressioni aveva risposto comunque adottando un comportamento
di cura.
80

A quel punto il terapeuta ha sollecitato la narrazione di un


futuro alternativo nel quale ladozione di comportamenti
alternativi a quelli dettati dal Nonmicuro veniva positivamente valorizzata (aiutato dal fatto che il paziente era perfettamente cosciente dei rischi che stava correndo) per esempio
veder crescere i propri figli, non essere di peso alla famiglia e
cos via. Su questa base stato possibile impostare un percorso nel quale le situazioni alternative al Nonmicuro si sono
rafforzate. Quando la glicemia si stabilizzata su valori vicini
alla norma, paziente e Medico hanno prodotto un Certificato
di incredibili progressi che il paziente ha orgogliosamente
mostrato in famiglia.

81

Letture consigliate
Michael White
La terapia come narrazione.
Proposte cliniche.
Astrolabio 1992
Questa ben ordinata raccolta di saggi
finora lunico testo tradotto in lingua italiana del fondatore della Narrative
Therapy, e tutto sommato offre unidea
abbastanza chiara dellapproccio e delle
sue possibilit cliniche.

Jennifer Freeman, David Epston,


Dean Lobovits
Playful approaches to serious problems:
Narrative Therapy with children and
their families.
WW Norton, New York 1997
Una serie di casi ben raccontati con lo
stile elegante del co-fondatore neozelandese di questo approccio, rende conto
delle possibilit di fondere lapproccio
narrativo con altre tecniche.

82

LA CONVERSAZIONE TERAPEUTICA

A differenza delle altre metodologie descritte in questo libro,


la Conversazione Terapeutica nasce in un ambito non solo clinico, ma specificamente diabetologico e precisamente dalla
riflessione di Francesco Dammacco, pediatra diabetologo.
La Conversazione Terapeutica condivide alcuni elementi con
la Narrative Therapy, anche se operativamente si propone
come strumento da utilizzare in situazioni precise e allinterno
di un solo incontro. Lintervento si inscrive piuttosto in un
insieme di strategie che possono/debbono essere messe in
atto dal Team allo scopo di realizzare il pieno empowerment
del paziente (e della sua famiglia). Nella seconda parte del
suo Il trattamento integrato del Diabete di tipo 1 nel bambino e nelladolescente (Dammacco, 2000) il pediatra diabetologo riassume i tre obiettivi dellintervento sul fronte non
fisiologico:
convalidare il paziente con le sue esperienze;
modificare i comportamenti relativi alle problematiche del
trattamento;
modificare i punti di vista sulle situazioni problematiche.
La convalida delle esperienze viene effettuata tramite il counseling; la modifica dei comportamenti loggetto di un intervento comportamentale o integrato (ambedue descritti in
Dammacco 2000); la conversazione terapeutica uno strumento utile qualora esista un comportamento non funzionale allautocontrollo e allempowerment e laddove questo
comportamento (o astensione dal comportamento) sia fatta
risalire a una situazione problematica. Lesigenza di una con83

versazione terapeutica scatta, quindi, se il paziente o la famiglia non mostrano un deficit di conoscenze n di motivazione
ma fanno risalire la non compliance a un problema.
Il paziente che convinto di non poter dare altra lettura di
una situazione e che i comportamenti conseguenti sono gli
unici possibili, in genere non in grado di apportare dei
cambiamenti ove fossero necessari. Lesistenza di un pensiero esclusivo (either / or thinking) impedisce la ricerca di
punti di vista alternativi e quindi la ricerca di altre soluzioni(Dammacco, 2000).

Il terapeuta, curioso indagatore


La conversazione terapeutica richiede ad ambedue gli interlocutori un lavoro su se stessi e precisamente sul proprio
modo di pensare. Il terapeuta deve prima di tutto abbandonare lhabitus mentale che lo porta a dare valore agli aspetti
causali e clinici dellesperienza che gli viene riportata. Egli
deve dimenticare quello che sa sul diabete. Nella conversazione terapeutica tutto avviene allinterno del racconto. Si
potrebbe dire che loggetto della terapia il racconto, non la
patologia e tantomeno il paziente. Si assume che i comportamenti e le situazioni problematiche derivino dai punti di
vista del paziente, dalle letture che il paziente fa del problema (Dammacco, 2000).
In secondo luogo, allincontro il terapeuta si deve presentare
con un atteggiamento di non conoscenza: deve dimenticare anche tutto quanto sa del paziente, e assumere un atteggiamento di ignoranza (not knowing).
Ovviamente il terapeuta dovr anche impegnarsi per mostrare questo nuovo ruolo, rinunciando a tutti gli aspetti verbali e
non verbali che generalmente connotano lincontro fra il
paziente e il Medico. Sceglier quindi un atteggiamento rilassato, ignorer cartelle cliniche e diari glicemici, dedicher la
prima parte dellincontro a una conversazione tesa a mettere
a loro agio il paziente e i suoi genitori.
84

Lascolto attivo alla ricerca di significati, circuiti ed eccezioni.


In positivo invece il terapeuta deve assumere due ruoli: quello di curioso indagatore delle parole che diabetico e famiglia usano e dei significati attribuiti. Con questo atteggiamento il terapeuta mette in atto una strategia di ascolto attivo registrando nella narrazione o nelle narrazioni che riceve
soprattutto tre elementi:
le parole chiave con una connotazione negativa (che indicano incapacit, chiudono prospettive e possibilit);
i circuiti interattivi limitanti o che perpetuano situazioni problematiche vengono registrati;
situazioni eccezionali nelle quali il comportamento non
adeguato non stato messo in atto.
La parola chiave quella che esprime o rappresenta con i
significati attribuiti da paziente e famiglia la premessa o attitudine del comportamento che sostiene la situazione non
funzionale per un controllo soddisfacente. Solo in questo
caso la conversazione intorno a quella parola acquisisce una
valenza terapeutica (Dammacco, 2000).
Individuate le parole chiave che sostengono il comportamento o la situazione da modificare, il terapeuta le evidenzia e
indaga con il diabetico i significati a esse legati e le loro ripercussioni sul comportamento.
Il terapeuta insieme al diabetico e alla famiglia esplora significati e termini alternativi che possono adattarsi e che abbiano valenze positive nellintento di dominare la catena di
attribuzioni di senso che, a partire anche dalla scelta di certi
termini, aveva spinto a considerare necessari comportamenti
e valutazioni.
Nella conversazione terapeutica, insomma, linterlocutore del
paziente si propone di intervenire su questi significati in
modo da scardinare quelle significazioni bloccanti che avevano creato catene di pensiero apparentemente necessarie.
Il terapeuta quindi un eversore di questi significati al fine
di aprire le possibilit per nuovi comportamenti nellambito
di un rafforzamento delle capacit di autogestione del
paziente e della sua famiglia.
85

Concretamente, il terapeuta proporr di sostituire il concetto


o la locuzione identificata con unaltra egualmente funzionale ma priva di quelle connotazioni sulle quali si appoggiava la
lettura negativa e bloccante. Un esempio tipico la parola
problema. Quando questa viene utilizzata, il terapeuta deve
mostrarsi sorpreso e perplesso dalla scelta del termine.
Quello che viene considerato un problema dovrebbe invece
essere considerato una situazione da attendersi nella condizione diabetica. Il paziente dice di avere il problema della glicemia elevata al mattino.
Il terapeuta propone una locuzione diversa: il paziente ha la
glicemia elevata al mattino. La parola problema connota
limpossibilit a risolvere una situazione (Dammacco, 2000)
scrive Dammacco che ricorda come sia necessario ripetere la
correzione in tutto il corso della conversazione. Lo stesso vale
per lutilizzo di aggettivi pieni di connotazioni giudicanti quali
buono o cattivo per qualificare lautocontrollo glicemico. Il
terapeuta propone di sostituirli con soddisfacente o non
soddisfacente.

Circuiti limitanti
Per quel che riguarda i circuiti interattivi rigidi e limitanti, lazione del terapeuta pi proattiva. Il terapeuta deve mettere in evidenza come entrambi i partner contribuiscano a perpetuare il circuito e quindi a mantenere la situazione da cambiare. Per liberarsi dal circuito interattivo, entrambi i partner
devono apportare dei cambiamenti ai propri punti di vista e
comportamenti. Il caso classico quello delladolescente che
non rispetta le prescrizioni per reazione al controllo esercitato dai genitori e viceversa i genitori controllano ladolescente perch non rispetta le prescrizioni.
In questo caso lintervento del terapeuta oltre a sottolineare
linadeguatezza di ambedue i comportamenti e la loro interdipendenza pu risolversi nel proporre contratti e rapporti
nuovi fra le persone.
86

Le eccezioni
La conversazione terapeutica fa sua la riflessione di White
sulle situazioni uniche. Anche qui il terapeuta dovr dare
risalto o sollecitare la narrazione di situazioni eccezionali
nelle quali il circuito interattivo limitante non scattato, o la
significazione bloccante non ha dato il risultato abituale.
Lesperienza di Dammacco sovrapponibile a quella di White
nel sottolineare come questi elementi possano passare inosservati. Il paziente non si rende conto dellesistenza di
aspetti e comportamenti, modalit di lettura che contraddicono i racconti [...] in realt il cambiamento costante e la
stabilit una illusione. Sono sempre in corso piccoli cambiamenti che non sono sempre evidenti. Queste situazioni o
comportamenti unici restano ignorati a meno che non si crei
un contesto adatto a evidenziarsi (Dammacco, 2000). Il ruolo
del terapeuta allora evidenziare quei risultati unici passati
inosservati e che mettono invece in evidenza capacit, possibilit e forze positive del paziente-famiglia (Dammacco,
2000). Il terapeuta inviter allora giovane e famiglia a descrivere le condizioni che hanno consentito il risultato positivo e
in cosa consista la differenza fra la situazione che ha consentito le eccezioni e le condizioni di insuccesso.
Qualora queste eccezioni non siano evidenziabili nellesperienza, il terapeuta invita a immaginare le condizioni che consentirebbero il verificarsi di questi risultati positivi.

Libert di decidere
Lobiettivo della Conversazione Terapeutica quello di proporre o immaginare lavorando sui significati e valorizzando
le eccezioni una nuova versione del racconto che il paziente e la famiglia fanno di se stessi e delle situazioni identificate. Il ruolo del terapeuta si fra proattivo, con un domandare
terapeutico anche serrato fino a quando questa possibilit
non viene aperta e tratteggiata dal paziente stesso e dalla
87

sua famiglia. A quel punto il terapeuta deve fermarsi.


Anche nella Conversazione Terapeutica, linterlocutore della
famiglia deve guardarsi bene dal prescrivere il comportamento adeguato o dal sanzionare il persistere di quello inadeguato. Giovane e familiari sono lasciati liberi di decidere
sul nuovo racconto che risulta dallincontro e lasciati liberi di
decidere se rimanere fedeli al precedente o accettare questo
nuovo racconto con i suoi nuovi e alternativi significati e possibilit (Dammacco 2000). Altrettanto vale per i circuiti limitanti.
Se cos non fosse il terapeuta potrebbe anche avere successo nel sostituire il racconto rotto con uno di ricambio ma
non centrerebbe lobiettivo pi importante: lassunzione di
responsabilit da parte del paziente e della famiglia, i quali
possono attraverso questo intervento capire che sempre
possibile agire sui significati e sui circuiti in modo da adeguarne le valorizzazioni alle proprie esigenze.

Letture consigliate
Francesco Dammacco
Il trattamento integrato nel Diabete di
tipo 1 nel bambino e nelladolescente
(II)
Caleidoscopio italiano, 143, aprile 2000
In questa agile monografia il diabetologo pediatra propone la conversazione
terapeutica inserendola allinterno di un
approccio integrato nel quale diverse
metodologie sono utilizzate per trasferire al paziente le informazioni chiave, per
rinforzare i comportamenti corretti e per
garantire o facilitare lempowerment.

88

APPLICAZIONI

Il modello dellempowerment
Lavorare sul racconto
Lautobiografia formativa di un diabetologo
Un racconto autobiografico formativo

89

IL MODELLO DELLEMPOWERMENT

Principi dellempowerment
Nella attivit quotidiana di un Team diabetologico, gli approcci e le metodologie illustrate nelle pagine precedenti si
inscrivono allinterno del macro-obiettivo fondante e caratteristico nella terapia di questa patologia cronica: quel processo di responsabilizzazione del paziente definito ormai con
il termine di empowerment.
A differenza delleducazione sanitaria, che il Medico e il Team
erogano al paziente e che non richiede se non una competenza didattica, lempowerment sollecita e mette in questione
i presupposti e lautorappresentazione non solo del paziente,
ma anche di ogni singolo componente del Team.
Lempowerment quindi un processo che richiede al Medico
un lavoro su se stesso. Questo lavoro condotto soprattutto
attraverso una continua riflessione del Medico sulla sua autobiografia formativa e sulla sua attivit quotidiana.
In sintesi, fare empowerment significa aiutare il soggetto con
il diabete a rendersi conto di avere e poter usare capacit proprie per gestire la propria condizione diabetica. In primo
luogo quindi occorre mettere la persona con il diabete in condizione di acquisire conoscenze e capacit specifiche e sufficienti per lautogestione del diabete. Questa autogestione
efficace vale a dire garantisce insieme un migliore controllo
metabolico e una maggiore qualit di vita solo quando il
diabetico e il terapeuta si considerano e interagiscono come
partner nella conduzione della condizione diabetica.
91

Riflessioni autobiografiche:
Come descriverei ruolo e responsabilit del paziente e delleducatore nel trattamento del diabete?
Il contesto professionale in cui opero si attende
che il terapeuta sia responsabile delle decisioni
prese dal paziente?
Che sensazione mi suscita questo tipo di attesa?
Che significa per me stabilire una partnership con
il soggetto con diabete?

La relazione fra terapeuta e paziente


La prassi dellempowerment discende da una concezione
non puramente fisica della patologia cronica. Il diabete sia
una realt fisica, che pone necessit terapeutiche e assistenziali specifiche e non derogabili (iniezione dinsulina, adeguamento dose, controllo alimentare, adeguamento attivit fisica, etc.), sia una realt sociale. Ci significa che la convivenza
con questa realt fisica pu essere considerata come una
realt sociale, influenzata dal linguaggio e dallinterazione, e
pertanto negoziabile e modificabile.
Un nuovo equilibrio nella relazione fra paziente e Team
necessario nella misura in cui si considera il diabete una
malattia bio-psico-sociale, allinterno della quale possono
essere identificati sia aspetti puramente fisiologici, sia aspetti altrettanto importanti relativi ai vissuti e allo scambio di
significati ed esperienze. In questa relazione democratica,
paziente e terapeuta condividono esperienze e significati. Il
paziente identifica problemi e necessit assistenziali,
insomma un esperto del suo diabete. Lo scambio di informazioni con il terapeuta che potremmo definire lesperto
dei diabeti genera obiettivi, aperture e soluzioni. In questo
dialogo i comportamenti non realizzati e gli obiettivi non raggiunti vanno considerati non come errori ma come occasioni di apprendimento per nuove informazioni o punti di vista
da utilizzare per individuare nuovi obiettivi e piani dazione.
92

Sulla base di questi scambi, il paziente finisce con lo sviluppare una autonoma capacit di problem solving.
Riflessioni autobiografiche:
In che misura penso che il diabete sia una malattia
fisica?
In che misura ritengo che la relazione con il paziente debba basarsi sullesperienza del terapeuta?
In che misura ritengo che spetti al terapeuta identificare problemi e necessit del paziente?
In che misura ritengo che il terapeuta sia responsabile della diagnosi, della risoluzione dei problemi e
dei risultati?
In che misura ritengo che una ridotta compliance
rappresenti un insuccesso del paziente?
In che misura ritengo che una ridotta compliance
rappresenti un insuccesso del terapeuta?
In che misura una ridotta compliance il risultato di
obiettivi discordi tra paziente e terapeuta?

Educazione terapeutica
LEducazione Terapeutica una acquisizione relativamente
recente nella Diabetologia. Vi quindi la tentazione di considerarla una dimensione aggiuntiva della relazione di cura, un
qualcosa in pi che si potrebbe mettere in atto, sempre che
se ne abbia il tempo o la possibilit.
In realt lEducazione Terapeutica un altro nome che pu
essere dato allinsieme della relazione fra paziente e Team.
Nellempowerment del diabete, leducazione e il trattamento
del paziente non devono infatti essere considerati disgiunti.
Ambedue questi piani vanno affrontati allinterno dellinterazione con il paziente. In altre parole la relazione tra terapeuta
e paziente non deve essere un po terapeutica e un po educativa, n prima terapeutica, poi educativa ma allo stesso
tempo terapeutica ed educativa. Questo significa che ogni
93

relazione fra Team e paziente un intervento di Educazione


Terapeutica, ogni interazione medico-soggetto deve nello
stesso tempo risultare terapeutica ed educativa.
Per far questo occorre rinunciare al riflesso condizionato del
controllo del paziente, ereditato da una antica visione del
rapporto fra un terapeuta e un soggetto totalmente passivo.
Un atteggiamento esclusivamente prescrittivo potrebbe
risolvere la situazione che lo ha motivato, ma solo facendo
emergere la prescrizione dal dialogo si pongono le basi affinch il paziente possa domani davanti a una situazione simile prescriversi da s il comportamento corretto. Il dialogo
permette di far emergere la prescrizione dalle esigenze del
paziente e non del Medico, di inserirlo nel quadro delle motivazioni, delle conoscenze e delle attese di quel particolare
soggetto, nonch di far cogliere al paziente le ragioni che
possono consigliare quella piuttosto che altre prescrizioni.
Riflessioni autobiografiche:
Quanto ritengo necessario avere un controllo del
paziente nellinterazione terapeutica?
In una scala da 1 (nessun controllo) a 10 (totalmente
in controllo), che punteggio mi assegnerei per valutare il mio abituale controllo nellinterazione con i
miei pazienti?
In che misura il tradizionale approccio prescrittivo
influenza la mia pratica professionale?
In che misura mi sento disponibile a rinunciare ad
essere prescrittivo per essere, invece, pi formativo,
in modo che il paziente sia in grado di fare delle
scelte informate

Raccontare il diabete reale


Viviamo in una fase di discontinuit nella quale i paradigmi
sui quali si basata la formazione del personale Medico risultano non solo quantitativamente ma qualitativamente insuffi94

cienti per rispondere ad alcune sfide, per esempio quella del


diabete. Il paradigma della prescrizione apodittica ereditato
dalla cura delle acuzie risulta inutile nella terapia cronica. Lo
stesso vale per il paradigma secondo il quale dietro ogni
caso, il Medico deve cercare lelemento costante, il modello astratto della malattia. Esiste quindi un solo diabete teorico che si declinerebbe poi in 10 o un milione di pazienti.
Compito del terapeuta quindi identificare e poi trattare con
la forma astratta della patologia.
Dal punto di vista del paziente il diabete teorico, quella
forma platonica che accomuna tutti i casi simili al suo, ben
poco importante. Per il paziente esiste solo un diabete
reale, il suo diabete, quello che lui vive e sperimenta.
Ed questo diabete reale che deve essere messo al centro
della relazione. Altrimenti paziente e terapeuta finiranno per
gestire la loro relazione su un equivoco: il primo ponendo al
centro un diabete vissuto, il secondo una forma astratta. Il
diabete significativo per il paziente quello che egli vive e
riporta nel suo racconto.
Ci non significa che non vi possano essere corsi o non possano essere proposte letture sul diabete, ma che la relazione deve nascere dalle esperienze avvenute intorno a quel
diabete, dalla autogestione del diabete reale. Nel racconto il
terapeuta sapr identificare due scenari: quello dellazione
(ci che la persona con il diabete fa) e quello della coscienza
(ci che la persona con il diabete pensa, prova, percepisce).
Attraverso questo racconto il paziente d forma allesperienza: tramite la costruzione di unit linguistiche significative la
rende intelligibile al partner cos come a se stesso.
Quando racconta la sua storia diabetica, il paziente rivela a
se stesso e nello stesso tempo conosce le proprie esigenze,
necessit, sentimenti, emozioni rispetto alla propria condizione diabetica. In questo senso il racconto che il paziente fa del
suo diabete uno strumento privilegiato non solo per trasferire informazioni e vissuti al Team quanto affinch il soggetto
acquisisca consapevolezza e costruisca il proprio S come
soggetto capace di autogestire il proprio diabete.
95

Riflessioni autobiografiche:
Quanto sono abituato a far riflettere il diabetico
sulla sua esperienza per consentirgli un apprendimento utile allautogestione?
Quante opportunit ho di riflettere sulla mia pratica di educatore?
In che misura la riflessione sulla mia attivit mi aiuta
nella crescita personale e professionale?
Di cosa penso gli altri abbiano realmente bisogno
per conoscere qualcosa su di me?
Cosa significa per me conoscere qualcuno?
Cosa ho bisogno di conoscere sul diabete dei miei
pazienti?
Quali strategie uso per aiutare i miei pazienti diabetici ad avere migliore consapevolezza della loro
condizione diabetica (valori, convinzioni, obiettivi,
etc.)?

Schema di intervento integrato educativo-terapeutico


Il racconto ci pone la dimensione del passato o del presente,
ma a differenza del diabete teorico quello reale si evolve, insieme alla vita del paziente. Quando ci si pone come
obiettivo lautogestione del paziente, si imposta quindi un
programma di educazione al cambiamento continuo. Questo
processo parte dalla definizione e dal rispetto dei ruoli: il
terapeuta come esperto aiuta il paziente a compiere scelte
informate per lautogestione. Su questa base, paziente e
terapeuta esaminano le aree problematiche individuate.
Questo esame prevede che il paziente rifletta sulla propria
esperienza (risultati, convinzioni, atteggiamenti, comportamenti, ostacoli, ecc.) mentre il terapeuta lo aiuta ponendo
domande e trasferendo informazioni ad acquisire consapevolezza dellesperienza e a ricavare inquadrature / punti di
vista differenti. Concordati degli obiettivi, paziente e terapeuta concordano i piani operativi per conseguirli.
96

Nella fase finale di questo ciclo di miglioramento che


ovviamente continuo paziente e terapeuta valutano i risultati, rivedono obiettivi e strategie e riflettono sulle esperienze di autogestione proponendo nuovi punti di vista, possibilit, relazioni, aspirazioni che possano tradursi in cambiamenti ( nuove conoscenze, attitudini, comportamenti).
Riflessioni autobiografiche:
In che misura penso che la convivenza del soggetto con il suo diabete possa dipendere dalla sua condizione fisica e quanto, piuttosto, possa essere influenzata dalle interpretazioni che egli stesso elabora, in rapporto con il contesto, sulla sua condizione
diabetica?
In che misura ritengo che la convivenza con il diabete possa essere modificabile per il diabetico attraverso le variazioni delle interpretazioni della sua
condizione?
In che misura credo che linterazione con il terapeuta
permetta al paziente di negoziare le interpretazioni sulla sua condizione diabetica ?
Quanta rilevanza ritengo possa avere nella mia pratica di terapeuta-educatore la distinzione tra diabete reale e teorico?
Quanto penso possa risultare rilevante per lo stesso
diabetico una discussione su queste differenti descrizioni della sua realt diabetica?

Latteggiamento di empowerment
Darsi come obiettivo lempowerment richiede a paziente e
terapeuta una profonda modifica di paradigmi e approcci
abituali. Il terapeuta dovr spogliarsi dal suo habitus interpretativo e in fondo dalla sensazione di sapere gi (del diabete, del paziente). A ogni incontro con il paziente il terapeuta dovr porsi con un atteggiamento di non conoscenza
97

(not knowing) nel quale vengono sospese tutte le ipotesi precostituite che egli ha fatto o potrebbe fare su quel paziente
(in base alla conoscenza pregressa o alla sua esperienza di
diabete teorico). Come avviene nellanamnesi al primo
incontro, tutto ci che il terapeuta sa del paziente emerge dal
racconto che egli fa del suo diabete reale.
Se si sar stati capaci di creare un clima di ascolto e accettazione, nel quale il paziente non teme atteggiamenti di rimprovero e critica da parte del terapeuta e si sente anzi motivato a esprimere liberamente sentimenti ed emozioni, il racconto sar ricco di spunti e indicazioni che il terapeuta potr
approfondire, non dando risposte n tantomeno criticando
comportamenti che gli paiono inadeguati, quanto sollecitando il paziente con domande che gli consentano maieuticamente di trovare da s le risposte che la situazione richiede.
Mentre fa questo il terapeuta dovr auto-osservarsi, per riconoscere leventuale emergere dellantico modello in base al
quale il Medico responsabile al posto del e non di fronte
al paziente. Il terapeuta dovr anche saper riconoscere lemergere di proprie ansie o reazioni negative e in questo caso
dichiararle candidamente, lasciando per al paziente la libert di decisione nelle scelte.
Il racconto di un paziente contiene spesso la narrazione di
uno scacco, di un problema. La reazione del terapeuta non
consister nel considerare irrilevante e nemmeno nel risolvere deus ex machina il problema, quanto nel proporre punti
di vista o interpretazioni alternative, agendo sui significati e
sulle parole chiave utilizzate dal paziente. Nel dialogo, quindi, il contributo del terapeuta consiste pi nellaprire possibilit e interpretazioni che favoriscono il cambiamento e la crescita personale e meno nel prescrivere soluzioni. In questo
lavoro cos come nellinsieme della relazione di empowerment necessario mantenere il pi possibile allorizzonte
quel momento oggettivo che la valutazione dei risultati
(specialmente dellemoglobina glicata che si presta a svolgere il ruolo di un giudice inappellabile della salute del paziente o della sua obbedienza alle cure).
98

Premesso che la terapia del diabete in quanto patologia fisica passa per forza di cose attraverso il raggiungimento di un
equilibrio normoglicemico, lattivit di Educazione Terapeutica va effettuata senza condizionarla immediatamente ai
risultati.
Come un buon banchiere il terapeuta far credito al paziente, consentendogli di mantenere il conto scoperto laddove
ravvisi un processo positivo di evoluzione che sul lungo termine non potr che dare dei risultati.
Riflessioni autobiografiche:
Che differenza ha per me sentirmi responsabile
per il paziente, rispetto a sentirmi disposto a rispondere al paziente?
In che misura sono in grado di creare un contesto
nel quale il paziente si sente libero di riferire le sue
esperienze e i suoi vissuti anche negativi nei conronti del diabete?
Come gestisco le ansie e i sentimenti negativi che
mi capita di provare nellincontro con un paziente?
In che misura ritengo i risultati glicemici centrali nel
valutare la relazione di empowerment?

Il mio empowerment: metodologie di auto-valutazione


Lempowerment una filosofia educativa e di assistenza che
deve informare la pratica professionale. per necessaria per
il terapeuta una verifica periodica personale sulla corrispondenza dei suoi comportamenti alla sua visione professionale,
alla sua teoria educativa soggettiva.
Questa verifica pu essere fatta con periodiche riflessioni
sulla propria pratica professionale. Le tre schede seguenti
sono esempi di riflessioni valutative personali che possono
essere praticate con periodicit variabile per valutare il successo di un incontro e per riflettere sulle strategie.

99

Valutare insieme al paziente il successo di un incontro


Per valutare il successo di un incontro in termini di empowerment, possibile informarsi chiedendo ai pazienti il loro parere sia allinizio sia al termine dellincontro.
Domande da porre ai pazienti allinizio dellincontro:
Quali sono i vostri obiettivi dellincontro odierno?
Quali aspetti vorreste esaminare oggi?
Avete domande particolari?
Domande da porre ai pazienti alla fine dellincontro:
Lincontro di oggi ha soddisfatto le vostre richieste?
Avete altre domande o questioni da porre?
Lincontro di oggi stato significativamente differente dagli altri ?
Quali erano le vostre aspettative?
Che cosa avreste desiderato fosse differente?
Cosa potremmo fare di diverso la prossima volta?

Riflettere sul proprio comportamento nellincontro


Allo stesso modo, al termine dellincontro, il terapeuta potrebbe auto-valutare magari chiedendo la collaborazione di
un osservatore esterno il proprio comportamento. Linsieme
di queste riflessioni, che non richiedono pi di qualche minuto al termine di ogni incontro, potrebbero costituire un vero
diario autobiografico formativo.
Domande da porsi al termine di un incontro:
Quali sono stati i miei obiettivi in questo incontro?
In che misura penso di averli realizzati?
Quale parte dellincontro ritengo sia andata bene?
Perch ?
Quali erano le mie sensazioni e i miei pensieri in
quei momenti?
100

Cosa ritengo pensassero il paziente e famiglia?


Quale parte dellincontro ritengo non sia andata
bene come avrei voluto?
Che cosa avrei voluto che accadesse? Cosa invece
successo?
Se potessi rifare lincontro cosa cambierei?
Quale penso sia stato lelemento pi efficace del
lincontro?
Quale invece il meno efficace?
Quanto sono soddisfatto del mio comportamento
in questincontro?
Quanto penso siano rimasti soddisfatti il paziente
(e la sua famiglia)
Quali aspetti del mio modo di fare intendo cambiare
nei prossimi incontri?

Valutare le strategie
Unaltra maniera per valutare la pratica dellempowerment
assegnare un punteggio alle strategie messe in atto: il punteggio positivo assegnato alle strategie che favoriscono
lempowerment del paziente. Lanalisi pu essere fatta assegnando un punteggio alle risposte del terapeuta alle domande-espressioni del paziente e poi ricavando un valore medio.
STRATEGIA
Ho posto lattenzione sulle sensazioni del paziente
Ho posto lattenzione sugli obiettivi scelti dal paziente
Ho esplorato i problemi da lui posti
Ho proposto delle soluzioni al paziente
Ho espresso giudizi sul paziente

PUNTEGGIO
+2
+2
+1
1
2

Questa valutazione pu essere fatta in maniera sofisticata su


una registrazione dellincontro, oppure in maniera pi semplice, ma approssimativa, valutando globalmente lincontro;
101

inoltre la valutazione pu essere fatta direttamente dal terapeuta stesso o da un osservatore.


Le ragioni che portano allassegnazione di questi punteggi
sono chiare: porre attenzione, facilitare e consentire al
paziente la libera espressione dei sentimenti, cos come lesplorazione e la scelta di obiettivi sono pratiche che favoriscono significativamente lempowerment del paziente.
Anche facilitare lesplorazione da parte del paziente degli
aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali delle situazioni
problematiche consente lempowerment del diabetico.
Al contrario, non favoriscono lempowerment, e quindi hanno
una valenza negativa, comportamenti del terapeuta come
quello di dare risoluzioni al paziente invece di ricercarle con il
paziente o, ancora peggio, avere atteggiamenti o usare
aggettivi esprimenti giudizi di qualunque tenore sulloperato
del paziente.
Punteggio zero, nel senso di valore neutro, assegnato a
quei comportamenti, specie domande e risposte di tenore
tecnico o Medico, che non incidono significativamente sullacquisizione dellempowerment del paziente, pur essendo
utili e necessari per lautogestione del diabete.

102

Letture consigliate
Anderson B., Funnel M.
The art of empowerment: Stories and
Stategies for Diabetes Educators.
American Diabetes Association,
Alexandria, Virginia, 2000
il testo pubblicato dalla American
Diabetes Association il quale rappresenta
la lettura necessaria per il terapeuta che
voglia conoscere lempowerment nel diabete.
Con stile convincente invita il terapeuta a
una autobiografia formativa e allesercizio della riflessione sullesperienza come pratiche formative e educative personali e per il paziente.

103

LAVORARE SUL RACCONTO

Il racconto del diabete nellinterazione terapeutica


Lincontro fra il paziente e il Team consiste a ben vedere in
uno scambio di racconti. Il paziente (e la sua famiglia) propongono (o vorrebbero proporre) la loro esperienza di
autogestione e di convivenza con il diabete. In una relazione di empowerment il ruolo del Team non quello di
approvare o correggere questo racconto, n di interpretarlo riportando il diabete reale raccontato entro gli schemi di quello teorico , quanto di collaborare con il paziente
nel riformulare, attraverso linterazione con lquipe, un
nuovo racconto, con punti di vista e significati condivisi da
entrambi i partner.
Il paziente esce dallincontro con in mano non una prescrizione ma un nuovo racconto; una versione pi aperta, pi
adeguata e pi responsabilizzante ma comunque sempre
sua del racconto iniziale.
Come realizzare questa interazione educativa-terapeutica?
Con strategie da sempre usate dal terapeuta, in maniera pi
o meno consapevole, quali il counseling, ma con lintento
dichiarato di motivare il paziente a rispettare la prescrizioni
del terapeuta (migliorare la compliance).
Nellempowerment le stesse strategie vengono seguite dal
terapeuta con il proposito, invece, di aiutare il soggetto
con diabete a prendere decisioni informate e ad assumere
sempre meglio il ruolo di partner nella gestione del suo
diabete.
105

Il racconto della condizione diabetica


Per convivere con il suo diabete, la persona deve attribuire un
senso alla sua condizione, al suo mondo e alla sua vita. Egli
deve, pertanto, dare uninterpretazione al suo mondo, deve
attribuire dei significati.
Lattribuzione di significati avviene tramite il linguaggio, che
diventa quindi il mezzo attraverso cui le persone interpretano
e danno un significato alla loro vita.
Nel racconto del suo diabete, il paziente elabora e rivela la
interpretazione della sua condizione, con i significati che gli
attribuisce. In qualche misura questi significati sono dati, precedono lattivit di elaborazione del paziente e del Team in
quanto fanno parte del sistema culturale di riferimento del
paziente (e del Team).
Allo stesso tempo, per, questi significati sono continuamente scambiati e negoziati attraverso linterazione sociale.
Lidea che lindividuo si forma di s come diabetico, per
esempio si costruisce in parte attraverso linterazione con la
sua cultura o meglio con le culture alle quali il paziente e la
sua famiglia fa riferimento e i significati che queste culture
davano alla patologia prima della diagnosi; in parte attraverso lo scambio con i significati che al diabete sono attribuiti dal sistema scientifico e dellquipe di riferimento.
In questo senso possibile dire che il diabete viene letteralmente curato tramite i significati. Le attribuzioni di senso e
la loro evoluzione devono quindi continuamente essere esplicitate nel racconto. E questo vale sia per il paziente, sia per il
terapeuta.
Il processo di empowerment passa attraverso un lavoro sul
racconto che prevede in primo luogo che questo racconto
venga fatto, e che sia vero, cio che in esso vengano riconosciute e accettate le sensazioni positive e negative del paziente (o del terapeuta).
In secondo luogo, per, paziente e terapeuta devono essere
pronti a riscrivere il loro racconto accettando punti di vista
alternativi, ammettendo che quel vissuto, quella situazione si
106

presta a letture differenti e in linea di principio egualmente


valide. In questo senso paziente e terapeuta devono essere
disposti a vedere nellincontro lopportunit per riprendere
inquadrature diverse della propria realt diabetica.
Riflessioni autobiografiche:
Raccontare la mia situazione rappresenta per me
una significativa esperienza emotiva?
Raccontare di me mi ha consentito di ricevere
domande o stimoli che mi hanno indotto a una
maggiore riflessione e consentito nuovi insight?
Quanta attenzione dedico ai racconti dei pazienti?
Consentire ai pazienti di raccontare le loro esperienze ha reso pi efficace la mia interazione con
loro?
In quale maniera penso di far acquisire al diabetico maggiore consapevolezza delle sue capacit di autogestione?
In che misura penso che il diabetico possa acquisire maggiore empowerment attraverso un racconto autobiografico dei suoi comportamenti?
Cosa significa per me stabilire un rapporto di
partnership con il diabetico?
Da cosa deduco di essere riuscito a stabilire una
effettiva partnership con i miei pazienti?
Quanto spesso aiuto i miei pazienti a riflettere
sulle proprie esperienze per acquisire conoscenze utili e pratiche per la gestione del loro diabete?
Come incoraggio i miei pazienti a un racconto che
che sia veritiero e utile per una comprensione
della loro convivenza con il diabete in tutti gli aspetti rilevanti?
In che misura consento ai miei pazienti di esprimere liberamente le loro sensazioni?
Quanto spesso i miei incontri con i diabetici
sono state occasioni riuscite di acquisizione di
significativi e motivanti punti di vista alternativi?
107

Le cinque fasi dellincontro


Lo schema dincontro prevede una sequenza di cinque fasi. Il
terapeuta di solito le segue, anche se pu, soffermarsi su
alcune pi che su altre, secondo le esigenze dellincontro.
1. Identificare i problemi
Il primo passo del processo di cambiamento lidentificazione dei problemi. Il racconto del paziente allinizio dellincontro spesso la segnalazione di uno scacco. Se questo non
avviene, il racconto del problema pu essere sollecitato con
domande del tipo di quali problemi vogliamo parlare oggi,
o qual laspetto che pi ti preoccupa / ti risulta pi gravoso / ti risulta pi difficile nella gestione del tuo diabete?.
Una volta iniziato il racconto il terapeuta sapr leggere
immediatamente lerrore nel quale caduto il paziente o linadeguatezza della sua descrizione. Questa tentazione deve
essere allontanata. Le problematiche significative sono per
definizione quelle poste dal punto di vista del paziente.
Per quanto apparentemente apodittico, il racconto del problema contiene spesso al suo interno sentieri e obiettivi per
una significativa interazione. Pi che nell interpretare il racconto, il terapeuta deve porre attenzione nellidentificare
quegli elementi che allinterno stesso del racconto possono
fungere da punto di partenza di un dialogo nel quale il
paziente deve essere guidato nella ricerca delle soluzioni.
Riflessioni autobiografiche:
Come rispondo quando i pazienti identificano
numerosi problemi?
Quanto spesso avverto un forte desiderio di dare una personale risoluzione al problema prima
che il paziente abbia espresso la sua?
In che misura penso sia mio compito risolvere
direttamente i problemi per i pazienti?
Come giungo personalmente a definire i miei
problemi?
108

Quanto la mia esperienza personale nel pormi e


risolvere problemi pu aiutarmi nel dialogo con
i pazienti?
2. Esplorare le sensazioni
Un racconto non mai tale se privo di connotazioni esplicite. Il secondo momento dellinterazione quindi lesplorazione delle sensazioni del paziente in relazione al problema identificato. Pensieri e sentimenti intorno a un problema
usualmente influenzano i comportamenti. Occorre per
creare un ambiente allinterno del quale consentire la libera
espressione di sentimenti ed emozioni.
Visto che i pazienti non sono abituati a fornire valutazioni
personali all'interno delle loro relazioni con il Team pu essere opportuno sollecitarle con apposite domande del tipo
Cosa provi riguardo a questo problema?, Cosa pensi di
fronte a questo problema?, Come ti sentiresti se questo
problema persistesse?.
Le espressioni emotive negative devono essere prese in
attenta considerazione, sia per la loro capacit di gettare
luce sui comportamenti, sia perch opportunamente evidenziate possono costituire la base di una motivazione al
cambiamento.
Ancora una volta il terapeuta deve rinunciare a un riflesso
condizionato: quello di sentirsi responsabile per i vissuti del
paziente. Lemozione negativa non un problema che il
terapeuta risolve, quanto il punto di partenza di un percorso di risoluzione del problema che viene svolto dal paziente sulla base degli stimoli del terapeuta.
Riflessioni autobiografiche:
Quanto mi lascio influenzare dalle mie emozioni nei
dei miei comportamenti e cambiamenti?
Quanto gli altri mi sono stati di aiuto nella gestione
miei stati emozionali?
A questo proposito quanto lesperienza personale
pu aiutarmi con i miei pazienti?
109

Come mi sento di fronte allespressione emotiva


dei miei pazienti, sia positiva che negativa?
Come rispondo alla libera espressione emotiva dei
miei pazienti?
3. Stabilire gli obiettivi
Dopo aver identificato i problemi, bisogna stabilire gli obiettivi di cambiamento. Gli obiettivi si ricavano, oltre che da
risultati obiettivi, dallo stesso racconto del paziente (nel suo
svolgimento durante lincontro) e sono espressione delle
risoluzioni date dallo stesso paziente ai problemi.
Identificare gli obiettivi pu non essere facile quando il
paziente si trova incagliato in un punto di vista che non consente di operare cambiamento: non capace di trovare punti
di vista alternativi che gli consentano di attribuire significati
differenti alle situazioni e quindi poter cambiare i comportamenti.
Il paziente deve, quindi, essere sia messo in grado di esplorare ed elaborare differenti punti di vista sulle situazioni problematiche.
Il paziente potrebbe essere richiesto di fornire una differente
inquadratura della situazione che ha appena descritto.
Generalmente, lidentificazione degli obiettivi discende dal
racconto stesso. Il nesso pu essere stabilito con domande
quali: Data la situazione cosa pensi sia necessario cambiare
per migliorarla?.
importante che gli obiettivi vengano decisi dal paziente in
quanto spesso Team e paziente si muovono secondo agende discordanti e non lo esplicitano. In questo caso quello che
al terapeuta appare un mancato raggiungimento dellobiettivo appare invece al paziente la logica conseguenza del perseguimento di altri obiettivi.
Va quindi data attenzione alle priorit fra gli obiettivi stessi. In
questa prioritizzazione, obiettivi di natura metabolica ed
emozionale vanno in linea di principio considerati equivalenti. Lobiettivo non stabilire degli obiettivi al posto del
paziente ma con il paziente stesso.
110

Riflessioni autobiografiche:
Quale procedimento ho seguito per identificare e
stabilire priorit per i miei obiettivi?
Cosa provo se penso che mio compito stabilire
obiettivi con, piuttosto che per, il paziente?
4. Concordare un piano dazione
Il passo successivo allindividuazione degli obiettivi quello
di stabilire un piano dazione, inteso come una sequenza di
procedure per realizzare gli obiettivi. Ancora una volta il
paziente il punto di partenza. Rispondendo a domande quali
Cosa pensi di fare per realizzare questo obiettivo?, Con
quale strategie pensi di iniziare?, C qualcosa che intendi
fare subito dopo questincontro? il paziente elabora una
lista di alternative.
Ancora una volta il terapeuta non d risposte ma pone
domande al paziente per la scelta delle strategie da mettere in
atto interpellando l'esperienza stessa del paziente: Che cosa
e stato / non stato utile in altre occasioni?.
Il piano di azione cos definito deve essere realistico, e prevedere quindi cambiamenti graduali, realizzabili dal paziente, in un arco di tempo stabilito. Questo piano pu essere
oggetto di un vero contratto, scritto o orale, che prevede
delle possibili ricompense.
importante, per, che le ricompense siano legate non tanto
ai risultati ottenuti quanto allimpegno dimostrato. Per fare
un esempio, pi interessante concordare lobiettivo, e
complimentarsi per limpegno dimostrato, di un continuo
ancorch gradualissimo miglioramento nellemoglobina glicata, che non definire un valore da raggiungere a ogni costo.
Riflessioni autobiografiche
Ho stabilito da solo o con laiuto di altri le mie strategie?
Cosa provo se penso che mio compito individuare strategie con, piuttosto che al posto del
paziente?
111

5. Valutare i risultati
Quello illustrato un ciclo che va inserito allinterno di un
processo continuo. Lempowerment non qualcosa che si
raggiunge una volta per tutte ma una serie continua di esperimenti, di cui bisogna valutare i risultati utili per le successive esperienze.
Latteggiamento utile per lempowerment non quello di
considerare i risultati ottenuti come successo o insuccesso.
Ogni esperienza, sia positiva che negativa, va intesa come
una opportunit di apprendimento per ladeguamento del
proprio comportamento. Per questa ragione la valutazione
dei risultati non solo una fase notarile o un epilogo, quanto il punto di partenza per ricominciare il processo del cambiamento, riscrivendo il racconto del proprio diabete. In questo senso quale che sia stato lesito il terapeuta rinforza,
con riconoscimento, limpegno comunque messo in atto dal
paziente e sollecita la sua opinione con domande del tipo
Che insegnamenti puoi ricavare da questa esperienza?
Che cosa faresti in maniera differente / simile in unaltra
occasione?.
Riflessioni autobiografiche:
Come ho utilizzato le mie esperienze, sia efficaci
che inefficaci, per nuovi programmi?
Lesperienza mi servita per una migliore conoscenza delle mie capacit?
Come rispondo ai pazienti con risultati positivi / negativi?
Quali strategie di rinforzo uso con i miei pazienti?

112

Letture consigliate
Anderson B. J., Rubin R.R.
Practical Psychology for Diabetes
Clinicians.
American Diabetes Association.
Alexandria, Virginia, 1996
un manuale utile per lapplicazione delle
strategie comportamentali, di ristrutturazione cognitiva e di empowerment per le
diverse problematiche in ambito diabetologico.

113

LAUTOBIOGRAFIA FORMATIVA
DI UN DIABETOLOGO

Alcuni anni fa in un incontro con colleghi Pediatri diabetologi mi sono sentito ri/coinvolto nel campo delleducazione del
bambino con diabete. Non nella sua pratica quotidiana ma,
pi specificamente, nella definizione e organizzazione degli
interventi che attualmente vengono intesi come Educazione
Terapeutica. Il percorso di riconsiderazione del processo educativo mi ha riportato nellambito pedagogico da cui ero partito agli esordi della mia attivit di pediatra interessato ai problemi endocrinologici e diabetologici. Ed stato un affascinante ritorno per scoprire sentieri prima non notati o che
forse non ero, in passato, disposto a seguire.

Il nuovo insight: lautobiografia formativa


Lesplorazione delle frontiere della formazione pedagogica,
occasionata da un colloquio con una tirocinante in Scienza
dellEducazione cui avevo chiesto informazione sui metodi
recenti utilizzati nel suo corso di formazione universitaria, mi
ha consentito di venire a conoscenza e di addentrarmi (con la
lettura di [Baldassarre et al. 1999] in un ulteriore sentiero nel
territorio della formazione pedagogica: quello dellautobiografia formativa, con la scoperta del pensiero narrativo e la
riconferma e rivalutazione dellattenzione al racconto.
Potevano questi metodi pedagogici avere applicazioni nella
formazione del diabetologo e nellEducazione Terapeutica?
Lanno precedente avevo acquistato una pubblicazione
dellAmerican Diabetes Association sullempowerment [An115

derson, Funnell 2000]: un argomento e una strategia educativa di cui avvertivo importanza e necessit in ambito diabetologico pediatrico ma della quale, pur avendo letto quel libro,
non ero ancora riuscito ad avere una chiara visione n a
vederne lapplicazione pratica e formativa. Nel volume si insisteva sulla formazione degli educatori attraverso il racconto e
la riflessione sulle loro esperienze formative.
La rilettura di entrambi i libri me ne ha svelato i collegamenti
che la lettura dei singoli libri non mi aveva consentito di vedere. La prima parte del libro sullempowerment si intitola
What we do is who we are, mentre il filo conduttore del libro
di Baldassarre la presenza di una storia comune fra S personale e S professionale.
Mi sono convinto che la riflessione sul significato e sulle
modalit di svolgimento dellEducazione Terapeutica devono
indurre il diabetologo a riconsiderare non solo le proprie
modalit di interazione con il diabetico ma anche le proprie
convinzioni in ambito professionale e ancora pi nel profondo la propria formazione personale. Elementi che si sono
modellati in parallelo e sono inestricabilmente in relazione.
Allora, scrivere la propria autobiografia formativa una
maniera, e forse la pi efficace, per un riconoscimento di se
stessi, con la possibilit di ri/definizione e di ri/progettazione
della propria vita professionale.

S personale e S professionale:
la teoria professionale soggettiva
Nella formazione pedagogica si assume che il S personale e
il S professionale abbiano una storia comune. Lindividuo si
forma, magari inconsapevolmente, attraverso ripensamenti e
rielaborazioni personali dei sistemi di significato sovra-individuali con cui interagisce (la cultura scientifica e istituzionale)
una personale teoria della sua professione (S professionale), legata alla sua teoria di se stesso e del suo rapporto con
la realt (S personale).
116

Il S personale un sistema multidimensionale di rappresentazioni e significati che risulta da processi di interazione e di


interpretazione intersoggettivi tra il soggetto e il suo ambiente. Il S personale non visto come un nucleo statico e fisso
della personalit ma come risultante di un processo sociale di
costruzione durante lintero ciclo vitale.
In parallelo con il processo di formazione si sviluppa un processo personale di conoscenza, in quanto il soggetto si costruisce un sistema di significati personali in rapporto con la teoria di se stesso e del suo rapporto con la realt. Attraverso il
filtro della storia personale si formano il processo cognitivo e
la costruzione della conoscenza. In modo conscio e inconscio, siamo costruttori del nostro modo di conoscere. Il soggetto costruisce il S cognitivo e la sua conoscenza nel corso
della sua formazione personale e attraverso quello interpreta
le cose della vita quotidiana e il suo comportamento.
Pertanto, ciascuno si costruisce un insieme di conoscenze,
valori, opinioni anche sulle proprie attivit professionali o di
studio: questo insieme costituisce la teoria professionale soggettiva.
attraverso questo quadro concettuale di riferimento che il
soggetto conferisce un senso alla propria vita professionale:
la sua teoria professionale soggettiva influenza nel complesso il suo comportamento professionale. Ma, reciprocamente,
lattivit professionale costituisce un fattore importante nella
definizione del S personale. Il S personale e il S professionale hanno una storia in comune di reciproche influenze.

Lautobiografia formativa
per la consapevolezza del S
Visto che la mia teoria professionale, cio la concezione che
ho della mia professione, pu influenzare la mia pratica professionale, per operare in maniera consapevole ho necessit
di conoscere la mia teoria professionale. Ma poich questultima si formata nel corso della mia vita, se in una certa fase
117

di essa avverto lesigenza di conoscermi non ho che una via


maestra da seguire che quella di ripercorrere la mia vita formativa e cognitiva. Di narrare, cio scrivere per me a un altro,
la mia autobiografia formativa. E lautobiografia in questo
caso diventa formativa perch non solo narra della formazione ma rappresenta essa stessa formazione per lautore che la
narra. E, diventando consapevole di possedere una teoria
che identifica la sua pratica professionale, pu decidere di
progettarne un cambiamento come educatore di S stesso.
Lautobiografia un racconto retrospettivo in prosa che una
persona fa della propria esistenza, scegliendo di raccontare
ci che in un periodo pi o meno lungo della sua vita ha fatto.
Non si tratta, per, solo di elencare fatti e citare date, ma di
inserirli in una trama di significato e senso: non solo ci che si
fatto ma anche ci che si pensato, scoperto, sentito, deciso, vissuto. In questo modo il fatto diventa evento: quando
il soggetto si mette consapevolmente in relazione con i fatti
riconoscendo loro un valore e assegnando un significato.
Per lautobiografia bisogna imparare a fare memoria , cio
organizzare i fatti della propria vita in una trama secondo prospettive di senso e di significato.
Raccontarsi nellautobiografia richiede un atteggiamento di
distacco, di distanza da se stessi, mettersi in posizione meta,
come dietro uno specchio unidirezionale, per osservarsi, riflettere sui propri pensieri, sulle proprie emozioni e sulle proprie
azioni. come dover essere contemporaneamente in due luoghi: nel passato e nel presente, confrontarsi con la propria storia passata per vivere nel qui e ora e poter ri-progettarsi nel
futuro. Collegare i propri passato, presente e futuro coerentemente e con continuit.
Lanalisi che precede l'autobiografia formativa deve mettere
in luce una serie di eventi:
Chi ha giocato un ruolo significativo;
Che cosa, ovvero le esperienze che hanno avuto maggiore
importanza;
Come si sono svolte;
Perch si sono svolte.
118

Lautobiografia come formazione


La narrazione autobiografica formazione perch consente:
rappresentazione di S, che equivale a un processo di differenziazione e di mutamento, ossia di ri/significazione di
S, come identit in divenire e plurima;
consapevolezza di se stessi;
lidentit e la molteplicit. Il racconto autobiografico, collegando e intrecciando gli eventi della vita nella ricerca e attribuzione di significato e senso, consente di tracciare un
percorso di identit personale ma, daltra parte, rende anche possibile la scoperta della molteplicit: si pu riconoscere di avere posseduto molteplici identit e rintracciare molteplici autobiografie;
la parola nel racconto. Il linguaggio autobiografico ci racconta i fatti come eventi: le parole narrano i fatti quando
consentono un incontro, quando mettono in relazione la
persona nella sua interezza con gli avvenimenti della sua
vita;
consapevolezza della responsabilit del proprio percorso
di vita, come riscoperta e re/invenzione del proprio progetto di vita;
capacit di relazione con se stesso e con gli altri, in quanto
il racconto dellautobiografia sempre un racconto per
S narrato e quindi condiviso dallaltro;
auto-apprendimento, in quanto si apprende da se stessi, analizzando le esperienze della propria vita;
narrazione come generatrice di senso e significato per i
fatti della propria vita.

Lautobiografia cognitivo-formativa
nellempowerment per il diabete
Il venire a conoscenza di queste strategie formative mi ha entusiasmato. come se si fosse aperta una seconda porta nella
stanza che pensavo ormai allestremit della mia abituale resi119

denza di pediatra coinvolto nei problemi assistenziali e educativi dei bambini con diabete. Questa porta si era aperta per
caso, senza consapevole intenzione, come per un urto accidentale di un mobile appoggiato alla parete.
Lo sviluppo cognitivo-professionale si svolge in genere gradualmente, ma pu avvenire anche per svolte improvvise, per
importanti incidenti critici e fasi critiche nella storia professionale e personale (Baldassarre et al 1999).
La memoria autobiografica porta quindi alla consapevolezza
i punti nodali del proprio percorso cognitivo-formativo (incontri, eventi, esperienze, incidenti critici, passaggi, decisioni, scoperte, contesti, progetti, occasioni, coincidenze, atteggiamenti, figure significative, etc).
Al momento del racconto si affianca quello della interpretazione: nel racconto autobiografico formativo, infatti, il soggetto ri/costruisce un percorso interpretativo della propria
vita ri/chiamando, re/interpretando e ri/collegando i personali punti nodali, di volta in volta secondo una specifica prospettiva di senso e significato.
Un esempio classico di svolta nella biografia formativa
stato proprio questo evento critico professionale (lincontro
con i Colleghi sulla definizione e sulla possibilit di formazione dellquipe diabetologica allEducazione Terapeutica).
Lesplorazione delle strategie formative mi aveva portato a
conoscere il campo della psicologia culturale con luso della
narrazione e dellautobiografia formativa, che mi ha offerto la
possibilit di visitare un altro intero edificio di conoscenze,
con percorsi affascinanti di formazione personale e professionale.
Come era stato in passato tutte le volte che mi ero trovato a
confrontarmi con situazioni professionali nuove, avvertivo la
necessit di riflettere sulla mia professione.
Definito che il pediatra diabetologo che volesse formarsi
allempowerment, come filosofia di base per lEducazione
Terapeutica, avrebbe dovuto seguire questo stesso percorso
formativo, restava da decidere quale prospettiva autobiografica adottare: la biografia cognitiva (per la storia di come si
120

ritiene di aver imparato ad apprendere e a rappresentarsi il


mondo) e la biografia formativa (per la storia dellattivit di
educatore in ambito diabetologico).

La biografia cognitiva
Lapproccio cognitivo alla biografia prevede che il soggetto
sia un attivo costruttore della propria conoscenza e vede
nella conoscenza un processo continuo di ristrutturazione di
schemi rappresentazione del mondo.
Il soggetto insomma inventa o re/inventa di continuo la realt che pi utile rappresentarsi.
Ogni nuovo stimolo o nozione fa s che il soggetto ricostruisca in maniera differente la precedente rappresentazione
della cosa. Da ci discende che insegnare qualcosa a qualcuno significa indurre quella persona a modificare la visione che
gi aveva della cosa.
In questo senso la trama che organizza gli eventi di una biografia cognitiva deve consentire al soggetto di ripercorrere le
esperienze educative in cui ha sviluppato la modalit di funzionamento della mente, cio come ha appreso a compiere
operazioni astratte, ma anche come ha appreso a prendere
decisioni per risolvere i problemi pratici, interpersonali, emozionali.
Riflessioni autobiografiche:
C stata evoluzione nel mio stile di apprendimento?
In quale maniera il mio stile di apprendimento influenza il mio stile dinsegnamento?
C stata unevoluzione nel mio stile di insegnamento?
A quali stili di insegnamento o di insegnanti rispondo meglio?
A quali stili di insegnamento o di insegnanti rispondo negativamente?

121

Autoidentificazione dello stile di apprendimento


Nel colloquio autobiografico individuale si pu esplorare la
modalit soggettiva abituale di apprendimento:
costruire una gerarchia delle procedure di apprendimento
elencate nella lista seguente (dalla procedura pi attivata a
quella meno attivata);
i primi 5 processi della lista individuano il proprio stile
cognitivo ( possibile delineare diversi stili in rapporto a
compiti diversi);
i processi meno attivati indicherebbero i bisogni formativi.
Cosa succede nella mia mente quando imparo qualcosa? (Demetrio et al 1994)
A. Procedo passo passo dando subito un ordine alle
informazioni.
B. Faccio domande quando non capisco.
C. Seleziono ci che pi importante e significativo.
D. Colloco i dati entro uno schema mentale costruito
al momento.
E. Cerco di capire al pi presto se quanto apprendo
pu essere applicato alla realt pratica.
F. Rinvio ad altra occasione ci che non capisco.
G. Rinvio a un momento in cui posso approfondire da
solo o con altri largomento.
H. Faccio paragoni con altri argomenti.
I. Cerco di mandare a memoria il pi possibile.
L. Trovo collegamenti interni allargomento.
M. Mi soffermo sugli aspetti nuovi e originali.
N. Cerco di capire se largomento pu essere spiegato da qualche teoria pi generale.
O. Cerco di capire se largomento pu essere affrontato in altro modo.
P. Individuo i problemi che largomento lascia aperti.
Q. Metto in ordine gli argomenti cercando le priorit.
R. Stabilisco collegamenti tra saperi e scopro connesnessioni.
122

Apprendimento dallesperienza
Nellapprendimento concettuale acquisisco conoscenze da
varie fonti (letture o conferenze, ecc.).
Nellapprendimento esperienziale invece acquisisco conoscenze direttamente riflettendo sulle mie esperienze in un
processo circolare. La seconda forma ingloba la prima in
quanto lesperienza la totalit delle sensazioni ricevute, dei
pensieri stimolati e della loro consapevolezza relativa a un
avvenimento.
Lesperienza non in s apprendimento. Lo diventa quando
lesperienza oggetto di una riflessione che ne comprende
complessit, significato, valori e conseguenze (Cos? Come
funziona? Cosa significa? Cosa voglio? Cosa intendevo fare?)
Guardare allesperienza con la riflessione pu condurre allinsight, al vedere nuovi significati, modelli, relazioni, possibilit, presenti nellesperienza ma di cui non si aveva consapevolezza prima della riflessione.
A sua volta linsight pu portare al cambiamento di comportamenti o di nuove attitudini e convinzioni che inducono a
modifiche comportamentali. Lapprendimento esperienziale
viene favorito da interazioni educative in cui lesperienza della persona viene riconosciuta e valorizzata. Si realizza in un
clima di rispetto, verit, accettazione.
Riflessioni autobiografiche:
Quanto il mio stile dapprendimento si conforma
al modello dapprendimento esperienziale?
Quanto il mio stile di educatore viene influenzato dallapprendimento esperienziale?
Quali altri metodi dinsegnamento ho impiegato? Quanto sono risultati efficaci?
Con quale frequenza rifletto sulla mia pratica
professionale?
Quanto la riflessione sulla mia attivit professionale mi di aiuto per la mia crescita professionale e personale?
123

La biografia formativa come educatore


nellambito del diabete
Noi agiamo come siamo. Il mio S come educatore e il mio
S personale hanno una storia comune: avere consapevolezza di me come persona mi fa acquisire consapevolezza di me
come educatore diabetologo.
La visione che ho del mio ruolo di educatore nel diabete e la
mia attivit di educatore diabetologo sono in reciproca influenza. Nelleducazione, quindi, il ruolo pi importante quello
delleducatore, con la sua visione e metodo.
Chi si appresta a una attivit formativa deve riflettere su questa visione, e questo metodo, e capire come questa si sviluppata: fare memoria delle mie esperienze di educatore mi
consente di avere consapevolezza di come sono, dei miei
valori e di come ci si esprima nella mia attivit di educatore.
Raccontare la mia autobiografia mi consente di evocare in
maniera formativa gli eventi della mia esperienza di educatore.
Scrivere la mia autobiografia formativa di educatore diabetologo una maniera privilegiata di comprendere la mia attivit di educatore nel diabete.
Tracciare una autobiografia formativa significa rispondere a
una serie di domande:
1. Contesto ed esperienze culturali:
Quali relazioni o esperienze familiari?
Quanto contano i miei valori culturali?
Quali esperienze scolastiche, universitarie, professionali?
2. Esperienze educative:
Quali corsi o workshop formativi?
Quali testi o articoli scientifici?
C stata qualche figura importante di educatore?
Ci sono state esperienze significative con pazienti diabetici?
3. Pratica educativa:
Quanto largomento distruzione influenza il mio stile educativo?
124

Quanto lambiente di lavoro influenza il mio stile educativo?


Come adeguo lo stile educativo al genere di pazienti?
4. Visione educativa:
Quale considero il compito pi importante per leducatore
nel diabete?
Che cosa chiedo ai miei pazienti?
Che cosa mi chiedono i pazienti?
Come mi accorgo di aver avuto successo con i miei pazienti?
Come mi accorgo di aver avuto insuccesso?
5. Necessit formative:
Perch sono divenuto educatore nel diabete?
In quale maniera intendo crescere come educatore nel
diabete?
Che cosa penso di fare per conseguire i miei obiettivi di
educatore nel diabete?
Ci sono miei comportamenti educativi in disaccordo con la
mia visione di educatore?
Quali sono le sfide pi grandi per la mia attivit di educatore?
Raccontare la storia della mia formazione mi consente di raccontarla anche agli altri e quindi di scambiare una conoscenza inter-soggettiva. La mia autobiografia formativa come educatore mi consente di sapere chi sono stato, chi sono e cosa
posso divenire come educatore.
Riflessioni autobiografiche:
Quanto concordo con lidea che leducatore abbia
maggior impatto del metodo educativo?
Qual la mia esperienza del mio impatto educativo
sui miei pazienti?
Che influenza penso abbiano avuto sui miei pazienti i diversi metodi distruzione impiegati?
Quanto penso possa cambiare il mio approccio
educativo il ritenere che leducatore abbia maggiore
importanza del suo metodo?
125

Letture consigliate
Baldassarre V.A. , Di Gregorio L.,
Scardicchio A.C.
La vita come paradigma.
Lautobiografia come strategia di
Ricerca-Form-Azione.
Edizioni dal SUD, Modugno, Bari, 1999
un testo utilizzato nella formazione nel
corso di laurea in Scienza delleducazione. un libro per una lettura affascinante nel campo dellautobiografia formativa.
Demetrio D., Fabbri D., Ghepardi S.
Apprendere nelle organizzazioni.
Proposte per la crescita cognitiva in et
adulta.
La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994
uno dei testi maggiormente citati nel
campo della formazione attraverso il
metodo autobiografico.

126

UN RACCONTO AUTOBIOGRAFICO
FORMATIVO

Ora mi tocca fare memoria della mia esperienza di diabetologo e scrivere questo capitolo di riflessione per me pubblicamente, come in tutti i racconti in cui scrivi agli altri per te
stesso. E non il caso di chiedere quanto sia durata nel tempo questa esperienza per giudicarne la validit, sia per non
contarne gli anni e sia perch non la durata che rende valida unesperienza quanto lintensit con cui stata vissuta.
Una preliminare riflessione: mi ero convinto anni fa che non si
dovesse guardare indietro a rivedere i ricordi per non correre
il rischio di fermarsi e non voler o saper pi andare avanti.
Ora, nello scrivere questa autobiografia, voglio, invece, sperimentare le possibilit del ricordo: per ri-vivere il passato e riappropriarmi del tempo vissuto, per verificare se in esso
contenuto il mio presente, se posso svelare gli Io che sono
stato, identificare gli Io che non ho saputo ascoltare e che
posso ancora realizzare, per ri/programmare con entusiasmo
il tempo che ancora resta della mia professione. E ancora mi
conferma T.S. Eliot (Quattro quartetti):
Il tempo presente e il tempo passato
Son forse presenti entrambi nel tempo futuro,
E il tempo futuro contenuto nel tempo passato.
Se tutto il tempo eternamente presente
Tutto il tempo irredimibile.
Ma mi chiedo: da quale prospettiva devo riguardare la mia
esperienza passata di Pediatra dietologo? E perch? Con
quale finalit? Che cosa o chi mi spinge ora a fare memoria?
Lho detto allinizio di questo capitolo: il venire a conoscenza
127

di altre modalit educative mi induce a conoscere meglio me


stesso per verificare la mia possibilit o opportunit di seguire il nuovo metodo. Ma, allora, la domanda questa e riconosco che sempre la stessa: devo educare il bambino e
adolescente diabetico? E in passato ho avuto intenzione di
farlo? E come lho fatto finora?

La conoscenza del diabete infantile:


incontro con Pediatri diabetologi
Prima dellincontro con il diabete i libri non di testo mi avevano sempre attirato: i libri per linfanzia che acquistavo di
nascosto, la letteratura davanguardia e i classici presi in
biblioteca allepoca del liceo, i testi pi avanzati negli anni
universitari. Se ben ricordo, ora, mi ero formato allattenzione
alla persona umana e a seguire percorsi personali di aggiornamento a complemento dellinsegnamento ufficiale. Il ricordo iniziale non ben netto ma mi trovai costretto a interessarmi di diabete da solo e cercai lincontro con due Maestri
Pediatri diabetologi. Il primo era ed un Pediatra italiano con
il quale ho trascorso quindici giorni formativi in reparto e in
giro per congressi: ebbi il primo esempio di Pediatra dedicato al diabete del bambino, della necessit di una selettiva ed
esclusiva preparazione, della elegante presentazione dei
dati. Il secondo era ed un Pediatra diabetologo di altra
nazionalit: la frequenza della sua quipe per un mese mi
introdusse allquipe multidisciplinare, con una visione globale psico-sociale al bambino e alla sua famiglia.

Listruzione del diabetico:


incontro con il libro pedagogico
Sin dai primi contatti con la letteratura e i Maestri pediatri
diabetologi la parola educazione si manifest evidente e
persistente. Il mio interesse per i libri mi guid nella ricerca
128

del libro pedagogico che risult formativo (Guilbert 1981). Fui


ammaliato, allora, dal circuito dellintervento educativo; ai
congressi e nelle presentazioni mostravo la spirale delleducazione: definizione degli obiettivi; preparazione del programma (contenuti, metodi, mezzi); attuazione del programma; valutazione (formativa e finale); ri/definizione degli obiettivi; e di nuovo il ciclo riprende.
Nel mio reparto ci fu unapplicazione entusiasta del programma distruzione. Ma i bambini diabetici divenivano sempre
pi numerosi, attirati anche dallAssociazione Regionale per
Giovani Diabetici, tanto che ci sentivamo costretti a procurarci degli strumenti educativi che consentissero di istruire tutti i
diabetici. Era allora il tempo dintroduzione dei personal
computer che potevano consentire unistruzione pi standardizzata oltre che interessare il bambino diabetico.
Nellambito di un progetto regionale per lassistenza al bambino diabetico fu possibile coinvolgere la cattedra di Pedagogia Sperimentale della locale Universit per utilizzare i
metodi distruzione pi adatti al bambino: scoprimmo listruzione programmata (Gavini, 1974), che consente a ogni bambino di apprendere secondo il proprio ritmo e il mastery learning (Block, 1980), con la valutazione formativa per un recupero puntuale delle nozioni non ancora padroneggiate. Il
tutto in un pacchetto distruzione completo di programmi
computerizzati e di corrispondenti manualetti per lo studio
individuale in reparto e il rinforzo con lo studio domiciliare.
Contemporaneamente tenevamo i primi gruppi educativi e di
supporto per bambini, adolescenti e genitori.
Il gruppo motiva i suoi componenti allacquisizione di conoscenze, con esperienza di comportamenti, fornendo sostegno, scambio di idee e soluzioni.
Ci rendemmo conto che bisognava considerare del gruppo la
sua struttura e le fasi della sua vita, cos come il ruolo e le
caratteristiche del conduttore e la necessit di stabilire unadeguata agenda di contenuti e di svolgimento.

129

Il metodo comportamentale per migliorare


la compliance del bambino diabetico
Nello stesso periodo venivano introdotte nuove insuline e il
rivoluzionario metodo dellautomonitoraggio della glicemia
a domicilio. La parola che circolava e si imponeva era la
compliance, ossia la necessit che il diabetico seguisse le
indicazioni del Medico.
Ma unaltra parola cominciava a far capolino: autogestione
da parte del paziente, sempre per nellambito dello schema terapeutico prescritto dal Diabetologo. E cos il centro
diabetologico doveva sviluppare metodi dintervento in
grado di migliorare la compliance, con la necessit di disporre di questionari di valutazione per poterne documentare i
reali miglioramenti.
Ci imbattemmo allora in un altro manuale di fondamentale
importanza per noi: quello che ci fece conoscere e mettere
in pratica il metodo comportamentale in ambito diabetologico (Etzwiler, 1978) con le sue strategie di automonitoraggio, controllo degli stimoli ambientali, rinforzo e feedback.
Ci convincemmo, allora, che i comportamenti potevano essere autoregistrati, analizzati e migliorati con adeguate procedure di rinforzo (stabilire obiettivi realizzabili; partecipazione nello stabilire gli obiettivi; attenzione e approvazione
delle performance coronate da successo; analisi ed eliminazione delle barriere; contratto terapeutico con incentivi motivanti).

La famiglia del bambino diabetico


e lapproccio familiare
Nel complesso il livello di conoscenze e la compliance dei
nostri bambini diabetici migliorava ma ci disorientavano le
periodiche ricadute o il mancato miglioramento della compliance, specie negli adolescenti, per i quali sempre pi si
temeva la difficolt o la resistenza allautogestione.
130

Cosa si poteva fare oltre a istruirli e a mettere in pratica le


strategie comportamentali?
Cerano aspetti del sistema diabete cui non avevamo prestato adeguata attenzione? Altre parole chiedevano rinnovata
attenzione e consapevolezza: sistema bambino-famiglia e
contesto terapeutico.
In effetti, bambino e adolescente non erano i soli protagonisti ma condividevano con i genitori compiti e responsabilit.
Fu, pertanto, un obbligo per noi quello di porre attenzione
alle relazioni familiari e cercare di adeguarle alle esigenze
della gestione del diabete. Cos avvenne lintroduzione e ladattamento della terapia familiare nella nostra pratica terapeutica. Nel senso che un miglioramento della compliance
poteva verificarsi solo con il coinvolgimento non solo del
bambino ma dellintera famiglia, che doveva adeguare comportamenti, relazioni e attitudini.

Il sistema terapeutico bambino-famiglia-quipe:


lapproccio sistemico
Certamente con lattenzione alle relazioni familiari il nostro
campo di osservazione e di azione si era enormemente allargato, ma le esperienze di intervento familiare e levoluzione
del campo stesso della terapia familiare ci fecero ancora una
volta riflettere per aggiustare la rotta.
Si correva il rischio di voler imporre alla famiglia il nostro
modello di funzionamento familiare, sia pur sempre con lintento di ottenere un miglioramento del controllo glicemico.
In effetti le reazioni della famiglia a volte erano evidenti e ci
lasciavano turbati.
Parallelamente, anche nel campo della terapia familiare
cominciavano a contrapporsi la terapia familiare strutturale e
la terapia familiare sistemica. Nella prima, il terapeuta osservava il modello funzionale della famiglia disfunzionale e cercava di imporle un ben preciso modello teorico ottimale di
funzionamento familiare.
131

La terapia familiare sistemica, invece, chiedeva di spostare


lattenzione a un livello di osservazione ancora pi elevato ed
esterno: non soltanto alle relazioni intra-familari ma anche
alle relazioni tra quipe e famiglia.
Lintervento terapeutico, allora, non poteva consistere nelladeguare il funzionamento familiare al modello teorico del
terapeuta, ma in una interazione con lquipe terapeutica ( a
sua volta osservata e guidata da una seconda quipe) che
consentisse alla famiglia di trovare il suo modello pi adeguato di funzionamento.
Non pi, per il terapeuta, modelli e schemi terapeutici strutturali, ma curiosit nellesplorazione di comportamenti e intenzioni con attenzione al linguaggio usato e ai suoi significati, nellintento di ricerca, con diabetico e famiglia, di nuovi
significati pi funzionali al miglioramento della qualit della
vita e del controllo metabolico.

La conversazione terapeutica: attenzione al linguaggio


Ritornava, dunque, alla nostra attenzione limportanza della
comunicazione in ambito educativo, non solo per fornire
informazioni ma ora anche come strumento terapeutico. Per
ripercorrere il nostro modo di intendere e usare la comunicazione, descriverei a questo punto cos la sequenza dei
significati attribuiti. Dalla comunicazione per informare alla
comunicazione per formare; dalla comunicazione unidirezionale a quella bi-direzionale o circolare; fino alla comunicazione come relazione sociale, per la comprensione dei bisogni-problemi del diabetico, come disponibilit a spartire
sapere e sapere fare.
Ora, in pi, eravamo invitati a scoprire nella comunicazione
una sua ulteriore possibilit come strumento terapeutico
basato sul linguaggio.
Lo studio, come in passato, di libri formativi (Gilligan S., Price
R., 1993), ci consent di comprendere e sviluppare interventi
di conversazione terapeutica.
132

E cos i miei incontri con bambini e adolescenti con diabete


e le loro famiglie, che si erano fatti pi rari per compiti e ruoli
diversi assunti, erano tuttavia diventati pi significativi nellambito di una conversazione terapeutica, non solo come
momento di accettazione ma anche di messa in discussione
di rigide inquadrature della condizione diabetica, della sua
autogestione e dellintervento terapeutico.

Verso il racconto autobiografico per lempowerment


Poi aveva fatto seguito un periodo di mio relativo ritiro.
Anche perch rimaneva senza risposta la domanda che mi
ponevo: la conversazione terapeutica poteva essere generalizzata o era da riservarsi a un ristretto e sensibile nucleo di
terapeuti?
Nel frattempo, per rimanere nel campo della Diabetologia
Pediatrica, lesigenza di una riconsiderazione delleducazione
del bambino diabetico verso un pi efficace intervento formativo era altrettanto avvertita ed era bene esemplificata
dalla richiesta di precisazione e chiarimenti sulla Educazione
Terapeutica.
sopraggiunto, allora, quellinvito di gennaio che mi ha ricoinvolto nellacquisizione di una sempre maggiore consapevolezza nelleducazione del bambino diabetico.
Ora non mi resta che seguire linvito a seguire il bandolo trovato della matassa:
la formazione autobiografica delleducatore per una consapevolezza della propria visione professionale;
lattenzione al racconto del diabete reale che ci porta lo
stesso paziente;
la sua educazione allempowerment nellambito della strategia integrata educativo-terapeutica.
Siamo, dunque, ritornati al momento dinizio di questa autobiografia per ricominciare lesplorazione come ho fatto
scrivendo queste parole in questo libro.
133

La sequenza di parole chiave di questa autobiografia


formativa:
1.
2.
3.
4.
5.

Diabete giovanile
Bambino diabetico
Bambino diabetico e famiglia
Bambino con diabete
Bambino che racconta il suo diabete.

La

sequenza dei metodi educativi e formativi incontrati:


Istruzione del bambino diabetico
Compliance e metodo comportamentale
Approccio terapeutico familiare
Conversazione terapeutica
Empowerment: formazione autobiografica e racconto
del diabete
Educazione terapeutica.

134

QUASI UNA CONCLUSIONE

Nessuna narrazione mai veramente conclusa, se non nella


mente di chi la ascolta, e non pu che trasformarla ed
esserne trasformato. Ma anche vero che nessuna storia
priva di una formale conclusione, happy ending, witz, tragico epilogo o morale della favola che sia.
Nel volgere di poche decine di pagine questo volumetto
partito dalla riflessione di J. Bruner sul pensiero narrativo e
sul modo attraverso il quale i significati vengono colti, scambiati e trasformati, fino alla concreta quotidianit di una visita in un Centro di Diabetologia.
Una discontinuit solo apparente.
Dopo liniziale disorientamento, il terapeuta, quel particolare tipo di terapeuta che il Diabetologo avr sicuramente
intuito quali ricadute il pensiero di Bruner pu avere sul suo
lavoro. Il Diabetologo non pu curare se non attraverso il
paziente, non terapeuta se non negozia i significati che il
suo paziente assegna alle cose.
Inserire in questo quadro il concetto, apparentemente letterario, di autobiografia meno intuitivo. Non un caso
che solo avanti nella sua riflessione, la psicologia culturale
abbia trattato questo tema. Ma in fondo lautobiografia sta
alla psicologia culturale come il sogno sta alla psicoanalisi.
Chi fa autobiografia e lo si fa molto pi spesso di quanto
non si creda, basta ascoltare le conversazioni dei pazienti in
sala dattesa si riconosce in forma di storia. Cuore di ogni
sincera autobiografia la continua rielaborazione dei significati dati alle cose: per questo lanamnesi ne una paren135

te cos lontana. Non solo perch lanamnesi quantitativa di


oggi interessata ai dati, ma soprattutto perch ignora
come lo stesso dato (il diabete per esempio) sia soggetto a
continue e diverse donazioni di senso.
Sono queste donazioni di senso, sul cibo, sul corpo, sulla
malattia, sulla terapia, sulla glicemia cos come sorgono,
sono condivise, scambiate e rielaborate a determinare in
ultima analisi lautocontrollo glicemico. Lautobiografia la
sequenza di queste donazioni di senso, anzi la spiegazione (narrativa e non logica) delluniverso di significati nel
quale il paziente vive in quel momento.
Si parla in queste pagine di autobiografia formativa. Ma
ogni vera autobiografia formativa. Chi racconta di se stesso (se non mente) si trover al termine del racconto differente, e lo stesso vale per chi ascolta (se davvero ascolta).
Lascolto il postulato essenziale e proprio perch tale non
esplicito di tutte le metodologie presentate nella seconda
sezione di questo libro. Una presentazione che non ha
rinunciato a entrare nel dettaglio, non perch si ritiene che
la singola metodologia possa essere utilizzata come tale
nella prassi dei Centri di Diabetologia, ma perch lo stimolo pu nascondersi nel dettaglio o perch, si veda il capitolo sulla conversazione autobiografica, la metodologia presentata non fa che formalizzare quanto gi molti terapeuti
fanno, magari occasionalmente.
La conversazione terapeutica rappresenta una forma di
ascolto estremamente attivo e reattivo. Essa prende le
mosse dal counseling ma condivide e prefigura soprattutto
nella forma che ha assunto in Diabetologia Pediatrica, molti
aspetti della psicologia culturale, soprattutto lidea dellincontro fra terapeuta e paziente come scambio di significati,
come rielaborazione comune della storia fornita dal
paziente. Una metodologia che nata in un contesto
pediatrico ma potrebbe risultare utile anche nellambito
della Diabetologia delladulto laddove il processo di empowerment bloccato da donazioni di senso inadeguate (li136

dea del diabete come problema per esempio). Un simile


discorso vale per la Narrative Therapy: un approccio radicale che deve sicuramente essere adattato alla realt del diabete, ma che parte da una considerazione che alla base di
tutti gli approcci innovativi al dialogo col paziente: la riduzione del senso di colpa e dei vissuti negativi che il paziente
associa alla patologia e soprattutto alla terapia. Smettendo
di pensare in termini di compliance e parlando invece di
adherence, la comunit dei Diabetologi ha intrapreso un
primo passo in questa direzione. Lidea di criminalizzare la
malattia potrebbe essere presa in considerazione nei casi in
cui il terapeuta interviene su una situazione familiare (e questo vale sia per i bambini sia per gli anziani) nella quale il diabete ha dato origine a complessi sistemi di relazione familiare, e lo stesso vale per la cautela che i teorici della terapia
narrativa pongono nel suggerire al paziente degli obiettivi,
preferendo addirittura frenare per poi fingere grande stupore una volta che questi siano raggiunti.
Proporre al paziente di redigere una autobiografia pu
apparire una richiesta sproporzionata o fuori luogo nel contesto della relazione di cura. Eppure la Diabetologia un
ambito che parte avvantaggiato in questo senso; il paziente abituato a redigere un diario seppure quantitativo e
soprattutto sa che loggetto dellincontro periodico con il
terapeuta non un sintomo quanto la sua vita, il recente
passato liofilizzato nel dato dellemoglobina glicata o riletto in fast forward sul diario glicemico e soprattutto il suo
futuro. Il Diabetologo lunico professionista con il quale
una persona si trova abitualmente a discutere il suo passato recente e il suo futuro. una base di partenza importante sulla quale non appare prima facie impossibile chiedere
un ulteriore sforzo di formalizzazione. Il vincolo del tempo
che il Diabetologo pu dedicare al paziente, soprattutto
nel contesto della Diabetologia delladulto, esiste ma
superabile, sia circoscrivendo lambito autobiografico (per
esempio al rapporto con il cibo o con la misurazione della
137

glicemia o con linsulina) sia utilizzando questo approccio


solo con alcuni pazienti.
Questo libro sarebbe stato monco se un Diabetologo di
lunga esperienza e finissima sensibilit come Francesco
Dammacco non avesse accettato di redigere gli ultimi due
capitoli. Dammacco parte dal concetto di empowerment
nel quale vede il risultato di un lavoro che terapeuta e
paziente devono compiere. In questo processo non si tratta solo di modificare gli atteggiamenti del paziente nei confronti della patologia ma anche quelli del terapeuta. La formazione del Medico internista crea nel terapeuta la tendenza a mettere al centro della relazione un diabete astratto che emerge s dai dati quantitativi e clinici ma che non
appare come tale, letteralmente non esiste agli occhi del
paziente. Al centro della relazione va messo invece il diabete cos come vissuto dal paziente e dal suo contesto. La
seconda deriva che rischia di ostacolare il lavoro del terapeuta labitudine a pensare e agire al posto del paziente e non con il o meglio attraverso il paziente stesso.
estremamente significativo che quasi ogni capoverso del
capitolo Il modello dellempowerment sia seguito da alcuni
spunti di autoanalisi. Queste riflessioni andrebbero effettuate prima e dopo ogni incontro in un processo di miglioramento continuo nel quale significativamente i ruoli paiono invertirsi e il paziente chiamato (esplicitamente o
implicitamente attraverso le sue reazioni) a commentare
lapproccio adottato dal terapeuta.
Nel capitolo Lavorare sul racconto Dammacco propone una
sua sintesi di molti degli spunti emersi nelle pagine di questo libro attraverso una riflessione sul racconto del diabete
non come momento della terapia ma come filigrana di tutta
la relazione terapeutica. Non deve essere un racconto stereotipato redatto con tempi remoti, ma una narrazione che
viene continuamente adeguata, arricchita di punti di vista e
significati condivisi da terapeuta e paziente. Quando
Dammacco afferma che il paziente esce dallincontro con
138

in mano non una prescrizione ma un nuovo racconto fa


insieme una provocazione e racconta una profonda verit,
una frase che da sola vale forse tutte le pagine di questo
libro.
Perch la provocazione sia raccolta dalla comunit dei colleghi terapeuti, il capitolo propone un protocollo il quale
continuamente intervallato da spunti di autoanalisi mai banali e spesso critici, probabilmente dolorosi da raccogliere.
Queste piccole riflessioni autobiografiche che costellano
lintervento di Dammacco non possono nascere dal nulla.
Chi leggendo queste pagine si fosse provato a raccoglierne rispondendo ad alcune delle richieste di insight si sar
trovato sicuramente in difficolt. Il terapeuta abituato a
fare lui le domande. Se si pone degli interrogativi, essi
riguardano questioni oggettive, scientifiche. difficile mettersi in questione cos ex abrupto. Occorre un allenamento,
quella sorta di esercizio spirituale che il racconto autobiografico, racconto che Dammacco consiglia di stendere a
tutti i terapeuti, limitandosi magari solamente allaspetto
formativo. Cosa ho imparato, dove, da chi? Perch proprio
quel concetto, perch proprio in quel momento mi ha colpito? E quando mi apparso necessario cambiarlo o adeguarlo? Queste sono le domande alle quali onestamente lo
stesso Dammacco risponde in prima persona fornendo un
esempio di autobiografia che formativa nei due sensi dellaggettivo, sia in quanto relativa alla formazione (inutile
trattare altri temi) sia in quanto capace di creare formazione. Perch chi come i Diabetologi ha scoperto che essere
terapeuta significa anche (e soprattutto nel caso del diabete) aiutare le persone a cambiare, ad assumere una nuova
forma pu sentire lesigenza di cambiare egli stesso e di
scoprire in quali situazioni, a fronte di quali motivazioni questa evoluzione ha avuto luogo.

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00056980301 1207

Francesco Dammacco, laurea in medicina e master di formazione,


dirige il Centro di diabetologia pediatrica dellospedale pediatrico
Giovanni XXIII di Bari. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni
e interventi su temi legati alla formazione del paziente con il
diabete e al dialogo fra paziente e Team.
Alberto Pattono, si laureato in filosofia teoretica alluniversit
di Milano. Giornalista professionista, collabora da molti anni
con Roche Diagnostics quale direttore editoriale di Modus
e di alcuni siti web.

Francesco Dammacco, Alberto Pattono


Autobiografia e pensiero narrativo

Nel dialogo con il paziente cronico, il terapeuta non pu contare


solo sul pensiero logico-scientifico. Ottenere lempowerment,
significa anche lavorare insieme sulla descrizione autobiografica che il paziente fa di se stesso e del suo diabete utilizzando gli strumenti del pensiero narrativo.
Questo libro riassume gli approcci teorici elaborati negli
ultimi due decenni dalla Psicologia culturale, propone alcune metodologie sviluppate nellambito di diverse
scienze umane e approfondisce un approccio formativo e
autoformativo sperimentato nellambito della Diabetologia
pediatrica. Il tutto con lobiettivo di stimolare cos come
avvenuto con lEducazione Terapeutica la riflessione fra i
Team diabetologici italiani.

Francesco Dammacco, Alberto Pattono

Autobiografia
e pensiero narrativo

Lempowerment del paziente diabetico

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