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RELAZIONI

La scrittura filosofica
Carlo Sini

Il tema e il problema della scrittura filosofica sono al centro della riflessione


contemporanea. Fu anzitutto Husserl a proporre considerazioni nuove e originali
sul rapporto tra la scrittura e il sedimentarsi del sapere filosofico e scientifico nella tradizione; poi fu Heidegger a svolgere ulteriori riflessioni sul rapporto tra la
scrittura, la grammatica e il pensiero, riprendendo anche le geniali intuizioni di
Nietzsche in proposito. Infine stato, tra altri, Derrida a fare della scrittura il centro di interesse del suo lavoro. Pu essere motivo di stupore notare che un tema
che oggi appare centrale e decisivo per la comprensione della episteme occidentale sia rimasto largamente ignorato o quanto meno trascurato attraverso i secoli.
Nonostante i contributi di Vico, di Hegel e di pochi altri, di fatto la scrittura non
ha attratto lattenzione dei filosofi in modo minimamente paragonabile a quanto
accade oggi.
Naturalmente il problema complesso e presenta molti aspetti. Per esempio
pu assumere la forma di una domanda relativa alle differenze tra la scrittura filosofica e quella letteraria, scritture che spesso si intrecciano in un medesimo autore e che nondimeno presentano caratteristiche tra loro differenziate se non addirittura antagonistiche. Come definire queste differenze? Ecco un primo problema, tuttora oscuro e irrisolto. Ma per restare alla scrittura filosofica, quali
differenze sostanziali (posto che siano tali) sono da ravvisarsi fra il trattato, il dialogo, il commento, laforisma? E come intendere, per esempio, la tipica scrittura
hegeliana, che per molti versi propone un nuovo stile nella scrittura del pensiero?
Forse che la scrittura dialettica solo un abito esteriore inessenziale, o invece si
gioca in essa tutto il senso della verit speculativa come Hegel la intende? Cosa
dire poi della scrittura nietzscheana (sulla quale esistono oggi contributi specifici
di buon livello) che per molti versi sembra, ancora pi di quella kierkegaardiana,
annunciare la fine di ogni verit speculativa? In Kierkegaard parlano ancora dei
soggetti, anche se dei soggetti ambigui: chi Kierkegaard? Don Giovanni? il
padre di famiglia? entrambi? e cos via. Ma nella scrittura nietzscheana si arriva a una vera e propria dissoluzione della stessa nozione e funzione del soggetto:
chi parla negli aforismi nietzscheani? E infine, cosa pensare della differenza e della unit tra scrittura pensante e scrittura poetante in Heidegger?
Si tratta di domande di grande rilievo, che qui dobbiamo accontentarci di avere proposto allattenzione e alla meditazione di tutti. Mi concentrer invece su un

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tema che ha un riferimento diretto col mio personale lavoro di ricerca. Possiamo
introdurci a esso con una domanda: quando parliamo della scrittura e della riflessione sulla scrittura entro la meditazione filosofica, di quale scrittura propriamente
parliamo e di quale invece facciamo un uso per cos dire critico? In altri termini:
con quale diritto, cio a partire da quale legittimo uso della scrittura, ne parliamo?
E evidente che se noi ci limitiamo ad assumere a tema le opinioni dei filosofi sul la scrittura, la loro stessa scrittura (e la nostra) restano, come diceva Husserl, non
tematiche, vale a dire ignorate, misconosciute e incomprese. Non allora pi utile e pi opportuno interrogare la tradizione filosofica e i filosofi a partire dalla
scrittura e non da quello che la tradizione e i filosofi pensano della scrittura? Naturalmente la questione, come si gi accennato, non pu neppure chiudersi qui,
perch anche noi che solleviamo tali domande siamo evidentemente in questione
con la nostra scrittura. Come si vede, la questione della scrittura ha una natura avvolgente e coinvolgente; ci che sono infatti solito sostenere che la scrittura stessa in qualche modo responsabile della origine di ci che noi chiamiamo filosofia e del modo in cui essa si praticata attraverso i secoli, sicch la pratica della
scrittura circuisce e letteralmente circoscrive lemergenza e poi lo sviluppo della
verit filosofica.
Come dar conto di tale tesi nel breve spazio di una relazione? Essa ha un evidente rapporto con ci che oggi chiamiamo didattica, perch proprio la prima
riflessione sulla scrittura (quella famosa di Platone) emergeva in uno col problema di come e a chi si dovesse insegnare la filosofia e di come fosse opportuno apprenderla. Quindi sulla nozione di scrittura, che fa da guida ai presenti seminari,
si possono svolgere utili relazioni e riflessioni di tipo storico e di tipo erudito, come puntualmente avverr; ma perch ci sia produttivo ai fini delle domande di
fondo che devono guidare la nostra attivit di docenti anche necessario tentare
di fornire un quadro teorico generale, ed di questo appunto che mi far carico
qui.
C poi un secondo aspetto che, a mio avviso, non va dimenticato. Si soliti
difendere la legittimit e lopportunit dellinsegnamento della filosofia nelle scuole secondarie, magari e addirittura rilanciandolo in possibili estensioni di ordini e
gradi contro le ricorrenti tentazioni a eliminarlo del tutto, appellandosi ai contenuti certamente profondi e umanisticamente universali della tradizione storica
e storiografica della filosofia: argomento di notevole peso per il carattere formativo e per lalto valore spirituale e critico che non si pu negare alla disciplina filosofica. Tuttavia mi sembra ancora pi pregnante largomento che riuscisse a mostrare come il gesto di scrittura della verit che ha costituito la tradizione filosofica stia poi alla base della intera enciclopedia dei saperi che caratterizzano la
cultura dellOccidente: tutte le discipline allora, sia quelle umanistiche sia quelle
scientifiche, vi rientrano e, in vari modi e misure, ne dipendono, sicch linse-

gnamento di tali discipline, sfornito di una adeguata consapevolezza filosofica della sua base originativa, rischierebbe di ridursi a una dogmatica e meramente specialistica trasmissione di nozioni, di informazioni e di tecniche operative; problema che non a caso assilla da tempo lintera produzione del sapere a tutti i livelli,
con conseguenze problematiche e aporetiche ben note.
Propongo dunque di guardare la filosofia dal punto di vista della scrittura, il
che comporta una sorta di passo indietro rispetto alla filosofia e alla cultura occidentale in genere; passo, labbiamo gi notato, a sua volta problematico. Ma di
quale scrittura parliamo? E perch proprio questa scrittura un tema cos delicato, o decisivo, che oggi si impone allattenzione di molti? In realt possiamo richiamarci a un cammino di studi che ha ormai pi di cinquantanni e che ha prodotto un buon numero di saggi e di opere per certi versi largamente noti e per sovente accompagnati da uninformazione superficiale o fuorviante. Credo che sia
utile farne almeno un cenno.
Questi studi dedicati alla scrittura non sono partiti dalla filosofia; essi sono
sorti dapprima nellambito degli sudi dedicati alla questione omerica. Si allora
sottolineato e mostrato che i due poemi famosi che vanno sotto il nome di Omero sono in realt il coagulo di una grande tradizione e di un multiforme panorama
comprensibili solo a partire dalla pratica poetica degli aedi: qui quella tradizione
ha la sua matrice e il suo orizzonte di senso. Si trattava, come si sa, di una pratica orale, fondata su quella memoria creativa, piuttosto che passivamente riproduttiva, che Eric Havelock ha dimostrato essere una caratteristica saliente delle
cosiddette culture delloralit. Questa tradizione si arrest nel momento in cui Pisistrato diede incarico di trascrivere i due filoni principali o pi fortunati di essa:
lIliade e lOdissea, appunto. Siamo allora in presenza di qualcosa che potrebbe
assomigliarsi alla lava solidificata di un vulcano. Ci che un tempo era mobile e
in un continuo divenire creativo si deposit nellalfabeto, quando questo mirabile strumento inventato dai greci venne assumendo una certa diffusione.
Quello che accadde con questa decisione un fenomeno complesso, molto
difficile da valutare in tutte le sue conseguenze. Nel momento in cui i poemi epici non sono pi un prodotto della libera fantasia creatrice, essi nel contempo si
sganciano dalla concreta molteplicit di pratiche di vita e di parola che li accompagnavano e li alimentavano; erano luoghi di formazione del costume greco, della sapienza pratica sociale, della identit memoriale e divengono invece un libro,
come diremmo oggi, un codice o pi esattamente un testo: qualcosa di trascritto
e di fissato che assume il corpo delle lettere, abbandonando il corpo della oralit
vivente e delle consuetudini di vita originarie entro le quali esercitavano il loro
senso peculiare. Da questo momento comincia in realt la nostra cultura, la nostra
civilt. Una cultura che ben presto potr parlare letterariamente, in base a categorie estetiche, storiche, logiche, scientifiche, filologiche; categorie che non avreb-

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bero avuto senso alcuno prima di questa rivoluzione introdotta dallalfabeto e applicata a Omero. La poesia degli aedi non ha infatti niente a che fare con la letteratura o con lestetica, meno che meno con la storia. La sua trascrizione d luogo
a unaltra cosa, dalla cui soglia noi ripetiamo la nostra mentalit e verit. E naturale che questa soglia resti largamente inavvertita, dato che ne siamo i prodotti.
Come diceva Heidegger, il pi vicino il pi difficile da pensare.
Pensare questa soglia comporta notevoli ambiguit. La cosiddetta scuola degli oralisti, illustrata inizialmente da studiosi inglesi e canadesi, ci ha reso familiare la distinzione appunto tra oralit e scrittura: la scrittura alfabetica e le conseguenze che ne derivano scandiscono un passaggio epocale tra due tipi differenti di umanit e di cultura. E evidente per che si tratta di unaffermazione che
esige, oltre alle competenze filologiche e archeologiche, la capacit di riflettere
filosoficamente sul senso di ci che stiamo dicendo. Questo tipo di riflessione
stata finora del tutto carente o assente. Basti considerare che la distinzione oralit/scrittura non pu essere assunta in modo realistico o storicistico: pur
sempre lumanit della scrittura che definisce orali le culture che lhanno preceduta (esse non potevano ovviamente considerarsi e vedersi in questo modo);
per differenza da s, dal proprio sguardo veritativo educato dalla scrittura, che noi
ci riportiamo allindietro, sicch la distinzione oralit/scrittura ancora un prodotto e una conseguenza della scrittura.
Qualcosa di analogo accaduto nelle scienze antropologiche ed etnologiche.
Linteresse teorico degli europei, tra 7OO e 8OO, verso le culture altre,
loriente, i selvaggi, ecc. si infine scontrato con un paradosso costitutivo, di
cui per esempio Lvi-Strauss ha avuto se non altro qualche sentore. Studiare
scientificamente le altre culture equivale a trascriverle secondo modalit e criteri che sono loro totalmente estranei. La verit delluomo che pretendiamo di
dire esprime piuttosto la nostra verit e la nostra modalit di essere umani. Il medesimo accade con la registrazione e lo studio dei miti (si veda in proposito il bel
libro di Marcel Detienne, Linvenzione della mitologia). Si giunge pertanto al nodo paradossale secondo il quale spiegare una cultura altra equivale a fallirne
completamente la comprensione; ma la comprensione esigerebbe a sua volta il
varcare la soglia della nostra differenza (ove mai fosse possibile) e assimilarci in
toto alla cultura che stiamo guardando. Letnologo abbandona i suoi strumenti e
si fa selvaggio: sposa una ragazza del luogo, mette su tenda e famiglia e condivide la vita dei nuovi fratelli; col che ogni interesse etnologico e scientifico vien
meno, perde di senso nel nuovo contesto. Basti questo accenno per constatare
quanto poco critico appare lintento di introdurre nella scuola le cosiddette
scienze umane, svincolate da ogni problema di senso filosofico. Quale mai vantaggio avremmo di riempire la testa dei nostri giovani di un puro nozionismo, per
di pi improvvisato e superficiale, sociologico, antropologico, psicologico, sosti-

tuendo la filosofia con queste supposte scienze, come qualcuno da tempo vorrebbe? Questo preteso ammodernamento della scuola fallisce totalmente la comprensione del luogo dei nostri problemi davvero attuali; il fatto che questa auspicata introduzione nella scuola di una cultura sedicente scientifica sia patrocinata anche da colleghi che si ritengono filosofi per me motivo di desolante
stupore. Di certo un segno di come il dogmatismo abiti anche le menti che si credono intenzionate verso il rinnovamento, lo svecchiamento e altre consimili
formule. La cultura non si fa per etichette e per partizioni disciplinari, che poi
la prima lezione che si dovrebbe apprendere dalla filosofia.
Torniamo a noi. Eun fatto che, varcata la soglia della scrittura alfabetica, si
sono determinate delle differenze molto significative. Accenner molto in generale ad alcune di esse. Anzitutto lesercizio della memoria, cui gi si fatto cenno. La memoria di un uomo delloralit non la nostra. Il che mostra che lo stesso concetto di cultura (e invero ogni concetto) va molto relativizzato. Non
vero che esista una cosiddetta cultura universale e una conseguente storia universale. Questo modo di vedere il frutto della manipolazione che la cultura occidentale ha compiuto nei confronti di tutte le altre umanit. Il fenomeno della cultura connesso alla scrittura alfabetica; le sue origini sono da ravvisarsi nella et
della sofistica. Parlare di storia della cultura cinese o egiziana antica, cos come
parlare di una storia della filosofia cinese o indiana una pura fantasia o finzione
editoriale.
Dicevamo che la memoria orale creativa, non ripetitiva. Col che non stiamo
dicendo che noi non siamo creativi: lo siamo in un altro modo e magari anche di
pi. Il fatto che il messaggio puramente orale pu essere colto solo attraverso
una immedesimazione e una incorporazione. Naturalmente la pratica della cultura orale non mai venuta meno; anche noi la esercitiamo, per esempio quando
parliamo degli eventi privati della nostra famiglia: in molti casi risaliamo tuttal
pi al bisnonno e l ci fermiamo. Della nostra famiglia raccontiamo in sostanza
miti, sebbene presi in una mentalit altamente alfabetizzata e quindi in un senso anche diverso da come il racconto mitico viveva in una societ orale. Se uno
di noi ha cinque fratelli, si rende immediatamente conto di ci che voglio dire:
ognuno racconta i medesimi episodi e le stesse memorie in maniera molto personale, con sensibili differenze dagli altri fratelli. Questi racconti vaghi e ricchi, come diciamo, di varianti nondimeno legano i membri consanguinei nel modo pi
saldo; una registrazione scritta non otterrebbe il medesimo effetto. Lidentit personale che si ripete dalla oralit differente da quella che si pu ricavare dalla
scrittura.
Il fatto che un uomo delloralit fronteggia il messaggio in maniera diversa
da come lo fronteggia un uomo della scrittura e ci per la natura stessa del messaggio orale. Anche in questo momento ne stiamo facendo inconsapevole espe-

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rienza. Voglio dire che ognuno di voi, per intendere il senso di ci che sto dicendo, deve far corpo con la fascinazione che implicita nel discorso affidato alla voce e allorecchio. Ognuno deve seguirmi con una certa passivit patica (non apatica). E necessario anzitutto condividere la passione del discorso e io stesso mi
aiuto con tutti i mezzi della retorica e della mimica che il buon gusto rende frequentabili. Solo identificandosi con colui che parla possibile cogliere il messaggio fuggevole della parola, conservandone ci che pi ci ha colpito e rielaborandolo a nostro modo, cio facendolo nostro. Ecos che il messaggio circola
anonimamente di bocca in bocca, praticamente senza autore; esso trasmette non
concetti, ma modelli di comportamento ed esempi la cui autorit non di tipo critico. Un messaggio ha valore, dice il vero, per il fatto che stato infinite volte ripetuto; il che significa: salvato dal nulla per limmedesimazione che ha saputo suscitare. Di qui la tipica convinzione degli antichi, per noi cos difficile da condividere, secondo la quale il fatto stesso della tradizione e dellantichit a garantire
del valore di verit e dellautorit di un messaggio. Sintende poi che la memoria
orale fortemente aiutata dalluso poetico del ritmo e della musica: la poesia il
principale strumento di conservazione della memoria: fenomeno che non ha nulla di estetico, che obbedisce a esigenze di continuit, di trasmissione dei valori pi
importanti per una comunit, e che insieme ha i limiti della sua natura. Il verso
poetico improvvisato oralmente, secondo formulari appresi a memoria e accortamente ripetuti per stare alle regole della composizione poetica e produrre gli effetti patici desiderati, non di certo in grado di favorire ragionamenti sillogistici
e deduzioni logiche.
Chi invece legge un testo scritto esercita una funzione totalmente differente
della figura dellesser soggetto: altro soggetto e altra anima, e anzi solo ora diviene propriamente sensato parlare di soggetto e di anima, perch lanima dellOccidente lanima della grammatica ed lanima della filosofia di Platone.
Non stiamo con questo negando a tutti gli altri uomini lo statuto del soggetto e la
presenza dellanima; stiamo dicendo che queste nozioni emergono entro la pratica della scrittura e della lettura alfabetica e perci non sono molto congrue a descrivere lumanit di un uomo delloralit. Una comunit della scrittura e della lettura, una comunit che cerca la sua verit nel messaggio scritto e che di continuo
affida alla scrittura la continuit del proprio senso, vive diversamente, dunque, la
figura del soggetto. Il messaggio scritto consente, e anzi esige, una distacco critico nella ricezione del suo contenuto; esige e favorisce riflessioni e confronti, calcoli e affondi analitici. Equi che si forgia il senso della oggettivit, della coerenza e limportanza della non contraddizione; in questo alveo che un po alla
volta si educa la mente logica. Oggi fuori discussione il fatto che unumanit
priva di scrittura alfabetica non potrebbe mai intraprendere la strada della logica
e della scienza e cio della traduzione e trascrizione concettuale dellesperienza.

Ne deriva anche la identificazione tra essere colto ed essere letterato, cio capace di lettura e di scrittura, identificazione che non ha senso in una cultura delloralit e di scritture prealfabetiche. Il Faraone incarnava il senso pi alto della
comunit, ma affidava la scrittura ai suoi scribi; i quali a loro volta non si ponevano il problema di creare segni accessibili a tutti, non ambigui, funzionali e strumentali, cio il problema interamente risolto dallalfabeto (si pu dire che agivano esattamente in direzione opposta, sia per il carattere sacrale ed esclusivo del
loro sapere, sia per una connaturata difesa della loro casta professionale). Il medesimo riaccade nel medio evo, quando lalfabetizzazione recede a valori minimi
(Vico aveva buoni motivi per vedervi un esempio dei suoi corsi e ricorsi): non interessa che Carlo Magno sappia leggere e scrivere; per ci ci sono le cancellerie
dellimperatore. Daltra parte, anche oggi non considerato importante che il Presidente degli Stati Uniti sia un esperto di ingegneria e di balistica, sebbene sia lui
a decidere dove e quando scagliare i suoi missili cosiddetti intelligenti, in nome
di superiori esigenze e valori culturali, nonch di evidenti motivazioni politiche.
Nellinsieme lalfabetizzazione ha per imposto lequazione lettore uguale colto.
Di qui lidea di una pedagogia universale che ha i suoi pi alti modelli nellIlluminismo, nellEnciclopedia e nella Rivoluzione Francese: siamo ancora figli di questa avventura. Trasmettiamo nella scuola questo modello storico del sapere e della cultura, nel che non da ravvisarsi nulla di male, a patto che se ne
comprendano anche i limiti e le peculiarit, comprensione che, allo stato attuale,
solo linsegnamento filosofico pu garantire. Il modello di sapere che trasmettiamo in realt il frutto di una vicenda antica e recente. Consiglio a tutti di leggere il libro di Ivan Illich Nella vigna del testo. Vi si narra la nascita del testo, ben
prima dellinvenzione della stampa. Illich mostra che cosa significava leggere nelle comunit monastiche del medio evo, per esempio ancora al tempo di Ugo di
San Vittore. Non esistevano allora n il libro n lorganizzazione della pagina che
dar luogo appunto al testo. La Bibbia era un coacervo di pesanti pergamene disposte su un grande leggio al centro del coro. Leggere significava incorporare lo
scritto dandogli voce (una pratica che si direbbe intermedia tra oralit e scrittura)
e il monaco ruminava tutto il giorno i versetti biblici, mentre lavorava lorto o
faceva il burro. Leggere era inoltrarsi come in un filare di viti (le righe di scrittura), accompagnati dalle figure miniate e dagli altri ornamenti del disegno. Non esistevano indice, titoli di capitoli o paragrafi e addentrarsi nella selva del testo era
simile allaggirarsi di un turista per una citt straniera e sconosciuta, orientandosi a vista sui monumenti, le chiese, le piazze. Propriamente il libro, quelloggetto
maneggevole che si pu leggere e consultare a casa propria ecc., non esisteva. Fu
lintroduzione della carta e di ingegnose invenzioni per tenere insieme i fogli che
favorirono, tra altri espedienti, la formazione del libro: punto di inizio di una nuova considerazione della pagina e del suo contenuto, e conseguentemente del suo

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significato di verit. E dallinsieme di queste pratiche che nasce la lettura profana e lorganizzazione razionale del sapere, che gi ben nota a S.Tommaso
Linsegnamento nelle universit ne una conseguenza, con i suoi commentari, i
suoi testi, i suoi appunti di lezioni (che gi gli studenti di Tommaso provvedevano a redigere e a vendere ai pi pigri). Impadronirsi di un testo non pi ripeterlo ruminandolo come una mucca (immagine spesso usata per descrivere il monaco); si tratta piuttosto di riassumerlo schematicamente nei suoi argomenti, nei suoi
nessi, nella sua tessitura logico-concettuale ecc. Si comprende limportanza di tali trasformazioni per il senso del sapere che ne deriva. Il fatto che noi ne siamo
una diretta conseguenza (che nondimeno pare sul punto di impallidire) non ci esonera dal comprenderne la soglia evenemenziale: qualcosa si prodotto per linteragire dei pi inimmaginabili elementi, delle pi occasionali e complesse pratiche
di vita, di lettura e di scrittura. Ne sono sorte conseguenze grandiose, che tuttavia
non vanno indebitamente idealizzate e assolutizzate come lequivalente di un sapere universale, unico ed essenziale per lintera umanit, cio come il sapere
per antonomasia.
La cosa ha naturalmente una valenza anche politica. La scuola non ha il compito primario di produrre degli eruditi; essa mira piuttosto alla formazione di cittadini consapevoli e capaci di critica partecipazione al vivere sociale. Ideale democratico che ha nel voto universale il suo strumento. Anche questo ideale ha nella scrittura alfabetica la sua premessa e il suo fondamento: solo la scrittura
alfabetica, producendo il lettore universale, eguaglia tutti e tutti rende partecipi di
una verit comune. Solo la scrittura alfabetica produce soggetti logici, capaci di
giudizio critico, in grado cio di giudicare, come si dice, con la propria testa, tenendosi lontani dalla fascinazione retorica, dal peso dogmatico della tradizione,
dallincontrollata forza delle passioni ecc. Siamo ancora lontani dalla realizzazione di questo ideale in Occidente (non sar inutile ricordare che la democrazia
antica si instaur in Grecia e a Roma con la contesa sanguinosa relativa alla richiesta di scrivere le leggi ed esporle nellagor, instaurando un nuovo concetto
di giustizia, opposto alla concezione aristocratica per la quale giusto era ci che
dicevano il re o il sacerdote). Nel contempo la esportazione di questo modello politico e ideale di umanit in tutti i popoli della terra denuncia un preoccupante dogmatismo e unintima violenza che si ammanta della retorica, pi o meno in buona fede, dei cosiddetti valori che tutti gli uomini dovrebbero spontaneamente
condividere, in quanto valori umani per definizione e per essenza.
Ma cos infine la scrittura alfabetica per aver prodotto tutto quello che si
succintamente ricordato e molto altro ancora? Questo naturalmente largomento di maggiore interesse per noi filosofi. La questione della scrittura va anzitutto
sollevata perch questa pratica non continui ad apparirci un semplice mezzo per
fissare i pensieri e per diffondere le idee: concezione strumentale entro la quale in

realt il servo (la scrittura) la fa nascostamente da padrone delle nostre menti, per
usare immagini di stampo hegeliano. Del resto usare un mezzo senza guardarlo,
ignorandone proprio luso che se ne fa, quanto di meno filosofico si possa concepire. La filosofia, diceva Platone, non un sapere questo o quello, ma anche
e soprattutto un sapere a quale fine si sa e si fa quello che si crede di sapere e di
fare. Riflettere sulla scrittura e su quanto la pratica della filosofia ne conseguenza,
per esempio questa stessa pratica espositiva e riflessiva che qui stiamo esercitando, un impegno ineludibile per quella ricerca della verit che sosteniamo essere il compito primario del filosofare.
Ora lalfabeto greco anzitutto una invenzione meravigliosa che ha la peculiarit di essere rimasta pressoch uguale nel corso dei millenni. A differenza della geometria di Euclide, considerata un modello insuperabile per secoli, lalfabeto una creazione che non sentiamo tuttora alcun bisogno di modificare e in questo senso un esempio unico. Esso ha certo dietro le spalle innumerevoli sistemi
di scrittura, che si soliti presentare (invero del tutto arbitrariamente) come tappe di avvicinamento allalfabeto; in realt con lalfabeto greco si produce un salto qualitativo che spesso viene frainteso come la semplice aggiunta delle vocali
allalfabeto fenicio. Non di questo che si tratta. Si potrebbe dire in sintesi che
lalfabeto non procede n per imitazione della cosa (come i sistemi pittografici)
n per imitazione della voce (come i cosiddetti sillabari). Lalfabeto procede piuttosto per classificazione e definizione dei suoi segni. In realt non esiste la lette ra prima dellinvenzione greca, sicch parlare di scritture sillabiche improprio.
Se la sillaba lunione della consonante e della vocale, come pu emergere il concetto di sillaba prima che siano state pensate e scritte le sue componenti a loro
volta concettuali? La scrittura greca crea degli archetipi ideali, dei modelli astratti, come appunto la a, la b, la c ecc. Siamo cos avvezzi a questo salto dellastrazione che ci difficile renderci conto della sua portata e delle sue conseguenze. In effetti, quando impariamo a scrivere, non facciamo che tracciare, come direbbe Peirce, delle repliche empiriche di lettere ideali; lettere che non
possono, n infatti devono, mai propriamente venir pronunciate. Questo appunto ci che si chiama il salto greco dellastrazione ed facile ora leggervi, come interna o parallela conseguenza, lessenziale della filosofia di Platone, con le sue
idee e con i suoi individui materiali, nonch quel processo di definizione concettuale che allorigine della logica e della scienza. Non a caso, si potrebbe osservare, gi gli atomisti usavano le lettere dellalfabeto per designare i loro atomi invisibili. In ultima analisi Platone non avrebbe dovuto obiettare ad Antistene: Non
vedi lidea del cavallo perch non hai gli occhi per vederla; pi semplicemente
avrebbe potuto osservare che Antistene non faceva caso a ci che aveva scritto,
una volta che avesse scritto cavallo. Infatti gi in questa esibizione di un corpo
materiale, letteralmente di un manufatto, contenente lidealit di un significato

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logico e archetipico, erano iscritti tutti i temi fondamentali della filosofia: la


dualit appunto di segno e significato, e poi di corpo e anima, di spirito e natura,
di materiale e immateriale e cos via.
A partire da una meditazione sulla scrittura alfabetica ci possibile guardare
lintera storia della filosofia con nuovi occhi; ci possibile, per esempio, comprendere lacume di Hegel, quando osservava che solo lalfabeto la scrittura in
s e per s (una scrittura interamente spirituale, come diceva anche Vico) e che
i cinesi, con i loro ideogrammi, non avrebbero mai potuto pervenire al pensiero
della filosofia e alla scienza. Aveva ragione, anche se leggeva la cosa come un segno di superiorit assoluta, cio come il culmine di un processo storico-ideale, rispetto a tutte le altre civilt e scritture. Oggi giudichiamo diversamente. Assegnarci
la cultura della verit, come le scienze tendono a pensare, equivale a cadere vittime di una sorta di autoreferenzialit della nostra stessa logica, che si conclude
infine in una mera tautologia: poich la nostra pratica di scrittura (alfabetica e poi
matematica) produce un tipo di verit universale, asserire che questa appunto la
verit significa unicamente ribadire la nostra appartenenza a una pratica e al suo
interno effetto di verit.
Come peraltro uscirne? Come possiamo legittimamente dire queste cose che
diciamo, le quali manifestamente frequentano ancora la nostra griglia concettuale, utilizzandone i fondamenti e gli effetti? A questa domanda credo che si possa
cominciare a rispondere solo avvistando la necessit di entrare in una nuova esperienza della figura della verit. Il che esige anzitutto di imparare a distinguere levento della verit, cos come accade entro le pratiche che di volta in volta gli danno ricetto, dal significato di verit, in quanto figura dellevento e conseguenza della sua pratica accaduta. La cosa non facile, poich esige laddestramento e
lesercizio di un nuovo sguardo, e anzi la messa in opera di una dualit di sguar do per la quale labito della verit teoretica chiede di essere nel contempo e a
sua volta abitato (e non soltanto esercitato in presa diretta), chiede cio di dar
luogo a una frequentazione etica dellevento della verit. E ci che ho per esempio chiamato etica della scrittura o anche teoria e pratica del foglio-mondo.
Ma qui mi dovrei addentrare in questioni strettamente connesse al mio itinerario
di pensiero, senza peraltro avere il tempo di offrirne una ragionevole illustrazione. E pi opportuno dunque arrestarci a questo punto.

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