tirannide
di Coluccio Salutati
Edizione di riferimento:
Trattato della tirannide, a cura di Francesco Ercole,
Nicola Zanichelli Editore, Bologna 1942
II
Sommario
Trattato del Tiranno, e in prima la Prefazione
I. Che cosa sia il tiranno e donde il suo nome
II. Se sia lecito uccidere il tiranno
III. Del principato di Cesare e se il medesimo
possa e debba con ragione essere annoverato fra
i tiranni
IV. Se Giulio Cesare sia stato giustamente ucciso
V. Che Dante ha giustamente posto Bruto e
Cassio nel profondo dellinferno come
singolarissimi traditori
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III
Dal momento che tu mi domandi una cosa molto difficile e tuttavia degna di esser conosciuta, o uomo erudito,
come attestano i tuoi scritti, non posso rifiutarti una risposta. Invero ho sempre creduto conveniente amare chi
ti ama, e non negare assolutamente, ove tu sia in grado
di soddisfarla, la cortesia di una doverosa risposta a chi
con criterio mi interroga. Poich il vincolo della societ
umana non soltanto esige che tu secondi chi ti richiede,
ma anche che tu ti sforzi di prevenire il bisogno di chi
non ti interroga, insegnando ci che tu sai, essendo stato
creato luomo per luomo, anzi avendo Dio, che lo concep in idea, dimostrato non essere bene che fosse creato solo. N solamente dobbiamo far ci che si riferisce a
quel che tende al fine ultimo, o a ci che diretto a quel
fine, essendo tutti legati dalla comunione di fede, ma anche per quanto si riferisce alla educazione del buon cittadino o, cosa pi comune, delluomo onesto. La fede, invero, lo stato, la natura, tengono unito il genere umano,
dei quali principii il primo mira alla salute eterna, il secondo alla societ politica, il terzo poi allumanit e alla
perfezione dellindividuo.
Per cui avviene, che riferendosi ci che mi chiedi, o in
sostanza o accidentalmente, alluno o allaltro di questi
principii, io non possa n debba non darti una risposta.
Devo prima per discutere linizio della tua lettera, nel
quale mi dai troppa importanza. Infatti, se non bisogna
negare risposta a chi ce la chiede, tanto pi bisogna darla a chi ce ne offre argomento. Molte cose tu affermi di
I
CHE COSA SIA IL TIRANNO E DONDE IL SUO
NOME
Rubrica
Questa voce tiranno di origine greca, e, come presso i greci, cos anche presso di noi, signific un tempo la
stessa cosa, e similmente oggi significa la medesima cosa. Infatti, avendo tyros a lo stesso significato di forte, e in principio, come Trogo ci attesta, essendo qualsiasi citt e nazione solita conferire ai re il governo della cosa pubblica, i quali re, come scrive Giustino, erano
prodotti non dal favore del popolo, ma dalla loro provata temperanza di uomini onesti, ed essendo precipuo dovere dei medesimi di difendere i limiti del potere e ordinare quel che stimassero giusto, e dirimere le contese,
se mai linnocenza dei tempi ne facesse sorgere qualcuna, con quellequit, che per natura insita nella mente
umana, ne venne che, poich tutto ci richiede forza, sia
danimo che di corpo, presso i pi antichi uomini della
Grecia e dItalia, i re da questa forza furono chiamati tiranni. Il re poi in greco chiamato Vassileus, dal regnare, e Vassileuo in greco proprio lo stesso che regno in latino. Senonch, col crescere della umana malizia, avendo i re cominciato a regnare in modo superbo, il
nome di tiranno fu ristretto a coloro, i quali con arroganza abusano delle forze del potere. Di questo sia testimonio lottimo dei poeti: Marone: Un popolo, disse, magnifico in guerra, prese stanza sulle etrusche colline, poi
dopo molti anni di splendore, un re: Mezenzio, lo tenne in balia con un superbo dominio e con armi crudeli,
e aggiunge, per quel che riguarda la superbia: A che
ricordare le stragi nefande e i delitti del tiranno?. Ec-
co, quindi, che egli chiama tiranno colui, che prima aveva detto re superbo, egli stesso, che prima, del suo Enea,
che, ovunque sia, vuole pio e re, aveva detto: Per me sar pegno di alleanza aver stretto la mano del tiranno. E
ci basti aver detto intorno al significato del nome, per
demolire lignoranza e le false idee di taluni.
Venendo poi alla definizione di ci, che debba intendersi per tiranno, citer il testo di San Gregorio, il quale
nel libro XII dei Moralia in Giobbe, esponendo quelle
parole: Ed incerto il numero degli anni della sua tirannide, che si leggono nel quindicesimo capitolo di Giobbe, non solo dette la definizione del tiranno, ma ne distinse molte specie. Scrive egli infatti, divinamente, come sempre: detto, infatti, propriamente tiranno colui, che, in un libero stato, governa contro il diritto. Poi
soggiunge: Ma bisogna anche sapere che ogni superbo esercita a modo suo la tirannide. Talora, infatti, uno
esercita questa tirannia nel governo dello stato con la potenza del grado che gli stato conferito, un altro in una
provincia, un altro ancora in una citt, un altro in casa
sua, un altro, infine, per una tal quale segreta nequizia,
tiranno col pensiero. Ma Dio non considera quanta possibilit abbia ciascuno di far del male, bens quanto male voglia fare. Sicch, quando manchi la forza di esserlo esteriormente, gi in s tiranno colui, nel cui animo
predomini la malvagit; perch, anche se in effetto non
tiranneggi i suoi simili, pur tuttavia dentro di s desidera
avere la facolt di tiranneggiarli. Queste sono le parole
di S. Gregorio.
E per quanto si riferisce alle varie specie di tirannide
poste da Gregorio. mi pare che si possa fare una prima
distinzione fra due tipi di tiranno: il tiranno in intenzione e il tiranno in atto. Infatti, quegli, a cui manca il potere o la forza, ma che, per una nascosta nequizia, ha nel
cuore linclinazione alla tirannide, ha in s la disposizione ad esser tiranno, ma non latto. E questi se ben con-
portarsi da superbo, nel pensare allutile proprio, anzich al bene dei sudditi, sembra, dato il fine che esso persegue, e che di badare al massimo al proprio vantaggio
e di accrescere al massimo la propria ricchezza, presentare analogia col governo economico e con quello dispotico, pare, daltro lato, se si guarda alla illimitatezza darbitrio, che gli propria, piuttosto convenire col governo monarchico. Giacch altro non significa esser tiranno, se non governare illegittimamente o contro il diritto:
il che pu accadere per due motivi: o in quanto alcuno si
sia arbitrariamente impadronito in uno stato di un potere, che non gli spetta, o in quanto alcuno governi ingiustamente, violando la legge e il diritto. Ascolta come M.
Anneo Seneca fa parlare di s il tiranno: Io, dice, nella
destra vittoriosa terr il dominio strappato, sia pur con la
forza, e far ogni cosa senza il timore delle leggi. Il dominio strappato con la forza significa liniquit del titolo, e il far ogni cosa senza il timor delle leggi riguarda
la ingiustizia nel modo di governare: cose, che Gregorio
disse esser entrambe proprie della tirannide, definendo
il tiranno come colui, che governa contro il diritto.
Concludiamo, pertanto, dicendo che tiranno, non
meno colui, che, avendo usurpato il potere, non ha alcun titolo valido per esercitare il governo, che colui, il
quale governa superbamente, commettendo ingiustizie o
non osservando i diritti e le leggi, come, al contrario,
legittimo principe colui, al quale il governo fu legittimamente conferito, e che solito esercitarlo, rispettando la
giustizia e le leggi.
II
SE SIA LECITO UCCIDERE IL TIRANNO
Rubrica
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za suo rischio di persona o di cose; se Arcadio, Teodosio e Onorio permisero che fossero uccisi i banditi e disertori, ordinando al Prefetto del Pretorio Adriano che
a tutti fosse concesso il diritto di esercitare la pubblica
vendetta per la quiete comune; se Valentiniano, Arcadio
e Teodosio danno agli abitanti delle provincie facolt di
opporsi ai privati e ai soldati, affinch coloro, che di notte invadono i campi per saccheggiarli, o a scopo di rapina insidiano la sicurezza delle strade frequentate, incontrino per mezzo di chiunque la pena che meritano, e subiscano la morte, che essi minacciano agli altri, essendo
evidentemente preferibile la tempestiva prevenzione che
la tardiva repressione dei delitti; chi potrebbe essere cos
ingiusto interprete delle leggi, chi tanto avverso alla giustizia, chi cos ostinato nemico dello stato e del bene comune, da non ritener lecita questa stessa sanzione a danno di coloro, che tentano di instaurare la tirannide? e
tanto pi, quanto il bene pubblico pi importante del
privato? Lecita essa parve allillustre Servilio Ahala, il
quale, quando Spurio Melio, citato in giudizio dal dittatore Lucio Quinzio Cincinnato sotto accusa di aspirazione al regno, per avere egli, ricchissimo, in tempo di carestia, offerto materia di scandalo, distribuendo gratuitamente, a scopo di corrompere clienti ed avversarii, alla
plebe di Roma il grano fatto venire dallEtruria, si rifiut
di obbedire ai littori, e si appell alla plebe, non esit ad
uccidere, senza attendere il giudizio, che la temerit della plebe avrebbe probabilmente impedito, il ribelle. Il
quale atto non solo non fu ad Ahala imputato a biasimo,
ma gli tu anzi, attribuito a massimo titolo di gloria.
Rimangono, invero, dopo che fu annunciata al dittatore luccisione di Melio, le gloriose parole pronunciate da
Cincinnato in lode di Ahala. Esclam, infatti, il vecchio:
Sia onore a te, o Servilio, per aver salvato la repubblica
dal disordine. E subito, convocata lassemblea del po-
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si aggiunse anche la nota dinfamia del memorabile decreto della gente Manlia, con cui si stabil che nessuno
di questa famiglia potesse pi dopo di lui chiamarsi M.
Manlio.
E ritornando a Gracco, mi viene un dubbio notevole: quale Scipione Nasica sia stato lautore della strage
graccana.
Sappiamo, infatti, dalla testimonianza di Livio, che, al
tempo della seconda guerra punica, prima che avvenisse il passaggio in Libia del maggiore affricano, uno dei
figli di Gneo Scipione, che mori col fratello in Spagna,
adolescente onestissimo, chiamato Publio Scipione Nasica, che il Senato giudic ottimo tra i cittadini, ebbe incarico di prendere, quasi a titolo di domestica ospitalit,
in consegna lidolo della Madre degli Dei fatta venire da
Pessinunte. Ora, dato che tra la seconda e la terza guerra, che i Romani combatterono coi Cartaginesi, passarono cinquantanni, e quattro anni dopo Cartagine fu distrutta, e. infine, la guerra numantina, dopo la cessazione della quale Tiberio Gracco fu ucciso, dur quattordici anni, e dato perci, come risulta dal diligente conteggio dei tempi, che, dallanno, in cui Nasica ospit la
Dea, prima della fine della seconda guerra punica, alla fine della guerra numantina, si contano sessantotto anni
cio, cinquanta, trascorsi tra la seconda e la terza guerra punica, e quattro della terza, e i quattordici, durante
i quali Numanzia resist al popolo romano, evidente che, ove allet giovanile di Scipione Nasica si aggiungano gli anni, durante i quali. prima della fine della seconda guerra punica, la Madre degli Dei fu trasportata a
Roma, nel momento, in cui Tiberio fu ucciso, questo Scipione Nasica doveva avere oltrepassati i novantanni. Ci
posto, chi vorr affermare che un uomo pi che novantenne potesse esser capace di farsi, per primo, avvolgendosi repentinamente la toga al braccio sinistro, incitatore
di una schiera di giovani ad uccidere un uomo nel fiore
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degli anni, e proprio mentre occorreva contemporaneamente vincere la resistenza di una moltitudine di fortissimi cittadini? So bene che ci non potrebbe esser negato
a priori ad audaci, ma so anche, e insieme, che questo fatto deve sembrare a tutti tanto straordinario, da non potersi facilmente ammettere tra le cose verisimili. Ch, se
la cosa dovesse tenersi per vera, come sarebbe credibile che un tale esempio di energia senile, cui impossibile trovare altri che luguaglino, anzich diventar celebre
tra i lodatori della vecchiezza, fosse passato sotto assoluto silenzio da tutti gli scrittori, e specialmente da quelli impegnati a raccogliere casi e aneddoti singolarmente
famosi?
Veramente, dopo lillustre pontefice Nasica, trovo un
altro P. Scipione Nasica, il quale per la somiglianza fisica che aveva con il vittimario Serapione, fu per ischerzo,
dal tribuno della plebe Curiazio, soprannominato Serapione. Ora, io ho motivo sufficiente per credere che questi sia stato figlio del primo Nasica. Forse ve ne Furono
anche altri, che, per la dimenticanza degli storici e per la
somiglianza dei nomi, rimasero ignoti. Poich, se vero
che vi fu assolutamente un solo Nasica, e che P. Scipione
Nasica dichiar guerra a Giugurta re di Numidia, la quale guerra si sa che fu intrapresa nellanno 635 di Roma,
essendo, come scrive il pi illustre degli storici, Livio, la
seconda guerra punica terminata nellanno 541, tempo,
in cui Scipione Nasica, giudicato lottimo dei cittadini,
era nella sua prima giovinezza, ne seguirebbe, non solo che questo Nasica avrebbe vissuto centoquindici anni, ma anche, cosa che al di l di ogni prodigio, avrebbe, come console, tenuto a questa et il governo della repubblica. La qual cosa non essendo verosimile, lascio a
tutti facolt di concludere. E vedano i buoni se ci che
ho detto li persuade.
Ch, se, come Valerio, essi vogliono assolutamente esserci stato un solo P. Scipione Nasica, lo celebrino pure
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come splendidissimo lume di togata potenza, che, essendo console, dichiar guerra a Giugurta e che con purissime mani accolse la madre Idea, quando questa dai
luoghi della Frigia si trasfer sugli altari e nelle case di
Roma insieme con le altre cose, che lo stesso autore nel
capitolo Dei proscritti riun, a lode e a esaltazione di
questunico Nasica, o piuttosto, rifer, cos come, senza
farne oggetto di propria indagine critica, le aveva trovate raccolte da un altro. Dicano tutto ci con Valerio, e
si facciano forti dellautorit del suo nome. Li invito per, in tal caso, a render ragione dei tempi. Ch, se questa ragione non sono in grado di rendere, dicano pure
che cos ha scritto Valerio, ma non affermino che ci che
ha Scritto Valerio risponde a verit storica. E preferiscano ritenere interpolato il testo di Valerio, piuttosto che
attribuire ad uno scrittore di cos rara sapienza un cos
grossolano errore.
E, invero, mentre io andava scrutando questo problema. mi avvenne di riscontrare evidente nel capitolo del
mutamento dei costumi e della fortuna, lerrore di questo stesso nome. In tutti i codici di Valerio, che io ho esaminato, si trova, infatti, comunemente scritto che Gneo
Cornelio Scipione Nasica, quando, da console, era a capo della flotta romana, fu fatto prigioniero dai Cartaginesi presso le isole Lipari; mentre in Seneca, che non so per
qual ragione chiamano Floro, in Eutropio ed in Orosio,
troviamo scritto in modo inequivocabile che, non Scipione Nasica, ma Gneo Cornelio Asina, nel quinto anno della prima guerra punica, chiamato a colloquio dal grande
Annibale, fu, con frode fenicia, fatto prigioniero.
E, poich cos stanno realmente le cose, io credo che
taluni, cercando di correggere quel nome Asina, lo abbian cambiato in Scipione Nasica. Pensando che un cos deforme nome fosse disdicevole in una cos illustre famiglia. I quali, se avessero letto in Macrobio, fedelissimo
informatore delle cose del mondo antico, che, avendo
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cuno venga, senza deliberazione o scelta, inalzato a principe, o che, in fine, venute le fazioni alle armi, si deferisca per volont della fazione prevalente ad un solo individuo la somma del governo, potr forse chiedersi da
qualcuno, se il potere per tal via o in tal modo acquisito sia da ritenersi fondato su un titolo legittimo. Al qual
proposito dir che, ove si tratti di un popolo, che, non
avendo o non riconoscendo volont superiore alla propria, sia signore di se stesso, sar senzaltro da starsi a
ci, che la maggioranza del popolo avr deciso. E legittimo sar senza dubbio il governo, se, in un popolo soggetto alla sovranit di un principe, alla decisione popolare
seguir la conferma per parte di questo.
Ch, se, invece, mancando il consenso di questo, leletto del popolo assuma di fatto il governo senza attender la superiore conferma, egli, non avendo di per s lelezione popolare alcun valore giuridico, da considerarsi tiranno. Se, finalmente, il popolo si riconosca soggetto
alla sovranit di un principe, ma sia di fatto privo dogni
governo per parte di quello, rimanendosene quello lontano, leletto del popolo avr legittimo titolo a governare,
sino a che non si dichiari il contrario dal principe.
Ma il problema, che a noi sovratutto preme discutere,
se sia lecito insorgere contro il signore od il principe,
che, pure avendo il pieno diritto di governare, abbia per
superbia incominciato ad abusare del governo.
Che costui possa essere dal superiore deposto e punito, nessuno, purch, s intende, in seguito a legale processo e a legittimo giudizio, vorr negare. Cos Costui potr essere impunemente percosso ed ucciso, se il legittimo sovrano, o altri, autorizzato a giudicarlo, lavr proclamato nemico: non si potr, invece, senza consenso del
superiore, n perseguirlo, n offenderlo, n ammazzarlo,
se sar stato deposto in base ad una sentenza.
Quanto alle citt, che non riconoscono sovranit alcuna al di sopra di s, non vha dubbio che esse possono
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revocare a chi lo detiene il governo, dopo averglielo conferito, ed espellerlo, e persino, se ve ne sia giusto motivo, ucciderlo. Cos, sotto la guida di L. Bruto, il popolo romano abbatt, pei delitti di Tarquinio il Superbo e
dei suoi figli, il governo dei re. Cos, grazie a Virginia,
che, per malvagit di Claudio, era stata, sotto pretesto di
sua calunniosa condizione servile, rapita per farle violenza, fu abolita la autorit dei Decemviri. Cos Nerone, ultimo de Cesari, giudicato pubblico nemico dal Senato,
doveva essere ucciso dagli assassini inviati a finirlo.
Ma lasciamo gli esempi, che facile raccogliere, cos
dalle sacre scritture che dalle Storie pagane e cristiane, e
che, per quanto sian numerosi sappiamo di infinite uccisioni di re e di principi, che pur giustissimamente governavano non provano affatto essere lecito ammazzare i re o i tiranni, e cerchiamo di conchiudere. So bene che, come dice il poeta di Aquino, pochi re e tiranni
discendono senza sangue e senza compianto ove dimora
il genero di Cerere. Ma so anche che questa frequenza
di stragi non dimostra che esse possano o debbano considerarsi conformi a giustizia. Una cosa , infatti, essere
ucciso, ed unaltra essere ucciso giustamente: ed ho limpressione che a nulla abbia giovato, alleruditissimo Giovanni dei Saberii, lo sforzo di appoggiare su un gran numero di esempi, nel suo libro, che non so per qual motivo chiamiamo Policrato, la tesi essere giusto uccidere il
tiranno.
Quegli esempi non provano che la soppressione dei tiranni un atto legittimo: provano soltanto che esso un
atto frequentemente compiuto. Sicch, quando egli, dopo aver scritto nel terzo libro della sua opera: non soltanto lecito, ma equo e giusto uccidere il tiranno,
soggiunge, quasi a giustificare lasserto: poich chi si
serve della spada degno di perire di spada..., vorrei
veder questa tesi meglio svolta e dimostrata. Poich subito dopo, a chiarimento di esse, aggiunge: ma si inten-
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III
DEL PRINCIPATO DI CESARE E SE IL
MEDESIMO POSSA E DEBBA CON RAGIONE
ESSERE ANNOVERATO FRA I TIRANNI
Giovanni dei Saberii, di cui facemmo menzione nel precedente capitolo, dopo di avere, nel diciannovesimo capitolo del libro ottavo, rapidissimamente toccato di molte cose intorno a Cesare, formola in questo modo il suo
giudizio su lui: Tuttavia colui, essendosi con le armi impadronito del governo, fu tenuto per tiranno, e, col consenso della maggioranza del Senato, finito a pugnalate
sul Campidoglio. Cos il Policrato. Veramente il nostro Cicerone. che molto volentieri osava parlare contro
Cesare dopo la sua morte. disse nel suo libro dei Doveri:
Ci che si legge in Ennio: a nessuna santa amicizia, nessuna fede tra i re, appare sempre pi evidente. Perch, dovunque siano condizioni siffatte, per cui sia impossibile che a molti possa spettare il primato, inevitabile sorga tanto contrasto, da render difficilissima la osservanza dei patti. E continuando: Ne diede or ora
dimostrazione laudacia di Cesare, il quale sovvert tutti i diritti divini ed umani per quella pazza illusione, che
gli aveva fatto sognare il Principato. E altrove lo chiam espressamente tiranno, cosa che aveva prima evitato
di fare. Scrisse, infatti, nel secondo libro dei Doveri: ...
che non ci sia potenza che valga a far fronte allodio dei
molti, verit, che, se fu prima ignota, oggi notissima.
E non solamente la morte di questo tiranno, che la cittadinanza toller a stento, oppressa dalle sue armi, sinch visse, e tanto peggio tollera ora, da che morto, dimostra quanto sia esiziale a ciascuno lodio degli uomini, ma la fine pressa poco simile degli altri tiranni. Potrei anche riferire altri passi, nei quali lo stesso Cicerone,
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Veramente considerando ogni cosa, mi sembra che Cicerone abbia sempre, finch visse, tributato molte lodi a
Cesare, e non solamente prima delle guerre civili, ma anche dopo che, con quei famosi cinque trionfi, furon deposte le armi. Leggi, se vuoi, le sue orazioni per M. Marcello o per Q. Ligario. Leggi, ti prego, anche la sua lettera a Servio Sulpicio. Dopo aver fatto menzione della
reintegrazione di Marcello, egli dice, infatti: Cos bello
mi sembrato questo giorno, da parermi quasi di vedere
un aspetto della rinascente repubblica. Neppur tacque
ci nellorazione, con cui ringrazi Cesare per il perdono a Marcello. Giacch dicendosi che Cesare si andava
vantando di esser vissuto abbastanza per la natura o per
la gloria, Cicerone esclam: Forse abbastanza, se cos
vuoi, per la natura, e voglio anche aggiungere, se ti piace, per la gloria, ma, quel che pi conta, per la patria, certamente poco, il che significa che quelluomo avidissimo di libert giudicava che quella forma di governo, che
aveva in Cesare il suo centro, spettava, non alla tirannide, ma al bene dello Stato. N egli diversamente giudic la condizione degli eventi futuri pel caso che avesse
trionfato Pompeo.
Osserva, infatti, che cosa scrive in proposito a M. Marcello: sempre stata consuetudine delluomo saggio cedere prima di tutto al tempo, cio obbedire alla necessit: e certo la cosa, come realmente sta, non soffre in ci
difetto alcuno. Forse non lecito dire quello che pensi,
ed permesso invece tacere. Tutto, infatti, stato deferito ad uno. E questi non si serve neppure del consiglio
dei suoi, ma unicamente del proprio. Ma le cose non andrebbero molto diversamente, se il governo dello stato
spettasse a colui, che noi abbiamo seguito. O forse pensiamo che colui, il quale, quando era comune con ciascuno di noi il pericolo, ricorreva al consiglio proprio e di
uomini suoi pochissimo prudenti, sarebbe stato pi socievole con noi dopo la vittoria, di quanto lo fosse nellin-
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IV
SE GIULIO CESARE SIA STATO GIUSTAMENTE
UCCISO
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salit dei cittadini, da far s che a pochissimi potesse esser gradita la sua morte. Piacque, io credo, questa a tutti
del partito opposto, non per odio a Cesare, ma piuttosto
per la speranza di riacquistare quella posizione sociale e
quegli onori, di cui essi sapevano non poter mai godere
in grado uguale ai vincitori, finch egli avesse governato. E credo anche che la licenza di parlar contro Cesare
sia stata presa, non per odio delluomo, ma per desiderio di libert, e perch tutti dallesempio di Cesare traessero motivo a non osare di desiderare il principato. Ma
che bisogno c di parole? Non sembra forse che a vendicar Cesare si sian trovati daccordo gli uomini, il cielo,
e gli dei superni e infernali? Infatti, tutti i suoi assassini, e quelli che congiurarono contro di lui, dal primo allultimo, entro tre anni morirono in maniere diverse, ma
tutti di morte cruenta. E grandissima lode fu data a Ottaviano, perch, risparmiando tutti gli altri cittadini, si limit a punire i colpevoli della strage del padre. Ma tu
mi chiedi: Quegli assassini non avevano forse di mira la
libert pubblica? E che? Non dobbiamo alla patria tutto quel che possiamo, e tutto quello che siamo? E che di
pi grande e di pi divino si pu offrire alla patria che liberarla dalla miseria della schiavit? Cos grande questo bene, cos eccellente e generale, che non gli si pu n
si deve paragonar nulla. Dunque Cassio, Bruto, Trebonio e gli altri congiurati fecero ci, che conveniva alla loro grandezza danimo, e di cui nulla di pi grande essi
avrebbero potuto offrire allo stato. Ma a questa obiezione risponda il migliore dei principi, il divo Augusto. Si
racconta, infatti, che essendo egli entrato un giorno nella
casa di M. Catone in memoria di cos grande cittadino, e
mentre la schiera degli adulatori, che li era presente. rinfacciava ad una voce a Catone, lessere egli stato vindice e sostenitore troppo accanito della parte pompeiana,
quasi a giustificarlo, abbia cos parlato agli astanti: Chi
non desidera mutare le presenti condizioni dello stato
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tativi: vedesti, poi che le armi furono deposte, la fine delle guerre civili, e la repubblica debilitata, sotto il governo di un solo, come rinascente dal morbo mortale della
guerra, quasi ristorarsi in una pace sicura e necessaria.
Rispondi, ti prego, o Cicerone, qual porto vedevi
offrirsi alla navicella tanto a lungo battuta dalle tempeste,
se non che la repubblica si riducesse alla volont di un
solo vincitore, a freno della vittoria e a garanzia della
parte vinta? Dimmi, non ti ricordavi della dittatura
quinquennale di Silla? La quale, per quanto sia stata
cruenta e abbia distrutto quasi tutti i vinti, fu tuttavia di
qualche sostegno per la repubblica. Che cosa, dunque,
desideravi dalla dittatura a vita di Cesare che i vinti
potessero sperare? Non servi quella di tutela ai vinti e
di freno ai vincitori?
La dittatura, che conserv a molli la vita e gli onori,
non mand alcuno in rovina. Essa procur protezione ai
timidi, freno ai violenti, benessere a tutti e gloria al principe. Ogni giorno aumentava la soddisfazione del pubblico, e gi i vinti uguagliavano i vincitori negli uffici e
negli onori. Non ricordi, o Cicerone, quel che dicesti anche tu?: Tu solo, o Caio Cesare devi risollevare tutte
quelle cose che vedi giacere, colpite e atterrate dalla necessaria violenza della guerra ordinare i tribunali, richiamare la fede. frenar la lussuria, dare incremento alla stirpe e alla famiglia, ripristinare con la severit delle leggi
tutte quelle cose, che sono venute man mano dissolvendosi e decadendo. infatti innegabile che, in una guerra civile cosi basta e in tanto fervore di spiriti e darmi, la
sconvolta repubblica. qualunque sia stato levento della
guerra abbia molto perduto della stia dignit e della sua
saldezza, e molte cose ambedue i condottieri abbiano in
armi, da cui si sarebbero ugualmente astenuti se investiti
di funzioni civili. fatto essendoTutte queste piaghe della guerra devi ora tu sanare, essendo tu il solo capace di
curarle. Tutte queste parole sono tue e dette molto pi
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dopo Cesare, sotto il dominio di qualsiasi tu voglia ottimo principe? Non forse verit politica e conforme allopinione di tutti i sapienti, che la monarchia da preferirsi a tutte le altre forme di governo, se avvenga che ci
sia a dirigerla un uomo buono e desideroso di saggezza?
Non vi libert maggiore che quella di obbedire a un
ottimo principe, quando questi ordini cose giuste. Perch, se nulla vi di pi santo e di migliore che luniverso governato da un solo Dio, tanto migliore il governo
umano, quanto pi si avvicina a quello. Ma certamente non pu essere somigliante a quello, che quando uno
solo governi.
Infatti, anche il governo di molti non ha nessun valore, se la moltitudine non concorde in ununica opinione: poich, se non comandi uno solo e gli altri ubbidiscono, non ci sar un solo governo, ma molti. Perch, o
Cicerone, ti scosti da ci, che hai appreso da Aristotile?
Sai che tra i sistemi di governo, sia naturali che volontari, va innanzi a tutti, per lutile dei sudditi e per la necessit delle cose, la monarchia? Anche la natura vuole
che, essendo alcuni nati per servire ed altri per comandare, affinch tra tutti si osservi luguaglianza della dovuta
proporzione, il comando tocchi al migliore.
Se voi, o Cicerone, aveste avuto un solo a governarvi, la guerra civile e una cos grande discordia non sarebbe mai sorta tra voi. Lenormit dei tempi sillani e le recenti discordie avrebbero potuto, anzi dovuto insegnarvi
che, per eliminarle, era necessario un monarca, cui fosse
affidato, con debito ordine, tutto lorganismo dello stato. Poich in quella forma di governo civile o aristocratico che tu amavi, non poteva esserci, nella discordia degli
animi, nessun altro rimedio ai mali della vita civile, che
non fosse pericoloso e difficile, e tale da contrastare con
le esigenze dei tempi. Cos, ucciso Cesare, e rotta larmonia del governo monarchico, lesperienza dei fatti si
rese palese: subito si ritorn alle guerre civili, per cui fu
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non solo utile, ma necessario ritornare ad un unico principe. nelle cui mani finissero, per la giustizia ed equit di
chi governava, per congiungersi e stringersi insieme tante vicende di cose e tante contrariet di spiriti. Che, se
ci non fosse avvenuto in Ottaviano, giammai si sarebbe quietato il furore romano, giammai sarebbero finiti i
mali, e la iniziata lotta civile avrebbe continuato fino alla
completa distruzione del nome romano. E quando leggiamo che Ottaviano avrebbe pi volte pensato a restaurare la repubblica, credo che nulla abbia pi contribuito
a rimuoverlo da tale intenzione, quanto la previsione che
con la discordia sarebbero risorti tutti i mali di prima.
Non era, infatti, ancora stato placato quel fermento, n
gli animi dei cittadini si eran calmati dalleccitamento di
un cos vasto fremito. Il che notando, Virgilio disse, come sempre divinamente: Poche tracce, tuttavia, resteranno dellantica frode, che inducano a tentare il mare
con le zattere, a cingere le citt di mura, a fendere la terra con i solchi, etc.. Si deve poi intendere, perch disse frode e non inganno, ma frode lo stesso che
colpa, e in questo senso spesso troviamo in Livio questa parola frode. Onde concludiamo che quegli uccisori di Cesare non uccisero un tiranno, ma il padre della patria e il pi clemente e legittimo principe della terra,
e commisero una colpa tanto pi grave contro lo stato,
quanto pi grave e detestabile pu essere il suscitare in
un tranquillo stato la furia e linsania di una guerra civile. N voglio accusarli di animo superbo, per cui non potessero non solamente sopportare che una persona fosse
pi in allo di loro, ma neppure che fosse pari a loro. Non
li accuser neppure di ambizione non sperando essi soltanto onori e cariche pubbliche, ma questa gloria ardentemente desiderando, a questa gloria mirando: essere annoverati tra i pi grandi principi di Roma, del Senato e
del popolo romano. Ma non con un parricido, non con
un delitto, non con superbia e ambizione era da conqui-
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V
CHE DANTE HA GIUSTAMENTE POSTO BRUTO
E CASSIO NEL PROFONDO DELLINFERNO
COME SINGOLARISSIMI TRADITORI
Rubrica
Poich dunque Cesare, come stato chiaramente dimostrato, non fu tiranno pel titolo, avendolo la patria, per
gratitudine, e non costrettavi, scelto come proprio principe, e non fu tale neppure per la superbia, governando
egli con clemenza e umanit, manifesto che fu un delitto lucciderlo. Onde il nostro Dante, descrivendo la vita ultra terrena, e tenuto conto del fatto che il tradimento, che non appare se non quando sia violata la fede, il
pi grave di tutti i peccati, conficc i traditori nel ghiaccio nel profondo dellinferno, dove al centro delluniverso colloc Lucifero con tre volti, e di questi tre, quello
di mezzo di color rosso, il sinistro nero, e il destro poi
tra il bianco e il giallo, vale a dir pallido. Dante immagin poi che Giuda, che fu il traditore di Cristo, fosse come confitto nella bocca del volto anteriore del demonio,
con il capo orrendamente maciullato dai denti di Lucifero; Bruto, nella bocca del volto sinistro, e Cassio del destro, afferrati per i piedi e condannati ad essere eternamente divorati. Certamente tutte queste cose sono state
immaginate dal singolarissimo poeta dietro esame della
divina ragione.
Infatti, mise insieme ed a pari nella sede e nella persona di Lucifero punitore quei traditori, dei quali luno
aveva tradito per denaro il figlio di Dio, eterno padre e
creatore di tutte le cose; e gli altri avevano ucciso col delitto di tradimento il padre della patria, e Bruto, poi, anche il padre suo. E veramente cos distinse costoro nel
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Finalmente ancora resta, come ho promesso, da spiegar brevemente il dubbio che hai circa Antenore ed
Enea. In principio, veramente, Darete Frigio e Ditti cretese, gli storici pi antichi, che scrissero la storia di Troia, testimoniano, non ambiguamente. ma in maniera assai chiara e precisa, come essi stessi avevano preso accordi con i principi greci per tradire la patria. Non per
questo io mi adiro con il messinese Guido delle Colonne,
per avere egli, seguendo questi autori, impresso su ambedue quei principi il marchio del tradimento. E credo
che, quando i Romani ebbero raggiunto il massimo fiore, e la famiglia Giulia fu portata al sommo degli umani
splendori, vantando essi particolarmente Enea tra i propri progenitori, alcuni storici abbiano risparmiato la fama di Enea. Tra questi, vi specialmente Sisenna, il quale ha ammesso soltanto Antenore traditore di Troia, e
non altri. Livio, poi, il pi grande degli storici, cerca giustificare entrambi i principi, dicendo che furono mantenuti in vita dai Greci per il diritto di ospitalit. che presso gli antichi era sacro, e perch si erano sempre mostrati favorevoli alla pace e alla restituzione delle cose rubate
e di Elena. E veramente una buona scusa, la quale per,
poich a Capi, Elena e a molti altri, che mai furono annoverati fra i traditori, i Greci vincitori permisero ugualmente di salvarsi, non sarebbe necessaria ad Antenore o
ad Enea, ove non soffrissero daltra accusa. Sulla quale conclusione lascio a te e ad altri il giudizio. Tu puoi,
volendo, ritenere, come Diti e Darete, costoro colpevoli di tradimento, o puoi, se ti piace, con la testimonianza di Sisenna, sciogliere Enea dallaccusa, oppure giustificarli ambedue, come fa Livio, e ritenere falsi Ditti Cretese e Darete Frigio. Infatti, non credo che si possa realmente scoprir la verit attraverso ci che si legge, data
specialmente una solida fama di venticinque secoli, che
non suole mantenersi a lungo quando diffonda il falso.
Ecco, Antonio carissimo, la mia opinione su ambedue i
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