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Anatomia di una ripetizione

Parte 5b – Liscia, gassata o…


Finalmente ci siamo. A questo punto abbiamo a disposizione tutti gli strumenti per capire che cosa
succede quando facciamo un po' di ripetizioni di panca... fiuuuuu... ci sono voluti tutti questi carat-
teri ASCII ma... ce l'abbiamo fatta.
Parleremo di velocità di esecuzione, di TUT, di movimenti parziali, di “è meglio veloce o lento?”,
di argomenti fondamentali per la nostra vita di coppia quali “è possibile stimolare le fibre veloci e
lente in una ripetizione?” e risolveremo degli enigmi matematici tipo “una serie da 4 ripetizioni
della durata di 4 secondi l'una è meglio di una da 8 ripetizioni della durata di 2 secondi?”. Do-
mande che ci creano ansia e che non ci fanno dormire la notte: qui troverete risposta, in modo da
poter calare la dose dei sonniferi.
Ah... dopo tutti i roboanti grafici stratecnici un risultato assolutamente deprimente sarà che il mi-
glior risultato si ottiene con una esecuzione... lenta e controllata eh eh eh. Mi accorgo che poi alla
fine la miglior strategia di allenamento è quella che può essere chiamata “la diffidenza del conta-
dino”: l'onda del progresso parte sempre dalle città, dalle aggregazioni di persone dove le infor-
mazioni si trasmettono velocemente, e più ci allontaniamo da questo centro nevralgico e meno le
“novità” fanno presa. Il contadino assume sempre per principio l'atteggiamento “sarà ma non ci
credo” o, meglio “è una vita che sono su questi campi, non mi faccio di sicuro prendere per il culo
da te”.
Quando perciò leggete di allenamenti dove si lanciano i pesi, o di esecuzioni lentissime o cose che
a voi appaiono come senza senso ma che sono supportate da teorie scientifiche... siate un po' con-
tadini: forse vi perderete delle novità importanti, ma forse non vi farete prendere per il culo.
Una noiosa premessa
Prima di andare avanti, vorrei dire ai miei lettori (mio zio, mia figlia, l'amica di mia figlia qualche
volta...) questo: i problemi complessi possono essere compresi solo suddividendoli in sottoproblemi
più semplici. Parcellizzare in componenti elementari aiuta a confinare gli ambiti di difficoltà, ma
non dobbiamo scordarci che i singoli pezzi vanno poi rimessi insieme.
In questi articoli si corre sempre il rischio di focalizzarsi su un singolo aspetto, mentre quello che
poi è importante è la visione d'insieme. Quando vi allenate agite su tutto il vostro corpo, e su tutti
gli aspetti che ho descritto, contemporaneamente. Per questo molti ottengono meno del previsto: si
focalizzano sul cortisolo, o sul carico, o sulle proteine, o sui DOMS, o sulla velocità. Aspetti fon-
damentali ed importanti. Ma singoli fattori di un gioco coordinato, dove le “regole” che li legano
insieme sono molte volte più importanti delle singole variabili.
Perciò, se avete capito i singoli pezzi, rileggete tutto e cercate di farvi un'idea di come possono fun-
zionare contemporaneamente.
Riassuntino delle puntate precedenti
Ecco cosa abbiamo detto nei precedenti articoli.
 La forza eccentrica è sempre maggiore della forza isometrica che è sempre maggiore della

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forza concentrica
 E' la tensione meccanica che deve essere prodotta dai nostri muscoli che determina il
quantitativo di fibre che vengono reclutate.
 Le fibre muscolari si attivano “in salita” all'aumentare del carico: dalle fibre rosse a quelle
bianche.
 Non è la durata della tensione che determina il quantitativo o la tipologia di fibre attivate
 E' necessario un certo quantitativo di lavoro per ottenere un esaurimento delle fibre
stimolate
In particolare, ecco i meccanismi allenabili che determinano un incremento di forza muscolare
Reclutamento spaziale
Per reclutamento spaziale si intende la capacità di contrarre le fibre di un muscolo. Più aumenta la
capacità di reclutare le fibre, più aumenta il numero di fibre contratte in un dato istante di tempo.
Questa caratteristica è allenabile nel senso che aumentando la richiesta di tensione muscolare l'or-
ganismo si “abitua” a far contrarre sempre più fibre. E' pertanto il carico sul bilanciere che permette
il miglioramento di questa qualità.
Sincronizzazione
Potremmo chiamarla reclutamento temporale, cioè la capacità di contrarre le fibre all'unisono, con-
temporaneamente. Questa caratteristica permette di generare forza rapidamente: più le fibre sono
sincronizzate più forza posso sviluppare in un dato intervallo di tempo dall'inizio della contrazione
muscolare.
La sincronizzazione è correlata alla potenzaprodotta o, meglio, all'RFD, rate of force development
(tasso di produzione della forza). Più le fibre sono sincronizzate e più posso mettere in moto rapi-
damente un oggetto. La sincronizzazione è una caratteristica più “avanzata” del reclutamento spa-
ziale in quanto presuppone di saper contrarre molte fibre E di farlo in maniera coordinata.
Questa caratteristica è allenabile con metodologie apposite tipo esercizi balistici, o pliometrie varie.
A noi serve questa roba? Serve. Vedremo perchè. In palestra non è necessario allenare questo tipo
di abilità con sedute apposite, ma un certo grado di sincronizzazione è comunque richiesto.
Coordinamento intermuscolare
Gli aspetti che ho descritto riguardano quello che si chiama coordinazione intramuscolare, cioè tut-
to quello che serve per poter utilizzare al meglio le risorse di un singolo muscolo. Ma in palestra noi
compiamo movimenti complessi, che coinvolgono tantissimi muscoli. La capacità di coordinarli
correttamente per ottenere un movimento efficace ed efficiente è detta coordinazione intermuscola-
re.
Gli esercizi in palestra sono relativamente semplici rispetto a quelli di altri sport, e sono svolti a ve-
locità basse. Ciò non toglie che il principiante all'inizio migliori notevolmente solo perchè impara a
coordinare meglio i muscoli, ad indirizzarli meglio nel compito che devono svolgere.
Se questo fenomeno è lampante all'inizio della “carriera”, la coordinazione intermuscolare è qualco-
sa che si affina continuamente al crescere della forza complessiva, perchè più si è forti e più i pesi
sul bilanciere saranno tali che le sbavature e le imperfezioni saranno sempre meno possibili.
Tutto insieme

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Non è ipotizzabile di portare il proprio livello di forza vicino al potenziale genetico (per usare una
parola stra-inflazionata) senza un affinamento della tecnica a livelli sopraffini. Se fosse possibile ot-
tenere risultati incredibili con una tecnica “del cazzo”, si sarebbe per definizione sotto il proprio po-
tenziale. Perchè “del cazzo” è la forma zippata di “imperfetta, senza i giusti pattern motori, piena di
errori, migliorabile” e chi compie errori è lontano dall'aver sviluppato il proprio potenziale.
L'affinamento tecnico passa per reclutamento, sincronizzazione e per la coordinazione intermusco-
lare.
Il corretto allenamento, finalizzato allo sviluppo della forza, permette uno sviluppo armonico di tut-
te queste componenti, che non sono altro che la risposta dell'organismo all'ambiente esterno: il cor-
po reagisce cercando di sopperire ai “pericoli” ottimizzando quello che ha, perciò vi farà utilizzare
più massa muscolare, più velocemente possibile, e in maniera tale che i muscoli funzionino bene fra
loro.
Se gli stimoli allenanti sono corretti il corpo migliorerà sempre più il controllo dei fusi neuromusco-
lari e della loro azione sugli agonisti e sugli antagonisti, inibirà gli organi del Golgi e le cellule di
Renshaw, elementi del precedente articolo. Non c'è nulla di incredibile: “semplice” adattamento ad
una richiesta ambientale. Se non richiedete nulla, il vostro corpo non vi darà nulla.
Per “corretto allenamento” non intendo qualcosa che esalti all'inverosimile questi aspetti, con salti
in basso da 20 metri, lanci spasmodici di candelotti di dinamite o contorsionismi coordinativi assur-
di come scaccolarsi il naso con i piedi mentre ci si strizza un brufolo dietro l'orecchio sinistro. E'
sufficiente un normale allenamento in palestra dove si cerca, con un minimo di razionalità, di cari-
care sempre più pesi sul bilanciere, ragionando su quello che si fa.
Ma... a che serve “fare forza”?
Come si suol dire, nel Bodybuilding il peso è un mezzo e non un fine: la ricerca spasmodica della
forza massimale negli esercizi non è la chiave del successo. Concordo, parzialmente, con questa
impostazione, ma non voglio imbarcarmi in una discussione socio-psicologica.
Ma se il peso è un mezzo, per Diana, usiamolo al meglio!

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In questo particolare contesto, dedicarsi allo sviluppo della forza ha particolare rilevanza per il cul-
turista, proprio perchè la forza è il mezzo principe per ottenere i risultati fisici aspettati e desiderati.
Lo schema riporta in estrema sintesi quello che accade: a senso, quale stimolo ipertrofico è miglio-
re, quello prima o quello dopo la cura?
Senza ridire per l'ennesima volta quello che oramai sa anche il mio cane, l'allenamento con i pesi
“per la massa” è sempre effettuato in un range di 6-8 ripetizioni (e carico adeguato) perchè questo è
il miglior compromesso fra intensità e durata dello stimolo. Se perciò lo stimolo allenante è dato dal
peso utilizzato per le ripetizioni che posso effettuare, questo aumenterà se incrementa il peso che
posso utilizzare sulle stesse ripetizioni!
Certo, ci sono da fare almeno 50 “si ma” e 20 “però”, ma il nocciolo è che la forza va allenata in
maniera specifica proprio per essere utilizzata come mezzo per l'ipertrofia.
Velocità

Questo disegnino è un classico della Teoria dell'Allenamento: rappresenta la curva tensione-velocità


di cui abbiamo parlato quando è stato descritto il meccanismo della contrazione muscolare. Ho eli-
minato la parte a sinistra, quella relativa alla velocità negativa, cioè a un muscolo che si allunga sot-
to tensione invece di contrarsi.
Nei libri si vedono sempre quei pallini che indicano i vari sport, ad indicare che ogni attività ha una
diversa ripartizione di velocità e forza. Non focalizzatevi sul valore quantitativo della posizione dei
pallini, ma solo sul concetto che vogliono esprimere: ogni attività ha la sua velocità di esecuzione e
la sua quantità di forza richiesta.

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Un lanciatore di giavellotto dal peso di 800 grammi svilupperà movimenti veloci a bassa tensione
muscolare. Per la “leggerezza” dell'oggetto che viene lanciato sarà impossibile per il giavellottista
convertire completamente la sua forza massimale nella panca nel movimento di gara. Non perchè
non sia capace, ma perchè è troppo esigua la resistenza del giavellotto stesso.
Questo significa che non ha per lui senso sviluppare una mostruosa forza in movimenti a velocità
del tutto differente dalla condizione di gara, pena il concentrare energie in cose assolutamente inuti-
li. C'è, cioè, un limite oltre il quale incrementi di Kg in sala pesi non portano incrementi nell'attività
sportiva.
La simpatica curva riportata qua sopra ci permette di capire perchè un tizio forte nella panca non
lancia il peso così lontano come quello che ha 40Kg meno di lui di massimale ma che si allena in
maniera specifica: perchè il tizio è, appunto, forte nella panca, un movimento lento rispetto a tirare
una palla di ferro con violenza. E, analogamente, non ha molto senso allenarsi lanciando un peso di
25Kg quando in gara si usa una pallina da poco più di 7Kg.
La forza si sviluppa in maniera specifica alla velocità a cui voi richiedete che si sviluppi: uno che fa
i pesi in maniera decente è più forte di Bolt nello squat, dato che ad uno sprinter non serve a niente
fare squat culo a terra con 200Kg, e se li facesse probabilmente starebbe sbagliando preparazione.
Questo concetto non è poi sempre chiaro in pista o in sala pesi. Non voglio sembrare il solito sac-
cente sborone, ma non è chiaro a molti allenatori, che prendono ragazzini che dovrebbero fare velo-
cità, salti o quant'altro e li rimpinzano di pesi, sovraccaricandoli in una parte della curva tensione-
velocità che poi non andranno mai a sfruttare o, viceversa, gli fanno usare carichi così ridicoli da
costituire solo una preparazione generale di base, inadatta già ad un atleta di livello regionale.
Viceversa, guardate dove si piazza quello che più ci piace: nella zona a bassa velocità. Per questo
non ha molto senso utilizzare tecniche pliometriche o “esplosive” sperando che i pesi migliorino:
non sono gli squat jump, i lanci delle palle mediche o le kettelbell che faranno salire i vostri massi-
mali.
Ok, lo conosco anche io il famoso articolo “deadlift without deadlifting” dove si parla di un allena-
mento per lo stacco tramite i sollevamenti olimpici. Però... leggiamolo bene, dài...
Beninteso: tutto contribuisce al miglioramento, ma se voi incrementate il vostro stacco da terra per-
chè avete usato le kettelbell sicuramente siete dei principianti o degli atleti estremamente avanzati:
 Un principiante migliora con quasi tutto e i movimenti esplosivi insegnano il reclutamento,
la sincronizzazione e la coordinazione intramuscolare. Ma in questo caso è stata utilizzata
l'”esplosività” come tecnica di insegnamento di abilità motorie, non come mezzo per
ottenere gli adattamenti specifici per lo “sport” in questione, che è a bassa velocità. Riuscire
a coordinarsi meglio e in breve tempo è una abilità che può essere sfruttata immediatamente
in qualsiasi altro gesto che si svolge a velocità più bassa.
 Un avanzato, che ha già sviluppato i requisiti tecnici per ottenere risultati, beneficierà
dell'affinamento delle sue abilità coordinatorie, dell'impatto positivo sulla preparazione
generale, del miglior potenziamento degli stabilizzatori del movimento. Queste tecniche
“speciali” possono costituire quel quid in più per uscire da una situazione di stallo.
Queste due situazioni sono gli estremi: un intermedio, invece, dovrà sviluppare le abilità specifiche
del “gesto” che andrà a perfezionare. Un esempio semplice: nella carriera di uno stacchista c'è un
momento in cui i Kg salgono a poco più del doppio del peso corporeo; a questo punto il migliora-
mento si ottiene... facendo stacco in maniera corretta, “sentendo” i pesi e le velocità specifiche di
quei pesi piuttosto che in altro modo.

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La specificità dello stacco è saper tirare via un peso che è incollato al pavimento, sopportare quei
microsecondi che precedono il distacco dei dischi da terra, quando si preme e si tira con tutte le
proprie forze e si ha un lampo di consapevolezza che niente riuscirà a dissaldare le rotelle dal pavi-
mento. Si impara a vincere questa sensazione, con l'allenamento. Un intermedio deve allenare que-
sta “abilità”, e non saranno i saltelli o i pesetti a farlo maturare.
Questa situazione è tipica di tutti gli esercizi massimali: la capacità di dominare i carichi elevati.
Si parla anche di “transfer” di forza da un mezzo allenante all'altro. Questo è possibile se le velocità
sono paragonabili, altrimenti no. Non mescolate tecniche adatte ad un contesto con quelle di un'al-
tro, perchè non otterrete nulla.
La fame di novità è sempre cattiva consigliera, complice il “publish or perish” delle riviste e il fatto
che gli allenatori quotati e gli studi del settore sono sempre nell'ambito di sport che poco hanno a
che fare con il sollevamento pesi.
Non c'è nulla di male in questo, però mi sembra che quando si parla di certe cose è come se nasces-
se una scala di merito, in cui gli sport dove si è più “veloci” fossero anche quelli dove si deve essere
più dotati, abili, intelligenti e belli. E' come se “essere dinamico” fosse un pregio.
Non è così, è solo specificità. Prendete un 100 metrista, un pesista, un sollevatore di pesi olimpico e
un powerlifter. A parità di peso corporeo, di ranking nelle proprie specialità (nel senso che se il li-
vello è “regionale” lo è per tutti), di anzianità di allenamento, costanza e tutto il resto: il powerlifter
farà di più di stacco da terra, il sollevatore olimpico di slancio, il pesista di lancio del peso, il cen-
tometrista nei 100 metri. Specificità, punto e chiuso.
Se così non fosse, potrei allenarmi per il lancio del peso e andare a fare i 100 metri: esisterà di sicu-
ro uno che è forte in entrambe le specialità (sicuramente il cugino dell'amico dello zio di uno che
scrive su un forum), ma lo è all'interno del quartiere, del rione, della città e appena si sposta in un
contesto più ampio la specificità lo sbatterà fuori dalle finali al primo campionato dove competerà
con gli specialisti delle due specialità.
Molte volte, invece, sento discorsi della serie “quello è meglio di quell'altro”, come nelle barzellette
con l'italiano, il francese e il tedesco dove in Italia l'italiano è il più ganzo e ce l'ha più lungo, in
Germania è un mafioso spaghetti und mandolino mentre in Francia è solo il cugino un po' idiota
d'oltralpe.
Siamo lenti o no
Ma quale è la specificità del nostro “sport”? Il bodybuilding ha molto in comune con il powerlifting
se non altro per l'utilizzo non solo degli stessi mezzi allenanti (i pesi) ma anche degli stessi esercizi.
I nostri amati pesi sono mossi a bassa velocità, forza bruta quasi statica. E' però interessante capire
quello che succede quando eseguiamo un gesto, perchè se la velocità media è bassa, in certi punti
della traiettoria le variazioni sono determinanti, tanto che quelli forti sono anche coloro che in que-
sti punti riescono a essere “esplosivi”.
Avete mai visto quelle gare americane assurde dove dei trattori incredibili (molti sono delle turbine
aeronautiche con le ruote!) devono trascinare un enorme blocco di cemento armato nel minor tempo
possibile? Mi fanno letteralmente impazzire, migliaia di cavalli vapore selvaggi ed imbizzarriti. La
difficoltà è mettere in movimento quella mostruosa massa inerziale, dove è necessario vincere gli
attriti iniziali con un immenso ruggito turbocompresso, per poi mantenere la velocità conquistata.
Per quanto il movimento sia “lento” nessuno mette in dubbio l'immane quantitativo di energia ne-
cessaria a eseguirlo!

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In altre parole, il bodybuilder “forte per quanto è grosso” deve avere la capacità di dare gas al mas-
simo quando serve, e di tenere l'indicatore dei giri sul rosso pieno per tutto il tempo necessario a
spostare, sebbene lentamente, un peso troppo pesante per essere mosso ad una maggiore velocità.
Questo significa “essere dinamici” nel bodybuilding.
Non fatevi fregare quando vi dicono che il bodybuilding è un'attività lenta: se volete essere forti,
dovrete sviluppare una particolare forma di “velocità”
Parziali o complete?
Vorrei liquidare velocemente questo aspetto che non digerisco mai: le ripetizioni devono essere
complete o parziali? La risposta è semplice, diretta e inappellabile: complete.
Prima la spiegazione non biomeccanica ma a buon senso: perchè dovreste eseguire un esercizio su
un intervallo di movimento ridotto rispetto a quello che potreste fare?
Non voglio nemmeno sapere le vostre risposte, perchè le ho sentite tutte già 10 anni fa e già allora
mi facevano tutte incazzare. Qualsiasi sia la vostra argomentazione, siete nella stessa situazione di
chi vuole proteggersi dalle bombe al fosforo sganciate da uno squadrone di B-52 aprendo l'ombrel-
lone da spiaggia: senza speranza.
Tanto per dire, su certi esercizi imparate la tecnica su tutto l'arco di movimento, così eviterete il so-
lito saccente che fa un quarto dei vostri pesi e vi chiede “ma perchè non arrivi fino in fondo?” e voi
dovrete spiegare, cioè giustificarvi. Imparate il movimento completo e fatevi lo stripping a movi-
menti parziali per l'isolamento X-reps double loading quando dominerete la tecnica corretta. Punto.
Io credo che il bodybuilding debba rappresentare “forza estetica”, ma comunque “forza”. E la forza
viene espressa in certi “gesti” propri di questa attività. In questi gesti la componente estetica è il
“controllo”, e il controllo passa per una corretta tecnica esecutiva su tutto l'arco di movimento pos-

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sibile. Ok, lo dico sempre, lo so. Però credo fermamente a questo concetto.
Torniamo alla nostra amata panca, alla forza che il pettorale sviluppa nel movimento. In questo ca-
so, il 100% della tensione che il pettorale deve sviluppare si ha nel punto più basso.
Ogni muscolo ha un punto in cui deve sviluppare la massima forza, dovuto all'escursione del mo-
vimento e alle leve articolari, ma negli esercizi classici da palestra in cui il bilanciere si muove in
maniera praticamente rettilinea, i punti di minima e di massima difficoltà siano posizionati agli e-
stremi della traiettoria.
Carico esterno e carico interno
Nel bodybuilding si usa fare una distinzione, a parità di peso sul bilanciere, fra carico esterno e ca-
rico interno. Il primo è di semplice rappresentazione: è il peso sul bilanciere, oggettivo, reale. Il se-
condo, invece, è come questo carico viene percepito all'interno del nostro corpo. Questa percezione
varia a seconda di come eseguo il movimento, lenta o veloce, o di quale sia la mia condizione fisica:
lo stesso carico che la settimana scorsa sollevavo con facilità, se oggi sono raffreddato e con i brivi-
di di febbre, mi sembra rivettato al terreno.
Personalmente non amo la definizione di carico interno, pur comprendendone la motivazione: per
un ingegnere come me (“ingegnere” = “rigido e ottuso” secondo mia moglie quando non è arrabbia-
ta, altrimenti “rigido, idiota e ottuso”) l'approccio è troppo soggettivo, quasi romantico.
Nella mia definizione il carico interno è la tensione/forza che che i miei muscoli devono creare per
controbilanciare il peso sul bilanciere.

Sempre nella panca, un carico di 100Kg a braccia distese “non vale” quanto gli stessi 100Kg da
spingere via dal petto. Non conosco, cioè, la forza che i miei muscoli devono generare al petto o

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braccia distese, ma di sicuro il massimo è al petto e il minimo è a braccia distese o, in altre parole, a
parità di carico esterno il carico interno sarà massimo nel punto più difficile del movimento.
Il carico interno dipende perciò dal carico esterno, dalle leve articolari e, come vedremo, dalla velo-
cità di esecuzione. E' pur sempre oggettivo perchè con un corretto modello biomeccanico si potreb-
be calcolare con sufficiente approssimazione. Ma non ci interessa, perchè troveremmo quantificati
con dei numeri cose che già sappiamo empiricamente.
Nel disegno precedente cosa accade caricando due pesi differenti sul bilanciere ma eseguendo an-
che escursioni differenti. Supponiamo che la traiettoria verde tratteggiata sia quella relativa a una
escursione completa con un peso del 20% superiore a quello caricato nel movimento a traiettoria
blu.
Però l'esecuzione “verde” non è completa, ma parziale, dove non arrivo nel punto più basso del mo-
vimento, quello dove il pettorale ha la maggior sollecitazione e la traiettoria finale è quella verde
non tratteggiata: i carichi esterni sono uno maggiore dell'altro, ma quelli interni sono esattamente
all'opposto.
Sappiamo che il coinvolgimento delle fibre è dato dalla tensione che i muscoli devono generare in
opposizione a quella a cui sono sottoposti, perciò in questo caso il movimento completo porta sicu-
ramente ad un coinvolgimento di maggior muscolo pettorale!
Questa è semplicemente la visione più formale di quello che tutti sappiamo: inutile caricare monta-
gne di rotelle per fare escursioni che sono meno della metà del movimento completo, no?
Ciò significa che i movimenti parziali siano da buttare? Assolutamente no, servono proprio per im-
parare a gestire un peso oltre il massimale, per non aver paura del carico, per tutta una serie di mo-
tivi leciti e plausibili. Personalmente adoro la board press, un classico parziale sulla panca!
Non dobbiamo mai e poi mai farci prendere la mano iniziando a pensare che più peso equivale a più
stimolo sulle fibre muscolari. Perchè non è vero.
Bullet time di una ripetizione
Rendiamo più frizzante la trattazione! Cosa ho riportato sull'asse orizzontale dei due disegni prece-
denti? Niente. Ma... cosa ci sarà? Il tempo? Nemmeno. Ho barato.
I due disegni sono quella che si chiama curva statica della forza, cioè quanta forza è necessaria per
mantenere il peso fermo in un dato punto della traiettoria: immaginate di far eseguire la panca ad un
nerd-cavia e di piazzarlo fermo con il bilanciere a metà traiettoria mentre voi effettuate le misura-
zioni della sua forza muscolare con gli elettrodi collegati al 380 trifase. Poi fate variare la posizione
di qualche centimetro, altra scarica e altra misurazione. Riportate sull'asse orizzontale i centimetri di
discesa e su quello verticale le tensioni muscolari misurate, poi unite i puntini (non sono numerati
ma ce la potete fare) e ottenete quella specie di curva.
La situazione non è reale, perchè non c'è di fatto movimento! Facciamola, allora, questa dannata ri-
petizione, a velocità normale ma osservandola come Neo vede le pallottole in Matrix.
Ecco che spuntano i corni, come quelli... delle lumache. Toccatevi la testa. Tutto a posto? Ok, come
quelli delle lumache, come stavo dicendo.

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Immaginatevi di fare una ripetizione di panca scendendo in due secondi, facendo una pausa al petto
di due secondi e di risalire in altri due secondi (il due è un numero mistico ricorrente).
Guardate la riga rossa, che rappresenta la velocità del bilanciere, da sinistra verso destra:
 Inizialmente è negativa perchè il bilanciere sta scendendo (ho deciso che le velocità sono
positive quando il bilanciere sale), ma è costante: nella pratica i movimenti che eseguiamo
in palestra con carichi decenti sono tutti a velocità costante nella parte centrale della
traiettoria. Ci sono chiaramente delle oscillazioni di velocità, ma l'ipotesi che ho fatto è
plausibile.
 Nel punto più basso del movimento la velocità varia bruscamente, perchè voi... frenate il
peso al petto, perciò la velocità va a zero. Il blocco del bilanciere, per quanto la discesa
possa essere relativamente lenta, è sempre deciso, perciò la velocità varia in un tempo molto
breve.
 Al petto la velocità è zero per tutto il tempo della pausa
 Quando inizia la risalita la velocità diventa positiva dato che il bilanciere va verso l'alto.
Anche la risalita è a velocità praticamente costante, a meno del momento in cui il bilanciere
si mette in movimento: l'intervallo di tempo in cui la velocità passa da zero al valore
costante è molto breve, e perciò la velocità ha il picco del grafico.
Quello che ho descritto è quanto di solito accade, non è che la panca “si fa così”, ma il concetto è
che se un peso è “pesante” e lo muovo in maniera controllata, la sua velocità sarà quasi costante,
meno che nei punti in cui passa a zero o da zero passa al valore costante.
Nel sollevamento di pesi olimpico questo non accade e si possono distinguere molte fasi in una
traiettoria estremamente complessa dove di volta in volta è il bilanciere o l'atleta che si muovono
mutuamente, ma in palestra su movimenti rettilinei con carichi “elevati” questo è il comportamento
tipico.

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Vediamo perciò la forza che il nostro pettorale deve generare ai suoi estremi (il suo carico interno),
la curva blu:
 In fase di discesa, la velocità è costante e la tensione generata dai nostri muscoli si
incrementa all'aumentare della difficoltà delle varie leve articolari, secondo la solita curva
statica.
 Quando il bilanciere deve essere frenato la velocità non è più costante, ma varia nel tempo:
una variazione di velocità è possibile solo se c'è una accelerazione, ma una accelerazione è
possibile solo se c'è una forza: oltre alla forza statica necessaria per mantenere il bilanciere
in quel punto, è necessario generare una forza dinamica per frenare il bilanciere stesso! Più
la variazione di velocità è brusca, più forza devo generare, ed ecco il primo corno che si
esaurisce quando il bilanciere è fermo: devo generare un picco di forza per frenare il
bilanciere.
 A questo punto per tenere il bilanciere al petto devo generare solo la forza statica che mi
serve
 Quando devo far partire il bilanciere accade esattamente l'opposto: devo rimetterlo in moto,
facendo variare nuovamente la sua velocità, perciò, ancora, devo accelerarlo e per far ciò
devo imprimere una forza maggiore di quella statica: più velocemente voglio metterlo in
movimento, più forza devo dare. Ecco il secondo corno.
 Quando il bilanciere si muove a velocità costante, devo semplicemente controbilanciare la
forza di gravità dandogli la forza statica necessaria all'altezza in cui si trova (cioè in
funzione delle leve articolari che si hanno alla data posizione)
Come si vede, il movimento dinamico è del tutto differente da quello statico e l'introduzione del fat-
tore tempo fa cambiare le carte in tavola: frenare e far ripartire il bilanciere impone ai muscoli di
generare un picco di tensione (cioè di forza o di contrazione, che nel nostro caso sono sinonimi).
Ma un picco di tensione/forza/contrazione è possibile solo con un utilizzo maggiore delle fibre mu-
scolari. Sono riuscito a comunicarvi un messaggio? Variare la velocità di esecuzione permette un
diverso coinvolgimento delle fibre. Wow... però, aspettate.
In giù e in su non è la stessa cosa.

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Cerchiamo di avere una visualizzazione di quello che avviene internamente al muscolo, perchè alla
fine è questo che ci interessa.
Durante la discesa si ha una contrazione eccentrica poiché la tensione muscolare deve aumentare
mentre il muscolo si sta contraendo. Non si tratta di una eccentrica “pura”, una ripetizione negativa
perchè non dobbiamo contrastare un peso che ci vorrebbe schiacciare, ma stiamo controllando la
sua discesa.
Via via che è richiesta forza si attaccheranno sempre più testine di miosina ai filamenti di actina, e
sempre più testine verranno “tirate” a causa dello stiramento muscolare. Se supponiamo che stiamo
facendo una ripetizione di una serie non massimale, questa eccentrica non sarà così devastante co-
me una bella negativa con il 130% del proprio massimale, perciò il “danno” muscolare dovuto ai
microstrappi sebbene presente non sarà così intenso.
Dico questo perchè non voglio che si confondano le eccetriche massimali degli studi sull'ipertrofia
con le eccentriche di una semplice serie a molte ripetizioni.
Poiché il movimento è un allungamento del muscolo sotto tensione, i fusi neuromuscolari registre-
ranno questa situazione iniziando a inviare i loro treni di impulsi sempre più ravvicinati ai rispettivi
motoneuroni, perciò il riflesso miotatico inizia a farsi sentire, potenziando la contrazione muscolare.
Nel momento in cui devo fermare il bilanciere dando un impulso di forza, il riflesso miotatico po-
tenzia la frenata del bilanciere! Contemporaneamente, se siamo allenati, gli organi del Golgi non
entreranno in funzione, perciò non avremo il “depotenziamento” della contrazione.
Non solo: in discesa lo stiramento permette di avvantaggiarsi delle cosiddette proprietà viscoelasti-
che del muscolo. Il muscolo ha infatti proprietà meccaniche come tutti i materiali, per quanto sia
tessuto vivente.
Per dare un'idea della viscoelasticità masticate una gomma, poi quando è tutta salivosa e schifosa
prendetela fra le dita di una mano. Pinzatela con le dita dell'altra mano e tirate forte: percepirete una
resistenza “gommosa” che diminuisce allo stirarsi della gomma stessa. Più velocemente tirate, più
resistenza avrete e, viceversa, se tirate molto lentamente la gomma si allungherà come se fosse sof-
fice. Se raffreddate la gomma questa resistenza sarà maggiore, se la riscaldate sarà minore.
Le fibre della gomma sono elastiche, ma hanno bisogno di un certo tempo per deformarsi: se voi ti-
rate troppo velocemente queste non fanno in tempo ad adattarsi e esercitano così una controtensio-

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ne. E' la “viscosità”, come accade quando siete nell'acqua fino alla vita e volete correre: l'acqua di-
venta “dura”, mentre se camminate è tutto più semplice..
Un muscolo ha questa caratteristica di elasticità che dipende dalla velocità di stiramento: più velo-
cemente lo stirate, più resisterà, come la gomma da masticare, indipendentemente dalla sua capacità
di contrarsi. Ovviamente, siete fatti di ciccia, non di gomma, perciò la viscoelasticità è limitata, a
meno che non vogliate massacrarvi, ma contribuisce a frenare il movimento.
Il “riscaldamento muscolare”, ad esempio, fra le tante cose serve a rendere meno viscosi i muscoli
proprio con il calore che viene generato, diminuendo la probabilità di infortuni.
Perciò in discesa parte della forza che il muscolo genera per frenare il movimento viene dalla vostra
contrazione volontaria, parte dal potenziamento del riflesso miotatico, parte dalla viscoelasticità:
più il carico è basso e più velocemente scendete, e più le ultime due componenti diventano impor-
tanti.
Se state un minimo attenti, potete sperimentarlo su voi stessi e sopravvivere per raccontarlo: mettete
un carico bassisismo, dell'ordine del 20% del massimale, e fate una ripetizione “piano” e poi una
“veloce”, sia in eccentrica che in concentrica, cercando di sparare via il bilanciere: nel secondo caso
la forza che voi dovete volontariamente imprimere è decisamente inferiore. Il vostro cervello deve
lavorare meno e il bilanciere salterà via dal petto.
Tornando alla nostra ripetizione, sia il riflesso miotatico che la viscoelasticità si esauriscono un un
certo intervallo di tempo: il primo perchè l'attività elettrica dei fusi neuromuscolari termina con il
cessare del movimento eccentrico quando facciamo la pausa al petto, la seconda perchè “l'effetto e-
lastico” ha il tempo di affievolirsi perchè l'energia elastica accumulata viene dissipata sotto forma di
calore..
Quando devo allontanare il bilanciere dal petto la generazione della forza del secondo corno è tutta
a carico del mio sistema nervoso centrale: niente fusi, niente viscoelasticità, perciò il film è tutto u-
n'altro. La contrazione concentrica non ha nessun effetto potenziante.

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Ok, voi non fate la pausa, lo so... Però la pausa mi serve didatticamente per far capire la differenza
“interna” delle due situazioni.
Nel disegno precedente quello che fate voi: nessuna pausa al petto, un corno solo. In questo caso al-
l'inversione del movimento beneficiate sia del riflesso miotatico che dell'elasticità data dalla visco-
sità muscolare: i fusi neuromuscolari inviano scariche potenzianti anche quando iniziate la concen-
trica perchè non cessano istantaneamente la loro attività, e l'effetto elastico dovuto alle proprietà
meccaniche dei vostri muscoli restituisce l'energia elastica accumulata durante la discesa sotto for-
ma di movimento.
Risultato finale: la concentrica è potenziata dall'eccentrica, sempre.
Interessanti considerazioni.
Una ripetizione eccentrica e una concentrica hanno perciò una risposta meccanica e fisiologica di-
versa! Questo può essere sfruttato, gestito o quanto meno utilizzato per non farci male! L'importante
è che abbiate chiaro cosa accade quando eseguite un movimento.
 Una eccentrica controllata ma “decisa” e una inversione senza pausa nel punto più basso
creano le migliori condizioni per una concentrica potente. Questo è assolutamente vero in
tutti gli esercizi, nel bene e nel male. Ad esempio, nello squat “prendere il rimbalzo” è una
tecnica avanzata che usano i powerlifter che accelerano negli ultimi centimetri della discesa
per caricare i loro femorali e ottenere una conseguente uscita vantaggiosa dal punto più
basso: è come se si “mollasse un po'” al termine del movimento. Chiaro che tutto questo è
sicuro solo se il resto della postura è mantenuto: schiena tesa e compatta, spalle rigide e tutto
il resto!
 Prendere il rimbalzo è ciò che avviene quando si vedono persone affondare a velocità
stratosferiche durante serie di squat (i più temerari anche nello stacco) con carichi medi ma
molte ripetizioni: questo giochino con un peso relativamente leggero permette loro di
macinare ripetizioni in più. Per esperienza diretta, funziona. Attenzione però che a muscoli
stanchi è facile prendere il rimbalzo e flettere la schiena. Come dicevo, nel bene e nel male.
 I movimenti puramente concentrici sono più difficili di quelli eccentrici-concentrici, e non
sto a dire il perchè a questo punto: la prima ripetizione di una serie di trazioni, di lento
avanti/dietro, la prima ripetizione di un curl per i bicipiti partendo dal basso, la panca
concentrica (quella dove si parte dai fermi di sicurezza di un rack), la prima ripetizione di
stacco fatta in tecnica sfiora-riparti, lo stacco fatto con la pausa a terra. Questi esercizi
necessitano di un coinvolgimento maggiore del sistema nervoso a parità di carico sul
bilanciere.
 Una delle caratteristiche della pausa nel punto più difficile è di annullare le componenti di
forza “aggiuntive” che, per quanto non siano cheating perchè fanno parte del vostro muscolo
sono comunque un aiuto. Per questo la panca con fermo al petto, fosse anche mezzo
secondo, è ben più difficile di quella senza fermo. Ma, mi raccomando, non fate i Bibbì
ottusi fissati con la massa: “più difficile” non implica “maggior stimolo ipertrofico”, io non
lo dico, non l'ho mai trovato scritto, non ho materiale per dirlo. E' tutto da dimostrare che un
maggior coinvolgimento del sistema nervoso, a partità di peso sul bilanciere ed esercizio,
provochi uno stimolo ipertrofico maggiore.
 Quello che è sicuramente vero è: se il riflesso miotatico fa eseguire una ripetizione in più,
sicuramente quella ripetizione in più è uno stimolo ipertrofico maggiore. Questo è “gestire”
il riflesso miotatico. Inutile, cioè, che fate un curl per i bicipiti eseguendolo lenti come
lumache, poi per chiudere il movimento fate una contorsione allucinante: tanto vale dare una
acceleratina nella discesa della penultima ripetizione per avere più spinta nella concentrica
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successiva e chiudere questa per bene...
Piano o forte, questo è il dilemma
La velocità di esecuzione influenza la dinamica della ripetizione, e in palestra si sentono teorie con-
trastanti, molte delle quali a mio avviso assolutamente senza senso.
Ecco tre ripetizioni di panca con pausa al petto eseguite a velocità differenti, con lo stesso carico.
Riporto l'ipotetica forza che il pettorale deve sviluppare in blu e la velocità del bilanciere in rosso.
La differenza nella dinamica dei “corni” è data dalla variazione della velocità.
Più devo frenare o accelerare il bilanciere nel punto più basso, più
forza devo generare e le corna si allungano.
E' perciò interessante notare come l'esecuzione “reale” di una ripe-
tizione coinvolga differentemente il muscolo rispetto ad una situa-
zione statica
Ammettiamo che il peso sul bilanciere vada a stimolare il 70%
della massa muscolare del pettorale quando questo è nel punto più
basso. In realtà, proprio perchè devo muovere il bilanciere ad una
certa velocità, in certi istanti il coinvolgimento muscolare sarà
sempre maggiore di questo ipotetico 70%. Più il bilanciere si
muove velocemente, più questo 70% si incrementerà.
Perciò nel mondo delle ripetizioni reali l'affermazione “è il carico
che determina il coinvolgimento del muscolo” non è propriamente
esatta, ed è possibile stimolare le fibre bianche super-
ipertrofizzabili con un allenamento a basso carico ma “dinamico”:
sparare a velocità supersonica il bilanciere con il 50% del massi-
male caricato sopra stimola di sicuro una percentuale di muscolo
ben più elevata di quella che si può pensare, a causa della velocità
di esecuzione.
Il motivo è che quello che conta è il carico interno: la forza che i
nostri muscoli devono sviluppare per mantenere il carico esterno
in una certa traiettoria e velocità di movimento.
Andare sempre forti non è il massimo
Non fatevi però fregare: la stimolazione delle fibre veloci avviene
per un tempo molto breve. Non è da confondere lo stimolo con l'e-
saurimento: l'allenamento corretto prevede di stimolare una ben
precisa “qualità” ma anche di esaurirla. Per questo motivo è ben
difficile ottenere una ipertrofia con carichi bassi ma veloci: non c'è il tempo sufficiente all'esauri-
mento.
Nel disegno seguente una situazione più realistica rispetto al disegno precedente dove la forza du-
rante la pausa era identica in tutti e tre i grafici. In realtà chi esegue le ripetizioni molto velocemente
mette sul bilanciere un carico molto basso. Se i valori di picco sono identici, cioè è possibile stimo-
lare molte fibre in entrambi i casi, si capisce che la durata di questo stimolo sia del tutto differente e
che, in media, la forza che il muscolo deve produrre sia comunque inferiore nel caso “lento” rispetto
a quello del caso “veloce”, come esemplificato nel disegno seguente dove le aree colorate sono pro-
porzionali sia al livello di forza, sia alla sua durata.

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Vorrei sottolineare perciò che non si diventa grossi facendo le ripetizioni veloci a basso carico per-
chè si stimolano le fibre bianche. Si stimolano, ma non basta: è necessario un certo tempo sotto
sforzo, perciò se allungo la base del “corno” la sua altezza va a diminuire, perchè è possibile fare
ciò solo rallentando l'esecuzione. Ma se rallento l'esecuzione la velocità nel punto più basso varia
meno, e ciò significa che devo generare meno forza! Spiace per i fautori di questa teoria, ma la Fisi-
ca è Fisica.
Pertanto, per ottenere lo stimolo per un tempo corretto devo... caricare di più. Non posso esimermi
dal mettere peso sul bilanciere!
Allenamenti di questo tipo hanno tutt'altra funzione e, se effettuati, devono essere inseriti nel conte-
sto corretto: la “velocità” ha senso per migliorare le capacità di reclutamento e di sincronizzazione
delle fibre, cioè ha valore didattico e propedeutico ad un successivo “sfruttamento” del nuovo livel-
lo di miglioramento tecnico.

Cercate di visualizzare questi corni, questi picchi come delle frecce che si conficcano nelle vostre
carni e nelle vostre articolazioni quando eseguite le ripetizioni strattonando e strappando: state sot-
toponendo il vostro corpo a delle brusche variazioni di velocità, possibili solo grazie a dei picchi di
forza impulsiva che richiedete ai vostri muscoli. Un conto è ottenere questo risultato con la giusta
tecnica, un conto è se state facendo male: per quanto i carichi possano essere bassi la tensione mu-
scolare (che agisce anche sui tendini e su tutto il tessuto connettivo) sarà elevata, con conseguente
possibilità di farsi male.
Questo spiega perchè c'è chi si fa male invertendo il movimento a razzo nel lento dietro, anche con
un peso ridicolo, nell'ultima serie di stripping: leva articolare assolutamente svantaggiosa, picco di
forza richiesto alla cuffia dei rotatori, lesione del sovraspinato assicurata.

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Morale: a meno che non inseriate il parametro “velocità esecutiva” all'interno di un programma ap-
propriato, non ha molto senso calcare la mano su questa variabile, dato che l'aumento di velocità
non è il mezzo per ottenere un corretto stimolo allenante. Non serve andare veloci in un programma
per la massa.
Andare sempre piano non è il massimo :-)
Saremmo a questo punto tentati di fare l'opposto: se “non serve” andare veloci, allora “serve” anda-
re piano! Non è così: un'esecuzione volontariamente “lenta” elimina tutte le richieste di forza im-
pulsiva, non allenando di fatto la capacità di contrazione sincrona delle fibre.
Depennare del tutto questa componente dall'allenamento impedisce la crescita dei massimali. Un
peso massimale che ci sovrasta è interpretato dal cervello come una situazione di pericolo, e la rea-
zione è un “ordine” a allontanarsi da questo pericolo, rapidamente. Difficilmente il cervello sarà in
grado di modulare questo ordine, come si vorrebbe in una ripetizione estremamente lenta dove la
forza dovrebbe crescere gradualmente.
Viceversa, il cervello riesce a mettere in moto rapidamente i suoi muscoli: la reazione attacco-fuga
è impulsiva. Invece di andare contro Natura, dovremmo seguirla e potenziare questa caratteristica.
Eliminare del tutto le componenti dinamiche impedisce lo sviluppo di questa abilità.
E' paradossale, ma rallentare volutamente un carico ad una velocità estremamente bassa è fortemen-
te impegnativo per il nostro sistema nervoso, non a caso tecniche come il SuperSlow (che preven-
dono ripetizioni lentissime) vengono rapidamente accantonate dopo il successo dato dalla novità:
stress elevato, carichi bassi, risultati non soddisfacenti. In sintesi, “due palle”.
Quello che accade, perciò, è che è sì possibile eseguire ripetizioni lentissime, ma con carichi sicu-
ramente molto lontani dalle proprie possibilità. Meno carico, meno stimolo. In un programma per la
forza rallentare volutamente una ripetizione non porta assolutamente benefici. E per la massa?
Una ripetizione molto lenta pone un diverso impatto “metabolico” sull'organismo rispetto a una ri-
petizione dove non si dà enfasi alla “lentezza”. Durante la contrazione muscolare i muscoli vengono
letteralmente strizzati e il sangue circola molto peggio o addirittura viene spinto fuori. I muscoli si
trovano in una condizione di ipossia. In una ripetizione a velocità ridotta la durata di questa ipossia
è superiore al normale.
Ci sono studi che fanno vedere come l'ipossia sia un fattore determinante per l'ipertrofia. Il KAA-
TSU ne è un esempio: esercizi per gli arti svolti con il 20% del massimale ma con una specie di lac-
cio emostatico che stringe braccia o gambe. Questo metodo provoca una risposta ipertrofica anche
con questi carichi estremamente scarsi.
Leggetevi qualcosa di questo metodo, ma sempre con le orecchie dritte: ad esempio, il fatto che la
NASA sia interessata a questo sistema non significa che funzioni per voi. La NASA ha tutto l'inte-
resse ad evitare una decalcificazione delle ossa dei suoi astronauti e il KAATSU è una buona solu-
zione: posso far allenare le persone nello shuttle senza trasportare centinaia di Kg di ferro in orbita,
ma con pochissimi pesi e molti lacci emostatici.
Considerate però che l'ipossia è UN fattore, uno dei tanti.
A grandi linee ogni carico ha il suo tempo massimo di esecuzione, perchè poi subentra la fatica. Nel
disegno qua sopra esemplifico questo concetto: ipotizzo di eseguire 3 ripetizioni in 9 secondi, 3 se-
condi l'una, o due ripetizioni da 4.5 secondi.
Quello che accade è che il carico che mi permette di eseguire un esercizio da 9 secondi, me lo farà
fare sempre per 9 secondi, sia che faccia 3 ripetizioni che ne faccia 2! Ok, non è proprio così, ma in

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prima approssimazione può andare. Provate, di sicuro non è che potrete fare 3 ripetizioni da 4.5 se-
condi.

Tutto questo ha a che fare con i vari metabolismi energetici di cui prima o poi parleremo, in partico-
lare con quello anaerobico lattacido. Sono convinto che nell'esperienza di ciascuno di voi una serie
con un carico medio e impegnativo può avere tante ripetizioni quante ne entrano in 20 secondi al
massimo.
Direi, addirittura, che l'ipossia accentua l'accorciamento della serie, perciò alla fine la durata dell'e-
sercizio è minore rispetto al caso da 3 ripetizioni. Se voglio effettuare una serie di 3 ripetizioni do-
vrò perciò abbassare il peso, e alla fine non c'è un reale vantaggio.
La tecnica di esecuzione lenta riesce ad intensificare la fatica complessiva perchè, solitamente, in
palestra le persone eseguono gli esercizi veramente male, perciò quando poi rallentano eliminando
rimbalzi e contorsioni provano una difficoltà superiore. Ma questo non è dovuto alla tecnica in se,
ma al fatto di variare qualcosa nell'allenamento. Non a caso c'è chi ottiene risultati con questa tecni-
ca. Però c'è chi ottiene risultati anche con la tecnica opposta, quella di andare forte...
Mi ricordo le volte in palestra che facevo la panca con la mia solita esecuzione controllata ma non
lenta: c'era sempre qualcuno che mi chiedeva a che servisse fare così piano...
Analogamente, tecniche come la tensione continua hanno lo stesso problema: non estendere com-
pletamente le articolazioni per evitare un rilassamento muscolare ha come effetto una maggior ipos-
sia che accorcia la durata della serie che è sì più dura, ma è anche più corta e/o svolta con meno pe-
so.
Non fatevi fegare perchè state facendo massa: è sempre il carico che determina quanto muscolo
viene coinvolto, perciò se questo scende sotto un certo livello per farvi fare la seriettina a velocità di
un frame al secondo, state facendo uno sforzo immane per non ottenere nulla.
Utilizzate il rallenamento delle ripetizioni in maniera oculata e, più che altro, imparate una bella
tecnica da utilizzare sempre, anche durante serie superlattacide.

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Veloce quando serve, lento quanto basta
Come sempre quando si parla del corpo umano, l'approccio migliore è il buon senso: intuitivamen-
te, esiste una velocità adatta ad ogni carico. Se il peso è troppo leggero, potrò muoverlo velocemen-
te, se è troppo pesante, non mi sarà possibile.
Una esecuzione con tecnica corretta è quella che, visivamente ed intuitivamente, muove un carico
“medio” a velocità “media”: è il carico che fa la velocità e non viceversa. Solitamente movimenti
con un carico tale per cui sia l'eccentrica che la concentrica sono dell'ordine dei 2 secondi costitui-
scono un buon punto di partenza. Non c'è nulla di scientifico in questi 2 secondi, ma provate a cro-
nometrare una buona esecuzione di una serie da 3, 4 ripetizioni: troverete questi due benedetti se-
condi.
Potremmo fare un piccolo studio calcolando una distanza media per la traiettoria nei vari esercizi,
poi calcolare la velocità esecutiva, per poi correlarla con la curva tensione-velocità. Sono convinto
che troveremmo le velocità tipiche del powerlifting, scoprendo quello che già sappiamo: una ripeti-
zione “sotto controllo” con un peso medio-alto è “tipicamente” svolta in 2 secondi in giù e 2 secon-
di in su”.
Sebbene queste siano i tempi in gioco, una analisi più accurata e competente di una ripetizione
“controllata” è la seguente:
 discesa eccentrica “decisa”, in assetto corretto, a velocità costante, in modo da “caricare” i
muscoli di energia elastica e potenziare la contrazione muscolare con il riflesso miotatico
 massimo sfruttamento dell'eccentrica nell'inversione del movimento e rapida generazione
della forza per sparare il bilanciere verso l'alto
 tenuta della traiettoria e della velocità, fino alla chiusura del movimento
L'incremento della forza massimale passa per l'allenamento della capacità di mettere in moto quanto
più velocemente possibile un carico elevato. Questo proprio per affinare la capacità dell'organismo
di togliersi di torno un pericolo nel tempo più breve possibile.

Un ciclo di forza per il bodybuilding dovrebbe allenare queste due componenti: la capacità di gesti-
re carichi elevati, “massimali”, e la capacità di spostarli “velocemente”. Facendo riferimento alla
solita curva tensione-velocità, dovremmo spostarci su due punti diversi per massimizzare entrambe
le componenti.

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Solitamente i cicli di forza del bodybuilding partono dal punto a velocità più elevata e terminano in
quello a velocità più bassa, o addirittura partono e terminano in questo punto: il bodybuilder conce-
pisce un ciclo di forza come utilizzare quanto più carico possibile nell'allenamento ma questo è,
come detto, un errore.
In palestra i cicli di forza stallano perchè il classico 3x3 è a pesi così elevati che i muscoli sono così
sotto tensione da non poter sfruttare le loro capacità di generare forza impulsiva: la velocità del bi-
lanciere si abbassa e si perde la capacità di invertire il movimento correttamente. In più se il ciclo è
“di forza” la tendenza a concentrarsi sul carico fa perdere attenzione sul volume di allenamento che
si decrementa così tanto da cadere sotto la soglia del corretto stimolo.
Questo errore è tipico anche di chi imposta per i cicli di forza una progressione da carichi più bassi:
senza saperlo sta percorrendo la curva tensione-velocità da destra a sinistra, in salita. Perciò ini-
zialmente sta allenando la forza “veloce” perchè i carichi bassi sono mossi a buona velocità, ap-
prendendo la corretta inversione del movimento e affinando le capacità coordinative, mentre nel
tempo l'aumento del carico svilupperà le capacità di generare tensione massimale, beneficiando pe-
rò delle abilità precedentemente acquisite.
L'errore sta nel far calare il volume e incrementare troppo i carichi, arrivando allo stallo fisiologico.
Ma, tanto, il bodybuilder effettua dei cicli di forza limitati nel tempo e al momento dello stallo torna
ad un altro tipo di allenamento. Il problema è che tutto questo è un peccato: come mi fece notare
una volta Enrico, questo modo di fare permette essenzialmente di “riconfermare” i soliti livelli di
forza e non di incrementarli. Per questo ci sono persone che si mantengono stabilmente ai soliti
massimali o, se incrementano, questo incremento è minimale: prendono la rincorsa e poi sbattono la
faccia sul muro dello stallo.
Una scheda di forza ben fatta prevede, invece, una al-
ternanza o una concomitanza di allenamenti per en-
trambe queste qualità. I più smaliziati ritroveranno in
questa mia trattazione degli elementi di uno schema “al-
la Westside” o, semplicemente, di un allenamento di ti-
po “coniugato”. Per chi non conosce queste cose, po-
tremmo definire tutto questo come “roba da powerlif-
ting”. In parte è vero, ma io penso che, se si deve au-
mentare la propria forza per poi sfruttarla nel puro bo-
dybuilding, è “furbo” inserire degli elementi di proto-
colli che funzionano...
Durante i cicli di massa voi sfrutterete a fini ipertrofici
la forza che avete ottenuto dai precedenti cicli appositi.
Potremmo perciò definirla come forza funzionale per
usare una parolina che va di moda: forza in funzione
dell'ipertrofia.
In un ciclo di massa non dovrete focalizzarvi sulla ve-
locità di esecuzione, ma semplicemente seguire il clas-
sico criterio evergreen “movimenti lenti e controllati”.
In un ciclo di forza, invece, dovreste distinguere le due
componenti e operare di conseguenza. Ma solo in que-
ste fasi qua.

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Riporto due grafici classici della Teoria dell'Allenamento: scopo di una scheda di forza è migliorare
la velocità esecutiva a parità di forza (in alto) o, a parità di velocità migliorare la forza (in basso).
Nel nostro caso le variazioni sono poco pronunciate ma ci sono.
Ah... avete capito come strutturare una scheda di forza secondo queste idee? No? Infatti non l'ho
detto eh eh eh
Pausa o non pausa per la massa, questo è il dilemma
A parte la panca con fermo al petto, ma in quali altri esercizi si utilizza la pausa nel punto più diffi-
cile, dài... Cerchiamo di capire però quali siano le differenze e come sfruttare questa tecnica
Nel disegno qua sopra ho riportato a sinistra la tensione generata dal pettorale nel caso di una ripeti-
zione senza pausa, e a destra con pausa. Ho supposto che la velocità di discesa e di risalita siano le
stesse. A parte i picchi di tensione di cui abbiamo già parlato, la differenza rilevante è l'area sotto le
curve: con la pausa l'area è maggiore. Non solo, la pausa nel punto più basso crea uno stimolo omo-
geneo e prolungato nel tempo.
Perciò la pausa nel punto più difficile crea una difficoltà aggiuntiva per due motivi: il movimento
concentrico non è facilitato dal riflesso miotatico, e l'intera ripetizione è più “faticosa” perchè dura
di più.

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La pausa nel punto più basso è un mezzo semplice ed efficace per aumentare lo stimolo senza crea-
re troppi stress. In un mondo di assurde tecniche di intensificazione questa idea è troppo banale per
essere utilizzata!

Immaginate di fare lo squat alla solita velocità esecutiva, con il solito assetto (corretto), ma con un
po' di peso in meno. Nel punto più basso fermatevi e contate “milleuno”, poi ripartite. Lo squat di-
venta un altro esercizio, letteralmente. La pausa, eliminando rimbalzi e effetti strani, vi impone per

risalire uno sforzo brutale.


Potete inserire questa tecnica non solo nel punto più basso, ma in punti qualsiasi del movimento.
Nello stacco potete fare una pausa al ginocchio, sia in salita che in discesa, come nelle trazioni
quando siete nel mezzo del movimento, oppure potete imporvi di ripartire dal basso quando siete
completamente immobili.
Gli esperimenti da fare sono innumerevoli, e praticamente tutti gli esercizi si prestano a questa tec-
nica. Non solo, ma è anche molto modulare e sicura: le normali tecniche di intensificazione sono ri-
volte a prolungare la durata totale della serie, mentre la pausa agisce sulla singola ripetizione: posso
aumentare lo stimolo allenante in condizioni di freschezza, per poi eliminare la pausa e continuare
la serie.
Non dovete fare per forza una pausa in un punto qualsiasi del movimento, ma tenete a mente questa
semplicissima tecnica quando volete intensificare qualcosa nel vostro allenamento: la pausa può es-
sere un potente mezzo durante un ciclo di massa.
Faccio la pausa o vado piano?
Sembra che stia cadendo in contraddizione: prima dico che andare piano non va bene, poi invece
esalto la pausa che è ben più di andare piano, è proprio fermarsi!!!
Nel disegno seguente ho riportato a sinistra il caso di una ripetizione con pausa e a destra di una ri-
petizione senza pausa che però ha uno stimolo (nella definizione che abbiamo dato precedentemen-
te) apparentemente equivalente: le aree sotto le due curve sono identiche.
Le due situazioni non sono identiche: una pausa è l'inserimento di una difficoltà all'interno della so-
lita forma di esecuzione, rallentare per ottenere lo stesso stimolo è un'altro modo di eseguire la stes-
sa ripetizione. In una ripetizione con pausa la dinamica esecutiva non cambia, e il sovrastimolo per
frenare e accelerare il bilanciere sono sempre presenti, in una ripetizione lenta questi elementi non
ci sono.

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Personalmente preferisco una ripetizione più difficile rispetto ad una ripetizione differente.

Infine, il TUT
Charles Poliquin ha introdotto negli anni '90 il famoso TUT, time under tension, tempo sotto tensio-
ne. Il TUT viene indicato con 4 numeri, il primo è il tempo dell'eccentrica, il secondo la pausa, il
terzo la concentrica e il quarto la pausa (credo...). Perciò 2.0.2.0 significa che scendo in 2 secondi,
non faccio la pausa e risalgo in 2 secondi, ripartendo subito. Se avessi indicato 2.0.X.0 la X avrebbe
avuto il significato di “massima velocità possibile”.
Come tutte le grandi novità, c'è stato un periodo in cui il TUT era sulla bocca di tutti, sembravano
tutti macchinisti, “TUT TUT!! Signori in carrozza!”. Si sentivano anche delle grosse idiozie, mai
capito se anche da parte dell'autore, la più inenarrabile era che per ottenere una risposta ipertrofica il
tempo di una serie non poteva essere inferiore a 40 secondi (forse non erano 40, ma comunque uno
sproposito): per tenere quelle tempistiche il carico sarebbe dovuto essere infimo. Poi siamo passati
al TUT globale, somma di tutti i TUT del gruppo muscolare, dell'allenamento, e i 40 secondi sem-
bra si riferissero a questo nuovo parametro.
Non so se si capisce ma a me il TUT non è mai piaciuto... Secondo me i tecnicismi hanno senso se
descrivono qualcosa di utile, altrimenti li percepisco solo come uno sfoggio di bravura, atteggia-
mento che detesto, è più forte di me.
In definitiva il TUT è un modo per quantificare lo stimolo allenante, il volume di lavoro. Il princi-
pale limite che non mi ha fatto mai digerire il TUT è che non tiene conto del carico, perciò non rap-
presenta correttamente l'area sotto la curva tempo-tensione, che invece è una miglior rappresenta-
zione dello stimolo allenante. Banale: supponendo di eseguire sempre le ripetizioni allo stesso mo-
do, uno stimolo allenante definito come serie x ripetizioni x Kg (che altro non è che il tonnellaggio
totale conosciuto dai tempi di Noè) permette di avere più informazioni.
Non voglio essere ipercritico oltre misura: diciamo che il TUT ha senso per compattare delle indi-
cazioni in poco spazio:
 2.0.2.0 si dovrebbe leggere “esecuzione controllata con velocità che dipende dal carico,
niente pausa in basso”
 2.1.2.0 si dovrebbe leggere “come prima, ma fai una pausa del tipo milleuno in basso”
 1.0.1.0 invece sarebbe “veloce a scendere, veloce a risalite”
 3.0.3.0 starebbe per “controlla la discesa e la risalita” mentre 4.0.4.0 “controlla molto la
discesa e molto la risalita”

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Ok, avete capito, no?
 3.0.1.0 è “controlla la discesa e vai veloce in risalita”, mentre 3.0.X.0 è “controlla la discesa
e spara quel (beep) di bilanciere verso l'alto”
 4.1.4.0 è “fai tutto pianissimo”
 1.5.X.10 si interpreta con “se mai farai una ripetizione così ti bevi tutto quello che ti dicono
sui forum”. Ah, aspettate... 1.5.X.10 @ 80% 1RM, ecco, ora è perfetto
In un ciclo di massa ha perciò senso introdurre delle (opportune e sensate) variazioni di velocità e-
secutiva. Del resto, nel ciclo di forza “come piace a me” pur non parlando di TUT ho esplicitamente
distinto il “veloce” dal “piano”!
Anzi, credo che il TUT sia una di quelle cose su cui andrebbero svolte molte sperimentazioni. Sono
però convinto che le variazioni di velocità debbano essere comunque limitante, nell'intorno della
velocità determinata dal carico. In altre parole, un 4x6x70% ha la sua velocità esecutiva: posso in-
tensificare il mio lavoro aumentando “un po'” in più o in meno la velocità di quello che faccio, a
patto che il carico non venga abbassato.
Nel momento in cui per tenere una certa velocità esecutiva devo scaricare il bilanciere, sto commet-
tendo un errore. Per quanto la scheda sia per l'ipertrofia a me piace mantenere una certa zona di la-
voro in cui il carico rimane comunque un elemento importante.
Conclusioni
Sembra impossibile, ma come sempre quello che succede è che il buon senso è sempre una chiave
per ottenere le cose.
L'aumento dei carichi è funzionale alla massa, pur non essendo lo scopo primario del culturista. Per
fare questo è necessario allenare le due caratteristiche primarie necessarie a spostare carichi elevati:
produrre una contrazione elevata in un intervallo di tempo molto breve e tenere il più possibile que-
sta contrazione. Possiamo chiamarle “forza massimale” e “forza veloce”. Questi due aspetti forma-
lizzano il comportamento del corpo umano sotto stress: allontanare il pericolo più velocemente che
si può.
Scopo di una scheda di forza è permettere l'incremento dei carichi da applicare per questo tempo,
scopo di una scheda di massa è fornire lo stimolo nel tempo sulla base di quei carichi. Perciò le due
cose sono annodate fra loro.
Se voi cercherete di sviluppare una buona tecnica esecutiva, senza strappi o errori, ogni ripetizione
sottoporrà il corpo al giusto stress allenante. Così facendo il tempo di ogni singola ripetizione non
sarà importante se non in particolari periodi del ciclo di allenamento.
L'equilibrio è questo: se enfatizzare la velocità, in positivo o in negativo porta comunque ad una
perdita di peso sul bilanciere, questa perdita alla fine va sempre a controbilanciare gli effetti positivi
che questa enfasi produce.
Alternare schemi di massa a schemi di forza in maniera intelligente dovrebbe essere il modo princi-
pale con cui il frequentatore della palestra sposta verso l'alto il suo livello prestativo.

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