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EPICURO

la vita e gli scritti

Nel 306 a.C. si vide sorgere in Atene, oltre all'Accademia e al Liceo, un'altra scuola filosofica, il Giardino (in greco.
Kpos). Fondatore di essa Epicuro, nato a Samo da genitori ateniesi nel 341 a.C. Da giovane, nella vicina Teo,
entr a far parte della cerchia di Nausifane, che si richiamava all'insegnamento di Democrito e che in seguito Epi-
curo avrebbe criticato. Successivamente fond una piccola comunit filosofica a Mitilene, nell'isola di Lesbo, e poi
a Lampsaco.
Nel 307-306, tornato ad Atene, acquist una casa con un giardino e vi fiss la sua scuola. Essa si presentava
come una comunit filosofica di amici, di cui facevano parte anche donne e schiavi, che conducevano una frugale
esistenza in comune. lontani dalla vita pubblica. Ai destinatari del suo insegnamento Epicuro non richiedeva una
particolare preparazione culturale. Egli riteneva, inoltre, che ogni et fosse adatta per diventate filosofi - anche la
vecchiaia - contrariamente a quanto sembrava aver pensato Platone. La principale attivit della scuola consisteva
nella lettura e nello studio degli scritti di Epicuro che continuava a intrattenere rapporti epistolari con discepoli lon-
tani. Alla sua morte - avvenuta nel 271 - la casa e il giardino passarono a Ermarco che divenne il caposcuola, se-
condo le stesse disposizioni testamentarie del maestro. La fedelt e la venerazione per il capostipite furono un
contrassegno tipico e costante della scuola epicurea.
Epicuro compose numerosi scritti. Di molti di essi abbiamo soltanto titoli o scarsi frammenti. L'opera pi importan-
te costituita da Sulla natura, 37 libri scritti in un lungo arco di tempo. Su di essa Epicuro torn incessantemente,
riprendendo problemi e approfondendo temi gi trattati in precedenza. In quest'opera era sviluppato il suo inse-
gnamento in tutti i suoi aspetti, non soltanto in relazione alla filosofia della natura, ma anche alla gnoseologia e
all'etica. Di essa non rimangono che frammenti papiracei, rinvenuti nella villa di un ricco romano epicureo, situata
a Ercolano e colpita dall'eruzione del Vesuvio nel I secolo d.C. In essa soggiorn nel I secolo a.C. l'epicureo Filo-
demo di Gadara, che vi costitu una ricca biblioteca, in gran parte di testi epicurei. Integralmente conservate nel X
libro delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio sono, invece, tre Lettere di Epicuro, indirizzate a tre diversi destina-
tari: a Erodoto (sui princpi della dottrina atomistica), a Pitocle (sulla meteorologia) e a Meneceo (sull'etica).
Aspetto tipico dell'attivit letteraria della scuola divennero esposizioni riassuntive o raccolte di massime estratte
dalle opere del maestro. Di questo tipo una raccolta di 40 Massime capitali, conservateci da Diogene Laerzio.

la funzione terapeutica della filosofia

Per Epicuro la filosofia ha, in primo luogo, una funzione terapeutica. Una delle metafore da lui preferite per indi-
care l'obiettivo della vita filosofica il galenisms. la quiete del mare dopo la tempesta. Questa situazione di quie-
te , tuttavia, minacciata e impedita dalle credenze infondate che spesso si generano in noi e procurano ansie e
timori. La filosofia deve, dunque, liberarci da queste credenze e condurci in un porto sicuro senza turbamenti.
Per questo motivo, essa stata chiamata da Epicuro anche quadruplice farmaco (tetrafarmaco). Essa deve
liberare luomo da quattro timori fondamentali: il timore della morte; il timore degli di; quello del dolore e quello
dell'impossibilit di essere felici.
A tale scopo, essa deve preliminarmente mostrare che cosa si pu realmente conoscere e come lo si pu cono-
scere. La filosofia si articola pertanto in tre parti: dottrina della conoscenza. fisica ed etica.

la dottrina della conoscenza

La dottrina epicurea della conoscenza (o canonica) ravvisa il punto di partenza e il criterio (o canone) del cono-
scere nelle percezioni sensibili, le quali sono prodotte da qualcosa di esterno o interno a noi. Le sensazioni sono
sempre vere, non ingannano mai sulla rappresentazione sensibile dell'oggetto, ma non sono tutte egualmente
evidenti. Soltanto le sensazioni evidenti sono testimonianze attendibili sulla realt oggettiva. Le altre, invece, at-
tendono conferma da quelle evidenti.
Il ripetersi di rappresentazioni sensibili evidenti e simili tra loro d luogo ai concetti generali o prolessi, ossia lette-
ralmente ad anticipazioni.
Tali concetti (per esempio, il concetto di uomo o di cavallo) consentono, infatti, di conoscere in anticipo - in base
alle sensazioni gi avute - che cosa contraddistingue i singoli oggetti. Ad esempio, in base a queste anticipazioni,
vedendo un certo oggetto, sar possibile riconoscerlo. In altri termini, posso dire dell'oggetto che ora percepisco
un uomo o un cavallo e cos via perch presenta un insieme di propriet gi conosciute mediante un determi-
nato concetto, o anticipazione.
Secondo Epicuro l'esperienza si genera dalla conservazione di tali concetti nella memoria.

la filosofia della natura

Le percezioni e i concetti sono collegabili tra loro in modo da dar luogo a ragionamenti che permettono di risalire
da ci che chiaro a ci che non lo . Questo un punto di estrema importanza per comprendere i capisaldi della
dottrina fisica. La fisica epicurea, infatti, risale - mediante ragionamento - da ci che evidente ai sensi a princpi
che tali non sono, ossia gli atomi e il vuoto. Epicuro riprende questi concetti da Democrito e ritiene che il mondo
fisico, quale appare ai nostri sensi, sia composto da un numero infinito di corpi indivisibili che si muovono
nel vuoto infinito. Secondo Epicuro in base alla nostra esperienza sappiamo che nulla pu nascere dal nulla e
nulla pu finire nel nulla, altrimenti il tutto si sarebbe dissolto col tempo. Ma che cosa attestano le sensazioni evi-
denti che - come abbiamo visto - costituiscono la base della nostra esperienza?
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Esse rivelano, anzitutto, l'esistenza dei corpi e il loro movimento. Passando da ci che evidente ai sensi ai prin-
cpi che tali non sono, Epicuro inferisce dal movimento dei corpi l'esistenza del vuoto. Se il vuoto non esistesse,
infatti, non potrebbe esistere il movimento. Ma il movimento esiste e, dunque, esiste anche il vuoto.
L'esperienza dei sensi attesta, inoltre, che i corpi sono suscettibili di disgregazione. Ora, poich secondo la nostra
esperienza nulla scompare nel nulla, bisogna ammettere che i corpi sono composti di entit indistruttibili: queste
entit sono gli atomi.
Gli atomi sono di forme innumerevoli, ma non sono dotati di qualit come colore, temperatura e cos via. Epicuro
accetta pertanto la distinzione democritea tra propriet oggettive (primarie) e soggettive (secondarie). Per Demo-
crito gli atomi, probabilmente, non avevano peso, n esisteva una direzione privilegiata del loro movimento. Epi-
curo, invece, attribuisce peso agli atomi, forse in base alla tesi che un corpo privo di peso non in grado di
muoversi.
Ma, allora, secondo quale direzione si muovono gli atomi per Epicuro? Nell'universo infinito non ci sono un centro,
un alto e un basso assoluti. Malgrado ci, si pu parlare di un alto e di un basso relativi ed , appunto, verso il
basso che gli atomi si muovono grazie al loro peso. Ma se gli atomi si muovono verso il basso lungo linee paralle-
le, come avviene la formazione dei corpi ? In queste condizioni, infatti, gli atomi non potrebbero incontrarsi e dare
luogo ad aggregazioni. i testi conservatici di Epicuro non rispondono direttamente a questo interrogativo. Ciono-
nostante, grazie alla testimonianza di Lucrezio sappiamo che Epicuro avrebbe tentato di spiegare la for-
mazione dei corpi attraverso la dottrina del clinmen (dal latino, declinazione). Attraverso di essa, egli
attribuiva agli atomi la tendenza a deviare casualmente dal loro moto perpendicolare verso il basso. In tal
modo, le aggregazioni tra atomi, che danno luogo alla formazione dei corpi, perdono ogni carattere di necessit.
Attraverso la nozione di clinmen, infatti. Epicuro rinuncia al principio secondo cui ci che accade nell'u-
niverso segue un ordine causale caratterizzato da necessit assoluta (determinismo) e introduce la ca-
sualit. lnoltre, anche l'anima umana costituita da atomi: il fatto che essi si muovano secondo deviazioni im-
provvise e casuali , secondo Epicuro, la condizione di possibilit dell'azione libera dell'uomo.
Secondo Epicuro la struttura dell'universo spiegabile soltanto mediante le nozioni di atomo e vuoto presenti nel-
l'universo.
La tesi che il cosmo sia formato di atomi e di vuoto serve a eliminare il timore della morte. Come gi sap-
piamo, l'uomo un composto di atomi e vuoto e anche l'anima costituita da un tipo particolare di atomi di forma
sferica. Secondo Epicuro la morte equivale alla disgregazione di questo composto. Ora, poich la sensibilit del-
l'uomo dipende dall'integrit del composto di atomi da cui formato, con la morte viene meno anche ogni possibi-
lit di percepire questo evento. Questo punto compendiato da Epicuro nell'affermazione quando c' la morte,
non ci siamo noi e quando ci siamo noi, non c' la morte.

gli di

Epicuro ammette l'esistenza degli di ma esclude che essi agiscano come cause o agenti provvidenziali sul
mondo e sugli uomini. In tal modo egli si allontana sia dalle credenze della religione popolare, sia dalle teorie ela-
borate in proposito dai filosofi.
Un argomento a favore dell'esistenza degli di dato dal consenso di tutti gli uomini: ci su cui tutti sono concordi,
secondo Epicuro, deve essere vero. Inoltre, tutti ritengono che gli dei siano immortali, felici e dotati di figura uma-
na. Epicuro ritiene che queste credenze siano delle prolessi, ossia concetti derivati dall'esperienza. Per esempio,
durante il sonno si hanno visioni di dei che - come ogni prolessi - derivano da oggetti reali. Per spiegare le visio-
ni oniriche in cui appaiono gli di, Epicuro utilizza la dottrina - gi in parte democritea - secondo la quale
dagli oggetti emanano incessantemente flussi di atomi. Essi sono chiamati idola (dal greco, immagini) e
conservano fedelmente la configurazione degli oggetti da cui provengono.
Infine, secondo Epicuro, gli dei non sono composti come gli altri oggetti, altrimenti sarebbero anch'essi sottoposti
ai processi di disgregazione. Gli di, invece, sono immortali, immuni da dolori e vivono beati in quelli che in
latino saranno detti intermundia, ossia negli spazi che separano tra loro gli infiniti mondi.
La condizione di beatitudine, ossia l'assenza di ogni genere di turbamento, usata da Epicuro come argomento
per dimostrare che gli di non si occupano del mondo e delle cose umane. Attribuire agli di il governo del mondo
equivarrebbe a privarli della beatitudine, che invece propria della condizione divina.
Altro argomento, forse di origine epicurea, contro la provvidenza divina quello che fa leva sulla presen-
za del male nel mondo. Tale argomento pu essere espresso cos: se gli di intervengono nelle vicende del
mondo, perch non eliminano il male? Le risposte possibili hanno la forma di una disgiunzione completa: o perch
non possono o perch non vogliono o perch n possono n vogliono. Ora, se non possono, gli di sono impoten-
ti. Se, invece, non vogliono, sono invidiosi, ossia non sono divinit buone. Impotenza e invidia sono caratteristiche
incompatibili con la nozione di divinit. Ma allora, se possono e vogliono, come mai il male continua a essere pre-
sente nel mondo? L'unica soluzione che consente di non attribuire alla divinit caratteristiche negative consiste
nel riconoscere che gli di non si occupano del mondo e delle faccende umane. Gli di non sono, quindi, n mi-
nacciosi n benigni, ma indifferenti all'uomo.
Anche la tesi dell'indifferenza divina serve a eliminare una paura umana fondamentale: il timore degli di.
Esso corrisponde allo stato di insicurezza provato dagli uomini in relazione alla possibilit di un loro intervento nei
fatti del mondo e dal loro potere di assegnare premi o castighi.

letica

Accanto al timore della morte e degli di, si gi visto che ve ne sono altri due - quello del dolore e dell'impossibi-
lit di essere felici - da cui la filosofia pu liberare l'uomo. compito della terza parte della filosofia, l'etica, libera-
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re l'uomo dal timore del dolore e dell'infelicit.


Epicuro ripone nel piacere il fine proprio della vita umana, egli sostiene che piacere e dolore non sono contrari,
bens contraddittori, nel senso che se c' l'uno, non c' l'altro e viceversa. Il piacere , dunque, definibile anzi-
tutto come assenza di dolore e caratterizza la condizione di chi gode di una buona salute fisica e psichica.
Il dolore, invece, sia fisico sia psichico, turbamento di questa condizione naturale. Come abbiamo visto, turba-
menti di questo genere sono i timori degli di e della morte, prodotti da false credenze.
Epicuro distingue tra
1) piacere cinetico, o in movimento, che accompagna un processo ed sempre mescolato con turbamen-
to o dolore e
2) piacere catastematico, o stabile, proprio invece di uno stato privo di dolori.
Epicuro ripone il fine della vita umana nel piacere catastematico. Esso soltanto coincide con la completa soddisfa-
zione del desiderio, che di per s una condizione dolorosa legata a uno stato di mancanza. I desideri, a loro vol-
ta, si distinguono in
1) desideri naturali e necessari, per esempio di cibo;
2) desideri naturali non necessari, per esempio di cibi raffinati;
3) desideri non naturali (vani), per esempio di gloria.
Secondo Epicuro soltanto i primi possono e devono essere integralmente soddisfatti, mentre gli altri non possono
mai essere soddisfatti completamente e quindi si accompagnano sempre al dolore.
Dal momento che indica nel piacere il fine della vita umana, Epicuro pu essere qualificato come un edonista. Il
termine edonismo, tuttavia, soprattutto in seguito all'affermazione della religione e della cultura cristiana, diven-
tato ambiguo e si caricato di significati negativi. Se per edonismo si intende, infatti, una dottrina che invita a per-
seguire in modo indiscriminato qualsiasi piacere, Epicuro non rientra nella definizione di edonista. Egli anzi, ben
lungi dal farsi sostenitore di una vita dissoluta, contrappone la frugalit - legata al soddisfacimento dei
bisogni naturali e necessari - al lusso e alla crescita illimitata dei desideri.
Inoltre, proprio perch il piacere coincide con l'assenza di dolori, per perseguirlo occorre effettuare una sorta di
calcolo. In altri termini, ogni scelta attuale di un piacere o di un dolore dovr prendere in considerazione i piaceri o
i dolori futuri, che possono derivare da essa. La scelta migliore sar, ovviamente, quella che dar luogo al piacere
maggiore.
Adottando questo punto di vista, il filosofo non avr timore dei dolori: se sono forti, durano poco, mentre
se durano a lungo, col tempo non sono pi sentiti. Lo stesso Epicuro conserv un atteggiamento di tranquilla
serenit di fronte alle malattie che lo tormentarono.
Se il piacere costituisce il fine ultimo della vita dell'uomo, in che cosa consister dunque la felicit? Essa cor-
risponder a una vita colma di piaceri nel senso che abbiamo esaminato prima, ossia in una vita il pi pos-
sibile priva di dolori, di desideri e di timori. In tal modo, il filosofo raggiunger quella atarassia1, o beatitudine, che
lo far vivere come un dio tra gli uomini. Anche per Epicuro - come gi per Aristotele - il modello ultimo della vita
filosofica la vita divina. Questa, per, non consiste pi, come per Aristotele, nell'attivit di contemplazione disin-
teressata dell'universo e della natura, bens nell'esercizio della saggezza per condurre una vita priva di turbamen-
ti.

iI principio del piacere [Epicuro, Epistola a Meneceo, 127-130]

Bisogna anche considerare che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e tra quelli naturali alcuni sono anche necessari,
altri naturali soltanto; tra quelli necessari poi alcuni lo sono in vista della felicit, altri allo scopo di eliminare la sofferenza
fisica, altri, ancora in vista della vita stessa. Una sicura conoscenza di essi sa rapportare ogni atto di scelta o di rifiuto al fine
della salute del corpo e della tranquillit dell'anima, dal momento che questo il fine della vita beata; in vista di ci che
compiamo le nostre azioni, allo scopo di sopprimere sofferenze e perturbazioni. Una volta che ci sia stato raggiunto, si dis-
solver ogni tempesta dell'anima, non avendo l'essere vivente altra esigenza da soddisfare n altro che possa render completo
il bene dell'anima e del corpo. Abbiamo infatti necessit del piacere quando, per il suo mancarci, soffriamo; [ma quando non
soffriamo pi], anche il bisogno del piacere viene meno. Per questo diciamo che il piacere principio e fine del vivere felice-
mente. Lo consideriamo infatti come un bene primo e connaturato a noi, e da esso muoviamo nell'assumere qualsiasi posizio-
ne di scelta o di rifiuto, cos come ad esso ci rifacciamo nel giudicare ogni bene in base al criterio delle affezioni. Poich esso
il bene primo e innato, non cerchiamo qualsiasi tipo di piacere, ma rifiutiamo molti piaceri quando ne seguirebbe per noi un
dolore maggiore; e consideriamo anche molti dolori preferibili al piacere, per il piacere maggiore che in seguito deriva dall'a-
verli lungamente sopportati. Ogni piacere un bene per il fatto che ha natura a noi congeniale; non tutti i piaceri sono per da
ricercarsi, come non tutti i dolori da fuggirsi, anche se il dolore di sua natura un male. Bisogna giudicare in merito di volta
in volta, in base al calcolo e alla considerazione dei vantaggi e degli svantaggi: giacch certe volte un bene viene ad essere per
noi un male e un male per contro un bene.

vita politica e amicizia

Per Epicuro, la piena realizzazione dei fini umani non raggiunta attraverso la partecipazione attiva alla vita politi-
ca e associata. Su questo punto, egli si allontana decisamente dal Platone della Repubblica e, in parte, anche da
Aristotele.
Il vero luogo in cui il piacere e la felicit possono essere raggiunti , secondo Epicuro, la piccola comunit di amici

1 atarassia (dal greco ataraxia, formato da a privativo e tarssein, turbare): assenza di turbamento o imperturbabi -
lit, sovente indicato nell'Antichit come il fine che il saggio deve perseguire.
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raccolti intorno a un maestro - ossia la scuola filosofica - e non la citt. La citt, per Epicuro, costituisce soltanto
una condizione negativa rispetto a questo scopo.
Lo scopo della vita associata , per Epicuro, quello della protezione e della difesa, ma la vita politica appare a
Epicuro come un terreno di conflitti e competizioni. La vita politica deve essere, pertanto, praticata solo quan-
do l'unica via per garantire la propria sicurezza, mentre - in ogni altra circostanza - l'uomo saggio si asterr da
essa. Di qui, il motto epicureo: vivi nascosto. Con esso, Epicuro non intendeva dire che si dovesse condurre
una vita solitaria o rompere i legami con la citt. Egli voleva, piuttosto, suggerire che la felicit e l'autosufficien-
za non possono essere ricercate nella citt, ma soltanto nei legami di amicizia.
Epicuro ravvisa, infatti, nell'amicizia un grande bene, ossia una causa di massimo piacere e felicit. A suo avviso,
l'amicizia realizzata pienamente soltanto nella piccola cerchia della scuola filosofica, al riparo dalle tempeste
della vita.

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