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Carestia - pag.

Antonio Montanari
Una fame da morire
Carestia a Rimini, 1765-68
Raccontiamo una pagina drammatica e poco conosciuta
della storia moderna della città e della sua campagna,
attraverso documenti ufficiali inediti.
Da essi emerge pure l’importante ruolo svolto a Roma da
mons. Giuseppe Garampi per aiutare i propri concittadini.
Le vicende hanno per protagonisti gli “ultimi”, vittime della
natura e della lenta burocrazia statale che non vedeva di
buon occhio Rimini.

Di grano, fino al 1762, Rimini ne ha avuto a sufficienza


per sé e per il Contado. I guai cominciano l’anno dopo:
«Si scuoprì […] all’improvviso una grandissima penuria
di molti generi necessarj al vivere umano […] tanto che
minacciava un’imminente carestia», scrive un cronista
del tempo, Ernesto Capobelli: la raccolta di grano è
«scarsissima», al pari di quella dell’oliva e dell’uva. La
Diocesi di Rimini, compresa la città, conta 67.374
anime, diecimila in più rispetto al 1738, e 3.518 in più
nei confronti del ’55. Nello stesso 1763 «si riaprì in più
parti dell’Italia il comercio, e furono date moltissime
commissioni di incettare grani, formentoni, ed altri
generi […] di modo che rimasero vuoti tutti li Magazzini
di Roma, de’ due Regni della Sicilia, dello Stato
Fiorentino, e della fertilissima Provincia Anconitana».

Il «gastigo» della carestia nel 1764 spinge a Roma


«milliaia di poveri» dai paesi vicini, «forzati a
ricoverarsi dalla Fame». Nella città del Papa essi sono
ospitati a spese dell’Erario, in due «serragli»: alle
Terme, gli uomini, ed alla Bocca della Verità in Campo
Vaccino, le donne. Tra quest’ultime serpeggia
un’epidemia di vaiolo.
Il «popolaccio» di Roma, ricorda Capobelli, «si fece più
d’una volta tumultuante non solo contro li Fornari, ma
di più contro Mons. Prefetto dell’Annona, e contro altri
particolari Ministri»: «Intanto perché la fame andava
crescendo per mancanza di pane, e di grani, vivendosi
di giorno in giorno alla provvidenza, e con la speranza
di riparare quei disordini, che potevano nascere,
cominciò il Governo a seriamente pensare per un
solecito ripiego e provvedimento».

Si acquista grano per un milione di scudi a Livorno,


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Genova e Marsiglia perché nelle Marche, «il granajo


dello Stato Pontificio», non se ne trova più: anzi, i mer-
canti d’Ancona debbono portarsi a Trieste «ed
incettare grani ivi calati dalla Moravia, e da altri lontani
Paesi, e comprarlo a carissimo prezzo» (tre volte e più
di quanto era prima di allora costato).
Soltanto la nostra Provincia di Romagna, in quell’«anno
penurioso», è un «emporio felice, ricco ed abbondante
di grano, fave, ed altre granelle, non soltanto per il
sostentamento della sua popolazione, ma da poter
anche somministrare agli esteri». Ma questa positiva
situazione è causa della sua stessa rovina: la Romagna
è «malmenata, ed oppressa da chi la reggeva, e
governava».

Il Legato fa incetta di grano per Roma ed Urbino,


annullando tutti i contratti già stipulati con caparra.
Dalla tenuta di San Mauro (della Camera Apostolica) e
da quelle delle abbazie di san Giuliano e di san
Gaudenzio (possesso del Cardinal Ludovico Maria
Torregiani, segretario di Stato di Clemente XIII), si
esportano tremila staja di grano.
Gli Abbondanzieri di Rimini si trovano senza provviste:
non ne hanno fatte, perché erano privi di denaro. La
distribuzione di pane e farina diminuisce, «e più volte
successe, che le Botteghe dello spaccio» ne
mancavano.

Un’ultima vicenda giunge ad aggravare la situazione:


le incursioni di contrabbandieri provenienti soprattutto
da Talamello, Montebello, Mercato Saraceno, i quali
obbligano i proprietari terrieri (di Santa Giustina,
Sant’Ermete, San Martino de’ Mulini, Vergiano,
Spadarolo e di altri paesi vicini), a vendergli il grano,
che essi mettono poi in circolazione al doppio del
prezzo pagato.
Il risultato è che una parte della nostra campagna è
spogliata del proprio sostentamento. Dall’ottobre 1763
al febbraio ’64, le scorte riminesi passano da 60 a 17
mila staja di grano. L’ombra della fame comincia a
girare per le nostre contrade.

Nei giorni di mercato, centinaia di uomini e donne


scendono dalla campagna a Rimini per ottenere la
«permissione» di ritirare la loro quota di grano, e si
accalcano nella piazza della Fontana, dove ha sede il
Governatore: «Argine alla furia di questo Popolo
oppresso ed avvilito dalla fame era l’insolente ed inu-
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mana sbirraglia, la quale a forza di bocconate, calci,


pugni e colpi di bastone sopprimeva la folla, tanto che
moltissimi furono li maltrattati, ed anche feriti in modo,
che in più parti grondavano sangue».
Una donna gravida «della Villa di Areccione […] spinta,
e giù dalle scale rovesciata, poté con gran difficoltà al-
zarsi, e con grandissima fatica giungere alla sua
abitazione, ove in poche ore ne abortì con grave
pericolo di sua vita».
Anche nelle botteghe troppo affollate, «per resistere
alla confusione, che poneva in qualche timore li
spacciatori, convenne più volte servirsi del gravoso, ed
infame ajuto de’ Birri, i quali con bastoni alla mano, e
collo spavento delle loro Armi respingevano la furia del
popolo». Il 25 luglio la tensione sfocia in un tumulto
proprio sotto gli uffici del Governatore.

La raccolta del 1764, leggiamo ancora nel nostro


cronista, non fu scarsa, «ma non riuscì come si spe-
rava», per «il ribaltamento delle spighe, cagionato
dalla furia de’ venti».
Nel 1765 inizia una vera e propria carestia: a causa del
maltempo, «il grano battuto nella maggior parte non
s’era introdotto in Città per non esser del tutto secco»,
narra Capobelli. Il popolo della città e del suo territorio
che, per quello scarso raccolto, «soffrì tanta miseria,
sperava un ottimo cambiamento con la nuova messe.
Ma oh quanto vana, e delusa rimase tale speranza».
Anche il 1766, conclude Capobelli, è destinato a
rimanere «ne’ futuri secoli memorabile per la sua
carestia». La quale dura quattro anni, sino a tutto il
1768.

In città e nelle campagne la situazione precipita. Il 12


luglio 1766 il Consiglio Generale di Rimini delibera una
sovvenzione per i «poveri Coloni» del Bargellato, con
mille rubbj di formentone da assegnare soltanto «con
idonea sigurtà [garanzia] de’ rispettivi padroni», come
leggiamo negli atti comunali.
La divisione tra Città, Contado e Bargellato è di origine
medievale. Tutt’assieme i tre territori formano «il
Distretto di Rimini» che si divide in 28 Ville del
Bargellato e 25 Castelli del Contado.
La licenza di prendere in prestito diecimila scudi relativi
a questa prima distribuzione di formentone, è concessa
dal Legato il 28 agosto, e dalla romana Congregazione
del Buon Governo il 27 settembre. A dicembre Rimini
potrà ottenere soltanto la metà di quei diecimila scudi:
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trovare denaro è poi difficile, ce n’è una comune


necessità che fa salire le richieste ed aumentare il
tasso dell’«usura».

Il provvedimento del 12 luglio provoca malcontento tra


i «Possidenti nelle Castella» che, in un memoriale
inviato in novembre al Legato di Romagna, invocano
un’analoga deliberazione per i «poveri Coloni del
Contado» che gemono «sotto il gravissimo peso di
tanta calamità, e languiscono smunti affatto senza
verun soccorso nell’estrema di loro indigenza»: «dalla
vendemmia a questa parte si nutriscono a similitudine
delli Animali».
Quei «Possidenti» accusano Priori e Comunisti (cioè
capi ed amministratori) delle rispettive Comunità: «non
sperimentando la fame hanno posto in oblio i poveri
Coloni, ed altri miserabili Abitanti del Contado stesso
senza prendersi verun pensiero dell’indigenza loro».
«Moltissimi Possidenti ricchi della Città» propongono al
Legato una soluzione per risparmiare e trovar danaro
necessario agli aiuti invocati. È una di quelle idee che
vengono soltanto a chi ha la pancia piena e non
incontra problemi nel rimediare il cibo per la propria
tavola: essi suggeriscono di calare il peso del pane,
mantenendone inalterato il costo. Con un bajocco, da
ottobre si ha pane «di una sola qualità», cioè di tutta
farina (detto bianco od affiorato) di sei once (tre in
meno rispetto al 1765). Non si produce a parità di
costo il tradizionale pan bruno o venale, più pesante
(nel 1765, era pari ad 11 once).

Gli Abbondanzieri (responsabili dell’Annona


frumentaria), il 25 novembre 1766 rifiutano questa
proposta, nonostante l’aumento del costo della farina:
calare l’oncia del Pane poteva far prevedere una
«qualche comozione nel Popolo». Per ogni stajo di
grano, l’Annona ci rimette 2 scudi abbondanti.
Allo scopo di portare in parità il bilancio tra costi e
ricavi, «sarebbesi dovuto tanto notabilmente
diminuirne il peso, che avrebbe eccitato tumulto» tra la
gente. Il Legato l’11 novembre concorda: il peso, fatto
corrispondente al costo, sarebbe «risultato di tanta
scarsezza, che senza dubbio avrebbe eccitato nel
Popolo un tumulto universale».
Il 29 novembre il Consiglio Generale, dopo aver letto al
relazione degli Abbondanzieri del giorno 25 e dopo
aver esaminato il memoriale dei «Possidenti nelle Ca-
stella», decide una seconda sovvenzione di
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formentone, «alli Coloni» sia del Bargellato sia del


Contado: su 47 voti, uno solo è contrario per il
Contado, mentre si registra unanimità per il Bargellato.
Il 27 dicembre il Legato dà licenza ufficiale all’Annona
per queste provviste, dopo aver avvertito il 12: «la
distribuzione de’ generi sia fatta con tutta l’equità, e in
proporzione del bisogno de’ suddetti Coloni, e colla
dovuta giustizia rispetto al pagamento». (Il primo ot-
tobre il Legato aveva concesso la possibilità di creare
debiti per l’Annona, ed il 31 dello stesso mese aveva
approvato la «perdita sullo spaccio a vantaggio de’
Poveri».)

L’8 gennaio 1767 gli Abbondanzieri chiedono allo


stesso Vescovo, conte Francesco Castellini, ed al clero
«un congruo sussidio di Generi da somministrarsi in
prestanza senza sigurtà» ai Casarecci, «con eventualità
ancora nel ritirarne il prezzo, affinché non si dovesse
sentire il disordine, che fosse parte del Popolo perita di
fame per diffetto di provvidenza».
La Congregazione del clero, il 22 gennaio, stabilisce
che il riparto per questo «sussidio caritativo» vada
distribuito «sopra ogni sorta di possidenti», come se si
trattasse di una normale imposta della Reverenda
Camera Apostolica. Il 23 gennaio il «piccolo Consiglio»
della Congregazione dei Signori Dodici esamina le
«continue suppliche de’ Parochi, e l’istanze personal-
mente fatte da medesimi Casarecci della Campagna
ridotti presso al morire di fame, per un qualche provve-
dimento».

Una di tali suppliche, è quella inviata da tre Parroci del


Vicariato di San Vito allo stesso Legato: sono
Carlantonio Pecci di San Martino in Riparotta,
Francesco Bartolini di Santa Giustina ed Antonio
Fabbrini, delle Celle.
Essi rappresentano (precisa il Legato al Governatore di
Rimini il 16 gennaio), «lo stato deplorabile, in cui si
ritrovano alcuni loro Parrocchiani, che stanno a casa
[a] pigione, e che non possiedono nulla, [i] quali si
trovano in una necessità veramente estrema, poiché
consumato il tutto, né essendovi modo da provvedersi
altro modo onde vivere».
«La terra coperta di neve sin dal principio dell’Anno,
non somministra loro neppure quelle poche erbe, delle
quali si sono libati pel passato, così a medesimi
poveri», scrive il Legato, «convien perir di fame».
Il Governatore di Rimini risponde al Legato: «Le
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rappresentate miserie sussistono purtroppo, e sono


accompagnate dalle due rilevantissime circostanze
come sono quelle di essere generali in tutto questo
Territorio, e di venire accompagnate sin d’ora dal
lagrimevole effetto della morte a cui in alcune parti del
Territorio medesimo hanno dovuto alcuni soccom-
bere».

Da un’altra missiva del Governatore di Rimini al


concittadino mons. Giuseppe Garampi che vive a
Roma, apprendiamo che si trovano in «deplorabile
stato» i «Casarecci del Bargellato», i quali «nulla
posseggono», e tanti poveri della stessa Città di Rimini
«che non potendo impiegare le opere sue languiscono
colle di loro Famiglie per queste contrade, e chiedono
pietà, e soccorso alli di loro Concittadini privi anch’essi
della maniera di apprestarglielo».
Garampi (che ha ricevuto da Rimini un particolare
«mandato di procura» il 31 agosto 1765, e che in
Vaticano ha già raggiunto una prestigiosa posizione,
confermata dalla nomina nel settembre 1766 alla
«luminosa carica di Segretario della Cifra», cioè
dell’ufficio diplomatico), deve combattere «i ritardi, le
eccezioni, e le difficoltà» della burocrazia romana, e
cercare le strade più praticabili per ottenere qualche
risultato.
Il Governatore domanda a Garampi di intervenire
presso il Papa affinché i Luoghi Pii di Città, Bargellato e
Contado siano obbligati «a somministrare prontamente
tutto il denaro che [h]anno» alla Municipalità: «Findove
sonosi estese le nostre forze non abbiamo sin’ora
mancato di giungere colli nostri provvedimenti.
Incombe ora a’ Luoghi Pii il fare il partito loro a norma
de’ Sagri Canoni».

Ritorniamo alla lettera inviata dal Governatore di


Rimini al Cardinal Legato. Essa ha la data del 27
gennaio, e contiene l’annuncio dei provvedimenti presi
sabato 24 dal Consiglio Generale che, come leggiamo
nel verbale dell’adunanza, ha approvato la nomina
(con 44 voti contro tre) di una commissione, costituita
da quattro suoi componenti, incaricati di stabilire un
«piano» per riparare «al gravissimo disordine di
vedersi morire di fame i Casarecci del Bargellato, ed
altre Persone miserabili, che nulla possedono, come
pur troppo sentesi sia sin ora seguìto».
Il Governatore spiega al Legato che «dalli [quattro]
Deputati suddetti si stà ora divisando la maniera della
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sovvenzione se in natura, o in Denari, e come


regolarla». Lo scopo è uno solo, si ribadisce:
«sovvenire non meno ai Casarecci del Territorio, che
nulla possedono, ma anche agli altri Poveri del detto
Territorio, e della Città, che non possono colle di loro
fatiche procacciarsi il vivere per mancanza di maniera
d’impiegarle».
Il Governatore supplica il Legato di concedere il per-
messo di «poter creare tanti Cambj, o Censi, quanti ne
richiede l’accennato provvedimento, ed ogni altra
circostanza del presente luttuoso emergente».

La Congregazione dei Dodici, il 23 gennaio, ha preso


atto che aumentano i depositi al Monte di Pietà, per la
«tanta calamità» della straordinaria carestia la quale
«affligge massime il Popolo minuto ridotto al pericolo di
morire di fame».
Anche su questo problema viene coinvolto mons.
Garampi: «Sono tante le cause, per le quali V.S. Ill.ma
interessa fervorosamente il di lei zelo per il Bene della
Patria, che non dovressimo Noi accrescerlene altre
colle quali soverchiamente gravarla d’incomodo. Il non
essere però limitato lo stesso di lei zelo, come colla
sperienza abbiamo riconosciuto, ci hà fatto credere non
poterle dispiacere, che le ne aggiungiamo un’altra, che
siccome, interessa il sollievo de’ Poveri nelle presenti
Calamità della Patria, così riescirà aggradevole a V.S.
Ill.ma il dovere esercitare l’innata di lei pietà per prote-
ggerla colla efficacia ed autorità delli di lei uffizj, onde
assicurare alli medesimi Poveri, che languiscono quel
soccorso, che sospirano».

Al Monte di Pietà, si scrive a Garampi, «cresce ogni dì


l’affluenza de’ Pegni quanto cresce la necessità di ri-
trarre la maniera colla quale procacciarsi l’alimento, ed
evitare la morte, alla quale sentesi ogni giorno soc-
combere per la Fame molte, o più Persone in varie
parti del nostro Territorio».
La Congregazione dei Pegni l’11 gennaio ha chiesto al
«Pubblico» [Governo] riminese un sussidio di diecimila
scudi «con i quali aumentandosi la Cassa del Monte,
soministrargli la maniera di continuare il sovvenimento
ai Poveri colla prestanza del Denaro sù i Pegni, che
esporranno al Monte» medesimo. Il 24 gennaio, il
Consiglio Generale ha deliberato di prendere a censo
quella somma, «con l’obbligazione de’ Beni, e ragioni
della Comunità non solo, ma anche de’ Signori
Consiglieri in solido et uti [come] singuli». Garampi è
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pregato di muoversi a Roma nella sede che ritiene più


competente, magari arrivando sino al Santo Padre,
perché possa essere approvata la decisione presa dal
Consiglio riminese. Su tale decisione concorda anche il
Legato (il 28 gennaio): «In difetto di questa
sovvenzione converrà ai Poveri, ed altri morire di fame
in maggior numero di quello, che sin d’ora sentesi
seguire in più luoghi».

Il 27 gennaio la Congregazione dell’Annona concede


alla Municipalità di Rimini licenza d’imporre i debiti per
la «provvista de’ Grani, e Formentone nella presente
carestia». La comunicazione del Legato è del 7
febbraio.
Il Buon Governo ha stabilito fin dal 26 settembre 1766
che anche gli ecclesiastici sono obbligati «ai debiti
della passata, e presente Carestia»: la copia dell’atto è
partita da Ravenna soltanto il 21 gennaio 1767.
Negli spacci, con l’affollamento degli avventori, si
hanno furti di pane e di denaro: così succede nella
bottega di Giovan Leardini, come denuncia la vedova
tre anni dopo, quando si è già risposata.
Il 30 gennaio il Legato concede al Governatore di
Rimini i propri poteri in materia d’Annona, e la facoltà
d’imporre censi e cambi (in quantità però discreta),
nella «sventurata circostanza, in cui rimangono avvolti
non meno gli Poveri di cotesta Città; ma moltissimi
eziandio del Territorio, Bargellato e Contado per
mancanza di mezzi, con i quali provvedere alle proprie
quotidiane indigenze».

Il Legato definisce «provvidissima» la risoluzione presa


«in tale emergenza di sciegliere quattro Deputati, i
quali con zelo, e buona carità invigilino al
sovvenimento de’ suddetti Infelici, con stabilirne la
maniera di effettuarlo, la quale sia agevole, e
preordinata all’urgenza». Il 31 gennaio, dalle Congre-
gazioni dell’Annona e del Buon Governo, parte alla
volta di Rimini, dove giunge l’8 febbraio, la licenza per
la nostra città di creare un debito di quaranta mila
scudi «per i Grani, e Formentoni» (diecimila saranno
poi dirottati il 21 marzo dal Buon Governo al Monte
«affinché abbia il denaro sufficiente per supplire alle
imprestanze sui Pegni»).
La Municipalità di Rimini ringrazia l’abate Giuseppe
Giovenardi Bufferli che ha presentato a Roma una
«forte ed erudita scrittura» per appoggiare la richiesta,
con un dono di quaranta scudi. Altri venti sono de-
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stinati come ricompensa all’abate Giulio Cesare


Serpieri, agente ufficiale di Rimini nella città del Papa e
collaboratore di mons. Garampi.

Attraverso l’organizzazione ecclesiastica della Diocesi,


la commissione dei quattro consiglieri accerta che i
poveri della Città sono 1.025 e quelli della Campagna
1.124, per un totale di 2.149 unità (su circa undicimila
presumibili abitanti, cioè il 20 per cento).
Quando il 4 febbraio il Consiglio si raduna, si legge la
lettera scritta dal Legato il 30 gennaio (dove si
definisce «provvidissima» la risoluzione sulla commis-
sione di quattro deputati), prima di esaminare il
«piano» che mira ad un doppio risultato: «il maggior
sovvenimento pe’ Poveri» e «la minore spesa per la
Comunità». Il «piano» destina («o in denaro, o in Farina
di Formentone»), una cifra giornaliera che va da un
bajocco e mezzo per i poveri di Città, al solo bajocco
per quelli della Campagna.
In previsione di un peggioramento della situazione con
l’aumento di numero degli «Infelici» bisognosi, si
chiede lo stanziamento di tremila scudi, anziché dei
2.600 calcolati in base alle statistiche fornite dal
Vescovo. Il «piano» non viene approvato subito, ma
ogni risoluzione è differita «ad altro Consiglio».

La stessa sera del 4 febbraio si informa mons. Garampi


sull’avvenuta presentazione del «piano»: «E per far
constare al mondo, che le nostre sollecitudini non sono
state prevenute da spirito di predilezione per i solo
Coloni, ma essere egualmente premurosi, ed inte-
ressati per tutti quelli, che trovansi in estrema indi-
genza, si è col mezzo di una Deputazione fatta dal
Generale Consiglio stabilito d’impiegare scudi 3.000 da
prendersi ad interesse, in tante limosine da distribuirsi
a quelle povere persone di questa Città, alle quali
manca ora la maniera da procacciarsi il vitto colle di
loro fatiche, o che sono in altra guisa miserabili, ed alli
Casanoli delle Ville del Bargellato, che in questa
stagione, in cui rimangono disoccupati dalle opere
della Campagna, non [h]anno come sostentarsi».

La lettera contiene una precisazione sul «piano», la


quale manca nei verbali ufficiali, dove si è letto
soltanto che era prevista la sovvenzione «o in denaro,
o in Farina di Formentone». A mons. Garampi si spiega
invece che ai poveri della Città la distribuzione era
prevista «in Denari», mentre per i Casanoli «in tanta
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Farina di Formentone in ragione di una libbra al giorno


per ciascuno per [sino a] tutto il mese di aprile
prossimo».
I «divisamenti» del Consiglio riminese «richiedono la
stessa approvazione dalla quale sono state corredate
le precedenti provvidenze» ed il medesimo
interessamento a Roma: di qui la necessità un ulteriore
impegno di mons. Garampi, il quale risponde subito
consigliando di non rivolgersi alla Congregazione del
Buon Governo che non è ben disposta verso Rimini.

Il 7 febbraio i Consoli di Rimini scrivono al Legato per


spiegare che la differenza tra il soccorso in denaro per
le «Persone miserabili» della Città, e l’aiuto in natura
per quelle del Bargellato, è stata determinata
dall’ipotesi giuridica (avanzata in Consiglio) che una
Bolla del Buon Governo impedisse di «fare limosine a
Poveri», per cui si era deciso di sospendere e rinviare
la votazione segreta.
L’11 febbraio il Legato risponde: «Quanto egli è pro-
vido, e ben ideato esso Progetto altrettanto io non
sarei lontano di approvarlo, se non facessero ostacolo
alle mie condiscendenze» le disposizioni di una Bolla di
Clemente VIII. Da una lettera dei Consoli all’abate
Serpieri (del 5 aprile) sappiamo qualcosa di più: il Le-
gato, circa la «necessità di fare le limosine» ai poveri di
Città e Territorio («a quali non lice il questuare»), «non
volle arbitrare se non per la ristretta somma di cento
Doppie» [trecento scudi], obbligando Rimini a fare
ricorso alla Congregazione del Buon Governo, la quale
però non concede la sovvenzione, come i Consoli di
Rimini avevano temuto. Ci si rivolge pertanto alla
Congregazione dell’Annona.

A Roma, «con maligne imposture», si ritiene che le


richieste di Rimini siano esagerate.
Degli umori della capitale, è testimonianza questa
missiva che il 9 maggio Garampi invia ai Consoli: «Si
maligna sulla erogazione delle somme finora percettesi
[percepitesi], e si tiene per esagerato ogni bisogno». Il
Buon Governo spiega a mons. Garampi che per i «40
giorni incirca che mancano al raccolto, non può essere
la Città tanto sprovvista, quanto si rappresenta, e che
intanto la Campagna fornisce ora Erbaggi e Frutti, coi
quali supplire a qualche deficienza di Pane. […] In
somma nulla è da sperarsi. […] Compiango vivamente
la presente nostra calamità, la quale resta anche più
sensibile, perché non compatita».
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A Garampi il 14 maggio i Consoli rispondono che per le


40 mila anime di Città e Territorio [ma erano di più,
come si è visto] vi è «la mancanza di tutti i generi
necessarj al vitto umano»: la campagna non dà «frutti,
ed erbe da alimentare», per cui i contadini non sono
«capaci a sostenere le fatiche de’ presenti necessari
lavori per la coltura delle Terre. […] Ella sa di quale
natura sieno i terreni del nostro Territorio, i quali
esiggono una gravissima fatica, e tutta la robustezza
per lavorarli coll’aratro, e molto più colla vanga, ond’è
necessario che i contadini si cibino di cose sostanziose,
ed a sazietà».

I contadini, «sparuti, ed infiacchiti» chiedono alla


Municipalità soccorso per non morire. Uno di loro va a
Roma, e Serpieri l’incontra provandone tanta
compassione. I Consoli continuano nel loro impegno, e
sperano che altrettanto facciano i ministeri romani. I
quali pongono ogni sorta di ostacolo sia per il debito a
favore del Monte (che per mancanza di denaro non può
più ricevere i pegni), sia per gli acquisti del
formentone.
Per il Monte, «Sua Santità ha creduto di non dover
condiscendere all’istanza delle necessarie facoltà per le
prestanze sui Pegni», fa sapere Garampi in febbraio,
consigliando pure i Consoli sullo stesso problema: nelle
«presenti calamità parmi potersi prudentemente
risparmiare questo nuovo eccitamento di controversia
con Mons. Vescovo, del quale può aversene bisogno in
queste stesse circostanze».

Ormai i Consoli non hanno più alcuna speranza circa i


diecimila scudi per gli acquisti del formentone a causa,
essi sostengono con Serpieri, delle «incaute, o
maligne» opinioni che girano a Roma sull’ammi-
nistrazione riminese. Il nostro Consiglio Generale il 30
maggio delibera una terza «sovvenzione alli Coloni»
con i sistemi usati per le due precedenti, lusingandosi
(confidano i Consoli a Serpieri) «della ragionevole
approvazione delli Signori Superiori». E di qualche
stanziamento.
La distribuzione di formentone dura ininterrotta sino al
giugno ’67, ed ascende a 7.964 staja, per una spesa
totale di 40.547 scudi.
Intanto, sempre il 30 maggio, il Consiglio per ri-
compensare le straordinarie fatiche compiute dai
quattro Abbondanzieri in occasione della carestia,
decide un premio (che gli interessati avevano
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sollecitato) di trecento scudi in loro favore, mentre al


Governatore, in segno di «gratitudine, e sincera
riconoscenza», si regala un pezzo d’argento dal valore
di cento scudi.
Soltanto il 19 giugno Rimini può concludere, tramite
Serpieri, un contratto di censo di tremila scudi relativi
al «piano» urgente discusso il 4 febbraio al fine di
soccorrere immediatamente chi non aveva nulla da
mangiare.
Il nostro cronista Capobelli può così commentare, per
colpa della burocrazia romana, che «il Pontefice non
pensò a solevar in conto alcuno li suoi sudditi», ma
dispensò soltanto indulgenze.

Nota
Ernesto Capobelli è autore di pettegoli Commentarj
conservati alla Biblioteca Gambalunghiana di Rimini
[SC-MS. 306]. Quanto egli racconta, è uno spaccato
vivace della realtà riminese: le sue pagine vanno però
valutate con la massima attenzione, perché non
espongono solo dati di fatto ma contengono spesso
anche interpretazioni tendenziose. Nel ’69, ad
esempio, accusa l’Annona di «arricchirsi col vero
sangue de’ poveri», e di voler far regnare «una vera
carestia». Le altre fonti usate sono la «Storia di Rimini»
di Carlo Tonini (vol. VI/I tomo, ed. an. Ghigi) per i dati
sui censimenti riminesi; e, per la ricostruzione di tutta
la vicenda della carestia, una serie di registri e di atti
municipali conservati nell’Archivio di Stato [«Archivio
Storico Comunale»] di Rimini. Per motivi di spazio, non
possiamo riportare le note relative alle singole notizie.
Ringraziamo per la gentile collaborazione la Biblioteca
Gambalunghiana e l’Archivio di Stato di Rimini.

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