Il termine latino medium — con il cui plurale media oggi indichiamo, attraverso la sua
adozione da parte della lingua inglese, tanto i mezzi di comunicazione “tradizionali”
come la radio, il cinema, la televisione (mass media), che le nuove tecnologie come
Internet e i servizi telematici in genere (new media) — autorizza almeno due derivazioni
etimologiche significative.
1. Anzitutto medium è il mezzo, lo strumento di cui ci si serve per fare qualche cosa.
Nel caso della comunicazione, i media sono dunque tutto ciò cui l’uomo fa ricorso per
comunicare, dalla parola orale fino alla rete telematica costituita dall’interfaccia del
computer con il sistema di telefonia. Questo significato del termine è attestabile già
nell’Organon aristotelico quando lo Stagirita definisce la proposizione (cioè il
linguaggio) come la forma logica del giudizio, cioè come l’espressione, visibile e
udibile, di quanto abbiamo pensato e trova la sua definitiva determinazione con Harold
Innis agli inizi di questo secolo. È sua, anche se diffusa e resa celebre da McLuhan1,
l’idea dei media come protesi dei nostri sensi: la televisione come protesi della vista, la
radio come protesi dell’orecchio.
Dietro a questa intuizione si può cogliere una ben precisa concezione dello sviluppo
dell’uomo sulla terra organizzata attorno al suo tentativo di estendere progressivamente
il suo mondo di incidenza oltre il suo mondo di osservazione. Questo significa esercitare
un controllo sullo spazio e sul tempo per contrarne, rispettivamente, l’estensione e la
durata: colmare spazi sempre più estesi in un tempo sempre inferiore, questa è una delle
grandi costanti del processo di ominazione sul pianeta. Per farlo, l’uomo ha da sempre
avuto a disposizione due strategie possibili: viaggiare, spostarsi, o far viaggiare al suo
* Docente di Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa, Università Cattolica di Milano. Il testo di
questo intervento riprende la relazione tenuta dall’autore nell’ambito del Corso di perfezionamento in
Media Education. Cultura e professione per la formazione multi-mediale - Milano, 10 aprile 1999.
1
M.McLuhan, Understanding media, Mc Graw-Hill, New York 1964; tr.it., Gli strumenti del
comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967.
posto dei messaggi. La protesizzazione dei sensi cui i media mettono capo ha a che fare
con questa seconda possibilità: essi sono gli strumenti, i supporti fisici, che consentono
alle possibilità fisiologiche del nostro occhio e del nostro orecchio di oltrepassare il
luogo fisico della compresenza vedendo e sentendo, in tempo reale, a migliaia di
chilometri di distanza.
2. Ma medium fa riferimento anche a ciò che sta in mezzo e che, proprio per questa sua
posizione mediale, rende possibile il contatto e la comunicazione. In questo senso i
media più che come strumenti possono essere riconcettualizzati come il mezzo-
ambiente, lo spazio comune all’interno del quale avviene la comunicazione. Anche il
punto di vista aristotelico si trasforma: la proposizione più che il mezzo di cui l’uomo si
serve per esprimere i propri giudizi si può intendere come il luogo nel quale quei giudizi
possono essere condivisi con altri e messi in discussione. Più che l’idea di una
protesizzazione dei nostri sensi, allora, pare qui supportabile quella avanzata da
Thompson2 secondo la quale i media, a partire dal linguaggio parlato, costituirebbero i
grandi mediatori simbolici di tutte le nostre pratiche di costruzione e di trasmissione dei
significati.
Anche in questo caso è facile intuire come dietro a questa tesi sia operante una ben
precisa concezione dei sistemi e dei rapporti sociali. La si può esprimere in due
convinzioni di base: da una parte l’idea — mutuata da Berger e Luckmann3 e più in
generale dall’interazionismo simbolico — che la realtà altro non sia che il risultato di
una attività di costruzione sociale; dall’altra la convinzione, a quella strettamente
connessa, che solo una minima parte delle nostre conoscenze sia il risultato di una
esperienza diretta del mondo. In sostanza, la maggior parte delle “certezze” che
costituiscono il nostro sapere ha valore mediato, cioè le ricaviamo dalla testimonianza
altrui e non da un’esperienza diretta della realtà. Il risultato è che ciò che noi chiamiamo
realtà non è il mondo così come esso è, ma la rappresentazione del mondo così come
essa risulta dalle mediazioni che ne conosciamo e dalla contrattazione simbolica che
intraprendiamo nei confronti di queste mediazioni prima di farle nostre. Ora, se in età
pre-elettronica questa funzione di mediazione simbolica dell’esperienza del mondo
poteva essere svolta dal racconto dei testimoni o dalla narrazione dei libri, oggi essa è in
buona parte prodotta dai media: così l’idea che abbiamo della Guerra in Cecenia o del
disastro di Paddington è sostanzialmente quella restituita dai telegiornali e dalla stampa.
1. Anzitutto i media-protesi. È facile cogliere in essi, come osserva Sainati4 della cui
riflessione siamo qui debitori, almeno tre grandi modalità di rapporto con il sapere.
2
J.B.Thompson, The Media and Modernity. A Social Theory of the Media, Polity Press, Cambridge 1995;
tr.it., Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna 1998.
3
P.Berger, T.Luckmann, The Social Construction of Reality, Doubleday & Co., Garden City, New York
1966; tr. it., La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1969.
4
A.Sainati, Supporto, soggetto, oggetto: forme di costruzione del sapere dal cinema ai nuovi media, in
A.Piromallo Gambardella, a cura di, Costruzione e appropriazione del sapere nei nuovi scenari
tecnologici, CUEN, Napoli 1998, pp. 143-156.
I media sono anzitutto un supporto per la fissazione e la trasmissione del sapere; in tal
senso essi offrono alla conoscenza più che una opportunità di essere elaborata, un canale
attraverso il quale essere trasportata e uno spazio entro cui essere conservata: come
osserva Stiegler, «non vi è sapere incomunicabile, non vi è sapere se non a partire dalla
sua trasmissibilità... la trasmissibilità del sapere è lo stesso sapere»5.
È questa la funzione del libro, grazie al quale una società può archiviare le proprie
conoscenze e trasmetterle in eredità a quella successiva, ma anche del cinema (sulla cui
capacità di documentazione della realtà si sofferma già nel 1898 Boleslaw Matuzewski)
e, oggi, dei nuovi media, dai CD-Rom a Internet. Questa duplice capacità dei media —
di conservare e trasferire informazioni — risponde ad altrettante fondamentali esigenze
dell’uomo: fissare il patrimonio di conoscenze da cui dipende la propria stessa
sopravvivenza (i greci indicavano questo patrimonio con i termini di εθος e νοµος, cioè
l’insieme dei comportamenti e delle leggi) e trasmetterlo alle generazioni future. La
storia delle tecnologie di comunicazione in Occidente procede, a ben vedere, in ossequio
a questa logica: il superamento dell’oralità primaria, cui Walter Ong ha dedicato celebri
studi, si deve leggere proprio nella prospettiva di una incapacità della parola parlata a
soddisfare adeguatamente questa esigenza. Come osserva ancora Stiegler, «il sapere
umano è tecnologico nella sua essenza (...) non vi è nessuna possibilità di sapere senza
superfici d’iscrizione artificiale della memoria»6.
5
B.Stiegler, La technique et le temps, Galilée, Paris 1996, p.160.
6
Ibi., p.189.
protesi indicano il loro rapporto con il sapere: quello di una riflessione metateorica che
li costituisce a oggetto del sapere stesso.
Si riconoscono qui due istanze particolarmente presenti nella situazione socio-culturale
attuale. Da una parte la tendenza dei media a configurare se stessi in termini
decisamente autoreferenziali, come accade per il software informatico che mette in
scena nient’altro che se stesso insieme alle proprie indicazioni d’uso, o per la
neotelevisione che come dispositivo di rappresentazione tende a produrre immagini che
vanno sempre più emancipandosi dal riferimento al mondo reale. Dall’altra, la presenza
sempre più consistente di discorsi sui media ospitati, spesso, dai media stessi (la critica
televisiva dei quotidiani, i talk show che discutono di televisione, film come The
Truman Show che riflettono sulla televisione denunciandone forzature e contraddizioni):
una produzione discorsiva che, come hanno osservato Breton7 e Vattimo8, si confonde
con la realtà stessa diventandone parte integrante.
4. Arriviamo così all’ultimo rilievo, autorizzato questa volta dal secondo dei significati
che abbiamo riconosciuto al termine medium, cioè la sua capacità di offrirsi come spazio
di mediazione simbolica per le pratiche di costruzione della nostra conoscenza. Se ne
possono cogliere almeno due sensi: da una parte la funzione dei media (soprattutto di
quelli tradizionali) come agenti di socializzazione, cioè la loro capacità di alimentare il
dibattito culturale, sostenere le mode, proporre modelli per l’identificazione di genere;
dall’altra la loro peculiarità (e in questo caso si tratta soprattutto dei nuovi media) di
funzionare da ambiente cognitivo favorendo lo strutturarsi di un nuovo tipo di sapere «la
cui conoscenza non si propone tanto come un graduale processo di acquisizione
attraverso un percorso lineare e definito quanto soprattutto come immersione,
condivisione, scambio, interazione»9.
Ci troviamo di fronte, in sostanza, alla genesi di un nuovo paradigma conoscitivo che
evidenzia caratteristiche completamente differenti rispetto a quello “moderno”
compendiato nella cultura del libro. In esso, la conoscenza non è più rappresentazione di
qualcosa di già esistente, ma costruzione del nuovo; non è più esperienza
fondamentalmente individuale (Bildung), ma attività cooperativa; proprio per questo,
come osserva Pierre Levy, «per una specie di ritorno a spirale all’oralità delle origini, il
sapere potrebbe essere di nuovo trasportato dalle comunità umane vive piuttosto che da
supporti separati utilizzati dagli interpreti o dai sapienti»10.
7
P.Breton, L’utopie de la communication, la Découverte, Paris 1992; tr.it., L’utopia della comunicazione.
Il mito del “villaggio planetario”, UTET, Torino 1995.
8
G.Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1988.
9
A.Piromallo Gambardella, La scuola al bivio tra cultura istituzionale e cultura veicolata dai media, in
Id., a cura di, Costruzione..., cit., p.208.
10
P.Levy, La cyberculture et l’éducation, in A.Piromallo Gambardella, a cura di, Costruzione..., cit.,
p.263.
Brainframes
17
D. de Kerckhove, La civilisation vidéo-chretienne, Retz/Atelier, Paris 1990; tr.it., La civilizzazione
video-cristiana, Feltrinelli, Milano 1995, p.39.
comune viene indicato quando si fa riferimento alla capacità della televisione di inibire
la riflessione promuovendo, più che processi cognitivi ponderati, risposte immediate di
tipo irriflesso (skills).
Quanto alla corporeizzazione, de Kerkhove sostiene che essa andrebbe ricondotta alla
capacità, della televisione soprattutto, di produrre in noi una risposta di tipo corporeo.
«Il significato corporeo è di rado cosciente. Ma, nel profondo, regola e condiziona il
complesso delle nostre reazioni ai fatti di tutti i giorni. Il significato corporeo è anteriore
alla logica e può essere molto più globale del pensiero. Dunque l’effetto più profondo
della televisione potrebbe verificarsi al livello del significato corporeo, offrendo scarse
possibilità di reazione. La televisione suscita Reazioni di Orientamento che si
intrecciano nel tessuto del nostro sistema neuro-muscolare. Potrebbe essere questa
l’origine dell’affermazione alquanto criptica di McLuhan che la televisione è
“tattile”»18.
18
D. de Kerkhove, Brainframes, cit., p.57.
sul fatto che il problema, così come esso viene elaborato a partire dagli anni Cinquanta e
poi decisamente messo in discussione, è mal posto: come hanno fatto di recente
osservare K.M.Ford e P.J.Hayes19, impostare la questione dell’Intelligenza Artificiale
nei termini del tentativo di imitare l’intelligenza umana è come pretendere di costruire
una macchina volante che sbatta le ali come gli uccelli. La questione è che la macchina
potrà volare (come di fatto è successo), ma forse proprio solo nel momento in cui la
progettazione si sforzerà di non pensarla in analogia con il volo degli uccelli. Ora, nel
caso dell’Intelligenza Artificiale, questo significa smettere di pensare al computer come
una macchina cognitiva sequenziale (il nostro pensiero è sequenziale) e sforzarsi di
riconoscergli un pattern cognitivo suo proprio che, come dimostra bene James Bailey in
un libro recente20, è parallelo e non sequenziale. Per capire cosa significhi è sufficiente
pensare a come lavora una rete neurale, cioè un sistema di microprocessori collegati in
rete (come la Connection Machine progettata al MIT di Boston negli anni Settanta, che
collegava in rete 64.000 processori): semplificando molto si può dire che essa è costruita
per elaborare simultaneamente un numero elevatissimo di elementi singolarmente banali
ricavando da questa elaborazione conclusioni sinteticamente rilevanti. Come dice
Bailey: «Il comportamento della rete nella sua totalità è diverso dal comportamento dei
singoli partecipanti, e molto più complesso. Il valore aggiunto proviene dalle
interrelazioni fra nodi, e non dall’interno dei nodi stessi»21.
Prospettive educative
Al termine di questo breve percorso cerchiamo di verificare come il rapporto tra i media
e la conoscenza, soprattutto tra i media elettronici e la conoscenza, possa essere
declinato nell’ottica dell’educazione che è il punto di vista dal quale intendiamo
posizionarci. Ci limitiamo a due sole considerazioni.
2. C’è un secondo aspetto assolutamente interessante dal punto di vista educativo nel
rapporto esistente tra i media e la conoscenza ed è la capacità dei media di promuovere
forme diverse di apprendimento.
In regime di oralità primaria ci troviamo di fronte all’imporsi di un’idea mimetica
dell’apprendimento. E’ facile capirlo se pensiamo alla polemica platonica nei confronti
della pedagogia omerica, incapace di produrre vero sapere perché basata sulla
ripetizione. Noi oggi sappiamo che l’obiezione platonica è viziata dall’appartenenza di
Platone alla cultura alfabetica: il suo rimprovero a Omero è di non servirsi di ciò di cui
non si può servire, cioè dei concetti. Il modello mimetico, invece, è perfettamente
giustificato dalla cultura orale dentro cui la Grecia omerica vive, nella quale l’obiettivo
fondamentale da raggiungere nell’apprendimento non può che essere la
memorizzazione.
Con l’avvento della scrittura alfabetica cambia completamente il modo di pensare
l’apprendimento: si passa da un apprendimento mimetico a un apprendimento
argomentativo. La pagina scritta consente la lettura retrospettiva, l’analisi del testo, la
riflessione su di esso: liberatosi dalla necessità di dover ricordare (il libro garantisce
ormai la presenza del sapere, lo garantisce dal rischio della dispersione) l’individuo
apprende concettualizzando, ragionando sui nessi causali.
La televisione e il computer trasformano ancora questo scenario. La nuova idea di
apprendimento che pare profilarsi è un’idea dell’apprendimento multimodale,
personalizzato e cooperativo: multimodale, perché il carattere multimediale delle nuove
tecnologie intellettuali comporta un’attivazione multisensoriale del soggetto, rendendo
l’apprendimento non solo una questione attentiva, ma immersiva sotto punti di vista
percettivi differenti; personalizzato, perché da una parte esso si libera dalla necessità di
seguire un percorso rigido e uniforme, dall’altra si dimostra capace di attivare le
molteplici intelligenze (Gardner) del soggetto valorizzandone il profilo intellettivo
personale; infine, cooperativo, perché, soprattutto l’ICT consente la costruzione di nuovi
ambienti di apprendimento nei quali l’acquisizione della conoscenza passa attraverso la
negoziazione e la costruzione collaborativa.
22
P.Levy, La cyberculture, cit., p.271.
Abstract