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DAMIAN MRUGALSKI, OP

IL DIO TRASCENDENTE
Nella filosofia allessandrina giudaica e cristiana
Filone e Clemente

Roma 2013
ABBREVIAZIONI

1. Le abbreviazioni delle opere di Filone e di Clemente

Phil. Philo Alexandrinus


Abr. De Abrahamo
Aet. De aeternitate mundi
Agr. De agricultura
Alex. Alexander
Cher. De Cherubim
Confus. De confusione linguarum
Congr. De congressu eruditionis gratia
Contempl. De vita contemplativa
Decal. De Decalogo
Deter. Quod deterius potiori insidiare solet
Deus Quod Deus sit immutabilis
Ebr. De ebrietate
Flacc. In Flaccum
Fug. De fuga et invenzione
Gig. De Gigantibus
Her. Quis rerum divinarum heres sit
Ios. De Iosepho
Leg. All. Legum Allegoriae
Legat. Legatio ad Gaium
Migrat. De migratione Abrahami
Mos. De vita Mosis
Mutat. De mutatione nominorum
2

Opif. De opificio mundi


Plant. De plantatione
Poster. De posteri tate Caini
Praem. De praemiis et poenis, de exsecrationibus
Prob. Quod omnis probus liber sit
Prov. De Providentia
Qu. in Ex. Quaestiones et solutiones in Exodum
Qu. in Gen. Quaestiones et solutiones in Genesim
Sacrif. De sacrificiis Abelis et Caini
Sobr. De sobrietate
Somn. De somniis
Spec. Leg. De specialibus legibus
Virt. De virtutibus

Clem. Clemens Alexandrinus


Ecl. Proph. Eclogae propheticae
Exc. ex Theod. Excerpta ex Theodoto
Paed. Paedagogus
Protr. Protrepticus
Quis Div. Quis dives salvetur?
Strom. Stromateis

2. Le abbreviazioni delle opere degli altri autori antichi

Alcin. Alkinoos
Did. Didaskalikos

Apul. Apuleius
De Plat. De Platone et eius dogmate

Aristot. Aristoteles
An. Post. Analytica posteriora
An. Pr. Analytica priora
Anim. De anima
Cael. De caelo
3

Eth. Eud. Ethica Eudemia


Eth. Nic. Ethica Nicomachea
Metaph. Metaphysica
Phys. Physica
Rhet. Rhetorica
Top. Topica

Athenag. Athenagoras
Legat. Legatio pro Christianis

Cic. Marcus Tullius Cicero


De orat. De oratore

Clem. Rom. Clemens Romanus


1 Cor. Epistula I ad Corinthios

Diog. Laert. Diogenes Laertius


Vitae phil. Vitae philosophorum

Epiph. Epiphanius Salaminiensis


Pan. Panarion sive contra haereses

Euseb. Eusebius Caesarnensis


Hist. Eccl. Historia ecclesiastica

Greg. Nyss. Gregorius Nyssenus


Contr. Eunom. Contra Eunomium
In Cant. In Canticum canticorum homiliae
Vit. Mos. De vita Mosis

Hom. Homerus
Il. Ilias
4

Iren. Irenaeus
Adv. Haer. Adversus Haereses
Demonstr. Demonstratio praedicationis apostolicae

Iust. Iustinus Martyr


Apol. Apologia
Dial. Dialogus cum Tryphone

Num. Numenius
Fr. Fragments, ed. É. des Places

Orig. Origenes
C. Cels. Contra Celsum
Co. Cant. In Canticum canticorum
De Orat. De oratione
De Princ. De principiis
Sel. in Ps. Selecta in Psalmos

Phot. Photius
Bibl. Bibliotheca

Plat. Plato
Apol. Apologia Socratis
Crat. Cratylus
Epin. Epinomis
Epist. Epistulae
Gorg. Gorgias
Leg. Leges
Lys. Lysis
Men. Meno
Parm. Parmenides
Phaed. Phaedo
Phaedr. Phaedrus
Phileb. Philebus
5

Polit. Politicus
Resp. Respublica
Soph. Sophista
Symp. Symposium
Theaet. Theaetetus
Tim. Timaeus

Plot. Plotinus
Enn. Enneades

Plut. Plutarchus
De Anim. Procr. De animae procreatione in Timaeo
Is. et Osir. De Iside et Osiride

Ps.-Hippol. Pseudo-Hippolytus
Refut. Refutatio omnium haeresium

Sext. Sextus Empiricus


Adv. Math. Adversus mathematicos

Simpl. Simplicius
Phys. In Aristotelis physicorum libros commentaria

Tatian. Tatianus
Orat. Oratio ad Graecos

Theoph. Theophilus
Ad Autol. Ad Autolycum

3. Altre abbreviazioni

Aev Aevum
AGPh Archiv für Geschichte der Philosophie
AJPh American Journal of Philology
6

BICS Bulletin of the Institute of Classical Studies


BibAd Biblioteca di Adamantius
ChH Church History
CQ Classical Quarterly
DK H. Diels, W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker
GRBS Greek, Roman, and Byzantine Studies
GCS Die Griechischen Christlichen Schriftsteller der ersten drei
Jahrhunderte
Hk Helikon
HSCPh Harvard Studies in Classical Philology
HThR Harvard Theological Review
JACh Jahrbuch für Antike und Christentum
JECS Journal of Early Christian Studies
JNS Journal of Neoplatonic Studies
JTS The Journal of Theological Studies
LXX Septuaginta, ed. A. Rahlfs, R. Hanhart
Mnem Mnemosyne
NDPAC Nuovo dizionario di patristica e di antichità cristiane
PG Patrologia Graeca, ed. J. P. Migne
Phx Phoenix
Prud Prudentia
RFN Rivista di Filosofia Neo-scolastica
SCen The Second Century. A Journal of Early Christian Studies
ScC La Scuola Cattolica
SCh Sources Chrétiennes
SEA Studia Ephemeridis Augustinianum
SPhA Studia Philonica Annual
SSR Studi Storico-Religiosi
StPatr Studia Patristica
SuPatr Sussidi Patristici. Istituto Patristico Augustinianum
SVF Stoicorum Veterum Fragmenta, ed. H. Von Arnim
SymO Symbolae Osloenses
ThPh Theologie und Philosophie
VigChr Vigiliae Christianae
INTRODUZIONE

1. L’importanza dell’argomento per la patristica e la storia della filosofia

Nel Dialogo con Trifone, Giustino Martire, nel raccontare la storia della sua
conversione al cristianesimo, riporta una conversazione con un anziano cristiano dalla
quale emerge la seguente questione relativa a Dio:

«Ma tu che cos’è che chiami Dio?» – chiese [l’anziano]. «Ciò che è
sempre uguale a se stesso e che è causa di esistenza per tutte le altre realtà,
questo è Dio»1 […]. «Come – riprese – possono i filosofi elaborare un corretto
pensiero su Dio e dire qualcosa corrispondente a verità, visto che non ne hanno
la scienza, dal momento che non ne hanno visto o udito alcunché?». «Ma padre
venerando – feci a mia volta – non è con gli occhi che essi possono vedere Dio,
al pari degli altri esseri viventi, ma è solo con la mente che lo possono cogliere.
Così dice Platone e io gli credo» […]. «Platone dice che l’occhio della mente2
ha per se stesso questa capacità e che ci è stato dato proprio per vedere con esso,
quando è puro, l’essere in se stesso, il quale è causa di tutte le realtà intelligibili.
Esso non ha né colore né forma né grandezza, niente di niente, insomma, di
quanto l’occhio può cogliere, ma è, appunto, essere e basta, al di sopra di ogni
sostanza3, ineffabile e indicibile, unico bene che si produce subitaneamente
nelle anime ben disposte in forza dell’affinità con esso4 e del desiderio di
contemplarlo»5.

1
Cfr. Plat., Resp. 484 B; 509 B.
2
Cfr. Plat., Soph. 254 A-B; Resp. 533 D.
3
Cfr. Plat., Resp. 509 B.
4
Cfr. Plat., Phaed. 65 A – 66 B.
5
Iust., Dial. 3,5.7; 4,1. Trad. di G. Visonà, in S. Giustino, Dialogo con Trifone, Milano 1988.
L’edizione critica di riferimento è quella di Marcovich M., Iustini Martyris Apologiae pro Christianis,
Dialogus cum Tryphone, Berlin – New York 2005.
8

Non sorprende il fatto che colui che cercò, per parecchio tempo, la verità presso
diversi filosofi6, tra cui anche quelli platonici, conoscesse bene tanti concetti contenuti
nei Dialoghi del filosofo ateniese7. È però interessante notare che, anche dopo essere
diventato cristiano, Giustino non abbandona la dottrina dell’assoluta trascendenza
divina esposta nel passo appena citato; anzi, attraverso un’interpretazione allegorica dei
testi della Scrittura che parlano delle apparizioni sovrannaturali di Dio, argomenta
l’impossibilità da parte di colui che è “al di sopra di ogni sostanza”, come idea platonica
del Bene, di avere a che fare con la materia ed essere visto dagli occhi del corpo. Infatti,
nella sua conversazione con il giudeo Trifone, mentre viene affrontata la questione della
teofania al roveto ardente8, l’apologista afferma:

Proprio nessuno, anche se a corto di cervello, oserà dire che il creatore e


padre di tutte le cose ha abbandonato gli spazi sovracelesti per mostrarsi in un
angolo della terra9.

Giustino non deve difendere la sua tesi, perché Trifone, fino a questo punto,
concorda con l’affermazione dell’apologista. Infatti, anche secondo lui “il Dio che dal
roveto ha parlato con Mosè non è il Dio creatore di tutte le cose”, ma un angelo di Dio
che “annuncia agli uomini le cose del padre e creatore di ogni cosa” 10. Sulla base di
questo esempio possiamo osservare che, già nei primi secoli dopo Cristo, sia i cristiani
che gli ebrei ellenizzati concordavano sul fatto che Dio, padre e creatore dell’universo, a
motivo della sua trascendenza assoluta non può mostrarsi in nessuna parte della terra11.
Colui dunque che, secondo la Scrittura, passeggiava nel giardino di Eden sul far della
sera12, colui che apparve ad Abramo alle querce di Mamre13, che parlò con Mosè14 e i
profeti15, viene concepito come un essere incorporeo, immutabile, impassibile che

6
Cfr. Iust., Dial. 2,3 sgg.
7
Occorre notare che Giustino apprese la dottrina di Platone attraverso l’insegnamento di qualche
maestro medioplatonico. Infatti, il passo appena citato contiene delle idee che possono essere ricavate da
diverse opere di Platone; ma la sequenza delle affermazioni dell’apologista non è una citazione precisa
proveniente da qualche Dialogo del filosofo ateniese. Una simile serie degli attributi divini, invece,
troviamo nelle opere dei medioplatonici dell’epoca. Cfr. Alcin., Did. X 4; Apul., De Plat. I 190-193.
8
Cfr. Ex. 3,1 sgg.
9
Iust., Dial. 60,2.
10
Cfr. Iust., Dial. 60,3.
11
Anche qualora Trifone venisse considerato un personaggio inventato, in questa apologia
contro i giudei rappresenta senza dubbio l’opinione comune del giudaismo dell’epoca. Infatti,
affermazioni simili troviamo altresì nelle opere di Filone, l’ebreo alessandrino, vissuto circa un secolo
prima di Giustino. Cfr. Phil., Leg. All., I. 43-44; Confus. 134-135, dove l’idea che Dio possa scendere giù
sulla terra è considerata come un’empietà. Ne parleremo più ampiamente nel capitolo su Filone.
12
Cfr. Gen. 3,8.
13
Cfr. Gen. 18,1.
14
Cfr. Ex. 3,4 sgg.
15
Cfr., ad esempio, Jer. 1,1 sgg.
9

trascende tutte le realtà visibili ed intelligibili, e perciò inafferrabile da parte


dell’intelletto umano e ineffabile16.

Questo concetto pregnante della trascendenza comporta conseguenze altresì


sulla riflessione cristologica dei primi secoli. In realtà, il passo sopraccitato proviene da
un contesto preciso, nel quale Giustino sostiene che l’oggetto di tutte le teofanie
descritte nelle pagine dell’Antico Testamento non è il Dio trascendente, ma il Logos
preesistente. Questi, a parere dell’apologista, non è, tuttavia, trascendente nello stesso
modo della trascendenza di Dio, ma viene considerato come il mediatore tra Dio Padre e
il mondo. Sebbene svariate metafore tendano ad indicare la somiglianza della natura di
Dio e quella del Logos17, l’apologista non dimostra la consustanzialità e coeternità del
Padre con il Figlio. Anzi, quest’ultimo viene da lui concepito come “un secondo Dio”18,
subordinato al primo e manifestatosi soltanto prima della creazione del mondo.

Anche la crisi ariana del IV secolo avrà come sfondo intellettuale il problema
della trascendenza di Dio. Infatti, nella sua lettera al vescovo Alessandro Ario scrive:

Sappiamo che esiste un unico Dio, solo ingenerato, solo eterno, solo
senza principio, solo vero, solo che possiede l’immortalità, solo sapiente, solo
buono, solo potente, che giudica regge e governa ogni cosa, immutabile e
inalterabile19.

Tutti questi aggettivi, che mettono in risalto la trascendenza divina, descrivono


la natura di Dio Padre e non quella del Figlio. Per questo motivo appunto Ario ripete
parecchie volte la parola “solo” (mo,noj): solo ingenerato, solo eterno, solo senza
principio etc. Il Figlio, invece, nonostante sia una creatura particolare, ossia attraverso la
quale Dio creò tutte le altre cose, non condivide la stessa natura divina. Non esisteva
prima di essere stato generato. “Non è eterno né coeterno né ingenerato insieme col
Padre”20. Quindi non è trascendente allo stesso modo che Dio, principio assoluto di tutte
le cose21.

16
Sul concetto di Dio in Gustino cfr. G. Girgenti, Giustino Martire. Il primo cristiano platonico,
Milano 1995, pp. 94 sgg.
17
Cfr. Iust., Dial. 61,2; 62,4; 69,6; 128,3-4, dove Giustino utilizza le metafore del fuoco, della
sorgente, del rampollo e della pianta.
18
Cfr. Iust., I Apol. 13,3; II Apol. 13,4; Dial. 62,2-3.
19
Arius, 2 Ep. 2. Trad. di M. Simonetti, in Il Cristo. Testi teologici e spirituali in lingua greca
dal IV al VII secolo, Milano 2003, pp. 76 sgg.
20
Arius, 2 Ep. 4.
21
Sull’argomento cfr. M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, SEA 11, Roma 1975, pp. 46
sgg.
10

Altre eresie cristologiche dei primi secoli, come l’adozionismo e il docetismo,


erano similmente legate al concetto dell’assoluta trascendenza divina. La prima,
volendo salvaguardare la trascendenza e l’unicità di Dio, riduceva il Figlio soltanto ad
un uomo, divinizzato in un certo momento della sua vita terrena, cioè durante il
battesimo, o dopo la risurrezione22; la seconda, al contrario, volendo salvaguardare la
divinità e la trascendenza del Logos, escludeva tutto ciò che sembrava essere indegno
del Figlio di Dio e quindi anche il fatto della sua reale incarnazione e passione23.

L’argomento della trascendenza divina, che è l’oggetto della nostra ricerca,


riveste particolare importanza anche per coloro che si occupano della storia delle idee
filosofiche. A questo proposito, bisogna osservare che tra Platone, che era stato il primo
nella storia del pensiero antico a parlare del trascendente e dell’intelligibile, e Plotino,
che aveva costruito un sistema filosofico complesso, secondo il quale tutta la realtà
prende inizio dall’Uno, che è al di là di ogni sostanza, vi erano anche diversi pensatori
cristiani che hanno contribuito allo sviluppo di certe idee filosofiche concernenti
l’argomento della trascendenza. Alcuni di loro, anzi, ispirandosi alle idee filosofiche
della propria epoca, hanno elaborato definizioni o soluzioni teoriche nuove che
posteriormente sono state riprese anche dai filosofi pagani. Così, ad esempio (e ciò
sfugge all’attenzione di molti storici delle idee), è stato nel caso della nozione
dell’infinità divina. In realtà, fu Clemente di Alessandria, e non Plotino, come
sostengono gli autori di molti manuali della filosofia, ad attribuire, per la prima volta, il
termine a;peiron a una realtà perfetta, cioè a Dio, e a restituire in questo modo la
connotazione positiva di concetto di “infinito”24. Inoltre, anche altri gradi temi della
filosofia neoplatonica, come la trascendenza assoluta del primo Principio, il Logos
inteso come il mondo delle idee, la presenza degli intermediari tra Dio e il mondo, e
infine il ritorno a Dio attraverso l’assimilazione, non appaiono solo nelle dottrine dei
medioplatonici o di Plotino, ma vengono sviluppati già in Filone, nei suoi commentari
allegorici della Bibbia, poi nelle opere di Giustino, Clemente e Origene. Una certa
difficoltà si registra, talvolta, nello stabilire chi sia giunto per primo ad un’originale
soluzione o a un concetto filosofico nuovo: gli autori giudei e cristiani, che nelle
Scritture trovavano fonte d’ispirazione per le loro riflessioni filosofiche, o i filosofi

22
Cfr. M. Simontetti, voce: Adozionisti, in NDPAC, pp.83-84.
23
Cfr. B. Studer, voce: Docetismo, in NDPAC, pp.1465-1466.
24
Aggiungiamo che il concetto positivo dell’infinità appare già nei testi di Filone di Alessandria.
Questi, nonostante non utilizzi ancora l’aporetico termine di a;peiron, afferma chiaramente che Dio è
infinito (avperi,grafoj) e perciò anche inafferrabile da parte di un’anima creata. Una simile affermazione
troveremo poi in Gregorio di Nissa. Ne parliamo più ampiamente nel corso del nostro studio.
11

pagani25. Ad ogni modo, l’analisi delle dottrine dei Padri, che da loro stessi venivano
considerate come “la vera filosofia”, ci avvicina a una migliore comprensione della
storia delle idee. Esse, infatti, venivano elaborate in un determinato contesto culturale,
religioso e intellettuale. La conoscenza di questo contesto è molto importate soprattutto
mentre si prendono in esame le idee nate nella filosofia dell’epoca ellenistica
caratterizzata da una forte tendenza all’eclettismo.

2. L’obiettivo e il metodo dello studio

Il nostro obiettivo consiste nel mostrare in che modo, e per quali ragioni, il Dio
della Bibbia nel pensiero giudaico e cristiano, dei primi secoli dopo Cristo, sia diventato
il Nous radicalmente trascendente; quali siano i suoi attributi, in quale modo tale
Assoluto interagisca con il mondo corporeo e quali problemi provochi un così forte
concetto della trascendenza divina. Per circoscrivere l’argomento, che è molto ampio, ci
siamo limitiati all’analisi delle idee contenute nelle opere di due autori alessandrini: uno
ebreo, Filone, e uno cristiano, Clemente. Ambedue, infatti, nonostante l’intervallo di
tempo che li separa, vivono nello stesso ambiente culturale e intellettuale; ambedue
vogliono coscientemente inserire la loro religione (il giudaismo e il cristianesimo)
nell’ambito della filosofia greca, anzi ambedue tendono a mostrare che la religione della
quale sono fedeli è la vera filosofia. Nell’ambiente alessandrino, l’uno è il primo
giudeo, l’altro il primo maestro cristiano, gli scritti dei quali ci sono pervenuti 26. Per

25
Così è nel caso del Logos inteso come il ko,smoj nohto,j. Secondo le nostre conoscenze, era
stato Filone a parlarne per la prima volta, basando la sua dottrina sull’interpretazione allegorica delle
Scritture. Ci sono però studiosi che sostengono che di questo concetto avrebbero potuto parlare anche i
filosofi anteriori all’ebreo di Alessandria. Ad ogni modo, la sua dottrina ha avuto una grande influenza
non solo sui Padri della Chiesa, ma probabilmente anche sui filosofi pagani. Infatti, possediamo le
testimonianze che il filosofo medioplatonico Numenio (al quale si ispirava anche Plotino), nelle sue opere
diede grande importanza anche agli insegnamenti dei Giudei. Cfr. Num., Fr. 1, in: Numénius, Fragments,
ed. É. des Places, Paris 1973. Inoltre, era stato lui a formulare il detto, famoso già nell’antichità: “Cos’è
infatti Platone, se non un Mosè che parla attico?”. Clem., Strom. I 150,4 (= Fr. 8, des Places).
Sull’argomento cfr. S. Lilla, Introduzione al Medio platonismo, SuPatr 6, Roma 1992, pp. 100 sgg.; J.
Dillon, I medioplatonici. Uno studio sul platonismo (80 a.C.-220 d.C.), a cura di E. Vimercati, Milano
2010, pp. 405 sgg. Sul Logos inteso come il ko,smoj nohto,j cfr. D. T. Runia, A Brief History of the Term
‘Kosmos Noetos’ from Plato to Plotinus, in Traditions of Platonism. Essays in Honour of John Dillon, a
cura di J. J. Cleary, Aldershot 1999, pp. 151-171. Cfr. La discussione degli studiosi e la bibliografia
relativa a questo argomento in R. Radice, Commentario a “La creazione del mondo secondo Mosè”, in:
Filone di Alessandria, La Filosofia mosaica: La creazione del mondo secondo Mosè. Le allegorie delle
leggi, a cura di R. Radice, Milano 1987, pp. 239-244.
26
Prima di Filone, in Alessandria svolgeva la sua attività letteraria un altro filosofo giudeo-
ellenistico, Aristobulo. Di lui possediamo solo un numero molto limitato di frammenti contenuti nelle
opere di Clemente e di Eusebio di Cesarea. Cfr. F. Calabi, Storia del pensiero giudaico ellenistico,
Brescia 2010, pp. 32 sgg. Per quanto riguarda il cristianesimo, invece, sappiamo che prima di Clemente (e
12

comprendere meglio i concetti filosofici contenuti nelle loro opere, nel capitolo
introduttivo abbiamo presentato una breve storia della nozione della trascendenza nella
filosofia greca. A tal proposito abbiamo evidenziato soprattutto queste idee nei filosofi
antichi, che sono state riprese o reinterpretate dai due alessandrini.

Il metodo di questo lavoro è stato analitico-sintetico. Analitico – perché abbiamo


cercato di analizzare il più grande numero possibile di passi provenienti da tutti gli
scritti di Filone e di Clemente pervenutici; sintetico – perché, data la vastità del
materiale, siamo stati costretti a sintetizzare alcuni temi legati in qualche modo al
concetto della trascendenza divina e rimandare alla bibliografia secondaria relativa alle
singole tematiche, che abbiamo toccato lungo la nostra ricerca. Analizzando i testi scelti
abbiamo cercato di cogliere il senso storico del messaggio di ambedue i filosofi
alessandrini mostrando anche le influenze, evidenti o possibili, degli altri autori antichi
sul pensiero di Filone e di Clemente. Si tratta di filosofi come Eraclito, Platone,
Aristotele e gli stoici, riferimenti ai quali troviamo in ambedue gli alessandrini; e nel
caso di Clemente, anche di Filone stesso, degli gnostici e dei medioplatonici dell’epoca.
Procedendo in questo modo, abbiamo evidenziato l’importanza del concetto della
trascendenza divina per l’intero pensiero di ambedue gli autori: ci siamo occupati
dunque dell’ontologia, dell’epistemologia, dell’etica e anche dell’escatologia. In
ciascuna di queste parti della filosofia giudaica e cristiana, infatti, la dottrina della
trascendenza divina svolge un ruolo notevole.

Infine aggiungiamo che il metodo analitico che abbiamo adoperato in questo


studio è stato applicato secondo le regole interpretative dell’ermeneutica. Infatti, a volte,
ritornavamo ai testi citati precedentemente, non solo per far ricordare al lettore ciò che
avevamo detto prima e così spiegare meglio l’argomento in esame, ma anche perché
questi testi hanno acquistato un nuovo significato alla luce di ciò che è stato riportato ed
analizzato posteriormente. Così, dunque, alcune constatazioni contenute nei primi
paragrafi di un capitolo non dovrebbero essere considerate come finali e definitive in
quanto possono essere modificate: delimitate o ampliate a seconda dei risultati delle

forse anche contemporaneamente a lui) esercitò il suo magistero ad Alessandria, Panteno, ma anche di lui
non possediamo se non pochissime testimonianze. Cfr. R. van den Broek, The Christian “School” of
Alexandria in the second and third centuries, in Id., Studies in Gnosticism and Alexandrian Christianity,
Leiden 1996, pp. 197-205; M. Simonetti, E. Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, Bologna
2010, pp. 129 sgg.
13

analisi svolte nei paragrafi successivi27. In questo modo, attraverso ciascuno dei
paragrafi del nostro lavoro, come in un circolo ermeneutico, il lettore si avvicina via via
a una migliore comprensione del concetto della trascendenza divina nella filosofia
alessandrina dei primi secoli.

3. Lo status quaestionis

Va notato, già all’inizio di questo paragrafo, che non esiste finora una
monografia dedicata per intero allo sviluppo del concetto della trascendenza di Dio nella
tradizione alessandrina, ovvero tale che contenga e analizzi diversi aspetti di questo
argomento, come facciamo noi nel presente studio. Dall’altra parte la trascendenza
divina non è un tema del tutto trascurato dagli autori delle monografie, sia quelle
antiche sia quelle più recenti, concernenti il pensiero di Filone e di Clemente. In effetti,
tutti gli studiosi che scrivono sui pensatori alessandrini dedicano spesso qualche pagina
al concetto di Dio, però, non sempre esauriscono il tema così complesso e ampio: a
volte si concentrano soltanto sull’argomento dell’inconoscibilità dell’essenza divina.
Comunque, data la vastità della bibliografia relativa al pensiero di Filone e di Clemente,
è difficile descrivere in poche pagine lo status quaestionis che tocchi tutte le singole
tematiche legate a questo concetto. Infatti, si dovrà sempre trascurare qualche libro o
articolo che esamina: o la questione del Logos, o quella della creatio ex nihilo, o
l’epistemologia, o l’escatologia, o la mistica nella tradizione alessandrina. E, come
abbiamo già accennato, la dottrina della trascendenza divina è legata a tutti questi campi
della filosofia alessandrina. Pertanto in questo luogo evidenziamo soltanto le
pubblicazioni più recenti e queste che, a nostro parere, sembrano essere più rilevanti per
quanto riguarda l’argomento del nostro studio.

Parlando della bibliografia concernente il pensiero di Filone è impossibile non


prendere in considerazione un’opera antica, però ormai classica, di H. A. Wolfson,
Philo. Foundations of Religious Philosophy in Judaism, Christianity, and Islam,
Cambridge 1948. È uno studio di due volumi che sembra essere il più completo tra

27
In realtà, siamo persino costretti a ritornare sempre a certi testi ai quali abbiamo accennato
precedentemente in quanto né Filone né Clemente sono scrittori sistematici. Così, dunque, gli argomenti
che ci interessano sono o sparsi in diversi luoghi delle loro opere, o accumulati in un solo passo che, per i
motivi metodologici, non può essere esaminato nella sua interezza in un solo luogo del nostro studio. A
volte dunque tralasciamo alcune idee contenute in un testo citato per ritornare ad esse in un altro
paragrafo.
14

quelli pubblicati finora. Anche se l’interpretazione wolfsoniana del pensiero di Filone


ha avuto successo, in quanto ripetuta in diverse monografie e manuali comparsi
posteriormente, allo stesso tempo è stata l’oggetto di forti critiche da parte degli studiosi
che, concentrandosi sui problemi particolari, hanno dimostrato parecchie
semplificazioni o sovrainterpretazioni fatte dallo studioso americano. Infatti, costui
basandosi su poche e, talvolta, imprecise affermazioni contenute nel De opificio
mundi28, costruisce tutta la teoria relativa agli stadi di esistenza del Logos e non si cura
di tante altre affermazioni di Filone che potrebbero contraddirla. Così, dunque,
nonostante l’Alessandrino affermi che tutto ciò che è intelligibile è monadico ed eterno,
lo studioso sostiene che le idee che costituiscono il ko,smoj nohto,j sono state create
prima della creazione del mondo e sussistono al di fuori dell’essenza divina, nel Logos
creato. Nel secondo stadio della sua esistenza, dunque, il Logos dovrebbe essere
considerato come un’ipostasi creata, distinta e separata dalla mente divina. Lo studioso
sostiene anche che nell’esegesi del giorno “uno” Filone parli persino della creazione
della materia che altresì dovrebbe esistere nel Logos creato. Analogamente ai tre stadi di
esistenza del Logos il Wolfson introduce i tre stadi di esistenza della Sapienza e delle
potenze che vengono considerate da lui come varie ipostasi. Una delle prime critiche di
questa interpretazione è stata formulata pochi anni dopo la pubblicazione dell’opera
wolfsoniana ed è merito di K. Bormann, Die Ideen- und Logoslehre Philonis von
Alexandrien. Eine Auseinandersetzung mit H. A. Wolfson, Köln 195529. Alle altre
accenneremo di seguito.

Negli ultimi tre decenni del XX secolo e nel primo decennio del XXI secolo,
osserviamo un crescente interesse per lo studio del pensiero filoniano. Questo fenomeno

28
Dei particolari di questa interpretazione parliamo nel corso del nostro lavoro.
29
Aggiungiamo che, ancora prima di K. Bormann, anche R. P. Festugière aveva formulato
alcune critiche nei confronti delle constatazioni del Wolfson. Infatti, nella sua opera La révélation
d’Hermès Trismégiste, vol. IV: Le Dieu inconnu et la gnose, Paris 1954, non concorda con lo studioso
americano secondo il quale Filone sarebbe stato il primo nell’ambito della filosofia greca a esprimere in
maniera chiara ed esplicita il concetto della trascendenza epistemologica di Dio. A parere del Festugière
tale concetto si può ricavare anche dagli scritti di Platone e di Aristotele. Inoltre, secondo lo studioso
francese, a differenza di quello americano, Filone non sembra essere un pensatore originale, in quanto in
diverse delle sue tesi dipende dalle interpretazioni della dottrina platonica fatte già dai neopitagorici. Per
quanto riguarda la prima tesi del Festugière essa è difficilmente difendibile, in quanto Platone stesso
afferma esplicitamente che l’idea del Bene è conoscibile (cfr. Resp. 508 E); per Aristotele invece il Nous
diventa l’oggetto della scienza – cioè della metafisica. Quindi, almeno per questi motivi non possiamo
sostenere che la trascendenza epistemologica di Dio, in maniera chiara ed esplicita, era già stata
pronunciata dai filosofi ateniesi. Per quanto riguarda la seconda tesi, essa sarà sviluppata dagli altri
studiosi (come, ad esempio, J. Dillon) dei quali parleremo in seguito.
15

viene chiaramente illustrato nelle bibliografie fatte da R. Radice e D. T. Runia30 che


elencano, non centinaia, ma migliaia dei titoli: commentari, monografie e articoli
dedicati in toto, o almeno parzialmente, a qualche argomento concernente la dottrina
dell’ebreo di Alessandria. Le pubblicazioni più importanti di questo intervallo di tempo
sono merito soprattutto degli studiosi italiani, come G. Reale, R. Radice, C. Kraus
Reggiani, F. Calabi, C. Termini31 e quelli dell’ambiente intellettuale anglosassone,
come J. M. Dillon, D. Winston e D. T. Runia32.

Per iniziativa di G. Reale e R. Radice, dei quali si può ormai parlare come dei
fondatori della scuola platonica di Milano33, sono stati pubblicati Tutti i trattati del
commento allegorico alla Bibbia di Filone di Alessandria con il testo greco a fronte
(Milano 2005). Questa opera monumentale è dotata di un’ampia introduzione generale e
delle note con i commenti, a volte molto dettagliati, a diversi temi della dottrina
dell’ebreo di Alessandria. Prima di essa gli stessi autori, in collaborazione con C. Kraus
Reggiani e C. Mazzarelli hanno edito una serie di commentari alle opere filoniane con il
testo tradotto, i saggi introduttivi, note e apparati contenuti nei seguenti volumi: Filone
di Alessandria, Le origini del male, Milano 1984; Id., L’uomo e Dio, Milano 1986; Id.,
La filosofia mosaica, Milano 198734; Id., La Migrazione verso l’eterno, Milano 1988.

30
Cfr. R. Radice, D. T. Runia, Philo of Alexandria: An Annotated Bibliography. 1937-1986,
Leiden 1988; D. T. Runia, Philo of Alexandria: An Annotated Bibliography. 1987-1996, Leiden 2000.
Questa iniziativa così importante per la ricerca scientifica è continuata in: The Studia Philonica Annual
che è una rivista dedicata allo studio del giudaismo ellenistico e in particolar modo del pensiero di Filone
di Alessandria. In ciascuno dei fascicoli D. T. Runia in collaborazione con diversi altri studiosi (R.
Radice, D. Satran, A. C. Geljon, D. Zeller e altri) non soltanto elencano i titoli nuovi, comparsi a partire
dell’anno 1996 in poi, ma anche fanno una piccola recensione del libro o dell’articolo in cui viene trattato
qualche tema relativo al pensiero filoniano.
31
Cfr. anche Italian studies on Philo of Alexandria, a cura di F. Calabi, Boston – Leiden 2003:
un volume che raccoglie gli articoli di diversi studiosi italiani (non solo quelli menzionati sopra) che
hanno contribuito allo sviluppo della ricerca sul pensiero filoniano.
32
Questo ultimo nonostante sia originario dei Paesi Bassi scrive in inglese e lavora presso la
University of Melbourne in Australia.
Anche se abbiamo sottolineato l’importanza degli studiosi italiani e quelli della cultura anglo-
sassone, che hanno dedicato la maggior parte della loro attività letteraria e scientifica alla ricerca su
Filone, non possiamo dimenticare alcuni studiosi tedeschi: B. L. Mack, Logos und Sophia.
Untersuchungen zur Weisheitstheologie im hellenistischen Judentum, Göttingen 1973; C. Noack,
Gottesbewußtsein. Exegetische Studien zur Soteriologie und Mystik bei Philo von Alexandria, Tübingen
2000; o francesi: V. Nikiprowetzky, Le Commentaire de l’Ecriture chez Philon d’Alexandrie. Son
caractère et sa portée. Observations philosophiques, Leiden 1977; Id. Études philoniennes, Paris 1996,
C. Lévy (ed.), Philon d'Alexandrie et le langage de la philosophie, Turnhout 1998.
33
Infatti, G. Reale non solo ha importato in Italia gli studi della scuola platonica di Tubinga, ma
ha fondato il «Centro di Ricerche di Metafisica» – luogo in cui si sono formati la maggior parte dei suoi
allievi con i quali continua le sue ricerche su Platone e sulle radici platoniche del pensiero occidentale.
34
Questo volume contiene due, molto dettagliati commentari di R. Radice: Commentario a “La
creazione del mondo secondo Mosè” (pp. 231-313) e Commentario a “Le allegorie delle leggi” (pp. 315-
533), nei quali lo studioso italiano non solo spiega le affermazioni difficili, riferendosi ai testi paralleli di
tutte le opere dell’Alessandrino, ma anche riporta le discussioni degli studiosi e lo status quaestionis di
singole tematiche filoniane. Il commentario alle Allegorie delle leggi è stato successivamente modificato
16

Molte delle osservazioni di questi studiosi ci sono state d’aiuto nelle diverse fasi della
nostra ricerca. Accenniamo a questo proposito che la “scuola di Milano”, nonostante
l’atteggiamento critico nei confronti dell’interpretazione del Wolfson, concorda, almeno
parzialmente, con la sua tesi concernente l’argomento della creatio ex nihilo in Filone.
Tale questione è stata analizzata prima da G. Reale in Filone di Alessandria e la prima
elaborazione filosofica della dottrina della creazione, in Paradoxos politeia. Studi
patristici in onore di Giuseppe Lazzati, a cura di R. Cantalamessa, L. F. Pizzolato,
Milano 197935; e di seguito in maniera ancora più dettagliata da R. Radice in
Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria, Milano 1989.

Di un altro parere è D. T. Runia che nella sua opera Philo of Alexandria and the
‘Timaeus’ of Plato, Leiden 1986, dimostra che Filone nella dottrina della creazione del
mondo concorda con le tesi contenute nel Timeo di Platone36. Il Runia rigetta gli
argomenti degli studiosi (anche quelli di Milano) che a questo proposito si rivolgono a
un passo filoniano dello scritto De Providentia (I 6-8) in cui l’Alessandrino avrebbe
affermato che la materia era stata creata da Dio. Secondo lo studioso, questo passo, in
quanto pervenutoci soltanto nella in traduzione armena, provoca tante difficoltà e
domande riguardo la credibilità delle affermazioni in esso contenute. Il Runia presenta
una nuova traduzione del Prov. I 6-8 e comparandolo con i testi paralleli delle opere
pervenuteci in greco giunge alla conclusione che nemmeno in questo luogo Filone
prende le distanze dall’opinione di Platone al riguardo, e cioè sostiene che la materia, in
quanto assoluta negatività ontologica, non poteva essere creata da Dio. Aggiungiamo
ancora che nella stessa opera lo studioso espone altresì la sua interpretazione della
dottrina del Logos in Filone (differente da quella wolfsoniana). Non concorda dunque
con la teoria degli stadi di esistenza e suggerisce che il Logos immanente è soltanto un
tipo di estensione (“a kind of extension”) del Logos trascendente37. E dato che il Logos

e (tenendo conto della bibliografia più recente) aggiornato dallo stesso studioso ed è comparso sotto il
titolo: Allegoria e paradigmi etici in Filone di Alessandria. Commentario al «Legum allegoriae», Milano
2000.
35
La tesi pronunciata in questo articolo è stata ripetuta nel suo famoso manuale Storia della
filosofia antica, vol. IV, Milano 1987. Questo, a sua volta, è stato recentemente aggiornato ed edito
nuovamente in 10 volumi sotto il titolo Storia della filosofia greca e romana, Milano 2010, dove la
dottrina filoniana viene esposta nel volume VII.
36
Lo stesso sostiene R. Radice nello studio appena menzionato. Comunque per quando riguarda i
particolari dell’interpretazione della dottrina filoniana, come ad esempio nel punto concernente la
creazione della materia, gli studiosi presentano le opinioni diverse. Secondo il Radice, Dio prima aveva
creato la materia e di seguito l’ha modellata nel modo in cui lo descrive il Timeo di Platone. A parere
dello studioso italiano, dunque, l’Alessandrino in questo punto della sua dottrina concorda soltanto
parzialmente con il filosofo ateniese.
37
Per di più, basandosi su diverse affermazioni dell’Alessandrino, lo studioso evidenzia l’unità
del Logos che secondo la teoria degli stadi di esistenza non può essere salvaguardata. A questo proposito
17

trascendente, in quanto l’insieme delle idee divine, è pensato da Dio, e poiché questi a
sua volta è un’attività eterna, il Runia non esclude che Filone possa concepire la
processione del Logos come una generazione perpetua. Aggiungiamo che oltre l’opera
summenzionata D.T. Runia è autore di tanti altri libri e articoli su Filone tra i quali vale
la pena menzionare: Exegesis and Philosophy: Studies on Philo of Alexandria,
Aldershot 1990; Philo in Early Christian Literature: A Survey, Assen-Minneapolis
199338, e un commentario a De opificio mundi contenuto in Philo of Alexandria, On the
Creation of the Cosmos according to Moses. Introduction, Translation and
Commentary, a cura di D. T. Runia, Leiden 2001.

F. Calabi, invece, che nelle sue pubblicazioni ha dedicato parecchio spazio alla
trascendenza divina39, critica un altro punto dell’interpretazione wolfsoniana. Infatti,
secondo la studiosa italiana le potenze divine non dovrebbero essere concepite come
entità autonome in quanto in Filone è osservabile un forte monoteismo che non accetta
l’esistenza degli altri principi ugualmente trascendenti accanto a Dio. La Calabi
preferisce dunque parlare dell’energheia divina o degli aspetti di Dio nei quali egli
appare a colui che lo percepisce. E la percezione di Dio, a sua volta, dipende dal livello
di istruzione o di perfezionamento spirituale della persona veggente. La studiosa italiana
ha esposto la sua interpretazione della dottrina filoniana in diversi articoli, ma
recentemente anche nel volume God’s Acting, Man’s Acting. Tradition and Philosophy
in Philo of Alexandria, Leiden 2008. A proposito di questo argomento bisogna
menzionare pure la tesi dottorale di C. Termini, Le potenze di Dio. Studio su du,namij in
Filone, Roma 2000, pubblicata nella serie Studia Ephemeridis Augustinianum 71, dove
dopo una minuziosa analisi linguistica, grammaticale e contestuale dei testi filoniani la
studiosa conclude: “Così il logos e le potenze manifestano solo gli aspetti di Dio che
sono conoscibili all’uomo in un processo razionale o per rivelazione, ma non

osserviamo che prima del Runia, alle simili conclusioni giunse lo studioso italiano A. Maddalena che
nella sua opera Filone Alessandrino, Milano 1970, polemizzando con l’interpretazione del Wolfson,
afferma: “Se dovessimo pensare a tanti Logoi, o a tante Sapienze, quante sono le immagini che Filone usa
a indicarli, non di due Sapienze e di due Logoi dovremmo parlare, ma per lo meno di quattro Sapienze e
dieci Logoi”. Cfr. Ibid., nota 3, p. 320.
38
Trad. it.: D. T. Runia, Filone di Alessandria nella prima letteratura cristiana, Milano 1999.
39
Cfr., ad esempio, F. Calabi, Conoscibilità e inconoscibilità di Dio in Filone di Alessandria, in
Arrhetos Theos. L’ineffabilità del primo principio nel medio platonismo, a cura di F. Calabi, Pisa 2002,
pp. 35-54; Id., La luce che abbaglia: una metafora sulla inconoscibilità di Dio in Filone di Alessandria,
in Origeniana Octava. Origen and the Alexandrian Tradition. Papers of the 8th International Origen
Congress, a cura di L. Perrone, vol. I, Leuven 2003, pp. 223-232.
18

esauriscono il mistero profondo di Dio”40. In questo modo anche la Termini prende le


distanze dalla interpretazione di H. A. Wolfson.

Infine dobbiamo accennare ancora a J. Dillon e D. Winston che per un certo


periodo di tempo hanno collaborato insieme41 e che nell’ambito intellettuale
anglosassone sono probabilmente i più eminenti conoscitori del pensiero filoniano.
Infatti, le loro pubblicazioni: commentari, monografie e articoli toccano quasi tutti gli
argomenti della dottrina dell’ebreo di Alessandria. Tra di essi in particolar modo hanno
contribuito alla nostra ricerca i seguenti saggi: J. Dillon, The nature of God in the ‘Quod
Deus’, in D. Winston, J. Dillon, Two Treatises of Philo of Alexandria..., op. cit., pp.
217-227; Id., The Transcendence of God in Philo: Some Possible Sources, in The
Golden Chain. Studies in the Development of Platonism and Christianity, ed. J. Dillon,
Aldershot 1990, pp. 1-8; Id., The Middle Platonists: 80 B.C. to A.D. 220, Ithaca199642,
spec. pp. 139-183; D. Winston, Logos and Mystical Theology in Philo of Alexandria,
Cincinnaty 1985; Id., Philo’s Conception of the Divine Nature, in Neoplatonism and
Jewish Thought, ed. L. E. Goodman, New York 1992, pp. 21-42; Id., Philo’s Theory of
Eternal Creation: Prov. 1.6-9, in The Ancestral Philosophy. Hellenistic Philosophy in
Second Temple Judaism. Essays of Dawid Winston, ed. G. E. Sterling, Providence 2001,
pp. 117-12743.

40
Ibid., p. 238.
41
Cfr. il loro volume: Two Treatises of Philo of Alexandria. A Commentary on ‘De Gigantibus’
and ‘Quod Deus Sit Immutabilis’, Chico 1983.
42
Questa è la seconda edizione, riveduta e aggiornata, del volume pubblicato nel 1977. La stessa
opera è stata pubblicata recentemente in lingua italiana con ulteriori aggiornamenti a cura di E. Vimercati.
Cfr. J. Dillon, I medioplatonici. Uno studio sul platonismo (80 a.C.-220 d.C.), Milano 2010. A questo
proposito bisogna accennare che questo eccellente studio del Dillon è la prima elaborazione in qualsiasi
lingua moderna delle idee del “movimento” medioplatonico nel loro sviluppo storico tra Cicerone e
Plotino. Filone è considerato qui come medioplatonico e le singole tematiche della sua dottrina vengono
esaminate dallo studioso nei confronti del contesto intellettuale dell’epoca. Occorre ancora notare che
anche i risultati della ricerca di J. Dillon non concordano con le constatazioni contenute nella famosa
opera di H. A. Wolfson. Infatti, concludendo la parte dedicata all’ebreo di Alessandria scrive: “My chief
thesis (as against such an authority as H. A. Wolfson, for example) is that Philo was not so much
constructing for himself an eclectic synthesis of all Greek philosophy, from the Presocratics to
Posidonius, as essentially adapting contemporary Alexandrian Platonism, which was itself heavily
influenced by Stoicism and Pythagoreanism, to his own exegetical purposes”. Ibid., p. 182. In ogni modo,
il Dillon, insieme al Wolfson, scorge nella dottrina filoniana parecchie idee nuove sconosciute ai
medioplatonici dell’epoca come, ad esempio, la dottrina delle potenze o il concetto della nullità
dell’uomo in relazione a Dio.
43
Aggiungiamo che in questo articolo D. Winston espone la sua originale e convincente
interpretazione della dottrina della creazione di Filone. Non concorda dunque né con il Wolfson che
sostiene che la materia prima era stata creata da Dio e successivamente modellata da lui, così come lo
descrive il Timeo di Platone, e nemmeno con il Runia secondo il quale la materia, in quanto considerata
dall’Alessandrino come l’assoluta negatività ontologica, non poteva essere creata da Dio che è l’assoluta
Bontà. Secondo il Winston la materia non è stata né creata dal Creatore, né esisteva in forma disordinata
prima della creazione del mondo, perché Dio nella sua eterna attività creatrice la ordina ab aeterno. La
19

Aggiungiamo ancora che molti degli studiosi qui menzionati (C. Termini, R.
Radice, C. Lévy, D. Runia e D. Winston) hanno contribuito, ripetendo a volte le loro
tesi affermate altrove, alla pubblicazione di un volume comparso recentemente: The
Cambridge Companion to Philo, a cura di A. Kamesar, Cambridge 2009. D. Winston,
invece, ha redatto ultimamente un capitolo dedicato alla filosofia di Filone in The
Cambridge History of Philosophy in Late Antiquity, a cura di L. P. Gerson, Cambridge,
2010, vol. I, pp. 235-257, dove ripete le tesi esposte nei suoi studi pubblicati
precedentemente.

Per quanto riguarda la bibliografia concernente il pensiero di Clemente di nuovo


dobbiamo accennare a H. A. Wolfson che nell’opera The Philosophy of the Church
Fathers, vol. I: Faith, Trinity, Incarnation, Cambridge 195644 applica la sua particolare
interpretazione esposta in Philo. Foundations of Religious Philosophy… alla dottrina
dell’Alessandrino cristiano. Infatti, paragonando alcuni testi di Clemente con quelli di
Filone afferma: “Il Logos cristiano ha due stadi di esistenza: durante il primo, esso è
identico a Dio, durante il secondo esso è ente personale e distinto. Di conseguenza si
può dire che anche le idee contenute nel Logos hanno i medesimi stadi di esistenza”45.
Tale interpretazione seguono due eminenti studiosi del pensiero antico S. Lilla, in
Clement of Alexandria. A Study in Christian Platonism and Gnosticism, Oxford, 1971; e
A. Orbe nella sua opera La teologia dei secoli II e III. Il confronto della Grande Chiesa
con lo gnosticismo, vol. I: Temi veterotestamentari, Roma 1987, pp. 200 sgg.

Bisogna sottolineare che l’opera di Salvatore Lilla, appena menzionata, anche se


non è di grande vastità, è una delle più importati monografie concernenti il pensiero di
Clemente comparse nel XX secolo. Infatti è stato lo studioso italiano a scorgere e a
evidenziare in maniera molto dettagliata le similitudini e le influenze degli stoici, dei
neopitagorici, dei medioplatonici e degli gnostici sulla dottrina dell’Alessandrino. Il suo
studio contiene un grande numero delle citazioni degli autori antichi, i testi dei quali a
volte non erano stati ancora tradotti o editi in modo critico, e le raggruppa a seconda

sua interpretazione lo studioso fonda sui passi filoniani nei quali: a) Dio è considerato come l’eterna
attività pensante; b) il suo atto di pensare viene identificato con l’atto di creare; c) la creazione di
ciascuno degli esseri è considerata come simultanea e fuori del tempo. Da questa interpretazione risulta
altresì che pure la generazione del Logos è una generazione perpetua ed eterna. Infatti, se Dio pensa
eternamente le idee ed eternamente crea (cioè imprime nella materia le idee che pensa), anche il Logos, in
quanto l’insieme delle idee divine e strumento della creazione, deve essere eterno ed eternamente
generato da Dio.
44
Trad. italiana: H. A. Wolfson, La filosofia dei Padri della Chiesa, vol. I: Spirito, Trinità,
Incarnazione, Brescia 1978.
45
Ibid., p. 241.
20

delle singole tematiche dell’ambito dell’etica, dell’ontologia e della teologia. I risultati


della ricerca del Lilla sono impressionanti. Perciò il suo libro è diventato quasi uno
strumento (o almeno uno spunto)46 per i futuri approfondimenti e indagini sul contesto
intellettuale e culturale della dottrina clementina. Comunque, occorre anche notare che
il metodo adoperato dallo studioso a volte risulta manchevole. In realtà, alcune delle
citazioni da lui riportate sono molto brevi: talora contengono tre o quattro parole isolate
dal contesto; e perciò non sono un argomento forte e sufficiente per poter comprovare
una complessa teoria interpretativa proposta dal Lilla47. Per questo motivo un altro
eminente studioso del pensiero di Clemente, E. Osborn, nella sua opera The Beginning
of Christian Philosophy, Cambridge 1981 ha criticato il procedimento scientifico
adoperato dallo studioso italiano48. J. Whittaker, invece, nella sua recensione del libro
dell’Osborn contenuta in The Second Century. A Journal of Early Christian Studies 4
(1984)49 non concorda con questa critica dell’opera di Lilla. Nonostante non tutti gli
studiosi concordino con l’interpretazione dello studioso italiano, la sua opera rimane
sempre una buona introduzione, non soltanto al pensiero di Clemente, ma in genere alla
filosofia alessandrina dei primi tre secoli. Infatti, oltre alle citazioni dalle opere di
Filone, degli gnostici e dei medioplatonici troviamo in essa anche parecchi riferimenti al
pensiero di Origene e di Plotino che senza dubbio si ispiravano alle idee dei suoi
predecessori.

A proposito delle fonti o delle influenze ideologiche sulla dottrina clementina,


dobbiamo accennare ancora a un altro molto importante studio di A. van den Hoek,
Clement of Alexandria and his Use of Philo in the Stromateis, Leiden 1988, nel quale
vengono riportati, non solo alcune isolate affermazioni di ambedue i pensatori
alessandrini (come suole fare il Lilla), ma sull’esempio dei più lunghi passi del testo
vengono evidenziate le somiglianze e le differenze che intercorrono tra l’interpretazione
allegorica di Filone e quella di Clemente di Alessandria. Il libro della van den Hoek è

46
Infatti il Clement of Alexandria del Lilla è il titolo più citato tra tutte le monografie
concernenti la teologia e la filosofia alessandrina dei primi secoli dopo Cristo. Alcuni studiosi, come ad
esempio A. Choufrine, del quale ancora parleremo, stabiliscono come scopo delle loro ricerche
completare e sviluppare gli argomenti che S. Lilla aveva soltanto menzionato indicando le possibili fonti
di un certo concetto clementino.
47
Così appunto è nel caso della teoria degli stadi di esistenza del Logos. Citando una breve
affermazione nella quale appare la parola prwto,ktistoj nei confronti della Sapienza biblica (Clem.,
Strom. V 89,4), il Lilla sostiene che nel terzo stadio della sua esistenza il Logos è concepito da Clemente
come un ente immanente e creato. Di questo argomento parleremo ancora nel corso del nostro studio.
48
Cfr. Ibid., pp. 242-244.
49
Cfr. Ibid., pp. 60-62.
21

stato recensito e le sue conclusioni sono state completate da D. T. Runia nello studio
Philo in Early Christian Literature: A Survey, Assen-Minneapolis 199350.

Tra le molteplici monografie su Clemente comparse nell’ultimo decennio51


vogliamo evidenziare soprattutto il libro di A. Choufrine, Gnosis, Theophany, Theosis.
Studies in Clement of Alexandria’s Appropriation of His Background, New York 2002,
e in particolar modo il suo capitolo III: Theosis as Infinity. A Background of Clement’s
Interpretation of ‘Assimilation to God’52. Infatti, in questa parte del suo saggio lo
studioso russo si concentra su un tema molto importante per la nostra tesi, ossia sul
concetto dell’infinità divina in Clemente53. In maniera molto eloquente e dettagliata il
Choufrine dimostra in che misura l’Alessandrino nelle sue affermazioni al riguardo
dipende dalle tesi formulate da Platone e da Aristotele. Per di più, lo studioso, dopo aver
constatato che Clemente è il primo pensatore anteriore a Plotino a formulare il positivo
concetto dell’infinità divina, evidenzia il ruolo e la funzione di questo concetto originale
in tutta la dottrina del cristiano di Alessandria.

Nell’anno 2005 è comparsa la monografia di E. Osborn, Clement of Alexandria


(Cambridge), nella quale questo eminente studioso del pensiero clementino raccoglie,
sistematizza, aggiorna e sviluppa le tesi affermate in diversi studi pubblicati
precedentemente. A questo proposito bisogna notare che E. Osborn è stato il primo
studioso moderno a scorgere la presenza del positivo concetto dell’infinità nelle opere

50
Cfr. Ibid., pp. 132-156.
51
Oltre le pubblicazioni delle quali parliamo sotto, vale la pena menzionare almeno: P.
Karavites, Evil, Freedom, and the Road to Perfection in Clement of Alexandria, Leiden 1999; J. Behr,
Asceticism and Anthropology in Irenaeus and Clement, Oxford 2000; R. Feulner, Clemens von
Alexandrien. Sein Leben, Werk und philosophisch-theologisches Denken, Frankfurt am Main 2006; J. D.
Ewing, Clement of Alexandria’s Reinterpretation of Divine Providence. The Christianization of the
Hellenistic Idea of Pronoia, Lewiston – New York 2008; C. P. Cosaert, The text of the Gospels in
Clement of Alexandria, Atlanta 2008; P. Ashwin-Siejkowski, Clement of Alexandria. A Project of
Christian Perfection, London 2008; O. Kindiy, Christos Didaskalos. The Christology of Clement of
Alexandria, Saarbrücken 2008; A. C. Itter, Esoteric Teaching in the Stromateis of Clement of Alexandria,
Leiden 2009; B. G. Bucur, Angelomorphic Pneumatology. Clement of Alexandria and Other Early
Christian Weitnesses, Leiden 2009; I. Gargano, Clemente e rigene nella Chiesa cristiana alessandrina.
Estraneità, dialogo o interculturazione , Milano 2011.
Nel corso del nostro studio facciamo i riferimenti a molte di queste monografie recenti, però,
dato che sono troppe, e poiché non riguardano precisamente il nostro tema, non possiamo commentarle in
questo breve paragrafo introduttivo.
52
Ibid., pp. 159-197. Questo capitolo ripete le tesi pubblicate precedentemente dallo stesso
autore nell’articolo The Aspects of Infinity in Clement of Alexandria, JNS 2 (1997), pp. 3-44.
53
Aggiungiamo che in molte delle sue tesi il Choufrine riprende le conclusioni alle quali era
giunto prima J. Whittaker nel suo articolo Philological Comments on the Neoplatonic Notion of Infinity,
in The Significance of Neoplatonism, ed. R. Harris, Norfolk 1976, pp. 155-172. In ogni modo, la
monografia dello studioso russo è molto più ampia e tocca gli argomenti non analizzati dal Whittaker.
22

dell’Alessandrino54 – lo nota anche il Choufrine nell’opera sopra menzionata. Secondo


lui, il Dio di Clemente è inafferrabile, ineffabile e indescrivibile appunto perché è
infinito. A differenza del Choufrine, però, l’Osborn non ha rintracciato analogie che
intercorrono tra le espressioni contenute nella clementina definizione dell’infinito e
quelle della Fisica di Aristotele, sottolineando soltanto le somiglianze o possibili
influenze di Platone sul pensiero dell’Alessandrino. Di conseguenza, non ha dato peso
ad alcuni termini aristotelici tecnici che ricorrono in diversi luoghi delle opere
clementine e non ha sviluppato sufficientemente il tema così rilevante. In ogni modo, la
sua opera su Clemente è di grande valore in quanto, oltre il concetto di Dio, analizza e
problematizza (a volte indicando lo status quaestionis di ciascuna delle problematiche) i
più importanti temi della dottrina del maestro di Alessandria, come la fede 55, la
conoscenza, l’amore e l’assimilazione a Dio. Il filo conduttore dello studio è
l’argomento della salvezza: infatti, esaminando tutti questi argomenti sopramenzionati
l’Osborn tende a comprendere in che modo un autore cristiano, colto, istruito e immerso
nella cultura ellenistica, risponde alla novità del messaggio portato dal Salvatore.

Un’altra monografia recente, legata al tema del nostro lavoro, è la tesi dottorale
di H. F. Hägg, pubblicata a Oxford 2006: Clement of Alexandria and the Beginnings of
Christian Apophaticism. L’autore di questo studio paragona il concetto di Dio dei
medioplatonici (soprattutto di Alkinoos, Numenio e di Attico) con quello contenuto
nelle opere clementine, e cerca di rintracciare le origini della teologia negativa
dell’Alessandrino. A questo proposito, riprende alcune delle osservazioni fatte già da S.
Lilla; comunque dissente dalla sua interpretazione relativa ai tre stadi di esistenza del
Logos. Anzi, insieme a M. J. Edwards (Clement of Alexandria and his Doctrine of the
Logos, VigChr 54 (2000), pp. 159-177) sostiene che già in Clemente troviamo la
dottrina della generatio perpetua del Logos da parte del Padre. Anche se la tesi di Hägg
ha delle lacune (infatti ignora, coscientemente, le possibili influenze di Filone sulla
dottrina di Dio di Clemente56 e non trae alcune conseguenze dal concetto dell’infinità

54
La sua tesi è stata pronunciata per la prima volta già in The Philosophy of Clement of
Alexandria, Cambridge 1957.
55
Le analisi riguardo a questo argomento si trovano anche in un articolo pubblicato
precedentemente: E. F. Osborn, Arguments for Faith in Clement of Alexandria, VigChr 48 (1994), pp. 1-
24.
56
Infatti molte delle fonti medioplatoniche del concetto clementino di Dio da lui indicate sono
soltanto plausibili, mentre quelle filoniane sono evidenti. Il Hägg è consapevole dell’importanza della
fonte filonica e a questo proposito rimanda il lettore allo studio di Annewies van den Hoek, Clement of
Alexandria and his Use of Philo in the Stromateis. Comunque alcune questioni toccate dallo studioso
sarebbero diventate più comprensibili se fossero illuminate dai testi di Filone piuttosto che dagli altri
autori da lui indicati. Lo studio della van den Hoek mostra le somiglianze e le differenze nell’esegesi
23

divina al quale soltanto accenna57) troviamo in essa alcune analisi molto interessanti:
infatti lo studioso sottolinea l’originalità del procedimento metodologico della via
negationis descritto dall’Alessandrino e l’importanza della distinzione tra l’essenza e la
potenza divina che successivamente sarà ripresa dai teologi della Chiesa Ortodossa.

Alla fine accenniamo ancora a una monografia molto importante per gli studi
clementini: Clement of Alexandria on Trial. The Evidence of ‘Heresy’ from Photius’
Bibliotheca, Leiden 2010 dello studioso polacco P. Ashwin-Siejkowski. In otto capitoli
di questo studio l’Ashwin-Siejkowski prende in esame ciascuna delle accuse formulate
nel IX secolo da Fozio, patriarca di Costantinopoli, e rivolte contro alcune tesi che
Clemente avrebbe pronunciato nelle perdute Ipotiposi. Lo studioso, che da molti anni si
occupa del pensiero clementino, tende a rintracciare nelle opere pervenuteci le
affermazioni dell’Alessandrino che avrebbero potuto disturbare l’orecchio del patriarca.
A questo proposito non si sofferma soltanto nell’affermare se un’accusa di Fozio ha il
suo fondamento nelle opere che conosciamo, o meno, ma approfondisce ciascuno dei
argomenti singoli indicando le sue fonti filosofiche alle quali si ispirava o con le quali
polemizzava Clemente. Molto importante è anche l’introduzione a questa monografia
nella quale lo studioso descrive il “background” politico e culturale dell’attività
letteraria di Fozio. Esso aiuta a comprendere il perché alcuni concetti filosofici adottati
dai Padri della Chiesa erano accettabili, a parere del patriarca di Costantinopoli, e gli
altri considerati come eretici. Questo nuovo studio di P. Ashwin-Siejkowski sarà
sicuramente di grande aiuto per tutti gli studiosi che si occupano di diversi argomenti
della dottrina clementina.

In questo paragrafo, che già è diventato abbastanza esteso, abbiamo menzionato


soltanto alcune più recenti pubblicazioni della vasta bibliografia concernente il pensiero
di ambedue gli alessandrini. Di sicuro si potrebbe accennare qui anche agli altri
eminenti studiosi di questo ambito che si sono impegnati ad approfondire e chiarire la
dottrina di Filone e di Clemente come, ad esempio, E. R. Goodenough, É. Bréhier,
J. Daniélou, W. Bousset, J. C. M. van Winden, R. P. Casey, H. Chadwick, W. Völker,
C. Mondésert, A. Méhat oppure R. Mortley. Le loro opere, però, in quanto abbastanza

allegorica di Filone e quella di Clemente. La teologia negativa, invece, della quale si occupa il Hägg, e la
dottrina di Dio di ambedue gli alessandrini hanno molti elementi comuni, anche quando l’Alessandrino
cristiano non cita esplicitamente l’Alessandrino ebreo.
57
Esso infatti potrebbe dare tante risposte alle domande concernenti l’argomento della sua tesi
dottorale. Lo studioso però probabilmente non conosce le pubblicazioni di J. Whittaker e di A. Choufrine
concernenti questo argomento in quanto esse non vengono ne citate nel corso della sua tesi ne evidenziate
nella bibliografia finale.
24

antiche, sono già state commentate o criticate dagli altri studiosi contemporanei: anche
quelli che abbiamo menzionato sopra. Nonostante ciò il lettore troverà i riferimenti alle
loro pubblicazioni, e ugualmente a molti altri studi dei quali non abbiamo qui parlato, in
diversi luoghi della nostra tesi e anche nella bibliografia finale.
UNA BREVE STORIA DELLA TRASCENDENZA NELLA FILOSOFIA ANTICA1

1. Il concetto del nou/j e del lo,goj nei presocratici

I più antichi filosofi greci, ossia i filosofi della natura, non conoscono ancora la
nozione del trascendente e dell’intelligibile. Infatti, cercando la risposta alle domande:
Che cos’è ciò che risponde della bellezza, dell’armonia e dell’ordine presenti
nell’universo?; Da dove derivano e di che cosa sono costituiti tutti gli esseri?; Che cos’è
che fa nascere e perire tutte le cose?; Insomma quale è il principio (avrch,) di tutta la
realtà?, i filosofi di Mileto nella loro ricerca non si elevano oltre ciò che corporeo e
immanente al mondo. Per Talete è l’acqua2, per Anassimandro è l’a;peiron3 e per
Anassimene è l’aria4 ad essere avrch, dell’universo. Ad ogni modo, già nei presocratici
troviamo delle dottrine che tendono a mostrare che il primo principio, nonostante sia
ancora considerato come corporeo e immanente, è diverso da un semplice elemento
della natura (come l’acqua o l’aria) senza il quale non ci sia la vita sulla terra. Almeno
1
In questo breve capitolo introduttivo evidenziamo le più importanti idee filosofiche che
avevano preceduto la formulazione della dottrina dell’assoluta trascendenza divina contenuta negli scritti
degli autori giudei e cristiani dei primi secoli dopo Cristo. A questo proposito cerchiamo di evitare tutto
ciò che è erudizione, non soltanto per non allargare troppo questa parte che ha funzione propedeutica, ma
anche perché gli autori dei quali ci occupiamo più avanti, avevano dato una loro propria interpretazione ai
concetti dei presocratici, di Platone, di Aristotele o degli stoici. Tale interpretazione non sempre concorda
con quella che propongono vari studiosi moderni del pensiero antico.
2
Cfr. DK 11 A 12-13; A 23; B 3.
3
Cfr. DK 12 A 1; A 9-11; A 13-17; B 1. Nonostante la parola a;peiron significhi infinito e
illimitato (e perciò diventa poi il termine tecnico nel discorso intorno all’infinità), per Anassimandro
significa semplicemente una sostanza corporea, priva di qualsiasi determinazione. In realtà, a;peiron = ciò
che è privo di pe,raj, ossia limite o determinazione. Quindi, l’a;peiron di Anassimandro è la materia
qualitativamente e quantitativamente indeterminata. Nello stesso modo concepivano questo termine anche
gli antichi. Cfr. DK 12 A 14: “In realtà, l’infinito altro non è che la materia (to. ga.r a;peiron ouvde.n a;llo h'
u[lh evsti,n)”. Il filosofo di Mileto utilizza questo termine per indicare che l’avrch, non può essere ridotta a
un particolare elemento della materia come acqua, terra o aria. Infatti, se da questo sostrato corporeo
vengono in esistenza tutte le cose, esso non può essere determinato e finito, quindi deve essere qualcosa
che è a;peiron. Cfr. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. 1: Orfismo e presocratici
naturalisti, Milano 2008, p. 94.
4
Cfr. DK 13 A 1; A 4-10; A 22-23; B 1-2.
26

tale impressione si ricava dalla lettura dei frammenti, a volte oscuri e molto enigmatici,
del filosofo di Efeso, Eraclito:

1. L’Uno, l’unico sapiente (e]n to. sofo.n mou/non), non vuole e vuole essere
chiamato Zeus5.

2. Legge è anche ubbidire alla volontà dell’Uno (no,moj kai. boulh/i


pei,qesqai e`no,j)6.

3. Nessuno di tutti coloro di cui ho sentito discorsi giunge a riconoscere


che il sapiente (sofo,n) è ben distinto (kecwrisme,non) da tutte le altre
cose7.

In questi frammenti, il filosofo parla del principio, definito come “l’uno” e di


seguito “il sapiente”8, che da una parte ha qualcosa in comune con gli dèi dell’Olimpo,
ossia è divino o, anzi, è la divinità suprema, per questo “vuole essere chiamato Zeus”,
dall’altra parte è diverso dagli dèi, perché non è antropomorfo e probabilmente non è
l’oggetto di culto9, pertanto “non vuole essere chiamato Zeus”. In realtà, come leggiamo
nel secondo passo è una legge divina che da un lato è presente nel mondo 10 e nell’anima
dell’uomo11, dall’altro lato, come risulta dal terzo passo, è un principio intelligente che è
ben distinto o separato da tutte le altre cose (evsti ta,ntwn kecwrisme,non). Non si può
dire che l’avrch, della quale parla Eraclito trascende tutti gli esseri dell’universo, però,
sicuramente differisce da ciò che gli antichi, influenzati dalle immagini imposte dai miti
di Omero ed Esiodo12, pensavano alle cause originarie del mondo; ma anche dal modo
in cui i Milesi concepivano i primi principi. Infatti, il filosofo di Efeso attribuisce
all’avrch, la volontà (boulh,) e l’intelligenza (è sofo,n). Anzi, essa non solo è intelligente o

5
DK 22 B 32. Tutte le citazioni italiane dei frammenti dei presocratici provengono da: I
Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti
nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di G. Reale, Milano 2008. In caso della mia o di
un’altra traduzione, sarà segnalato nella nota. Il testo greco di riferimento, proviene da Die Fragmente der
Vorsokratiker, ed. H. Diels, W. Kranz, 3 vols., Berlin 19526. In ogni modo, lo stesso testo, con la stessa
numerazione, è stato incorporato nel volume pubblicato da G. Reale.
6
DK 22 B 33.
7
DK 22 B 108. In questo caso cambio la traduzione di G. Reale che traduce il termine sofo,n
come sapienza, mentre in altri casi come sapiente.
8
Osserviamo che l’aggettivo sofo,j è utilizzato da Eraclito al neutro singolare, dunque nei passi
citati sopra non si tratta di un uomo sapiente, ma di ciò che è sapiente o una cosa sapiente (to. sofo,n).
9
Cfr. G. S. Kirk, J. E. Raven, M. Schofield, The Presocratic Philosophers. A Critical History
with a Selection of Texts, Cambridge 1983, p. 203.
10
Cfr. DK 22 B 72.
11
Cfr. DK 22 B 45; B 115.
12
Cfr. DK 22 B 40; B 56-57; B 106, i frammenti contengono la critica di Omero e di Esiodo.
27

razionale, ma è la ragione stessa, perciò in altri frammenti viene chiamata con il termine
lo,goj:

Di questo Logos che è sempre (tou/ de. lo,gou tou/dV evo,toj avei,) gli
uomini sono incapaci di comprensione, né prima di aver sentito parlarne, né
dopo aver sentito parlarne la prima volta; e anche se tutte le cose avvengono
secondo questo Logos (ginome,nwn ga.r pa,ntwn kata. to.n lo,gon), essi si
mostrano inesperti, quando si cimentano in parole e in azioni, quali quelle che
io presento, distinguendo ciascuna cosa secondo la propria natura, e spiegando
come essa è. Ma gli altri uomini non sanno ciò che fanno da svegli, così come
dimenticano ciò che fanno dormendo13.

Il Logos, dunque, è sempre (avei,) presente nella natura, ma pur essendo


immanente ontologicamente, in un certo senso, è trascendente dal punto di vista
gnoseologico. Infatti, anche se “tutte le cose avvengono secondo questo Logos”, egli
stesso è difficilmente afferrabile da parte dell’intelletto umano. In ogni modo, essere
difficilmente afferrabile non significa essere inconoscibile in toto14. In realtà, in questo
passo Eraclito esprime la propria critica nei confronti della gente comune, ossia di
coloro che non pensano in modo filosofico. Costoro non riflettono sulla natura e finalità
delle cose – “non sanno ciò che fanno da svegli” – e perciò non sono in grado di
comprendere che cos’è, e di quale natura è, quel Logos del quale parla il filosofo15.
Invero, secondo Eraclito, molti “non sono in accordo con il Logos che governa tutte le
cose e con cui hanno costante rapporto”, pertanto “ciò che essi incontrano ogni giorno
risulta loro estraneo”16. Essere sapiente significa vivere in accordo con il Logos e
scorgere che tutto ciò che avviene nel mondo avviene per la volontà del Logos che in
ciascuno degli esseri dell’universo ha iscritto le proprie leggi e finalità17. Il sapiente,
dunque, è colui che sa che il Logos è comune per tutti:

Perciò bisogna seguire ciò che è uguale per tutti, ossia che è comune.
Infatti, ciò che è uguale per tutti coincide con ciò che è comune. Ma anche se il

13
DK 22 B 1.
14
Cfr. DK 22 B 116: “A tutti gli uomini è data la possibilità di conoscere se stessi ed essere
saggi”.
15
Cfr. DK 22 B 41: “Esiste una sola sapienza: riconoscere l’intelligenza (gnw,mhn) che governa
tutte le cose attraverso tutte le cose”.
16
DK 22 B 72.
17
Cfr. anche DK 22 B 112: “L’essere sapienti è la virtù più grande: e la sapienza è dire il vero e
agire dando ascolto alla natura”.
28

Logos è uguale per tutti, la maggior parte degli uomini vive come se avesse un
proprio intendimento (fro,nhsin)18.

Da questo frammento risulta che l’uomo, essendo un essere razionale, in un


certo senso, può non ubbidire al Logos presente nella natura, infatti “la maggior parte
degli uomini vive come se avesse un proprio intendimento (fro,nhsij)”, però anche in
questo caso, come risulta dai frammenti B 1 e B 72, citati prima, tutto avviene secondo
uno e medesimo Logos comune per tutti. Eraclito, dunque, ammette un certo
determinismo iscritto nella natura delle cose dell’universo19. In realtà, tutto dipende dal
Logos – anche qualora gli uomini non vivano in accordo con questa divina e intelligente
legge della natura.

Abbiamo accennato che l’avrch, del quale parla Eraclito è inteso come una realtà
corporea. Infatti, secondo le testimonianze degli antichi il filosofo di Efeso avrebbe
dovuto identificare il Logos con il fuoco corporeo20. Ma questo fuoco è veramente uno
dei quattro elementi della materia o tale identificazione è semplicemente una metafora?
In realtà, in un altro frammento leggiamo:

[Eraclito] dice che il fuoco, in funzione del Logos e del Dio che
governa tutte le cose, passando attraverso l’aria si trasforma in umidità, la quale
è come il seme dell’ordinamento del mondo, che egli chiama mare; e dal mare,
a loro volta, si generano la terra, il cielo e le cose che ne sono contenute21.

L’espressione to. pu/r u`po. tou/ dioikou/ntoj lo,gou kai. qeou/ ta. su,mpanta […]
tre,ptai suggerisce che il Logos (e Dio) è distinto dal fuoco che, appunto per l’opera
(u`po,) del Logos, subisce i mutamenti. Inoltre, nel frammento B 108, citato prima,
Eraclito afferma chiaramente che il principio intelligente evsti ta,ntwn kecwrisme,non,
ossia è separato (o distinto) da tutte le cose22. Da questi due frammenti risulta che il

18
DK 22 B 2.
19
Cfr. anche DK 22 B 114: “Quando uno vuole parlare con intelligenza deve farsi forte
basandoci su ciò che è comune a tutti come la città sulla legge, e in modo anche più forte. Infatti tutte le
leggi umane si nutrono della sola legge divina, perché la legge divina domina nella misura in cui vuole,
basta per tutte le cose e ha prevalenza su di esse”.
20
DK 22 A 5; A 8; B 16; B 64-67; B 90.
21
DK 22 B 31 = Clem., Strom. V 104,4: duna,mei ga.r le,gei o[ti to. pu/r u`po. tou/ dioikou/ntoj
lo,gou kai. qeou/ ta. su,mpanta diV ave,roj tre,ptai eivj u`gro.n to. w`j spe,rma th/j diakosmh,sewj( o] kalei/
qa,lassan( evk de. tou,tou au=qij gi,etai gj/ kai. ouvrano.j kai. ta. evmperieco,mena.
22
Cfr. anche DK 22 B 16 = Clem., Paed. II 99,5: “Qualcuno potrà forse nascondersi alla luce
sensibile (to. aivsqhto.n fw/j), ma alla luce intelligibile (to. de. nohto.n) è impossibile nascondersi, o, come
dice Eraclito: a ciò che non tramonta mai, come si potrebbe nascondere?”. L’aggettivo nohto,j è
ovviamente il termine di Clemente che di seguito riporta la frase di Eraclito. Comunque, il contesto in cui
appare l’affermazione eraclitea suggerisce che anche il filosofo di Efeso parlava metaforicamente di una
29

Logos, anche se in modo immanente, cioè dall’interno, governa tutte le cose, non si
identifica con il fuoco che si trasforma in altri elementi. In realtà, egli è la causa che fa
che questo sostrato archetipo dell’universo cominci a trasformarsi in aria, acqua, terra e
in cielo.

Non abbiamo, comunque, prove sufficienti per contestare ciò che ci hanno
tramandato gli altri filosofi antichi: quelli che avevano identificato il Logos con il fuoco
corporeo23. Possiamo, però, concludere dicendo che il Logos, per le caratteristiche a lui
attribuite dal filosofo di Efeso, differisce dalle avrcai, dei filosofi milesi. Nonostante sia
di natura corporea24, è una forza intelligente che governa tutto secondo la propria
volontà. Inoltre, è presente, e in un certo senso “parla”, nell’anima dell’uomo25. Questi,
a sua volta, anche se difficilmente, è in grado di riconoscere la volontà del Logos e di
vivere in accordo con lui26.

Il primo filosofo che in maniera molto chiara aveva distinto il principio del
movimento e della trasformazione dai quattro elementi della materia era stato
Empedocle27. In realtà, egli aveva introdotto l’ “Amore” (fili,a) e la “Discordia”
(nei/koj)28, intese come forze cosmiche e come divinità che uniscono o separano i
quattro elementi (fuoco, acqua, aria e terra) dai quali è costituito l’universo intero29.
Queste forze, però, sono ancora immanenti al mondo e non vengono concepite dal
filosofo come realtà intelligibili30. Non fanno parte del sostrato primordiale
dell’universo, comunque sono di natura corporea.

Troviamo una simile distinzione anche in Anassagora. La sua dottrina è molto


importante per l’argomento del nostro studio, perché questi non parla più di due forze

luce alla quale nessuno si può nascondere, di una luce divina che non tramonta mai. Tale luce differisce
dalla luce corporea del sole.
23
Si tratta di Aristotele, Aezio e Sesto Empirico, le opinioni dei quali sono contenute nei
frammenti di H. Diels e W. Kranz elencati sopra. Comunque, anche le loro affermazioni riguardo a questo
argomento non sono del tutto chiare.
24
Può darsi – come suggeriscono alcuni studiosi – che il Logos eracliteo si identifichi con
l’etere. Cfr. G. S. Kirk, The Presocratic Philosophers…, pp. 198-199. Cfr. anche DK 22 A 8.
25
Cfr. DK 22 B 50: “Non dando ascolto a me, ma al Logos (ouvk evmou/( avlla. tou/ lo,gou
avkou,santaj), è saggio ammettere che tutto è uno”.
26
Sull’argomento del Logos in Eraclito cfr. D. Mrugalski, Logos. Filozoficzne i teologiczne
źródła idei wczesnochrześcijańskiej (it: Logos. Le fonti filosofiche e teologiche di un’idea del
cristianesimo primitivo), Kraków 2006, pp. 32 sgg., dove riporto diverse interpretazioni dei frammenti
eraclitei fatte dagli studiosi moderni.
27
E. Zeller, R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, parte I, vol. V:
Empedocle, Atomisti, Anassagora, Firenze 1969, p. 38.
28
Cfr. DK 31 B 16; B 18 e altri.
29
Cfr. DK 31 B 17; B 21; B 22 e altri.
30
Così suggeriscono E. Zeller, R. Mondolfo, La filosofia dei Greci…, parte I, vol. V, 38 sgg.; G.
Reale, Storia…,vol. 1, p. 217.
30

chiamate con i nomi provenienti dalla mitologia greca31, ma di una sola causa attiva,
definita come l’Intelletto (nou/j) dell’universo:

Tutte le altre cose hanno parte di tutto, il Nous invece è infinito,


indipendente (auvtokrate,j), e non mescolato ad alcuna cosa (me,meiktai ouvdeni.
crh,mati), ma è solo, lui in se stesso. Infatti, se non fosse in sé, ma fosse
mescolato ad altro, parteciperebbe di tutte le cose, anche se mescolato a una
qualunque. In tutto infatti si trova parte di tutto, come ho detto prima, e le cose
mescolate lo ostacolerebbero, sicché non avrebbe potere su nessuna cosa, come
invece ha essendo solo in sé. È infatti il più sottile (lepto,tato,n) di tutte le cose e
il più puro (kaqarw,taton) ha perfetta conoscenza di tutto e grandissima forza; e
quante cose hanno vita, più grandi o più piccole, tutte domina il Nous. E il Nous
dette impulso alla rotazione di tutto quanto, così che avesse inizio il moto
rotatorio. E la rotazione iniziò dapprima dal piccolo, svolgendosi poi verso il
grande, e si svolgerà ancora di più. E il Nous riconobbe tutte le cose che si
formavano per mescolanza, e quelle che si formavano per separazione e quelle
che si dividevano, e quelle che stavano per essere, e quelle che erano e ora non
sono, e quante sono ora e quali saranno, il Nous le dispose tutte […]. Nessuna
cosa si separa del tutto, né alcuna cosa si divide dall’altra tranne il Nous32.

Con la dottrina di Anassagora la filosofia antica si avvicina alla scoperta della


trascendenza vera e propria, ossia quella che caratterizzerà il principio intelligibile che
sussiste al di là dell’essere. Infatti, il Nous del quale parla il filosofo di Clazomene, è
ben distinto dagli elementi corporei da cui è costituito l’universo intero. Anzi, nel
frammento appena citato troviamo persino gli argomenti che tendono a mostrare che la
natura del primo principio per forza deve essere diversa da quella che è propria di tutte
le altre sostanze del mondo. Così, dunque – ragiona il filosofo – se il Nous non fosse in
sé, ma fosse mescolato ad altre cose, non avrebbe potere su di esse. E dato che gli
elementi fisici sono immobili di per sé33, non ci sarebbe movimento nel mondo, se la
causa del movimento fosse della medesima natura che il sostrato corporeo dell’universo.
Quindi, la natura del Nous differisce dalla natura di ciò che viene mosso da lui. La
trascendenza del primo principio viene sottolineata anche dal fatto che esso ha perfetta
conoscenza di tutto e grandissima forza. Conosce dunque e scruta tutte le cose: “quelle
che erano e ora non sono, e quante sono ora e quali saranno” – quindi è onnisciente. È

31
Cfr., ad esempio, DK 31 B 22; B 27.
32
DK 59 B 12.
33
Cfr. DK 59 A 45; A 48; A 64.
31

così, perché egli stesso dispose e ordinò tutto e continuamente domina, governa e regge
l’universo intero34. Infatti, come risulta da altri frammenti, il Nous è presente nel mondo
e pervade tutta la realtà35, ciò nonostante non si mescola con nessuna delle cose, ma
rimane sempre in se stesso, immobile e impassibile36. Data la particolare natura del
Nous, esso rimane trascendente anche dal punto di vista gnoseologico: “una mente pura
e semplice, disgiunta da ogni cosa, con cui si possa aver sensazione, sembra che sfugga
alla capacità razionale della nostra intelligenza”37.

Ma da tutte queste constatazioni risulta che Anassagora abbia già scoperto la


nozione dell’intelligibile e incorporeo? Tenendo presente tutte le caratteristiche del
Nous contenute nel frammento B 12, sopracitato, E. Zeller afferma: “Non v’è dubbio
che Anassagora pensi veramente ad un essere incorporeo; ché solo da questa concezione
può risultare la tanto sottolineata superiorità dello spirito38, il suo essere per sé, la sua
immescolatezza, la sua assoluta omogeneità, la sua potenza e la sua sapienza”39. È vero
che nella descrizione del filosofo di Clazomene il Nous acquisisce gli attributi peculiari:
è diverso da tutte le altre cose dell’universo e unico nel suo genere. A differenza degli
esseri corporei, egli è semplice: infatti non è composto di una combinazione di diversi
elementi della materia e nemmeno da uno solo di essi40. Inoltre, è definito come il più
sottile (lepto,tato,n) di tutte le cose e il più puro (kaqarw,taton). Ma essere diverso dal
sostrato materiale dell’universo, non necessariamente significa essere incorporeo41. Può
darsi che il filosofo pensi a una sostanza corporea, però, molto sottile (anzi la più sottile
di tutte le altre) che non si mescola con gli elementi della materia dai quali sono
costituiti tutti gli esseri corporei.

34
Oltre il passo B 12, citato sopra, cfr. anche DK 59 A 41-42; A 45-48.
35
Cfr. DK 59 A 48; A 55; A 100; B 11; B 14.
36
Cfr. DK 59 A 56: “Anassagora dice bene, affermando che il Nous è impassibile (le,gei to.n
nou/n avpaqh/) e privo di mescolanza, dato che lo pone come principio del movimento. Infatti, potrebbe
muovere solo se non fosse mosso (avki,nhtoj w'n), e avere potere solo essendo privo di mescolanza”. Cfr.
anche DK 59 A 100.
37
DK 59 A 48. Cfr. anche DK 59 A 66: “Anassagora, Democrito e gli Stoici pensano a una
causa nascosta al raziocinio umano”.
38
La parola “spirito” – in tedesco Geist – viene utilizzata nella traduzione dello Zeller come
l’equivalente del termine greco nou/j.
39
E. Zeller, R. Mondolfo, La filosofia dei Greci…, parte I, vol. V, pp. 378-379.
40
Cfr. anche DK 59 A 55.
41
Perciò con l’interpretazione dello Zeler non concordano altri studiosi. Cfr. G. S. Kirk, The
Presocratic Philosophers…, p. 364; G. Reale, Storia…,vol. 1, pp. 233-234. Ma bisogna accennare che
persino lo Zeller stesso non è costante nella sua interpretazione, perché in un altro luogo della sua opera
parla del “semimaterialismo” di Anassagora e di seguito, polemizzando con gli studiosi che considerano il
Nous del filoso presocratico come corporeo, afferma: “Anassagora certo non ha teorizzato in forma chiara
e netta l’immaterialità del Nous, ma in ogni caso egli intende distinguerlo nella sua essenza da tutto ciò
che è composto”. E. Zeller, R. Mondolfo, La filosofia dei Greci…, parte I, vol. V, nota 55, p. 379.
32

In realtà, nei frammenti di Anassagora, che non sono pochi, non troviamo ancora
la nozione dell’intelligibile, per poter concludere, insieme allo Zeller, che il Nous del
quale parla il filosofo presocratico “senza dubbio” è incorporeo. In ogni modo,
l’originalità di questa dottrina era stata notata già dagli antichi. Clemente di Alessandria,
ad esempio, afferma che “Anassagora fu il primo a porre il Nous al di sopra delle
cose”42. Una simile affermazione troviamo anche in Diogene Laerzio: “[Anassagora]
per primo pose un Nous al di sopra della materia”43. Platone, invece, descrivendo nel
suo Fedone le impressioni che la lettura dei libri del filosofo di Clazomene aveva
provocato in lui - anche se non concorda con tante delle sue affermazioni - non accusa
Anassagora di aver concepito il primo principio come corporeo, anzi apprezza
l’originalità della nozione del Nous incomposto e puro che ordina e causa tutte le cose44.
Può darsi, anzi, che appunto questo concetto di Anassagora era per il filosofo ateniese
un’ispirazione nell’elaborazione della sua dottrina dei principi dell’universo45.

42
Cfr. Clem., Strom. II 14,2 = DK 59 A 57: VAnaxago,raj prw/toj evpe,sthse to.n nou/n toi/j
pra,gmasin.
43
Diog. Laert., Vitae phil. II, 6 = DK 59 A 1: [VAnaxago,raj] prw/toj th/i u[lhi nou/n evpe,sthsen.
Cfr. anche Simpl. Phys. 27,2 = DK 59 A 41: “Anassagora, figlio di Egesibulo, di Clazomene, avendo
seguito il pensiero di Anassimene, per primo trasformò le dottrine sui principi, completò la dottrina
aggiungendovi la nozione di causa che mancava, e considerò i principi materiali come infiniti”.
44
Cfr. Plat., Phaed. 97 B sgg. = DK 59 A 47: “Un giorno udii un tale leggere un libro che
dichiarava esser di Anassagora, il quale diceva che è il Nous che ordina e che causa tutte le cose. Io mi
rallegrai di questa causa e mi parve che, in certo senso, andasse bene porre il Nous come causa di tutto, e
dentro di me pensai che se questo fosse stato vero, il Nous che ordina avrebbe dovuto ordinare tutte
quante le cose e sistemare ciascuna di esse in quella maniera che per esse è la migliore possibile […]. E
ragionando così, tutto contento, credevo di aver trovato in Anassagora il maestro che mi avrebbe
insegnato la causa delle cose che sono, proprio secondo quello che era la mia intenzione […]. Presi
dunque i suoi libri con la massima rapidità, e li lessi prima possibile, per poter conoscere prima possibile
il meglio e il peggio”.
Ciò per cui Socrate (attraverso il quale parla Platone) è rimasto deluso dopo aver letto i libri di
Anassagora, non erano le caratteristiche che il filosofo di Clazomene attribuiva al Nous, ma il fatto che la
sua dottrina non spiegava l’ordine e la bellezza presenti nel mondo e la finalità di tutte le cose, ossia “ciò
che è il meglio per ciascuna di esse e ciò che è il meglio che è comune a tutte”. Plat., Phaed. 98 B.
Secondo Platone, dunque, Anassagora non chiarisce il criterio “del meglio” in funzione del quale opera il
Nous. Infatti, il filosofo presocratico collega il Nous con gli elementi fisici, che vengono mossi da lui, ma
non con le idee, che spiegano il perché gli elementi si uniscono nelle strutture determinate (belle e buone).
Nonostante ciò Platone si rifà alla dottrina di Anassagora anche in altri luoghi delle sue opere. Cfr., ad
esempio, Plat., Crat. 413 C = DK 59 A 55: “Ciò che Anassagora chiama il giusto è il Nous; egli dice,
infatti, che esso è l’arbitro supremo che, del tutto incomposto, dà ordine alla realtà, pervadendola tutta”.
45
A proposito di questo argomento S. Lilla afferma: “Si deve ad Anassagora la prima
elaborazione della dottrina del Nous metafisico, dalla quale il pensiero greco successivo non potrà
prescindere”. Id., voce: Nous, in NDPAC, p. 3540. Di seguito, lo studioso elenca i passi di Platone, nei
quali il filosofo si rifà alla dottrina del Nous, citando, o meno, le affermazioni di Anassagora.
33

2. Platone e Aristotele. La scoperta della trascendenza

Era stato Platone a elaborare per la prima volta nella storia della filosofia antica
la dottrina della trascendenza vera e propria. Per il filosofo ateniese trascendenti sono
soprattutto le idee, in quanto incorporee, immobili, immutabili, eterne e sussistenti di
per sé46. Esse vengono concepite come il modello intelligibile del mondo visibile il
quale, a sua volta, è la loro immagine corporea e mutabile47. Secondo Platone le idee
sono la causa vera, diversa da quelle di cui parlavano i filosofi fisici, perché spiegano il
fatto della presenza nel mondo, e in ciascuna delle cose, della bellezza e dell’ordine:

Mi accingo a mostrarti quale sia quella forma di causa su cui mi sono a


fondo impegnato e, perciò, torno nuovamente su quelle cose di cui molte volte
si è parlato, e da esse incomincio, partendo dal postulato che esista un bello in
sé e per sé (kalo.n auvto. kaqV au`to,), un buono in sé e per sé, un grande in sé e
per sé, e così via. Ora, se tu mi concedi e convieni che esistano veramente
queste realtà, spero, partendo da queste, di mostrarti quale sia quella causa […].

A me sembra che, se c’è qualcos’altro che sia bello oltre al bello in sé,
per nessun’altra ragione sia bello, se non perché partecipa (mete,cei) di questo
bello in sé. E così dico di tutte le altre cose […].

Nessun’altra ragione fa essere quella cosa bella, se non la presenza o la


comunanza di quel bello in sé, o quale altro sia il modo in cui ha luogo questo
rapporto. Su tale rapporto io non voglio ora insistere; ma insisto semplicemente
nell’affermare che tutte le cose belle sono belle per il bello (tw|/ kalw|/ pa,nta ta.
kala. Égi,gnetaiË kala,)48.

Con queste affermazioni Platone introduce nella filosofia greca un nuovo


metodo di filosofare, diverso da quello adoperato dai filosofi della natura49. Infatti, parla

46
Sulle caratteristiche delle idee cfr. Plat., Phaed. 65 C – 66 A; 75 C – D; 78 D – 79 A; Symp.
210 E – 211 B; Phaedr. 247 C – E; Resp. 485 A – B; Crat. 385 E – 386 E; 439 B – 440 A; Polit. 286 A.
47
Cfr., ad esempio, Plat., Tim. 39 E.
48
Plat., Phaed. 100 B-D. Tutte le citazioni italiane delle opere di Platone provengono da:
Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano 2008. In caso della mia o di un’altra traduzione, sarà
segnalato nella nota. L’edizione critica di riferimento è quella di J. Burnet, Platonis Opera, 5 vols., Oxoni
1900-1907.
49
Su questo nuovo tipo di ricerca cfr., classico ormai saggio di G. Reale, Per una nuova
interpretazione di Platone, Milano 2010, pp. 137 sgg.
34

di due livelli della realtà: quello visibile (aivsqhto,j) e quello intelligibile (nohto,j)50. Il
primo partecipa (mete,cei) del secondo. In questa maniera il filosofo cerca di risolvere
l’antica questione del perché nel mondo corporeo siano presenti la bellezza, la bontà,
ma anche la giustizia, l’armonia, l’ordine, la grandezza e così via. La causa di
Anassagora (anche qualora fosse considerata come incorporea) non spiegava tale
questione. Infatti, il Nous dava soltanto un impulso per il movimento degli elementi
fisici e rispondeva della loro unione o separazione, ossia della nascita o della morte di
tutte le cose dell’universo. In ogni caso, non esisteva al di là di lui (o in lui) una regola
in virtù della quale tutte quelle realtà astratte, delle quali parla Platone, avessero ragion
d’essere nel mondo. Secondo il filosofo ateniese la bellezza, la bontà, la giustizia e tutte
le cose del genere, in primo luogo, sussistono in sé e per sé nel mondo intelligibile; in
secondo luogo, esse sono presenti anche nel mondo corporeo in virtù della
partecipazione di tutti gli esseri alle idee che rimangono sempre trascendenti rispetto
alle realtà visibili51. In questo modo, la risposta alla domanda antica concernente la
bellezza del mondo visibile è seguente: tw|/ kalw|/ pa,nta ta. kala. gi,gnetai kala,.

Tuttavia, in Platone, come abbiamo già accennato prima, troviamo anche le


reminiscenze della dottrina del Nous di Anassagora. In effetti, il Demiurgo del mito
raccontato nel Timeo, cioè la causa efficiente dell’universo, viene identificato appunto
con il Nous che ordina e governa tutte le cose52. Creando il mondo, però, il Demiurgo-
Nous non dà soltanto un impulso per il movimento degli elementi fisici, ma imprime
nella materia preesistente le forme che contempla nel mondo delle idee 53. Anch’egli,
dunque, è trascendente: infatti, è di natura intelligibile e non si mescola con la materia
del mondo. In un certo senso, è trascendente anche dal punto di vista gnoseologico, in
quanto Platone afferma: “Il Fattore e il Padre di questo universo è molto difficile
trovarlo e, trovatolo, è impossibile parlarne a tutti”54.

50
Cfr. Plat., Phaed. 80 B – C; 83 B, dove ricorrono gli aggettivi aivsqhto,j (ma anche o`rato,j) e
nohto,j, e dove esplicitamente il mondo sensibile e visibile viene contrapposto al quello intelligibile.
51
Notiamo che Platone situa le idee in un luogo detto iperuranio. Cfr. Plat. Phaedr. 247 C – E.
«Iperuranio» – come spiega G. Reale – “significa «luogo sopra il cielo», e quindi è una immagine che, se
correttamente intesa in ciò che vuol esprimere, indica un luogo che non è affatto un luogo in senso fisico,
bensì un luogo meta-fisico, vale a dire la dimensione del soprasensibile”. G. Reale, Per una nuova
interpretazione…, p. 196. Questo luogo nella Repubblica è detto luogo intelligibile (nohto.j to,poj). Cfr.
Plat. Resp. 509 D.
52
Cfr. Plat., Phileb. 30 C: “Nell’universo c’è molto illimitato e sufficiente limite, e, a capo di
essi, una causa non da poco, la quale ordinando e organizzando gli anni e le stagioni e i mesi, a piena
ragione può essere detta sapienza e intelligenza (sofi,a kai. nou/j)”.
53
Cfr. Plat., Tim. 29 A; 39 E.
54
Plat., Tim. 28 C.
35

Al di là di tutta la realtà: quella visibile e quella intelligibile, Platone pone


ancora l’idea del Bene, che nella celebre metafora della Repubblica viene paragonata al
sole:

Ciò che è il Bene nel mondo intelligibile rispetto all’intelletto e agli


intelligibili, così è il sole nel visibile rispetto alla vista e ai visibili […].

Questo, pertanto, che fornisce la verità alle cose conosciute e al


conoscente la facoltà di conoscerle, devi dire che è l’Idea del Bene. Ed essendo
essa causa di conoscenza e di verità, ritienila conoscibile (aivti,an dV evpisth,mhj
ou=san kai. avlhqei,aj( w`j gignwskome,nhj me.n dianoou/) […].

Il sole non soltanto dirai – io credo – che fornisce ai visibili la capacità


di essere veduti, ma anche la generazione e la crescita e il nutrimento, pur non
essendo esso generazione […]. E così anche ai conoscibili dirai che proviene
dal Bene non solo l’essere conosciuti, ma anche l’essere e l’essenza provengono
loro da questo, pur non essendo il Bene essere, ma ancora al di sopra
dell’essere, essendo superiore in dignità e in potere (ouvk ouvsi,aj o;ntoj tou/
avgaqou/( avllV e;ti evpe,keina th/j ouvsi,aj presbei,a| kai. duna,mei u`pere,contoj)55.

Notiamo che Platone estrae dalla metafora del sole le conclusioni valide sia per
la sua epistemologia sia per l’ontologia. Così, dunque, come il sole illuminando le realtà
corporee le rende visibili alla vista dell’uomo, così l’idea del Bene rende conoscibili le
realtà intelligibili. Anch’essa, dunque, come dichiara il filosofo, è conoscibile. E come il
sole, pur rimanendo sempre al di là della terra influisce su tutto ciò che avviene nel
mondo corporeo, ossia fa crescere e nutre tutti gli esseri, così l’idea del Bene è la causa
dell’essere di tutte le realtà, pur non essendo essa stessa un essere, ma al di là dell’essere
(evpe,keina th/j ouvsi,aj). A questo proposito, bisogna sottolineare che per Platone il vero
essere, come abbiamo già accennato, sono le idee. Esse, anche se sono molteplici, hanno
qualcosa in comune, cioè l’essere e la bontà. Questo essere e bontà devono derivare da
qualcosa che non e semplicemente un essere, ma qualcosa “superiore in dignità e
potenza” (presbei,a| kai. duna,mei u`pere,contoj). Perciò l’idea del Bene si colloca al di
sopra dell’essere. Essa, dunque, trascende non solo il mondo corporeo, ma anche quello
intelligibile. In effetti, è la fonte suprema dell’essere di tutto ciò che esiste56.

55
Plat., Resp. 508 B – 509 B.
56
Cfr. H. J. Krämer, EPEKEINA THS OUSIAS. Zu Platon, Politeia 509 B, AGPh, 51 (1969),
pp. 1-30; G. Reale, Per una nuova interpretazione…, pp. 342 sgg.
36

A questo punto occorre segnalare che alcuni studiosi moderni identificano l’idea
del Bene con il Demiurgo del Timeo, detto anche “la migliore delle cause” (o` a;ristoj
tw/n aivti,wn)57 e “il migliore degli esseri intelligibili” (tw/n nohtw/n avei, te o;ntwn u`po.
tou/ avri,stou)58,59. Altri studiosi, invece, si oppongono nettamente a tale identificazione
e, a questo proposito, evidenziano diverse aporie che provocano una siffatta
interpretazione del pensiero platonico60. Sottolineiamo, però, che Platone stesso non
identifica expressis verbis il Demiurgo con le idee, perciò la prima interpretazione
rimane soltanto un’ipotesi. Inoltre, H. Krämer, il professore della scuola di Tubinga,
nella quale è nata l’idea di tale identificazione, nella sua recensione del libro di G. Reale
su Platone, dà ragione agli argomenti dello studioso italiano che distingue nettamente il
Demiurgo dall’idea del Bene e dalle altre idee. Infatti, secondo lui il Reale “connette in
maniera convincente con il quadro metafisico d’insieme di Platone l’Intelligenza
demiurgica, che nell’ambito degli studi platonici nell’area linguistica culturale tedesca e
inglese, a torto è stata deprezzata”. Di seguito, lo studioso tedesco aggiunge che

57
Plat., Tim. 29 A.
58
Plat., Tim. 37 A.
59
Cfr. G. Müller, Studien zu den platonischen Nomoi, München 1951, pp. 81-82. Con il Müller
concorda S. Lilla, Clement of Alexandria. A Study in Christian Platonism and Gnosticism, Oxford 1971,
nota 3, p. 115. Cfr. anche K. Gaiser, La dottrina non scritta di Platone. Studi sulla fondazione sistematica
e storica delle scienze nella scuola platonica, Milano 1994, pp. 181-210; S. Lavecchia, Pelago di fango o
divina icona?, in La sapienza di Timeo. Riflessioni al margine del «Timeo» di Platone, a cura di L. M.
Napolitano Valditara, Milano 2007, pp. 209-212. Interessante, a questo proposito, è l’osservazione di K.
Gaiser, nell’opera sopracitata. Infatti lo studioso, basandosi sul fatto che il mondo intelligibile è detto
«vivente noetico» (cfr. Tim. 30 C), identifica il Demiurgo con l’aspetto dinamico delle idee, però
afferma: “Allora è chiaro che egli [cioè il Demiurgo], da una parte, agisce come «Idea del Bene», ma è
tuttavia subordinato a essa, e che, d’altra parte è sovraordinato all’anima cosmica che egli originariamente
compone. Il duplice aspetto di norma determinante (paradeigma) e di potenza attiva è originariamente
collocato nel primo Principio stesso”. Ibid., p. 202.
60
Cfr. A. E. Taylor, Platone, Firenze 1968, pp. 683 sgg., che afferma: “Occorre tenere distinti in
Platone Dio e le Idee, per il motivo che l’attività di Dio, come produttore di un mondo simile alle Idee, è
la sola spiegazione che Platone offra del modo in cui si effettua la partecipazione della realtà alle idee. Se
Dio andasse identificato colle Idee, o con una Idea suprema, rimarrebbe misterioso il perché debba esserci
qualcosa al di fuori delle Idee, il perché ci debba essere un divenire”. G. Reale nella sua opera su Platone
elenca altri argomenti per i quali il Demiurgo non può essere identificato con l’idea del Bene. Uno di essi
è il fatto che “il Dio per i Greci ha al di sopra di sé, dal punto di vista gerarchico, una regola o alcune
regole supreme, cui deve riferirsi ed attenersi. E proprio in questo senso, anche il Dio platonico, che è la
suprema Intelligenza, ha al di sopra di sé gerarchicamente una regola o delle regole, cui deve attenersi e
cui deve ispirarsi nella sua attività […]. Il Bene, sulla base delle «Dottrine non scritte» e di ciò che di esse
trapela nei dialoghi, come ben sappiamo, è l’Uno e la Misura suprema. Dunque, Dio è Buono per
eccellenza, appunto perché opera in funzione dell’Uno e della suprema Misura, attuandoli perfettamente,
per quanto risulti possibile”. G. Reale, Per una nuova interpretazione…, pp. 697-698. Cfr. anche J.
Halfwassen, Der Demiurg: seine Stellung in der Philosophie Platons und seine Deutung im antiken
Platonismus, in Le «Time» de Platon. Contributions à l’histoire de sa réception, a cura di A. Neschke
Hentschke, Louvain – Paris 2000, pp. 39-62, che altresì esclude l’identificazione del Demiurgo con l’idea
del Bene.
37

nell’opera di Reale “la concezione del Demiurgo nell’ambito del nuovo paradigma
guadagna il posto legittimo che le compete e privo di contraddizioni”61.

In Aristotele troviamo anche la nozione della trascendenza e dell’intelligibile. In


realtà, nonostante l’allievo di Platone critichi pesantemente la dottrina dei principi
trascendenti del suo maestro62, pone al vertice del suo sistema metafisico il Nous. Esso,
essendo il Principio del movimento dell’universo, secondo gli assiomi della metafisica
dello Stagirita, deve essere necessariamente di natura intelligibile. In effetti – ragiona il
filosofo – se ci fosse in lui qualche materialità (e la materialità si collega alla
potenzialità), potrebbe anche non esservi il movimento nel mondo, ossia il Nous
potrebbe non muovere. Ma dato che, secondo un altro postulato del sistema, il
movimento è eterno63, il primo Principio che garantisce tale movimento deve essere non
solo eterno, ma anche scevro di qualsiasi potenzialità; e di conseguenza anche di
qualsiasi materialità64. Viene, dunque, concepito come l’atto puro, il primo Motore
immobile, il Nous divino che pensa solamente se medesimo:

Per quanto concerne il Nous, sorgono alcune difficoltà. Esso pare,


infatti, la più divina delle cose che, come tali, a noi si manifestano; ma, il
comprendere quale sia la sua condizione per essere tale, presenta alcune
difficoltà. Infatti, se non pensasse nulla, non potrebbe essere cosa divina, ma si
troverebbe nella stessa condizione di chi dorme. E se pensa, ma questo suo
pensare dipende da qualcosa di superiore a lui, ciò che costituisce la sua
sostanza non sarà l’atto del pensare ma la potenza, e non potrà essere la
sostanza più eccellente: dal pensare deriva, infatti, il suo pregio […].

In primo luogo, dunque, se non è pensiero in atto ma in potenza,


logicamente la continuità del pensare, per esso, costituirebbe una fatica. Inoltre,
è evidente che qualcos’altro sarebbe più degno di onore che non il Nous: ossia
l’intelligibile. Infatti, la capacità di pensare e l’attività di pensiero appartengono
anche a colui che pensa la cosa indegna: sicché, se questa è, invece, cosa da
evitare (è meglio, infatti, non vedere certe cose, che vederle), ciò che c’è di più

61
H. Krämer, L’interpretazione di Platone della Scuola di Tubinga e della Scuola di Milano. A
proposito della decima edizione del libro di Giovanni Reale su Platone, in G. Reale, Per una nuova
interpretazione…, Appendice II, p. 744. L’articolo è stato pubblicato prima in Rivista di Filosofia Neo-
scolastica 84 (1992), pp. 203-218.
62
Sulla critica della dottrina di Platone da parte di Aristotele cfr., ad esempio, Aristot., Metaph.
987 A 30 sgg.; 990 B 1 sgg. e altri.
63
Cfr. Aristot., Metaph. 1071 B 6-9. Cfr. anche Phys. 250 B sgg., dove l’argomento dell’eternità
del tempo e del movimento (accennato soltanto nella Metafisica) viene più largamente sviluppato.
64
Sul ragionamento sopra esposto cfr. Aristot., Metaph. 1071 B 5 sgg.
38

eccellente non può essere il pensiero. Se, dunque, il Nous divino è ciò che c’è di
più eccellente, pensa se stesso e il suo pensiero è pensiero di pensiero (kai.
e;stin h` no,hsij noh,sewj no,hsij)65.

Nella prima parte del passo appena citato lo Stagirita espone le condizioni, senza
le quali il Nous non potrebbe essere considerato come divino e come il primo Principio
del movimento. Infatti, se esso non pensasse, non sarebbe una cosa divina, in quanto è
assurdo che un dio non pensi; non potrebbe essere neanche il primo Motore
dell’universo, in quanto appunto la contemplazione, essendo la cosa più eccellente che
ci sia66, è in grado di attrarre e mettere in movimento tutte le altre cose. Inoltre, egli non
solo deve pensare, ma il suo pensiero deve dipendere da lui stesso, e non da
qualcos’altro, “come, per esempio, l’intelletto passivo umano dipende da quello
attivo”67. Altrimenti sarebbe al di là di lui un altro Principio più eccellente; ma come è
stato dimostrato prima, egli è il Principio primo.

Dalla seconda parte del passo risulta che il Nous non può pensare nient’altro che
il proprio pensiero. Infatti, dato che al di fuori di lui non esiste un oggetto più (o
ugualmente) eccellente, se pensasse altro, dovrebbe pensare qualcosa che è imperfetto.
Ma ciò provocherebbe in lui un cambiamento, anzi il cambiamento verso il peggio. Il
Nous, dunque, in quanto il più perfetto degli esseri, per rimanere tale, deve pensare
solamente se medesimo. Quindi è definito dallo Stagirita come il puro pensiero, ossia il
pensiero che pensa il proprio pensiero (e;stin h` no,hsij noh,sewj no,hsij)68.

A questo proposito occorre notare che il primo Principio di Aristotele, per i


motivi sopra esposti, non sa niente dell’universo. “È meglio, infatti – afferma il filosofo
– non vedere certe cose, che vederle”. E per il Nous è meglio non conoscere ciò che è
inferiore a lui, ossia ciò che è corporeo, mutabile e imperfetto. Ma se il primo Motore
immobile non ha niente in comune e non sa niente del mondo, in che modo può essere
la causa del suo movimento? Lo Stagirita spiega tale questione rivolgendosi al concetto
della causa finale:

65
Aristot., Metaph. 1074 B, 15-21; 29-35. Tutte le citazioni italiane della Metafisica provengono
da: G. Reale, Introduzione, traduzione e commentario della “Metafisica” di Aristotele. Milano 20092.
L’edizione critica di riferimento è quella di W. D. Ross, Aristotle’s Metaphysics. A Revised Text with
Introduction and Commentary, Oxford 19814. In ogni modo, lo stesso testo greco, e con la stessa
numerazione, è stato incorporato nel volume pubblicato da G. Reale.
66
Cfr. Aristot., Metaph. 1072 B 14-18.
67
G. Reale, Introduzione, traduzione e commentario della “Metafisica”…, nota 6, p. 1287.
68
Cfr. Ibid., nota 7, p. 1287.
39

Che, poi, il fine si trovi fra gli esseri immobili, lo dimostra la


distinzione <dei suoi significati>: fine significa: (a) qualcosa a vantaggio di cui
e (b) lo scopo stesso di qualcosa; nel secondo di questi significati il fine può
trovarsi fra gli esseri immobili, nel primo significato no. Dunque <il primo
motore> muove come ciò che è amato, mentre tutte le altre cose muovono
essendo mosse69.

Essendo la causa finale, il Nous muove l’universo come oggetto di amore e di


attrazione. Infatti, ciò che è amato non deve muoversi per muovere colui che ama. Anzi,
ciò che è amato non deve amare. Il mondo, dunque, e gli individui che in esso vivono
non sono né pensati, in quanto indegni del pensiero divino, né amati dal Dio
aristotelico; comunque vengono attratti da lui (cioè dalla sua perfetta e felice vita
contemplativa70) e così messi in moto. Egli, invece, rimane sempre scevro di qualsiasi
sentimento, affetto o mutamento71. Pertanto viene definito anche come impassibile e
inalterabile (avpaqe.j kai. avnalloi,wton)72.

Oltre il primo motore lo Stagirita ne introduce ancora altri cinquantacinque


attinenti alle sfere dei pianeti73. Il primo Motore muove direttamente solo la prima sfera,
ossia il cielo delle sfere fisse e indirettamente le altre sfere che secondo un concetto
dell’astronomia antica dovrebbero essere appunto cinquantacinque74. Anche gli altri
motori hanno le stesse caratteristiche proprie del Motore primo, ossia sono
soprasensibili, immobili ed eterni, però non sono ugualmente trascendenti in quanto
distribuiti in una gerarchia presso le sfere che muovono75. Purtroppo Aristotele ha
lasciato inspiegato il rapporto che c’è tra Dio e le altre sostanze intelligibili. È sicuro,
però, che né essi né qualsiasi altra realtà corporea o intelligibile (come l’anima umana)
sono stati creati dal Nous, in quanto la sua unica attività è quella di pensare il proprio
pensiero.

69
Aristot., Metaph. 1072 B 1-4.
70
Cfr. Aristot., Metaph. 1072 B 14-30.
71
Cfr. G. Reale, La metafisica di Aristotele nei suoi concetti-cardine nella sua struttura e nei
suoi rapporti con il pensiero di Platone, in Id., Introduzione, traduzione e commentario della
“Metafisica”…, pp. CXXII sgg.
72
Aristot., Metaph. 1073 A 11.
73
Cfr. Aristot., Metaph. 1073 A 14 sgg.
74
Questo numero Aristotele deduce sulla base del sistema astronomico di Eudosso. Cfr. Aristot.,
Metaph. 1073 B 17 sgg. Cfr. anche H. Krämer, La «Noesis Noeseos» nella «Metafisica» di Aristotele, in
Aristotele. Perché la metafisica. Studi su alcuni concetti-chiave della «filosofia prima» aristotelica e
sulla storia dei loro influssi, a cura di A. Bausola e G. Reale, Milano 1994, p. 174.
75
Cfr. G. Reale, La metafisica di Aristotele…, p. CXXI.
40

Aggiungiamo alla fine che il Nous dello Stagirita, pur essendo separato dal
mondo, è in qualche modo conoscibile. Infatti, può essere oggetto della scienza; e
precisamente: è la sostanza della quale si occupa la metafisica, ossia la scienza che ha
come oggetto le realtà divine, immobili e separati76.

3. Gli stoici. Il ritorno all’immanenza

Nelle scuole filosofiche dell’epoca ellenistica osserviamo il ritorno alla visione


materialistica e immanentistica della realtà e, allo stesso modo, anche la critica dei
grandi sistemi ontologici di Platone e di Aristotele. Questo fenomeno concerne non
soltanto la scuola del Portico, della quale ci occuperemo in questo paragrafo, ma anche,
un po’ anteriore ad essa, la scuola di Epicuro77. Nonostante il materialismo, criticato da
tanti Padri della Chiesa, lo stoicismo con la sua etica diventa una delle filosofie più
influente dell’epoca patristica. In effetti, essa non propone un nuovo sistema ontologico,
forte e inattaccabile78, ma vuole essere “un’arte del vivere, capace d’illuminare l’uomo
intorno al suo destino e di metterlo in grado di realizzarlo in ogni possibile
contingenza”79. Oltre l’etica i filosofi posteriori si rifanno spesso anche alla nozione del
logos: il concetto-chiave nella dottrina stoica. Per questi motivi nella nostra breve storia
della trascendenza non possiamo prescindere dalle idee più rilevanti della scuola del
Portico.

76
Cfr. Aristot., Metaph. 983 A 5-11: “Essa [cioè la sapienza metafisica], infatti, fra tutte [le
scienze], è la più divina e la più degna di onore. Ma una scienza può essere divina solo in questi due
sensi: (a) o perché essa è scienza che Dio possiede in grado supremo, (b) o, anche, perché essa ha come
oggetto le cose divine. Ora, solo la sapienza [cioè la metafisica] possiede ambedue questi caratteri: infatti
è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio, e, anche, che Dio, esclusivamente o in
grado supremo, abbia questo tipo di scienza. Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma
nessuna sarà superiore”. Cfr. anche Aristot., Metaph. 1026 A 10-16: “Ma, se esiste qualcosa di eterno,
immobile e separato, è evidente che la conoscenza di esso spetterà certamente ad una scienza teoretica,
ma non alla fisica, perché la fisica si occupa di esseri in movimento, e neppure alla matematica, bensì a
una scienza anteriore all’una e all’altra. Infatti, la fisica riguarda realtà separate ma non immobili; alcune
delle scienze matematiche riguardano realtà che sono immobili ma non separate, bensì immanenti alla
materia; invece la filosofia prima riguarda realtà che sono separate e immobili”. Cfr. anche G. Reale, La
metafisica di Aristotele…, pp. XXX sgg.
77
G. Reale, Storia…,vol. 5: Cinismo, epicureismo e stoicismo, Milano 2008, p. 115 sgg.
78
La dottrina ontologica della Stoa è piuttosto un ritorno al materialismo dei presocratici. M.
Pohlenz, comunque, tende a mostrare l’originalità anche della fisica della scuola del Portico facendola
derivare dai concetti ontologici di Platone e di Aristotele, nonostante la critica dei principali assiomi dei
filosofi ateniesi da parte degli stoici. Cfr. M. Pohlenz, La stoa. Storia di un movimento spirituale, Firenze
1967, vol. I, pp. 119 sgg.
79
M. Pohlenz, La stoa…, vol. I, p. XVII.
41

Così, dunque, come già accennato, gli stoici considerano tutta la realtà come
corporea:

1. <Zenone e Crisippo> pensavano che tutto fosse corpo (sw/ma), e che un


corpo potesse penetrare in un altro, in esso dissolvendosi. Pensavano
anche che tutto fosse pieno e non ci fosse il vuoto80.

2. Per gli stoici la voce è un corpo, come dicono Archedemo nel suo
trattato La voce, e Diogene, Antipatro e Crisippo nel secondo libro della
Fisica. Infatti, tutto ciò che agisce è corpo, e pure la voce agisce quando
giunge agli ascoltatori a partire da chi la emette81.

3. Il fatto che un corpo compenetri un altro corpo per gli antichi era
un’assurdità bella e buona. Però, in seguito, gli stoici finirono con
l’ammettere questo principio in coerenza con le loro premesse, alle
quali non erano disposti ad ammettere eccezioni. Ecco quel che risulta
che sostenessero: tutto ciò che è è corpo, tanto l’anima quanto le
qualità, e siccome è del tutto manifesto che anima e qualità pervadono il
corpo, furono costretti ad ammettere che nella mescolanza un corpo
penetra in un altro corpo… e di questa penetrazione di cui parlano non
intendono attribuire la causa al vuoto82 .

Da questi frammenti risulta che gli stoici fondano la loro dottrina materialistica
su un’osservazione del mondo offerto ai sensi, ossia sul fatto che tutto ciò che agisce e
provoca qualche mutamento nel mondo visibile è sempre corporeo. Infatti, ciò che è
incorporeo, a loro parere, non è in grado né di agire né di patire 83. Quindi, sia la causa
sia l’effetto di tutto ciò che avviene nel cosmo devono essere sempre di natura
corporea84. Anche la voce, pur essendo invisibile, giunge agli orecchi dell’uomo, e
determina i processi fisiologici nel corpo di chi ascolta, appunto perché è di natura
corporea. Anzi, persino l’anima che pervade il corpo, secondo gli stoici è corporea. In

80
SVF II 469. Tutte le citazioni italiane dei frammenti degli stoici antichi provengono da: Stoici
antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim. Testo greco e latino a fronte, a cura di R. Radice,
Milano 2006. In caso della mia o di un’altra traduzione, sarà segnalato nella nota. Il testo greco di
riferimento, proviene da Stoicorum veterum fragmenta, ed. H. F. von Arnim, 3 vols. Leipzig 1903-1905.
In ogni modo, lo stesso testo, e con la stessa numerazione e paginazione, è stato incorporato nel volume
pubblicato da R. Radice.
81
SVF II 140.
82
SVF II 467.
83
Cfr. M. Pohlenz, La stoa…, vol. I, p. 120.
84
Cfr. SVF I 90: “Zenone non era d’accordo nemmeno con questi (cioè Peripatetici e
Accademici), perché pensava che in nessun modo qualcosa potesse essere prodotto, da una natura priva di
corpo... e potesse non essere corpo o ciò che è causa o ciò che è effetto”.
42

effetti, “l’anima condivide le stesse sofferenze del corpo: e se quello è ferito dai colpi,
da ferite o da ulcerazioni, anch’essa ne prova dolore, e allo stesso modo quando l’anima
patisce le pene dell’afflizione, dell’angoscia o dell’amore, anche il corpo sta male per
l’indebolimento della compagna, come dimostrano coi segni del pallore e del rossore, la
sua paura e il suo pudore”85.

Dato che il mutamento riguarda sempre le cose corporee, e poiché tale


mutamento può essere provocato soltanto da una causa corporea, anche il principio
(avrch,) di tutto l’universo deve essere un corpo: altrimenti non potrebbe influire sulle
cose corporee. E appunto di tale natura è il logos, a volte detto anche pneuma: un
principio intelligente che agisce per vicinanza e contatto86, ma anche, come l’anima
rispetto al corpo umano87, è in grado di penetrare tutte le cose del mondo corporeo e
guidarle dall’interno:

1. Per gli stoici dio è un essere intelligente (noero.n qeo,n), è fuoco artefice,
impegnato in una generazione graduale e metodica del mondo, grazie al
fatto che contiene tutte le ragioni seminali (pa,ntaj tou.j spermatikou.j
lo,gouj), secondo le quali ogni evento si realizza in conformità del suo
destino. Ed è anche pneuma diffuso per tutto il cosmo (pneu/ma me.n
dih/kon diV o[lou tou/ ko,smou) e che cambia nome al cambiare della
materia che informa. Dèi sono dunque il cosmo, le stelle, la terra e dio è
pure l’intelletto (nou/n) che dalla zona dell’etere sovrasta ogni cosa88.

2. A loro giudizio, i principi del tutto sono due, quello attivo e quello
passivo (to. poiou/n kai. to. pa,scon). Il principio passivo è sostanza
senza qualità (a;poion ouvsi,an), ed equivale alla materia (u[lhn); il
principio attivo è il Logos immanente in essa (evn auvth|/ lo,gon), ed
equivale a dio (to.n qeo,n). Esso è eterno, e diffuso com’è nella materia,
dà origine ad ogni singolo ente. Pone questa dottrina Zenone di Cizio
nel trattato La sostanza, Cleante negli Atomi e Crisippo alla fine del
primo libro della Fisica89.

85
SVF I 518.
86
Cfr. SVF II 342.
87
Cfr. SVF I 532: “Diogene, Cleante ed Enopide pensano che dio sia l’anima del cosmo”. Cfr.
anche SVF I 530.
88
SVF II 1027.
89
SVF II 300. Cfr. anche SVF I 493.
43

Come si evince dai passi appena citati, la dottrina di dio della scuola del Portico
è una dottrina eclettica. Infatti, per gli stoici dio è il logos e il fuoco artefice, come in
Eraclito, ma anche – cosa interessante – il nous che sovrasta ogni cosa (o` avnwta,tw
pa,twn nou/j), come in Anassagora, Platone e Aristotele. Questa ultima affermazione,
però, non significa che gli stoici, oltre il dio immanente, ipotizzano l’esistenza di un
altro Dio, ossia quello trascendente. In realtà, costoro concepiscono la divinità come
presente in tutte le realtà corporee, ma dato che nell’universo c’è anche l’etere – un
elemento molto sottile, diverso dagli altri quattro, e considerato dai più antichi filosofi
greci come divino90 – il dio che si identifica con esso è detto il nou/j che “sovrasta ogni
cosa”: appunto come l’etere sovrasta tutti gli altri elementi. Il dio-nous degli stoici è
dunque lo stesso dio che penetra tutte le cose che sono nell’universo. Invero, in un’altra
testimonianza leggiamo che secondo gli stoici il dio è uno solo, però riceve diversi nomi
a seconda delle variazioni della materia nella quale è presente91.

Questo dio nella maggioranza dei frammenti che ci sono pervenuti è detto lo,goj
o pneu/ma. Esso contiene in sé lo,goi spermatikoi,92 “secondo i quali ogni evento si
realizza in conformità del suo destino”. Il dio-logos, dunque, coincide con la
provvidenza93. È un principio attivo (to. poiou/n) dell’universo che, pur essendo
corporeo, differisce da quello passivo (to. pa,scon), ossia dalla materia informe94. Grazie
alla sua sottigliezza e purezza95 penetra la materia e guida tutte le cose dall’interno96. È

90
Cfr. G. S. Kirk, The Presocratic Philosophers…, nota 1, p. 199; G. Reale, voce: Etere, in
Storia…,vol. 9: Assi portanti del pensiero antico e lessico, Milano 2010, p. 181.
91
Cfr. SVF II 1027 [2]: “Gli stoici, a parole, attribuiscono alla divinità un numero spropositato di
nomi in rapporto alle variazioni della materia nella quale pensano che il pneuma divino sia diffuso, però
nella sostanza credono che il dio sia uno”. Cfr. anche SVF I 102; I 164; II 1070.
Occorre accennare altresì che, oltre gli appellativi legati a diversi tipi della materia, gli stoici
attribuiscono a dio anche i nomi provenienti dalla mitologia greca: “Dio è un essere vivente immortale,
razionale, perfetto, esente da ogni male: è la provvidenza del cosmo e delle cose che in esso vi sono, però
non ha forma umana. È l’artefice dell’universo, un po’ il padre di tutte le cose, dovunque diffuso fin nelle
singole parti: per questo assume molti nomi in ragione delle sue funzioni. È detto Dia (Di,a) perché per
mezzo (diV o[n) tutto avviene; è detto Zeus (Zh/na) perché è principio del vivere (zh/n) o contiene la vita;
Atena (VAqhna/n) perché ha potere fin sull’etere (aivqe,ra), Era perché l’ha sull’aria (ave,ra), Efesto sul fuoco
artefice, Posidone sull’acqua, e Demetra sulla terra. Allo stesso modo gli conferirono altri nomi a
sottolineare certi altri caratteri”. SVF II 1021. Come vediamo, i nomi mitologici, vengono attribuiti a dio
soltanto in modo metaforico. Infatti, gli stoici, adoperando il metodo allegorico, considerano gli dèi delle
opere di Omero e di Esiodo come le forze presenti nel mondo corporeo e responsabili di tutto ciò che
avviene in esso. Sull’metodo allegorico degli stoici cfr. A. A. Long, Stoic Readings of Homer, in Id.,
Stoics Studies, Cambridge 1998, pp. 58-84.
92
Oltre il passo citato sopra, cfr. anche SVF I 102; II 580; II 986.
93
Cfr. SVF I 548; I 551; II 634; II 937; II 1106 sgg.
94
Sull’argomento cfr. M. Pohlenz, La stoa…, vol I, pp. 126 sgg., dove l’autore parla dell’origine
di tale dottrina a partire da Platone e Aristotele.
95
Cfr. SVF I 153; II 1029.
96
Cfr. SVF I 160; I 531.
44

diffuso dovunque e fluisce anche negli esseri infimi97. Si estende da un’estremità


all’altra dell’universo e lo tiene unito98. Ma pur essendo immanente in tutto, il logos è
altresì il creatore (dhmiourgo,j)99 del mondo, perché plasmando la materia informe dà
origine ad ogni singolo essere100. Nonostante sia corporeo, il logos è eterno e
incorruttibile, mentre tutte le altre cose si distruggono al momento della
conflagrazione101. Infatti, gli stoici ammettono le conflagrazioni cicliche dell’universo,
durante le quali tutto si dissolve nel fuoco, che è appunto il logos102, e di seguito viene
ricostituito dal seno di questa sostanza ignea e ritorna allo stesso ordine che aveva al
momento originario della formazione del mondo103.

Anche se il dio degli stoici è presente in tutte le cose dell’universo, non si


manifesta sempre nello stesso modo. La Stoa, infatti, ammette una struttura scalare
dell’essere, il che vuol dire che lo pneuma penetra tutte gli esseri con diversità di
purezza e di forza104. Infatti, in un altro modo lo pneuma è presente nelle forme
inorganiche, che occupano il livello più basso di questa gerarchia, in un altro modo
nelle piante, negli animali e infine in un altro modo nell’uomo che, in quanto dotato del
logos, è l’essere più congiunto con la divinità. Così, dunque, nelle cose inorganiche lo
pneuma è la forza di coesione (alla quale abbiamo accennato sopra); negli organismi
vegetali è il principio di nutrimento, di crescita e di riproduzione; negli animali lo
pneuma si manifesta come vita, sensazione e istinto e nell’uomo come la ragione105.

Dato che lo pneuma coincide anche con la legge della natura106, tutti gli esseri in
cui è presente vivono (o nel caso dell’uomo dovrebbero vivere) secondo natura 107. E
vivere secondo natura significa realizzare e perfezionare ciò che è peculiare e

97
Cfr. SVF I 159: “Per gli stoici il pneuma fluisce anche negli esseri infimi”. Cfr. SVF II 1051.
98
Cfr. SVF II 439: “Dire che qualcosa compie un’azione su se stesso o agisce su sé stesso è
contro il buon senso, e parimenti è contro il buon senso sostenere che una cosa tiene insieme sé stessa.
Così, soprattutto quelli che hanno introdotto <il concetto> di forza di coesione (th.n sunektikh.n du,namin),
cioè gli stoici, hanno distinto ciò che tiene insieme da ciò che è tenuto insieme: il primo è la sostanza
pneumatica (pneumatikh.n ouvsi,an), il secondo, quello che è tenuto insieme, è l’elemento materiale”. Cfr.
anche Cfr. SVF II 440 sgg.; II 1013.
99
Cfr. SVF II 1021.
100
Cfr. SVF II 1108; I 493.
101
SVF II 299: “Per gli stoici gli elementi non sono la stessa cosa dei principi: questi ultimi non
subiscono né generazione né corruzione, invece gli elementi si distruggono al momento della
conflagrazione”. Sull’eternità del logos cfr. anche SVF II 1013; II 1019; II 1049.
102
Cfr. SVF I 160; I 171.
103
Cfr. SVF II 596 sgg.; II 1174.
104
Cfr. SVF II 458 sgg.; II 714 sgg.; II 988-989.
105
Cfr. SVF II 458 sgg.; II 714 sgg.; II 988-989. Sull’argomento cfr. anche M. Pohlenz, La
stoa…, vol I, pp. 161 sgg.
106
Cfr. SVF I 162; II 1110-1111.
107
Cfr. SVF III 4 sgg.
45

caratteristico di ciascuno degli esseri. Poiché ciò che è peculiare dell’uomo è la ragione
(lo,goj) che è parte del logos universale, le virtù che questi dovrebbe sviluppare sono
appunto quelle intellettuali108, o conformi alla retta ragione109:

Qual è la natura specifica dell’uomo? La ragione, che quando è retta e


perfetta dà all’uomo la pienezza della felicità. Di conseguenza, se ogni cosa
quando realizza perfettamente il suo bene specifico, è degna di lode e raggiunge
il suo fine naturale, e se il bene specifico dell’uomo è la ragione, allora, una
volta che questi l’abbia pienamente realizzata, sarà degno di lode e avrà
raggiunto il suo fine naturale. Una tale ragione perfetta prende il nome di virtù e
altro non è che la coerenza morale. Dunque, questo solo nell’uomo è il bene,
perché uno solo è il suo bene specifico110.

In coerenza con queste premesse, la Stoa pone come ideale etico l’avpa,qeia, ossia
la vita priva delle passioni111. In effetti, queste ultime sono proprie dell’anima
irrazionale e non della ragione112. Colui, dunque, che si assoggetta ad esse non vive
secondo il logos; e quindi non realizza il bene specifico della natura umana. Il saggio
stoico, invece, sa che tutto ciò che avviene nell’universo avviene per la volontà del
logos universale. Avendo tale consapevolezza tende a eliminare completamente dalla
sua anima tutte le passioni che potrebbero distrarlo dal vivere in accordo con la natura.
Acquisisce dunque le virtù teoretiche e quelle pratiche che sono sempre il frutto di un
continuo ascolto del logos universale. Questi, infatti, essendo la legge della natura,
“comanda le azioni che devono essere compiute e vieta quelle che vanno evitate”113.

108
Cfr. SVF I 406: “Apollofane sostiene che c’è una sola virtù, la saggezza (fro,nhsin)”. Cfr.
anche SVF I 376; III 259.
109
Cfr. SVF I 374-376; II 1005; III 445.
110
Cfr. SVF III 200 a.
111
Cfr. SVF I 207; I 215; I 434; III 144; III 381; III 443 sgg.; III 567 sgg.
112
Cfr. SVF I 205 [1]: “Secondo Zenone la passione è un moto dell’anima irrazionale e contro
natura, oppure un impulso spinto all’eccesso”. Cfr. anche Cfr. SVF I 205 [2] sgg.
113
SVF III 323.
Capitolo primo

LA TRASCENDENZA DI DIO IN FILONE DI ALESSANDRIA

1.1. Tra il Dio della Bibbia e il Dio dei filosofi. Le premesse di Filone

Prima di esaminare il concetto della trascendenza di Dio in Filone, conviene


accennare ad alcune premesse generali del suo pensiero. Infatti, solo dopo aver
compreso il metodo e la finalità degli scritti dell’Ebreo di Alessandria, diventano chiare
molte delle sue affermazioni relative a Dio. In realtà, nei commenti al libro della Genesi
Dio, che piantò un giardino in Eden, che camminava nel giardino sul far della sera, che
parlava con Adamo ed Eva1, viene descritto dall’Alessandrino come un Intelletto (nou/j)
trascendente, che opera nel mondo solo attraverso le sue Potenze (duna,meij). Quale il
motivo di una tale interpretazione? È l’autore stesso a spiegarlo in diversi punti delle
sue opere. Proprio all’inizio del commento alla creazione del mondo troviamo uno dei
passi più significativi:

Tra i legislatori, alcuni hanno codificato in maniera disadorna, senza


alcuna ricercatezza, i principi (ta. nomisqe,nta) ritenuti giusti presso i loro
popoli; altri, al contrario, hanno avviluppato di grande ampollosità pensieri
propri (ta. noh,mata) e gettato fumo negli occhi delle masse, nascondendo la
verità sotto finzioni mitiche. Mosè non adottò nessuno dei due espedienti: il
primo perché – a suo giudizio – irriflessivo, privo d’impegno e alieno dalla
filosofia (avfilo,sofon), il secondo perché infarcito di falsità e d’impostura; pose
invece all’inizio del suo codice di leggi un esordio (avrch,) di bellezza e

1
Cfr. Gen. 2,8; 3,8 sgg.
47

maestosità incomparabili, astenendosi da un lato dall’indicare subito quel che si


deve fare e, dall’altro – dacché bisognava formare le menti dei futuri applicatori
della legge – evitando di inventare miti o di consentire con quelli che altri
avevano già inventato. Questo esordio (h` avrch,), come ho precisato, è
meraviglioso oltre ogni dire, perché comprende il racconto della creazione del
mondo (kosmopoii,a), in cui è implicito il concetto che il mondo è in armonia
con la legge e la legge con il mondo, e che l’uomo osservante della legge
diviene, in virtù di tale osservanza, cittadino del mondo per il solo fatto che
conforma le proprie azioni alla volontà della natura (to. bou,lhma th/j fu,sewj),
secondo la quale è governato anche l’universo intero2.

Questo passo ci suggerisce le seguenti considerazioni:

1. Filone distingue due tipi di legislatori: quelli che non hanno dato nessuna
base teoretica alle loro leggi e quelli che in qualche modo l’hanno data,
ma l’hanno oscurata con finzioni mitiche (ta. muqika. pla,smata).
2. I primi hanno codificato solo ta. nomisqe,nta, vale a dire: i riti o i precetti
riguardo alle funzioni religiose3. I secondi hanno trasmesso anche alcune
idee o concetti (ta. noh,mata) però in maniera avviluppata e infarcita di
falsità.
3. Gli uni e gli altri non sono rappresentanti della filosofia vera: i primi
perché il loro modo di fare è irriflessivo; i secondi perché i loro concetti
teoretici sono alieni alla verità.
4. Solo Mosè ha posto un giusto fondamento teoretico alle sue leggi. Quel
fondamento è veramente filosofico, ovvero riflessivo e verace, alieno alla
mitologia. Mosè dunque è un filosofo e un legislatore vero.

2
Phil., Opif. 1-3. Tutte le citazioni italiane delle opere di Filone provengono da: Filone di
Alessandria, Tutti i trattati del commento allegorico alla Bibbia. Testo greco a fronte, a cura di R.
Radice, Milano 2005. In caso della mia o di un’altra traduzione, sarà segnalato nella nota. L’edizione
critica di riferimento è quella di L. Cohn, P. Wendland, S. Peiter, Philonis Alexandrini Opera quae
Supersunt, vol. I-VI, Berlin 1896-1915.
3
In questo luogo Filone non usa la parola: no,moj (adoperata in ambito filosofico anche da
Eraclito, Platone, Aristotele e gli stoici) ma: ta. nomisqe,nta. La prima verrà usata dal commentatore solo a
proposito delle leggi di Mosè che sono conformi alle leggi della natura. La seconda invece non significa
la legge vera e propria, ma solo i riti o le offerte consuete, in alcuni autori antichi anche onoranze funebri.
Cfr. F. Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino 2004, p. 1418.
Filone è convinto che la legge vera (no,moj), come del resto la filosofia vera, debba essere
universale. Deve riguardare tutti i popoli e la natura intera in genere. Proprio tale è la legge di Mosè. Le
leggi degli altri popoli invece spiegano o contengono precetti o divieti che riguardano un singolo popolo.
Filone spiega questo concetto più ampiamente in: Mos. II 12-20.
48

5. Solo a proposito delle leggi di Mosè, il commentatore utilizza i termini


tecnici della filosofia greca: avrch,, fu,sij, no,moj, avlh,qeia, filosofi,a.
6. In un certo senso Filone parla di una nuova avrch, filosofica implicita nel
codice delle leggi di Mosè che è la kosmopoii,a4.
7. La kosmopoii,a può essere un’avrch, filosofica, perché spiega il fatto
dell’ordine e dell’armonia dell’universo e indica l’origine e il contenuto
delle leggi che lo reggono. Infatti le leggi mosaiche si identificano con le
leggi della natura.

Da ciò che è stato detto è chiaro che Filone ha coscientemente voluto inserire la
legge mosaica nell’ambito della filosofia greca, anzi ha voluto mostrare che il
giudaismo è la filosofia vera, perché ha tutti i requisiti necessari per essere una
filosofia5. Infatti esso, in maniera ragionevole, dà una risposta alle domande filosofiche
più antiche, ossia riguardo alla natura6, e a quelle più recenti rispetto all’epoca di Filone,
relative all’etica e al suo fondamento7. A questo punto possiamo già formulare la prima
risposta alla domanda di questo paragrafo: se il giudaismo è una filosofia vera e se essa
è esposta nel codice delle leggi di Mosè, bisogna dunque parlare del Dio della Bibbia
utilizzando un linguaggio filosofico8. In presenza degli antropomorfismi biblici (che

4
C. Kraus Reggiani, traduttrice del brano citato, per la parola avrch, ha scelto il significato
esordio e lo ha collegato al codice delle leggi. È vero la parola può essere tradotta in questo modo. Infatti,
ha moltissimi significati. Ma in un brano così significativo, in cui Filone parla proprio dei fondamenti
teoretici delle leggi, la parola avrch, si può concepire anche come un riferimento alle avrcai, dei filosofi
antichi e tradurla come principio. Propongo dunque una mia traduzione delle due frasi di quel brano: v. 2:
panka,lhn kai. semnota,thn avrch.n evpoih,sato tw/n no,mwn – [Mosè] pose un principio delle leggi che è
pieno di bellezza e molto degno di rispetto; v. 3: h` d’ avrch,( kaqa,per e;fhn( evsti. qaumasiwta,th
kosmopoii,an perie,cousa – il principio che comprende la creazione del mondo, come ho detto, è
venerabile. Cfr. D. T. Runia, Commentary, in Philo of Alexandria, On the Creation of the Cosmos
according to Moses. Introduction, Translation and Commentary, a cura di D. T. Runia, Leiden 2001, p.
103.
5
Cfr. Phil., Mos. II 1-3; 49-53, dove Filone parla della finalità e della base filosofica delle leggi
mosaiche. In un altro luogo ancora l’Alessandrino dice che ciò che la filosofia ha insegnato ai suoi
seguaci, la legge mosaica ha insegnato agli Ebrei. Cfr. Phil., Virt. I 65.
6
Molti filosofi più antichi (come Senofane, Parmenide, Eraclito) scrissero, secondo le
testimonianze che possediamo, un trattato intitolato peri. fusewj. È indubbio che le più antiche domande
della filosofia greca erano quelle che riguardavano la natura stessa. Cfr. S. A. White, Milesian Measures:
Time, Space, and Matter, in The Oxford Habdbook of the Presocratic Philosophy, a cura di P. Curd, D.
W. Graham, Oxford 2008, pp. 89-133.
7
Nell’epoca ellenistica molteplici scuole filosofiche non si concentravano più sulla costruzione
dei grandi sistemi metafisici (come quelli di Platone e di Aristotele), ma piuttosto sull’etica servendosi in
maniera eclettica dei concetti presi da diverse filosofie e religioni. Le scuole promettevano ai loro detti la
felicità, anzi consideravano la filosofia in esse insegnata come una forma di terapia. Cfr. W. Jordan,
Ancient Concepts of Philosophy, London 1992, pp. 139-140. Nelle sue opere Filone dà molte risposte alle
domande relative all’etica, ma prima vuole spiegare i fondamenti ontologici del sistema etico.
8
A questo proposito sorge il problema che riguarda l’impostazione della dottrina filoniana.
Troviamo in essa la preminenza della componente ellenica e filosofica o quella biblica e giudaica? Gli
studiosi propongono diverse soluzioni di questo problema. Gli uni affermano che l’Alessandrino era
49

sono alieni alla filosofia) Filone dovrà trovare una spiegazione. Di essa parleremo nel
seguito del presente capitolo.

Nel brano sopraccitato si individuano molte influenze stoiche9. Infatti proprio gli
stoici sostenevano che una vera etica deve essere costruita sulla base della logica e della
fisica10. Secondo Filone lo stesso procedimento è stato fatto da Mosè quando, fondando
il codice delle sue leggi, “si è astenuto dall’indicare subito quel che si deve fare” per

soprattutto filosofo (e, a seconda dell’autore: seguace di qualche corrente filosofica precisa o, anzi, il
filosofo del tutto originale), gli altri invece sostengono che nelle opere di Filone troviamo la prevalenza
della matrice giudaica. Per quanto riguarda la prima posizione cfr. T. H. Billings, The Platonism of Philo
Judaeus, Chicago 1919; E. R. Goodenough, By Light, Light, New Haven-London 1935; H. A. Wolfson,
Philo. Foundations of Religious Philosophy in Judaism, Christianity, and Islam, vol. I-II, Cambridge
1948; É. Bréhier, Les idées philosophiques et religieuses de Philon d’Alexandrie, Paris 1950; J.
Drummond, Philo Judaeus, or the Jewish-Alexandrian Philosophy in its Development and Completion,
Amsterdam 1969; R. Radice, Allegoria e paradigmi etici in Filone di Alessandria. Commentario al
«Legum allegoriae», Milano 2000, pp. 19-36; R. M. Berchman, Philo and Philosophy, in Judaism in Late
Antiquity, a cura di A. J. Avery-Peck, J. Neusner, vol. II, part III: Where We Stand: Issues and Debates in
Ancient Judaism, section III, Leiden – Boston 2001, pp. 49-70; J. Dillon, I medioplatonici. Uno studio sul
platonismo (80 a.C.-220 d.C.), a cura di E. Vimercati, Milano 2010, pp. 176-221; G. Reale, Storia della
filosofia greca e romana, vol. 7: Rinascita del platonismo e del pitagorismo, Corpus Hermeticum e
Oracoli Caldaici, Milano 2010, pp. 9-85; D. Winston, Philo of Alexandria, in The Cambridge History of
Philosophy in Late Antiquity, a cura di L. P. Gerson, Cambridge, 2010, vol. I, pp. 235-257.
Per quanto riguarda la seconda posizione, dobbiamo osservare che, recentemente, essa è stata in
un certo modo superata dalla prima. Infatti, negli ultimi decenni, a causa della crescita dell’interesse per
lo studio di Filone, oltre ai biblisti, anche i filosofi, i patrologi e i dogmatici, hanno cominciato a
riconoscere grande influenza dell’Alessandrino sul pensiero filosofico e teologico posteriore (cfr. D. T.
Runia, Filone di Alessandria nella prima letteratura cristiana, Milano 1999). Ciò non significa che
Filone non è più considerato come un commentatore delle Scritture giudaiche, ma si pone l’accento
sopratutto sulla portata filosofica dei suoi commentari. In realtà, con alcune soluzioni dei problemi
filosofici, Filone ha preceduto i grandi filosofi (come Plotino) o i grandi teologi dell’antichità (come
Origene). Tuttavia, per dare qualche esempio degli studi che presentano il nostro autore come uno
scrittore ebreo che dipende soprattutto dalla tradizione giudaica cfr. S. Belkin, Philo and the Oral Law,
Cambridge 1940; C. Siegfried, Philo von Alexandria als Ausleger des Alten Testaments, Amsterdam
1970.
Ambedue le posizioni degli studiosi presentano e commentano: A. Maddalena, Filone
Alessandrino, Milano 1970, pp. 9 sgg.; V. Nikiprowetzky, Le Commentaire de l’Ecriture chez Philon
d’Alexandrie. Son caractère et sa portée. Observations philosophiques, Leiden 1977, pp. 11 sgg. e 50
sgg.; B. Mondin, Filone e Clemente. Saggio sulle origini della filosofia medievale, Roma 1984, pp. 21-
25; E. Hilgert, Philo Judaeus et Alexandrinus. The State od the Problem, in The School of Moses. Sudies
in Philo and Hellenistic Religion. In Memory of Horst R. Moehring, a cura di J. P. Kenney, Atlanta 1995,
pp. 1-15; G. Reale, R. Radice, La genesi e la natura della filosofia mosaica. Struttura, metodo e
fondamenti del pensiero filosofico e teologico di Filone di Alessandria, in Filone di Alessandria, Tutti i
trattati…, pp. XVII-XXXVIII; C. Kraus Reggiani, Storia della letteratura giudaico-ellenistica, Milano
2008, pp. 139 sgg.; F. Calabi, Storia del pensiero giudaico ellenistico, Brescia 2010, pp. 62 sgg.
9
Sull’argomento delle influenze stoiche sul pensiero di Filone cfr. M. Pohlenz, La stoa. Storia di
un movimento spirituale, Firenze 1967, vol. II, pp. 193 sgg.; A. A. Long, Philo on Stoic Physics, in Philo
of Alexandria and the Post-Aristotelian Philosophy, a cura di F. Alesse, Leiden – Boston 2008, pp.121-
140; R. Radice, Philo and the Stoic Ethics. Reflections on the Idea of Freedom, in Philo of Alexandria
and the Post-Aristotelian…, pp.141-167; M. Graver, Philo of Alexandria and the Origins of the Stoic
PROPAQEIAI, in Philo of Alexandria and the Post-Aristotelian…, pp.197-221.
10
Cfr. Diog. Laert., Vitae phil. VII, 40. Filone conosce bene la tripartizione della filosofia fatta
dagli stoici, perché ne parla esplicitamente nell’Agr. 14: “Gli antichi hanno rappresentato la tripartizione
della ragione filosofica nell’immagine del campo. In essa la parte della filosofia che riguarda la fisica è
paragonata agli alberi e alle piante, la parte che riguarda l’etica ai frutti – che sono appunto la ragion
d’essere delle piante –, e la parte logica alla recinzione e alla staccionata”. Questo passo, a sua volta, è
considerato da H. von Arnim come testimonianza stoica. Cfr., SVF, II 39.
50

spiegare, in maniera riflessiva, la creazione del mondo e la sua natura. Dagli stoici
proviene anche il concetto contenuto nell’ultima frase del brano di cui sopra, quello
sull’armonia tra la legge, il cosmo e l’etica11. A questo punto il giudaismo appare come
una realizzazione degli ideali della scuola del Portico. Infatti esso ha un suo fondamento
logico, ossia è razionale, ha un fondamento fisico, cioè sa spiegare l’origine e la
struttura dell’universo, ed ha una legge, basata su questi fondamenti, che corrisponde
all’etica stoica perché è conforme alla natura.

Tuttavia lo stoicismo non è l’unica filosofia della quale si serve Filone12. Come
vedremo in seguito, nel suo parlare di Dio e della creazione, l’Alessandrino appare
completamente platonico13. Nonostante utilizzi alcuni termini stoici, come: pneu/ma o
lo,goj, non accetta assolutamente il materialismo stoico14. Come Platone distingue
invece due livelli di realtà: quello intelligibile (nohto,j) e quello sensibile (aivsqhto,j).

11
Il paragrafo 3 del Opif. è considerato una testimonianza stoica. Cfr. SVF, III 336. Cfr. anche R.
Radice, Commentario a “La creazione del mondo secondo Mosè”, in: Filone di Alessandria, La Filosofia
mosaica: La creazione del mondo secondo Mosè. Le allegorie delle leggi, a cura di R. Radice, Milano
1987, p. 233.
12
Anche gli studiosi che danno grande peso all’influenza della dottrina stoica nel pensiero di
Filone mostrano le differenze tra la teologia filoniana e quella stoica. Una delle più importanti differenze
consiste nel concetto di Dio totalmente trascendente. Cfr. M. Pohlenz, La stoa…, vol. II, p. 215. Cfr.
anche G. Reale, R. Radice, La genesi…, p. XXXIX.
13
Sull’argomento del platonismo filoniano cfr. D. T. Runia, Philo of Alexandria and the
‘Timaeus’ of Plato, Leiden 1986; R. Radice, Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria, Milano
1989. Ambedue gli autori fanno nelle sue opere una dettagliata analisi comparativa dei testi di Filone con
quelli di Platone. Nonostante ciò, giungono, a volte, alle conclusioni opposte. Non concordano, ad
esempio, per quanto riguarda l’argomento della dottrina della creazione di Filone (ne parleremo ancora
più avanti). Rimane, però, indubbio che l’Alessandrino non solo ha letto i dialoghi di Platone (e
soprattutto il Timeo che cita esplicitamente), ma in modo platonico ha ideato tutta la struttura della realtà,
anche se in alcuni punti dissente dal filosofo greco.
14
Per questo motivo anche G. Reale che tra le fonti del pensiero filoniano, oltre il platonismo,
enumera: lo stoicismo, il pitagorismo, l’aristotelismo, in una certa misura anche il cinismo e lo
scetticismo, conclude che “in modo particolare il platonismo risulta la fonte privilegiata”. Cfr. G. Reale,
Storia…, vol. 7, p. 13.
A questo proposito vale la pena osservare che la dottrina di Filone viene formulata nel contesto
della discussione tra i filosofi detti: ‘medioplatonici’ che erano interessati del ritorno alla ‘verità degli
antichi’ e soprattutto alla vera dottrina di Platone. Questa però veniva commentata da loro attraverso gli
‘occhiali’ di Aristotele, degli stoici e dei pitagorici. Cfr. F. Calabi, God’s Acting, Man’s Acting. Tradition
and Philosophy in Philo of Alexandria, Leiden 2008, p. 4-5. Anche se la dottrina dell’Alessandrino
precede la formulazione scritta del sistema medioplatonico in opere dei grandi filosofi di questa corrente
(come Alkinoos, Numenio o Plutarco), il procedimento di commentare i dialoghi di Platone con l’uso
delle idee provenienti dagli altri sistemi filosofici era noto ad Alessandria all’epoca di Filone. Su questo
argomento cfr. S. Lilla, Introduzione al Medio platonismo, SuPatr 6, Roma 1992, pp. 5 sgg.; M. Bonazzi,
Towards Transcendence: Philo and the Renewal of Platonism in the Early Imperial Age, in Philo of
Alexandria and the Post-Aristotelian…, pp. 233-251; J. Dillon, Philo and Hellenistic Platonism, in Philo
of Alexandria and the Post-Aristotelian…, pp. 224-232; J. Dillon, I medioplatonici…, pp. 153 sgg. Cfr.
anche la discussione tra gli studiosi sul problema del medioplatonismo di Filone in The Studia Philonica
Annual: G. E. Sterling, Platonizing Moses: Philo and Middle Platonism, SPhA 5 (1993), pp. 96–111; D.
T. Runia, Was Philo a Middle Platonist? A Difficult Question Revisited SPhA 5 (1993), pp. 112–140; D.
Winston, Response to Runia and Sterling, SPhA 5 (1993), pp. 141–146; T. H. Tobin, Was Philo a Middle
Platonist? Some Suggestions, SPhA 5 (1993), pp. 147–150; J. Dillon, A Response to Runia and Sterling,
SPhA 5 (1993), pp. 151–155.
51

L’uno è incorporeo (avsw,matoj) ed ha una natura intellettuale (quella di nou/j) ovvero


divina per natura15, l’altro invece è materiale e corporeo (swmatiko,j). L’uno è semplice
(monadiko,j), l’altro composto (su,nqetoj). Il primo è immutabile (a;treptoj), il secondo è
soggetto al mutamento (ge,nesij), ovvero al processo del divenire continuo16.

Il platonismo è onnipresente negli scritti filoniani e appare ogni volta che il


nostro filosofo fa l’esegesi allegorica dei testi biblici. Commentando i passi in cui la
Sacra Scrittura rappresenta Dio servendosi di antropomorfismi il commentatore si rifà
sempre ad un’interpretazione allegorica per poter rifiutare l’immagine umana
dell’Assoluto. Basti un solo esempio, a proposito del brano della Genesi dove leggiamo:
«Dio piantò un giardino in Eden, a Oriente»17 l’Alessandrino, per escludere
un’interpretazione antropomorfica, scrive:

Il pensiero umano non sia preda di un tale empietà da credere che Dio
coltivi la terra e pianti giardini, perché davvero non sapremmo trovare lo scopo
di un tale suo agire: non sarà certo per procurarsi luoghi per beati riposi e
piaceri. Che una tale favola (muqopoii,a) non ci sfiori neanche la mente! Neppure
il cosmo nella sua interezza sarebbe una sede e una dimora degna di Dio, perché
egli è luogo di se stesso (auvto.j e`autou/ to,poj), è pieno di sé e basta a sé18.

In questo testo Dio appare totalmente differente dal mondo. Il mondo non è un
luogo degno di lui19, perché Dio è luogo (to,poj) di se stesso. È necessario osservare a
questo punto che qui la parola to,poj non viene considerata in senso fisico-spaziale. In
effetti, già Platone definisce il luogo delle idee come nohto.j to,poj20. In Aristotele i
to,poi sono i luoghi della mente dove si possono trovare certe idee della dialettica, e più
tardi, in grandi oratori, i to,poi sono luoghi mentali dove si devono cercare gli argomenti
retorici21. Sulla stessa scia, anche Filone afferma che, Dio è to,poj di se stesso, perché

15
Cfr. J. Daniélou, Philon d’Alexandrie, Paris 1958, p. 144.
16
Molti concetti sopra enumerati saranno analizzati nei paragrafi successivi. A questo punto
riporto soltanto alcuni passi più significativi delle opere di Filone che attestano la presenza di quella
divisione platonica della realtà. Cfr. Phil., Opif. 12 ; 69 ; Cher. 97; Deus 31-32; 45-46 ; 82-84; Confus.
81 ; 98-100 ; Migrat. 2-5; Mutat. 57; Spec. Leg. I 327-329.
17
Gen. 2,8.
18
Phil., Leg. All. I 43-44.
19
In un altro passo Filone dice che Dio, anche mentre creava il mondo non ha toccato la materia:
“Dio ha generato tutte le cose, senza però aver diretto contatto. Non era lecito, infatti, che l’Essere felice e
beato toccasse la materia illimitata e confusa.” Cfr. Phil., Spec. Leg. I 329.
20
Cfr. Plat. Resp. 509 D. Ne abbiamo parlato nel capitolo introduttivo.
21
Aristotele dedica a questo argomento i suoi Topici. Cicerone, invece, basandosi su questa fonte
dice che i ‘luoghi’ sono “sedes et quasi domicilia omnium argumentorum”. Cfr. Cic., De orat. II 162. Per
di più, Aristotele, che sosteneva l’anima incorporea, afferma che essa è il to,poj delle idee. Cfr. Aristot.,
52

egli è nou/j in cui si trovano le sue idee22. Che Dio sia luogo lo si può dire soltanto in
senso figurato. Infatti Dio, poiché è di natura intelligibile, non può avere nessun luogo
corporeo. Che cosa significa dunque la piantagione che sta commentando Filone? È una
piantagione spirituale: “Dio semina e pianta la virtù terrena che è copia e immagine di
quella celeste, a beneficio del genere morale”23. Si vede da questo che l’interpretazione
allegorica di Filone è lontana dal testo letterale24.

L’Alessandrino fa una simile interpretazione a proposito dell’ira di Dio per i


peccati che facevano gli uomini al tempo di Noè25. In questo caso, Filone vuole
escludere dall’immagine di Dio non solo la corporeità, ma anche tutti gli affetti e le
passioni che la Bibbia gli attribuisce:

Di nuovo, alcuni, sentendo queste parole, suppongono che l’Essere


provi collera ed ira. Ma egli non è afferrabile proprio da nessuna passione (e;sti
dV ouvdeni. lhpto.n pa,qei to. para,pan): l’essere angustiato è proprio della
debolezza umana, mentre con Dio non hanno niente a che fare né le passioni
irrazionali dell’anima, né le parti e le membra del corpo tutte insieme.
Nondimeno il legislatore parla così affinché tali espressioni servano ad una
prima introduzione, per porle nell’animo di coloro che non possono essere fatti
rinsavire in altro modo26.

Sullo sfondo filosofico di questo brano ci sono diversi concetti filosofici. Quello
più evidente è la nozione stoica dell’avpa,qeia attribuita in questo caso a Dio27 che non

Anim. 429 A. Nella teologia gnostica invece la parola to,poj diventerà un nome proprio di Dio. Cfr. Clem.,
Exc. ex Theod. 34,1; 37,1-38,1.
22
Il termine to,poj viene adoperato molte volte da Filone. Cfr. Opif. 17-20; Confus. 96-97; Somn.
I 184; Sobr. 63. Qualche volta diventa quasi un nome proprio di Dio o del Logos che è un luogo delle
idee. Cfr. Somn. I 62-67. In tutti questi passi Filone utilizza la parola to,poj intendendola in senso
assolutamente metaforico. Infatti, la Causa dell’universo è secondo lui al di sopra del luogo e al di là del
tempo (u`pera,nw kai. to,pou kai. cro,nou). Cfr. Phil., Poster. 14.
23
Phil., Leg. All. I 45. Cfr. pure Phil., Confus. 61.
24
Parleremo ancora più avanti del metodo d’interpretazione di Filone, comunque già qui
osserviamo che l’Alessandrino si allontana dal significato letterale del testo sacro sopratutto nel momento
in cui Dio viene descritto dalla Bibbia in maniera antropomorfa. Infatti gli antropomorfismi biblici
assomigliano in qualche modo alle caratteristiche degli dei della mitologia greca. Secondo Filone, invece,
(come abbiamo visto sopra. Cfr. Opif. 1-3) la legge di Mosè non ha niente a che fare con le finzioni
mitiche. Anzi, è in sommo grado filosofica, non mitica. Per questo l’esegesi filoniana ha anche come lo
scopo la demitizzazione della Bibbia. Cfr. R. Radice, Commentario…, p. 234.
25
Cfr. Gen. 6,7: «Io cancellerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato, dall’uomo al
bestiame, dai rettili agli uccelli del cielo, perché mi sono irritato per averlo creato».
26
Phil., Deus 52.
27
Cfr. anche Phil., Qu. in Gen. I 95; Abr. 202-203; Leg. All. II 100-102. Aggiungiamo che il
concetto dell’avpa,qeia di Dio si contrappone alla mitica concezione dello fqo,noj qew/n. Cfr. Plat., Phaedr.
247 A. Sul’argomento del pa,qoj e dell’avpa,qeia in Filone cfr. M. Pohlenz, La stoa…, vol. II, pp. 209 sgg.
53

subisce nessuna passione. Ma in un modo non diretto Filone si riferisce anche al


concetto platonico-aristotelico dell’anima28. Infatti Platone e Aristotele distinguevano
tre parti dell’anima: quella vegetativa, quella sensitiva e quella intellettiva. La prima è
comune a tutti gli esseri viventi, la seconda è comune agli animali e agli uomini e
l’ultima solo agli esseri razionali29. Quando l’Alessandrino afferma che le passioni
irrazionali dell’anima non hanno niente a che fare con Dio, vuole sottolineare che esse
sono proprie dell’anima sensitiva priva dell’intelletto. Dio, invece, essendo il nou/j
trascendente, compie solo le azioni razionali; non muta in senso fisico come tutti gli
esseri viventi e nemmeno subisce le passioni come tutti gli animali o gli uomini a causa
del loro rapporto con le altre entità corporee30. Egli è un’attività pensante che in se
stessa è il bene e la felicità31. A Dio non manca niente e nulla del mondo creato può
disturbarlo.

Ma del concetto di nou/j parleremo ampiamente nel paragrafo successivo. Qui ci


interessa solo il modo d’interpretazione della Bibbia proprio di Filone. Abbiamo già
visto che Filone respinge due tipi di antropomorfismi: quelli riguardo alla corporeità e
quelli riguardo alle passioni irrazionali. Ambedue i tipi di antropomorfismi biblici
hanno, secondo lui, un loro significato. Infatti, l’Alessandrino li legge in funzione
didattica. Per dimostrare questo, Filone distingue due tipi di uomini: gli amici
dell’anima (oi` yuch/j fi,loi) e gli amici del corpo (oi` sw,matoj fi,loi)32. I primi sono
abituati ad avere un rapporto con le nature intelligibili e non attribuiscono a Dio nessuna
qualità, i secondi, invece, non essendo abituati a esercizi intellettuali, pensano che Dio
sia come loro, cioè corporeo e irascibile33. Una divisione di questo tipo non è una

cfr. anche S. Lilla, Clement of Alexandria. A Study in Christian Platonism and Gnosticism, Oxford 1971,
pp. 84 sgg. e 103 sgg., che mostra anche le influenze di questa dottrina filoniana sul pensiero di Clemente.
28
Cfr. Plat., Phaedr. 246 A, Resp. IV 438 A. Cfr. pure Aristot., Anim. 413-430.
29
Filone conosce bene questa tripartizione dell’anima perché in altri luoghi ne parla
esplicitamente. Cfr. Phil., Confus. 21; Leg. All. I 70-71.
30
Il concetto espresso nei passi Leg. All. I 43-44 e Deus 52, citati sopra, troviamo anche nel testo
di Sacrif. 95-96, dove Filone spiega il motivo per cui l’uomo attribuisce alla Divinità le stesse opinioni
che ha di se stesso. Questo motivo è la trascendenza divina: “Non siamo capaci di concepire niente che ci
trascenda, né abbiamo la forza di sollevarci al di sopra dei nostri petti, ma ci ritiriamo nella nostra natura
mortale come chiocciole nel guscio, o ci rannicchiamo a palla come i ricci, e di ciò che è beato e
immortale ci facciamo le stesse rappresentazioni che abbiamo di noi stessi, pur evitando di dire che la
Divinità ha forma umana, ma caricandoci, nei fatti dell’empietà di attribuire alla Divinità passioni umane.
Perciò immaginiamo mani e piedi, entrate e uscite, inimicizie, avversioni, ostilità, ire, parti e passioni che
non convengono alla Causa”. Phil., Sacrif. 95-96. Cfr. anche Phil., Somn. I 235-236.
31
Cfr. Phil., Cher. 86.
32
Phil., Deus 55.
33
Cfr. Ibid. 56.
54

divisione per naturam. Filone parla dell’istruzione che ogni uomo può ricevere34. Gli
antropomorfismi, dunque, sono necessari perché la legge mosaica non è indirizzata solo
ai colti, ovvero a coloro che hanno la possibilità di istruzione filosofica o nella legge,
ma anche ai semplici35. Dunque coloro che, tramite la ragione, non sono capaci di
arrivare a certe constatazioni riguardo Dio o la morale, hanno la possibilità di trovare
nella legge mosaica determinati precetti e divieti, utili o necessari, per la loro vita. A
volte tali ammonizioni sono espresse in una forma molto dura, quasi crudele e inumana
e non soltanto indegna per descrivere l’essere che è Dio, comunque comprensibile e
adeguata al modo di pensare dei semplici. In questo fenomeno proprio del linguaggio
biblico l’Alessandrino scorge la pedagogia divina e attribuisce alle minacce e
avvertimenti divini una funzione curativa:

Ma quelli che hanno una natura più lenta e più ottusa, male allevati
nell’infanzia, che non possono vedere con acume, hanno bisogno dei medici che
diano loro delle prescrizioni, medici che escogitino la cura appropriata alla loro
presente affezione. Poiché anche ai servi ineducati e stupidi è utile un padrone
temibile, giacché temendo le sue ire e le sue minacce, pur senza volerlo, restano
ammoniti dalla paura. Tutti quelli dunque che hanno una simile natura,
imparino delle falsità, dalle quali trarranno giovamento, se non possono
rinsavire per mezzo della verità36.

Da ciò appare chiaro che l’Alessandrino usa il metodo allegorico per la


demitologizzazione dell’immagine del Dio della Bibbia. Gli antropomorfismi vengono
chiamati in conclusione falsità (ta. yeudh/), ma queste falsità possono essere un
giovamento per coloro che non sono educati e non possono conoscere Dio per mezzo
delle verità razionali. Dio ha concesso che esse si trovassero nella Bibbia per curare le
malattie delle anime dei servi che obbediscono al padrone solo quando costui è temibile.
Mosè, essendo un legislatore saggio, ha fondato il suo codice delle leggi su una base
filosofica e razionale. Egli stesso non ha voluto oscurarlo con finzioni mitiche.

34
Dato che in seguito si parla della felice natura (fu,sij) di coloro che sono capaci di
contemplare le realtà intelligibili (cfr. Deus 61), la divisione in due tipi di uomini, fatta da Filone, può
assomigliare a quella che faranno poi gli gnostici, invece non lo è. L’Alessandrino è consapevole che non
tutti hanno la possibilità e il tempo per lo studio e l’istruzione. La vita morale e intellettuale invece è un
invito per tutti. Altrove, dunque, parla di un cammino dell’uomo che conduce o verso il cielo o verso la
dimora terrena: cioè verso la virtù o verso il vizio; verso le realtà intelligibili o verso le passioni. Ognuno
può progredire o fermarsi nel cammino morale e intellettuale. Cfr. Phil., Confus. 75-78. Quindi, in Filone
non esiste una divisione degli uomini per naturam. A questo tema è dedicato anche quasi tutto il trattato
De migratione Abrahami.
35
Cfr. Phil., Deus 53-54; 60-61.
36
Phil., Deus. 63-64.
55

Considerando invece tutti i suoi possibili lettori, ha inserito nello stesso codice anche il
linguaggio antropomorfo per renderlo più comprensibile e per curare le malattie delle
anime della massa ignara della verità37.

Il metodo allegorico dell’Alessandrino assomiglia a quello che utilizzavano gli


stoici riguardo ai miti di Omero e di Esiodo38. I nomi o le vicende degli dei greci
venivano interpretati da essi in modo simbolico. Troviamo lo stesso procedimento in
Filone. Alcuni antropomorfismi vengono interpretati simbolicamente (lo abbiamo visto
a proposito della piantagione del giardino in Eden), ad altri invece viene indicata una
spiegazione razionale (ad esempio: lo scopo didattico dell’ira di Dio). A differenza dei
filosofi antichi, Filone non elimina di norma il senso letterale del testo biblico che
interpreta39. Anzi, poiché la Sacra Scrittura è stata scritta sotto l’ispirazione divina,
l’Alessandrino è convinto che il senso letterale è importante ed ha sempre valore per la

37
Secondo O. Dreyer, Filone non accetta mai l’immagine di Dio che appare negli
antropomorfismi biblici. Essi non procurano nessuna conoscenza di Dio. L’unica funzione che possono
avere è quella pedagogica, ovvero gli antropomorfismi servono al miglioramento morale soltanto di
coloro che non sono in grado di arrivare alla rappresentazione di Dio confacente alla sua dignità. Cfr. O.
Dreyer, Untersuchungen zum Begriff des Gottgeziemenden in der Antike. Mit besonderer
Berücksichtigung Philons von Alexandrien, Hildesheim-New York 1970, pp. 127-128.
38
Sul metodo allegorico degli stoici cfr. J. Pépin, Mythe et allégorie. Les origines greques et les
contestations judéo-chrétiennes, Paris 1958, pp. 125 sgg. D. Dawson, Allegorical Readers and Cultural
Revision in Ancient Alexandria, Berkeley – Los Angeles – Oxford 1992, pp. 23 sgg. A. A. Long, Stoic
Readings of Homer, in Id., Stoics Studies, Cambridge 1998, pp. 58-84. Il fatto che Filone nel suo metodo
allegorico dipende piuttosto dai modelli esegetici greci che da quelli giudaici è stato dimostrato da molti
studiosi. Cfr. E. Zeller, R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, parte III, vol. IV: I
precursori del neoplatonismo, Firenze 1979, pp. 486 sgg.; É. Bréhier, Les idées…, pp. 35 sgg.; I.
Christenson, Die Technik der allegorischen Auslegungswissenschaft bei Philon von Alexandrien,
Tübingen 1969; J. Dillon, The Formal Structure of Philo’s Allegorical Exegesis, in Two Treatises of
Philo of Alexandria. A commentary on De Gigantibus and Quod Deus Sit Immutabilis, a cura di D.
Winston, J. Dillon, Chico 1983, pp. 77 sgg.; D. T. Runia, Philo of Alexandria and the ‘Timaeus’…, pp.
406 sgg.; A. Kamesar, Biblical Interpretation in Philo, in The Cambridge Companion to Philo, a cura di
A. Kamesar, Cambridge 2009, pp. 65-94.
A questo proposito vale la pena sottolineare anche l’originalità di Filone nell’uso del metodo
allegorico. Infatti, “per gli stoici – osserva G. Reale – l’interpretazione allegorica costituiva un metodo
complementare, accessorio e niente affatto essenziale al loro procedimento propriamente filosofico”. (G.
Reale, Storia…, vol. 7, p. 22). Per Filone, invece, l’allegoresi è il metodo principale ed essenziale. È il suo
modo di fare la filosofia. Difatti, la maggior parte degli scritti filoniani altro non sono che il commento
allegorico alle Scritture. Nessuno prima di lui aveva applicato il metodo allegorico con tanta ampiezza e
profondità. Cfr. Ibid., pp. 21-26.
39
Cfr. M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, SEA
23, Roma 1985, p.18; S. J. K. Pearce, The Land of the Body. Studies on Philo’s Representation of Egypt,
Tübingen 2007, p. 33. Sull’argomeno cfr. anche H. A. Wolfson, Philo..., vol. I, pp. 115 sgg.; J. Pépin,
Mythe et allégorie…, pp. 231 sgg.; B. Mondin, Filone e Clemente…, pp. 17-21; G. Reale, R. Radice, La
genesi…, p. XLIV sgg.; R. Radice, Allegoria…, pp. 37-51. Sulle differenze tra il metodo allegorico
adoperato dai filosofi greci e quello di Filone cfr. A. A. Long, Allegory in Philo and Etymology in
Stoicism: A Plea for Drawing Distinctions, SPhA 9 (1997), pp. 198-210; N. Förster, The Exegesis of
Homer and Numerology as a Method for Interpreting the Bible in the Writings of Philo of Alexandria, in
Jewish Ways of Reading the Bible, a cura di G. J. Brooke, Oxford 2000, pp. 91-98; P. Borgen, Philo of
Alexandria as Exegete, in A History of Biblical Interpretation, a cura di A. J. Hauser, D. F. Watson, vol.
I: The Ancient Period, Grand Rapids 2003, pp. 114-143.
56

vita della società giudaica. Accusa dunque di isolamento dalla realtà coloro che,
concentrandosi solo sul significato simbolico della legge, non danno valore alla lettera:

Ci sono, infatti, alcuni che, considerando le leggi stabilite (tou.j r`htou.j


no,mouj) come simboli di realtà intelligibili (su,mbola nohtw/n pragma,twn), di
queste ultime tengono conto con uno scrupolo fin eccessivo; le prime invece le
sottovalutano, prendendole alla leggera. Io potrei accusare costoro di
incoerenza. Bisognerebbe, infatti, impegnarsi in ambedue le direzioni: nella
ricerca dei significati occulti con la massima diligenza, e pure
nell’amministrazione delle cose visibili, in modo irreprensibile. Ora costoro,
come se vivessero per sé soli, in un totale isolamento, o fossero anime
disincarnate, non curandosi né della città né del villaggio e neppure della
famiglia – insomma, non curandosi di nessun consorzio umano – si lasciano alle
spalle le opinioni dei più e perseguono la nuda verità solo per se stessa40.

Dunque, ai tempi di Filone, il metodo allegorico doveva essere noto e usato dai
commentatori delle Scritture o della legge. Anzi, alcuni adoperarono questo metodo in
maniera che non era accettabile per Filone, ovvero concentrandosi solamente sul livello
simbolico del testo e rifiutando totalmente il valore del significato letterale 41. Filone
critica questo tipo di atteggiamento degli studiosi della sua epoca, e in un altro luogo
delle sue opere, afferma esplicitamente che “ci sono due interpretazioni, una allegorica e
una letterale, e ambedue son degne di ammirazione”42. Ci sono invece passi del
commento allegorico in cui l’Alessandrino stesso trascura il senso letterale del testo
biblico e si concentra solo sul suo significato allegorico. Abbiamo già analizzato due di
essi (quello sulla piantagione del giardino in Eden e quello sull’ira di Dio). Infatti, in
alcuni casi particolari Filone coscientemente preferisce rimanere soltanto al livello del
senso allegorico. Questo succede soprattutto quando: 1. Il senso letterale del testo è

40
Phil., Migrat. 89-90.
41
Cfr. anche Phil., Confus. 190, dove, invece, l’Alessandrino parla di coloro che si attengono
solamente al senso letterale del testo. Nei tempi di Filone c’erano dunque diverse correnti esegetiche. R.
Radice ne enumera tre: 1. gli allegoristi estremi “che non tenevano in alcun modo conto la lettera (e di
conseguenza le prescrizioni) della Scrittura”; 2. i letteralisti “i quali si fermavano al significato letterale,
ma non escludevano pregiudizialmente quello allegorico”; 3. i tradizionalisti “che rifiutavano in toto
l’allegoresi”. La posizione di Filone sarebbe distinta da tutte le correnti sopra enumerate, ma più vicina a
quella seconda. Infatti, il metodo allegorico ha un’importanza enorme nella dottrina filoniana, esso, però,
non distrugge, secondo il nostro autore, il senso letterale della Scrittura. Cfr. R. Radice, nota 63 a De
confusione linguarum in Filone di Alessandria, Tutti i trattati…, p. 1111. Aggiungiamo ancora che
nell’opera De Vita contemplativa Filone parla anche dei Qerapeutai, che, secondo lui, possedevano una
più alta comprensione del divino appunto a causa del metodo allegorico che adoperavano. Infatti, lo
studio delle scritture era per loro una filosofia attraverso la quale erano in grado scoprire il senso nascosto
nei simboli della lettera. Cfr., Phil., Contempl. 28; 78. Sull’argomento cfr. J. Leloup, Aver cura
dell’essere. Filone e i terapeuti d’Alessandria, Roma 1994; F. Calabi, Storia…, 82-84.
42
Phil., Leg. All. I 14.
57

oscuro o irrazionale, 2. Quando a Dio vengono attribuite caratteristiche che non sono
degne di lui, 3. Quando trova passi biblici che sembrano contraddittori. Nei brani
riportati sopra (Leg. All. I 43-44 e Deus 52) tutte e due le azioni attribuite a Dio: il
piantare e l’irritarsi, non sono degne di lui. A proposito del secondo brano invece Filone
riporta anche due passi biblici che sembrano contraddittori: «Dio non è come un
uomo»43 e «Dio è come un uomo» perché «Come un uomo egli educherà suo figlio»44.
Il commentatore dunque deve scegliere quale di queste frasi esprime la verità. È ovvio
che per colui che tanto combatte contro gli antropomorfismi biblici, solo la prima
affermazione contiene la verità assolutamente sicura45, ma anche la seconda non è priva
di significato ed ha una propria finalità:

Mi sembra che alle due fondamentali affermazioni suddette, “Dio è


come un uomo” e “Dio non è come un uomo”, si debbano connettere altri due
principi conseguenti e ad esse affini: il timore e l’amore. Io vedo, infatti, che le
esortazioni alla pietà religiosa, fatte mediante le leggi, portano tutte o ad amare
o a temere colui che è. Quindi, a coloro che nel loro pensiero non attribuiscono
all’Essere né parti né passioni umane, ma, come si conviene a Dio, lo onorano
soltanto per lui stesso, la cosa più appropriata è l’amore; agli altri, invece, il
timore46.

Il passo citato è la conclusione di una lunga analisi di queste affermazioni


contraddittorie relative a Dio. All’una e all’altra infine Filone ha attribuito un significato
etico: l’amore e il timore di Dio. Da questo brano si vede che, per l’Alessandrino, ogni
affermazione della Bibbia ha il proprio significato e la propria finalità, anche se qualche
volta il livello letterale di una frase biblica non è accettabile. Dunque la critica degli
antropomorfismi contenuti nella Bibbia, come abbiamo visto sopra, è ben ripensata da
Filone, ovvero egli, servendosi del metodo allegorico, tende a ricavare dalla Scrittura
conclusioni filosofiche, ma rispetta sempre la finalità del linguaggio biblico del livello
letterale47. Il motivo di tale critica, come osserva Roberto Radice, un eminente

43
Num. 23,19. Cfr. Phil., Deus 53.
44
Deut. 8,5. Cfr. Phil., Deus 54.
45
Cfr. Phil., Deus 54.
46
Phil., Deus 69.
47
Filone molte volte e in diversi modi combatte contro gli antropomorfismi biblici e sempre
attribuisce ad essi una funzione didattica. Non è qui la sede adatta per analizzare tutti questi passi. Ne
riportiamo ancora uno solo in cui l’Alessandrino afferma che egli stesso in diverse occasioni ha ripetuto
che gli antropomorfismi hanno solamente una finalità educativa. A proposito della storia sulla torre di
Babele, Filone dice: “L’espressione: «il Signore scese a vedere la città e la torre» (Gen. 11,5) va
interpretata certamente da un punto di vista allegorico, perche il pretendere che la divinità venga o vada,
scenda o al contrario salga e in generale stia o si muova secondo i medesimi atteggiamenti e movimenti
58

commentatore delle opere filoniane, ha due facce: “L’una è rivolta verso la filosofia, in
quanto suscita problemi e soluzioni di ordine teologico (per esempio il concetto della
trascendenza divina rispetto al creato). L’altra faccia è invece rivolta verso
l’interpretazione allegorica, nella misura in cui obbliga Filone a giustificare, per via
esegetica, il linguaggio metaforico del racconto biblico. Sotto quest’ultimo aspetto si
potrebbe dire che l’allegoresi filoniana altro non sia che un processo di
deantropomorfizzazione del testo scritturistico”48.

Dopo queste considerazioni rimane ancora irrisolta la questione se il Dio di


Filone sia un Dio personale o impersonale. A questo proposito gli studiosi del pensiero
filoniano presentano diverse opinioni, spesso inconciliabili. Infatti, la dottrina di Dio
contenuta nelle opere dell’Alessandrino viene letta da costoro da due diverse
prospettive: una più filosofica, l’altra biblica49. Come abbiamo già visto, non è difficile
trovare negli scritti di Filone la stessa immagine di Dio dei filosofi, ovvero un Dio che è
un’entità astratta, un nou/j che non subisce le passioni. Ma ci sono anche passi in cui il
nostro filosofo parla di un Dio misericordioso che ascolta le preghiere e opera nella
storia della salvezza50.

Filone non ha mai definito la nozione di persona o di ipostasi. Parlare di un Dio


personale o impersonale dunque è problema degli studiosi che conoscono già le
soluzioni dei padri cappadoci o la definizione di persona di Boezio. A questo punto si
possono mostrare solamente le differenze tra il concetto del Dio dei filosofi greci e del
Dio di Filone per poter dimostrare che la descrizione filoniana è più personificante.

Cogliamo la prima e fondamentale differenza nel concetto della somiglianza tra


Dio e l’uomo. Filone commentando la frase biblica: «l’uomo fu creato a immagine e
somiglianza di Dio»51 dice che è “una giusta affermazione”. In seguito spiega i
particolari di questa somiglianza:

delle specie animali, è un’empietà che potremmo dire non sta né in cielo né in terra. Se il legislatore usa
di questi antropomorfismi per descrivere Dio, il quale non ha forma di uomo, è perché – come ho più
volte ripetuto in altre occasioni – ne tragga vantaggio la nostra educazione”. Cfr. Phil., Confus. 134-135.
48
R. Radice, nota 34 a De confusione linguarum in Filone di Alessandria, Tutti i trattati…, p.
1104-1105.
49
Cfr. V. Nikiprowetzky, Le Commentaire…, pp. 128 sgg., che riporta la bibliografia relativa a
questo argomento. Cfr. anche G. Reale, R. Radice, La genesi…, p. LXXII.
50
Cfr. Phil., Deter. 93: “Ed egli, che è buono e misericordioso (o` de. a[te avgaqo.j w'n kai. i[lewj),
non respinge i supplici, soprattutto quando essi gridano a lui senza menzogne né infingimenti, ma gemono
per quello che fanno e quello che soffrono in Egitto. Allora, Mosè dice che le loro parole salgono fino a
Dio, il quale li ascolta e li libera dai mali che li sovrastano”. Cfr. anche Phil., Confus. 103, Deus 73-75.
51
Cfr. Gen. 1,26.
59

È una giusta affermazione [quella della Gen. 1,26], perché non esiste tra
le creature nate dalla terra alcuna che assomigli a Dio più dell’uomo. Ma tale
somiglianza nessuno cerchi di immaginarla in base ai tratti del corpo, perché
Dio non ha figura umana (ou;te ga.r avnqrwpo,morfoj o` qeo.j), né il corpo umano
è strutturato a somiglianza di Dio (ou;te qeoeide.j to. avnqrw,peion sw/ma). Il
termine “immagine” (h` eivkw.n) è usato con riferimento all’intelletto, guida
dell’anima (kata. to.n th/j yuch/j h`gemo,na nou/n). Infatti è sul modello dell’unico
intelletto universale, come secondo un archetipo, che fu riprodotto l’intelletto
individuale di ogni uomo, che in certo modo è dio di chi lo porta e lo tiene
dentro di sé come un’immagine sacra. Il ruolo che la guida suprema (o` me,gaj
h`gemw.n) esercita nell’insieme dell’universo, sembra esercitarlo anche l’intelletto
umano nell’uomo. Esso infatti è invisibile, mentre vede ogni cosa, ed è fatto di
sostanza inconoscibile, mentre percepisce la sostanza delle altre cose. Con le
sue arti e le sue conoscenze apre tutte le strade in molteplici direzioni e
attraversa la terra e il mare scrutando quel che si cela in ambedue gli elementi
(ta. evn e`kate,ra| fu,sei)52.

In questo brano viene affermata chiaramente la divisione platonica della realtà,


concetto che Filone accoglie come assioma della sua teologia. Dio è proprio della realtà
intelligibile, dunque non può avere forma umana (ou;te ga.r avnqrwpo,morfoj o` qeo.j). Il
corpo dell’uomo invece è proprio della realtà sensibile, dunque non può essere di natura
divina (ou;te qeoeide.j to. avnqrw,peion sw/ma). Solo le entità intelligibili, come ad esempio
le idee o l’anima, sono qeoeidei/j, ovvero simili alla natura divina. Lo afferma Platone
stesso e con lui anche Filone in molti punti delle sue opere 53. La somiglianza, dunque,
tra Dio e l’uomo deve basarsi solo su ciò che è di natura intelligibile. Non si può invece
cercare una tale somiglianza nella forma del corpo. Infatti, in questo brano Filone parla
della somiglianza, che consiste nelle funzioni simili dell’intelletto umano e divino.

Gli studiosi invece, concentrandosi soltanto sulla prima parte di quella citazione,
concludono che “la similitudine dell’uomo con Dio è limitata all’aspetto noetico” e che
“anche in questo caso tale affinità è del tutto approssimativa”54. Indubbiamente è una
osservazione giusta, ma questo non significa che il nou/j di Filone sia uguale, nelle sue
caratteristiche, all’impersonale nou/j di Anassagora o a quello di Aristotele o all’idea del
Bene di Platone. Si devono piuttosto cercare le somiglianze tra Dio e l’uomo nelle

52
Phil., Opif. 69.
53
Cfr. Plat., Phaed. 95 C. Cfr. pure Phil., Opif. 16, Her. 65. Ebr. 70, Somn. I 113.
54
G. Reale, R. Radice, La genesi…, p. LXXIV.
60

funzioni di ciò che è proprio della natura intelligibile, ovvero nell’intelletto di ambedue
le entità.

Nella seconda parte del passo citato vediamo alcune caratteristiche del nou/j che
mostrano le differenze tra i concetti dell’Alessandrino e quelli dei filosofi suddetti.
Infatti, Filone parla della guida (h`gemw,n) dell’universo che, nell’insieme delle cose,
esercita lo stesso ruolo che l’intelletto umano esercita nell’uomo, ovvero governa e
conosce tutte le cose. Non troviamo questo concetto nei testi dei filosofi antichi. Filone
stesso ne è consapevole, perché altrove afferma che “certuni, presi d’ammirazione per il
mondo più che per il suo creatore (kospopoio,j), hanno dichiarato che il mondo è
ingenerato ed eterno (avge,nhtoj kai. avi,dioj) e hanno mosso falsamente a Dio l’empia
accusa di grande inerzia (avpraxi,a)”55. Il nou/j di Filone dunque è diverso da quello dei
filosofi antichi, come vedremo tra poco è ‘più personale’, se così si può dire. Non
solamente è un archetipo delle cose create (come le idee di Platone) e non soltanto è il
Primo Motore Immobile (come il nou/j di Aristotele), ma è la guida razionale
dell’universo56. Se comprendiamo correttamente il paragone con l’intelletto umano,
significa che Dio in qualche modo57 è principio di tutti gli eventi della storia del mondo
perché è la Guida del mondo58. Come l’intelletto umano è responsabile delle azioni
razionali dell’uomo così l’Intelletto universale è responsabile di ciò che succede nel
mondo intero.

Veramente questa metafora assomiglia un po’ a quella degli stoici59 riguardo


all’anima del mondo. In ogni caso gli stoici non consideravano trascendente né lo
pneu/ma né il lo,goj né dio che, secondo loro, era materiale e immanente al mondo. Dato

55
Phil., Opif. 7. Aggiungiamo, che l’agire (acanto all’essere) è una delle principali proprietà
dell’Assoluto di Filone. Cfr. Phil., Cher. 77; Leg. All. I 5. Cfr. anche G. Reale, Storia…, vol. 7, pp. 50-51.
56
In un certo senso il Dio di Filone assomiglia al Demiurgo del Timeo di Platone, che altresì
viene identificato non il nou/j (cfr. Plat., Tim., 39 E). Però, come vedremo nei paragrafi successivi, tra il
Nous di Filone e quello di Platone intercorrono molte differenze. Infatti, in Filone non è il Nous in
persona a creare e a governare l’universo, ma il Logos e le Potenze da lui generati. Inoltre, il Demiurgo di
Platone, mentre crea il mondo, volge il suo sguardo verso le idee che sussistono per sé; in Filone invece le
idee sono i pensieri dell’Intelletto divino. Questo ultimo trascende persino l’idea del Bene che in Platone
è evpe,keina th/j ouvsi,aj cfr. Resp. VI 509 B.
57
In quale modo il Dio di Filone è il principio degli eventi della storia e il modo in cui egli
agisce nel mondo creato lo vedremo nei paragrafi successivi.
58
In un altro passo Filone spiega che Dio non solo è la causa del movimento fisico del mondo,
ma è anche la guida, ossia il timoniere (o` kubernh,thj) di tutto, che, pur essendo della natura incorporea,
pilota tutto verso la salvezza. Cfr. Phil., Confus. 98. Nonostante in questo brano Filone ripeta ancora una
volta la frase biblica: «Dio non è come un uomo» (Num. 23,19), essa viene adoperata soltanto come un
argomento contro coloro che pensano che Dio, per guidare il mondo, abbia bisogno delle parti del corpo.
Questo, e molti altri passi, mostrano una caratteristica dell’Assoluto filoniano che lo differisce dal Dio dei
filosofi greci. Lo rende, per così dire, più personale.
59
Cfr. Diog. Laert., Vitae phil. VII, 138-139.
61

che il nou/j del quale parla l’Alessandrino è trascendente, ma nello stesso modo è la
Guida del mondo, il concetto filoniano diventa una novità nel campo della filosofia.
Esso pone ovviamente quei molti problemi che i filosofi greci avevano voluto evitare60.
Infatti, come si può conciliare l’immutabilità di Dio con il suo agire nel mondo creato e
nella storia, ovvero la trascendenza con la provvidenza divina? Cercheremo di trovare la
risposta a questa domanda nei paragrafi successivi. A questo punto vogliamo
sottolineare solamente che l’Alessandrino vuole salvaguardare il concetto di Dio
personale che si interessa ed ha cura del mondo creato. Come vediamo, il nostro
filosofo, anche se vuole parlare filosoficamente del Dio della Bibbia, non accetta
integralmente tutti i concetti dei filosofi greci. Usufruisce del concetto di trascendente,
scoperto e descritto da Platone e Aristotele, ma non può accettare l’inerzia di Dio che
costoro ammettevano. Concorda con gli stoici per quanto riguarda il divino governo del
mondo, ma non accetta il materialismo e il panteismo della scuola del Portico.

Al concetto di ‘Guida dell’universo’ sono collegate altre novità filosofiche che


introduce Filone, cioè: l’onniscienza e la volontà dell’Assoluto. Infatti, secondo
l’Alessandrino, alcuni avvenimenti della storia sono voluti da Dio e pure tutto
l’universo è stato creato dalla volontà di Dio61. Avendo creato il mondo, Dio non cessa
di crearlo e non smette di pensarlo continuamente. Egli rimane fuori del tempo ma
conosce tutti gli avvenimenti della storia che sono nel tempo62. Essendo un nou/j
trascendente non pensa solo a se stesso ma, come dice Filone, può conoscere le cose di
ambedue le nature: intelligibili e materiali63. Parlando di Dio l’Alessandrino si muove
sempre su due livelli ontologici. Se Dio è immutabile ed è fuori del tempo, logicamente
non può cambiare le sue decisioni e la sua volontà, ma, essendo Dio il creatore del
60
Aristotele ha sviluppato il concetto della trascendenza dell’Assoluto, ma ha perso
nell’orizzonte filosofico il problema del governo del mondo. Gli stoici, invece, si sono concentrati sul
concetto della provvidenza e sulle leggi che reggono il mondo, ma lo hanno fatto a costo di perdere il
concetto dell’incorporeità e della trascendenza del loro dio. Platone, nonostante parli nelle sue Leggi della
provvidenza degli dèi (cfr. Leg. 899 D – 903 A), nel Timeo – come osserva A. Pizzoli – “lo stesso
concetto di provvidenza è inteso come un preordinamento in vista di assicurare l’evoluzione futura
dell’universo. Questa provvidenza però non è in Platone la Provvidenza: non solamente essa resta
puramente impersonale, estranea completamente all’idea di misericordia o di amore come quella della
Bibbia, ma non è neppure antropocentrica […]. Il Demiurgo non crea il mondo per l’uomo, ma piuttosto
l’uomo per il mondo (Tim. 41 B-E); la sua bontà, sulla quale Platone non cessa di insistere, non è fatta di
benevolenza o di amore per le sue creature, è piuttosto «la bontà di un buon artigiano»”. A. Pizzoli,
Interpreti medioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone, Roma 2008, nota 406, p. 112. Il
Dio di Filone, invece, come vedremo più avanti, pur rimanendo sempre trascendente, in modo
sovrannaturale interviene nella storia della salvezza ed entra in rapporto personale (anzi, a volte anche
amichevole) con l’uomo.
61
Cfr. Phil., Opif. 16; Plant. 87-88.92. Sull’argomento della volontà di Dio in Filone cfr. D. T.
Runia, Philo of Alexandria and the ‘Timaeus’…, p. 444.
62
Cfr. Phil., Opif. 10-13; Deus 29-32.
63
Cfr. l’ultima frase del brano citato sopra: Phil., Opif. 69.
62

mondo temporale, può realizzare la sua volontà nel corso degli avvenimenti. Filone non
vuole ammettere che tutto ciò che succede nel mondo accada automaticamente secondo
una legge immanente ad esso, come pensavano gli stoici, perciò introduce il concetto di
“volontà di Dio”. Ma in quale modo Dio, rimanendo sempre trascendente, vuole che ci
sia qualche avvenimento nella storia e in quale modo governa il mondo corporeo è
un’altra novità della filosofia filoniana. Spiegheremo questo in una parte successiva di
questo studio.

Riassumendo si può dire che Filone introduce nell’immagine di Dio trascendente


alcune caratteristiche che rendono il nou/j dell’universo ‘più personale’ rispetto al nou/j
dei filosofi greci64. Salvaguardare l’immagine personale di Dio, ovvero il Dio della
Bibbia, è appunto il motivo per cui il nostro autore polemizza con i concetti elaborati da
diverse scuole filosofiche dell’antichità. Ma nello stesso tempo vuole rimanere sempre
nell’ambito della filosofia greca e parlare filosoficamente del Dio della Bibbia. Per
questo propone soluzioni teoretiche nuove, finora sconosciute in campo filosofico.
Distingue bene due livelli ontologici: quello atemporale e trascendente da quello
immanente al mondo materiale che è nel tempo. Il Dio di Filone essendo fuori del
tempo non è inerte, ma è una attività pensante. Non solamente pensa se stesso, ma pensa
il mondo e in esso agisce. Il mondo non è ingenerato, ma creato e Dio è il suo creatore
(kosmopoio,j) e la sua guida (h`gemw,n). Egli ha voluto creare il mondo e interviene nel
corso dei suoi avvenimenti. Ecco le novità introdotte da Filone nell’ambito della
filosofia greca. Finora i filosofi greci come oggetto della filosofia avevano considerato
solamente le forme (o le entità) universali e atemporali, di conseguenza ciò che era
singolare e storico non poteva essere oggetto di una scienza vera e sicura. Ora invece
Filone introduce il concetto di storia nell’ambito della riflessione filosofica. Il metodo
allegorico lo aiuta a raggiungere lo scopo della sua opera, così importante per la storia
della filosofia e della teologia.

64
Oltre gli argomenti che abbiamo presentato sopra J. Dillon osserva che anche la nozione stoica
dell’avpa,qeia, che l’Alessandrino attribuisce a Dio, è altresì un argomento che conferma il carattere
personale dell’Assoluto filoniano. Infatti gli stoici adoperavano questo concetto solo nel contesto
antropologico e non nei confronti di Dio. Filone invece, criticando gli antropomorfismi biblici che
attribuiscono a Dio le passioni irrazionali dell’anima, molte volte parla appunto dell’avpa,qeia di Dio.
Secondo lo studioso americano dunque questa dottrina stoica adoperata nel contesto non-stoico
suggerisce personalità di Dio descritto dall’Alessandrino. Cfr. J. Dillon, The Nature of God in the ‘Quod
Deus’, in Two Treatises of Philo…, pp. 223-226. Cfr. anche Phil., Leg. All. II 100-102; III 129-131; Abr.
202-204; Spec. Leg. II 54-55, dove l’Alessandrino parla dell’avpa,qeia di uno dei personaggi biblici
(Giacobbe, Mosè, Sara etc.) che sono divenuti partecipi della felicità perfetta appunto a causa
dell’avpa,qeia della loro anima. La felicità di Dio, a sua volta, è dovuta anche allo stato di assoluta
impassibilità. Vediamo dunque che altresì il concetto dell’avpa,qeia è quello che indica la somiglianza che
intercorre tra l’uomo e Dio.
63

1.2. La trascendenza ontologica di Dio

Dopo aver parlato in maniera generica delle premesse filosofiche e


metodologiche di Filone, vediamo ora da vicino quale sia secondo il nostro filosofo la
natura divina e in che consista la trascendenza di Dio rispetto al creato. Sappiamo già
che l’Alessandrino, al modo platonico, distingue due livelli di realtà: quello intelligibile
(nohto,j) e quello sensibile (aivsqhto,j). Dio è di natura intelligibile e il mondo di natura
sensibile. Dio non muta, mentre il mondo è nel processo del divenire. Ma come si
possono conciliare queste premesse platoniche con il concetto della creazione del
mondo che è un atto della volontà di Dio? Proprio nel Commento alla creazione del
mondo troviamo le più ampie spiegazioni di Filone riguardo la natura e la trascendenza
ontologica di Dio. Cominciando il suo trattato con la polemica con i filosofi che “hanno
mosso falsamente a Dio l’empia accusa di grande inerzia”65, Filone espone
l’insegnamento della legge mosaica secondo il quale Dio sarebbe una causa attiva:

Mosè invece, e per aver raggiunto le più alte vette della filosofia e
perché aveva appreso per tramiti sovrannaturali gran parte dei principi
essenziali della natura, acquisì appunto coscienza del fatto che nell’ordine
dell’universo esiste una causa attiva (to. me.n ei=nai drasth,rion ai;tion) e una
causa passiva (to. de. paqhto,n), e che la causa attiva è l’intelletto universale (o`
tw/n o[lwn nou/j), perfettamente puro (ei`likrine,statoj) e incontaminato
(avkraifne,statoj), che trascende la virtù, che trascende il sapere, che trascende
persino il bene e il bello (krei,ttwn h' auvto. to. avgaqo.n kai. auvto. to. kalo,n);
mentre la causa passiva è di per sé priva di anima e incapace di movimento; ma
una volta messa in movimento, foggiata e animata dall’intelletto, è trasformata
nel capolavoro che è questo mondo. I sostenitori della teoria che questo mondo
è ingenerato non si accorgono di eliminare alla radice l’elemento più utile e
indispensabile ad alimentare la pietà, ossia la provvidenza (pro,noia). La ragione
infatti ci induce a credere che il padre e creatore (dhmiourgo.j) si prenda cura di
ciò che ha portato a nascimento. Così il padre vigila sulla preservazione dei
figli, l’artigiano su quella dei suoi manufatti e ambedue cercano di tener lontano
con ogni mezzo quanto può esser loro di pregiudizio o di danno e desiderano
invece di assicurare loro ad ogni costo quanto può risultare utile e vantaggioso.

65
Ne abbiamo parlato sopra. Cfr. il paragrafo precedente.
64

Nessun legame del genere si instaura, all’opposto, tra un oggetto che non è stato
portato all’esistenza e un soggetto che non lo ha prodotto66.

Secondo Filone, i filosofi greci non hanno ben elaborato il problema filosofico
della provvidenza divina. Gli uni, infatti, sostenevano che Dio fosse una legge
dell’universo, ma lo hanno concepito come una causa impersonale, corporea ed
immanente al mondo, gli altri, invece, hanno considerato Dio come trascendente
attribuendogli l’inerzia. Un Dio pensato in questo modo non sapeva niente del corso
degli avvenimenti oppure, anche qualora sapesse dell’esistenza del mondo, non vi
interveniva67. Non c’è bisogno di dimostrare ampiamente come il concetto della
provvidenza sia per Filone un tema di grande importanza. Infatti, il Dio della Bibbia
vigila su Israele suo popolo, e sulla storia della salvezza. Secondo l’Alessandrino
dunque è un’empietà pensare che Dio non si prenda cura del mondo. Ma non è
nemmeno giusto pensare che il mondo sia governato automaticamente da una causa
corporea ed immanente ad esso. La soluzione dell’aporia antica, come abbiamo potuto
leggere nel brano sopraccitato, viene data nel concetto della creazione del mondo. Solo
se si sostiene un Dio creatore si può riflettere in maniera razionale sul problema della
provvidenza68. Non si potrebbe, invece, parlare di qualsiasi relazione tra Dio e il mondo
– ragiona Filone – se non vi fosse stata la creazione. Infatti non c’è nessun legame tra
“un oggetto che non è stato portato all’esistenza e un soggetto che non lo ha prodotto”69.
La creazione del mondo (compresa come un atto della volontà di Dio) diventa dunque
un assioma indispensabile per poter parlare sulla provvidenza.

66
Phil., Opif. 8-11.
67
Oltre a ciò, nell’epoca di Filone c’erano due scuole filosofiche, ovvero quella degli stoici e
quella dei peripatetici, che presentavano le opinioni totalmente opposte riguardo al problema della
provvidenza. L’Alessandrino doveva conoscere il dibattito filosofico relativo a questo argomento e prese
in esso la posizione di mezzo, ovvero tra il determinismo e la libertà assoluta. Cfr. M. Hose, Philon und
die hellenistische Philosophie, in Die philosophische Aktualität der jüdischen Tradition, a cura di W.
Stegmaier, Frankfurt am Main 2000, pp. 113-132.
68
Sull’argomento della provvidenza che in Filone viene strettamente legato al concetto della
creazione del mondo cfr. R. Radice, Commentario…, pp. 234 sgg.; D. T. Runia, Philo of Alexandria and
the ‘Timaeus’…, pp. 100 sgg. Ambedue gli studiosi sottolineano l’originalità di una tale soluzione. Inoltre
R. Radice presenta un’ampia bibliografia relativa a questo argomento.
69
L’argomento espresso nel brano citato sopra doveva essere importante per Filone nella sua
polemica con i concetti contenuti nella filosofia greca. Infatti la stessa idea viene ripresa
dall’Alessandrino in un altro passo: “È chiaro, dunque, che il genitore deve avere esatta conoscenza dei
suoi figli, l’artigiano deve averla dei suoi prodotti, e l’amministratore di ciò che è da lui amministrato. E
Dio è, in verità, Padre, Artigiano, Amministratore di tutto ciò che esiste nel cielo e nel mondo”. Cfr Deus
30.
65

Nel campo della filosofia antica sono stati gli stoici a salvaguardare il concetto
della provvidenza70 e sono stati essi a parlare della causa attiva e di quella passiva71.
Filone ne è consapevole e per parlare filosoficamente del concetto di provvidenza,
utilizza questi due termini del vocabolario della scuola del Portico. Secondo gli stoici
però la causa attiva, ovvero il logos, era immanente al mondo e come tutto l’universo
era corporeo. È proprio per questo che l’Alessandrino preferisce definire la ‘sua’ causa
attiva come nou/j e non come lo,goj. Infatti il secondo termine aveva già troppe
connotazioni corporee, il primo invece nella storia della filosofia veniva adoperato
soprattutto nel contesto della trascendenza72. In seguito, per mostrare che la sua scelta
terminologica non è accidentale, Filone aggiunge due aggettivi nel grado superlativo:
ei`likrine,statoj e avkraifne,statoj73. Ambedue sottolineano maggiormente la natura
trascendente del nou/j. La causa filoniana, dunque, non è mescolata con la realtà
corporea74. È distinta da essa. È semplice nel sommo grado. E ancora, per sottolineare
che il Nous è di natura incorporea, Filone aggiunge altre precisazioni che si riferiscono
alle realtà intelligibili cioè: avreth, ed evpisth,mh. Ma forse, dato che la virtù e il sapere,
anche qualora venissero considerate le entità intelligibili, sono le qualità che
appartengono all’uomo, ovvero all’essere creato e composto del corpo e dell’anima75,
l’Alessandrino dice che il Nous è ancora un qualcosa di superiore o di più perfetto della
virtù stessa76 o del sapere stesso.

70
Cfr. Diog. Laert., Vitae phil. VII, 138-139. Secondo Diogene molti stoici hanno parlato sulla
provvidenza. Crisippo, uno dei primi maestri della scuola del Portico, ha scritto anche un libro Peri.
pronoi,aj (Sulla provvidenza). La parola: pro,noia viene adoperata anche da Filone nel testo citato sopra.
71
Cfr. Diog. Laert., Vitae phil. VII, 134 (SVF I 493).
72
Abbiamo parlato su questo tema nel capitolo introduttivo: Una breve storia della trascendenza
nella filosofia antica. In realtà, già Anassagora aveva detto che il Nous non è mescolato con nessuna delle
cose del mondo. Poi in Platone e in Aristotele troviamo la vera e propria descrizione del Nous
trascendente rispetto al mondo.
73
Questi aggettivi sono quasi sinonimi ed hanno il comune significato di non mescolato, puro,
intatto. Nella composizione del primo aggettivo vediamo la radice del verbo kri,nw che significa separare
o distinguere. La parola ei`likrine,statoj può descrivere dunque una entità distinta assolutamente da
un’altra realtà, non mescolata con essa. L’uso di questi aggettivi è dovuto sicuramente alla polemica con i
concetti degli stoici secondo i quali la causa attiva non era separata dal mondo.
74
Infatti, come osserva in un altro luogo la Causa dell’universo è al di sopra del luogo e al di là
del tempo (u`pera,nw kai. to,pou kai. cro,nou). Cfr. Phil., Poster. 14.
75
Oppure forse perché anche gli stoici davano un’importanza enorme alle virtù.
76
Dio trascende le virtù anche perché, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, non
possiede le passioni. E la virtù è appunto qualcosa che si contrappone alle passioni irrazionali dell’anima.
Cfr. Phil., Deus 52. Notiamo che nello stesso modo spiega questo concetto il filosofo medioplatonico
Alkinoos. Infatti, afferma: “[Dio] non possiede virtù, ma è migliore di essa” (ouvk avreth.n e;cei( avmei,nwn dV
evsti. tau,thj). Alcin., Did. XXVIII 3. La fonte di questa dottrina medioplatonica possiamo trovare in uno
scritto Magna moralia, 1200 B 13-14: “La virtù non è propria di Dio: Dio infatti è superiore alla virtù” (
ouvk e;stin qeou/ avreth,\ o` ga.r qeo.j belti,wn th/j avreth/j). Cfr. S. Lilla, Introduzione al Medio
platonismo…, p. 39. Aggiungiamo che nell’antichità i Magna moralia erano considerati come una delle
opere etiche di Aristotele (cfr. Euseb., Praep. Ev. XV 4,9), oggi, invece, come ammesso dalla maggior
66

Quasi che queste precisazioni non bastassero per eliminare qualsiasi legame con
il contesto del corporeo, Filone si rivolge ancora ad un altro concetto – questa volta
platonico – che indica una realtà assolutamente trascendente, ovvero: all’idea del Bene e
del Bello. È stato proprio Platone a scoprire la realtà incorporea e trascendente. L’idea
del Bene è stata descritta da lui come quella che esiste al di là dell’essere (evpe,keina th/j
ouvsi,aj)77. Ma Filone dice che il Nous del quale sta parlando è ancora un qualcosa di
superiore (o di più bello, o di più trascendente) dell’idea del Bene e del Bello78.

Il traduttore del brano citato, C. Kraus Reggiani, ha preferito tradurre


l’espressione: krei,ttwn h' (in tutti i casi riportati sopra) come: che trascende (un
qualcosa). Il comparativo krei,ttwn, oltre il significato generico: migliore o superiore,
significa piuttosto: più forte, o più potente79. Se invece consideriamo il fatto che in
questo passo Filone combatte contro la corporeità dell’Assoluto, in tutti questi casi,
dove il Nous è descritto come krei,ttwn h' è ammissibile caricare questa espressione del
significato di più trascendente. Il Nous, dunque, è più trascendente delle entità divine
delle quali mai hanno parlato sia gli stoici, come Platone o Aristotele80.

Ma se l’idea del Bene, descritta da Platone, è al di là dell’essere, che cosa può


esservi ancora di più trascendente? In che senso, dunque, il Nous di Filone è più
trascendente delle idee che sono incorporee, immobili, immutabili, eterne e che
sussistono di per sé81? Probabilmente in questo caso Filone vuole dire che il ‘suo’
Assoluto è superiore (krei,ttwn) dell’idea del Bene in un altro senso? Infatti, può darsi

parte degli studiosi, lo scritto è considerato come un riassunto post-aristotelico dell’etica aristotelica. Cfr.
C. J. De Vogel, Greek Philosophy, vol. II: Aristotle, the Early Peripatetic School and the Early Academy,
Leiden 1953, pp. 133-134; P. Moraux, L’aristotelismo presso i Greci, vol I: La rinascita
dell’aristotelismo nel I secolo a.C., Milano 2000, pp. 275-276. Possiamo dunque concludere dicendo che
per quanto riguarda la dottrina della superiorità di Dio rispetto alla virtù Filone si ispira alla filosofia
peripatetica.
77
Cfr. Plat., Resp. VI 509 B.
78
Riferendosi Filone all’idea del Bene e del Bello non adopera veramente il termine ivde,a né
ei=doj, quando dice che il Nous è krei,ttwn h' auvto. to. avgaqo.n kai. auvto. to. kalo,n, comunque Platone
stesso utilizza espressioni uguali quando parla sulle idee, cioè si serve del neutro del aggettivo (in questo
caso: kalo,j o avgaqo,j) precedendolo con il pronome auvto,j con l’articolo determinativo. Cfr. Plat., Symp.
211 D-E, Phaed. 100 C, Resp. 534 B-C.
79
Infatti krei,ttwn è il grado comparativo dell’aggettivo avgaqo,j che usa per il comparativo e il
superlativo forme derivante da molteplici temi che esprimono diverse sfumature o diversi modi di essere
migliore di qualcosa. Nel nostro caso la parola krei,ttwn significa genericamente: migliore o superiore,
ma in particolare: più forte o più potente in quanto proviene da kratu,j (= forte, potente). Cfr. F.
Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino 2004, p. 1195.
80
In un altro passo Filone dice che Dio “è più trascendente del Bene, più anziano della Monade,
più semplice dell’Uno (avgaqou/ krei/tton kai. mona,doj presbu,teron kai. e`no.j ei`likrine,steron)”. Phil.,
Praem. 40. Una simile espressione si trova anche nei passi del Contempl. 2 e del Legat. 5.
81
Per le caratteristiche delle idee platoniche cfr. Plat., Phaed. 65 C – 66 A; 75 C – D; 78 D – 79
A; Symp. 210 E – 211 B; Phaedr. 247 C – E; Resp. 485 A – B; Crat. 385 E – 386 E; 439 B – 440 A;
Polit. 286 A.
67

che il Nous sia krei,ttwn, nel senso di più potente, dell’idea del Bene, perché ha in sé la
Potenza creatrice che l’idea platonica non possiede. In realtà, in Platone essa è
l’archetipo dell’armonia, della bellezza e della bontà presente nell’universo. Tutte le
cose ne partecipano, però, è il Demiurgo del Timeo a ordinare il mondo secondo il
modello incorporeo e immobile82. Invero, egli volge il suo sguardo verso le idee e
costruisce un’immagine corporea e visibile dell’archetipo intelligibile che sta
contemplando. Le idee sono al di là di lui. Non sono esse ad essere la causa efficiente
del mondo83. Il Nous di Filone invece è una causa attiva che agisce e crea il mondo. In
quanto tale assomiglia piuttosto al Demiurgo di Platone84 che alle idee. Il Dio filoniano,
però, non segue idee che sussistono al di fuori di lui, ma idee che sono proprio in lui:
nella sua mente. Infatti, secondo l’Alessandrino, non esiste un’entità più trascendente
del Nous dell’universo. Non c’è nulla che egli debba guardare o seguire nell’atto della
creazione – tranne i suoi pensieri. Di Dio non si può pensare nulla di più grande o di più
potente o di più trascendente. L’Assoluto di Filone dunque è krei,ttwn (nel senso che è
più trascendente) dell’idea del Bene, e del resto di tutte le idee platoniche, perché –
come vedremo tra poco – esse dipendono ontologicamente da lui: il Nous le genera e le

82
Cfr. Tim. 29 A.
83
A questo punto occorre ricordare ciò che abbiamo già detto nel capitolo introduttivo (Una
breve storia della trascendenza nella filosofia antica), e cioè che alcuni studiosi moderni identificano il
Demiurgo - nou/j del Timeo (39 E), detto anche “la migliore delle cause” (o` a;ristoj tw/n aivti,wn, Tim. 29
A) e “il migliore degli esseri intelligibili” (tw/n nohtw/n avei, te o;ntwn u`po. tou/ avri,stou, Tim. 37A) con
l’aivti,a del Filebo (27 B; 30 C) e con l’idea del Bene che è evpe,keina th/j ouvsi,aj (Resp. VI 509 A-B). Cfr.
G. Müller, Studien zu den platonischen Nomoi, München 1951, pp. 81-82; S. Lilla, Clement of
Alexandria…, nota 3, p. 115; K. Gaiser, La dottrina non scritta di Platone. Studi sulla fondazione
sistematica e storica delle scienze nella scuola platonica, Milano 1994, pp. 181-210; S. Lavecchia,
Pelago di fango o divina icona?, in La sapienza di Timeo. Riflessioni al margine del «Timeo» di Platone,
a cura di L. M. Napolitano Valditara, Milano 2007, pp. 209-212. Altri studiosi, all’opposto, escludono
l’identificazione del Demiurgo con le idee (o la Idea). Cfr. A. E. Taylor, Platone, Firenze 1968, pp. 683
sgg., G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano 201022, pp. 693 sgg.; H. Krämer,
L’interpretazione di Platone della Scuola di Tubinga e della Scuola di Milano. A proposito della decima
edizione del libro di Giovanni Reale su Platone, RFN 84 (1992), pp. 203-218; J. Halfwassen, Der
Demiurg: seine Stellung in der Philosophie Platons und seine Deutung im antiken Platonismus, in Le
«Time» de Platon. Contributions à l’histoire de sa réception, a cura di A. Neschke Hentschke, Louvain –
Paris 2000, pp. 39-62.
Concordiamo, come anche risulta da ciò che abbiamo detto sopra, con la seconda interpretazione
del pensiero platonico. Grazie a essa, come spiegano gli studiosi citati nel capitolo precedente, possono
essere evitate diverse aporie che la prima interpretazione non è in grado di risolvere. In effetti, il
Demiurgo distinto dalle idee spiega la maniera in cui si effettua la partecipazione del mondo corporeo a
quello intelligibile, ma anche il perché il mondo corporeo sia il mondo del divenire. In ogni modo,
qualora Platone avesse identificato il Demiurgo con l’idea del Bene – anche se non lo fa mai in modo
esplicito – ciò non contraddirebbe la nostra interpretazione del pensiero filoniano. In realtà, secondo
l’Alessandrino il Nous è al di là dell’idea del Bene e a maggior ragione al di là del Nous-Demiurgo di
Platone. Inoltre, come vedremo più avanti, il Nous filoniano trascende anche le potenze (tra cui c’è quella
creatrice). Esse, infatti, non possiedono l’autonomia ontologica, ma sono generate dall’Intelletto divino in
funzione della creazione e del governo del mondo.
84
È da notare che nel brano che stiamo analizzando Filone adopera la parola dhmiourgo,j e non
kospopoio,j del frammento che abbiamo riportato prima. Cfr. Phil., Opif. 7.
68

abbraccia tutte insieme. Le idee, infatti, sono solo il prodotto della sua attività pensante.
Ma si può aggiungere anche che egli è krei,ttwn altresì del Nous aristotelico perché,
essendo l’attività pensante, non è solamente il Primo Motore Immobile, ma conosce e si
prende cura di ciò che ha portato a nascimento, pur rimanendo sempre trascendente85.

Nel passo sopra citato osserviamo, dunque, un interessante collegamento dei


concetti biblici, platonici e quelli stoici. Filone identifica la causa attiva degli stoici con
il Nous platonico-aristotelico. Dice che questa entità è più trascendente dell’idea più
trascendente della quale Platone abbia mai parlato. Infine conclude che il Nous descritto
in questo modo è il creatore (dhmiourgo.j) del mondo che deve essere premesso come
assioma nel discorso inattaccabile sulla provvidenza divina.

A questo punto bisogna sottolineare ancora l’originalità del pensiero di Filone


che poi verrà seguito da Clemente, Origene e da molti altri Padri della Chiesa. Si tratta
dell’identificazione delle idee platoniche con l’Intelletto dell’universo. Infatti, come
abbiamo già accennato, Platone non identifica esplicitamente il Demiurgo, che è la
causa efficiente del mondo, con l’idea del Bene, o con le idee in genere, ovvero con la
causa formale del mondo. Egli dice veramente che il Demiurgo è buono (avgaqo,j), o anzi
che è ottimo (a;ristoj)86, lo identifica anche con il Nous che governa l’universo intero87,

85
Anche B. Mondin osserva giustamente che nel mondo filosofico nessuno prima di Filone ha
costruito un concetto della trascendenza divina così forte come quello dell’Alessandrino. “Platone, pur
proclamando la trascendenza del mondo intelligibile rispetto a quello sensibile, non era riuscito a chiarire
i rapporti di Dio con il modo intelligibile e, per tanto aveva lasciato insoluto il problema della
trascendenza di Dio rispetto al mondo delle idee. Aristotele, invece, non aveva dubbi sulla trascendenza
di Dio, ma la sua è una trascendenza che pare ristretta alla sfera ontologica; in quella epistemologica e
semantica sembra che egli non metta limiti alla capacità umana di conoscere con verità la natura divina e
di definirla. Secondo gli stoici, infine, tutto il mondo è divino e, perciò, l’uomo può trovarvi gli elementi
per definire Dio […]. È merito di Filone d’avere dato alla trascendenza divina, che nella filosofia greca
aveva solo un valore relativo, un valore assoluto: Dio è posto al di sopra di qualsiasi realtà, comprese le
Idee e il Logos”. Cfr. B. Mondin, Esistenza, natura, inconoscibilità e ineffabilità di Dio nel pensiero di
Filone Alessandrino, ScC 5 (1967), pp. 434-435. Anche G. Reale sottolinea che Filone nella storia della
filosofia greca non soltanto ricuperò la dimensione dell’incorporeo, ma anche “alla visione
«immanentistica» contrappose una concezione «trascendentistica», addirittura più avanzata rispetto a tutte
quelle che la Grecia aveva fino allora conosciuto”. Cfr. G. Reale, Storia…, vol. 7, p. 10.
Il Festugière, invece, osserva che in Filone Dio è considerato non solo come più trascendente
rispetto alla Monade, ma a volte viene identificato con la Monade. Cfr. Phil., Her. 183; 216; Spec. Leg. II
176; Agr. 54. Secondo lo studioso francese, tale polivalenza della nozione di ciò che è monadico troviamo
già nei testi dei neopitagorici, anteriori a Filone: “Ainsi Dieu, chez Philon, est dit tantôt supérieur tantôt
identique à la monade. C’est donc que nous avons affaire à une double notion de la monade. Dieu et la
monade sont identiques quand il s’agit de la monade transcendante, constituée dans sa mo,nwsij, mise à
part des autres nombres. Dieu est supérieur à la monade quand il s’agit de l’unité en tant que premier des
nombres. Or cette doctrine d’une double monade est néopythagoricienne et antérieure à Philon”. R. P.
Festugière, La révélation d’Hermès Trismégiste, vol. IV: Le Dieu inconnu et la gnose, Paris 1954, p. 21.
86
Cfr. Plat., Tim. 29 E – 30 A.
87
Cfr. Plat., Tim. 39 E.
69

comunque le idee nel mito raccontato in Timeo sono sempre ben distinte da lui88.
L’universo intelligibile (ko,smoj nohto,j) esiste al di là dell’artefice (dhmiourgo,j) del
mondo89. In Filone invece il Nous per la sua attività pensante diventa ko,smoj nohto,j, e il
ko,smoj nohto,j a sua volta diventa dhmiourgo,j, ovvero la causa formale ed efficiente del
mondo creato.

Adesso vediamo più da vicino in che modo Filone identifica queste due realtà
che in Platone erano distinte. Il nostro filosofo parte dall’analisi del testo della Genesi.
Come un buon esegeta, osserva che esso contiene due affermazioni relative alla
creazione del cielo e della terra: quella del Gen. 1,1 che si riferisce all’opera del giorno
‘uno’ e quella che segue il Gen. 1,6. La redazione greca della Bibbia, detta dei Settanta
(LXX), della quale si serve Filone90, traduce il versetto del Gen. 1,2 in modo seguente:
h` de. gh/ h=n avo,ratoj kai. avkataskeu,astoj (la terra era invisibile e informe). La parola
avo,ratoj (invisibile) induce Filone alla conclusione che la prima frase della Bibbia: evn
avrch/| evpoi,hsen o` qeo.j to.n ouvrano.n kai. th.n gh/n, contenga un’idea della creazione del
mondo intelligibile (ko,smoj nohto,j) che appunto è invisibile91. Solo il testo che segue il
Gen. 1,6 racconterebbe della creazione del mondo visibile (ko,smoj aivsqhto,j)92. Secondo
queste premesse l’Alessandrino fa dunque una dettagliata esegesi allegorica dei sette
giorni dell’opera della creazione. Se all’inizio, come dice il testo dei LXX, la terra era
avo,ratoj kai. avkataskeu,astoj, la prima fase della creazione dovrà consistere nel formarsi
di questo mondo invisibile93. Per spiegare questo concetto Filone si serve delle analogie
presenti nelle cose del mondo creato:

88
Cfr. Plat., Tim. 28 A – 29 B.
89
Oppure, come vogliono alcuni interpreti del pensiero di Platone, il Nous fa parte del mondo
intelligibile e si identifica con l’aspetto dinamico dell’idea del Bene. Però, nessun testo platonico afferma
che egli abbia generato le idee. Cfr. la discussione degli studiosi riportata sopra.
90
Filone è convinto che la traduzione della Bibbia ebraica in lingua greca sia perfetta, ovvero
che gli interpreti siano stati studiosi celebri e che, oltre la buonissima conoscenza di ambedue le lingue,
nel loro lavoro di traduzione siano stati assistiti da Dio. Tutti costoro non hanno sbagliato in nessuna
frase, anzi in nessuna parola tradotta. L’Alessandrino è consapevole del fatto delle differenze di
significato che intercorrono tra i concetti e i termini utilizzati dagli ebrei e dai greci e che lo stesso
concetto si può rendere in molti modi, insomma sa che ogni traduzione non può essere mai precisa e
perfetta. Sottolinea però: “Non avvenne così nel caso di questa nostra legge, ma i termini propri greci
avevano perfetta corrispondenza con quelli caldei e erano appropriati al significato. Allo stesso modo in
cui, ritengo, in dialettica e geometria i significati non ammettono varietà d’interpretazioni, ma restano
invariati nella loro formulazione iniziale, così costoro trovarono dei nomi che concordavano con le cose, i
quali solamente – o meglio di altri – rendevano con chiarezza il concetto espresso”. Cfr. Phil., Mos. II 38-
39.
91
Cfr. Phil., Opif. 29.
92
Cfr. Phil., Opif. 36 sgg.
93
Secondo Filone non solo la parola avo,ratoj conferma il concetto della creazione doppia (cioè
quella incorporea e quella corporea). Infatti, nel versetto di Gen. 1,6 il nostro autore trova un altro
70

Perché Dio, essendo Dio, sapeva per anticipata conoscenza che una
bella imitazione (mi,mhma kalo.n) non sarebbe mai potuta esistere senza un bel
modello (di,ca kalou/ paradei,gmatoj) e che nessuna delle cose sensibili (ouvde, ti
tw/n aivsqhtw/n) sarebbe risultata immune da difetti, se non fosse stata modellata
a immagine e somiglianza di un archetipo percepibile solo con l’intelletto. Così,
quando volle creare (dhmiourgh/sai) questo nostro mondo visibile (to.n o`rato.n
ko,smon), foggiò prima il mondo intelligibile (proexetu,pou to.n nohto,n) per poter
disporre di un modello incorporeo e in tutto simile al divino (avswma,tw| kai.
qeoeidesta,tw| paradei,gmati), ai fini di creare il mondo materiale (to.n
swmatiko.n), una replica più recente di un mondo più antico, destinata a
contenere in sé altrettante specie sensibili quante nel primo erano le intelligibili.
È illegittimo dire o supporre che il mondo costituito di idee (to.n evk tw/n ivdew/n
sunestw/ta ko,smon) esista in qualche luogo. In quale maniera esso sia
organizzato, lo ricaveremo dall’attenta osservazione di certe analogie con esso,
presenti nelle cose del nostro mondo. Quando si fonda una città […], capita a
volte che si presenti un architetto provvisto di una specifica formazione, il quale
– presa visione dei vantaggi offerti dal clima e dalla posizione del luogo – in un
primo momento abbozza nella propria mente un piano di quasi tutte le parti che
dovranno costruire la futura città […]. Qualche cosa di analogo si deve appunto
pensare riguardo a Dio e supporre che, quando concepì il disegno di fondare “la
grande città”, in una prima fase ne strutturò nella propria mente (evneno,hse) i
modelli secondo cui sarebbe stata creata, componendo i quali portò a
compimento prima il modello intelligibile (ko,smon nohto.n susthsa,menoj) e poi,
servendosi di esso come prototipo, quello sensibile (to.n aivsqhto.n)94.

argomento che comprova la sua teoria. In esso leggiamo: “Dio disse: «Vi sia un firmamento in mezzo alle
acque che tenga separate le acque dalle acque». E avvenne così”. La parola stere,wma, oltre che
firmamento significa anche corpo solido. Lo nota subito l’Alessandrino e dice che “il corpo è solido per
natura, in considerazione del fatto che ha tre dimensioni” (Opif. 36.). Inoltre osserva anche che nel Gen.
1,8 questo stere,wma viene chiamato da Dio cielo (kai. evka,lesen o` qeo.j to. stere,wma ouvrano,n). Queste
affermazioni bibliche dunque e il loro ordine nel racconto della creazione, conducono il nostro filosofo
alla conclusione che il secondo cielo, chiamato giustamente stere,wma, era corporeo. Esso è stato creato
dopo la creazione del primo cielo che era incorporeo.
A questo punto, occorre osservare che nel De opificio mundi troviamo ancora un altro schema
dell’esegesi dei sette giorni della creazione. Infatti, quando Filone giunge il passo di Gen. 2,4, ovvero il
punto in cui comincia il secondo racconto della creazione, afferma che tutto il primo racconto riguardava
la creazione del mondo intelligibile. Cfr. Phil., Opif. 129-130. Solo l’uomo plasmato dal fango (cfr. Gen.
2,7) è visibile, quello del primo racconto, invece, era invisibile: era un’idea. Cfr. Phil., Opif. 134. La
presenza di queste due contraddittorie tradizioni esegetiche mostra, secondo alcuni studiosi, che una o
anzi ambedue provengono da una prassi esegetica precedente. Cfr. V. Nikiprowetzky, Problèmes du ‘récit
de la création’ chez Philon d’Alexandrie, in Id., Études philoniennes, Paris 1996, pp. 45-78; D. T. Runia,
Commentary…, pp. 309-311; G. E. Sterling, ‘Day ne’: Platonizing Exegetical Traditions of Genesis
1:1-5 in John and Jewish Authors, SPhA 17 (2005), pp. 130-131
94
Phil., Opif. 16-19.
71

Il ragionamento svolto in questo testo prosegue con i seguenti passaggi


argomentativi:

1. Il nostro mondo visibile (o`rato,j) è un’imitazione (mi,mhma) del mondo


invisibile (avo,ratoj).
2. Una bella imitazione (mi,mhma) non può esistere senza un bel modello
(para,deigma).
3. La premessa platonica implicita: solamente le cose intelligibili (ta.
nohta,) sono belle di per sé, le cose sensibili (ta. aivsqhta,) non sono belle
di per sé. Esse, se sono belle, sono belle per le realtà intelligibili95.
4. Il nostro mondo visibile è bello – dunque doveva essere creato a
immagine di un modello intelligibile bello.
5. La premessa biblica: Dio volle creare e creò il mondo che è bello.
6. Se il mondo creato è bello e se esso è un’imitazione del mondo
intelligibile, dunque prima di creare il mondo visibile Dio ha dovuto
modellare il mondo intelligibile.
7. Il mondo intelligibile è un prodotto dell’attività pensante di Dio. Esso
dunque non esiste in alcun altro luogo (to,poj) se non nella mente divina.
Lo spiega chiaramente la metafora dell’architetto.
8. Anche il mondo intelligibile, composto delle idee incorporee, è di natura
divina (qeoeidh,j).
9. Il mondo corporeo contiene in sé altrettante specie sensibili quante in
quello incorporeo erano le intelligibili.

La struttura del ragionamento svolto da Filone nei suoi passaggi consecutivi


corrisponde a quello fatto da Platone nel racconto sul Demiurgo esposto nel Timeo96.
Veramente Filone parte dal testo biblico, ma esso è soltanto lo spunto per un’ampia
esposizione dei concetti platonici che non troviamo nelle Scritture. Molti sono ritenuti
dal nostro autore come assiomi indiscutibili ed ovvi. Infatti, le premesse bibliche sono
che Dio voglia creare il mondo e che esso sia una cosa bella 97, mentre l’essere
un’imitazione di un altro mondo invisibile, e che non esista una bella imitazione
sensibile senza un bel modello intelligibile, sono premesse platoniche. Va notato,

95
Cfr. Plat., Phaed. 99 B – 100 E.
96
Cfr. Plat., Tim. 27 D – 31 B.
97
Il racconto biblico infatti come un ritornello ripete molte volte che quello che è stato creato era
buono (kai. ei=den o` qeo.j o[ti kalo,n). Cfr. Gen. 1,1-1,31.
72

inoltre, che il vocabolario del testo citato appare più platonico che biblico98. L’unico
concetto platonico con il quale Filone polemizza è quello che riguarda il luogo (to,poj)
delle idee. Sicuramente neanche Platone ha collocato le idee in qualche luogo fisico,
Filone però precisa questo luogo in maniera molto dettagliata. Lo possiamo ricavare
dalla metafora dell’architetto da cui risulta che le idee altro non sono se non il prodotto
dell’attività pensante di Dio99.

In questa metafora Filone sottolinea la creatività dell’architetto che riflette sulle


diverse possibilità del piano della città – per esempio prende in considerazione “i
vantaggi offerti dal clima e dalla posizione” del luogo. Nel suo ragionamento, dunque,
l’architetto è libero e creativo. Non dipende dai piani delle città già esistenti. Il piano
nasce nella sua mente mentre egli sta progettando la città. La stessa attività pensante
riguarda Dio che sta per creare il mondo. Secondo Filone, Dio non segue le idee
sussistenti per sé, come fa il Demiurgo di Platone, ma esse nascono nella sua mente
mentre egli pensa al piano della creazione del mondo. Le idee, dunque, non possono
sussistere in alcun altro luogo se non nella mente di colui che le ha pensate. Anch’esse,
essendo i pensieri divini, sono necessariamente di natura divina (qeoeidh,j). In questo
brano, dunque, osserviamo una chiarissima ed evidente identificazione del mondo delle

98
Invece della parola biblica kti,zw o poi,ew, Filone adopera la parola dhmiourge,w; invece di
avo,ratoj (dai LXX) egli utilizza nohto,j. Poi nel brano citato sopra appaiono gli altri termini platonici,
come ad esempio: mi,mhma, para,deigma, ivde,a e altri.
99
A questo punto, vale la pena osservare che l’insieme delle idee, a differenza della dottrina
platonica, viene definito da Filone come il ko,smoj nohto,j. Platone definiva questo mondo intelligibile
come to. nohto.n zw|/on (cfr. Plat., Tim. 39 E) e lo situava nel nohto.j to,poj. (cfr. Plat., Resp. 508 B). Anche
se tra i termini platonici e filoniani non intercorre una grande differenza, osserviamo che le idee, secondo
il filosofo greco, hanno la propria sussistenza, ovvero sussistono di per sé, sono l’essere vero. Il mondo
visibile invece nella sua esistenza dipende dalle idee. Probabilmente per questo motivo l’insieme delle
idee viene chiamato da Platone to. nohto.n zw|/on. Infatti è un essere che vive di per sé. Le stesse idee non
hanno il loro luogo corporeo, ma sussistono indipendentemente dal mondo visibile e per questo Platone
dice che le idee sussistono nel nohto.j to,poj. Filone invece, anche se attribuisce alle idee le stesse
funzioni che hanno nella filosofia platonica, abbandona la parola zw|/on. Difatti le idee sono il prodotto
della mente divina. Non sono un essere vivente di per sé ma per Dio. Nella mente del Dio vivente non
può esserci un altro essere vivente. Così, dunque, il ko,smoj nohto,j indica l’universo dei pensieri divini.
Osserviamo altresì che l’Alessandrino non abbandona invece la parola to,poj che nelle sue opere diventa
quasi il sinonimo di Dio o del suo Logos che appunto sono il to,poj del ko,smoj nohto,j. Ne parleremo
ancora più avanti. Su questo argomento cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, pp. 226-240; D. T. Runia, A
Brief History of the Term ‘Kosmos Noetos’ from Plato to Plotinus, in Traditions of Platonism. Essays in
Honour of John Dillon, a cura di J. J. Cleary, Aldershot 1999, pp. 151-158. D. T. Runia, The King, the
Architect, and the Craftsman. A Philosophical Image in Philo of Alexandria, BICS Supplement 78 (2003),
pp. 89-106.
Anche se non ci sono pervenute le testimonianze letterarie del uso del termine ko,smoj nohto,j
prima di Filone, non tutti gli studiosi concordano che appunto il filosofo di Alessandria sia l’inventore di
questa nozione. Sul dibattito tra gli studiosi per quanto riguarda la provenienza del termine ko,smoj nohto,j
cfr. R. Radice, Commentario…, p. 240-243.
73

idee, ovvero il ko,smoj nohto,j, con il Nous dell’universo. Filone aggiunge altre
precisazioni riguardo al mondo intelligibile nel testo che segue il brano sopra citato:

Dunque, come il progetto della città prefigurato nella mente


dell’architetto non aveva alcuna collocazione all’esterno, ma era impresso come
un marchio nell’anima dell’artefice, allo stesso modo neppure il mondo
costruito dalle Idee potrebbe risiedere in altro luogo che non sia il Logos divino,
autore di questo armonioso ordinamento. Infatti quale altro luogo potrebbe
esservi, atto ad accogliere e contenere non dico tutti i poteri di Dio, ma anche
uno solo qualsiasi di essi, allo stato di assoluta incontaminazione? Ora, uno di
tali poteri è anche quello che ha come effetto la creazione del mondo e come
fonte il vero bene.

[…] A voler usare termini più semplici e scoperti, si potrebbe dire che il
mondo intelligibile altro non è se non il Logos divino già impegnato nell’atto
della creazione. Infatti la città concepita nel pensiero altro non è se non il
calcolato ragionamento dell’architetto quando ormai sta progettando di fondare
la città che ha in mente100.

Con questo brano ci troviamo davanti a un passaggio molto importante per tutto
il pensiero di Filone. Ecco, per la prima volta a nostra conoscenza101, nel trattato De
opificio mundi l’Alessandrino identifica il mondo intelligibile con il Logos di Dio
(lo,goj tou/ qeou/). Il nostro filosofo non abbandona ancora la metafora dell’architetto, si
rivolge ad essa ancora due volte, ma cambia la terminologia. Non parla più del Nous

100
Phil., Opif. 20-21. 24. Dato che è un testo che contiene molti termini importanti, riporto qua
l’intero brano originale: kaqa,per ou=n h` evn tw/| avrcitektonikw/| prodiatupwqei/sa po,lij cw,ran evkto.j ouvk
ei=cen( avllV evnesfra,gisto th/| tou/ tecni,tou yuch/|( to.n auvto.n tro,pon ouvdV o` evk tw/n ivdew/n ko,smoj a;llon
a'n e;coi to,pon h' to.n qei/on lo,gon to.n tau/ta diakosmh,santa\ evpei. ti,j a'n ei;h tw/n duna,mewn auvtou/ to,poj
e[teroj( o]j ge,noitV a'n i`kano.j ouv le,gw pa,saj avlla. mi,an a;kraton h`ntinou/n de,xasqai, te kai. cwrh/saiÈ
du,namij de. kai. h` kosmopoihtikh.( phgh.n e;cousa to. pro.j avlh,qeian avgaqo,nÅ […] eiv de, tij evqelh,seie
gumnote,roij crh,sasqaicra,w toi/j ovno,masin( ouvde.n a'n e[teron ei;poi to.n nohto.n ko,smon ei=nai h' qeou/
lo,gon h;dh kosmopoiou/ntoj ouvde. ga.r h` nohth. po,lij e[tero,n ti, evstin h' o` tou/ avrcite,ktonoj logismo.j h;dh
th.n nohth.n po,lin kti,zein dianooume,nou.
101
Cfr. J. M. Rist, Eros e psiche. Studi sulla filosofia di Platone, Plotino e Origene, Milano
1995, pp. 86 sgg.; D. T. Runia, Commentary…, p. 134-139. Sull’argomento dell’originalità di Filone per
quanto riguarda il concetto della collocazione delle idee nella mente divina cfr. anche R. Radice,
Platonismo…, pp. 229 sgg; D. T. Runia, Philo of Alexandria and the ‘Timaeus’…, pp. 165 sgg. Per intera
problematica di questo argomento cfr. R. Radice, Commentario…, pp. 239 sgg.; A. N. M. Rich, The
Platonic Ideas as the Thoughts of God, Mnem 7 (1954), pp. 122-133; J. C. M. van Winden, The World of
Ideas in Philo of Alexandria. An Interpretation of ‘De pificio mundi’ 24-25, VigChr 37 (1983), pp. 209-
217; S. Lilla, Die Lehre von den Ideen als Gedanken Gottes im griechischen patristischen Denken, in
ERMHNEUMATA. Festschrift für Hadwig Hörner zum sechzigen Geburtstag, Heidelberg 1990, pp. 27-
50. Non tutti gli studiosi concordano con la tesi che l’Alessandirno sia stato l’inventore della teoria delle
idee come pensieri di Dio, ma possiamo ripetere con R. Radice, che questa teoria in connessione con la
dottrina del Logos “in modo tematico, preciso ed esplicito compare per la prima volta appunto in Filone”.
Cfr. R. Radice, Platonismo…, pp. 278.
74

dell’universo (o` tw/n o[lwn nou/j) che imprime come un sigillo in se stesso il modello
intelligibile del mondo (come fa l’architetto nella propria mente), ma dice che il mondo
delle idee non ha alcun altro luogo se non il Logos divino (ouvdV o` evk tw/n ivdew/n ko,smoj
a;llon a'n e;coi to,pon h' to.n qei/on lo,gon). Non è solo un semplice cambiamento di
parole102. Filone qui parla della generazione del Logos che svolgerà un ruolo importante
nell’atto della creazione e poi nel governo del mondo. Questa è la prima fase della sua
esistenza. Che cos’è dunque il Logos descritto in questo passo? In parole semplici: è
Dio che pensa la creazione, ovvero Dio rivolto nel suo pensare verso il mondo che sta
per creare. Di Dio, come abbiamo dimostrato prima, non si può parlare con termini
fisico-spaziali. Non si possono distinguere in lui le parti o i luoghi fisici103 perché egli è
assolutamente semplice e incorporeo. Il Logos, dunque, non è nessuna parte né alcun
luogo in Dio104. La parola to,poj viene qui usata nel senso assolutamente metaforico.
Anche le idee che hanno il loro to,poj nella mente di Dio sono incorporee e anch’esse,
come abbiamo visto sopra, sono di natura divina (sono qeoeidei/j). L’insieme di queste
idee è il Logos di Dio. Ma anche il luogo (to,poj) dove si trovano le idee viene chiamato

102
I motivi del tale cambiamento della terminologia possono essere i seguenti: (1) Il Logos,
come vedremo nel capitolo successivo, e come già si vede nel brano citato sopra, è stato generato in
funzione della creazione del mondo. Lo stesso Logos governerà il mondo e in diversi modi guiderà gli
uomini nella loro vita morale e intellettuale. Egli interverrà anche nella storia del popolo d’Israele e
dell’umanità intera nel loro cammino verso Dio. A causa di tali funzioni dell’entità descritta da Filone
non poteva esservi termine più adatto se non quello stoico. Infatti il logos stoico svolgeva lo stesso ruolo
nella cosmologia, antropologia, epistemologia, etica e anche per così dire nell’escatologia (anche se gli
stoici avevano una concezione del tempo circolare, il logos era responsabile dei cicli successivi del
divenire e del bruciare del mondo). Ma nel brano citato non osserviamo ancora le funzioni del Logos che
agisce nel mondo. Filone parla al momento sull’insieme delle idee. (2) Un’altra ragione per la quale
l’Alessandrino utilizza questo termine può essere un antico uso della parola lo,goj, ovvero dal verbo
le,gein = raccogliere. Troviamo l’uso antico di questa parola in Omero dove lo,goj ha significato della
raccolta. Questo significato primitivo è stato spostato poi sulla raccolta dei pensieri o delle idee. In
seguito ciò che è stato raccolto nella mente veniva chiamato: lo,goj. Poi le idee raccolte, ordinate e
espresse, anch’esse sono lo stesso lo,goj. L’architetto raccoglie le idee e analizza il piano. Esse poi sono
impresse nella sua anima e costituiscono il lo,goj ovvero l’insieme delle idee. La parola lo,goj dunque era
molto ambivalente già nell’antichità ed ha avuto molti significati. E per questo che Filone può chiamare il
lo,goj sia ciò che esiste ancora come il progetto nell’intelletto trascendente, sia e un’entità che agisce nel
mondo essendogli immanente. Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque.
Histoire des mots, vol. III, Paris 1974, p. 625-626. Cfr. anche H. Fournier, Les verbes «dire» en Grec
Ancien, Paris 1946, p. 53-54; D. Winston, Logos and Mystical Theology in Philo of Alexandria,
Cincinnaty 1985, pp. 15 sgg.; D. Mrugalski, Logos. Filozoficzne i teologiczne źródła idei
wczesnochrześcijańskiej (it: Logos. Le fonti filosofiche e teologiche di un’idea del cristianesimo
primitivo), Kraków 2006, pp. 23 sgg.
103
Cfr. Phil., Deus 69.
104
Ma, in questo stadio della sua esistenza, si identifica assolutamente con la mente divina.
Infatti, anche se nel passo sopraccitato Filone afferma che il Logos è il luogo delle idee, altrove dice:
“Dio è una casa, il luogo incorporeo delle idee incorporee (o` qeo.j kai. oi=ko,j evstin( avswma,twn ivdew/n
avsw,matoj cw,ra), Padre di tutte le cose, in quanto le ha create, e marito della Sapienza, che per il genere
dei mortali ha gettato il seme della felicità in terra buona e vergine”. Phil., Cher. 49. Vediamo dunque che
non c’è nessuna differenza tra Dio e il Logos nel primo stadio della sua esistenza. In realtà, anche “il
Padre di tutte le cose (tw/n sumpa,ntwn path,r)” è detto ivdew/n cw,ra e oi=ko,j.
75

da Filone il Logos di Dio. Poi, come vedremo nel paragrafo successivo, la Potenza
emessa da Dio che agisce nel mondo creato, verrà anche chiamata il Logos di Dio105.
Per ora il Logos si identifica con il Nous che esercita la sua attività pensante. Infatti, il
nostro autore chiama sia la mente divina sia ciò che viene da essa pensato – lo,goj tou/
qeou/. Questa identificazione avviene in De opificio mundi solo nel momento in cui Dio
comincia a pensare il mondo, anzi Filone aggiunge che “il mondo intelligibile altro non
è se non il Logos di Dio che ormai crea il mondo” (ouvde.n a'n e[teron ei;poi to.n nohto.n
ko,smon ei=nai h' qeou/ lo,gon h;dh kosmopoiou/ntoj)106.

Abbiamo già accennato che nel passo sopraccitato viene esposta la generazione
del Logos da parte di Dio. Infatti, Filone seguendo sempre la sua metafora
dell’architetto, dice che il progetto della città è stato impresso nell’anima dell’artefice
(evnesfra,gisto th/| tou/ tecni,tou yuch/|). Con questo vuole sottolineare che, anche se la
città non era ancora costruita, è apparso già qualcosa di nuovo nella mente
dell’architetto, ovvero è apparso il progetto intelligibile che esisteva nella sua mente pur
non essendo stato ancora realizzato. Questo è un simbolo del Logos di Dio che nasce ed
esiste nella mente divina prima della creazione del mondo. Per ora non sappiamo ancora
nulla: il Logos è temporale o eterno come Dio? Sappiamo solo che è stato generato in
funzione della creazione del mondo. La metafora dell’architetto non può risolvere
questo problema. Infatti, Dio è eterno mentre l’architetto no. Ritorneremo su questa
problematica nel paragrafo successivo.

105
L’ambiguità delle affermazioni filoniane relative al Logos ha condotto H. A. Wolfson alla
conclusione che esistono i tre stadi dell’esistenza del Logos. La sua tesi non sarebbe controversa, se lo
studioso sotto la parola ‘stadio dell’esistenza’ non intendesse un’entità creata e sussistente fuori della
mente divina. Ecco che cosa scrive a questo proposito: “The intelligible world, which according to Philo
contains as many ‘intelligible objects’, that is ideas, as there are ‘objects of sense’ contained in the visible
world, was not merely formed in God’s thought but was created by God and was given an existence of its
own outside of God’s thought”. Cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, pp. 205. In realtà possiamo parlare
degli stadi di esistenza del Logos, perché è un nuovo stadio quello della potenza che crea il mondo
corporeo e poi opera in esso, ma questo non deve necessariamente significare che ogni stadio indica
un’entità distinta. In questo modo esisterebbero i tre (o più) Logoi di Dio. La tesi di Wolfson è stata
criticata da molti studiosi del pensiero filoniano. Ne parleremo ancora più avanti, nel paragrafo 1.3: Il
Logos: tra la trascendenza e l’immanenza ontologica.
106
Anche se in questa frase Filone usa il participio presente attivo dal verbo kosmopoie,w, non
significa che il Logos appaia solo nel momento in cui Dio ha già cominciato a creare qualcuna delle cose
materiali. La frase successiva, che di nuovo ritorna alla metafora dell’architetto, lo chiarisce esattamente:
“Infatti la città concepita nel pensiero altro non è se non il calcolato ragionamento dell’architetto quando
ormai sta progettando di fondare la città che ha in mente”. La parola usata in questa frase è di nuovo il
participio presente dal verbo dianoe,omai che significa pensare o progettare. L’architetto dunque sta
pensando o progettando (o prende decisione) di costruire la città così come Dio prende decisione di creare
il mondo. Ma da questo non risulta che il progetto appare solo nel momento in cui Dio crea ormai delle
cose materiali per realizzare il piano pensato. Del problema dell’eventuale eternità del Logos ne
parleremo nel paragrafo successivo.
76

Filone è in ogni caso consapevole che nessuna delle analogie con le cose create
può essere perfetta. L’architetto non può costruire la città solamente con i suoi pensieri,
per realizzare il suo piano ha bisogno delle forze fisiche. Non è così nel caso di Dio che
è assolutamente incorporeo. Per questo Filone infine abbandona la sua metafora e
afferma che il Logos contiene in sé le Potenze (duna,meij) una delle quali è la Potenza
creatrice (du,namij de. kai. h` kosmopoihtikh.). Da questo risulta che il Logos non è
solamente un insieme di idee, ma che è anche un insieme di Potenze divine107. Dio,
come abbiamo già detto prima, non è soltanto la causa formale, ma anche la causa
efficiente del mondo. Sia il modello intelligibile sia le Potenze (tra cui quella creatrice),
a differenza della filosofia platonica, si trovano nella mente divina. Per questo Filone fa
la seguente domanda retorica polemizzando con Platone: “Se non il Logos divino, quale
altro luogo potrebbe esservi, atto ad accogliere e contenere non dico tutti i poteri di Dio,
ma anche uno solo qualsiasi di essi, allo stato di assoluta incontaminazione?” In questa
domanda è interessante la parola a;kraton che è un aggettivo neutro accusativo che in
questo contesto può essere anche tradotto come in modo non mescolato. Solo il Logos
dunque riesce a contenere le Potenze in modo non mescolato. Le Potenze, a differenza
delle idee sono le facoltà divine che nell’atto della creazione entrano in relazione con la
materia. Se le Potenze fossero al di là del Logos divino, ovvero al di là del mondo
intelligibile dovrebbero avere il loro to,poj. Ma quale? Se vi fosse un altro to,poj
intelligibile, quello delle Potenze, ci sarebbero due principi del mondo trascendenti: Dio
e le Potenze, ovvero la causa formale e la causa efficiente del mondo. Se invece non

107
Il concetto della du,namij, in Filone, è affine a quello dell’ivde,a. Anzi qualche volta
l’Alessandrino identifica le Potenze con le Idee. Cfr. Phil., Spec. Leg. I 329; Confus. 171-172. Anche se la
questione relativa alla derivazione di questo concetto è ancora aperta, possiamo indicare almeno due piste
che, senza dubbio, doveva seguire Filone nella formulazione della dottrina delle Potenze. La prima è
platonica la seconda biblica. Infatti, anche secondo Platone le idee sono dotate di potenza e sono, non solo
i modelli intelligibili, ma anche le cause della realtà. Cfr. Plat., Soph. 247 D-E; Phaed. 96A-100 E. Per
quanto riguarda la Bibbia, invece, nella versione dei LXX, l’espressione ebraica composta dal
tetragramma impronunciabile (yhwh) e dalla parola ṣəḇāo’ṯ (che si traduce come Dio degli eserciti), viene
resa come ku,rioj tw/n duna,mewn. Inoltre molte altre parole ebraiche, che qualche volta avevano il
significato molto cocreto e materiale sono state tradotte con il termine astratto di du,namij. Ad esempio,
l’espresione che in ebraico significa ‘la mano di Dio’ viene tradotta dai LXX come h` du,namij tou/ kuri,ou
(cfr. Deut. 2,25; Gios. 4,24). Vediamo dunque che per il commentatore delle Scritture, istruito nella
filosofia greca, non era difficile concepire Dio o il suo Logos come un’entità circondata o riempita delle
duna,meij.
Esiste invece tra gli studiosi del pensiero filoniano il dibattito per quanto riguarda la derivazione
del concetto delle Potenze. Così, dunque, H. A. Wolfson ipotizza a questo proposito la confluenza di
Platone sulla dottrina filoniana. Cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, pp. 217 sgg. M. Pohlenz, invece,
presenta gli argomenti per la possibile confluenza degli stoici. Cfr. M. Pohlenz, La stoa…, vol. II, pp.
202-205. Ma ci sono anche gli studiosi che suggeriscono la derivazione di du,namij dal contesto delle
religioni orientali. Cfr. E. R. Goodenough, By Light…, p. 11-47; E. Zeller, R. Mondolfo, La filosofia…,
pp. 502-503. Per lo status quaestionis di questo argomento cfr. C. Termini, Le potenze di Dio. Studio su
du,namij in Filone, SEA 71, Roma 2000, pp. 10-18.
77

esiste un altro principio trascendente, le Potenze dovrebbero essere mescolate con la


materia preesistente. Filone però non accetta queste soluzioni e corregge la teoria di
Platone dicendo, che anche le duna,meij, tra le quali c’è anche quella creatrice, si trovano
nel Logos di Dio. In questo modo l’Alessandrino unisce i due principi della creazione
(che in Platone erano separati) quello formale con quello efficiente. Ognuno di essi ha la
stessa fonte e lo stesso to,poj che è la mente divina stessa. Nella medesima frase Filone
polemizza anche con i concetti degli stoici. Infatti l’insieme delle Potenze, ovvero il
Logos, non è mescolato con il mondo. Le Potenze creano ed entrano nel contatto con il
creato per la volontà di Dio. Non sono però congiunte ab aeterno alla materia. Il Logos
filoniano è pertanto ben distinto dalle cose create, pur operando nel mondo, durante e
dopo la creazione.

In un altro passo delle sue opere Filone chiarisce il motivo per cui le Potenze
non mescolate devono sussistere nella mente divina. Questo motivo è la trascendenza
assoluta delle Potenze pure. Infatti, le Potenze di Dio, come egli stesso, trascendono in
maniera assoluta le sostanze corporee, ma anche quelle inintelligibili create – come ad
esempio: l’anima dell’uomo. La materia e gli esseri creati, tra i quali c’è l’uomo, non
sono capaci di accogliere le Potenze pure (non mescolate) di Dio per il loro status
ontologico inferiore. Per spiegare questo concetto Filone si serve della metafora del
sole108. Infatti i raggi del sole, la cui fonte si trova nel sole stesso, hanno in sé la potenza
di bruciare e quella di illuminare. Dio – ragiona l’Alessandrino – per il bene delle sue
creature, ha diminuito la potenza di bruciare dei raggi, mescolandoli con l’aria fresca.
Per lo stesso motivo (ossia per il bene del creato) ha conservato invece la loro potenza
di illuminare. “Eppure anche il sole – aggiunge – è una delle opere di Dio”109. Le
Potenze di Dio sono incomparabilmente superiori a quelle del sole. Queste ultime, pur
essendo di natura sensibile, devono essere moderate per non fare dei danni nel mondo
fisico, tanto più quelle di natura divina, che trascende ogni cosa, hanno bisogno di
essere private della loro forza per non nuocere alle entità create. Questa metafora
utilizza un esempio preso dal mondo corporeo (il sole e i raggi), ma è ovvio che,
parlando Filone delle Potenze di Dio, non pensa tanto alla loro forza di bruciare quanto
alla loro superiorità ontologica110:

108
Cfr. Phil., Deus 78-79.
109
Ibid. 78.
110
Infatti in un altro luogo Filone, rivolgendosi alla stessa metafora, afferma: “Egli stesso [cioè
Dio], essendo luce originaria, effonde infiniti raggi, nessuno dei quali è percepibile mediante i sensi, ma
sono tutti intelligibili (ouvdemi,a evsti.n aivsqhth,( nohtai. dV a[pasai)”. Phil., Cher. 97. Altrove il nostro
78

Dio, infatti, si vale delle Potenze pure rispetto a Se stesso, e delle


Potenze miscelate rispetto alla creazione, giacché è impossibile che la natura
mortale abbia in sé spazio per contenere le Potenze non mescolate.

[…] Quale essere mortale potrebbe accogliere in sé, nella loro assoluta
purezza, la Scienza, la Sapienza, la Saggezza, la Giustizia e ciascuna delle altre
Potenze di Dio? Ma neppure l’intero cielo e il mondo intero lo potrebbero!
L’Artefice, allora, conoscendo la propria assoluta superiorità in tutte le cose
migliori, e la debolezza naturale delle creature, anche se esse si vantano tanto,
non vuole beneficarle né punirle come egli effettivamente può, ma nella misura
in cui egli vede che ne sono capaci coloro che devono avere parte dell’una o
dell’altra cosa. Se davvero potessimo bere e gustare questa miscela temperata e
di media intensità delle sue Potenze, ne ricaveremmo una gioia sufficiente; il
genere umano non cerchi di ottenere una più perfetta: abbiamo, infatti,
dimostrato che le Potenze non mescolate, non temperate, nel loro grado
realmente più alto, sussistono solo in relazione all’Essere111.

Questo passo ci illumina maggiormente su quanto abbiamo analizzato finora,


cioè che Dio è un’attività pensante. Egli, rivolto verso sé stesso, viene definito da Filone
come Nous, rivolto verso il mondo come Logos. Ora vediamo che in ambedue i casi si
vale delle Potenze che vengono identificate qui come: la Scienza, la Sapienza, la
Saggezza e la Giustizia. Dio rivolgendosi verso sé stesso (pro.j e`auto.n) si vale delle
Potenze pure (avkra,toij), mentre rivolgendosi verso la creazione (pro.j ge,nesin) si vale

autore parla anche della luce intelligibile (nohto.n fw/j, cfr. Phil. Abr. 119) o del sole intelligibile (h[lioj
nohto,j, cfr. Phil. Spec. Leg. I 279). A questo punto vale la pena osservare che la metafora del sole e della
luce appare in diversi luoghi delle opere filoniane. Cfr., ad esempio, Phil., Opif. 71; Ebr. 44-45; Migrat.
40; Fug. 165; Mutat. 4-6; Somn. I 73-76; I 116. Potremmo dire che è la metafora preferita del nostro
filosofo. Infatti, essa evidenzia da una parte la trascendenza ontologica ed epistemologica di Dio,
dall’altra mostra che Dio è in un certo senso anche immanente e in qualche maniera altresì afferrabile
dall’intelletto umano (almeno per quanto riguarda la sua esistenza). Ne parleremo anche nei paragrafi
successivi. Sull’argomento della metafora del sole in Filone cfr. F. N. Klein, Die Lichtterminologie bei
Philon von Alexandrien und in den hermetischen Schriften. Untersuchungen zur Struktur der religiösen
Sprache der hellenistischen Mystik, Leiden 1962, pp. 31 sgg.; V. Nikiprowetzky, Thèmes et traditions de
la lumière chez Philon d’Alexandrie, SPhA 1 (1989), pp. 6-33; F. Calabi, La luce che abbaglia: una
metafora sulla inconoscibilità di Dio in Filone di Alessandria, in Origeniana Octava. Origen and the
Alexandrian Tradition. Papers of the 8th International Origen Congress, a cura di L. Perrone, vol. I,
Leuven 2003, pp. 223-232.
111
Phil., Deus 77. 79-81: o` ga.r qeo.j tai/j duna,mesi pro.j me.n e`auto.n avkra,toij crh/tai(
kekrame,naij de. pro.j ge,nesin\ ta.j ga.r avmigei/j qnhth.n avmh,canon fu,sin cwrh/sai. […] evpisth,mhn qeou/
kai. sofi,an kai. fro,nhsin kai. dikaiosu,nhn kai. tw/n a;llwn e`ka,sthn avretw/n ti,j a'n avkraifnh/ de,xasqai
du,naito qnhto.j w;nÈ avllV ouvdV o` su,mpaj ouvrano,j te kai. ko,smojÅ eivdw.j toi,nun o` dhmiourgo.j ta.j peri.
au`to.n evn a[pasi toi/j avri,stoij u`perbola.j kai. th.n tw/n gegono,twn( eiv kai. sfo,dra megalaucoi/ en( fusikh.n
avsqe,neian ou;te euvergetei/n ou;te kola,zein w`j du,natai bou,letai( avllV w`j e;contaj o`ra/| du,namewj tou.j
e`kate,rou meqe,xontajÅ eiv dh. tou/ avneime,nou kai. meso,thtaj e;contoj tw/n duna,mewn auvtou kra,matoj evmpiei/n
kai. avpolau/sai dunhqei,hmen( avpocrw/san a'n euvfrosu,nhn karpwsai,meqa( h-j teleiote,rante,leoj mh. zhtei,tw
labei/n to. avnqrw,pwn ge,noj\ evdei,cqhsan ga.r ai` avmigei/j kai. a;kratoi kai. tw/| o;nti avkro,thtej peri. to. o'n
mo,non u`pa,rcousai.
79

delle Potenze miscelate (kekrame,naij). C’è qualche differenza tra di esse? Sulla base di
questo testo e della metafora del sole e dei raggi, si deve rispondere di no. Le Potenze
mescolate sono le stesse Potenze di Dio che entrano in relazione con il creato: in Dio
esse sussistono nel loro grado supremo (tw/| o;nti avkro,thtej). A causa della assoluta
trascendenza – o usando le parole di Filone stesso – a causa della superiorità di Dio su
tutte le cose migliori (evn a[pasi toi/j avri,stoij u`perbolh,), le sue Potenze devono essere
in qualche modo temperate per poter essere accolte dalle creature. In Dio non c’è
nessuna composizione. Le Potenze pure sono Dio stesso. Nel mondo le stesse Potenze
vengono temperate ed entrano in composizione con gli altri esseri. Al livello della
trascendenza c’è l’unità: Dio e le Potenze sono una cosa sola. Nel mondo creato invece
le Potenze di Dio appaiono come molteplicità che corrisponde alla molteplicità dei modi
con cui Dio agisce nel mondo112.

Ora riusciamo a capire meglio quanto Filone ha scritto all’inizio del trattato De
opificio mundi riguardo al concetto stoico che definisce Dio come la causa attiva.
L’Alessandrino identifica questa causa attiva con il Nous dell’universo che trascende
ogni cosa. Infatti, Dio può essere definito come la causa attiva anche a livello della
trascendenza perché contiene in sé le Potenze pure (non mescolate) che trascendono
ogni cosa. Queste Potenze esistono in Dio ancora prima della creazione del mondo e si
identificano con lui stesso. Infatti Dio, come dice Filone, “si vale delle Potenze pure
rispetto a se stesso”. Durante e dopo la creazione esse vengono temperate in qualche
modo per poter entrare in relazione con il creato. Dalla metafora del sole e dei raggi,
però, ricaviamo che sono solo i raggi che devono essere moderati. La loro fonte, ossia il
sole, rimane sempre intatta e le sue capacità di bruciare non vengono diminuite. Dio,

112
Lo spiega anche il passo di Deus 82-84. In questo passo Filone interpreta allegoricamente la
frase biblica del Sal. 61,12: «Una sola volta il Signore ha parlato: io ho sentito queste due cose». In fine
l’Alessandrino conclude: “Quindi, Dio parla monadi non mescolate (mona,daj me.n ou=n avkra,touj o` qeo.j
lalei/), giacché la sua Parola non è affatto una percussione dell’aria, né è mescolata con qualcos’altro,
bensì è incorporea e nuda, non diversa da una monade. Noi invece sentiamo in virtù di una diade. Infatti,
il fiato emesso dalla parte dominante dell’anima attraverso la trachea è modellato nella bocca dalla lingua,
come da un artefice, e, portato all’esterno e mescolato all’aria, che gli è affine, percuote l’aria, appunto, e
produce armonica mescolanza in cui consiste la diade: la consonanza dei suoni diversi, infatti, si
armonizza per la prima volta in una diade, che è divisibile, in quanto ha in sé un tono acuto e uno grave”.
Filone si serve in questo brano del concetto stoico, adoperato dalla scuola del Portico al livello
della logica. Mostra invece che quello che è valido mentre si parla dell’uomo, ovvero dell’essere
composto, non si può applicare alla realtà incorporea ovvero a Dio e al suo Logos. A questo proposito
giustamente osserva F. Calabi che “any vision of the powers and the logos is connected with the level of
the person seeing. God is unchangeable, devoid of qualities and attributes; man changes, and his
perception of the way God acts also changes: any vision of God is conditioned by man and his changes”.
Cfr. F. Calabi, God’s Acting…, p. 8.
80

dunque, essendo il Nous può essere anche la causa attiva già al livello della
trascendenza, essendo egli stesso la fonte e la pienezza di tutte le Potenze.

Con questo brano viene illuminato anche un altro passo, quello di Opf. 8-11,
analizzato all’inizio di questo paragrafo, nel quale Filone ribadiva che Dio,
perfettamente puro e non mescolato, trascende la virtù e il sapere (krei,ttwn h' avreth.
kai. krei,ttwn h' evpisth,mh). La virtù e il sapere dell’uomo, pur essendo entità intelligibili
e pur avendo natura simile a quella divina, non sono identici a Dio trascendente.
L’evpisth,mh, essendo una facoltà umana, non si identifica con l’evpisth,mh pura – una
delle Potenze di Dio. Veramente l’anima e l’intelletto dell’uomo possono produrre le
entità intelligibili (le idee o le virtù umane), comunque ciò che l’anima essendo creata
produce è di un altro grado ontologico, ovvero non è assoluto. Da questo risulta che Dio
trascende anche le realtà intelligibili create. Ma da questo brano si può ricavare anche
un’altra conclusione. Infatti Dio può donare all’uomo una delle proprie Potenze: la
propria Scienza, Sapienza, Saggezza, o la propria Giustizia. Esse però non sono
concesse alle creature nello stato assolutamente puro. Filone dice che l’uomo può
ricevere le Potenze mescolate. Il participio kekrame,noj oltre che mescolato, significa
anche temperato o bilanciato. Troviamo tali significati anche nell’ultima frase del brano
citato quando Filone parla della miscela delle Potenze divine113. La parola meso,thj
significa una intensità o qualità media, il participio avneime,noj invece significa calmato
o diminuito. Filone, dunque, vuole affermare che l’uomo, oltre ad essere capace di
produrre le entità intelligibili umane, può ricevere anche come dono una o più Potenze
di Dio, ma in qualche modo temperate o bilanciate; la loro intensità viene diminuita per
non fare un danno al creato. In questo passo, dunque, viene di nuovo sottolineata la
trascendenza assoluta di Dio rispetto al creato: ciò che l’uomo è in grado di ricevere è
soltanto una facoltà di Dio temperata. Pur avendo essa la sua fonte in Dio, come i raggi
del sole in sole stesso, non contiene in sé tutta la immensa e assoluta Potenza di Dio.
Dio in persona, invece, rimane sempre al di là dell’essere. Lo stesso riguarda le sue

113
La parola miscela viene adoperata da Filone, perché il brano che stiamo analizzando si trova
dentro una lunga interpretazione allegorica della frase biblica del Sal. 74,9: «Nella mano del Signore c’è
un calice, pieno di una miscela di vino puro». Con questa interpretazione l’Alessandrino vuole mostrare
che le Potenze che sono in Dio sono pure come lui stesso e che quello che ricevono gli uomini è
solamente una temperata facoltà divina che entra nella relazione con il creato.
81

Potenze pure che, nel loro grado ontologico superiore, sono inaccessibili alle creature. Il
creato, comunque, può partecipare di qualche facoltà moderata che proviene da Dio114.

Il concetto delle Potenze viene adoperato da Filone non solo nei confronti di Dio
e dell’uomo, ma svolge anche un ruolo importante nella cosmologia filoniana. Pure in
questo campo, questa nuova idea filosofica serve all’Alessandrino, da una parte per
sottolineare la trascendenza ontologica di Dio rispetto a tutto il cosmo, dall’altra, per
spiegare il modo in cui Dio crea, governa ed è presente nel mondo. Abbiamo già
menzionato che tra le Potenze di Dio c’è anche quella creatrice (kosmopoihtikh,): di essa
Dio si vale sicuramente non verso se stesso (pro.j e`auto.n), ma verso la creazione (pro.j

114
La parola ‘facoltà’ utilizzata in questa frase descrive, a nostro avviso, nel miglior modo ciò
che sono le Potenze divine che operano nel mondo creato. In realtà, la terminologia adoperata dagli
studiosi nei confronti delle Potenze filoniane è assai svariata. È così, perché, come osservano R. Radice e
G. Reale, le accezioni filosofiche del concetto di Potenza in Filone “non sono sempre distinguibili con
esattezza, in quanto ricoprono un ambito semantico assai vasto: in senso metafisico, infatti, «Potenza» sta
a indicare ogni tipo di attività divina”. Cfr. G. Reale, R. Radice, La genesi…, p. CII. Alcuni studiosi, però,
affermano che le Potenze filoniane sono ipostasi, intendendo la parola ‘ipostasi’ come un essere
intermedio, qualcosa “tra persona e entità astratta”. Cfr. W. Bousset, Die Religion des Judentums im
späthellenistischen Zeitalter, Tübingen 1966, pp. 342-352. Altri, invece, sostengono che, secondo Filone,
ci siano due tipi delle Potenze: 1. Le Potenze intese come le proprietà divine; 2. Le Potenze intese come le
entità create fuori della mente divina e per questo autonome nella loro esistenza. Cfr. H. A. Wolfson,
Philo…, vol. I, pp. 217-226. Questa interpretazione però non concorda con la metafora filoniana del sole e
dei raggi, della quale abbiamo parlato sopra. Infatti, i raggi che hanno la loro fonte nel sole stesso,
allontanandosi da esso – come dice Filone – perdono il loro calore e la loro forza di bruciare. Ma non si
staccano mai dal sole stesso. Esistono, appunto, perché esiste il sole. Lo stesso riguarda le Potenze che
non vengono mai separate da Dio. Nel mondo creato, dunque, opera una moderata o diminuita facoltà
divina che ha la sua fonte in Dio stesso. Nel modo che rispetta questa metafora concepisce le Potenze
filoniane M. Pohlenz che parla delle “entità autonome, anche se non completamente distinte dall’essere
divino”. Cfr. M. Pohlenz, La stoa…, vol. II, p. 203. F. Calabi, invece, non accetta assolutamente
l’interpretazione che concepisce le Potenze come entità autonome. La studiosa italiana preferisce parlare
dell’energheia divina o degli aspetti di Dio nei quali egli appare a colui che lo percepisce. Cfr. F. Calabi,
God’s Acting…, pp. 28-29, 90.
I problemi con la terminologia ontologica adoperata nei confronti delle Potenze non risultano, a
nostro avviso, dal fatto che ‘Potenza’ sta a indicare ogni tipo di attività divina, come suggeriscono R.
Radice e G. Reale (perché ‘l’attività divina’ non è un’ipostasi, o una persona), ma dal fatto che a
proposito delle Potenze Filone adopera il linguaggio personificante e metaforico. Infatti, leggendo le
descrizioni delle teofanie bibliche nell’interpretazione filoniana, il lettore può avere impressione che la
Potenza sia un’entità sussistente di per sé, separata da Dio, anzi sembra una persona che parla con un
personaggio biblico faccia a faccia. Nel contesto di questi passi, però, possiamo trovare sempre una
spiegazione di Filone che chiarisce che le Potenze sono come Dio: nohtai,, avsw,matoi, avcro,noi,
avperi,grafoi, avmu,qhtoi, avpoi,oi e per questo anche avo,ratoi, avkata,lhptoi kata. th.n ouvsi,an etc. Anzi in un
passo afferma che Dio ingenera in “chi ne ha la visione l’idea che si tratti di una forma diversa, tanto da
fargli ritenere che quell’immagine non sia una copia, bensì l’originale stesso”. Cfr. Phil., Somn. I 232.
Dunque, l’Alessandrino non parla mai di un’apparizione vera e propria di un’entità divina sulla terra, ma
è l’uomo che la concepisce in questo modo. Di questo argomento, con i riferimenti precisi alle opere
filoniane, parleremo più ampiamente nei paragrafi successivi quando analizzeremo le teofanie bibliche
interpretate dall’Alessandrino. È invece indubbio che nell’epoca del giudaismo ellenistico possiamo
osservare il crescente processo di ipostatizzazione dei attributi divini. Cfr. C. Termini, Le potenze…, pp.
18-27. Non sempre però, come nel caso di Filone, il linguaggio ipostatizzante o personificante indica che
un attributo divino sia un’ipostasi totalmente autonoma, distinta e separata da Dio. Per questo
concordiamo con F. Calabi che osserva: “It is a language which anthropomorphises and hypostatizes. It is
a language which speaks of powers as if they were autonomous beings, and of logos in terms of ‘a second
God’; it is a language which thematizes a particular aspect of God: mercy, justice, His methods of
punishment etc.”. Cfr. F. Calabi, God’s Acting…, p. 93.
82

ge,nesin). Questa Potenza, infatti, è stata generata in funzione della creazione del mondo.
Di essa partecipa tutto il creato, e non solo alcuni uomini come avviene nel caso della
Scienza, Sapienza o Saggezza di Dio. Osserviamo, a questo proposito che, secondo
Filone, Dio non è soltanto un’attività pensante, ma anche un’attività creatrice. Egli non
cessa mai di creare115: comunque lo fa sempre tramite le sue Potenze. Attraverso esse
egli si rende anche onnipresente:

Dio riempie il tutto come contenente e non come contenuto (u`po. de. tou/
qeou/ peplh,rwtai ta. pa,nta( perie,contoj( ouv periecome,nou) e a lui solo capita di
essere dovunque e nello stesso tempo da nessuna parte: in nessun luogo (w-|
pantacou/ te kai. ouvdamou/ sumbe,bhken ei=nai mo,nw|), perché egli stesso crea il
luogo e lo spazio insieme con i corpi, sicché è impossibile affermare che il
creatore sia contenuto in qualcuna delle realtà create; dovunque, perché
protendendo le sue Potenze attraverso la terra, l’acqua, l’aria e il cielo non ha
lasciato alcuna parte priva di sé, ma, avendo ridotto a unità tutta la realtà, la
rinserra in catene invisibili, di modo che non possa più sciogliersi. L’essenza di
Dio che trascende le Potenze sopravanza l’umana comprensione: di Dio non
può cogliersi la natura, ma solo l’esistenza. La Potenza di quest’Essere, per la
quale il tutto è posto e ordinato, si chiama, con un termine che anche
nell’etimologia ricorda questo significato, “Dio”: essa racchiude in sé ogni
realtà ed è diffusa in ogni singola parte del tutto116.

Nei versetti che precedono questo passo l’Alessandrino, ancora una volta, critica
gli antropomorfismi contenuti nella Bibbia. Questa volta si concentra sull’espressione:
«il Signore scese a vedere la città e la torre» del Gen. 11,5. Essa conduce Filone alla
riflessione filosofica sul problema della onniscienza divina. Infatti – osserva – la parola
“scendere” significa “lasciare un luogo per occupare un altro”117. Questo però non
avviene nel caso di Dio. Egli per vedere (o conoscere) una realtà terrena non ha bisogno
del movimento di tipo spaziale. In seguito, nel brano citato sopra, Filone spiega perché
Dio non ha bisogno di alcun movimento per conoscere o per vedere una cosa corporea,
che, in realtà, è situata in qualche luogo e occupa qualche spazio. La risposta è duplice e
viene data nel concetto della creazione del mondo da parte di Dio e nel concetto della

115
Cfr. Phil., Leg. All. I 5: “Dio non cessa mai di creare, ma, come è proprio del fuoco bruciare e
della neve raffreddare, così anche è proprio di Dio il fare: anzi, a lui questa proprietà compete molto di
più di quanto non competa ad altri, giacché egli è anche l’origine della attività di tutti gli altri esseri”. Cfr.
anche Phil., Cher. 87.
116
Phil., Confus. 136-137.
117
Cfr. Phil., Confus. 134-135.
83

ubiquità divina. Tutti e due sono collegati con l’idea della trascendenza. Dio infatti
trascende il luogo e lo spazio perché “egli stesso crea il luogo e lo spazio insieme con i
corpi”. Come il creatore dunque Dio, senza alcun movimento, conosce in maniera
assoluta tutto ciò che ha portato a nascimento. Inoltre, egli esisteva e pensava il mondo
prima che esso fosse creato. L’idea della creazione del mondo da parte di Dio spiega
dunque e comprova il concetto dell’onniscienza divina118.

In seguito, il concetto dell’onniscienza, viene confermato anche dall’idea


dell’ubiquità divina. “Da Dio – afferma Filone – è stato riempito tutto”. Egli, dunque,
che è onnipresente conosce tutte le cose, ogni luogo e ogni spazio. Essendo dovunque
non ha bisogno di alcun movimento. Può sembrare però che scrivendo la frase: “u`po. de.
tou/ qeou/ peplh,rwtai ta. pa,nta”, Filone abbia perso un po’ di vista il concetto della
trascendenza di Dio. Ma non è così. Le precisazioni posteriori non ci lasciano alcun
dubbio che in questo passo non venga espressa una tesi di tipo panteistco. Infatti, Dio è
presente nel mondo solamente attraverso le sue Potenze. Non è Dio stesso che riempie
tutto, ma le sue Potenze che egli ha proteso attraverso tutto il mondo. Dio – afferma
l’Alessandrino – “protendendo le sue Potenze attraverso la terra, l’acqua, l’aria e il cielo
non ha lasciato alcuna parte priva di sé”. E solo per questo motivo Filone può dire che
“da Dio è stato riempito tutto”. Valendosi delle Potenze, Dio è pantacou/, ossia in ogni
luogo. Per la stessa ragione, ovvero per il fatto che Dio agisce nel mondo attraverso le
Potenze, il nostro filosofo può dire anche che Dio stesso è ouvdamou/, ossia in nessun
luogo119. Dio infatti trascende le Potenze. Anche se l’Alessandrino non lo dice
esplicitamente, nel brano citato sopra, si tratta sicuramente delle Potenze mescolate,

118
Anche se nel passo riportato sopra non viene espresso esplicitamente il concetto
dell’onniscienza di Dio, esso si trova dentro una lunga analisi filoniana che precede il brano citato. In
seguito, dopo tutte le analisi, l’Alessandrino di nuovo ritorna all’argomento e afferma che Dio non solo
conosce tutto che è, ma anche può prevedere tutto ciò che avverrà in futuro. Cfr. Phil., Confus. 140 sgg. Il
tema dell’onniscienza divina in correlazione con il concetto della creazione appare anche nel Deus 29-30,
Migrat. 192-193.
119
Per comprovare questa nostra interpretazione riportiamo un altro passo di Filone che dice
esplicitamente che Dio è vicino e nello stesso tempo lontano dal creato, appunto attraverso le sue Potenze:
“Si dice che egli, pur essendo sempre il medesimo, è vicinissimo e insieme lontano, da una parte
toccandoci con quelle Potenze creatrici e punitrici che si trovano vicino a ciascuno di noi, dall’altra
tenendo la creatura a grande distanza dalla sua natura e dalla sua essenza, cosicché non è possibile
attingerlo neppure con le pure ed incorporee applicazioni del ragionamento”. Phil., Poster. 20. Nella
stessa opera, poche righe prima, l’Alessandrino spiega che Dio, pur essendo al di là dello spazio e del
tempo, riempie di sé l’universo “espandendo attraverso tutte le cose, fino ai loro confini, le sue Potenze”.
Cfr. Poster. 14-15. In un altro luogo ancora Filone dice che attraverso le sue Potenze Dio vede e sente
tutto. Cfr. Spec. Leg. I 279. Sull’argomento cfr. P. L. Reynolds, The Essence, Power and Presence of
God: Fragments of the History of an Idea, from Neopythagoreanism to Peter Abelard, in From Athens to
Chartres: Neoplatonism and Medieval Thought. Studies in Honour of Edouard Jeauneau, a cura di H. J.
Westra, Leiden, 1992, pp. 351–380; e per quanto riguarda Filone spec. pp. 356 sgg.
84

allora di quelle delle quali Dio si vale rivolgendosi verso la creazione. Abbiamo già
mostrato che la relazione tra Dio e queste Potenze è come quella che avviene tra il sole
e i suoi raggi. L’insieme dei raggi non si identifica con il sole stesso, nello stesso modo
l’insieme delle Potenze divine, protese in tutto il mondo, non si può identificare con Dio
stesso. Dio dunque – dichiara Filone – è perie,cwn, ovvero colui che contiene o include
in sé tutto il mondo, ovviamente sempre attraverso le sue Potenze, però non è
perieco,menoj, ovvero non è contenuto in alcuna parte del mondo. Per chiarire questo
concetto possiamo rivolgerci ancora una volta alla metafora filoniana. Infatti il sole
illumina tutto attraverso i suoi raggi. Esso dunque, come Dio, si rende presente in ogni
luogo della terra. Ma da questo non risulta che il sole stesso sia contenuto in qualcuno
dei luoghi terreni120.

Perché dunque Filone, invece di dire “da Dio è stato riempito tutto”, non ha
detto che dalle Potenze divine è stato riempito tutto? Troviamo la risposta nell’ultima
frase del brano citato sopra. Infatti – afferma il nostro filosofo – anche una sola Potenza,
come ad esempio quella creatrice, viene chiamata dagli uomini con un termine ‘Dio’. A
questo punto osserviamo che l’Alessandrino passa dal linguaggio ontologico a quello
epistemologico. Non parla più dell’essenza di Dio, ma di ciò che l’uomo pensa di Dio.
Dice infatti che “l’essenza di Dio che trascende le Potenze sopravanza l’umana
comprensione”. In seguito dichiara che di Dio l’uomo non può cogliere la natura ma
solo l’esistenza. Sappiamo già che tutte le opere di Dio sono l’effetto della presenza e
dell’attività delle Potenze nel mondo. Dal punto di vista epistemologico però, l’uomo è
capace di riconoscere l’esistenza di Dio attraverso le opere divine. L’autore di queste
opere viene chiamato dagli uomini con il termine ‘Dio’ 121. In realtà invece tutto ciò che
compie Dio rivolgendosi verso la creazione lo compie valendosi delle Potenze. In
questo modo Filone giustifica il linguaggio biblico, ossia tutte le affermazioni in cui la
Sacra Scrittura parla delle opere o delle teofanie come se fossero le opere o le
apparizioni di Dio stesso. Infatti, il primo autore o la causa prima di esse rimane sempre
Dio, anche se in realtà sono le Potenze che creano, operano e appaiono nel mondo.
120
Il concetto del “contenente non contenuto” si trova anche in Aristotele in un passo che parla
del cielo che contiene il mondo ma non è da esso contenuto. Cfr. Aristot., Phys. 212 B. Questa idea è stata
trasportata da Filone all’ambito della divinità. In un altro passo l’Alessandrino ripete e sviluppa lo stesso
concetto: “[Dio] contiene l’universo intero e non è contenuto assolutamente da nulla, perché è lui il
rifugio di tutti e di tutto, ed è lui il ‘luogo’ di se stesso, il ‘luogo’ di cui ha fatto soltanto se stesso
contenente è contenuto. Io, certo, non sono ‘un luogo’, ma sono ‘in un luogo’ e lo stesso vale per ogni
essere vivente. Infatti il contenuto è diverso dal contenente, e la divinità in quanto non contenuta da nulla
è necessariamente ‘il luogo di se stessa’”. Phil. Somn. I 63-64. Per il concetto simile e la sua spiegazione
cfr. Phil., Migrat. 182-183; Leg. All. III 4-6.
121
Cfr. Phil. Poster. 167-169.
85

L’Alessandrino è consapevole che la Sacra Scrittura attribuisce a Dio tutte le opere


salvifiche compiute lungo la storia della salvezza; per questo non combatte contro
questo errore epistemologico con lo stesso atteggiamento con cui critica gli
antropomorfismi biblici. Malgrado che in tutte le teofanie dell’Antico Testamento si sia
manifestata una o più delle sue Potenze, e non Dio stesso, Filone la chiama con il nome
di ‘Dio’. Anche nel frammento che stiamo analizzando il nostro autore dice che “la
Potenza di quest’Essere, per la quale il tutto è posto e ordinato, si chiama, con un
termine che anche nell’etimologia ricorda questo significato, ‘Dio’ 122”. Dei problemi
epistemologici e delle teofanie divine parleremo più ampiamente nei paragrafi
successivi. Per ora invece abbiamo voluto chiarire che il concetto delle Potenze serve a
Filone per salvaguardare l’idea della trascendenza ontologica di Dio. Anche se al livello
linguistico, qualche volta chiama ‘Dio’ l’autore delle opere divine compiute nel mondo,
le spiegazioni date non ci lasciano alcun dubbio, che il nostro filosofo in questi passi si
riferisce alle Potenze.

Alla fine osserviamo che all’argomento delle Potenze è legato un altro concetto
filosofico, originale nell’ambito della filosofia greca, che è quello dell’infinità di Dio.
Infatti, secondo Filone, le Potenze di Dio sono infinite (avperi,grafoi)123 e innumerevoli
(avmu,qhtoi)124. Questo vale a dire che esse sono infinite non soltanto per quanto riguarda
il loro numero, ma anche per quanto riguarda la loro natura, ovvero ciascuna di esse è
infinita125. Di conseguenza Dio, pur essendo uno solo, dato che racchiude in sé infinite
Potenze, è infinito (avperi,grafoj ga.r o` qeo,j)126. Nell’ambito della filosofia greca, però,
l’infinito era considerato come qualcosa di negativo e di conseguenza tale caratteristica
non veniva mai attribuito a Dio. Coincideva, difatti, con il concetto dell’indeterminato,

122
Secondo Filone l’etimologia del termine qeo,j proviene dal verbo ti,qhmi (in aoristo e;qhke)
cioè porre o stabilire. Utilizzando dunque un certo tipo del gioco di parole l’Alessandrino può dire che la
Potenza di quest’Essere, per la quale il tutto è posto e;qhke si chiama, con un termine qeo,j. Questo tipo di
etimologia della parola qeo,j fu conosciuto nell’antichità anche prima di Filone. Lo attestano i testi di
Eschilo e Erodoto. Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique…, vol. II, pp. 429-430.
123
Cfr. Phil., Sacrif. 59: “Nessuna di quelle [cioè: delle Potenze] ha ricevuto in alcun modo
dimensioni definite – giacché Dio è infinito, e infinite sono pure le sue Potenze – ma ciascuna di esse ha
dato dimensioni a tutto ciò che esiste (w-n e`ka,sth meme,trhtai me.n ouvdamw/j avperi,grafoj ga.r o` qeo,j(
avperi,grafoi de. kai. ai` duna,meij auvtou/( meme,trhke de. ta. o[la)”.
124
Cfr. Phil., Confus. 171-172: “Pur essendo uno, Dio è circondato da infinite Potenze (ei-j w'n o`
qeo.j avmuqh,touj peri. au`to.n e;cei duna,meij), tutte destinate a portar soccorso e salvezza al mondo creato
[…]. Proprio da tali Potenze è costruito il mondo intelligibile e incorporeo, che è il modello del mondo
fenomenico, e come quest’ultimo è composto da corpi visibili, così quello intelligibile è composto da idee
invisibili”.
125
Cfr. Phil., Poster. 151: “Infinita, infatti, è la ricchezza della Sapienza di Dio, e butta fuori, dai
vecchi, nuovi germogli, sì che non smette mai di rinvigorire e di rifiorire (avperi,grafoj ga.r o` sofi,aj qeou/
plou/toj kai. ne,a evpi. palaioi/j evkfe,rwn blasth,mata( w`j avnhbw/n te kai. evpakma,zwn mhde,pote lh,gein)”.
126
Cfr. Phil., Sacrif. 59, citato sopra.
86

dell’indefinito, dell’incompiuto e perciò imperfetto. Ad esempio, Aristotele nega che


esista un infinito in atto. Secondo lo Stagirita, qualche tipo dell’infinito può esistere
solo in potenza127. Infatti, se qualcosa è in atto, significa che è compiuto, se invece è in
potenza significa che non è ancora compiuto e può ricevere infinite forme. L’infinito,
dunque, esiste soltanto come potenza e non può mai diventare una cosa in atto.
Afferma, infatti, Aristotele: “Nessuna cosa che non abbia un fine è compiuta [oppure
perfetta]”128. Secondo questa teoria anche l’Assoluto dello Stagirita, ovvero il primo
Motore immobile, deve essere finito. Essendo in atto, anzi essendo egli l’atto puro, e
non avendo in sé nessuna potenzialità, è perfetto, compiuto, ma di conseguenza
finito129. Solo in Plotino, come osservano alcuni storici della filosofia, l’infinito
assumerà una connotazione positiva130. In ogni caso, già in Filone possiamo scorgere
che il concetto, che nei filosofi antichi provocava parecchie aporie, non è considerato
come negativo131. Infatti, il Dio dell’Alessandrino che è un’attività pensante e operante
è infinito. È infinito, perché infinite e illimitate sono le sue azioni e grazie che, però,
come osserva Filone, devono essere moderate o temperate secondo le capacità ricettive
delle creature finite132. In che modo l’Alessandrino è arrivato all’accezione positiva di
questo concetto che per i filosofi greci era così aporetico e negativo? Sicuramente
attraverso i concetti biblici come quello dell’onnipotenza e della provvidenza divina, dei

127
Aristotele dedica all’argomento dell’infinito tutto il libro G della sua Fisica, dove analizza
anche le dottrine dei suoi predecessori: i Ptagorici, Parmenide, Anassagora, Democrito e Platone. Cfr.
Aritot., Phys. 200 B sgg.
128
Cfr. Aristot., Phys. 207 A 14: te,leion dV ouvde.n mh. e;con te,loj. Osserviamo, inoltre, che anche
dal punto di vista linguistico la perfezione è legata al concetto del finito (o della compiutezza). Infatti,
nella frase qui riportata Aristotele, fa un certo gioco di parole (e se no, esprime semplicemente una
tautologia). Il termine te,leioj, dunque, significa giunto al termine, compiuto, ma anche realizzato e
perfetto, mentre la parola te,loj significa fine o termine. Ne consegue che non può essere perfetta una cosa
che non abbia un fine. Se il Dio dello Stagirita, dunque, deve essere perfetto, non può essere infinito.
129
Cfr. Aristot., Metaph. 1073 A 5-10.
130
Cfr. H. Owen, Infinity in Theology and Metaphysics, in The Encyclopedia of Philosophy, a
cura di P. Edwards, vol. 4, New York 1967, pp. 190 sgg. Cfr. anche voce: Apeiron (a;peiron), in: G.
Reale, Storia…, vol. 9: Assi portanti del pensiero antico e lessico, Milano 2010, pp. 103-104; Ibid., vol:
8: Plotino e il neoplatonismo pagano, Milano 2010, pp. 62 sgg.
131
Occorre aggiungere che questo fatto non sfugge a G. Reale al quale abbiamo accanato nella
nota precedente. Infatti, lo studioso italiano nel capitolo su Plotino della sua Storia della filosofia afferma
che già Filone di Alessandria, “almeno in una certa misura” e senza usare il termine a;peiron, aveva
attribuito a Dio il carattere dell’infinito. Cfr. G. Reale, Storia…, vol. 8, p. 62.
132
Cfr. Phil. Opif. 23: “Dio decise che bisognava profondere con prodigalità ricchi benefici ad
una natura che, senza il dono divino, era incapace di conseguire da sola un qualsiasi bene. Sennonché egli
profonde i benefici non in proporzione alla grandezza delle sue grazie, che sono infinite e illimitate (ouv
pro.j to. me,geqoj euvergetei/ tw/n e`autou/ cari,twn avperi,grafoi ga.r au-tai, ge kai. avteleu,thtoi), bensì
secondo le capacità ricettive di chi le accoglie. Infatti la natura delle cose create non è altrettanto atta a
ricevere il bene quanto lo è quella di Dio a elargirlo, poiché i poteri divini eccedono ogni misura, mentre
le cose create, essendo troppo deboli per accogliere la grandezza di quei poteri, avrebbero dovuto
scomparire, se Dio non avesse fatto una giusta valutazione della parte da assegnare a ciascuno in maniera
adeguata”. Cfr. anche Phil., Her. 32-33; Deus 77-81.
87

quali abbiamo parlato prima. Difatti, il Dio dell’Alessandrino pensa non solo se stesso,
come l’Assoluto di Aristotele, ma è rivolto anche verso il mondo. Lo crea e lo governa
attraverso infinite Potenze. Anche i suoi doni e le sue grazie in favore del creato, come
afferma la Bibbia, sono incommensurabili. In Aristotele solo ciò che è in potenza poteva
essere infinito, in Filone invece, dato che le Potenze hanno la sua fonte in Dio, anche
ciò che è in atto, ovvero attività stessa del Nous, diventa infinito e questa caratteristica
divina assume una connotazione positiva133.

133
Dato che sia in Aristotele sia in Filone il concetto della potenza viene espresso con lo stesso
termine della du,namij (anche se poi du,namij riceve i significati diversi nelle loro dottrine), possiamo
ipotizzare che, oltre i concetti biblici, quello dell’onnipotenza e della provvidenza divina, anche la teoria
dello Stagirita poteva in qualche modo far avvicinare l’Alessandrino alla formulazione del suo concetto
dell’infinità. Infatti, l’affermazione di Aristotele che l’infinito esiste solo in potenza o come potenza (cfr.
Aristot., Phys. 206 B 16: a;peiron duna,mei e;stin), poteva essere per Filone uno spunto per affermare che
la Potenza di Dio è infinita per quanto riguarda la sua natura. Lo Stagirita, poi, considera l’infinito come
indefinito e inconoscibile (cfr. Aristot., Phys. 207 A 25-26). Ma anche l’Alessandrino, come vedremo più
avanti (cfr. paragrafo: 1.4: La trascendenza gnoseologica di Dio), considera l’essenza delle Potenze e
quella di Dio indefinita e inconoscibile, appunto a causa dell’infinità delle loro nature. Dobbiamo
aggiungere, però, che c’è una differenza terminologica tra i concetti dell’infinito di Aristotele e quello di
Filone. Il primo conformemente alla tradizione filosofica parla dell’a;peiroj, invece il secondo preferisce
utilizzare l’aggettivo avperi,grafoj o avteleu,thtoj. La ragione di questa scelta è dovuta probabilmente –
come osservano R. Radice e G. Reale – all’accezione negativa del termine a;peiroj. Esso, infatti, come
abbiamo mostrato sopra, veniva inteso dai filosofi greci come indeterminato e incompiuto e perciò
imperfetto. Cfr. G. Reale, R. Radice, La genesi…, p. LXXIX.
Occorre però osservare che gli studiosi moderni dibattono (da più di un secolo) intorno
all’argomento dell’infinito in Filone. Cfr., ad esempio, H. Guyot, L’infinité divine depuis Philon le Juif
jusque’ à Plotin, Paris 1906; R. Mondolfo, L’infinito nel pensiero dei Greci, Firenze 1934, in particolare
cap. 17: Infinità negativa della materia e infinità positiva di Dio da Filone ai neoplatonici. Il dinamismo
e la triplice infinità divina. Continuità con la mistica orfica e con la teologia aristotelica, pp. 393 sgg.; A.
K. Geljon, Divine Infinity in Gregory of Nyssa and Philo of Alexandria, VigChr 59 (2005), pp. 154-177.
Il Guyot sostiene che Filone era stato il primo filosofo a parlare in modo positivo dell’infinità di Dio. La
sua tesi non sarebbe stata controversa, se lo studioso francese non avesse legato il concetto dell’infinito
alla nozione dell’a;poioj. Infatti, essere a;poioj significa essere privo di qualità. L’Alessandrino utilizza
questo termine per descrive l’incorporeità divina piuttosto che l’infinità. In realtà, dicendo che Dio è
a;poioj vuole dire semplicemente che Dio non ha niente a che fare con le caratteristiche proprie del corpo
umano (cfr. É. Bréhier, Les idées…, p. 72). Il Guyot invece argomenta che a;poioj significa anche “senza
limiti” e “senza determinazioni” e quindi “infinito” – appunto come la materia informe negli stoici. (cfr.
Ibid., pp. 50 sgg.). La tesi dello studioso francese è stata criticata da E. Mühlenberg, Die Unendlichkeit
Gottes bei Gregor von Nyssa. Gregors Kritik am Gottesbegriff der klassischen Metaphysik, Göttingen
1966, pp. 60 sgg.; e recentemente da A. K. Geljon, Divine Infinity…, pp. 168 sgg. Quest’ultimo,
comunque, scorge gli elementi del concetto positivo dell’infinità in Filone: “Although Guyot’s argument
is not convincing, there are in Philo starting-points for the notion of divine infinity” (Ibid., p. 171). Dopo
questa affermazione il Geljon esamina i passi di Opif. 21-23; Her. 32-33; Spec. Leg. I 32-50; Praem. 85;
Sacrif. 59; Leg. All. I 43-44 e altri (la maggior parte di essi abbiamo citato anche noi nel corso di questo
paragrafo) e mostra che i termini filoniani come avo,ristoj o avperi,grafoj ricorrono anche in Gregorio di
Nissa appunto nel contesto dell’argomento dell’infinità. Comunque, nonostante alla fine del suo articolo
lo studioso concluda: “Being without circumscription [i.e. avperi,grafoj] implies being infinite” (Ibid., p
176), si astiene dall’ammettere a Filone la priorità nella formulazione del positivo concetto dell’infinità di
Dio. Secondo lui era stato solo Gregorio di Nissa ad elaborare tale dottrina.
A nostro avviso gli studiosi si astengono dal parlare dell’infinità di Dio in Filone, perché da una
parte il pensatore ebreo non utilizza mai l’aggettivo a;peiroj che per gli antichi era il termine tecnico nel
discorso sull’infinito; dall’altra parte i grandi manuali della filosofia e le enciclopedie ripetono (ancora
oggi) che nell’ambito della filosofia greca era stato Plotino e nell’ambito della patristica era stato
Gregorio di Nissa a introdurre il positivo concetto dell’infinità divina. Tale status quaestionis, però, pian
88

Riassumendo questo paragrafo possiamo concludere che la dottrina della


trascendenza ontologica di Dio in Filone consiste soprattutto nel concetto dell’assoluta
differenza qualitativa della natura intelligibile divina rispetto a quella del creato.
L’essenza di Dio che è totalmente distinta e separata dall’universo non può essere
descritta con i termini fisico-spaziali. Essa trascende anche le entità intelligibili create,
come le anime o le virtù umane. Il creato non è capace di accogliere nemmeno una delle
Potenze divine nel loro stato puro, se non soltanto nello stato in qualche modo
temperato. È così perché le Potenze di Dio sono infinite e illimitate, mentre ciò che è
creato è finito e ha i propri limiti. La nozione dell’infinità di Dio sottolinea ancora di più
la sua trascendenza. Non toviamo tale dottrina, ossia così forte concetto della
trascendenza divina, in nessun altro filosofo greco anteriore a Filone134. Inoltre, secondo
l’Alessandrino, Dio, nonostante sia assolutamente incorporeo, conserva le
caratteristiche personali. Infatti, egli è il Nous che rispetto al mondo compie le stesse
funzioni che il nous dell’uomo rispetto al corpo umano. In seguito, Dio possiede la
volontà, ovvero l’atto della creazione non fu compiuto automaticamente, ma Dio stesso
volle e creò il mondo. Poi egli è la Guida del mondo cioè opera nel mondo e lo governa
lungo la storia. Queste ultime affermazioni non stanno in contraddizione con l’idea
dell’assoluta trascendenza divina grazie al concetto delle Potenze. Anche se Dio rimane
sempre il primo autore delle opere compiute nel mondo, in realtà sono le sue Potenze
che creano, governano e guidano il mondo. Oltre la trascendenza, con il concetto delle
Potenze, vengono salvaguardate altre idee filosofiche come quella della provvidenza,
l’onniscienza, l’atopia e l’ubiquità divina. Attraverso le Potenze dunque Dio interviene

piano sta cambiando grazie ad alcuni studi recenti (a volte ignorati dagli autori delle enciclopedie e dei
manuali) che mostrato che nella tradizione alessandrina sin dai tempi di Filone esisteva la tendenza di
descrivere Dio come infinito e che non era stato il teologo cappadoce, ma Clemente di Alessandria a
utilizzare per primo il termine a;peiroj nei confronti di Dio. Cfr. J. Whittaker, Philological Comments on
the Neoplatonic Notion of Infinity, in The Significance of Neoplatonism, ed. R. Harris, Norfolk 1976, pp.
155-172; A. Choufrine, The Aspects of Infinity in Clement of Alexandria, JNS 2 (1997), pp. 3-44,
successivamente pubblicato come una parte del volume dello stesso autore: Gnosis, Theophany, Theosis.
Studies in Clement of Alexandria’s Appropriation of Hiss Background, Patristic Studies vol. 5, New York
2002, Chapter III: Theosis as Infinity. A Background of Clement’s Interpretation of “Assimilation to
God”, pp. 159-197; T. Böhm, Theoria, Unendlichkeit, Aufstieg. Philosophische Implikationen zu “De
Vita Moysis” von Gregor von Nyssa, Leiden – New York – Köln 1998; P. Tzamalikos, Origen.
Cosmology and Ontology of Time, Leiden 2006, spec. paragrafo: Time and the Notion of Infinite, pp. 245-
259, dove lo studioso mostra che anche in Origene Dio è considerato come infinito. In ogni modo,
bisogna notare che già R. Mondolfo, nella sua monografia del 1934 (ignorata da molti studiosi), aveva
mostrato che “tutta la speculazione, anzi, a carattere essenzialmente religioso, degli ultimi secoli
dell’ellenismo, dai giudaico-allessandrini ai neo-platoinici, ha di mira soprattutto (o esclusivamente)
l’infinità divina, tutta spirituale; e di quella materiale non si cura, se non in quanto possa ritenerla
derivazione o antitesi necessaria dell’infinità del principio divino” (Id., L’infinito…, p. 393). Ritorneremo
a questo argomento nel capitolo su Clemente.
134
È vero che già in Platone e in Aristotele Dio è trascendente e intelligibile, però non viene mai
considerato come infinito.
89

nell’universo, conosce ogni cosa e, non identificandosi con la sostanza corporea del
mondo, come avrebbero voluto gli stoici, è onnipresente.

1.3. Il Logos: tra la trascendenza e l’immanenza ontologica

Il concetto del Logos non è esattamente il tema della nostra tesi. Infatti esso
include in sé una problematica talmente complessa, che potrebbe essere l’argomento di
un’altra monografia. Per questo, nel paragrafo presente, desideriamo analizzare
solamente i temi che riguardano il problema del Logos nel contesto della dottrina della
trascendenza di Dio. Quale rapporto, dunque, intercorre tra il Dio trascendente e il
Logos? In che senso il Logos è trascendente rispetto al mondo? Il fatto del suo essere
trascendente significa che egli è coeterno con Dio? In che modo il Logos, essendo
trascendente, può essere intermediario tra Dio e il mondo? Queste sono le questioni
principali che cercheremo di analizzare. Alcune risposte alle domande suddette, in
maniera embrionale, si trovano già nei paragrafi precedenti. Sappiamo ormai che il
Logos inteso come il to,poj, ovvero come il luogo delle idee e delle Potenze, si identifica
con la mente divina. In questo senso egli è identico all’essenza di Dio. Anche il Logos,
dunque, è assolutamente trascendente ed eterno proprio come Dio stesso. Ma il Logos
viene inteso da Filone anche come il complesso delle idee e delle Potenze che operano
nel mondo. Queste, avendo la loro fonte nella mente divina, ed essendo di natura
intelligibile, trascendono in certo qual modo le realtà di natura sensibile. Ma sono anche
coeterne a Dio? Il Logos che le racchiude in sé, o che si identifica con esse, è una
creatura o esisteva ab aeterno?

La risposta a queste domande non è facile. Infatti, Filone non parla in extenso di
tale problema. Spesso, poi, si serve a questo proposito delle metafore prese dalle realtà
create, come quella dell’architetto che abbiamo esaminato nel paragrafo precedente, che
non riescono a descrivere esattamente lo status ontologico del Logos. Chiariscono un
solo aspetto della realtà – in questo caso: che il Logos è di natura intelligibile ed è
costituito di pensieri divini – omettono, però tanti altri aspetti. La mente dell’architetto,
ad esempio, nella quale viene fondato il piano intelligibile della città, non è eterna,
quella di Dio, invece, lo è. Il piano della città appare in essa con il passare del tempo,
ovvero dal momento in cui l’architetto abbia preso la decisione di prendere la
responsabilità per la costruzione della città. E il piano della mente divina? Anch’esso
90

cominciò ad esistere in qualche momento, o piuttosto veniva costruito pian piano,


secondo le tappe descritte dal racconto del libro della Genesi, oppure esisteva ab
aeterno? A proposito, dunque, del Logos inteso come il ko,smoj nohto,j, troviamo nelle
opere filoniane affermazioni contraddittorie. Inoltre, nonostante l’Alessandrino voglia
parlare filosoficamente di Dio, non cerca di descrivere fino in fondo la vita intradivina
che precedeva l’atto della creazione135, anzi, secondo il nostro filosofo anche l’atto
creativo stesso trascende il sapere umano. Infatti, anche se Filone dedica molto spazio
nelle sue opere alla interpretazione allegorica del libro della Genesi, in un passo dichiara
che “la creazione risulta oscura, impensabile e impenetrabile al genere dei mortali”136. Il
concetto del Logos, invece, nell’aspetto che vogliamo analizzare, è collegato sia con la
problematica della vita intradivina sia con quella che riguarda la creazione.

Dagli indizi, che Filone ci ha lasciato, il Logos, inteso come l’insieme delle idee
e delle Potenze divine, può essere esaminato in due momenti: 1. prima che Dio abbia
preso la decisione di creare il mondo; 2. dopo questa decisione, ovvero nel momento in
cui egli ha generato il ko,smoj nohto,j come archetipo del mondo sensibile. Infatti, in un
passo che abbiamo già riportato nel paragrafo precedente (Deus 77) Filone dice: “Dio si
vale delle Potenze pure rispetto a se stesso (pro.j e`auto.n), e delle Potenze miscelate
rispetto alla creazione (pro.j ge,nesin)”. Dio, dunque, si vale delle Potenze ab aeterno,
anche prima che egli abbia voluto creare il mondo. Se l’insieme delle Potenze e delle
idee divine viene chiamato da Filone con il termine ‘Logos di Dio’, anche in questo
caso dobbiamo affermare che il Logos è coeterno a Dio137. Infatti Dio, secondo Filone, è
l’attività pensante: lo era prima e lo è dopo la creazione del mondo. Ab aeterno, dunque,
egli pensa il Logos. E il Logos è anche l’effetto di questa attività. A questa affermazione
dobbiamo aggiungere che l’attività eterna di Dio è legata alle idee divine eterne e alle
Potenze pure138.

135
Filone considera totalmente inconoscibile la sostanza di Dio. Questo problema, però, sarà
affrontato in maniera più dettagliata nel paragrafo successivo.
136
Cfr. Phil., Leg. All. I 20.
137
Qualche volta Filone utilizza la parola avge,nhtoj, normalmente riservata solo al Dio
trascendente, anche nei confronti delle Potenze pure di Dio. Comparando Dio al sole e le Potenze ai suoi
raggi l’Alessandrino dice: “O tu pensi che, sì, non si possa guardare la pura fiamma del sole, la nostra
vista si spegnerà, accecata dal fulgore dei raggi, prima che si sia slanciata per percepirli: eppure anche il
sole è una delle opere di Dio, parte del cielo, etere condensato, ma che si possano invece abbracciare col
pensiero nella loro purezza quelle Potenze ingenerate (ta.j de. avgenh,touj a;ra duna,meij) che, stando
intorno a Dio, irradiano splendidissima luce?”. Cfr Deus 78.
138
Cfr. Phil., Deus 77.
91

Ma, la questione si complica quando vogliamo stabilire lo status ontologico del


Logos inteso come archetipo del mondo sensibile, cioè nel momento in cui Dio ha già
preso la decisione di creare il mondo, ha fondato nella sua mente il piano intelligibile
del mondo ed ha generato la Potenza creatrice. Dal punto di vista filosofico, possiamo
ipotizzare che Dio pensi il mondo anche ab aeterno e che ab aeterno esista in lui la
potenzialità (o la Potenza) della creazione. Nei passi, però, che parlano della
‘fondazione’ del ko,smoj nohto,j, ovvero quello che contiene gli archetipi del mondo
visibile, Filone utilizza il vocabolario di tipo temporale. Ad esempio, nel passo che
abbiamo analizzato nel paragrafo precedente (Opif. 16-19), l’Alessandrino, sviluppando
la sua metafora dell’architetto, dice che Dio “quando (w`j) concepì il disegno di fondare
‘la grande città’, in una prima fase (pro,teron) ne strutturò nella propria mente i modelli
di essa, componendo i quali portò a compimento il mondo intelligibile”139. Gli avverbi:
w`j e pro,teron suggeriscono che il ko,smoj nohto,j è stato fondato nella mente divina
dopo che Dio abbia deciso di fondare il mondo sensibile e prima che esso fosse creato.
Ma si può parlare del ‘prima’ o del ‘poi’ mentre si parla dei pensieri di Dio che conosce
simultaneamente ciò che è e ciò che avverrà140? O forse la metafora del mondo visibile
e il linguaggio umano non riescono a descrivere bene tutta la realtà divina? Filone è
consapevole di questa aporia filosofica quando afferma:

Mosè dice che «in principio Dio creò il cielo e la terra», non intendendo
“principio”, come pensano certuni, in senso cronologico, perché il tempo non
esisteva prima del mondo, ma è nato insieme ad esso, o dopo. Il tempo infatti è
uno spazio intermedio determinato dal movimento del mondo e il movimento
non può esistere prima dell’oggetto che viene mosso, ma necessariamente si
produce o dopo o simultaneamente. Ne consegue dunque la necessità che anche
il tempo sia coevo al mondo o più giovane di esso. Osar sostenere che sia più
vecchio significherebbe mancare di senso filosofico. Se “principio” non è inteso
qui come tale in senso cronologico, sembrerebbe verosimile che fosse indicato
il principio secondo l’ordine numerico in modo che l’espressione “in principio
creò” equivalesse a “fece il cielo come prima cosa”141. […] In primo luogo

139
Phil. Opif. 19: w`j a;ra th.n megalo,polin kti,zein dianohqei.j evneno,hse pro,teron tou.j tu,pouj
auvth/j( evx w-n ko,smon nohto.n susthsa,menoj avpete,lei.
140
Cfr. Phil., Confus. 140; Deus 29.
141
Il traduttore del brano citato ha tradotto l’espressione: prw/ton evpoi,hse to.n ouvrano,n come
“per prima cosa creò il cielo”. Questa traduzione contraddice le spiegazioni anteriori dell’Alessandrino.
Infatti il cielo è primo dal punto di vista numerico o assiologico, non temporale. Lo dice esplicitamente
Filone stesso. Per questo motivo ho preferito tradurre la frase suddetta come: “fece il cielo come prima
cosa”. Cfr. D. T. Runia, Commentary… p. 156-158.
92

dunque il Creatore fece il cielo incorporeo, la terra invisibile, il prototipo


astratto dell’aria e del vuoto142.

Abbiamo già detto che, secondo Filone, la prima frase della Bibbia: evn avrch/|
evpoi,hsen o` qeo.j to.n ouvrano.n kai. th.n gh/n (Gen. 1,1) non si riferisce alla creazione del
mondo visibile, ma a quella del mondo intelligibile. L’Alessandrino è stato condotto a
questa conclusione dalla seconda frase della Bibbia (Gen. 1,2) tradotta in greco in modo
seguente: h` de. gh/ h=n avo,ratoj kai. avkataskeu,astoj. Questo mondo intelligibile, era
invisibile e incorporeo143, proprio come lo è Dio, ed era costituito delle idee, oppure
come, in un altro passo, afferma Filone “delle strutture costitutive” (susta,seij) degli
altri esseri144. Ora, nel passo sopraccitato, il nostro filosofo afferma che la generazione
del ko,smoj nohto,j è avvenuta fuori del tempo. A questo proposito si serve della
definizione aristotelica del ‘tempo’ che “è il numero del movimento secondo il prima e
il poi”145. Se prima della creazione del mondo visibile – ragiona Filone – non ci fu
nessun movimento, non poteva esservi neanche il tempo. Infatti non ci fu nessun
‘prima’ o ‘poi’. Non si può dire dunque che ‘prima’ (in qualche punto del tempo) Dio
prese la decisione di creare il mondo, e ‘poi’ (in un altro punto di tempo) creò nella sua
mente il mondo intelligibile, perché i termini ‘prima’ e ‘poi’, secondo Filone, possono
essere usati correttamente solo dal momento della creazione del mondo visibile. Dunque
la metafora dell’architetto, che viene espressa nel linguaggio umano, non rende
precisamente tutta la realtà che riguarda la vita intradivina146.

142
Phil., Opif. 26-27. 29.: fhsi. dV w`j ¹evn avrch/| evpoi,hsen o` qeo.j to.n ouvrano.n kai. th.n gh/n¹( th.n
avrch.n paralamba,nwn ouvc w`j oi;ontai, tinej th.n kata. cro,non\ cro,noj ga.r ouvk h=n pro. ko,smou( avllV h'
su.n auvtw/| ge,gonen h' metV auvto,n\ evpei. ga.r dia,sthma th/j tou/ ko,smou kinh,sew,j evstin o` cro,noj( prote,ra
de. tou/ kinoume,nou ki,nhsij ouvk a'n ge,noito( avllV avnagkai/on auvth.n h' u[steron h' a[ma suni,stasqai(
avnagkai/on a;ra kai. to.n cro,non h' ivsh,lika ko,smou gegone,nai h' new,teron evkei,nou\ presbu,teron dV
avpofai,nesqai tolma/n avfilo,sofonÅ eiv dV avrch. mh. paralamba,netai tanu/n h` kata. cro,non( eivko.j a'n ei;h
mhnu,esqai th.n katV avriqmo,n( w`j to. ¹evn avrch/| evpoi,hsen¹ i;son ei=nai tw/| prw/ton evpoi,hse to.n ouvrano,n.
[…] prw/ton ou=n o` poiw/n evpoi,hsen ouvrano.n avsw,maton kai. gh/n avo,raton kai. ave,roj ivde,an kai. kenou/.
143
Cfr. Phil., Opif. 36.
144
“La Scrittura chiama ‘libro’ il Logos di Dio, sul quale si dà il caso che siano scritte e fissate le
strutture costitutive degli altri esseri (bibli,on de. ei;rhkele,gw to.n tou/ qeou/ lo,gon( w-| sumbe,bhken
evggra,fesqai kai. evgcara,ttesqai ta.j tw/n a;llwn susta,seij)”. Phil., Leg. All. I 19.
145
Aristot., Phys. 219 B 1-2: tou/to ga,r evitin o` cro,noj( avriqmo.j kinh,sewj kata. to. pro,teron
kai, u[steron. Oltre quella aristotelica, Filone potrebbe basarsi anche sulla concezione del tempo platonica,
che però non è cosi precisa come quella aristotelica (cfr. Plat., Tim. 37 D-E; 38 C), oppure sul concetto
del tempo della scuola del Portico (cfr. SVF, II 509). Cfr. anche R. Radice, Commentario…, p. 246.
146
Anche tutte le tappe della creazione del ko,smoj nohto,j vengono descritte da Filone con i
termini di tipo temporale. Ma all’inizio e alla fine di questa descrizione l’Alessandrino osserva che tutto
quello è avvenuto nel giorno ‘uno’ che era fuori del tempo. Infatti la Bibbia dei LXX solo nel caso del
‘primo giorno’ della creazione utilizza l’aggettivo numerale (h`me,ra mi,a) e non l’ordinale come fa per i
giorni successivi. Cfr. Phil., Opif. 15 e 35. Questo mondo intelligibile – aggiunge nello stesso passo
Filone – ha la natura monadica e indivisibile. Parlare dunque delle tappe o delle parti della sua creazione è
dovuto dunque alla povertà del linguaggio umano che non è capace di descrivere bene ciò che riguarda il
93

In seguito, l’Alessandrino, per spiegare il significato della prima frase biblica: evn
avrch/| evpoi,hsen o` qeo.j to.n ouvrano.n kai. th.n gh/n, distingue due avrcai,: quella ontologica,
o logica, e quella temporale. Il mondo intelligibile, dunque, è la realtà prima, non perché
sia stata creata prima di tutte le altre realtà, ovvero ‘prima’ dal punto di vista temporale,
ma perché il ko,smoj nohto,j è il primo nell’ordine logico e ontologico. Il mondo visibile
proviene da esso e ontologicamente dipende da esso. Il Logos, dunque, è stato fatto
come ‘prima cosa’ perché è il principio ontologico (avrch,), degli altri esseri. Questa
analisi, però, non ci permette di attestare che il Logos, inteso come l’insieme delle idee,
sia coeterno a Dio. Dal passo sopra riportato possiamo ricavare solo la conclusione che
il mondo intelligibile è stato generato fuori del tempo e che esso è stato costituito da
Dio come principio ontologico di tutte le cose. In un altro passo, invece, Filone,
ispirandosi alla stessa definizione aristotelica del tempo, continua ed allarga il tema che
ci interessa:

Dio è l’Artefice anche del tempo, giacché è il Padre del padre del tempo
– e padre del tempo è il mondo – e nel movimento del mondo ci fa vedere
l’origine del tempo; per conseguenza, il tempo, rispetto a Dio, è nella posizione
del nipote rispetto al nonno. Questo mondo, infatti, è dei due figli di Dio, il più
giovane in quanto è percepibile mediante i sensi; il più anziano, quello di natura
intelligibile, egli lo giudicò degno dei diritti della primogenitura e pensò bene di
farlo rimanere presso di Sé (avxiw,saj parV e`autw/| katame,nein dienoh,qh). Questi,
dunque, il figlio più giovane, quello percepibile mediante i sensi, in quanto è
mosso, fa sorgere e brillare la natura del tempo. Per conseguenza, non c’è nulla
di futuro dal punto di vista di Dio, che tiene soggetti a Sé i limiti dei tempi: e
infatti, la vita di Dio non è tempo, ma eternità, l’Archetipo e il Modello del
tempo (ouv cro,noj( avlla. to. avrce,tupon tou/ cro,nou kai. para,deigma aivw.n o` bi,oj
evsti.n auvtou/); e nell’eternità non c’è né passato né futuro, ma solo stabile
presente147.

Logos divino. In un altro passo Filone dice esplicitamente che il mondo non fu creato in sei giorni, ma
che la creazione è avvenuta fuori del tempo. Cfr. Phil., Leg. All. I 20. Cfr. anche Phil., Sacrif. 65.
Secondo D. T. Runia lo scopo della descrizione dell’atto creativo in maniera sequenziale è quello
di mostrare l’organizzazione gerarchica presente nel mondo. Ma, conclude lo studioso americano, questo
non significa che un tale tipo di descrizione va inteso nel senso temporale: “For all his appreciation of the
sequential nature of the creation account, Philo firmly rejects the idea that the sequence itself has a
temporal aspect. The fact that the cosmos was created in six days does not indicate that the creator needed
a length of time to do his work, for it is probable that God does all things simultaneously, not only when
he gives his commands but also when he does his planning”. Cfr. D. T. Runia, Philo of Alexandria and
the ‘Timaeus’…, pp. 420.
147
Phil., Deus 31-32.
94

Il mondo intelligibile, ovvero il Logos, viene chiamato dall’Alessandrino ‘il


figlio più anziano’, il mondo visibile invece ‘il figlio più giovane’ di Dio. Può sembrare
che ambedue le immagini tendano ad esprimere la precedenza temporale dell’uno
rispetto all’altro. Ma dal passo citato risulta che anche il mondo visibile è stato creato
fuori del tempo. Infatti, il tempo viene chiamato ‘il nipote’ rispetto a Dio. Esso nasce
quando il mondo visibile è già stato portato a compimento. Che cosa dunque significa
che il Logos è “il figlio più anziano” rispetto al mondo “il figlio più giovane”, se l’uno e
l’altro furono generati fuori del tempo? A questa domanda possiamo dare la stessa
risposta, che abbiamo già espresso sopra, ossia che il mondo intelligibile essendo il
prototipo del mondo visibile è logicamente e ontologicamente primo rispetto a quello
ultimo. Ma c’è ancora un’altra differenza tra di loro. Il mondo visibile cominciò ad
esistere nel tempo, quello intelligibile invece rimase presso Dio (avxiw,saj parV e`autw/|
katame,nein dienoh,qh). Se la vita di Dio non è tempo ma eternità (ouv cro,noj( avlla. aivwn.
o` bi,oj evsti.n auvtou/), e se “nell’eternità – come osserva Filone – non c’è né passato né
futuro, ma solo stabile presente”, e se il Logos è stato generato nella mente divina, in
quanto effetto della sua attività pensante, forse anch’esso è eterno ugualmente con Dio?
In realtà, Filone stesso parlando del Logos, inteso come il mondo intelligibile, qualche
volta, aggiunge accanto al termine lo,goj l’aggettivo avi,dioj, ossia ‘eterno’148.

148
Cfr. Phil., Plant. 9. 18. In un altro luogo Filone paragonando natura intelligibile con il mondo
visibile dice che Mosè attribuì all’invisibile l’eternità: “Il grande Mosè, ritenendo che l’ingenerato fosse
di natura affatto diversa dal visibile, dacché ogni cosa sensibile, in quanto soggetta ad essere generata e a
subire mutamenti, non rimane mai nella stessa condizione, attribuì all’invisibile l’eternità come proprietà
ad esso legata da intima parentela (tw/| me.n avora,tw| kai. nohtw/| prose,neimen w`j avdelfo.n kai. suggene.j
avidio,thta) e al sensibile assegnò il nome ad esso appropriato di ‘genesi’ [scil.: ciò che diviene]. Ora
perché questo mondo è visibile e sensibile, ne consegue di necessità che sia anche generato. Non è quindi
fuor di proposito che Mosè abbia descritto la genesi del mondo, parlando con profonda riverenza
dell’opera di Dio”. Phil., Opif. 12. Cfr. anche Phil., Mutat. 267: “‘Eternità’ significa, nelle Scritture, vita
del mondo intelligibile, come ‘tempo’ significa vita del mondo sensibile”.
Alcuni studiosi invece sono convinti che, secondo Filone, il mondo delle idee è creato. H. A.
Wolfson, ad esempio, sostiene che le idee, le stesse che prima erano solamente i pensieri di Dio,
successivamente vengono create al di fuori dell’essenza divina e in questo modo costituiscono il Logos
creato. Questo Logos non si identifica più con la mente divina, ma è distinto da Dio. Lo stesso studioso
sostiene anche che nell’esegesi del giorno “uno” Filone parli anche della creazione della materia. Il
mondo intelligibile, creato nel giorno “uno”, sarebbe dunque qualcosa di più che solamente il mondo dei
pensieri di Dio. Cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, pp. 200-217; 226-240; 300-316. La tesi di Wolfson è
stata criticata da molti studiosi. Cfr. K. Bormann, Die Ideen- und Logoslehre Philonis von Alexandrien.
Eine Auseinandersetzung mit H. A. Wolfson, Köln 1955, pp. 42 sgg.; D. T. Runia, Philo of Alexandria
and the ‘Timaeus’…, pp. 287 sgg.; D. T. Runia, Commentary…, pp. 171 sgg. Sul dibattito sulle posizioni
di Wolfson cfr. anche R. Radice, Platonismo…, pp. 46 sgg. Il fatto che tanti studiosi hanno criticato
questa particolare interpretazione di Wolfson non significa che tutti loro sostengono che, secondo Filone,
il Logos inteso come il mondo intelligibile sia generato eternamente. Ci sono, però, anche gli studiosi che
suggeriscono appunto tale soluzione interpretativa. Cfr. A. Maddalena, Filone…, pp. 300, 312, 314; D. T.
Runia, Philo of Alexandria and the ‘Timaeus’…, pp. 154, 220 sgg.,418 sgg.; G. May, Creatio ex nihilo.
The Doctrine of ‘Creation out of Nothing’ in Early Christian Thought, Edinburgh 1994, pp. 19-20; D.
Bradshaw, Aristotle East and West. Metaphysics and the Division of Christendom, New York 2004, pp.
95

In Filone possiamo trovare dunque sia il linguaggio di tipo temporale per quanto
riguarda l’esistenza del Logos sia le affermazioni che suggeriscono la sua eternità. A
che cosa è dovuta questa ambiguità? Proponiamo la seguente ipotesi: lo scopo delle
opere di Filone, come abbiamo mostrato nel primo paragrafo di questo capitolo, è quello
di inserire il giudaismo nell’ambito della filosofia greca e mostrare ai suoi
contemporanei che il giudaismo è la vera filosofia. Ma non possiamo dimenticare che il
nostro filosofo rimane sempre il commentatore giudeo delle Scritture giudaiche. Non
vuole, dunque, contraddire quello che, con i termini del tipo temporale, chiaramente
afferma il libro della Genesi. Non vuole lasciar trasparire che le dottrine giudaiche
stanno in opposizione alla filosofia greca, quindi cerca di trovare una via di mezzo:
inserisce i concetti filosofici greci nella sequenza temporale inclusa nel racconto
biblico149. In Platone le idee erano eterne, increate, immutabili, immobili, incorruttibili,
sussistenti di per sé150. Anche in Filone troviamo simili caratteristiche delle idee, ma
l’Alessandrino corregge un po’ la dottrina platonica perché sostiene che il mondo
intelligibile, essendo prodotto dell’attività pensante dell’Assoluto, sussiste nella mente
divina. In questo modo riesce a salvaguardare il principale dogma del giudaismo,
ovvero il monoteismo che non accetterebbe l’esistenza dei due principi della creazione
trascendenti: quello formale e quello efficiente. Il nostro filosofo, però, non desidera
rettificare Platone in extenso. Potrebbe dunque, pur non dicendolo esplicitamente,
supporre che il Logos, inteso come il cosmo delle idee, sia eterno il che sarebbe
conforme al principale ‘dogma’ del platonismo.

60 sgg, D. Winston, Philo’s Theory of Eternal Creation: Prov. 1.6-9, in The Ancestral Philosophy.
Hellenistic Philosophy in Second Temple Judaism. Essays of Dawid Winston, a cura di G. E. Sterling,
Providence 2001, pp. 117-127. La tesi di quest’ultimo è molto convincente. Essa, però, si basa su un solo
passo, cioè del Prov. I 6-9, pervenutoci solamente nella traduzione armena che da molti studiosi è ritenuta
corrotta. Inoltre, il passo non parla propriamente della generazione del Logos ma della creazione del
mondo che avviene eternamente. I principali punti del ragionamento di Winston sono seguenti: 1. Dio è
un’attività pensante e pensa ab aeterno. 2. Il suo atto di pensare è legato all’atto di creare. 3. Dio crea
tutto simultaneamente e fuori del tempo. 4. Se è così, Dio pensando eternamente, eternamente ordina la
materia preesistente. 5. Da questo risulta che non c’era neanche il tempo in cui la materia fosse
disordinata perché Dio la ordina eternamente con i suoi pensieri. A proposito dell’ultima tesi, però, lo
studioso americano ha dei dubbi che esprime in tante domande senza la risposta. Vediamo, dunque, che il
concetto della generatio ab aeterno del Logos (in tutti gli stadi della sua esistenza e non solo al livello
della trascendenza) è giustificabile se si presuppone il concetto della creatio aeterna del mondo. Tale
concetto, però, salvaguarderebbe, secondo D. Winston, la dottrina filoniana dell’immutabilità di Dio. Cfr.
anche D. Winston, Philo of Alexandria, in: The Cambridge History of Philosophy in Late Antiquity, a
cura di. L. P. Gerson, Cambridge, 2010, vol. I, spec. pp. 241-243.
149
Anche D. Winston osserva che “the many passages in which Philo speaks of creation in
temporal terms are not to be taken literally, but only as accommodations to the biblical idiom”. Cfr. D.
Winston, Philo’s Theory…, p. 122.
150
Cfr. Plat., Phaed. 65 C – 66 A; 75 C – D; 78 D – 79 A; Symp. 210 E – 211 B; Phaedr. 247 C
– E; Resp. 485 A – B; Crat. 385 E – 386 E; 439 B – 440 A; Polit. 286 A.
96

Non è nostra intenzione imporre al pensiero dell’Alessandrino concetti che


provengono da soluzioni filosofiche posteriori. Per questo sottolineiamo che in Filone
non troviamo ancora – pronunciata expressis verbis – l’idea della generatio perpetua
del Logos da parte del Padre. Questa teoria sarà una grande scoperta di Origene 151. Poi,
la generazione del ko,smoj nohto,j, della quale parla l’Alessandrino, non equivale
neanche alla prima creazione descritta dall’autore del De Principis, che riguarda gli
esseri razionali intelligibili152. Secondo Filone, le idee che costituiscono il Logos, sono
solo i pensieri di Dio. Perciò possiamo ipotizzare la loro eternità. Nonostante queste
differenze troviamo nelle opere filoniane alcuni indizi che avrebbero potuto indirizzare
l’Adamanzio alla formulazione della sua tesi originale. Ecco uno di questi passi
significativi:

Il Padre Creatore di tutta la realtà concesse all’Arcangelo, al Logos


sopra ogni cosa venerabile il dono straordinario di separare, ponendosi in
mezzo, il creato dal Creatore. Egli è colui che intercede in nome del mortale
perennemente infelice, al cospetto dell’Incorruttibile, e, nello stesso tempo, è
l’ambasciatore del comandante presso i suoi sudditi. Egli esulta per questo
dono, e, magnificandolo dice: «Ed io rimasi in mezzo fra il Signore e voi»153, io
che non sono né ingenerato come Dio, né generato come voi (ou;te avge,nhtoj w`j
o` qeo.j w'n ou;te genhto.j w`j u`mei/j), ma che sto in mezzo a questi estremi, e sono
garante presso tutti e due: agli occhi di Chi lo genera, garantendo che il creato
non sarà mai del tutto ribelle e non si allontanerà scegliendo il disordine al posto
dell’ordine; agli occhi di chi è stato generato, garantendo la rassicurante
speranza che il Dio benefico non distoglierà mai gli occhi dalla sua propria
opera. Io sono inviato come un araldo per stipulare la pace presso Dio che ha
stabilito di distruggere le guerre ed è eterno guardiano della pace154.

In questa metaforica personificazione del Logos mediatore viene espresso il


concetto della sua generazione che infatti è di un tipo particolare. Egli, dunque, non è né
avge,nhtoj w`j o` qeo.j né genhto.j w`j u`mei/j. Osserviamo che in Filone il termine ‘Logos’,
anche se qualche volta viene accompagnato con l’aggettivo avi,dioj, non viene mai
caratterizzato come avge,nhtoj. Infatti, il participio avge,nhtoj si riferisce solo a una
proprietà che appartiene esclusivamente a Dio. Ma il Logos non è neanche genhto,j

151
Cfr. Orig., De Princ. I 2,2; I 2,9; I 2,11; IV 4,1.
152
Cfr. Orig., De Princ. I 6,2; II 9,1 sgg.; III 1,22.
153
Deut. 5,5.
154
Phil., Her. 205-206.
97

nello stesso modo in cui è genhto.j il mondo visibile. Non possiamo concentrarci
sull’analisi del significato del verbo gi,gnomai perché esso, come del resto altri simili:
poie,w, kti,zw o genna,w, prima della controversia ariana, venivano utilizzati come
sinonimi, ovvero sia nel contesto della creazione sia nel contesto della generazione.
Anche nel nostro caso vediamo che il participio genhto,j viene riferito sia al Logos sia al
creato. Nonostante ciò si può notare la differenza tra la generazione del Logos e la
creazione del mondo. Il Logos, dunque, è ge,nhto,j in modo particolare perché è stato
generato dalla sostanza divina. Anche se questa generazione è avvenuta in funzione
della creazione e del governo del mondo, il Logos rimane sempre legato alla sostanza
divina155. La sua funzione mediatrice consiste nel compiere la volontà di Dio nel mondo
e nell’intercedere per il mondo al cospetto di Dio. Per questo Filone dice che egli sta “in
mezzo a questi due estremi”. Si può affermare che il Logos, proprio per la sua
generazione unica e fuori del comune, ha due ‘volti’: uno è sempre rivolto verso Dio,

155
In un passo Filone dice che il Logos che opera nel mondo “ha sempre la sua dimora
vicinissima al solo Essere che veramente è, senza che si frapponga alcuno spazio intermedio (o` evgguta,tw(
mhdeno.j o;ntoj meqori,ou diasth,matoj( tou/ mo,nou( o[ e;stin avyeudw/j( evfidrume,noj)”. Cfr. Phil., Fug. 101.
Ma c’è anche un altro testo in cui l’Alessandrino afferma che Dio prima e dopo la creazione del
mondo era assolutamente solo e semplice. Se è così, la generazione del Logos sarebbe avvenuta nella
mente divina, e non fuori di essa come ipotizza H. A. Wolfson. Sostenendo l’assoluta solitudine e
semplicità di Dio, Filone identifica il Logos con la mente divina e non ammette che ci sia un’entità divina
sussistente al di fuori di essa. Nel mondo creato, dunque, opererebbe una facoltà divina, anch’essa
chiamata il ‘Logos’, che avrebbe la sua fonte nel Logos unito, prima e dopo la creazione del cosmo, alla
sostanza divina. Il testo che potrebbe suggerire tale interpretazione si trova nel luogo in cui
l’Alessandrino interpreta la frase biblica «Non è bene che l’uomo sia solo» del Gen. 2,18: “Ma perché
mai, o profeta, non è bene che l’uomo sia solo? Perché dice la Scrittura, è bene che l’esser solo spetti a
chi è solo per natura e poiché Dio, per il fatto di essere in sé uno, è solo, nulla v’è che sia simile a lui (cfr.
Is. 46,5). E, inoltre, poiché è bene che colui che è sia solo – ed, anzi, il bene compete soltanto a lui – ecco
che non è bene che “l’uomo sia solo”. Ma il fatto che Dio sia solo è da intendersi anche così. Come prima
della creazione del cosmo non c’era nulla insieme a Dio, così, a creazione avvenuta, nulla v’è che sia al
suo livello: Dio pertanto non ha assolutamente bisogno di nulla. L’interpretazione che segue è ancora
migliore. Dio è solo ed è uno: la sua natura non è composta, ma semplice, mentre ciascuno di noi uomini,
nonché tutte quante le altre creature, siamo di natura molteplice” Cfr. Phil., Leg. All. II 1-2. Da questo
passo che esplicitamente afferma la semplicità e la solitudine di Dio (prima e dopo la creazione del
mondo), insieme agli altri che descrivono la generazione del Logos avvenuta prima della creazione del
mondo, possiamo ricavare il concetto della generatio perpetua del Logos da parte di Dio. Se Dio ab
aeterno era ed è assolutamente solo e non v’è nulla accanto a lui, né prima né dopo la creazione del
cosmo, il Logos dovrebbe essere generato nella mente divina senza staccarsi mai da essa. Infatti, il mondo
intelligibile, come ormai sappiamo (e come spiega Filone nel testo che segue il passo citato, crf. Phil.,
Leg. All. II 2-4), è monadico, ovvero non si possono distinguere in esso né luoghi né parti nel senso fisico
spaziale. Inoltre, la vita di Dio non è tempo ma eternità (cfr. Phil., Deus 31-32, Opif. 12, Mutat. 267).
Così, dunque, l’affermazione filoniana che non c’è nulla insieme a Dio né prima della creazione né dopo
di essa, si deve intendere nel senso che il Logos ab aeterno viene generato e sussiste in Dio e si identifica
con lui. È Dio rivolto verso il mondo. In questo modo viene chiarita anche la frase del Her. 206, che
abbiamo analizzato sopra, cioè che il Logos è ou;te avge,nhtoj w`j o` qeo.j w'n ou;te genhto.j w`j u`mei/j. La sua
generazione dunque è diversa di quella nostra perché il Logos pur essendo generato non si stacca mai
dalla sostanza di colui che lo genera. Tuttavia, come abbiamo già detto, non vogliamo imporre alla
dottrina filoniana le tesi che saranno espresse esplicitamente solo da Origene alcuni secoli dopo. Infatti,
l’ambiguità delle affermazioni filoniane non ci permette di formulare una tesi infallibile a questo
proposito.
98

l’altro verso il creato. Il mondo visibile, invece, è stato creato al di fuori della sostanza
divina e non da Dio in persona, ma tramite il Logos. Il suo essere ge,nhto,j è dunque di
un’altra natura.

Occorre, però, notare che il passo sopra riportato non parla più del Logos inteso
come l’insieme delle idee. Infatti, l’autore di questa metaforica personificazione tratta di
un’entità già impegnata nell’atto della mediazione tra Dio e il mondo creato. Alcuni
capitoli prima Filone descrive lo stesso Logos come un essere che partecipa attivamente
alla creazione del mondo dividendo tutta la sostanza dell’universo (th.n tou/ panto.j
ouvsi,an) in parti156: “all’inizio ne fece due parti, il pesante e il leggero, distinguendo lo
spesso dal sottile. Poi divise nuovamente ciascuna: il sottile in aria e fuoco, lo spesso in
acqua e terra”157 etc. Il Logos divide perfino le entità intelligibili come l’anima in
razionale ed irrazionale. Alla fine divide anche il genere umano in uomini e donne.
Dopo aver finito l’atto della creazione, il Logos viene presentato, come abbiamo letto
nel passo citato prima, come il mediatore che intercede per il mondo che aveva creato.
Chi, o che cosa, è questo Logos? Sicuramente non è solo la causa formale del mondo,
ovvero il ko,smoj nohto,j, ma è piuttosto la sua causa efficiente e strumentale158. È
un’entità attiva che agisce, ovvero crea e governa il mondo materiale e guida gli esseri
razionali verso la salvezza159. Il mettere insieme e l’armonizzare queste due immagini
del Logos (ovvero il Logos inteso come il mondo intelligibile e il Logos concepito
come un’entità che opera nel mondo) è stato possibile grazie al concetto delle Potenze.
Infatti, come abbiamo già esposto nel paragrafo precedente, oltre alle idee, nel Logos vi
è anche la Potenza creatrice. Servendosi di essa il Logos imprime nella materia informe
le immagini delle idee160. Ma l’attività di questo essere non si limita solo alla creazione.

156
Cfr. Phil., Her. 130-200. Anche se al inizio di questo brano Filone dice che Dio divise tutto a
metà, nella frase del Her. 140, afferma chiaramente: “Così, dunque, Dio, avendo affilato il suo Logos
divisore di tutte le cose (to.n tome,a tw/n sumpa,ntwn au`tou/ lo,gon), divideva la sostanza informe e
indeterminata del tutto (th,n te a;morfon kai. a;poion tw/n o[lwn ouvsi,an), i quattro elementi del cosmo da
essa separati, e le piante e gli animali da esse composti”.
157
Phil., Her. 134.
158
In un altro passo Filone, parlando delle quattro cause del mondo, definisce il Logos come la
causa strumentale della creazione del mondo (o;rganon de. lo,gon qeou/ diV ou- kateskeua,sqh). Cfr. Phil.,
Cher. 127.
159
Ma è sempre lo stesso Logos che svolge diverse attività nel mondo. In un passo Filone dice
esplicitamente che “con il medesimo Logos Dio ha fatto l’universo e innalza l’uomo perfetto dalle realtà
terrene fino a Se stesso”. Phil., Sacrif. 9. Vediamo dunque che il medesimo Logos è sia il creatore sia il
mediatore tra Dio e il creato.
160
Il Logos inteso come il ko,smoj nohto,j e il Logos che crea e governa il mondo corporeo non
devono essere intesi come le entità diverse e (come sostiene H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, p. 205) create
fuori della mente divina. In realtà Filone dice che il Logos è il to,poj delle Idee (Opif. 24), ma anche che
lo stesso Logos è riempito delle Potenze (Somn. I 62; Qu. in Gen. II 68). Nel passo del Spec. Leg. I 329,
invece, l’Alessandrino afferma che Dio che non può entrare in contatto con la materia indefinita e caotica
99

Da un altro passo ricaviamo che il Logos penetra, mantiene nell’esistenza e governa ciò
che ha creato:

Nessuna dalle realtà materiali è abbastanza forte (ouvde.n tw/n evn u[laij
krataio.n ou[twj( w`j to.n ko,smon avcqoforei/n ivscu/sai) da riuscire a sostenere il
cosmo, invece è il Logos eterno del Dio eterno (lo,goj de. o` avi,dioj qeou/ tou/
aivwni,ou) il più solido e il più saldo sostegno del tutto. Questo, tenendosi dalle
zone mediane alla periferia e dagli estremi al centro, prolunga l’indefettibile
corsa della natura, riunendo e rinserrando tutte le parti. Infatti il Padre che l’ha
generato, l’ha fatto come legame indistruttibile del tutto. Ecco dunque,
verosimilmente, il motivo per cui la terra nel suo complesso non si scioglie
nell’intera massa dell’acqua che i suoi golfi ospitano, e neppure il fuoco è
spento dall’aria e, viceversa, l’aria non è infiammata dal fuoco: in verità, il
Logos divino ponendosi come confine – quasi fosse una vocale posta fra le
consonanti per far sì che il tutto risuoni come di una voce articolata – induce gli
opposti che si fronteggiano minacciosi alla concordia, facendosi mediatore e
161
tenendoli a regola .

Ora possiamo constatare che la funzione mediatrice del Logos non si limita
soltanto a quella spirituale, cioè alla intercessione per gli uomini al cospetto di Dio, ma
riguarda ugualmente il livello fisico e materiale della realtà. Il Logos, dunque, è il
‘mediatore’ tra gli elementi opposti della natura. È responsabile delle leggi della natura.
Fa sì che tutti gli elementi del creato occupino il posto designato loro da Dio162. Tutto

“fece ricorso alle sue Potenze incorporee, il cui vero nome è ‘Idee’, al fine di conferire ad ogni categoria
la forma che le era più propria (o` qeo,j […] tai/j avswma,toij duna,mesin( w-n e;tumon o;noma ai` ivde,ai(
katecrh,sato pro.j to. ge,noj e[kaston th.n a`rmo,ttousan labei/n morfh,n )”. Una simile affermazione
l’Alessandrino esprime anche nel Confus. 172. Vediamo, dunque, che le idee in Filone non sono soltanto i
modelli intelligibili delle realtà corporee, ma sono anche le realtà attive, ovvero sono un altro nome delle
Potenze. Altrove l’Alessandrino afferma che l’idea è “perenne, attiva e perfetta” (cfr. Mutat. 122.). Dio
che è l’attività pensante e creatrice, pensa e genera perennemente le idee. Queste a sua volta creano e
governano il mondo corporeo. ‘Il Logos’ è il nome sia del luogo in cui si trovano le idee (in questo senso
si identifica con la mente divina), sia dell’insieme delle idee o delle Potenze generate dalla mente divina
perennemente attiva. Se in Filone le idee si identificano con le Potenze, non dobbiamo distinguere i due
Logoi: l’uno inteso come il ko,smoj nohto,j e l’altro come l’attività che opera nel mondo corporeo. L’uno
proviene dall’altro, oppure come suggerisce la metafora del sole e dei raggi, della quale abbiamo parlato
sopra, l’uno e ‘prolungamento’ dell’altro. Come dunque un raggio emesso dal sole, anche il Logos che
crea e governa il mondo corporeo, viene generato nella mente divina e non viene mai separato da essa.
Cfr. D. T. Runia, Philo of Alexandria and the ‘Timaeus’…, p. 451, dove lo studioso suggerisce che il
Logos immanente è “a kind of extension” del Logos trascendente.
161
Phil., Plant. 8-10.
162
In un altro passo Filone paragona questa funzione del Logos con la funzione che possiede
l’anima rispetto al corpo: “Il Logos venerabilissimo di colui che è, indossa come veste il mondo, in
quanto si ammanta della terra, dell’acqua, dell’aria, del fuoco e dei loro derivanti, mentre l’anima
individuale si riveste del corpo […]. In effetti, il Logos di colui che è, in quanto vincolo del universo,
come si è detto, tiene strettamente unite le singole parti, impedendo loro di disgregarsi. L’anima
100

mantiene nell’esistenza. Penetra e governa il mondo corporeo dall’interno. Garantisce


che il creato non si sciolga al suo livello fisico. Una tale concezione del Logos è dovuta
sicuramente all’influenza del pensiero stoico su Filone163. Ma in realtà vi è una
differenza importante tra la dottrina filoniana e quella stoica. Come possiamo leggere
nella prima frase del passo sopraccitato, il Logos, che svolge la sua funzione dentro il
mondo corporeo, è assolutamente incorporeo. Filone, infatti, sottolinea che il mondo
corporeo non solo può essere governato da una forza incorporea, ma anche che non
esiste alcuna delle realtà materiali che possa essere così forte da riuscire a sostenere il
cosmo (ouvde.n tw/n evn u[laij krataio.n). Questa facoltà incorporea viene da fuori, ovvero
non si identifica con il mondo, e non è una delle sue parti. Infatti, il Logos fu generato
da Dio che è eterno e trascendente. Pur avendo cominciato ad operare nel tempo, ossia
nel momento della creazione del mondo, il Logos filoniano permane una facoltà divina
eterna (lo,goj o` avi,dioj qeou/ tou/ aivwni,ou) distinguibile dal mondo corporeo164.

Abbiamo già detto che la funzione di creare e di mantenere nell’esistenza il


mondo è dovuta alla Potenza creatrice presente nel Logos. Ma il Logos contiene in sé
anche altre Potenze. Al livello della trascendenza, ovvero nel Logos inteso come la
mente divina, vi sono le Potenze pure; Filone ne enumera alcune: la Scienza, la
Sapienza, la Saggezza e la Giustizia165. Ne abbiamo parlato nel paragrafo precedente.

individuale, a sua volta, entro l’ambito del potere, non permette a nessuna delle parti del corpo di venir
distaccata o recisa contro natura, ma per quanto dipende da lei le avviva tutte, pur già complete ognuna in
se stesa, a un’unione reciproca indissolubile”. Phil., Fug. 110. 112. Cfr. anche Phil., Agr. 51.
163
R. Radice osserva che “l’immagine del Logos che si estende dalla periferia al centro è di
origine stoica e si connette alla dottrina del tónos; ma Filone potrebbe essersi rifatto, per questo concetto,
anche a Sap. 8,1, a sua volta probabilmente influenzato dagli Stoici. Cfr. R. Radice, nota 7 a De
plantatione, in Filone di Alessandria, La Migrazione verso l’eterno, a cura di R. Radice, Milano 1988, p.
435. Secondo il Daniélou, invece, Filone nel passo di Plant. 8-10 si ispira visibilmente dal Timeo di
Platone. Anche se in Platone non appare il termine lo,goj (utilizzato in tale contesto), la platonica anima
del mondo possiede appunto le stesse caratteristiche che l’Alessandrino attribuisce al Logos generato da
Dio. Cfr. J. Daniélou, Messaggio evangelico e la cultura ellenistica, Bologna 1975, pp. 429-430.
164
Gli stoici, infatti, non solo pensavano che Dio è presene nel mondo, ma addirittura
identificavano il mondo con Dio. Cfr. Diog. Laert., Vitae phil. VII, 137-138. Questa dottrina è totalmente
estranea alla concezione filoniana. Infatti in un passo l’Alessandrino dice: “Né il cosmo, né l’anima del
mondo sono Dio in senso eminente; e neanche gli astri e i loro movimenti sono le cause originarie delle
vicende umane, ma tutto questo, nella sua totalità, è tenuto insieme dalle Potenze invisibili che l’Artefice
ha disteso dagli estremi lembi della terra fino ai confini del cielo, provvedendo saggiamente che esse
restassero come legami indissolubili; e, effettivamente, le Potenze sono i legami saldissimi del tutto. Per
questo, anche se in qualche passo della Legge si dice che «Dio è su nel cielo e giù sulla terra» (Deut.
4,39), nessuno pensi che ciò sia detto in relazione alla natura del suo essere – per natura l’Essere contiene
e non è contenuto -; invece ciò è affermato a proposito della sua Potenza, mediante la quale egli pose,
determinò e ordinò l’universo intero”. Phil., Migrat. 181-182. Questo passo assomiglia a quello del Plant.
8-10, che abbiamo riportato sopra, con questa differenza che qui sono le Potenze invisibili a essere il
motivo per cui la terra nel suo complesso non si scioglie, in quello primo invece era il Logos. Questi due
passi non si contraddicono perché appunto il Logos è inteso come l’insieme delle Potenze e agisce nel
mondo corporeo proprio per il tramite delle Potenze.
165
Cfr. Phil., Deus 77-81.
101

Invece, al livello dell’immanenza, ossia nel Logos inteso come la facoltà divina che
opera nel mondo, ve ne sono altre:

In Dio, che è in realtà unico, due sono le supreme e prime Potenze,


Bontà (h` avgaqo,thj), e Sovranità (h` evxousi,a), e con la Bontà egli ha creato tutte
le cose, mentre con la Sovranità governa il creato; infine, in mezzo a queste due
ce n’è una terza, che le unifica: il Logos, ed è mediante il Logos che Dio è
sovrano e buono (lo,gw| ga.r kai. a;rconta kai. avgaqo.n ei=nai to.n qeo,n)166.

Ora vediamo che il Logos viene compreso anche come una delle Potenze divine.
Tale Potenza, però, è particolare perché unifica altre Potenze: in questo caso la Bontà e
la Sovranità. Tramite del Logos, dunque, Dio è buono e sovrano. Ma in un altro passo
Filone indica cinque Potenze unite nel Logos:

Cinque sono le Potenze di colui che formula la Parola (ai` pe,nte


duna,meij eivsi. tou/ le,gontoj). La prima è la Potenza creativa (h` poihtikh,), in
virtù della quale il Creatore ha creato il mondo con la sua Parola (kaqV h]n o`
poiw/n lo,gw| to.n ko,smon evdhmiou,rghse); la seconda è la Potenza regale (h`
basilikh,), in virtù della quale il Creatore governa il creato; la terza è la Potenza
benefica (h` i[lewj), per il cui tramite il sommo Artefice esplica compassione e
misericordia per la propria opera; la quarta è la Potenza legislativa (h`
nomoqetikh/j), attraverso la quale egli ordina quel che va fatto; la quinta è quella
parte della Potenza legislativa, attraverso la quale vieta quel che non va fatto167.

Da questi due passi risulta che le Potenze ricevono diversi nomi anche se
possiedono la stessa funzione rispetto al creato. Infatti una volta Filone dice che
attraverso la Bontà (avgaqo,thti) Dio ha creato il mondo, un’altra volta che lo ha fatto
mediante la Potenza creativa (kata. poihtikh.n). Una volta afferma che con la Sovranità
(evxousi,a|) Dio governa il mondo, un’altra volta che lo fa attraverso la Potenza regale
(kata. basilikh.n). In seguito, nel secondo passo, l’Alessandrino enumera non due, ma
cinque Potenze che a loro volta alcune Potenze si suddividono. Infatti, la Potenza
legislativa contiene in sé quella attraverso la quale Dio ordina e quella mediante la quale
Dio proibisce di fare qualcosa168. Ma forse anche queste due Potenze, delle quali si
tratta nel primo passo, si suddividono e contengono in sé quelle tre rimanenti? Così la
Sovranità conterrebbe la Potenza benefica e quella legislativa. Del resto Filone afferma

166
Phil., Cher. 27.
167
Phil., Fug. 95.
168
Cfr. Phil., Sacrif. 131.
102

che “In Dio, che è in realtà unico, due sono le supreme e prime Potenze (du,o ta.j
avnwta,tw ei=nai kai. prw,taj duna,meij)”. Queste due, dunque, sono considerate come le
Potenze principali. In effetti, in altri passi delle sue opere, l’Alessandrino parla
solamente di queste due. Avviene così perché la Bontà e la Sovranità appunto
corrispondono ai due appellativi con i quali Dio viene chiamato nella traduzione dei
Settanta, ovvero ku,rioj o` qeo,j169. Il termine qeo,j dunque viene collegato alla Potenza
creativa o alla Bontà divina, il termine ku,rioj invece corrisponde alla Potenza regale o
alla Sovranità divina. Infatti Dio appare nelle Scritture come colui che crea oppure come
colui che governa il mondo. I modi del suo agire, ovvero del creare o del governare il
mondo, possono variare a seconda del racconto biblico. Le Potenze dunque
rappresentano le manifestazioni dell’attività divina nel mondo. Per questo, anche se le
prime e supreme Potenze divine sono due, si suddividono in tante altre che ricevono i
nomi diversi in ciascuno dei casi particolari.

Dal secondo brano citato sopra (quello del Fug. 95) può sembrare che il Logos
sia collegato solo alla Potenza creativa. Ma nella stessa opera, poche righe dopo, Filone
afferma che il Logos, che trascende anche le due Potenze principali, è sempre legato ad
esse, perché esse sono gli strumenti del suo agire nel mondo:

Il Logos divino che sta al di sopra di queste Potenze non ha assunto la


forma visibile, perché non è simile a nessuna cosa percepibile, ma è di per sé
immagine di Dio e in assoluto il più alto di tutti gli intelligibili (tw/n nohtw/n
a[pax a`pa,ntwn o` presbu,tatoj), ed ha la sua dimora vicinissima al solo Essere
che veramente è, senza che si frapponga alcuno spazio intermedio (o` evgguta,tw(
mhdeno.j o;ntoj meqori,ou diasth,matoj( tou/ mo,nou( o[ e;stin avyeudw/j(
evfidrume,noj). È detto infatti: «Ti parlerò dall’alto del propiziatorio, in mezzo ai
due Cherubini»170 da cui consegue che il Logos è l’auriga delle Potenze

169
Nella versione dei Settanta la parola ebraica Elohim fu resa con il termine qeo,j. Il
tetragramma IHWH invece, che per i Giudei era impronunciabile, e veniva letto come Adonai, fu tradotto
con il termine ku,rioj. Ogni volta dunque quando nel testo ebraico appariva il nome di Dio, i traduttori
inserivano nel testo greco la seguente combinazione dei termini: ku,rioj o` qeo,j. Filone, in seguito, ha
collegato il termine qeo,j alla Potenza creatrice invece il termine ku,rioj alla Potenza regale. Cfr. Phil.,
Abr. 121, Sacrif. 131, Sobr. 35, Migrat. 182, Plant. 86, Mutat. 29. Cfr. anche A. M. Mazzanti, QEOS e
KURIOS. I Nomi di Dio in Filone di Alessandria, SSR 5 (1981), pp. 15-30; D. Winston, Logos and
Mystical Theology…, p. 21; F. Calabi, God’s Acting…, pp. 92-94. Sull’argomento scrive anche C.
Termini che presenta il dibattito degli studiosi relativo alle tappe della sostituzione del tetragramma
IHWH con ku,rioj o` qeo,j. Cfr. C. Termini, Le potenze…, nota 49, p. 51.
170
Ex. 25,22.
103

(h`ni,ocoj tw/n duna,mewn), e sul carro siede colui che parla e che impartisce
all’auriga le direttive necessarie alla retta guida dell’universo171.

Ora possiamo affermare che il Logos non è solamente una delle Potenze, ma è
un’entità che trascende le Potenze. È il più alto (o` presbu,tatoj)172 di tutti gli intelligibili.
L’immagine dell’auriga lo dimostra chiaramente. Da una parte il Logos è legato a Dio al
quale obbedisce, dall’altra alle Potenze che sono gli strumenti del suo agire nel mondo.
Dalla metafora, dunque, possiamo ricavare il concetto della gerarchia ontologica
filoniana. In cima di questa gerarchia viene situato il Dio trascendente (colui che siede
sul carro e parla). In funzione della creazione e del governo del mondo egli genera il
Logos (l’auriga che guida il carro). Fra il Logos e Dio, come osserva Filone, non c’è
nessun spazio intermedio, ovvero il Logos è unito alla sostanza divina. Le Potenze
invece, nonostante siano anche le entità intelligibili e provenienti da Dio stesso, sono in
questa gerarchia gli strumenti attraverso i quali il Logos (l’auriga delle Potenze)
governa tutto l’universo. Constatiamo allora che sia Dio che il Logos sono entità
trascendenti. Anche le Potenze, per quanto riguarda la loro natura, sono trascendenti.
Esse comunque sono le entità divine più vicine al mondo corporeo. Non sono, dunque,
trascendenti nella stessa maniera in cui è trascendente Dio stesso che non ha niente a
che fare con la materia. È uno schema gerarchico e piramidale, al vertice del quale c’è
assoluta unità e unicità e alla base pluralità. In realtà, Dio è uno solo e semplice. Le
Potenze invece sono molteplici. Il Logos occupa in questo schema il posto intermedio
perché da una parte è uno solo, dall’altra contiene in sé la molteplicità delle idee e delle
Potenze divine.

La questione si complica se nella struttura gerarchica dell’intelligibile, ricavata


dal passo del Fug. 101, vorremmo collocare anche la Sapienza. Essa, infatti, è una
Potenza particolare e, a volte, viene esplicitamente identificata con il Logos 173. Se
Filone fosse costante in questa identificazione, non avremmo nessuna difficoltà a questo
proposito; e cioè anche la Sapienza potrebbe essere detta “l’auriga delle Potenze”. Però,

171
Phil., Fug. 101.
172
La parola o` presbu,tatoj è il superlativo formato dal termine pre,sbuj che significa ‘vecchio’ o
‘anziano’ ma anche ‘capo’ o‘saggio’. La traduttrice del passo citato, C Kraus Reggiani, ha preferito
rendere o` presbu,tatoj come ‘il più alto’ che in questo caso è una scelta giustificata. Nonostante Filone
intendesse il termine o` presbu,tatoj nel senso di età (ovvero che il Logos fosse “il più anziano” di tutti gli
intelligibili), si dovrebbe tenere presente tutti i passi nei quali parla della generazione del mondo
intelligibile che avvenne fuori del tempo. Tali passi sono stati analizzati precedentemente.
173
Come, ad esempio, nel passo di Leg. All. I 65: “Il «fiume» è la virtù generale, la bontà. Essa
«scaturisce dall’Eden» (cfr. Gen. 2,10), la Sapienza di Dio: questa è il Logos divino, in conformità del
quale è creata la virtù generale”. Cfr. anche Leg. All. II 86.
104

il nostro autore afferma ugualmente che il Logos è “fonte della Sapienza”174 e altrove,
all’opposto, che la Sapienza “è madre” del Logos 175. Per avvicinarsi a una soluzione di
questa aporia, riportiamo dapprima uno schema elaborato dai due eminenti studiosi del
pensiero filoniano, G. Reale e R. Radice176, che elenca i contesti in cui ricorre il
concetto della Sapienza. Così, dunque, nelle opere dell’Alessandrino la Sapienza si
colloca:

1. in Dio (in quanto «splendore di Dio»)177,


2. in sé (in quanto figura ipostatica e creatrice del mondo)178,
3. nell’uomo:
a. in senso etico (in quanto modello della sapienza terrena)179,
b. in senso gnoseologico (in quanto fondamento della conoscenza)180,
c. in senso religioso (in quanto via d’accesso alla visione di Dio)181.

Vediamo dunque che il termine sofi,a è concepito da Filone in diversi modi.


Infatti, la Sapienza intesa come una potenza pura e trascendente, ossia quella di cui Dio
si vale verso sé stesso (pro.j e`auto.n) e non verso la creazione (pro.j ge,nesin), come
leggiamo nel passo del Deus 77182, non è uguale alla omonima virtù umana. Inoltre, la
Sapienza intesa come l’attributo proprio dell’Intelletto divino, non è del tutto la stessa
cosa che la Sapienza concepita come una potenza creatrice, emanata da Dio in funzione
della creazione del mondo. Lo stesso possiamo affermare per quanto riguarda la nozione

174
Cfr. Phil., Fug. 97.
175
Cfr. Phil., Fug. 109.
176
Cfr. G. Reale, R. Radice, La genesi…, p. XCVIII.
177
Cfr. Phil., Migrat. 40: “La sapienza non è solo, al modo della luce, lo strumento del vedere,
ma anche può vedere se stessa. È la luce archetipa di Dio, di cui il sole è un’immagine e una imitazione.
Colui che fa conoscere ogni cosa è Dio, l’unico Sapiente; e mentre gli uomini sono detti sapienti solo
sulla base di una parvenza di sapere, Dio è detto Sapiente, perché lo è veramente. Ma questa espressione è
ancora inadeguata per esprimere la sua natura: infatti, qualsiasi parola possa dirsi sul suo conto, è superata
una volta per tutte, dalle Potenze di colui che è”.
178
Cfr. Phil., Ebr. 31: “La Sapienza è rappresentata da uno dei coreuti divini, mentre parla di sé
in questi termini: «Ero possesso di Dio come la prima di tutte le sue opere, e prima di ogni tempo mi ha
posto come fondamento» (Prov. 8,22). Era quindi necessario che tutto quanto è stato creato nascesse dopo
la madre e la nutrice del tutto”. Cfr. anche Phil., Fug. 109.
179
Cfr. Phil., Her. 126: “[…] E oltre a questi, prendi una «tortora ed una colomba» (Num. 3,12),
ossia la sapienza divina ed umana, ambedue dotati di ali e pronte spiccare il volo in alto, ma differenti fra
di loro, come differisce il genere dalla specie e la copia dall’archetipo”. Cfr. anche Phil., Leg. All. I 43:
“Ora la Scrittura presenta, attraverso la piantagione del giardino, la sapienza terrena, che sta a questa
Sapienza <celeste> come la copia sta all’archetipo”.
180
Cfr. Phil., Migrat. 41: “Una prova della sua sapienza [cioè di Dio] viene non solo dall’ordine
che ha dato al mondo, ma anche dal fatto che egli ha attribuito a se stesso i più saldi fondamenti della
scienza del creato”.
181
Cfr. Phil., Fug. 109. Il passo parla del sommo sacerdote la madre del quale è la Sapienza.
Questo brano verrà riportato successivamente.
182
Il passo è stato analizzato nel paragrafo 1.2.
105

del lo,goj. La mente divina, intesa come il luogo delle idee divine e definita come il
qei/oj lo,goj183, non è la stessa cosa che la ragione (lo,goj) umana. Per di più, il Logos
divino, in quanto trascendente e identico a Dio, non è uguale a una potenza che
“riunisce e rinserra tutte le parti dell’universo”, come menzionato nel passo del Plant. 8-
10. Infatti, la potenza immanente sta al Logos trascendente, come il raggio del sole sta
al sole stesso184. Comunque anche questa è detta il qei/oj lo,goj. Ora, avendo presente
queste considerazioni, vediamo da vicino i due passi che contengono le contraddittorie
affermazioni di Filone:

1. “Infatti, Mosè dice185 che il sommo sacerdote, <il Logos>186, non può
contrarre contaminazione né per parte del padre, l’intelletto, né per padre
della madre, la sensazione, perché – credo – ha avuto in sorte genitori
incorruttibili e purissimi: suo padre è Dio, che è anche Padre dell’universo,
sua madre è la Sapienza, per cui tramite l’universo è entrato nell’esistenza
(mhtro.j de. sofi,aj( diV h-j ta. o[la h=lqen eivj ge,nesin)”187.

2. “Tale disposizione esorta chi è capace di correre veloce, a indirizzarsi senza


prendere fiato verso la meta più alta, che è il Logos divino, fonte della
sapienza (pro.j to.n avnwta,tw lo,gon qei/on( o]j sofi,aj evsti. phgh,), per
abbeverarsi alle sue acque e ricevere come ricompensa la vita eterna in
cambio della morte”188.

Nel primo passo Filone interpreta allegoricamente il brano veterotestamentario


che parla del sommo sacerdote. L’interpretazione comincia da un’osservazione che le
componenti che costituiscono l’uomo sono l’intelletto e la sensazione. Essi sono come il
padre e la madre dell’uomo189. Al livello allegorico il sommo sacerdote è il Logos. Egli,
come leggiamo più avanti, porta una veste – il simbolo del mondo, e viene identificato
con la potenza immanente al mondo. Essa, infatti, “si ammanta della terra, dell’acqua,
dell’aria, del fuoco e dei loro derivanti” e “tiene strettamente unite le singoli parti

183
Cfr. Opif. 20-21. 24, citato precedentemente nel paragrafo 1.2.
184
Cfr. Phil., Deus 77-80, citato precedentemente. Aggiungiamo, che lo stesso paragone riguarda
la Sapienza. Infatti, nei passi citati sopra l’Alessandrino afferma esplicitamente che “la sapienza terrena
(th.n evpi,geion sofi,an) sta alla Sapienza celeste come la copia sta all’archetipo” (Leg. All. I 43), e ancora
che la Sapienza divina sta a quella umana come il genere sta alla specie (cfr. Her. 126).
185
Cfr. Lev. 21,11.
186
Lo afferma Filone esplicitamente poche righe prima: “Noi diciamo che il sommo sacerdote
non è un uomo, ma il Logos divino”. Phil., Fug. 108.
187
Phil., Fug. 109.
188
Phil., Fug. 97.
189
Cfr. C. Kraus Reggiani, nota 71 a De fuga et inventione, in Flone di Alessandria, L’uomo e
Dio, a cura di C. Kraus Reggiani, Milano 1986, p. 239.
106

[dell’universo] impedendo loro di disgregarsi”, appunto così, come l’anima individuale


tiene unito il corpo dell’uomo190. Infine, questa potenza di cui simbolo è sommo
sacerdote viene identificata dall’Alessandrino anche con la coscienza umana191. Il
Logos concepito in tal modo ha come padre Dio e come madre la Sapienza. Questa
affermazione metaforica significa che la potenza governatrice del mondo (o la voce
della coscienza che parla nell’anima dell’uomo) non è uguale al Logos trascendente,
ossia al ko,smoj nohto,j, ma da esso proviene. E la Sapienza “madre” altro non è se il
mondo intelligibile in cui tutte le potenze presenti nel mondo hanno la sua fonte.
Notiamo che l’interpretazione allegorica del Lev. 21,11 che Filone fa nel passo
sopraccitato, esige in qualche modo l’utilizzo di una parola del genere femminile.
Infatti, il testo veterotestamentario menziona il padre e la madre del sommo sacerdote.
Se l’Alessandrino avesse utilizzato a questo proposito le parole lo,goj o ko,smoj nohto,j,
invece che sofi,a, la metafora sarebbe stata meno eloquente. Quindi, l’affermazione che
la Sapienza è “madre” del Logos significa semplicemente che il Logos immanente
(ossia la potenza presente nel mondo) ha la sua fonte nel Logos trascendente192.

Nel secondo passo è il Logos (e non la Sapienza) ad essere identificato con il


ko,smoj nohto,j. Infatti, essendo la meta del cammino spirituale dell’uomo ed essendo
detto o` avnwta,tw (il più alto o elevato), il Logos non è di certo una potenza che penetra
l’universo. La sapienza, al contrario, è considerata qui come una potenza immanente
che opera nell’uomo193. È da notare che continuando il suo pensiero, Filone
contrappone questo Logos trascendente al Logos immanente. In realtà, poco dopo il
passo citato afferma che chi non è altrettanto veloce a raggiungere il Logos più alto “è
incitato a rifugiarsi nella potenza creativa, che Mosè chiama Dio” e chi è ancora meno
dotato viene spinto dalla Legge “a rifugiarsi nella potenza regale, in quanto chi è

190
Cfr. Phil., Fug. 110-111.
191
Cfr. Phil., Fug. 118: “Conviene dunque pregare che viva nella nostra anima colui che è
insieme sommo sacerdote e re e rappresenta appunto quel giudice che è la nostra coscienza, cui è stato
assegnato l’intero tribunale del nostro pensiero e che non si lascia confondere da nessuno che venga
sottoposto al suo giudizio”.
192
Concordiamo dunque con R. Williamson, che a questo proposito afferma: “When Philo says
that the Logos has Wisdom for its Mother, he simply means that the immanent Logos has its sours in the
intelligible Logos”. Cfr. R. Williamson, Jews in the Hellenistic World. Philo, Cambridge 1989, p. 140.
Prima di R. Williamson, alla stessa conclusione aveva giunto H. A. Wolfson che commentando il passo di
Fug. 109 scrive: “Here, again, it would seem that Logos and Wisdom are not identical. But again the
solution of the difficulty is to be found in the fact, that in this passage, wisdom, as is quite evident from
the context, refers to the antemundane wisdom, whereas the Logos, symbolized here by the high priest,
refers to the immanent Logos”. H. A. Wolfson, Philo..., vol. I, p. 259.
193
O come la Legge di Mosè, come suggerisce H. A. Wolfson. Anch’essa, infatti, incita l’uomo a
indirizzarsi al Logos trascendente. Cfr. H. A. Wolfson, Philo..., vol. I, p. 259.
107

soggetto viene tenuto a freno dalla paura di chi comanda”194. Successivamente segue il
testo, che abbiamo citato precedentemente, in cui l’Alessandrino afferma che il Logos
divino che sta al di sopra di queste Potenze è “immagine di Dio” e “il più alto di tutti gli
intelligibili” e che “ha la sua dimora vicinissima al solo Essere che veramente è, senza
che si frapponga alcuno spazio intermedio”195. Quindi il Logos del Fug. 97 supera
ontologicamente tutte le altre potenze e si identifica con la Sapienza “madre” del Fug.
109. Questi è detto “fonte della sapienza”, ma non della Sapienza “madre”, bensì di
quella terrena che guida il sapiente nel cammino spirituale. Nonostante la potenza
immanente sia chiamata con lo stesso termine greco sofi,a, non è identica alla Potenza
pura, quella di cui si vale solamente Dio. L’Alessandrino lo afferma esplicitamente nel
passo del Deus 79: “Quale essere mortale potrebbe accogliere in sé, nella loro assoluta
purezza, la Scienza, la Sapienza, la Saggezza, la Giustizia e ciascuna delle altre Potenze
di Dio? Ma neppure l’intero cielo e il mondo intero lo potrebbero!”196. Ciò, invece, che
l’uomo è in grado di accogliere è una potenza moderata o bilanciata (kekrame,nh) a
seconda delle capacità naturali proprie di una creata. La sapienza del Fug. 97 è appunto
tale potenza. È una sapienza terrena – una coppia dell’archetipo197. Essa proviene
dall’intelletto divino e ha la sua fonte in esso, ma non si identifica in toto con la

194
Cfr. Phil. Fug. 97-98.
195
Cfr. Phil. Fug. 101.
196
Questo passo abbiamo esaminato nel paragrafo 1.2.
197
Cfr. Phil., Her. 126 e Leg. All. I 43, citati sopra. Aggiungiamo che la sapienza terrena (h`
evpi,geioj sofi,a) è considerata da Filone non soltanto come una virtù umana o come una potenza che opera
esclusivamente nell’uomo, ma altresì come una facoltà divina presente in mezzo a tutto il creato. Cfr.
Phil., Deter. 116: “La Sapienza, infatti, è come la madre di tutto ciò che vive nel mondo (mh,thr tw/n evn
ko,smw| genome,nh), e produce direttamente da se stessa il nutrimento per i figli da lei generati; ma non tutti
i figli li ha ritenuti degni di un nutrimento divino”. Come vediamo, tale sapienza non è più una virtù
umana. Infatti, soltanto alcuni ricevono da lei “il nutrimento divino” (cioè quello intellettuale), però tutte
le cose che sono nel cosmo vengono da lei mantenute nell’esistenza. Inoltre, in questo passo – come
giustamente ha notato J. Dillon – la sapienza “acquisisce gli epiteti della materia platonica del Timeo, cioè
quelli di madre e di nutrice” di tutte le cose. Cfr. Plat., Tim. 50 C – 51 A; J. Dillon, I medioplatonici…, p.
201.
In un altro luogo, commentando il passo del Ex. 17,6, l’Alessandrino dice: “[…] Io [Dio] che ho
riempito ogni cosa, io che sto saldo e immutabile, prima che tu o qualsiasi altra creatura siate venuti
all’essere, solidamente insediato nel potere (avrch/j) sovrano, il più alto e il più antico, da cui scaturisce
come pioggia la nascita di tutto quel che esiste e si riversa traboccando la corrente della sapienza (avfV h-j
h` tw/n o;ntwn ge,nesij w;mbrhse kai. to. sofi,aj evplh,mmure na/ma)”. Phil., Somn. II 221. Una simile idea
abbiamo già incontrato nel passo di Confus. 136-137, esaminato nel paragrafo 1.2, nel quale Filone
afferma che Dio riempie il tutto “come contenente e non come contenuto”, perché protende le sue potenze
attraverso il mondo intero. Ora una di queste potenze viene identificata con la sapienza, che come pioggia
si riversa sulla terra. E appunto per il suo tramite Dio “ha riempito ogni cosa”. Questa immagine della
Sapienza che come la pioggia cade sul creato e attraversa tutto il mondo, troviamo anche nei libri
sapienziali della Bibbia, scritti all’epoca ellenistica. Cfr. Sir. 1,9; 1,19; Sap. 7,24; 8,1. Ma non è scorretto
vedere in questa metafora altresì le influenze delle dottrine degli stoici. Infatti, anche lo pneuma stoico
attraversa tutte le cose dell’universo. Cfr. SVF I 553; II 416; 441; 454; 473; 1027.
108

Sapienza intesa come Potenza pura198. Questa ultima, infatti, rimane sempre
trascendente.

Dicendo, dunque, che il Logos divino è la “fonte della sapienza”, Filone non
necessariamente contraddice ciò che afferma nel passo del Fug. 109, perché il contesto
di ciascuna delle sue affermazioni è diverso. Difatti, la Sapienza del Fug. 109 è il
ko,smoj nohto,j, mentre quella del Fug. 97 è una potenza immanente. Il Logos,
all’opposto, nel primo passo è considerato come una potenza immanente, mentre nel
secondo come il ko,smoj nohto,j, fonte di tutte le potenze. Sembra dunque che la
Sapienza si identifichi con il Logos in tutti i livelli della realtà dei quali parla il nostro
autore199. Se non fosse così, l’Alessandrino non avrebbe utilizzato scambievolmente i

198
Come abbiamo accennato sopra, secondo H. A. Wolfson la sapienza la cui fonte è il Logos è
la Legge di Mosè che infatti guida i fedeli verso la vita eterna e proviene dal Logos trascendente (la
Legge preesistente). A questo proposito lo studioso conclude: “Taken in this sense, the Logos indeed is
the fountain of wisdom. In a similar way Philo could have said that the antemundane wisdom is the
fountain of the revealed wisdom, for the belief in the pre-existence of the Law means that the revealed
Law has its origin in the pre-existent Law” (Philo..., vol. I, p. 259). La nostra interpretazione non sta in
contraddizione con quella dello studioso americano. Parlando della potenza immanente, che ha la sua
fonte nel mondo intelligibile, abbiamo voluto mostrare che anche la Sapienza, come il Logos, ha diversi
stadi dell’esistenza. E ciò che è immanente al mondo non è in toto identico a ciò che è trascendente, come
espresso chiaramente nel passo di Deus 77-81. Comunque è anche vero, come osserva H. A. Wolfson, che
in Filone il Logos e la Sapienza si identificano anche con la Legge divina, sia al livello della trascendenza
(la Legge preesistente) sia al livello dell’immanenza (la Torah). Cfr. Qu. in Gen. IV 140; Praem. 81-84;
Ios. 174.
199
È da notare che oltre il passo di Leg. All. I 65, dove la Sapienza viene esplicitamente
identificata con il Logos, ci sono molti altri in cui la Sapienza acquisisce le stesse caratteristiche che il
Logos. Anch’essa dunque è l’essere più elevato tra tutti gli esseri generati; anch’essa è l’immagine di Dio;
anch’essa è il creatore dell’universo; anche’essa è una luce noetica che proviene da Dio e infine anch’essa
è la meta del cammino spirituale dell’uomo. Cfr. Phil. Leg. All. I 43; I 65; II 86; Ebr. 30; Migrat. 28; 40;
Fug. 50 e altri. Questo argomento viene esaminato largamente da B. L. Mack (cfr. Id., Logos und Sophia.
Untersuchungen zur Weisheitstheologie im hellenistischen Judentum, Göttingen 1973, sopratutto pp. 108-
179) che, nonostante scorga molte somiglianze tra la Sapienza e il Logos, suggerisce che soltanto il
Logos, a differenza della Sapienza, è inteso da Filone come una potenza che penetra e tiene unite le parti
dell’universo. Infatti, commentando il passo di Fug. 109, afferma: “Daraus ergibt sich dass der Gedenke
der Weisheit als Mutter und Weltschöpferin nicht mehr die Basis für ihre Tätigkeit im Diesseits ist. Sie
wird z. B. nie wie der Logos zum Organon der Schöpfung, auch nie zum Prinzip, das alles zusammenhält
und -ordnet. Sie ist vielmehr Mutter eines Sohnes (=Logos), der nunmehr diese Funktionen aufnimmt”
(Ibid., p. 146). Secondo lo studioso dunque la Sapienza – quella immanente – avrebbe dovuto entrare in
rapporto non con tutto il mondo corporeo, ma soltanto con l’intelletto umano. E questa, a parere di B.
Mack, sarebbe l’unica differenza tra il Logos e la Sapienza. Però, come abbiamo mostrato sopra (cfr.
Deter. 116; Somn. II 221), Filone descrive la Sapienza anche come una potenza che penetra l’universo
(all’immagine della pioggia) e nutre tutto ciò che vive in esso; non soltanto gli uomini.
A nostro avviso, dunque, la Sapienza si identifica con il Logos sia al livello della trascendenza
sia al livello dell’immanenza. Ciò che differisce ambedue le figure sarebbe il linguaggio che descrive
ciascuna di esse. Infatti, sembra che a proposito della Sapienza l’Alessandrino utilizzi le metafore
bibliche, mentre nei confronti del Logos: anche la terminologia filosofica – e in particolare quella stoica.
Per di più, ciò che provoca certe difficoltà interpretative delle affermazioni filoniane è il problema
dell’omonimia. In realtà, la parola lo,goj (o sofi,a) una volta viene utilizzata nel contesto dell’intelletto
divino che trascende il creato, un’altra volta indica una potenza generata in funzione della creazione e del
governo del mondo. Però, come abbiamo mostrato sopra, la potenza immanente, anche se omonima, non
è la stessa cosa che il mondo intelligibile da cui proviene. Questo fenomeno dell’omonimia si incrocia
con un altro – in qualche senso opposto – e cioè che Filone attribuisce diversi nomi (lo,goj, sofi,a, qeo,j) a
109

termini lo,goj e sofi,a sia nel contesto della trascendenza sia nel contesto
dell’immanenza. In ogni modo, occorre notare che le metafore filoniane provocano
parecchi problemi interpretativi e non sempre si è in grado di trovare un’interpretazione
che sia conciliabile con tutti i punti della dottrina dell’Alessandrino, ossia che non
contraddica le affermazioni contenuti in altri luoghi delle sue opere. Così anche è nel
caso del passo di Fug. 109, appena analizzato. Infatti, la Sapienza “madre” appare qui
come una figura ipostatica sussistente accanto a Dio detto “padre del Logos”.
D’altronde però sappiamo che la Sapienza è stata generata da Dio prima della creazione
del mondo200, quindi essa dovrebbe essere considerata piuttosto come “figlia” e il Logos
immanente (essendo suo figlio) come “nipote” di Dio201. Ma se la Sapienza trascendente
si identifica con il mondo intelligibile che sussiste nella mente divina, parlare (anche se
metaforicamente) dei due “genitori” del Logos non ha nessun senso, perché in realtà
esiste una sola fonte – cioè l’Intelletto divino – dal quale, come i raggi del sole202,
provengono tutte le potenze che operano nel mondo. Vediamo dunque che la questione
degli intermediari in Filone non è del tutto chiara. Da una parte, volendo salvaguardare
l’assoluta trascendenza divina, il nostro autore introduce una gerarchia delle entità
intelligibili che separano Dio dal creato e attraverso le quali Dio crea ed è presente nel
mondo; dall’altra parte non è coerente mentre spiega le relazioni che intercorrono tra gli
intermediari disposti in diversi gradi di questa gerarchia.

una è la stessa realtà. E appunto per questo motivo egli può dire che “Dio ha riempito tutte le cose” (cfr.
Confus. 136-137; Somn. II 221): lo ha fatto ovviamente attraverso la sua potenza, una volta nominata
lo,goj, un’altra volta sofi,a, ma altresì qeo,j o ku,rioj. Inoltre, per un’adeguata interpretazione di
un’affermazione filoniana bisogna anche tener presente che sia il Logos sia la Sapienza sono considerati
dall’Alessandrino come poluw,numoi, ossia le realtà che hanno molti nomi. Cfr. Phil., Leg. All. I 43;
Confus. 146; Somn. II 254; Cfr. anche Decal. 94, dove persino Dio è detto colui che ha molti nomi
(poluw,numoj). Quindi anche nei testi in cui si parla di avrch, o di eivkw,n, che, come risulta dai passi qui
riportati, sono i nomi comuni di ambedue le figure, il nostro autore potrebbe riferirsi appunto al Logos e
alla Sapienza.
G. Reale e R. Radice giungono a una simile conclusione e a proposito dell’ambiguità delle
affermazioni filoniane scrivono: “Questa contraddizione può trovare una adeguata giustificazione
nell’ambivalenza semantica del termine logos, il quale, da un lato, significa «parola», dall’altro
«ragione». In quanto significa «parola», il Logos può ritenersi ispirato e generato dalla Sapienza; in
quanto significa «ragione» esso può ritenersi generatore e promotore di Sapienza, se non addirittura
identico alla Sapienza, come peraltro, si verifica nella maggioranza dei casi. Cfr. G. Reale, R. Radice, La
genesi…, p. XCVII. Sull’argomento cfr. anche H. A. Wolfson, Philo..., vol. I, pp. 253 sgg.; U. Früchtel,
Die kosmologischen Vorstellungen bei Philo von Alexandrien. Ein Beitrag zur Geschichte der
Genesisexegese, Leiden 1968, pp. 172 sgg.; R. Radice, Commentario…, pp. 343-346 e 426-427; R.
Williamson, Jews in the Hellenistic World…, pp. 105 sgg. e 136 sgg; C. Termini, Le potenze…, pp. 116
sgg.; J. Dillon, I medioplatonici…, pp. 201 sgg.
200
Cfr. Phil., Ebr. 31, citato precedentemente.
201
Ricordiamo che Filone si serve della metafora del “nipote” nel passo di Deus 31-32, citato
precedentemente, dove afferma che Dio ha due figli: “il più giovane in quanto è percepibile mediante i
sensi; il più anziano, quello di natura intelligibile” e che “il tempo rispetto a Dio, è nella posizione del
nipote rispetto al nonno”.
202
Cfr. . Phil., Deus 78-79; Cher. 97, citati precedentemente.
110

Come ultimo argomento di questo paragrafo esaminiamo la questione degli


interventi sovrannaturali del Logos nella storia della salvezza e, insieme a ciò, il
problema delle personificazioni delle nature intelligibili. Infatti, nelle opere filoniane
troviamo passi dai quali può sembrare che Il Logos o una delle sue Potenze appaia nel
mondo corporeo sotto forma di uomo o di angelo. Sono soprattutto i testi in cui
l’Alessandrino interpreta le teofanie descritte nelle Scritture, ma non solo. In questo
modo Melchisedec, re della pace e sacerdote del Dio altissimo, nell’interpretazione
filoniana diventa “il Logos che ha come eredità colui che è, ed è sacerdote
dell’Altissimo”203. In seguito, non è stato un uomo misterioso a lottare con Giacobbe e a
cambiargli il nome in ‘Israel’, ma è stato il Logos che è “angelo e ministro di Dio”204.
Davanti all’asina cavalcata da Balaam è apparso un angelo che in realtà era il Logos che
“per il quale avviene che giungano a compimento il bene e il male” 205. Anche la nube
che durante l’esodo del popolo israelita dall’Egitto separava due eserciti, quello
egiziano e quello d’Israele, era il Logos divisore e mediatore206. Come abbiamo indicato
nel primo paragrafo di questo capitolo, Filone commentando i passi biblici in cui Dio
viene rappresentato in maniera antropomorfa, cerca sempre di interpretarli solamente al
livello allegorico per privare l’immagine di Dio di ogni caratteristica umana. Negli
esempi qui riportati, però, anche se al livello letterale si tratta di un uomo o di un
angelo, l’Alessandrino parla del Logos di Dio. Anzi, in alcuni passi che riguardano le
teofanie, parla dell’apparizione di Dio stesso accompagnato dalle sue Potenze207. Ma se
analizziamo bene il contesto e lo svolgimento del ragionamento di Filone, durante il
quale vengono riportati questi avvenimenti biblici, vediamo che in tutti questi casi si
tratta anche dell’interpretazione allegorica, spesso di tipo morale o psicologico.

L’asina cavalcata da Balaam208, ad esempio, è simbolo delle cose della natura,


oppure dei beni o dei mali causati dalla natura209. La natura invece per necessità
obbedisce al Logos, “per il quale avviene che giungano a compimento il bene e il
male”210. Per questo l’asina del racconto biblico (simbolo della natura) si ferma quando
vede l’angelo (simbolo del Logos). A questo punto Balaam (simbolo dell’uomo legato
alle cose corporee) si irrita. L’uomo sapiente invece – spiega Filone – sa che tutto ciò

203
Cfr. Phil., Leg. All. III 82.
204
Cfr. Phil., Mutat. 87, Sobr. 65, Somn. I 238-239.
205
Cfr. Phil., Cher. 35, Deus 181-182.
206
Cfr. Phil., Her. 201-205.
207
Cfr. Phil., Sacrif. 59-60, Abr. 119-123.
208
Cfr. Num. 22, 20-35.
209
Per tutta l’analisi che segue cfr. Phil., Cher. 31-39.
210
Phil., Cher. 35. Ovviamente è un concetto stoico. Cfr., ad esempio, SVF I 160; III 323.
111

che succede nell’universo, succede per il Logos. Questa consapevolezza permette al


sapiente di conservare la tranquillità e la pace dell’anima. Balaam non lo sa. In effetti,
secondo il racconto biblico, non riesce a vedere l’angelo (simbolo del Logos). Perde
dunque la pazienza e si innervosisce perché le cose non vanno bene (l’asina non
obbedisce a lui, ma all’angelo). L’occhio della sua anima è chiuso. Lo stesso accade a
tutti gli uomini legati alle cose corporee. Quando invece l’uomo comincia a scorgere
che tutto che avviene nel mondo è dovuto all’azione governatrice del Logos, smette di
irritarsi per le cose che non vanno come egli vorrebbe e in conseguenza ritrova la pace
dell’anima. È così che Balaam ha capito il comportamento della sua asina quando ha
visto l’angelo che stava in mezzo alla sua strada. Dopo questa spiegazione vediamo che
Filone non considera reale l’apparizione del Logos. Tutti gli elementi del racconto
biblico gli servono solo come simboli nella spiegazione del concetto etico
d’impostazione stoica, ovvero quello dell’avpa,qeia del sapiente. Non si occupa del fatto
storico e di ciò che veramente accadde durante il viaggio del personaggio biblico.

L’interpretazione allegorica del racconto su Balaam, come si può facilmente


osservare, è molto lontana dal testo letterale. Ma qualche volta Filone, anche al livello
letterale, considera reale un incontro di un messaggero di Dio con un personaggio
biblico. In questo modo, ad esempio, Agar ha visto realmente un angelo rivestito di
forma corporea211. Questo messaggero invece non viene identificato con il Logos che è
di natura intelligibile. La spiegazione del perché la schiava di Sara avrebbe dovuto
vedere qualche messaggero corporeo piuttosto che il Logos, viene data invece al livello
allegorico212. Agar dunque viene considerata dall’Alessandrino il simbolo
dell’educazione propedeutica213, che appunto non è capace ancora di attingere alle realtà
del mondo intelligibile214. Questo tipo di educazione parte da ciò che è sensibile215. Solo
i progredienti, ovvero coloro che si esercitano nella speculazione filosofica, possono

211
Cfr. Gen. 16, 7-14.
212
Cfr. Phil., Somn. I 240-241, Fug. 211-213.
213
Cfr. Phil., Leg. All. III 244, Poster. 130-131.
214
È vero, come osserva C. Kraus Reggiani, che “l’angelologia in Filone si affianca per
complessità alla dottrina del Logos, delle Potenze e delle Idee”. Cfr. C. Kraus Reggiani, nota 154 a De
fuga et inventione, in Filone di Alessandria, L’uomo e Dio…, p. 273. Tuttavia, non in tutti i casi l’angelo
viene interpretato dall’Alessandrino come una manifestazione del Logos. Nel caso di Agar la domanda
dell’angelo: “Da dove vieni e dove vai?” (Gen. 16,8, cfr. Fug. 203) è interpretata come la voce della
coscienza interiore di Agar. Infatti, Agar, simbolo degli studi preliminari, si allontanata da Sara, simbolo
della sapienza. Questo fatto, secondo Filone sta a indicare che lo studio delle scienze propedeutiche può
rimanere anche fine a se stesso e così non attinge alla sapienza. La voce della coscienza dunque dice ad
Agar: “Ritorna alla tua padrona” (Gen. 16,9, cfr. Fug. 207), cioè ritorna alla sapienza. Vediamo dunque
che al livello letterale Filone non nega il fatto che Agar possa incontrare qualche messaggero, al livello
allegorico, invece, l’Alessandrino parla della voce della coscienza, non del Logos.
215
Cfr. Phil., Congr. 20.
112

attingere al Logos216. I perfetti invece, ossia coloro che sono già abituati ad avere
rapporto con l’intelligibile, come ad esempio Abramo (simbolo del sapiente), possono
arrivare persino alla visione di Dio stesso217. Vediamo dunque che al livello letterale
Filone sostiene che Agar ha avuto un certo incontro con qualcuno che le ha parlato nel
nome di Dio. Questi invece non era il Logos stesso, ma qualche messaggero di forma
umana, probabilmente ispirato dal Logos divino. D’altra parte, al livello allegorico,
l’Alessandrino dimostra l’impossibilità di incontrare Dio o il suo Logos da parte di
Agar.

Tra i commenti filoniani invece possiamo trovare ancora un altro modo di


interpretare i testi che parlano delle apparizioni di Dio sulla terra. In questo caso la
teofania viene considerata dall’Alessandrino reale, però avviene solo nella mente di
colui che incontra Dio o il suo Logos. È una visione di tipo mistico. Una tale esperienza
sovrannaturale è stata concessa, ad esempio, ad Abramo alle querce di Mamre218:

Abramo, infatti, con tutto lo zelo, la rapidità e la prontezza del suo


animo, andò a ordinare a Sara, la virtù, di affrettarsi ad impastare tre misure di
farina e a farne dei pani da cuocere sotto la cenere, quando Dio, scortato dalle
sue Potenze supreme, Sovranità e Bontà, essendo lui stesso uno in mezzo a loro,
produsse tre immagini nell’anima che sa vedere. Nessuna di quelle ha ricevuto
in alcun modo dimensioni definite – giacché Dio è infinito, e infinite sono pure
le sue Potenze – ma ciascuna di esse ha dato dimensioni a tutto ciò che esiste219.

216
Il simbolo del progrediente è Giacobbe (cfr. Phil., Ebr. 82), che lottò contro un angelo
(simbolo del Logos). I progredienti infatti si esercitano nella speculazione. Per questo Agar che non ha
riconosciuto il Logos, nello stesso passo viene paragonata con Giacobbe che invece ha conosciuto il
Logos. Cfr. Phil., Somn. I 238-241. In un altro passo Filone dice che i perfetti possono avere qualche
conoscenza di Dio, per gli altri c’è il Logos. “Questo sarebbe il Dio per noi uomini imperfetti, il Dio dei
sapienti e dei perfetti è invece quello che sta ancora prima”. Phil., Leg. All. III 207.
217
Ma anche Abramo, secondo Filone, prima che fosse uscito dalla terra dei Caldei, era
principiante appunto come Agar (simbolo dell’educazione propedeutica), ovvero si dedicava allo studio
delle cose corporee “senza riconoscere al di fuori dell’universo e della realtà sensibile nessuna natura
intelligibile ed incorruttibile”. Anche lui, allora, non era in grado di vedere Dio. L’Alessandrino osserva,
che egli vide Dio per la prima volta quando la sua intelligenza è divenuta limpida, ossia quando obbedì al
commando e uscì dalla terra dei Caldei. Cfr. Phil. Abr. 77-79.
218
Cfr. Gen. 18, 1-15.
219
Phil., Sacrif. 59: kai. ga.r VAbraa.m meta. spoudh/j kai. ta,couj kai. proqumi,aj pa,shj evlqw.n
parakeleu,etai th/| avreth/| Sa,rra| speu/sai kai. fura/sai tri,a me,tra semida,lewj kai. poih/sai evgkrufi,aj(
h`ni,ka o` qeo.j doruforou,menoj u`po. duei/n tw/n avnwta,tw duna,mewn avrch/j te au= kai. avgaqo,thtoj ei-j w'n o`
me,soj tritta.j fantasi,aj evneirga,zeto th/| o`ratikh/| yuch/|( w-n e`ka,sth meme,trhtai me.n ouvdamw/j
avperi,grafoj ga.r o` qeo,j( avperi,grafoi de. kai. ai` duna,meij auvtou/( meme,trhke de. ta. o[la. Cfr. anche Phil.,
Abr. 119-123, dove, a proposito dello stesso passo biblico, Filone parla dell’anima che viene illuminata da
Dio e riceve una triplice visione dello stesso oggetto. Anche in questo passo l’Alessandrino identifica ciò
che viene visto come: Padre dell’universo (non il Logos), la Potenza creatrice e la Potenza reale (path.r
me.n tw/n o[lwn o` me,soj( o]j evn tai/j i`erai/j grafai/j kuri,w| ovno,mati kalei/tai o` w;n( ai` de. parV e`ka,tera ai`
presbu,tatai kai. evgguta,tw tou/ o;ntoj duna,meij( h` me.n poihtikh,( h` dV au= basilikh,). Abr. 121.
113

Anche se Filone rimane sempre al livello allegorico dell’interpretazione (Sara


infatti è considerata il simbolo della virtù), non nega che Dio possa essere visto
dall’occhio dell’anima di Abramo. Nel passo riportato l’anima è definita come o`ratikh,,
ovvero quella che possiede la capacità di vedere. Questa capacità invece si riferisce
piuttosto a una conoscenza o a un’intuizione intellettuale anziché a una visione vera e
propria di tipo sensibile. Ne abbiamo conferma anche in un altro passo che commenta
l’incontro precedente di Abramo con Dio, quello del Gen. 17,1. A questo proposito
Filone dichiara che il testo sacro parla di una visione che non fu colta dagli occhi del
corpo bensì fu appresa dall’anima, ossia allo stesso modo in cui noi apprendiamo le
scienze220. Alle querce di Mamre dunque Dio produsse nell’anima di Abramo una
triplice rappresentazione (trittai. fantasi,ai). La parola fantasi,a viene usata qui in
modo improprio. Infatti tra i suoi significati diversi troviamo: ‘immagine’,
‘apparizione’, ‘visione’ o ‘rappresentazione’ che si riferiscono sempre a qualcosa che
viene visto in maniera sensibile oppure a qualcosa che, nonostante fosse solo
immaginato, è dotato di certe dimensioni. Filone invece dice che nessuna di queste
fantasi,ai ha ricevuto le dimensioni definite. In realtà sia Dio sia le sue Potenze sono
avperi,grafoi, ossia ‘non circoscritti’, ‘infiniti’ o ‘illimitati’. Un’entità senza le misure
determinate non può essere vista. Infatti l’intelligibile può essere compreso o capito ma
non visto. Come dunque possiamo spiegare questa triplice rappresentazione
intelligibile? Probabilmente si tratta qui di una comprensione intellettuale di tre verità
riguardo a Dio. Abramo dunque ha conosciuto Dio come colui che crea e come colui
che governa, ovvero come buono e come sovrano, e nello stesso tempo anche come
colui che opera nel mondo, non in persona, ma attraverso le sue Potenze221. Possiamo

220
Phil., Mutat. 3-6: “Ma non credere che la visione fosse colta dagli occhi del corpo, perché
questi percepiscono solo le cose sensibili, che sono composite e piene di corruzione, mentre il divino non
è composito ed è incorruttibile: quello che coglie la visione di Dio è l’occhio dell’anima. Inoltre, tutto ciò
che gli occhi del corpo vedono è percezione mediata dalla luce, che è diversa dalla cosa vista e da chi la
vede; ma ciò che l’anima vede è dovuto a lei stessa senza alcuna mediazione esterna, perché gli oggetti
del pensiero sono luce a se stessi. Allo stesso modo apprendiamo anche le scienze: la mente rivolge il
proprio occhio sempre aperto e desto ai principi e alle conclusioni da esse raggiunte e vi penetra non già
in virtù di una luce falsata, bensì di una luce autentica che promana da lei stessa. Quando, dunque, senti
dire che Dio fu visto da un uomo, pensa che il fenomeno si verifica al di là e al di fuori della luce
sensibile, perché rientra nella normalità che l’intelligibile sia solo l’intelletto a coglierlo. Dio è fonte
dell’irradiazione più pura, per cui quando si manifesta all’anima emette raggi che sono di una luminosità
intensa e disperdono ogni ombra di contorno.”
221
Anche C. Termini interpreta la triplice visione di Abramo al livello epistemologico: “Si
percepisce l’uno, solo quando la mente, totalmente purificata, riesce ad oltrepassare la molteplicità, per
proiettarsi verso l’idea semplice e assolutamente autosufficiente. Altrimenti, si rimane legati alla
parzialità: il pensiero, non riuscendo ad afferrare l’Essere nella sua unicità, lo concepisce attraverso la sua
attività multiforme. Allora le azioni di Dio diventano delle duna,meij, una pluralità di potenze che possono
sembrare anche distinte, separate o degradanti”. Cfr. C. Termini, Le potenze…, p. 57. Sull’interpretazione
114

ipotizzare anche che Abramo abbia avuto una intuizione mistica della presenza dei tre
attraverso i quali viene creato e governato il mondo222.

Inoltre, occorre notare che nel passo citato è Dio ad essere accompagnato dalle
sue Potenze e non il Logos, come abbiamo visto nel brano del Cher. 27 e del Fug. 101.
Come spiegare questa diversità? È giustificabile la conclusione che colui che è apparso
ad Abramo era il Logos, dato che il Logos appunto è l’auriga delle Potenze e che anche
lui viene spesso chiamato Dio? Purtroppo nel caso della visione di Abramo tale
conclusione sarebbe una sovrainterpretazione223. Anche se Filone non abbandona la sua
dottrina del Logos inteso come intermediario tra Dio e il mondo, in questo passo il
nostro filosofo parla intenzionalmente di Dio e non del Logos. Infatti, dalle opere
dell’Alessandrino possiamo ricavare una certa gerarchia dei gradi di conoscenza del
divino. In realtà, diversi personaggi biblici sono considerati da Filone simboli dei
principianti, progredenti e dei perfetti nella cognizione delle realtà divine224. Agar
dunque, essendo simbolo della educazione propedeutica, non era capace di riconoscere
e vedere il Logos. Difatti, ha visto solamente un angelo che è apparso a lei in una forma
corporea e non il Logos in persona. Giacobbe invece, simbolo del progrediente, essendo
colui che si esercita nel rapporto con il mondo intelligibile225, nell’interpretazione

della visione di Abramo cfr. anche J. Cazeaux, L’épée du Logos et le soleil de midi, Lyon 1983, pp. 131-
134.
222
Infatti, nel testo che segue il passo citato, Filone afferma che la visione è stata data all’anima
“affinché essa convinta che Dio è l’Altissimo, che resta superiore alle Potenze, visibile anche
separatamente da loro e nello stesso tempo rivelantesi in esse, riceva i segni caratteristici del suo Potere e
della sua Beneficenza”. Phil., Sacrif. 60.
223
R. Radice osserva che il fatto che nella triade del passo del Sacrif. 59 viene collocato Dio (e
non il Logos) fra le sue Potenze “pone problemi teologici di non facile soluzione, sui quali lungamente si
è dibattuto, tanto più che le figurazioni qui esaminate sono lungi dall’esaurire la vasta gamma di
disposizioni che Filone stesso prospetta e, di conseguenza, non danno che una pallida idea della ambiguità
e polivocità del pensiero filoniano su questo tema”. Cfr. R. Radice, nota 17 a De sacrificiis in Filone di
Alessandria, Tutti i trattati…, p. 446.
È vera l’osservazione di Radice sull’ambiguità e polivocità del pensiero filoniano. A mio avviso,
invece, c’è una certa logica nel fatto che una volta il nostro filosofo parla di una visione del Logos, l’altra
di Dio stesso accompagnato dalle sue Potenze. Ne parleremo più avanti.
224
Anche A. Maddalena osserva che Filone distingue “i seguaci della Parola” dai “seguaci del
Padre”, e aggiunge che la differenza tra questi due tipi degli uomini consiste nel livello (o grado) della
loro conoscenza del divino. I progredenti dunque “hanno come la guida al suo cammino la Parola di Dio”,
i perfetti invece cominciano a seguire il Padre stesso. Cfr. A. Maddalena, Filone…, pp. 347-350. Così,
dunque, Abramo mentre usciva dalla terra dei Caldei era, per Filone, il seguace del Logos, alle querce di
Mamre invece (dove riceve la visione di Dio) è già il simbolo del sapiente che comincia ad avere il
rapporto con il Padre. Per questo, secondo l’interpretazione allegorica dell’Alessandrino, ad Abramo
appare non il Logos, ma Dio accompagnato dalle sue Potenze. Sottolineiamo, però, che si tratta qui
dell’interpretazione allegorica. Con essa Filone vuole spiegare un concetto epistemologico, ovvero che la
cognizione del divino è condizionata dalle capacità e dalla preparazione intellettuale e spirituale
dell’uomo. Cfr. F. Calabi, God’s Acting…, pp. 86-89. In realtà, l’Alessandrino esclude la possibilità di
un’apparizione del Dio trascendente sulla terra.
225
Infatti secondo il racconto biblico egli ha combattuto con un angelo che per Filone è diventato
il simbolo del Logos. Cfr. Gen. 32,35. Cfr. anche Cfr. Phil., Mutat. 87, Sobr. 65, Somn. I 238-239.
115

filoniana, ha incontrato (o meglio conosciuto) il Logos. Infine ad Abramo, il simbolo


del sapiente, è stata concessa l’esperienza mistica durante la quale ha conosciuto le
verità relative a Dio stesso226. Secondo questa concezione i principianti non sono capaci
di avere ancora rapporto con le realtà intelligibili, i filosofi (ovvero i progredienti) nella
loro speculazione hanno rapporto con il Logos, i sapienti, infine, seguono non solo il
Logos, ma obbediscono a Dio, Padre dell’universo, che, attraverso una visione mistica,
rivela a loro qualcosa della sua volontà relativa al mondo o alla storia della salvezza227.
Questa è una concezione epistemologica di Filone che si basa sull’interpretazione
allegorica delle teofanie bibliche. Al livello letterale, invece, né Abramo, né il
sapientissimo Mosè hanno mai incontrato Dio (e neppure il suo Logos) in persona. È
così perché, come in un altro luogo spiega l’Alessandrino, Dio si palesa sempre alle
anime “assumendo l’aspetto di angeli, senza mutare con ciò la propria natura, perché
egli è immutabile, ma ingenerando in chi ne ha la visione l’idea che si tratti di una
forma diversa, tanto da fargli ritenere che quell’immagine non sia una copia, bensì
l’originale stesso”228.

Anche se con il concetto dei gradi della conoscenza abbiamo tentato di spiegare
perché ad Abramo (così sarà anche per Mosè, come vedremo dopo) sia apparso Dio e
non il suo Logos, stiamo davanti a un’aporia della dottrina filoniana. Infatti, nel
paragrafo precedente abbiamo mostrato che Dio è il Nous trascendente che pensa se
stesso, il Logos, invece, è Dio rivolto verso il mondo. Il primo è l’attività pensante – è
colui che è; il secondo è l’attività creatrice e governante – è colui che agisce229. Ad
Abramo dunque è apparso, anche se si tratta solo di una visione mistica, non colui che è,
ma colui che agisce230 – dunque il Logos. Nonostante ciò Filone sistematicamente, in

226
Ma Abramo ha conosciuto Dio veramente? Ha appreso qualcosa della sua essenza? Su questo
argomento parleremo più ampiamente nel paragrafo successivo. In questo luogo, vogliamo soltanto
sottolineare che le teofanie bibliche vengono interpretate da Filone dal punto di vista epistemologico, non
ontologico. In questo modo il nostro filosofo vuole salvaguardare il concetto della trascendenza
ontologica di Dio rispetto al creato. I personaggi biblici, dunque, giungono a diversi gradi della
cognizione del divino, ma né Dio né il suo Logos, che sono le realtà invisibili, appaiono in persona nel
mondo corporeo.
227
Sull’argomento cfr. P. Graffigna, The Stability of Perfection: The Image of the Scales in Philo
of Alexandria, in Italian studies on Philo of Alexandria, a cura di F. Calabi, Boston – Leiden 2003, pp.
131-146.
228
Phil., Somn. I 232. Vediamo dunque che, secondo l’Alessandrino, Dio ingenera nell’anima
che partecipa nella visione una convinzione che si tratti dell’apparizione di Dio, mente egli stesso rimane
sempre trascendente rispetto al creato. Su questo passo parleremo ancora più avanti.
229
In alcuni passi Filone dice esplicitamente che il Logos è l’azione di Dio. Cfr. Phil. Sacr. 65: o`
lo,goj e;rgon h=n auvtou/, Mos. I 283: o` lo,goj e;rgon evsti.n auvtw/|.
230
Cfr. F. Calabi, God’s Acting…, p. 14, che così spiega la visione di Abramo: “If this intellect is
unable to grasp the idea in all its purity, untainted by mixing, the viewer ends up seeing a multiple vision,
a vision not of “He who is”, but of His acts. Here the vision is closely connected with the cognitive
116

diversi luoghi delle sue opere, per quanto riguarda la teofania nella quale hanno
partecipato i sapienti, come Abramo o Mosè, parla della visione di Dio e non del Logos,
mentre i progredienti giungono alla conoscenza del Logos e non di Dio. Può darsi che
con questo il nostro filosofo vuole trasmettere anche un’altra idea. Secondo
l’Alessandrino, infatti, i filosofi, ovvero i progredienti, spesse volte errano e discordano
per quanto riguarda diversi argomenti filosofici231. Nonostante ciò hanno il contatto con
il Logos, cioè con il mondo delle idee. I sapienti e i perfetti, invece, nelle loro ricerche,
e attraverso la loro vita morale, hanno trovato la Causa suprema – la Causa di tutte le
altre cause delle quali parlano i filosofi. Dunque, nelle visioni dei sapienti che vengono
provocate o ingenerate nella loro mente da Dio che agisce, ovvero dal Logos, Filone
parla di Dio. Infatti, secondo lui, loro sono giunti al livello cognitivo più alto di tutti i
filosofi. Dietro le Potenze e il Logos riconoscono la Causa suprema di tutta la realtà. E
non sbagliano anche se questa Causa rimane sempre assolutamente trascendente rispetto
al creato.

Non è qui la sede per analizzare tutti i passi del commento filoniano che parlano
delle teofanie, ma, come abbiamo già visto, l’Alessandrino tende continuamente ad
escludere la possibilità dell’apparizione vera e propria di Dio o del Logos sulla terra. Lo
fa sempre attraverso diversi tipi dell’interpretazione allegorica232. Tutto ciò poi è
conforme agli assiomi principali e all’impostazione generale della filosofia di Filone
che è sempre platonica. Infatti, secondo i platonici, le entità intelligibili non possono
essere viste o apparire in qualche dimensione corporea perché appartengono ad un altro
livello ontologico, ovvero a incorporeo e invisibile. È vero che il Logos governa tutto
l’universo, ma lo fa attraverso le leggi invisibili della natura e attraverso le sue Potenze.

capacities of the receiver: the powers are not autonomous forms, but figures perceived by those who
apprehend only partial and fragmentary views of the one principle”.
231
Cfr. Phil., Mutat. 10-11; Congr. 53.
232
Alcuni studiosi, influenzati dall’interpretazione wolfsoniana, alla quale abbiamo già
accennato (cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, pp. 200 sgg. e 325 sgg.), parlano dei tre stadi di esistenza
del Logos. Il primo stadio sarebbe quello in cui il Logos si identifica con la mente divina. Il secondo
sarebbe il Logos inteso come il mondo intelligibile creato fuori della mente divina. Il terzo sarebbe il
‘Logos incarnato’ che opera nel mondo corporeo. Cfr. B. Mondin, L’universo filosofico di Filone di
Alessandria, ScC 5 (1968), p. 380. È vero che Filone parla del Logos in contesti vari. Le sue affermazioni
relative a questo concetto possono indurre alle interpretazioni diverse. Tuttavia, è una
sovrainterpretazione parlare del ‘Logos incarnato’. Infatti, abbiamo mostrato in antecedenza come le
stesse teofanie delle Scritture non siano per Filone vere e proprie apparizioni del Logos. Per
l’Alessandrino il Logos è una realtà intelligibile e per questo incorporea e invisibile. “Il Logos – afferma
Filone – non ha assunto forma visibile, perché non è simile a nessuna cosa percepibile, ma è di per sé
immagine di Dio e in assoluto il più alto di tutti gli intelligibili (o` lo,goj qei/oj eivj o`rath.n ouvk h=lqen
ivde,an( a[te mhdeni. tw/n katV ai;sqhsin evmferh.j w;n( avllV auvto.j eivkw.n u`pa,rcwn qeou/( tw/n nohtw/n a[pax
a`pa,ntwn o` presbu,tatoj)”. Cfr. Phil., Fug. 101. Le teofanie sono, dunque, interpretate da Filone sempre al
livello allegorico per negare appunto la possibilità dell’interpretazione che attribuirebbe al Logos le
caratteristiche corporee.
117

Se invece interviene nel mondo in modo sovrannaturale, come ammette la Bibbia, lo fa


mediante un’esperienza mistica concessa alle anime dei personaggi eletti. Ma anche in
questo caso rimane il dubbio se possiamo parlare sempre del intervento del Logos o di
Dio. Infatti l’evento biblico viene interpretato dall’Alessandrino al livello allegorico e
rimane una metafora del suo concetto epistemologico dei gradi di conoscenza. Dio e il
suo Logos dunque non intervengono in persona nel mondo corporeo e rimangono
sempre invisibili e incomprensibili. Analizzeremo, però, questo argomento, ovvero in
che modo l’uomo possa conoscere Dio trascendente, nel paragrafo successivo.

Il tema del Logos nelle opere filoniane, come abbiamo visto, è un problema
ampio e provoca tante aporie. Infatti il Logos viene presentato una volta come un’entità
sussistente indipendente dalle Potenze, un’altra volta come l’insieme delle Potenze,
un’altra volta ancora come l’auriga, ossia colui che trascende e governa le Potenze.
Questo argomento complesso (che non è precisamente il tema della nostra tesi) ci ha
avvicinato a chiarire di più il concetto della trascendenza ontologica di Dio. Infatti, Dio
essendo assolutamente trascendente nella creazione e nel governo del mondo, si serve di
una serie di intermediari tra i quali esiste anche una gerarchia. Gli uni dipendono dagli
altri. Il Logos è un’entità particolare, perché è quella più vicina e sempre legata a Dio.
Nel compiere le direttive divine nel mondo si serve delle altre entità intelligibili. Sia il
Logos sia gli altri intelligibili, però, non devono essere intesi come esseri autonomi,
sussistenti di per sé, anche se diverse personificazioni allegoriche lo suggeriscono. In
realtà, la metafora del sole e dei raggi, adoperata da Filone in diversi luoghi delle sue
opere, mostra la dipendenza ontologica degli intermediari da Dio. Così, dunque, gli
intermediari (i raggi del sole) esistono in quanto esiste Dio (il sole). In questo modo le
Potenze, qualora fossero descritte in maniera personificante, nient’altro sono che diverse
manifestazioni dello stesso e unico Logos che è Dio rivolto verso il mondo. Anche se
non siamo riusciti ad affermare con certezza la tesi della coeternità del Logos con Dio,
la sua natura intelligibile e il fatto della sua generazione particolare, ovvero unica e
fuori dal comune, e altresì il suo modo di operare nel mondo, ossia per il tramite delle
Potenze, non ci lasciano dubbio che anche il Logos è ontologicamente trascendente
rispetto al creato. Non è un’entità mescolata con il mondo, come lo concepivano gli
stoici, ma, provenendo dall’aldilà, interviene nella storia mondana e nello stesso
momento rimane sempre unito all’essenza del Dio trascendente.
118

1.4. La trascendenza gnoseologica di Dio

Con l’analisi dei passi che parlano delle teofanie bibliche siamo già passati
all’argomento della trascendenza gnoseologica di Dio in Filone. Infatti abbiamo
segnalato il tema dei gradi di conoscenza. Così dunque, i personaggi biblici a volte
vengono considerati da Filone simbolo dei principianti, dei progredienti o dei sapienti
nel cammino intellettuale e spirituale. Come tali dunque sono capaci di attingere alla
conoscenza delle realtà corporee, intelligibili o divine in modo corrispondente al loro
livello dell’istruzione o del progresso spirituale. Ritorniamo a questo argomento anche
in questo paragrafo233. Ciò che è di natura intelligibile, infatti, può essere conosciuto
dall’intelletto, ma non visto dagli occhi del corpo. Ma è vero, dunque, che Dio e il suo
Logos essendo di natura intelligibile possono essere conosciuti dall’intelletto umano?
Che cosa riesce ad apprendere l’uomo dalle realtà divine? Cercheremo di dare risposta a
queste domande nel presente paragrafo.

All’inizio osserviamo che il concetto della trascendenza gnoseologica di Dio si


basa su quello della trascendenza ontologica. Criticando gli antropomorfismi biblici
Filone dimostra che a Dio non si possono attribuire caratteristiche umane né per quanto
riguarda la corporeità né per quanto riguarda le passioni irrazionali proprie all’anima
umana. Inoltre Dio, anche se è di natura intelligibile (come l’anima, le virtù o le idee
umane), trascende tutto il mondo degli intelligibili. È unico nel suo genere. Come dice
Filone, è “luogo di se stesso” (auvto.j e`autou/ to,poj)234. Solo lui, poi, è ingenerato. Tutte
le altre cose invece, sia corporee sia intelligibili, sono state generate. Inoltre è
immutabile, mentre il creato è nel continuo processo del divenire. Questi sono i motivi
per il quali l’Alessandrino sostiene che l’essenza di Dio è assolutamente inconoscibile.
Dio non ha niente in comune con le cose che l’uomo è abituato a conoscere.

Un’affermazione molto importante si trova negli oracoli rivelati: «Dio


non è come un uomo», ma neppure come il cielo, né come il mondo: queste
infatti sono forme fatte in un certo modo, e vengono a presentarsi alla nostra

233
I passi relativi alle teofanie bibliche, riportati nel paragrafo precedente, ci sono serviti solo ad
indicare che secondo Filone non era possibile che Dio o il suo Logos fosse apparso in qualche parte del
mondo corporeo. La teofania dunque va interpretata come una visione intellettuale. In questo paragrafo,
invece, analizzeremo il contenuto di questa visione, ovvero ci occuperemo dell’argomento delle teofanie
dal punto di vista epistemologico.
234
Cfr. Phil., Leg. All. I 44.
119

sensibilità, mentre Dio non è certo afferrabile neppure dall’intelletto, se non per
quanto riguarda il suo effettivo esistere. È la sua esistenza, infatti, che noi
comprendiamo, ma al di fuori dell’esistenza, nient’altro235.

Vediamo che la dissomiglianza assoluta che c’è tra la natura di Dio e quella del
mondo è la base del concetto della inconoscibilità di Dio da parte dell’uomo. A livello
della sensazione l’uomo riesce ad afferrare ciò che è di una certa qualità (poia. ei;dh).
Dio invece non ha alcuna forma di qualità (a;poioj ga.r o` qeo,j)236. La sua essenza,
dunque, non è percepibile per naturam. In realtà egli è colui che essendo a;poioj ha
impresso le forme determinate (poia. ei;dh) nella materia informe (a;poioj u[lh). In questo
modo Dio ha creato il mondo che è percepibile237. Il possesso di una forma qualitativa
dunque è, secondo Filone, condizione indispensabile per cui una cosa possa diventare
conoscibile. Questa condizione invece riguarda non solo il livello della percezione dei
sensi, ma anche quello della cognizione intellettuale. Infatti le idee umane sono
conoscibili perché anch’esse hanno sempre una determinazione. Pur essendo di natura
intelligibile, non sono a;poioi, ovvero indeterminate o indefinite. Anzi la definizione di
un’idea contiene le caratteristiche molto precise al di là delle quali un’idea non è più la
stessa idea. Dio invece trascende anche le entità intelligibili create e non ha nessuna
determinazione né alcuna definizione238. Tale essere non è afferrabile né dai sensi e
neppure dall’intelletto (ouvde. tw/| nw/| katalhpto.j)239. Come vediamo dal passo citato

235
Phil., Deus 62: kefa,laion evn toi/j i`erofanthqei/si crhsmoi/j( o[ti ¹ouvc w`j a;nqrwpoj o` qeo,j¹(
avllV ouvdV w`j ouvrano.j ouvdV w`j ko,smoj\ poia. ga.r ei;dh tau/ta, ge kai. eivj ai;sqhsin evrco,mena( o` dV a;ra ouvde.
tw/| nw/| katalhpto.j o[ti mh. kata. to. ei=nai mo,non\ u[parxij ga.r e;sqV h]n katalamba,nomen auvtou/( tw/n de, ge
cwri.j u`pa,rxewj ouvde,n.
236
Phil., Leg. All. I 36. Cfr. anche Phil., Leg. All. I 51, III 36.
237
Vediamo dunque che secondo Filone nella struttura della realtà ci sono due estremità che
rimangono sempre inconoscibili da parte di un uomo: o` a;poioj qeo,j e h` a;poioj u[lh. La loro
inconoscibilità è la conseguenza del loro essere a;poioj, ovvero della mancanza di alcuna qualità
percepibile dall’uomo.
238
Inoltre, come osservano alcuni studiosi, Dio è sui generis, ovvero non appartiene a nessun
genus e a nessuna species. Invece, per definire un’idea (secondo la logica aristotelica) è necessario
indicare, appunto, il genus proximum e la differentia specifica. Dio, invece, è al di là di qualsiasi genus o
species oppure, come dice Filone, egli è l’essere più generico (to. de. genikw,tato,n evstin o` qeo,j). Cfr.
Phil., Leg. All. II 86. Non si può, dunque, conoscere ciò che è indefinibile per naturam, ovvero ciò che è
troppo generico. Cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. II, pp. 101 sgg.; D. Winston, Was Philo a Mystic?, in
The Ancestral Philosophy…, pp. 152-153.
239
In un altro luogo Filone afferma che la ricerca intorno all’Ente supremo è la più difficile e che
l’intelletto umano che si dedica ad essa alla fine deve dichiararsi vino. Cfr. Phil., Somn. I 184-185: “A
ragione, dunque, Giacobbe ebbe paura e disse sbigottito: «Come è spaventoso questo luogo!» (Gen.
28,17), perché realmente il più difficile dei «luoghi» nello studio delle verità di natura è questo, in cui si
ricerca dove sia o se in genere sia in qualche luogo l’Ente supremo: alcuni dicono che tutto ciò che esiste
occupa uno spazio, e gli assegnano quindi chi un luogo, chi un altro, i primi un luogo dentro il mondo, i
secondi il luogo metacosmico, all’esterno del mondo; altri invece dicono che l’Ingenerato non rassomiglia
ad alcuna delle cose create, ma le trascende tutte, tanto che il pensiero più veloce rimane molto lontano
dal comprenderlo e deve dichiararsi vinto. Per questo appunto Giacobbe prorompe subito: «Non è
120

sopra, una sola cosa relativa a Dio, che l’intelletto umano riesce ad apprendere, è il fatto
della sua esistenza (u[parxij), ma al di fuori dell’esistenza, nient’altro (cwri.j u`pa,rxewj
ouvde,n)240. La trascendenza di Dio rispetto al creato e la mancanza di qualità, ovvero il
suo essere a;poioj, sono i motivi per i quali la sua essenza non può essere né percepita né
conosciuta da parte dell’uomo241.

In un altro passo Filone afferma che nella struttura dell’essere umano non esiste
alcun organo che possa afferrare o comprendere ciò che trascende ontologicamente il
creato:

Non credete, tuttavia, che l’Ente che veramente è possa essere percepito
da creatura umana. Non possediamo nella nostra struttura alcun organo con cui

possibile» (Gen. 28,17), come ho creduto, «che il Signore sia in qualche luogo» (Gen. 28,16), perché
secondo la retta ragione egli contiene ma non è contenuto”.
A questo proposito osserviamo che Filone è il primo tra i filosofi antichi a dichiarare che la
ricerca intellettuale intorno a Dio non può procurare nessuna conoscenza concernente la sua essenza.
Infatti, in Platone e in Aristotele, l’idea del Bene e il Nous, pur essendo trascendenti ontologicamente
sono in qualche modo conoscibili, anzi, diventano l’oggetto della scienza. Cfr. H. A. Wolfson, The
Knowability of God in Plato and Aristotle, HSCPh (52) 1947, pp. 233-249, dove lo studioso dimostra che
la tesi dell’inconoscibilità dell’essenza divina è stata introdotta solo con Filone di Alessandria. Cfr. anche
Id., Philo…, vol. II, pp. 113 sgg. Con la tesi del Wolfson non concorda il Festugière, secondo il quale già
in Platone troviamo il concetto della trascendenza epistemologica di Dio. Cfr. R. P. Festugière, La
révélation…, vol. IV, pp. 79-91. Bisogna comunque aggiungere che per quanto le interpretazioni dello
studioso francese possano essere convincenti, Platone stesso, in un significativo passo della Repubblica
(quello in cui spiega la metafora del sole), afferma: “Ed essendo essa [cioè l’Idea del Bene] causa di
conoscenza e di verità, ritienila conoscibile (aivti,an dV evpisth,mhj ou=san kai. avlhqei,aj( w`j gignwskome,nhj
me.n dianoou/). Plat. Resp. 508 E. Cfr. anche G. Reale, Per una nuova interpretazione…, p. 335 sgg.; F.
Calabi, La luce che abbaglia…, pp. 226-227.
240
Secondo J. Dillon la distinzione tra u[parxij e poio,thj è di provenienza stoica. Essa viene
utilizzata da Filone nella sua dottrina di Dio. Infatti, in diversi luoghi delle sue opere l’Alessandrino ripete
che l’uomo può conoscere solo l’esistenza (u[parxij) di Dio, ma nessuna qualità (poio,thj) della sua
essenza. Cfr. J. Dillon, The Nature of God…, pp. 220-221.
241
J. Daniélou, invece, come la causa dell’inconoscibilità gnoseologica di Dio indica l’assoluta
semplicità dell’essenza divina. Cfr. J. Daniélou, Philon…, p. 148. In realtà, questa opinione concorda
anche con ciò che abbiamo detto sopra. Infatti gli esempi delle cose semplici di questo mondo hanno
sempre qualche qualità (poia. ei;dh) che può essere percepita dai sensi o compresa dall’intelletto.
L’assoluta semplicità dell’essenza di Dio non ha nessuna forma qualitativa (è a;poioj), dunque non è né
percepibile né conoscibile da parte dell’uomo. È diversa di tutte le cose semplici visibili. Anzi,
adoperando la concezione aristotelica, si potrebbe dire che nessuna delle cose terrene è semplice. Infatti
tutte sono composte ontologicamente da una forma e materia. Inoltre, non è conoscibile né la forma
separata dalla materia né la materia separata dalla forma. L’uomo, dunque, essendo circondato solo dalle
cose ontologicamente composte, non ha accesso alla conoscenza delle realtà assolutamente semplici.
R. Radice, invece, osserva che in Filone è notabile “un costante sforzo di distinguere Dio dal
mondo. Siccome il mondo è mutevole, Dio sarà immutabile; siccome il mondo è qualitativamente
caratterizzato, Dio sarà privo di qualità”. Cfr. R. Radice, nota 36 a Quod Deus sit immutabilis in Filone di
Alessandria, Tutti i trattati…, p. 741. E così, potremmo continuare anche ripetendo insieme a J. Daniélou:
siccome il mondo è composto, Dio sarà assolutamente semplice. Tutte queste caratteristiche, ossia
immutabilità, semplicità, mancanza di qualità (e molte altre) che esprimono la differenza ontologica tra
Dio e il mondo, sono nello stesso modo il motivo per cui Dio è assolutamente inconoscibile. L’uomo non
è in grado si apprendere qualcosa che è assolutamente semplice, incorporeo, immutabile, ingenerato,
senza le qualità etc.
121

ci sia dato di farcene un’immagine: né la sensazione, dacché non è sensibile, né


l’intelligenza242.

Osserviamo che in questo passo la parola o;rganon viene riferita non solo agli
organi che percepiscono le cose sensibili ma anche all’intelletto (nou/j). Sarebbe dunque
meglio tradurla con il termine ‘strumento’ o ‘mezzo’. Infatti, né i sensi né l’intelletto
possono essere gli strumenti o mezzi capaci di suscitare una rappresentazione di Dio.
L’inconoscibilità di Dio è dovuta dunque alla debolezza o all’imperfezione della
costituzione dell’essere umano243 e non alla natura divina. Di natura infatti Dio, pur
essendo invisibile, è conoscibile di per sé perché è intelligibile (nohto,j), ovvero
accessibile solo attraverso l’intelletto244. In effetti Dio, essendo nou/j, conosce e pensa se
stesso ab aeterno. È l’uomo che nella sua struttura ontologica non possiede gli
strumenti adeguati e sufficienti per afferrare questo unico nel suo genere Essere
intelligibile245. Nonostante la mancanza di questi strumenti, che potrebbero suscitare
un’immagine di Dio, Filone dice che ci sono due entità alle quali Dio può essere
comparato e che sono: l’anima e il sole:

242
Phil., Mutat. 7: mh. me,ntoi nomi,sh|j to. o;n( o[ evsti pro.j avlh,qeian o;n( u`pV avnqrw,pou tino.j
katalamba,nesqai o;rganon ga.r ouvde.n evn e`autoi/j e;comen( w-| dunhso,meqa evkei/no fantasiwqh/nai( ou;tV
ai;sqhsin aivsqhto.n ga.r ouvk e;stin ou;te nou/n.
243
A questo proposito, R. Radice ipotizza che la debolezza strutturale della creatura, che non
riesce né ad accogliere né a comprendere Dio, deriva dal fatto che” l’Alessandrino si muove in parte in un
contesto teologico demiurgico in cui alcuni elementi sono esterni a Dio, a lui coesistenti e talora
addirittura opposti”. Cfr. R. Radice, Allegoria…, pp. 23. Non concordiamo con questa ipotesi perché,
secondo Filone, l’intelletto individuale dell’uomo fu riprodotto “sul modello dell’unico intelletto
universale” (Opif. 69) e non dalla materia preesistente. Infatti, afferma l’Alessandrino, “l’anima non
deriva assolutamente da nulla di creato, ma dal Padre e Signore dell’universo” (Opif. 135). Non può
essere dunque ‘un elemento opposto a Dio’. A nostro avviso, la debolezza strutturale dell’uomo è dovuta
dal fatto di essere creato in generale, e, di conseguenza, di essere finito. Dio invece, come abbiamo
mostrato nel paragrafo precedente, è infinito, e perciò inafferrabile da una creatura finita – anche se essa
fosse incorporea e creata a sua immagine.
244
Nelle opere filoniane l’aggettivo nohto,j in relazione a Dio è adoperato frequentemente. Ci
sono però solo due luoghi in cui l’Alessandrino adopera l’aggettivo avperino,htoj, ovvero inintelligibile.
Cfr. Phil., Mutat. 15; Fug. 141. Questo fatto però non contraddice le affermazioni secondo cui Dio è
nohto,j, “ma – come osserva C. Termini – evidenzia che l’essenza divina oltrepassa la capacità di
comprensione dell’uomo”. Cfr. C. Termini, Le potenze…, p. 48.
245
Cfr. Phil., Praem. 40. 45, dove Filone dice che solo Dio, con la sua propria luce, può
conoscere la sua natura, però nessun uomo è in grado di apprendere ciò che è Dio. Cfr. anche R. P.
Festugière, La révélation…, vol. IV, p. 19 sgg., dove lo studioso francese mostra che Dio in Filone è
inconoscibile, perché si identifica con l’idea del Bene della Repubblica e con l’Uno del Parmenide di
Platone, che appunto sono radicalmente trascendenti e perciò – secondo lo studioso – inconoscibili (cfr.
Ibid., pp. 79-91). L’osservazione del Festugière è giusta, infatti, come abbiamo già detto, la trascendenza
epistemologica di Dio è la conseguenza della sua trascendenza ontologica. E il Nous viene concepito da
Filone non solo come identico all’Uno o alla Monade, ma anche come colui che trascende persino l’Uno e
la Monade. Ne abbiamo parlato nel paragrafo 1.2; lo dimostra anche lo studioso francese. In ogni modo,
la tesi dell’inconoscibilità di Dio in Platone e in Aristotele, che propone il Festugière è discutibile. Cfr.
sopra.
122

Non ti meravigliare che il sole, secondo le norme dell’allegoria, viene


uguagliato al Padre e Sovrano dell’universo, perché in realtà non esiste nulla
che sia simile a Dio; ma nell’opinione umana due sole cose sono ritenute
uguagliabili a lui, l’una invisibile, l’altra visibile: l’invisibile è l’anima, la
visibile il sole. Mosè dichiara altrove la somiglianza dell’anima con Dio,
quando dice: «Dio creò l’uomo e lo creò a immagine di Dio»246 […]. La
somiglianza del sole con Dio la indica invece ricorrendo a simboli. Ma essa si
può individuare anche per la via, che è quella del ragionamento (evx
evpilogismou/). Anzitutto, Dio è luce – nei Salmi si canta: «Il Signore è mia luce e
mia salvezza»247 – e non solo luce, ma archetipo di ogni altra luce o, meglio
ancora, più antico e più eccelso di ogni archetipo, perché egli è il modello in
assoluto. Modello è infatti la sua Parola pienamente compiuta, che è luce – si
legge infatti nel testo sacro: «Dio disse: “Sia fatta la luce”»248 – mentre egli non
è simile ad alcuna cosa creata (auvto.j de. ouvdeni. tw/n gegono,twn o[moioj)249.

Dio, dunque, non è conoscibile se non attraverso metafore. Prescindendo dalle


testimonianze scritturistiche, l’uomo può arrivare ad esse anche attraverso la via del
ragionamento (evx evpilogismou/). Nei paragrafi precedenti abbiamo già detto che dal
punto di vista ontologico Dio può essere comparato al sole perché come il sole,
rimanendo sempre al di là della terra, la illumina attraverso i suoi raggi, così anche Dio,
pur rimanendo sempre trascendente conosce e governa tutto l’universo attraverso le sue
Potenze. L’anima, invece, anche se è di natura incorporea, governa il corpo umano
proprio come Dio, essendo il Nous dell’universo, governa il mondo corporeo.
L’esplicazione delle metafore svolta in questo modo è, in realtà, il ragionamento per
analogiam. Lo stesso ragionamento troviamo in una delle prove dell’esistenza di Dio
che Filone presenta nel modo seguente: Se esiste uno spirito invisibile – ragiona – a cui
obbedisce tutta la comunità del corpo, è impossibile che non ci sia uno Spirito,
altrettanto invisibile, che governa l’universo che è l’opera più bella, più grande e più
perfetta del nostro corpo, anzi di cui il nostro corpo fa solamente parte250. Vediamo

246
Gen. 1,27.
247
Sal. 27,1.
248
Gen. 1,3.
249
Phil., Somn. I 73-75.
250
Cfr. Phil., Abr. 74-75. Un’altra prova dell’esistenza di Dio, contenuta negli scritti filoniani,
riguarda anche il tema del governo del mondo. Infatti – ragiona l’Alessandrino – se uno entra in una città
bene ordinata pensa a un capo che svolge un governo buono in essa. Il nostro mondo è anche una città ben
ordinata, però molto più grande. In questa città tutto accade secondo le regole. Anch’essa dunque deve
avere un Capo che ha fissato le sue leggi e si prende cura affinché esse si compiano in ogni particolare.
Cfr. Phil., Spec. Leg. I 33-35. Cfr. anche Phil., Leg. All. III 98. Sull’argomento delle prove dell’esistenza
di Dio in Filone cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. II, pp. 73-93; B. Mondin, Esistenza…, pp. 423-427.
123

dunque che le metafore che si basano sul ragionamento per analogiam non forniscono
all’intelletto umano la cognizione dell’essenza di Dio, ma quella relativa alla sua
esistenza. Oltre l’esistenza, esse mostrano anche la distanza e la dissomiglianza che
intercorre tra Dio e il creato (‘sole – terra’) e qualcosa del modo con il quale Dio
governa il mondo (‘anima – corpo’).

Le stesse metafore, però, possono ricevere anche un altro, nuovo significato.


Così, dal punto di vista epistemologico, Dio può essere paragonato con il sole o con la
luce perché egli stesso illumina le tenebre dell’anima. I suoi raggi rendono chiara la
comprensione delle cose intelligibili251. Ma di nuovo, anche in questo caso, la metafora
parla del modo di agire di Dio al di fuori della sua essenza, ovvero a favore dell’uomo,
ma non dell’essenza stessa. Inoltre Filone è molto cauto nell’utilizzo di certe metafore,
soprattutto quelle basate sui simboli visibili e corporei. Infatti nell’illuminazione
dell’anima non si tratta della luce visibile252. Il sole invece è di natura corporea ed
emana la luce visibile. In questo modo la metafora: ‘luce del sole – luce divina’ diventa
troppo diretta. Infatti nel passo citato sopra osserviamo dei dubbi che ha l’Alessandrino
mentre paragona Dio con il sole. In fine dice che Dio non è simile ad alcuna delle cose
che sono nel processo del divenire (auvto.j de. ouvdeni. tw/n gegono,twn o[moioj).

Per quanto riguarda la metafora dell’anima, Filone non ha tante obiezioni.


Infatti, l’anima essendo di natura intelligibile è più adatta ad essere il simbolo delle
realtà intelligibili. Essa non solo governa il corpo umano, ma conosce anche le cose che
sono al di là di esso. Si riempie delle idee proprio così come è nel caso della Mente
divina che mentre pensa diventa ko,smoj nohto,j253. Inoltre la somiglianza tra Dio e
l’anima non è soltanto un simbolo come nel caso del sole. Infatti essa viene confermata

251
Cfr. Phil., Ebr. 44-45; Somn. I 116. Da questo punto di vista, la metafora del sole assomiglia a
quella di Platone riguardo all’Idea del Bene. Cfr. Plat., Resp. 506 E – 509 D. Infatti, come il sole rende
visibili gli oggetti sensibili, così l’Idea del Bene rende conoscibili gli oggetti intelligibili. Tuttavia, Filone
cambia un po’ il significato della metafora platonica in diversi punti. Aggiunge soprattutto ad essa
l’elemento dei raggi del sole. Infatti, i raggi sono, secondo lui, le Potenze di Dio, attraverso le quali il
mondo è governato e attraverso le quali l’uomo è capace di riconoscere l’esistenza di Dio. Per quanto
riguarda il sole stesso (simbolo di Dio), l’Alessandrino ritiene che egli (a differenza dell’Idea del Bene)
sia assolutamente inconoscibile. Come, dunque, la vista non è capace di guardare la pura fiamma del sole,
così la mente umana non riesce a comprendere l’essenza divina. Cfr. Deus 78. Per questo giustamente
osserva F. Calabi: “In a sense, Philo overturns the very sense of the metaphor in the Republic, which was
introduced precisely to speak of the good: to express something that cannot easily be understood in
intuitive terms. The Platonic good, as likened to the sun, is the source of truth and being, of knowability,
but also the object of knowledge. In Philo, the analogy with the sun is introduced to support the opposite
thesis: the impossibility of knowing God by intellectual means. For the reason, the blinding features of
the sun are considered, not those that can be perceived by the human eye”. Cfr. F. Calabi, God’s Acting…,
p. 62.
252
Cfr. Phil., Spec. Leg. I 279.
253
Cfr. Phil., Opif. 69-71.
124

dalla Scrittura, quando dice: «Dio creò l’uomo e lo creò a immagine di Dio»254. È ovvio
che questa somiglianza, secondo Filone, si riferisce solamente all’intelletto, non al
corpo umano255. Ma dal fatto della creazione dell’uomo da parte di Dio l’Alessandrino
ricava ancora un’altra conclusione relativa all’argomento che ci interessa, ovvero
ammette la possibilità di una certa cognizione di Dio da parte dell’uomo. Quando
l’Alessandrino analizza la frase: «Dio plasmò l’uomo prendendo del fango dalla terra e
soffiò sul suo volto un soffio di vita»256, dice:

Questa espressione rimanda ad un significato assai più profondo. Essa


implica tre termini: ciò che è “ispirato”, ciò che riceve “l’ispirazione” e ciò che
“ispira”. Ora, colui che ispira è Dio, chi riceve l’ispirazione è l’intelletto (o`
nou/j), ciò che viene ispirato è lo Spirito (to. pneu/ma). Che cosa dunque si deduce
da ciò? Si tratta dell’unione di tutti e tre elementi: di Dio che protende la sua
propria Potenza, attraverso lo Spirito, fino all’oggetto. E questo, per qual
motivo mai avrebbe fatto, se non perché noi avessimo una cognizione di lui? E
del resto come l’anima avrebbe potuto conoscere Dio se lui stesso non l’avesse
ispirata e, per quanto è possibile, non l’avesse toccata? L’intelletto umano,
infatti, non avrebbe osato salire tanto in alto da cogliere la natura divina (ouv ga.r
a'n avpeto,lmhse tosou/ton avnadramei/n o` avnqrw,pinoj nou/j( w`j avntilabe,sqai qeou/
fu,sewj), se Dio stesso non l’avesse tratto a sé (eiv mh. auvto.j o` qeo.j avne,spasen
auvto.n pro.j e`auto,n) – almeno per quanto l’intelletto dell’uomo si lascia trarre –
e non lo avesse informato delle sue Potenze che sono accessibili alla
conoscenza257.

Ora vediamo che il paragone: ‘Dio – anima’, che secondo Filone, è quello più
appropriato, non indica solamente la somiglianza che intercorre fra le funzioni
dell’intelletto umano e quello divino, ma esprime la verità più profonda, ovvero che la
somiglianza divina è stata impressa nell’anima durante la creazione dell’uomo258.
Inoltre, a causa dell’ispirazione dello pneu/ma l’uomo, in qualche modo, è capace di
conoscere Dio259. Ma questa affermazione non sta in contraddizione con tutto ciò che

254
Gen. 1,27.
255
Cfr. Phil., Opif. 69.
256
Gen. 2,7. Cfr. Phil., Leg. All. I 31 sgg.
257
Phil., Leg. All. I 37-38.
258
Cfr. Phil., Opif. 71.
259
In Filone il concetto dello pneuma è inteso sia come il principio vivificante sia, come
principio di conoscenza. Alcuni studiosi enumerano anche ben cinque linee interpretative della tematica
dello pneuma nelle opere dell’Alessandrino. Su questo argomento e sulla bibliografia relativa ad esso cfr.
R. Radice, Commentario…, pp. 338-343. Nonostante l’ambivalenza del termine pneuma, vale la pena di
sottolineare che con esso – come osserva G. Reale – viene introdotta una nuova antropologia “secondo la
125

Filone dice riguardo all’inconoscibilità assoluta di Dio? Osserviamo che, secondo il


passo citato, la cognizione di Dio è condizionata dalla trazione divina, ovvero
l’intelletto umano è sempre incapace, tramite le proprie forze, di cogliere la natura
divina, se Dio stesso non lo trae a sé. Inoltre l’intelletto dell’uomo deve lasciarsi
attrarre. Deve essere dunque in qualche modo predisposto o aperto alla trazione di Dio.
Oltre tutto, nell’ultima frase del passo citato, vediamo che sono solamente le Potenze
divine ad essere accessibili alla conoscenza. L’ispirazione dello pneu/ma avvenuta
durante la creazione dell’uomo è dunque solamente la condizione di possibilità della
cognizione di Dio260. Con queste osservazioni possiamo affermare che il concetto della
trascendenza epistemologica di Dio non viene contraddetto, parlando Filone della
somiglianza divina impressa nell’anima umana. Infatti è sempre e unicamente Dio
stesso a svelare qualcosa della sua natura all’uomo. Le forze dell’intelletto umano
invece non sono capaci di arrivare alla conoscenza di Dio trascendente. Infine
probabilmente anche nel caso di questo dono sovrannaturale l’intelletto umano, che si
lascia trarre da Dio, viene elevato solo al livello della cognizione delle Potenze divine,
non dell’essenza di Dio stesso.

Per essere sicuri che la nostra interpretazione non sia scorretta, dobbiamo
prendere in esame i testi filoniani che parlano appunto degli uomini che si sono lasciati
attrarre da Dio. In questo modo potremo vedere che cosa dell’essenza divina hanno
conosciuto coloro che sono predisposti o abituati ad avere rapporto con le nature

quale l’uomo risulta, appunto, costituito strutturalmente da: a) corpo, b) anima-intelletto, e c) spirito che
proviene da Dio e in vario modo “ispira”. Secondo questa nuova concezione, l’anima-intelletto è essa
pure qualcosa di terrestre e mortale, mentre solo il divino soffio e lo spirito insufflato dall’alto – la terza
dimensione – agganciano l’uomo al divino e all’immortale. […] In conclusione, l’uomo può vivere: a)
secondo la dimensione fisico-animale (corpo); b) secondo la dimensione razionale (anima-intelletto); c)
secondo la superiore, divina, trascendente dimensione dello spirito”. Cfr. G. Reale, L’itinerario a Dio in
Filone di Alessandria. Saggio introduttivo, in Filone di Alessandria, L’erede delle cose divine. Testo
greco a fronte, a cura di G. Reale, R. Radice, Milano 1994, pp. 24-25.
260
In un altro passo Filone dice esplicitamente che il soffio divino ricevuto durante la creazione è
per anima la condizione di possibilità della conoscenza di qualsiasi tipo. Senza questa impronta divina la
mente umana non avrebbe potuto neanche costruire un’idea del mondo, delle sue leggi e del resto di tutto
ciò che è corporeo o incorporeo. “Come avrebbe potuto, infatti – domanda Filone – una natura mortale
restare in sé e nello stesso tempo viaggiare fuori di sé, o vedere ciò che è qui e ciò che è altrove, o fare il
giro di tutto il mare, o giungere fino ai confini della terra, o abbracciare con la mente, tutt’insieme, leggi e
costumi, fatti e corpi? […] Come avrebbe potuto concepire arti e scienze, sia quelle che producono gli
oggetti esterni, sia quelle la cui pratica ha lo scopo di rendere migliori, rispettivamente, il corpo e l’anima,
e fare infinite altre cose, il cui numero e la cui natura non è certo facile abbracciare con una parola?” Cfr.
Phil., Deter. 87-89. Vediamo, dunque, che l’impronta divina impressa nell’anima durante la creazione
dell’uomo, non garantisce la cognizione dell’essenza divina, ma è la condizione di possibilità della
conoscenza in genere. Grazie ad essa l’uomo riesce anche a giungere alla conoscenza dell’esistenza della
Causa suprema. Per questo nel passo del Leg. All. I 37-38 Filone dice che senza l’ispirazione divina
l’uomo non avrebbe potuto conoscere Dio. Questa affermazione, però, non riguarda la cognizione
dell’essenza divina da parte dell’uomo.
126

intelligibili, ovvero coloro che da Filone sono considerati sapienti. A questo proposito
ritorniamo di nuovo al tema delle teofanie descritte dalla Bibbia. Una delle più famose
di esse, ossia quella del racconto sul roveto ardente261, viene interpretata
dall’Alessandrino in modo seguente:

Una volta il profeta, spinto dalla sua sete di apprendere, ricercava anche
le cause per cui si compiono nell’universo gli eventi più essenziali: osservando
tutto ciò che nel mondo della creazione viene distrutto o generato, scompare o
perdura, rimane colpito e stupefatto ed esce in questa esclamazione: «Come mai
il roveto arde e non si consuma?»262. Non cerca forse di esplorare la ragione
inaccessibile, che è sede delle nature divine? Ma quando si trova ormai sul
punto di impegnarsi a fondo in una fatica infruttuosa e senza sbocco, ne è
alleviato dalla compassione e dalla provvidenza di Dio, salvatore dell’umanità,
che dal santuario leva la sua voce oracolare: «Non accostarti qui»263, quanto a
dire: non avventurarti in una ricerca simile, perché è una impresa che esige una
indagine minuziosa e un’operosità superiore alla portata umana. Ammira le cose
create, ma non affannarti a conoscere le cause che ne determinano la nascita o la
morte. «Perché – dice il testo – il luogo in cui posi i piedi è terra sacra»264. Di
che luogo si tratta? Con ogni evidenza del campo d’indagine relativo alla
causalità, che Dio ha riservato soltanto alle nature divine, perché riteneva che lo
studio delle cause nessun essere umano fosse in grado di affrontarlo. Il profeta
dunque per il suo desiderio di sapere spinge lo sguardo al di sopra di tutto
l’universo e indaga sul suo Creatore, chiedendosi chi sia questo Essere difficile
a vedere e a comprendere, se sia un corpo o sia incorporeo o un’entità superiore
all’una o all’altra cosa, se sia una natura semplice come una monade oppure un
composto o che altro sia tra le cose esistenti. E vedendo che si tratta di un
problema difficile da afferrare e da perseguire con l’intelletto, si augura di
apprendere da Dio stesso chi è Dio, perché non spera di poterne acquisire la
conoscenza da qualche altro degli esseri inferiori a lui. Tuttavia non fu in grado
di appurare nulla nel corso della sua ricerca sull’essenza dell’Essere. Perché è
detto: «Tu vedrai le cose che stanno dietro a me, ma il mio volto certo non lo
vedrai»265. In effetti, al saggio basta prendere conoscenza di ciò che si
accompagna a Dio, che Lo segue e che viene dopo di lui, mentre chi pretende di

261
Cfr. Ex. 3,1 sgg.
262
Ex. 3,3.
263
Ibid., 3,5.
264
Ibid.
265
Ibid., 33,23.
127

penetrare con la vista nell’essenza sovrana rimarrà accecato dal fulgore dei
raggi che la circondano prima ancora di vederla266.

Da questo passo ricaviamo le seguenti conclusioni:

1. La causalità che Mosè desidera esplorare è relativa alle cause prime,


ossia riguarda il livello teologico, non quello fisico. Infatti il legislatore
vuole conoscere le cause che determinano la nascita o la morte, ossia il
perché della creazione, del divenire, dello scomparire o del permanere di
qualcosa.
2. Questa conoscenza rientra nell’ambito del divino, che “è luogo sacro”. In
realtà essa presupporrebbe una rivelazione dei motivi dell’attività di Dio
stesso.
3. Nonostante Mosè fosse ritenuto sapiente, non gli è concessa, secondo
Filone, la cognizione della vita intradivina. Non attinge alla conoscenza
dell’essenza di Dio. Anzi riceve l’avvertimento di non avventurarsi in
una ricerca simile.
4. Infatti la comprensione dei motivi dell’agire di Dio è terreno
inaccessibile all’uomo. La ricerca che entra in questo ambito supera le
capacità dell’intelletto umano.
5. È interessante che anche gli attributi di Dio, come l’incorporeità,
l’unicità, l’unità, la semplicità e la superiorità ontologica, dei quali Filone
stesso parla in diversi luoghi delle sue opere, sono considerati difficili da
affrontare dall’intelletto umano.
6. Infine, vediamo che anche il sapiente è capace di arrivare solo alla
conoscenza di ciò che accompagna Dio, ovvero al livello delle Potenze.
7. Ma anche in questo caso non si tratta probabilmente della conoscenza
piena e perfetta perché, come dice Filone, l’uomo può essere accecato dal
fulgore dei raggi che circondano l’essenza di Dio prima ancora di
vederla. Questi raggi, come sappiamo, sono le Potenze divine267.

Pertanto vediamo che, anche nel caso dell’uomo sapiente, la piena cognizione
dell’essenza Divina, secondo l’Alessandrino, non è attingibile. Per di più, essa non è
accessibile né mentre il sapiente cerca di esplorarla con le proprie forze, né mentre

266
Phil., Fug. 161-165.
267
Cfr. Phil., Deus 77-81; Spec. Leg. I 45.
128

chiede aiuto a Dio. In un altro passo relativo alla stessa teofania Filone dice che
“l’indagare sull’essenza o sugli attributi di Dio, è una sciocchezza da primitivi” e
aggiunge che questa conoscenza non fu concessa neppure al sapientissimo Mosè268. Che
cosa dunque ha rivelato Dio a Mosè durante la teofania del roveto ardente?
Paradossalmente ha confermato, appunto, il fatto della sua trascendenza gnoseologica e
semiologica:

Che c’è di strano che l’Essere sia incomprensibile (avkata,lhptoj) agli


uomini, se ci è sconosciuto anche l’intelletto (nou/j) che è dentro di noi? Chi ha
mai visto l’essenza dell’anima (ti,j ga.r yuch/j ouvsi,an ei=denÈ), il cui mistero ha
dato luogo a dispute infinite tra i filosofi, sostenitori di tesi contrastanti tra loro,
se non addirittura radicalmente opposte nelle impostazioni di base? Era dunque
logica conseguenza che non potesse neppure venire assegnato un nome proprio

268
Cfr. Phil., Poster. 168-169: “Alla ragione discorsiva dell’uomo è sufficiente giungere fino a
comprendere che la Causa di tutte le cose è e sussiste. Sforzarsi di procedere oltre, per indagare
sull’essenza o sugli attributi di Dio, è una sciocchezza da primitivi. Dio, infatti, non l’ha concesso
neppure al sapientissimo Mosè, benché egli ne avesse fatto infinite richieste, ma ha fatto scendere fino a
lui un oracolo: «Contemplerai ciò che sta dietro di Me, ma non vedrai la mia faccia» (Ex. 33,23). E ciò
significa: tutto ciò che deriva da Dio è accessibile alla comprensione dell’uomo virtuoso, mentre egli solo,
in Se stesso, resta inconoscibile. Inconoscibile almeno per intuizione diretta e immediata, per mezzo di
questa, infatti, potrebbe rivelarsi la sua natura, ma conoscibile a partire dalle sue Potenze che lo seguono e
l’accompagnano: queste non rivelano la sua essenza, ma la sua esistenza, a partire dalle cose da lui
prodotte”.
Nelle opere filoniane troviamo ancora altri passi nei quali l’Alessandrino nega la visione o la
cognizione di Dio da parte di Mosè. Cfr., ad esempio, Mutat. 7-9 e Spec. Leg. I 41-50. Nel passo del
Mutat. 7-9, molto simile a quello appena citato, Filone afferma che Mosè, mediante le sue ricerche e
tentativi di conoscere Dio non è riuscito a scoprire nulla, “neppure una forma che assomigliasse
vagamente a quello che sperava”, dopo ciò, si rifugiò presso l’oggetto stesso della sua ricerca,
supplicandolo di manifestarsi a lui. Ma – conclude Filone – la sua richiesta non fu esaudita. Come la
prova scritturistica del perché Mosè non era capace né di vedere né di conoscere Dio, l’Alessandrino
riporta lo steso passo che nel Fug. 161-165 e nel Poster. 168-169, ovvero Ex. 33,23: «Tu vedrai le cose
che stanno dietro a me, ma il mio volto certo non lo vedrai». Nel passo del Mutat. 7-9, l’argomentazione
filoniana ha tutto il suo peso sul fatto della invisibilità e ineffabilità di Dio, nel Spec. Leg. I 41-50, invece,
l’Alessandrino sottolinea la inconoscibilità dell’essenza divina. Così, dunque, dopo la stessa supplica di
Mosè (evmfa,niso,n moi sauto,n), viene negata a lui la possibilità di conoscere Dio. Ma il legislatore insiste
e vuole conoscere almeno la gloria che circonda Dio, ovvero le Potenze che lo scortano. A questo punto
la voce divina risponde che anche le Potenze hanno la natura invisibile e intelligibile (avo,ratoi kai.
nohtai.) e anch’esse nella loro essenza, come Dio stesso, non possono essere conosciute (Spec. Leg. I 46).
Le Potenze – ripete la voce divina – sono incomprensibili secondo l’essenza (avkata,lhptoi kata. th.n
ouvsi,an). Cfr. Spec. Leg. I 47.
Abbiamo riportato qui i quattro passi relativi a Mosè in cui Filone esplicitamente nega qualsiasi
visione o conoscenza di Dio e delle sue Potenze da parte del legislatore. Se è così nel caso dell’uomo
considerato dall’Alessandrino il sapientissimo, tanto più tutto ciò è valido nel caso degli altri personaggi
biblici come Abramo, Agar, Isacco, Giacobbe etc. Se dunque in qualche luogo delle sue opere, Filone
interpretando una delle teofanie bibliche, parla di una apparizione di Dio, del Logos o di una o più delle
sue Potenze, lo fa utilizzando il linguaggio metaforico e improprio. Infatti, Dio, il Logos e le Potenze
sono avo,ratoi kai. nohtai. e per questo anche avkata,lhptoi kata. th.n ouvsi,an. Nella teofania, dunque, i
personaggi biblici ricevono qualche messaggio da parte del divino, ma non la cognizione dell’essenza di
Dio. Il Logos o le Potenze rivelano l’esistenza di Dio, ma non la sua essenza. Inoltre, anche loro stessi
rimangono inconoscibili nella loro essenza. Per più approfondita analisi dei passi qui citati cfr. C.
Termini, Le potenze…, pp. 41-54.
129

a colui che veramente è. Non vedi che al profeta desideroso di sapere quale
risposta debba dare a coloro che vogliono conoscere il suo nome, egli dice: «Io
sono colui che è»269, il che equivale a: “la mia natura è di essere, non di essere
nominato” (¹evgw, eivmi o` w;n¹( i;son tw/| ei=nai pe,fuka( ouv le,gesqai)?270

Nella prima frase del passo citato notiamo ancora un’altra conclusione che
Filone ricava dal paragone: ‘Dio – anima’. Come dunque, l’essenza dell’anima rimane
inconoscibile, anche se attraverso un ragionamento o un’intuizione si può giungere alla
convinzione della sua esistenza (infatti, osserva l’Alessandrino, l’argomento che
riguarda la natura dell’anima umana era oggetto delle dispute e discordie tra i filosofi
dei tempi diversi) nello stesso modo l’essenza divina rimane inaccessibile alla
conoscenza degli uomini, anche se in diversi modi siamo capaci di provare l’esistenza di
Dio271. Mosè dunque nella teofania del roveto ardente, ha ricevuto, in modo
sovrannaturale, la conferma che Dio veramente è272. Non ha acquisito invece nessuna
cognizione per quanto riguarda la sua essenza273.

269
Ex. 3,14.
270
Phil., Mutat. 10-11.
271
In un altro passo Filone presenta l’argomento simile, riportando però, invece dell’esempio
dell’anima quello delle stelle. Infatti, l’esistenza delle stelle è afferrabile per gli uomini, tuttavia “non è
possibile stabilire cosa ciascuna di esse sia nella sua essenza”. Lo stesso riguarda Dio, ovvero con la
nostra ragione possiamo giungere alla convinzione della sua esistenza, anche se ci viene negata la visione
chiara di ciò che egli è essenzialmente (th/j kata. to.n o;ntwj o;nta qeo.n evnargou/j fantasi,aj avmoirou/men).
Cfr. Phil. Spec. Leg. I 39-40.
Inoltre, questi due argomenti, ovvero quello che riporta l’esempio dell’anima e questo che si
serve dell’esempio delle stelle, mostrano da una parte che le cose a noi vicine o immanenti, come l’anima
dell’uomo, possono essere inconoscibili, ma anche che le cose lontane o trascendenti, come le stelle,
possono essere in qualche modo afferrabili dall’intelletto umano. Dio, infatti, è un’entità sia trascendente
rispetto al creato (come le stelle rispetto alla terra), sia, per tramite le sue Potenze, immanente al mondo
(come l’anima nell’uomo). Anche se rimane trascendente, il fatto della sua esistenza è attingibile alla
portata umana. Anche se è immanente, la sua essenza non è conoscibile.
272
A questo proposito vale la pena osservare che la concezione della sovrannaturale conoscenza
di Dio, anche se si tratta soltanto della conoscenza dell’esistenza e non dell’essenza divina, è una novità
nell’ambito della filosofia greca. Infatti, secondo i filosofi greci, Dio era o inconoscibile o conoscibile,
attraverso qualche tipo di ragionamento o d’intuizione. Nessuno di loro invece parlava del sovrannaturale
dono della rivelazione dell’Assoluto. Filone, sostenendo l’assoluta inconoscibilità dell’essenza divina,
introduce due vie attraverso le quali l’uomo può giungere alla conoscenza dell’esistenza di Dio. L’una è
quella che, attraverso il ragionamento per analogiam, parte dalle cose create per arrivare alla loro Causa,
l’altra è quella del dono gratuito che Dio può fare agli uomini per amore di essi. Questa – come osserva
G. Reale – è un’idea completamente sconosciuta al pensiero filosofico greco. Cfr. G. Reale, Storia…, vol.
7, p. 45.
273
Che Mosè, nonostante considerato il “sapientissimo”, non abbia mai conosciuto l’essenza
divina Filone lo afferma commentando allegoricamente la teofania dell’Ex. 20,21: “Il popolo se ne stava
lontano, ma Mosè entrò nella tenebra dov’era Dio”. Secondo l’Alessandrino Dio, come ormai sappiamo, è
paragonabile alla luce, anzi è l’archetipo della luce; la tenebra, invece, della quale parla la Scrittura
riguarda, non l’essenza divina, ma ciò che sperimenta l’intelletto dell’uomo, mentre indaga intorno a Dio.
L’affermazione dunque che “Mosè entrò nell’oscurità in cui era Dio”, significa per Filone che egli entrò
“negli oscuri e impenetrabili pensieri riguardanti l’Essere (eivj ta.j avdu,touj kai. aveidei/j peri. tou/ o;ntoj
evnnoi,aj). La Causa, infatti, non è nell’oscurità, ne in generale, in un luogo, ma al di sopra sia dello spazio
sia del tempo. Tenendo, infatti, tutte le creature soggiogate a sé, non è abbracciata da nulla, ma si è posta
130

Dal fatto della trascendenza epistemologica di Dio deriva il concetto della


trascendenza semiologica che viene espresso da Filone nell’ultima frase del passo citato.
Dio essendo inconoscibile è indefinibile e di conseguenza innominabile. Nessun nome
dunque è capace di descrivere propriamente ciò che Dio veramente è. Infatti non
possiamo definire ciò che non ha nessuna qualità e di cui sappiamo solamente che
veramente è. Per questo il termine più adeguato da utilizzare mentre si parla di Dio è o`
w;n, ovvero colui che è. Infatti esso si riferisce all’esistenza e non all’essenza divina274.
Ma Dio, pur essendo inconoscibile nella sua essenza, rivela qualcosa di sé attraverso le
sue opere compiute a favore del mondo. Così dunque anche Mosè riscopre che egli è il
Creatore e il Sovrano del mondo. Infatti, nel testo che segue il passo che abbiamo
citato275, Filone analizzando le tappe della teofania, osserva che la prima frase rivolta a
Mosè era: evgw, eivmi o` qeo.j tou/ patro,j sou qeo.j Abraam kai. qeo.j Isaak kai. qeo.j
Iakwb276. Ne risulta che Dio si è rivelato a Mosè, così come del resto ad Abramo, Isacco
e Giacobbe, come qeo.j, ovvero come il Creatore e Benefattore del mondo. In seguito
Dio invia Mosè dal faraone per fare uscire i figli d’Israele, dall’Egitto277. In questo
modo egli si rivela come ku,rioj, ovvero come Re e Sovrano del mondo e della storia.
Mosè dunque ha conosciuto Dio come ku,rioj e come qeo,j. Sappiamo ormai che questi
due termini dei quali è composto il nome di Dio adoperato nella versione dei Settanta,
ossia ku,rioj o` qeo,j, equivalgono, secondo Filone, alle due Potenze supreme delle quali
Dio si serve rivolgendosi verso il mondo278. Si tratta della Potenza creatrice che viene
chiamata qeo,j e della Potenza regale che viene nominata ku,rioj. Il nome: ku,rioj o` qeo,j
dunque descrive due principali manifestazioni dell’attività divina rispetto al mondo.
Esso invece è il nome improprio di Dio perché – come osserva Filone – è solamente “il
nome di Dio nel tempo”. È invece concesso agli uomini di servirsi di questo nome,
“perché il genere umano non sia privato del tutto di una denominazione da dare al Bene

al di sopra di tutto. E, pur posta al di fuori del creato, nondimeno riempie di sé l’universo; anzi,
espandendo attraverso tutte le cose, fino ai loro confini, le sue Potenze, connette ciascuna cosa con l’altra,
secondo le leggi dell’armonia. Quando, dunque, l’anima amante di Dio ricerca che cosa è l’Essere nella
sua essenza, arriva a cercare ciò che non ha forma visibile, e da ciò le deriva un grandissimo bene: quello
di rendersi conto che Dio nel suo essere, non può essere compreso da nessuno (avkata,lhptoj o` kata. to.
ei=nai qeo.j panti,), e di vedere proprio questo, che egli non può essere visto”. Phil., Poster. 14-15.
274
Sull’argomento dell’ineffabilità di Dio e sulle possibili confluenze filosofiche su questa
dottrina filoniana cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. II, pp. 110-126; B. Mondin, Esistenza…, pp. 443-447;
F. Calabi, God’s Acting…, pp. 42 sgg.
275
Cfr. Phil., Mutat. 12 sgg.
276
Ex. 3,6.
277
Cfr. Ex. 3,7-10.
278
Ne abbiamo parlato nel paragrafo precedente. Cfr. anche Phil., Abr. 121, Sacrif. 131, Sobr.
35, Migrat. 182, Plant. 86, Mutat. 29.
131

supremo”279. Dio allora viene chiamato impropriamente con il nome ku,rioj o` qeo,j
perché esso non descrive ciò che Dio veramente è, ma ciò che fa al di fuori della sua
essenza, ovvero a favore del mondo. Tutto questo è conforme al concetto della
trascendenza epistemologica e semiologica di Dio. L’essenza di Dio dunque rimane
sempre inconoscibile e innominabile, mentre le sue Potenze, delle quali si serve,
possono essere in qualche modo conoscibili e per questo anche nominabili. I loro nomi,
infatti, vengono impropriamente utilizzati nei confronti di Dio stesso.

Mosè dunque, attraverso la teofania del roveto ardente, ha ricevuto solamente


una chiara conferma che Dio veramente è, e che egli mediante le sue Potenze è ‘Signore
Iddio’ (ku,rioj o` qeo,j), ovvero il Creatore e il Sovrano dell’universo e della storia 280. Il
contenuto della cognizione acquisita da Mosè è dunque uguale a quello al quale attinge
un altro sapiente: Abramo281. Infatti, anch’egli, nella visione mistica alle querce di
Mamre, contempla Dio che veramente è con le sue Potenze tramite le quali egli crea e
governa il mondo. In realtà dunque né Abramo né Mosè giungono, secondo Filone, alla
cognizione dell’essenza di Dio.

A questo punto dovremmo concludere che la cognizione di Dio che acquisiscono


i sapienti come Mosè e Abramo è davvero molto limitata. Non è così, tuttavia, secondo
l’opinione di Filone. Nella sua gerarchia dei gradi di conoscenza i sapienti appartengono
al gruppo che ha attinto al livello più alto della cognizione del divino:

In effetti, egli vuole essere chiamato Signore e padrone (ku,rioj kai.


despo,thj) dei malvagi, Dio (qeo,j) di coloro che sono sulla via del progresso e
del miglioramento, Signore e Dio (ku,rioj o`mou/ kai. qeo,j) – ossia l’una e l’altra
cosa – dei migliori e dei perfetti. […] Infatti, è la sua giusta volontà che il
malvagio sia soggetto a un dominio dispotico da lui esercitato in quanto
Signore, affinché senta sospesa sulla propria testa, tra apprensioni e gemiti, la
paura del padrone; che l’uomo in progresso goda della sua benevolenza in
quanto Dio, e raggiunga così la perfezione grazie al bene che riceve; che l’uomo
perfetto, infine, abbia in lui la propria guida in quanto Signore e il proprio
benefattore in quanto Dio: infatti, la prima condizione rende inalterata per
sempre la sua fermezza, la seconda fa di lui un uomo di Dio in assoluto282.

279
Phil., Mutat. 12.
280
Cfr. Phil., Mutat. 12-14.
281
Ne abbiamo parlato nel paragrafo precedente. Cfr. Phil., Sacrif. 59, Abr. 119-123.
282
Phil., Mutat. 19. 24.
132

Vediamo ora che la conoscenza di Dio da parte dell’uomo dipende non solo
dall’esercizio intellettuale, ma anche dalla morale. Nel passo sopra citato Filone non
parla più di coloro che si dedicano agli studi dell’educazione propedeutica283, ma dei
malvagi (fau/loi) che occupano il livello più basso nella gerarchia gnoseologica. Nella
loro mente Dio appare come ku,rioj kai. despo,thj. L’Alessandrino esprime un’idea
simile a proposito della critica degli antropomorfismi284. Infatti, il motivo principale
per il quale, secondo lui, il legislatore descrive Dio in maniera antropomorfa è
l’esortazione alla pietà religiosa285. Alcune ammonizioni contenute nelle Scritture
portano dunque i loro lettori ad amare, altre a temere Dio. Quelli che – come dice Filone
– “hanno una natura più lenta e più ottusa, male allevati nell’infanzia”, traggono
giovamento dalle falsità, ovvero dalle ire e dalle minacce del Signore, che trovano nella
Bibbia286. Costoro infatti non essendo capaci di comprendere le verità divine così come
sono, e progredire nel cammino morale volontariamente, giustamente hanno bisogno del
‘padrone temibile’ (despo,thj fobero,j)287. Notiamo, dunque, che in Filone l’istruzione
intellettuale e l’educazione morale sono strettamente legate. Sia i malvagi sia i semplici,
ovvero non istruiti, che appartengono al livello più basso della gerarchia gnoseologica,
da una parte hanno bisogno del Dio – Padrone, la cui paura può migliorare la loro vita
morale, dall’altra parte, poiché il loro intelletto non è capace di elevarsi al livello delle
realtà intelligibili, spontaneamente considerano Dio come ku,rioj kai. despo,thj. Infatti,
gli antropomorfismi sono considerati da loro le verità.

Dei progredienti (oi` evn prokopai/j) invece Filone parla poco288. Sicuramente loro
acquisiscono il rapporto con le entità intelligibili. A volte sono identificati con i
filosofi289. Giacobbe che lottò con il Logos è il loro simbolo biblico290. Ma che cosa
significa che Dio è per loro solamente qeo,j e non ku,rioj? I progredienti arrivano alla
conoscenza dell’intelligibile attraverso un ragionamento. In questo modo accedono
anche al rapporto con le realtà divine, senza però escludere di procedere nella via delle
virtù. Infatti, secondo Filone la filosofia non è solamente la scienza teoretica, ma anche

283
Cfr. Phil., Congr. 20.
284
Ne abbiamo parlato prima. Cfr. Il paragrafo 1.1: Tra il Dio della Bibbia e il Dio dei filosofi.
285
Cfr. Phil., Deus 69.
286
Cfr. Ibid. 63.
287
Cfr. Ibid. 64.
288
Infatti spesse volte Filone distingue solo due tipi degli uomini: ‘gli amici dell’anima’ (oi`
yuch/j fi,loi) e ‘gli amici del corpo’ (oi` sw,matoj fi,loi). Cfr. Phil., Deus 55. Anche a proposito degli
antropomorfismi, quando Filone parla del timore e dell’amore di Dio, non è sicuro se nel caso di coloro
che amano Dio e lo considerano incorporeo, si tratta dei progredienti o già dei sapienti e perfetti.
289
Cfr. Phil., Confus. 97.
290
Cfr. Phil., Somn. I 68 sgg.
133

quella pratica. “È l’arte della vita nella sua interezza, in essa rientrano anche tutte le
azioni”291. I progredienti, dunque, sono nel cammino del perfezionamento delle loro
virtù, sia teoretiche che pratiche. Perciò hanno bisogno della guida. La loro guida è il
Logos che – come dice Filone – “sarebbe il Dio (qeo,j) per gli uomini imperfetti”292.
Questo Logos si accinge ad affiancarsi all’anima lungo il suo cammino e provoca in
essa una gioia superiore a ogni speranza293. Per questo, nel passo citato sopra, Filone
dice che l’uomo in progresso gode della benevolenza di Dio in quanto qeo,j. Ma non tutti
filosofi vogliono sottomettersi a questa guida. Pur conoscendo qualcosa delle realtà
intelligibili, non vogliono considerare Dio come il loro ku,rioj. L’Alessandrino lo
afferma in un altro luogo, mentre dice che “nella filosofia certuni altro non sono che
spacciatori e cacciatori delle parole, che non vogliono curare la propria vita, pur colma
di infermità, né se ne preoccupano”294. Se invece l’uomo in progresso sottomette il suo
intelletto alla guida del Logos, sia nel cammino intellettuale sia in quello morale, gode
della benevolenza di Dio. Può diventare perfetto e arrivare alla conoscenza di Dio più
appropriata.

I sapienti, che nel passo citato sono chiamati a;ristoi kai. teleio,tatoi, ovvero i
migliori e i perfetti hanno come Dio ku,rioj o`mou/ kai. qeo,j, dove la parola ku,rioj non è
più intesa nello stesso modo come nel caso dei malvagi. Dio è il loro Signore perché
loro stessi ne hanno fatto la guida del loro intelletto. Non hanno paura di lui come
avviene nel caso dei primi. I sapienti non solo attingono al livello delle realtà
intelligibili come lo fanno i progredenti, ma Dio dimora nella loro anima. Diventano
‘uomini di Dio’. È così, perché anche le loro virtù morali sono giunte alla perfezione. In
questo modo sono giunti a somiglianza a Dio e nelle loro anime hanno preparato lo
spazio degno di lui. Infatti nel testo che segue il passo citato sopra, Filone spiega:

Non credere che sia la stessa cosa essere ‘uomo’ e essere ‘uomo di Dio’
(a;nqrwpoj qeou/): l’uomo in quanto tale appartiene a Dio come una proprietà;
l’uomo di Dio appartiene a Dio in quanto trae da lui gloria e assistenza. Se
dunque vuoi che Dio sia possesso della tua mente (eiv dh. bou,lei dianoi,aj

291
Cfr. Phil., Leg. All. I 57.
292
Cfr. Phil., Leg. All. III 207.
293
Cfr. Phil., Somn. I 71.
294
Phil., Congr. 53.
134

klh/ron to.n qeo.n e;cein), cerca di divenire tu per primo possesso degno di lui
(auvto.j pro,teron genou/gi,nomai klh/roj avxio,crewj auvtou/)295.

Il sapiente dunque, attraverso il perfezionamento morale, diventa possesso degno


di Dio. Conosce Dio non attraverso la speculazione, come fanno i progredienti, che del
resto non giungono alla conoscenza di Dio, ma per la vicinanza con lui. Infatti Dio
dimora nella sua anima296. Questo è possibile perché il sapiente considera Dio ku,rioj
o`mou/ kai. qeo,j, ovvero si assoggetta alla guida di Dio in quanto ku,rioj, e fa della sua
anima lo spazio degno per ricevere i suoi benefici in quanto qeo,j. Vediamo poi che Dio
in quanto ku,rioj rende inalterata per sempre la fermezza dell’anima del sapiente, in
quanto qeo,j invece fa di lui un uomo di Dio in assoluto297. Il sapiente dunque lungo il
suo cammino morale e intellettuale si assimila a Dio. Partecipa alla sua immutabilità e
alla sua gloria298.

Dopo queste spiegazioni comprendiamo che l’espressione: “Dio vuole essere


chiamato Signore e Dio (ku,rioj o`mou/ kai. qeo,j) dei migliori e dei perfetti” non può
essere spiegata solamente al livello epistemologico, quasi che i sapienti acquisiscano
soltanto il concetto di Dio, Creatore e Sovrano del mondo. In realtà coloro che sono
giunti al più alto livello della gerarchia gnoseologica, pur non conoscendo l’essenza di
Dio in maniera teoretica, partecipano in diversi aspetti della divinità299. Il sapiente

295
Phil., Mutat. 26.
296
In un altro luogo Filone dice, che l’anima del sapiente e come la città nella quale si aggira
Dio. Cfr. Phil., Somn. II 247.
297
Cfr. Phil., Mutat. 24-26.
298
Oltre l’immutabilità e la gloria, il sapiente partecipa anche nell’avpa,qeia divina. Lo afferma
Filone in altri luoghi delle sue opere. Cfr. Phil, Leg. All. III 129-131; Migrat. 67. L’avpa,qeia, a sua volta, è,
da una parte il coronamento del cammino intellettuale e morale del sapiente, dall’altra parte è la
predisposizione necessaria all’anima per accogliere Dio. Infatti, solo quando il sapiente eliminerà
qualsiasi passione irrazionale dalla sua anima, sarà disposto ad aprirsi totalmente all’azione divina. In
questo modo nell’anima del sapiente non agisce più l’uomo ma Dio. Per questo, come spiega Filone,
Mosè è chiamato dalle Scritture «Dio di Faraone» (cfr. Ex. 7,1; Phil., Leg. All. I 40). Infatti nel
sapientissimo Mosè, mentre egli compieva gli ordini del Signore, non operava più l’uomo ma Dio.
Nell’anima del sapiente, dunque, dimora e opera la forza divina. Da questo, invece, non risulta che il
sapiente conosca l’essenza divina o tutta la volontà di Dio relativa al mondo. Egli rimane sempre soltanto
lo strumento attraverso il quale Dio, per il tramite delle sue Potenze, governa il mondo creato.
Sull’argomento cfr. D. Winston, Was Philo a Mystic?..., pp. 162-170; D. Winston, Sage and Super-Sage
in Philo of Alexandria, in The Ancestral Philosophy…, pp. 171-180.
299
Ciò non significa che il sapiente deve annullare in sé il desiderio di conoscere Dio attraverso
la ricerca intellettuale. Anzi, appunto questo desiderio lo avvicina a Dio. Esso, invece non sarà mai
realizzato perché, come dice Filone, l’oggetto della sua ricerca si tira sempre indietro: “Il sapiente è
sempre bramoso di conoscere il Reggitore Supremo dell’universo: quando percorre il sentiero della
scienza e della sapienza, incontra dapprima parole divine presso le quali fa sosta e, pur avendo intenzione
di proseguire, si ferma. Aperti gli occhi della mente, vede con più acutezza che si è accinto alla caccia di
un oggetto difficile da catturare, che si tira sempre indietro, si mantiene ben lontano, e previene gli
inseguitori, frapponendo fra sé e loro un’infinita distanza (avpei,rw| tw/| metaxu. diasth,mati)”. Phil., Poster.
135

conosce Dio non perché trae conclusioni teoretiche dalla contemplazione di lui, ma
perché la sua anima s’assimila a colui che dimora in essa300.

A questo punto dobbiamo chiedere che cosa significhi questo soggiornare di Dio
nell’anima del sapiente. Questa affermazione non indebolisce in qualche modo il
concetto della trascendenza assoluta di Dio? Per spiegare l’aporia ritorniamo di nuovo
all’argomento delle Potenze. Infatti nel passo che abbiamo analizzato prima301, Filone
paragonando Dio con il sole e la sue Potenze con i raggi del sole afferma che l’uomo
non può guardare la pura fiamma del sole perché la sua vista “si spegnerà, accecata dal
fulgore dei raggi, prima che si sia slanciata per percepirli”. Da ciò risulta che non è Dio
a dimorare nell’anima del sapiente, ma una, o più delle sue Potenze. Infatti in seguito
l’Alessandrino fa la seguente domanda retorica: “Quale essere mortale potrebbe
accogliere in sé, nella loro assoluta purezza, la Scienza, la Sapienza, la Saggezza, la
Giustizia e ciascuna delle altre Potenze di Dio?”. E risponde: “Ma neppure l’intero cielo
e il mondo intero lo potrebbero!”302. In realtà anche le Potenze pure, ovvero quelle non
mescolate e non temperate, sussistono solo in relazione a Dio303. Il sapiente dunque
riceve in dono le Potenze mescolate. Ottiene la Scienza, la Sapienza, la Saggezza o la
Giustizia, ma non nel loro grado più alto (perché al livello della trascendenza le Potenze
si identificano con Dio stesso), invece come facoltà divine diminuite e temperate,
immagine delle quali sono i raggi del sole mescolati con l’aria fresca in modo da non
fare danno al creato. Nell’anima del sapiente dimorano, dunque, le Potenze mescolate,

18. Ma, come possiamo dire che Dio da una parte dimora nell’anima umana, dall’altra che frappone fra sé
e il sapiente un’infinita (a;peiron) distanza? Lo spieghiamo più avanti.
300
Infatti, Filone anche come il fine ultimo dell’uomo indica, appunto, l’assimilazione
(o`moi,wsij) a Dio. Cfr. Phil., Opif. 144; Migrat. 131; Fug. 63; Spec. Leg. IV 73; IV 188. Questa idea è un
concetto platonico contenuto nel famoso passo del Theaet. 176 A-B: “Ma i mali non possono certo
scomparire, è indispensabile, infatti che esista sempre qualcosa di contrario al bene. D’altra parte essi non
possono avere sede nel mondo degli dèi: per necessità, invece, essi si diffondono nella natura mortale e in
questo nostro mondo. È per ciò che bisogna sforzarsi di fuggire quanto prima da qui verso lassù. Fuga è il
rendersi per quanto possibile simili a dio (fugh. de. o`moi,wsij qew|/ kata. to. dunato,n); e questo rendersi
simili è diventare giusti e santi, acquistando saggezza (o`moi,wsij de. di,kaion kai. o[sion meta. fronh,sewj
gene,sqai)”. Trad. di L. Antonelli, in Platone, Teeteto o sulla scienza. Testo originale a fronte, Milano
2000. Aggiungiamo che il passo qui riportato viene citato dall’Alessandrino esplicitamente. Cfr. Phil.
Fug. 63.
Osserviamo, però, che in Filone questa assimilazione ha dei limiti, ovvero l’uomo non diventerà
mai come Dio. Sull’argomento dell’o`moi,wsij a Dio in Filone cfr. P. H. Merki, ~OMOIWSIS QEW|. Von der
platonischen Angleichung an Gott zur Gottähnlichkeit bei Gregor von Nyssa, Freiburg in der Schweiz
1952, pp. 35-44; S. Lilla, Clement of Alexandria..., pp. 106-117; B. Belletti, La dottrina
dell’assimilazione a Dio in Filone di Alessandria, RFN 74 (1982), pp. 419-440; W. E., Helleman, Philo
of Alexandria on Deification and Assimilation to God, SPhA 2 (1990), pp. 51-71; C. Lévy, Philo’s Ethics,
in The Cambridge Companion to Philo, a cura di A. Kamesar, Cambridge 2009, pp. 146-171.
301
Cfr. Phil., Deus 77 sgg. Cfr. anche il paragrafo 1.2: La trascendenza ontologica di Dio.
302
Phil., Deus 79.
303
Cfr. Ibid., 81.
136

perché, solamente queste la creatura è capace di accogliere304. Ma anche da esse l’uomo


che ne diventa possessore estrae una gioia sufficiente305. Anche dai passi citati sopra
possiamo ricavare la stessa conclusione. Sappiamo ormai che il nome divino ku,rioj
corrisponde alla Potenza regale, invece qeo,j a quella benefattrice. Una Potenza dunque
garantisce la fermezza dell’anima del sapiente, l’altra la fa partecipe della gloria
divina306. In questo modo Dio è ku,rioj o`mou/ kai. qeo,j dei migliori e dei perfetti.

I sapienti che hanno percorso il loro cammino spirituale per giungere alle più
alte vette della contemplazione e della vicinanza con Dio, non sono considerati da
Filone perfetti per naturam o predestinati a questo scopo307. Il progresso, ovvero il
passare da un livello all’altro della cognizione e dell’avvicinamento a Dio è accessibile
a tutti e dipende dall’esercizio intellettuale e da quello etico come dalla sua
collaborazione con Dio che invita ciascuno ad accostarsi di camminare verso lui.
Abramo è simbolo dell’uomo che ha risposto all’invito di Dio e ha percorso tutte le
tappe di questo cammino. Il suo viaggio paradigmatico viene descritto
dall’Alessandrino nel trattato De migratione Abrahami. Il comando di Dio: “Vattene
304
Per tale motivo anche W. E., Helleman, evidenziando la flessibilità con la quale Filone
utilizza il termine qeo,j, afferma che Dio, a cui si assimila l’uomo durante il suo cammino spirituale, non è
il sommo Dio, ma il Logos o una delle ipostasi divine. Infatti, sia il Logos sia le Potenze vengono
nominate dall’Alessandrino con il termine qeo,j. Inoltre, nel suo articolo, lo studioso sottolinea anche il
fatto che l’uomo non può diventare mai come Dio neanche avere una visione vera di ciò che Dio è. Cfr.
W. E., Helleman, Philo of Alexandria on Deification…, pp. 51-71.
305
Cfr. Phil., Deus 81. Sulla base delle nostre analisi, si spiega benissimo anche la difficoltà che
abbiamo incontrato sopra. Infatti, ora vediamo che è possibile che Dio dimori nell’anima del sapiente (cfr.
Mutat. 26) e nello stesso tempo frapponga fra sé ed essa un’infinita (a;peiron) distanza (cfr. Poster. 18).
Ciò è possibile, appunto, perché Filone, mentre parla del Dio immanente, si serve sempre del suo concetto
originale delle Potenze. L’interpretazione da noi presentata si comprova anche attraverso gli altri passi.
Per lo stesso motivo, ad esempio, l’Alessandrino dice che Dio è pantacou/ te kai. ouvdamou (cfr. Confus.
136). Infatti, Dio è dovunque, perché è presente nel mondo attraverso le sue Potenze, ma è anche in
nessun luogo, perché non è presente nel mondo secondo la sua essenza (cfr. Confus. 137). Ne abbiamo
parlato nel paragrafo 1.2: La trascendenza ontologica di Dio. La stessa idea viene espressa anche nel
passo del Poster. 20. In realtà, afferma Filone, Dio da una parte ci tocca con le sue Potenze, che si trovano
vicino a ciascuno di noi, dall’altra tiene la creatura a grande distanza dalla sua natura e dalla sua essenza
(th/j kata. to. ei=nai fu,sewj au`tou/ to. genhto.n avpelhlakw,j ). Ogni volta, dunque, che Filone parla di Dio
che ha qualche rapporto con il creato (sia dal punto di vista ontologico sia dal punto di vista
epistemologico), non concepisce la parola qeo,j come l’essenza del sommo Dio (che rimane sempre
inconoscibile e trascendente), ma come una (o più) delle sue Potenze.
306
Sull’argomento cfr. P. Graffigna, The Stability of Perfection: The Image of the Scales in Philo
of Alexandria, in Italian studies on Philo of Alexandria, a cura di F. Calabi, Boston – Leiden 2003, pp.
131-146.
307
Anzi, per Filone non esiste un uomo che non abbia mai commesso un peccato volontario o
involontario. Anche il perfetto non riesce sempre ad evitare di cadere nel peccato. Per questo anche lui è
obbligato a compiere il sacrificio dell’espiazione. Cfr. Phil. Spec. Leg. I 252. Inoltre l’Alessandrino
distingue le quattro età della vita umana alle quali lega la possibilità, la necessità o la libertà nel
commettere i peccati da parte di un uomo. Nella prima età l’uomo non distingue ancora il bene dal male,
nella seconda l’uomo fa esperienza dei peccati, nella terza comincia ad essere curato dalle malattie
dell’anima e, infine, nella quarta età della vita “facendo ritorno dai mali, decidiamo di metterci a fare il
bene. Prima non sarebbe stato possibile” Cfr. Phil., Her. 299. Cfr. anche A. Maddalena, Filone…, pp.
361-362.
137

dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti
mostrerò”308 viene dunque interpretato da Filone allegoricamente e significa l’invito a
lasciare la dimensione corporea per una migrazione spirituale. A questo proposito
l’Alessandrino non parla solamente della migrazione di Abramo, ma in generale del
cammino che deve percorrere l’anima umana per attingere alle realtà intelligibili e
divine309. Migrare, dunque, significa trascendere il mondo corporeo in due aspetti:
morale e intellettuale. Dal punto di vista morale significa liberarsi dalle passioni basse
dell’anima e passare alla vita delle virtù; dal punto di vista intellettuale significa passare
dal considerare tutta la realtà solamente corporea all’esplorazione e comprensione del
mondo intelligibile. Il coronamento di questo itinerario dell’anima dovrebbe essere
l’unione con Dio310 e la contemplazione delle realtà immortali311. Di questa ultima
tappa, invece, Filone non ci lascia tante informazioni. Sappiamo solamente che l’anima
di per sé ignora la via che conduce alla contemplazione dell’Essere312, ma in che cosa
consista questa contemplazione l’Alessandrino non ce lo spiega313.

Il lettore potrebbe aspettarsi una più ampia descrizione dell’unione a Dio o della
comprensione della sua essenza dal trattato Quis rerum divinarum heres sit che continua
l’argomento incominciato nel De migratione Abrahami314. Infatti, troviamo in esso
alcune affermazioni che potrebbero suggerire il fenomeno dell’estasi mistica, ovvero
l’uscita dell’anima dal corpo315 e la sua unione a Dio. Tuttavia, se leggiamo
attentamente questi passi, vediamo che Filone, come “uscita dell’anima dal corpo”,
nient’altro intende di più di ciò che abbiamo già detto sopra a proposito del concetto

308
Gen. 12,1.
309
Cfr. Phil., Migrat. 1-6.
310
Cfr. Ibid., 30.
311
Cfr. Ibid., 43-53, 168-169.
312
Cfr. Ibid., 170-171.
313
Infatti, nel trattato De migratione Abrahami Filone si limita soprattutto a descrivere il primo
passaggio dell’itinerario intellettuale della migrazione di Abramo, cioè quello dell’uscita dalla
dimensione corporea. Caldea, dunque, dalla quale comincia il suo cammino Abramo, diventa il simbolo
di questa dimensione. Difatti i Caldei divinizzavano il mondo, cioè il corpo, e non vedevano niente al di
là della dimensione corporea. Cfr. Phil., Migrat. 177-179. Più sviluppato, nel nostro trattato, è il tema
della migrazione morale, ovvero dell’acquisizione delle virtù. Ma sia nel caso della prima che della
seconda migrazione il lettore non viene informato della loro fine. Dagli indizi lasciati in questo trattato si
presuppone che essa dovrebbe consistere nella contemplazione o nell’unione a Dio, questo fenomeno,
però, non viene descritto. Per l’approfondimento di questo argomento cfr. R. Radice, Il concetto di
migrazione in Filone di Alessandria. Saggio introduttivo, in Filone di Alessandria, La migrazione verso
l’eterno, a cura di R. Radice, Milano 1988, pp. 30-92.
314
E che appunto parla dell’ultima tappa della migrazione. Infatti, il trattato apre la domanda che
Abramo fa a Dio chi sarà il suo erede. Cfr. Gen. 15,1-3; Phil., Her. 1-2. Come di solito, Filone sposta il
problema al livello allegorico e comincia ad occuparsi del problema delle condizioni di possibilità di
diventare l’erede delle cose divine.
315
Cfr. Phil., Her. 68.
138

dell’‘uomo di Dio’316. L’erede delle cose divine, dunque, può diventare un’anima che
abbandonando la dimensione corporea e riconoscendo la propria nullità317 fa di se stessa
il sacrificio a Dio318. In questo modo, aprendosi totalmente all’azione di Dio, l’anima
prepara il posto degno di lui, e lui stesso permane e opera in essa 319. In una poetica
personificazione Filone così scrive dell’anima che “esce dal corpo”:

“Me ne sono andata dal corpo (metw|kisa,mhn tou/ sw,matoj), perché


ormai non tenevo più in alcuna considerazione la carne; ho lasciato la
sensazione, quando ho riconosciuto che gli oggetti sensibili non sono esseri in
senso vero, condannando i suoi criteri di giudizio come impuri e corrotti,
gravidi di false opinioni, condannando anche gli oggetti dei suoi giudizi, perché
sono sempre pronti ad ingannare, a fuorviare a rubare dal cuore stesso della
natura la verità; ho abbandonato anche la parola, allorché ho condannato la sua
grande assurdità, anche se essa si eleva e si esalta. […] Facendo tale esperienza,
come un folle, o come un bimbo in tenera età, ho imparato che era meglio uscire
fuori da tutte queste cose (a;meinon h=n a;ra pa,ntwn me.n tou,twn u`pexelqei/n),
consacrando a Dio le facoltà di ciascuna di esse, in quanto è lui che dà corpo al
corpo e lo tiene insieme, dà alla sensazione la capacità di sentire, e a parola
quella di parlare”

Allo stesso modo in cui hai abbandonato tutte le altre cose, abbandona
anche te stessa, esci da te (u`pe,xelqe kai. metana,sthqi seauth/j). Cosa significa
questo? Non usare come se fossero tuoi l’intelletto, la conoscenza e la
comprensione, ma portali e consacrali a colui che è la Causa di ogni pensiero
esatto e di ogni comprensione infallibile320.

316
Cfr. Phil., Mutat. 19. 24. 26 e l’analisi relativa a questi passi fatta sopra.
317
Cfr. Phil., Her. 29-30. Su questo concetto cfr. A. M. Mazzanti, Il dialogo fra l’uomo e Dio in
Filone di Alessandria: a proposito di ‘Quis rerum divinarum heres sit’ 3-33, in Origeniana Octava…,
vol. 1, pp. 233-244.
318
Cfr. Ibid. 102-111.
319
A questo punto vale la pena osservare che il sapiente per diventare l’erede delle cose divine,
fa precisamente il contrario rispetto a ciò che fece il primo uomo commettendo il peccato originale.
Infatti, il primo uomo ignorando e rifiutando la propria nullità si crede signore di se stesso e di tutto.
Vuole diventare come Dio. Di conseguenza, si nasconde davanti a lui. Secondo l’interpretazione
allegorica di Filone, invece, l’uomo nasconde il suo intelletto e non permette che Dio operi in lui. Cfr.
Phil., Leg. All. III 28-31. Il sapiente, al contrario, riconoscendo la propria nullità e consacrando tutto,
anche se stesso, a Dio, lo incontra, ovvero l’intelletto umano diventa predisposto all’ispirazione divina. In
questo modo Dio dimora e opera in lui. Cfr. G. Reale, L’itinerario a Dio…, p. 18.
320
Phil., Her. 71. 73-74.
139

È indubbio che in questo passo Filone utilizzi il linguaggio di tipo mistico.


Infatti, i verbi come: metoiki,zw, u`pexe,rcomai, metani,sthmi321 suggeriscono
l’allontanamento, la migrazione o la fuga dell’anima dal corpo. Questo abbandono del
corpo, però, non deve essere inteso nel senso ontologico, ma metaforico. Infatti, come
spiega l’Alessandrino, l’anima durante il suo cammino spirituale comincia a vedere che
le cose corporee non sono gli esseri nel senso vero. Non volendo, dunque, più essere
legata alla dimensione corporea, la abbandona322. Ciò vale a dire che non dà più
importanza a questa dimensione, ma non che esce realmente dal corpo per unirsi a Dio.
Lo stesso succede per quanto riguarda la sensazione e la parola. Infatti, i sensi possono
ingannare e condurre alle opinioni false. Il linguaggio, invece, non riesce ad esprimere
bene ciò che riguarda le realtà intelligibili323. Per vedere e sentire esattamente, per
giudicare infallibilmente e per parlare adeguatamente della realtà visibile e invisibile,
l’anima deve fare un tipo di epoché, ovvero una sospensione di giudizio. Essa viene
descritta dall’Alessandrino come l’abbandono o l’allontanamento da ciò che si vede e si
sente, da ciò che si giudica ed esprime per il tramite del linguaggio riguardo alla realtà
circostante. Questa epoché non è però fine a se stessa. Da una parte è già il risultato del
cammino spirituale dell’uomo virtuoso, dall’altra parte è una preparazione al ricevere
una forza divina attraverso la quale il sapiente vedrà e giudicherà tutta la realtà in
un’ottica divina. Infatti, nell’ultima sezione del passo citato Filone invita l’anima ad
usare l’intelletto, la conoscenza e la comprensione come se non fossero suoi. Questo
sarà possibile se l’anima consacrerà tutte le sue forze intellettive alla “Causa di ogni
pensiero esatto”. Più avanti, invece, l’Alessandrino afferma che “l’intelletto che serve
Dio non è più umano, ma divino”324, ovvero non confida più nelle proprie forze e non
dipende solo da se stesso, ma da Dio325. Questo stato viene chiamato metaforicamente

321
Il verbo metoiki,zw significa: trasferirsi altrove, migrare; u`pexe,rcomai significa: ritirarsi,
andarsene, fuggire via da; metani,sthmi significa: allontanarsi, trasferirsi, migrare.
322
Cfr. anche Phil., Migrat. 191: “Quando, infatti, l’intelletto, catturato da qualche concezione
filosofica, è trascinato verso quella che intende seguire, non si ricorda più di tutte le altre affezioni che
concernono il mondo corporeo. E se pure le sensazioni ostacolano la chiara visione dell’intelligibile, gli
spiriti contemplativi sanno annullare gli effetti del loro frapporsi. Essi serrano gli occhi, chiudono le
orecchie e trattengono gli impulsi di tutti gli altri sensi; scelgono di vivere nella solitudine e nell’ombra,
affinché l’occhio dell’anima, a cui Dio ha concesso di vedere l’intelligibile, non sia adombrato da
qualcosa di sensibile”. La necessità di separarsi dal mondo sensibile per contemplare quello intelligibile è
il concetto platonico. Cfr. Plat., Phaed. 65 A-C; 66 A; 79 A; Resp. 511 A; Phaedr. 247 C.
323
Lo dice esplicitamente Filone nel Her. 72 che abbiamo omesso a causa della lunghezza del
passo.
324
Cfr. Phil., Her. 84.
325
Cfr. Ibid. 85.
140

da Filone come uscita dell’anima da se stessa. In realtà, però, esso non ha niente a che
fare con l’uscita e l’unione a Dio nel senso ontologico326.

Dopo queste spiegazioni, possiamo ancora parlare dell’estasi, compresa come


un’unione dell’anima a Dio o come una sovrannaturale comprensione della sua essenza?
Infatti, alcuni studiosi su Filone, parlano della Nichtekstatische Mystik327, ovvero della
mistica non estatica. Dall’altra parte, anche quelli che preferiscono parlare dell’estasi, il
che è anche giustificabile328, osservano che nessuna delle componenti del misticismo
filoniano, da loro evidenziati, “ci autorizza a ritenere che l’Alessandrino avesse in
mente un tipo di conoscenza particolare diverso da quello praticato dai filosofi”329. Gli
altri ancora, affermano che, secondo Filone, la mistica non è riservata solo ai pochi
eletti, ma può diventare esperienza comune, ovvero spetta a ogni uomo buono e
virtuoso330. Infatti, l’eredità della quale parla l’Alessandrino è la vita felice e beata che
l’uomo può giungere se riesce a “vivere con tutte le sue forze per Dio, piuttosto che per
se medesimo”331. Dunque, anche se si vuole parlare del fenomeno estatico nelle opere
dell’Alessandrino, non si deve concepire l’ultima tappa della migrazione del sapiente

326
In altro luogo Filone molto chiaramente definisce che cosa intende parlando del ‘distacco
dell’intelletto’: “L’afflusso dei beni che si offrono da sé è detto ‘distacco’ (a;fesij), perché l’intelletto si
‘distacca’ (avfei/tai) dall’agire secondo i propri principi e, per così dire, si libera dalla propria volontà, a
motivo dell’abbondanza delle grazie che senza fine piovono e si versano su di lui. Certo, questa
condizione è, per natura, la più meravigliosa e bella quant’altre mai, perché delle realtà che l’animo
partorisce da sé, la maggior parte sono aborti o parti prematuri; ma ciò che Dio dispensa con larghezza,
come se fosse neve, viene alla luce perfetto, integro e assolutamente eccellente”. Phil., Migrat. 32-33. In
questo passo Filone utilizza ancora un altro verbo che indica la migrazione dell’intelletto, ovvero avfi,hmi
che significa: abbandonare, staccarsi, o lasciare. Vediamo però che questa a;fesij viene definita come
distacco dalle proprie forze o dalle proprie opinioni e l’apertura all’ispirazione divina. In questo modo
l’intelletto non ‘partorisce’ più le idee umane, ma, per la grazia divina, si riempie delle idee ispirate da
Dio. Ciò non significa, però, l’abbandono reale del corpo e l’unione all’essenza divina.
327
Cfr. C. Noack, Gottesbewußtsein. Exegetische Studien zur Soteriologie und Mystik bei Philo
von Alexandria, Tübingen 2000, pp. 204 sgg.
328
In realtà, Filone utilizza la parola e;kstasij, anzi enumera diversi tipi dell’estasi, comunque
non tutti di essi sono precisamente ciò che possiamo definire come estasi mistica. Così, dunque, una delle
forme di estasi enumerate dall’Alessandrino è, ad esempio, la demenza, l’altra è il riposo della mente,
ovvero l’inattività dell’intelligenza. Infine, come estasi l’Alessandrino indica anche l’ispirazione
profetica. Cfr. Phil., Her. 249-263. Tra tutti questi significati della parola e;kstasij evidenziati dal nostro
filosofo, quella che di più assomiglia all’estasi mistica è quella profetica. Essa – come spiega Filone –
consiste nello scendere dello spirito divino nell’intelletto umano. In questo modo “il profeta anche quando
sembra parlare, in verità tace, perché un altro si serve, per rivelare le cose che vuole, degli organi della
voce del profeta, della bocca e della lingua”. Cfr. Phil., Her. 266. Ma, ritornando alla nostra domanda,
possiamo dire che il profeta posseduto dallo spirito divino, apprende qualcosa dell’essenza divina, o
rimane soltanto lo strumento della sua azione? Inoltre, l’estasi profetica implica l’unione dell’anima
all’essenza divina, o si tratta solo di una forza, facoltà o potenza divina che parla attraverso il profeta? A
nostro avviso, e conformemente a tutto ciò che abbiamo detto in questo paragrafo, si tratta qui di una
potenza (o facoltà) divina, piuttosto che di Dio. Dio stesso, invece rimane sempre trascendente rispetto al
creato.
329
R. Radice, Allegoria…, p. 30.
330
Cfr. G. Reale, L’itinerario a Dio…, p. 26.
331
Cfr. Ibid., p. 30. Cfr. anche Phil., Her. 111.
141

come un breve momento dell’unione a Dio, ma come lo stato duraturo nel quale Dio,
attraverso le sue forze ispiratrici, permane nell’anima del sapiente dopo che essa abbia
preparato in se stessa il posto degno di lui332.

Dalle nostre analisi non risulta, dunque, che secondo Filone sia possibile
un’unione tra l’anima umana e Dio nel senso ontologico333. Non troviamo nelle sue
opere neanche una descrizione della comprensione dell’essenza divina da parte
dell’uomo. Infatti, l’anima che ‘è uscita da se stessa’ è semplicemente l’anima che non
vuole più vedere tutta la realtà nel modo umano, giudicare nel modo umano e parlare
con il linguaggio umano. Vuole, parlando metaforicamente, che Dio senta, parli e pensi
in essa. Diventare, però, lo strumento dell’azione divina o essere riempito delle idee o
dei pensieri che provengono dall’alto, non implica, comunque, la conoscenza
dell’essenza divina. Dio in sé rimane sempre inconoscibile, anche se in un modo

332
Dobbiamo aggiungere, però, che al sapiente, che ha consacrato il suo intelletto a Dio, possono
accadere anche i brevi momenti della perdita della coscienza a causa dell’azione della forza ispiratrice
divina che dimora nella sua anima. Di un tale fenomeno parla Filone descrivendo la sua esperienza
mistica: “Non ho vergogna di soffermarmi su una mia esperienza che conosco bene per averla vissuta
infinite volte. Talora, volendo io passare alla stesura di un mio scritto, secondo ordine a me familiare, dei
principi filosofici, e avendo bene in mente quanto doveva essere composto, non ho trovato che un
pensiero infecondo e sterile e così ho smesso prima ancora di cominciare, rimproverando la mia mente
per la sua presunzione, ma vivamente colpito dalla forza (to. kra,toj kataplagei,) di colui che sa aprire e
chiudere la matrice dell’anima. Altre volte, essendo giunto vuoto, mi sono ritrovato d’improvviso pieno di
idee, irrorato e fecondato da una forza invisibile che scende dall’alto, come fossi colto da divina
possessione, avendo perso coscienza del luogo in cui ero, di chi mi stava intorno, di me stesso, delle cose
dette e di quelle scritte. In un certo senso, l’ispirazione si traduce nel guadagno di una luce, in una vista
acutissima, nella evidenza più chiara degli oggetti, quale si produrrebbe dinanzi agli occhi al seguito di
una dimostrazione del tutto rigorosa”. Phil., Migrat. 34-35. Osserviamo, però, che Filone, descrivendo
questa esperienza parla di una forza divina (to. kra,toj), non di Dio stesso, che illumina la mente e porta
un’acutissima comprensione della realtà. Dunque, anche in questo breve momento dell’estasi non si tratta
dell’unione a Dio o della comprensione della sua essenza. A questo proposito, giustamente osserva anche
R. Radice che “l’estasi filoniana non trasforma la capacità di conoscenza dell’uomo, ma modifica
radicalmente l’uso che di essa si fa, giacché la dona e la consacra a Dio, da cui, peraltro, originariamente
deriva in forma di grazia”. Cfr. R. Radice, Allegoria…, pp. 31-32.
333
Tra le opere filoniane troviamo ancora altri passi che sembrano descrivere un’esperienza
mistica. Cfr. Phil., Somn. I 60; II 232; Plant. 64; Confus. 95-97; Ebr. 152; Qu. in Gen. III 9. In questi
passi, però, l’Alessandrino ripete le stesse idee le quali abbiamo già esaminato in questo paragrafo. Così,
dunque, basandosi sull’esempio di alcuni personaggi biblici, dice che per conoscere le realtà divine i
sapienti hanno dovuto riconoscere la propria nullità davanti a Dio che è la fonte della conoscenza
infallibile. Qualche volta Filone afferma che l’anima che ha sacrificato se stessa a Dio, “si spingerà fino
alla sublime e celebrata contemplazione dell’Ingenerato” (Ebr. 152). Non dice però se questa
contemplazione avvenga e in che cosa consista. A causa delle ambiguità delle affermazioni filoniane, gli
studiosi prendono diverse posizioni per quanto riguarda l’argomento del misticismo nell’Alessandrino.
Per questo, R. Radice afferma che “il problema del misticismo filoniano e tutt’oggi aperto e molto
complesso”. Cfr. R. Radice, Allegoria…, p. 26. Sull’argomento cfr. anche A. Louth, The Origins of the
Christian Mystical Tradition, Oxford 1981, pp. 18-35; B. Belletti, La concezione dell’estasi in Filone di
Alessandria, Aev 57 (1983), pp. 72-89; W. E., Helleman, Philo of Alexandria on Deification…, pp. 51-71;
G. Reale, L’itinerario a Dio…, pp. 11-45; D. Winston, Philo’s Mysticism, SPhA, 8 (1996), pp. 74-82; D.
Winston, Was Philo a Mystic?..., pp. 151-170; C.. Noack, Gottesbewußtsein…, pp. 180-215.
142

temperato e moderato dona all’uomo virtuoso e umile qualcosa della sua Scienza,
Sapienza e Saggezza334.

Nel trattato De migratione Abrahami e nel Quis rerum divinarum heres sit
Filone mette più l’accento sulla morale, ovvero sull’esercizio delle virtù, sulla fede e
sull’amore di Dio, piuttosto che sull’esercizio intellettuale nell’itinerario verso la
cognizione dell’intelligibile. In un’altra opera, invece, cioè nel De congressu eruditionis
gratia, si concentra soprattutto sul tema dell’istruzione intellettuale. In essa Filone
stesso ci lascia la testimonianza del proprio percorso d’istruzione e dice che tutte le
tappe del cammino intellettuale hanno la loro importanza e aiutano a giungere a un
livello cognitivo sempre più alto:

Io, ad esempio, quando per la prima volta la filosofia mi spronò con i


suoi pungoli al desiderio di possederla, mi accostai in età giovanissima a una
delle sue ancelle, la grammatica, e tutto ciò che generai da essa – la capacità di
scrivere e di leggere e lo studio della materia poetica – lo dedicai alla padrona.
Mi unii poi a un’altra ancella, la geometria […]. In verità, come le discipline
encicliche contribuiscono all’acquisizione della filosofia, così contribuisce la
filosofia all’acquisizione della sapienza. La filosofia è la ricerca della sapienza e
la sapienza è scienza delle cose divine e umane e delle loro cause. Dunque,
come la cultura acquisita con gli studi enciclici è schiava della filosofia, così
anche la filosofia dovrebbe essere schiava della sapienza335.

Le scienze dunque servono all’anima nel suo elevarsi dal livello basso a quello
più alto della cognizione delle cose divine. Anche se non abbiamo riportato tutto il
passo per intero, in seguito Filone dice che era affascinato anche delle scienze
propedeutiche. Infatti esse non insegnano solamente l’arte di scrivere e di leggere, ma
molto di più. Ad esempio, la geometria mostra la bellezza della simmetria e della
proporzione, la musica: la melodia e l’armonia. Tutto questo aiuta a comprendere la
bellezza del mondo intelligibile, del quale si occupa la filosofia. Con la filosofia invece
l’intelletto umano si abitua ad avere rapporto con le entità intelligibili e concepisce il
desiderio di conoscere le cose divine che entrano nell’ambito della sapienza.

334
Cfr. Phil., Deus 79-81, dove l’Alessandrino afferma che nessun essere mortale potrebbe
accogliere in sé, nella loro assoluta purezza, alcuna delle Potenze di Dio. Cfr. anche il paragrafo 1.2: La
trascendenza ontologica di Dio, dove abbiamo analizzato questo passo.
335
Phil., Congr. 74-75. 79.
143

Secondo Filone esistono, dunque, due vie per arrivare alla cognizione di Dio,
ma, sottolineiamo, non dell’essenza di Dio336: quella morale e quella intellettuale.
Ambedue le vie si intrecciano e dipendono l’una dall’altra337. L’uomo non può
diventare sapiente solo dopo aver percorso la strada dell’istruzione scolastica e
filosofica senza aver praticato nessuna delle virtù pratiche e religiose, perché alla fine,
per giungere alla contemplazione di Dio, ha bisogno del suo aiuto338. Dio, invece, come
abbiamo visto sopra, si dona alle anime che hanno preparato in sé lo spazio degno di lui.
D’alta parte un uomo virtuoso, che non si esercita nella speculazione, non è in tutto
virtuoso, gli mancano le virtù teoretiche. Non è abituato ad avere rapporto con le entità
intelligibili e di conseguenza non e capace di contemplare Dio che è incorporeo.

Alla fine, dopo tutto ciò che abbiamo detto in questo paragrafo, sottolineiamo
che Filone, allo scopo di salvaguardare il concetto della trascendenza ontologica di Dio,
non ammette la possibilità dell’unione di una creatura con Dio stesso. Per salvaguardare

336
Oltre a ciò che abbiamo detto sopra riguardo all’inconoscibilità dell’essenza divina, vogliamo
riportare ancora un passo in cui l’Alessandrino afferma che neanche i sapienti sono in grado di
apprendere o di unirsi all’essenza di Dio, ma la “vedono da lontano”. Commentando il passo biblico
relativo ad Abramo (Gen. 22,3-4), Filone fa una seguente interpretazione allegorica: “«Egli [cioè
Abramo] giunse al luogo di cui Dio gli aveva parlato; e sollevando gli occhi vide il luogo da lontano».
Ora dimmi: uno che raggiunge un luogo, come fa a vederlo da lontano? Sembra piuttosto uno stesso
termine riferito a due entità diverse, l’una delle quali è il Logos divino, l’altra Dio che precede il Logos. E
quindi chi è guidato dalla saggezza arriva al primo dei due ‘luoghi’, dove trova nel Logos divino il
coronamento supremo e perfetto del culto reso a Dio; e quando è a questo stadio non può spingersi oltre
fino a raggiungere Dio nella sua essenza, ma lo vede da lontano. Meglio ancora, neanche da lontano è in
grado di vederlo, ma vede solo questo: che Dio è lontano di molto da tutto ciò che è generato e che la
possibilità di comprenderlo è rimossa a una distanza incommensurabile dalla portata intellettiva
dell’uomo”. Cfr. Phil., Somn. I 64-66. Abramo dunque è giunto a qualche conoscenza delle realtà divine,
ovvero alla conoscenza del Logos inteso come mondo intelligibile, ma non era in grado di apprendere
l’essenza divina.
Se è così, quale sarebbe dunque la differenza tra la cognizione del sapiente e del progrediente?
Secondo A. Maddalena il sapiente “che prima seguiva il Figlio, ascoltandone gli ammonimenti, ora, fatto
pari al Figlio, erede del Padre, segue lui stesso, l’Ente che la mente umana non comprende”. Cfr. A.
Maddalena, Filone…, p. 348. Infatti, il filosofo, ovvero il progrediente, non deve necessariamente vivere
secondo il Logos, anche se lo conosce in qualche modo, e non deve necessariamente arrivare alla
conoscenza del Padre dell’universo e seguire i suoi precetti. Il cammino del sapiente invece, come dice
Filone, finisce nel Padre (cfr. Phil., Qu. in Gen. II 26), ma questa affermazione non indica l’unione o la
conoscenza dell’essenza divina. Il sapiente comincia a seguire il Padre e questo processo non finisce mai,
non sarà mai in grado di conoscere l’essenza del Padre dell’universo che è infinita.
337
A questo proposito vale la pena riportare l’opinione di H. A. Wolfson, che osserva che Filone
non segue lo schema della divisione di filosofia proposto da Aristotele, dove la teologia è la parte più
nobile della metafisica, ma accetta, con alcuni modificazioni, lo schema degli stoici (cfr. Phil., Agr. 14).
Infatti, nella scuola del Portico la filosofia veniva divisa in logica, fisica ed etica, dove lo studio di prime
due discipline serviva e conduceva sempre a quella terza, ovvero all’etica che era considerata come il
coronamento di ogni filosofia. L’Alessandrino, invece, tra le discipline filosofiche distingue anche la
teologia (che secondo gli stoici faceva parte della fisica) e mostra che non è possibile conoscere le realtà
divine senza la pratica dell’etica e, dall’altro lato, non si può giungere alle più alte vette dell’etica senza
l’esercizio delle virtù intellettuali e senza la ricerca di Dio. Cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, pp. 146
sgg. Nella dottrina filoniana, dunque, la teologia non fa più parte della fisica ma dell’etica. Cfr. anche G.
Reale, Storia…, vol. 7, pp. 32-33.
338
In un altro luogo Filone dice: “Chi non venera l’Essere uccide la propria anima, sicché egli
non può trarre alcun profitto dall’‘edificio’ dell’educazione”. Cfr. Phil., Agr. 171.
144

invece il concetto della trascendenza gnoseologica non ammette la possibilità della


cognizione dell’essenza divina da parte dell’uomo339. Anche se a volte può sembrare
che l’Alessandrino suggerisca una tale unione o cognizione, come coronamento del
cammino spirituale dell’uomo, nei trattati De migratione Abrahami, Quis rerum
divinarum heres sit e De congressu eruditionis gratia, che appunto parlano più
ampiamente di questo argomento, non troviamo una descrizione di un tale fenomeno.
Anzi, abbiamo indicato come nei passi, che parlano dell’uscita dell’anima dal corpo,
venga espresso, con un linguaggio metaforico, l’idea della sospensione di giudizio, o dei
pregiudizi, riguardo alle realtà visibili e invisibili, e non dell’uscita dal corpo nel senso
ontologico e l’unione a Dio. Dagli altri passi invece, ricaviamo una chiara affermazione
che questa unione o comprensione dell’essenza di Dio non è possibile. L’uomo è
incapace ontologicamente di accogliere o di comprendere Dio trascendente: lo abbiamo
mostrato all’inizio di questo paragrafo. In effetti, egli si dona e si fa conoscere all’anima
umana tramite le sue Potenze, che sono appunto il più alto livello delle entità divine
raggiungibili all’uomo. L’esame dei passi che parlano delle teofanie bibliche ci ha
illustrato chiaramente che anche questo era il livello a cui sono giunti coloro che da
Filone sono considerati sapienti.

1.5. Le aporie riguardo alla trascendenza di Dio

Attorno al concetto della trascendenza di Dio sorgono parecchie aporie come ad


esempio quella della personalità o impersonalità del Dio trascendente o quella che
riguarda la coeternità del Logos inteso come l’insieme delle idee con Dio. Ne abbiamo
parlato sopra. In questo paragrafo invece vogliamo accennare ad altre due, che come tali
potrebbero essere il tema di un’altra tesi, ma rientrano anche nell’ambito del concetto
della trascendenza. Una è relativa al tema della creazione, l’altra riguarda l’escatologia.
Per quanto riguarda la creazione, sappiamo che Dio trascende il creato, ma nasce la
domanda: egli creò anche la materia? Se è trascendente in maniera assoluta avrebbe
dovuto creare tutto ex nihilo e, prima della creazione del mondo, non dovrebbe esservi
accanto a lui un altro principio eterno. È però dubbio che questo concetto si trovi già nei
testi di Filone. Per quanto riguarda l’ambito escatologico sorge un altro problema. Dove

339
Oltre le analisi che abbiamo svolto in questo paragrafo, nelle opere di Filone troviamo una
chiara affermazione: “Dio a nessuno ha svelato la sua natura, ma l’ha tenuta nascosta a tutto il genere
umano”. Phil., Leg. All. III 206.
145

finiscono le anime dei giusti o dei sapienti dopo la morte del corpo? Di nuovo, se Dio è
totalmente trascendente, anche nell’aldilà, non dovrebbe esservi la possibilità
dell’unione di una creatura con l’essenza divina.

Il concetto della creazione ex nihilo, come teoria ben fondata, ossia spiegata in
maniera chiara e argomentata, non è presente nelle opere di Filone. Troviamo invece
alcuni passi che potrebbero suggerire la conoscenza di tale concetto da parte
dell’Alessandrino. Dall’altro lato il linguaggio platonico, insieme a quello stoico,
adoperato da Filone nel trattato De opificio mundi, possono suggerire che il nostro
filosofo pensi a una probabile esistenza della materia preesistente340. Nel passo che
abbiamo già analizzato sopra (quello del Opif. 8-11) Filone dice che nell’ordine
dell’universo esistono due principi: causa attiva (drasth,rioj ai;tioj) e causa passiva
(paqhto.j ai;tioj). La causa attiva è l’intelletto universale (o` tw/n o[lwn nou/j), mentre “la
causa passiva è di per sé priva di anima e incapace di movimento; ma una volta messa
in movimento, foggiata e animata dall’intelletto, è trasformata nel capolavoro che è
questo mondo”341. In seguito questa causa passiva viene identificata con l’a;poioj ouvsi,a
(sostanza informe):

Se si volesse scrutare a fondo la causa per la quale tutto questo universo


è stato creato, mi pare che coglierebbe nel segno chi dicesse quel che ha detto
un filosofo antico: che il Padre e Creatore del mondo è buono. In virtù di tale
bontà egli non rifiutò di trasmettere l’eccellenza della propria natura a una entità
(ouvsi,a), che di per sé era priva di ordine, di qualità (a;poioj), di vita di
omogeneità e ricolma invece di eterogeneità, di disarmonia di discordanza; ma
divenne oggetto di un mutamento e di una trasformazione nella direzione
opposta delle cose migliori e accolse in sé ordine, qualità, vitalità, omogeneità,
identità, armonia, concordanza, tutto ciò che reca le caratteristiche del modello
più elevato. Senza ricorrere all’aiuto di alcuno (del resto chi altri vi era?),

340
A causa dell’ambiguità delle affermazioni dell’Alessandrino, gli studiosi sono divisi per
quanto riguarda la presenza in Filone della dottrina della creatio ex nihilo. Coloro che sostengono la
presenza di tale dottrina sono: H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, pp. 300-310; G. Reale, Filone di
Alessandria e la prima elaborazione filosofica della dottrina della creazione, in Paradoxos politeia. Studi
patristici in onore di Giuseppe Lazzati, a cura di R. Cantalamessa, L. F. Pizzolato, Milano 1979, pp. 247-
287; R. Sorabji, Time, Creation and the Continuum: Theories in Antiquity and the Early Middle Ages,
London 1983, pp. 203-209; R. Radice, Platonismo…, pp. 369-382. La posizione opposta, invece,
prendono: É. Bréhier, Les idées…, pp. 80-82; H. F. Weiss, Untersuchungen zur Kosmologie des
hellenistischen und palästinischen Judentums, Berlin 1966, pp. 18-72; C. Siegfried, Philo von Alexandria
als Ausleger des Alten Testaments, Amsterdam 1970, pp. 232-234; S. Lilla, Clement of Alexandria..., nota
3, p. 194; D. T. Runia, Philo of Alexandria and the ‘Timaeus’…, pp. 420-226 e 451-456; G. May,
Creatio…, pp. 9-22.
341
Phil., Opif. 9.
146

appoggiandosi solo a se stesso, Dio decise che bisognava profondere con


prodigalità ricchi benefici ad una natura che, senza il dono divino, era incapace
di conseguire da sola un qualsiasi bene342.

Il motivo della creazione individuato in questo passo, che è la bontà di Dio,


viene confermato da Filone, non attraverso una testimonianza scritturistica, ma dalla
citazione del Timeo di Platone343. Inoltre l’atto della creazione viene descritto come
un’azione demiurgica. Infatti, Dio trasmette la propria bontà e la propria bellezza alla
sostanza che è già esistente. Notiamo che anche Platone nel suo Timeo, subito dopo il
passo citato da Filone (quello del Tim. 29 E), esprime un’idea simile a quella filoniana:
“Infatti Dio, volendo che tutte le cose fossero buone, e che nulla, nella misura del
possibile, fosse cattivo, prendendo quanto era visibile e che non stava in quiete, ma si
muoveva confusamente e disordinatamente, lo portò dal disordine all’ordine,
giudicando questo totalmente migliore di quello. Infatti non è lecito a chi è ottimo di
fare se non ciò che è bellissimo”344. Vediamo, dunque, che sia il finalismo della
creazione sia il modo in cui il mondo viene creato, ovvero attraverso l’imposizione
dell’ordine e della bellezza divina al sostrato preesistente, sono idee platoniche assunte
dall’Alessandrino senza alcuna obiezione. Sappiamo ormai che, a volte, Filone corregge
Platone quando dissente da lui345, ma sembra, che per quanto riguarda la preesistenza
del sostrato dal quale viene creato il mondo, i due filosofi abbiano opinioni concordi.
Infatti a questo proposito l’Alessandrino non fa nessuna critica al filosofo greco, anche
se conosce la sua dottrina della creazione, anzi cita il passo del Timeo che si trova nel
contesto in cui Platone parla appunto della creazione del mondo dal sostrato
preesistente.

342
Phil., Opif. 21-23: eiv ga,r tij evqelh,seie th.n aivti,an h-j e[neka to,de to. pa/n evdhmiourgei/to
diereuna/sqai( dokei/ moi mh. diamartei/n skopou/ fa,menoj( o[per kai. tw/n avrcai,wn ei=pe,le,gw tij( avgaqo.n
ei=nai to.n pate,ra kai. poihth,n\ ou- ca,rin th/j avri,sthj au`tou/ fu,sewj ouvk evfqo,nhsen ouvsi,a| mhde.n evx
au`th/j evcou,sh| kalo,n( duname,nh| de. pa,nta gi,nesqaiÅ h=n me.n ga.r evx au`th/j a;taktoj a;poioj a;yucoj
avno,moioj( e`teroio,thtoj avnarmosti,aj avsumfwni,aj mesth, \ troph.n de. kai. metabolh.n evde,ceto th.n eivj
tavnanti,ao` kai. ta. be,ltista( ta,xin poio,thta evmyuci,an o`moio,thta tauto,thta( to. euva,rmoston( to.
su,mfwnon( pa/n o[son th/j krei,ttonoj ivde,ajÅ ouvdeni. de. paraklh,tw| ti,j ga.r h=n e[terojÈ mo,nw| de. au`tw/|
crhsa,menoscra,w o` qeo.j e;gnwginw,skw dei/n euvergetei/n avtamieu,toij kai. plousi,aij ca,risi th. n a;neu
dwrea/j qei,aj fu,sin ouvdeno.j avgaqou/ duname,nhn evpilacei/n evx e`auth/j .
343
Cfr. Plat., Tim. 29 E.
344
Plat., Tim. 30 A. La traduzione italiana proviene da: Platone, Timeo. Testo greco a fronte, a
cura di G. Reale, Milano 1994.
345
Lo abbiamo mostrato nei paragrafi precedenti. Le idee, ad esempio, non sussistono, secondo
Filone, al di là del creatore del mondo ma sono i pensieri di Dio. Sono generate e nella sua esistenza
dipendono da lui. Non sussistono dunque per sé, come pensava Platone, ma per Dio.
147

Notiamo invece una differenza nella comprensione di ciò che preesiste. Infatti il
sostrato filoniano viene concepito al modo stoico346, ovvero come sostanza informe
(a;poioj ouvsi,a), capace di accogliere qualsiasi forma347. Questa sostanza, come ci
informa Filone all’inizio del trattato De opificio mundi, è uno dei principi presenti
nell’ordine dell’universo, ovvero è causa passiva della creazione. Essa dopo l’azione
della causa attiva (che è il nou/j dell’universo) si trasforma nel mondo visibile, pieno di
bellezza e di ordine. La dottrina dei due principi viene introdotta dall’Alessandrino
senza alcuna prova o argomentazione, quasi che fosse ovvio che ab aeterno esistessero
appunto queste due cause. È importante osservare che prima di questo passo, non
troviamo, nel trattato De opificio mundi, alcuna informazione sulla creazione del
sostrato del quale si generano le cose del mondo. Infine aggiungiamo che la maniera, in
cui nel passo citato viene descritta la sostanza informe, è molto negativa. Infatti questa
sostanza non è solamente priva di qualità ma è priva di qualsiasi ordine, bellezza o
bontà348. Una tale descrizione non permette di pensare che l’a;poioj ouvsi,a possa essere
creata da Dio buono e bello. Questo non sarebbe conforme ai principi filosofici di
Filone. Infatti, il sommo Bene non può generare qualcosa che non abbia niente in
comune con il bene349.

346
Cfr. SVF I 493; II 300; 394; 1168 e altri.
347
I due passi citati, ossia quello di Platone e quello di Filone (Tim. 29 E – 30 A e Opif. 21-23),
sono dunque simili sia per quanto riguarda la sequenza dell’argomentazione, sia per l’idea espressa in
essi, ma non per il modo in cui viene concepito il sostrato preesistente. Filone utilizza, come abbiamo già
detto, il concetto stoico dell’a;poioj ouvsi,a. Platone, invece, parla del sostrato caotico definito spesso come
cw,ra. In esso il Demiurgo portò l’ordine e bellezza. Il termine cw,ra però indica sia ciò in cui le cose si
generano sia ciò di cui si generano. Cfr. Plat., Tim. 50 C – E; 52 A – 53 A.
348
Una simile descrizione molto negativa della materia, troviamo anche in un altro luogo delle
opere filoniane. Commentando il passo della scrittura del Gen. 1,31: «Dio vide tutto quello che aveva
fatto: ed ecco, era veramente bello», l’Alessandrino afferma: “Dio, però, non lodò la materia plasmata,
che è senza vita, disordinata e dissolubile e ancora di per sé corruttibile, senza regola e ineguale, ma lodò
la propria opera d’artista portata a termine con una potenza uguale ed omogenea, secondo una scienza
uniforme e identica. Così tutte le cose furono disposte in modo simile ed uguale fra di loro, secondo la
proporzione e conformemente al principio razionale dell’arte e della scienza”. Cfr. Phil, Her. 160. Oltre il
fatto della descrizione della materia con i termini negativi osserviamo che ciò che in questo passo è
considerato come opera di Dio non è la materia, ma l’ordinamento della materia. Infatti, poche righe
prima Filone afferma che i migliori artigiani sanno “costruire coi materiali più vili oggetti più pregevoli di
quelli costruiti con materiali preziosi, desiderando compensare con l’ausilio della loro abilità artistica la
povertà della materia”. Her. 158. L’atto creativo, dunque, è considerato dall’Alessandrino come l’opera
d’artista che riuscì a creare il mondo pieno di bellezza e di armonia dal materiale che era privo di
qualsiasi bellezza e ordine. Per questo, conclude Filone, dopo aver portato a compimento la sua opera,
Dio lodò non la materia, che probabilmente, come suggerisce il nostro testo, non era da lui creata, ma ciò
che riuscì a trarre da questo materiale così vile.
349
Che Dio sia l’autore e creatore solamente delle cose buone Filone lo afferma a proposito della
creazione dell’uomo. Infatti, l’uomo, secondo lui, fu creato con l’aiuto degli altri esseri (cioè delle
Potenze), perché è una creatura capace di fare sia il bene sia il male. Così, dunque, “Dio era ricorso alla
cooperazione di altri, quasi in veste di collaboratori, perché Dio, guida dell’universo, potesse riconoscersi
autore delle decisioni e delle azioni dell’uomo che fossero irreprensibili, mentre delle contrarie dovevano
essere responsabili altri esseri a lui soggetti”. Phil., Opif. 75. Cfr. anche Phil., Confus. 169. 179; Fug. 68-
148

L’Alessandrino esprime un concetto simile, ossia che la creazione del mondo è


avvenuta attraverso l’ordinamento e la divisione dell’a;poioj ouvsi,a, anche in altri luoghi
delle sue opere350. In nessuno di essi invece ci informa della creazione o della non-
creazione di questa sostanza informe. Troviamo, però, nei trattati filoniani alcuni passi
che potrebbero suggerire qualche conoscenza o intuizione del concetto della creatio ex
nihilo da parte dell’Alessandrino. Eccone uno:

Nessuno onora Dio quanto dovrebbe, ma solo quanto può, giacché, se è


vero che neppure ai genitori si possono restituire gli stessi benefici che si sono
ricevuti, e, in effetti, noi, a nostra volta, non potremmo ricambiarli del dono
della vita, come non potrebbe essere impossibile contraccambiare o lodare come
si dovrebbe Dio che dal nulla ha posto in essere l’intera realtà (pw/j ouvk
avdu,naton to.n qeo.n avmei,yasqai h' evpaine,sai kata. th.n avxi,an to.n ta. o[la
susthsa,menon evk mh. o;ntwnÈ)? Egli, infatti, ci ha fatto dono di ogni
meraviglia351.

Analizziamo il ragionamento svolto in questo passo:

1. Secondo Filone, dobbiamo lodare e ringraziare Dio per i suoi benefici, così
come facciamo rispetto ai nostri genitori ai quali dobbiamo tanto.
2. Possiamo ricambiare (avmei,yasqai) i genitori dei doni che abbiamo ricevuto
da loro, anche se non tutti. Infatti, non esiste una ricompensa proporzionale
al dono della vita. Dunque, non possiamo ringraziare in modo sufficiente e

69. Platone esprime un’idea simile, ovvero che Dio stesso non creò l’uomo ma lo fecero gli esseri divini
da lui creati. Cfr. Palt., Tim., 69 C sgg. Nel passo che stiamo analizzando sopra (quello del Opif. 21-23)
non si parla della creazione dell’uomo. Comunque, se la sola possibilità di fare il male da parte
dell’uomo, sia per Filone il motivo per il quale afferma che non è possibile che egli sia stato creato da Dio
stesso, possiamo ipotizzare la sessa cosa per quanto riguarda la materia. La descrizione di questa ultima è
fatta in maniera così negativa, ovvero la materia è priva di qualsiasi ordine, bellezza e bontà, che è
difficile credere che, secondo i principi filosofici di Filone, essa sia stata creata da Dio che “trascende
persino il bene e il bello”. Cfr. Phil., Opif. 8. In un altro luogo l’Alessandrino afferma che Dio plasmò
tutte le cose tramite le sue Potenze perché “non era lecito che l’Essere felice e beato toccasse la materia
illimitata e confusa.” Cfr. Phil., Spec. Leg. I 329. Su questo argomento cfr. anche G. May, Creatio…, pp.
10-12; D. Winston, Theodicy and Creation, in The Ancestral Philosophy…, pp. 128-134.
350
Cfr. Phil., Somn. II 45: “Dio ha dato forma alla sostanza dell’universo che era informe, le ha
impresso il marchio di cui era sprovvista, le ha dato una sembianza definita mentre prima era priva di
qualità (o` qeo.j avschma,tiston ou=san th.n tw/n pa,ntwn ouvsi,an evschma,tise kai. avtu,pwton evtu,pwse kai.
a;poion evmo,rfwse) e, una volta compiuta la sua opera, ha suggellato l’universo intero secondo
un’immagine e un’idea, che è il suo Logos”. In questo passo, per Filone la creazione consiste
nell’imprimere le forme nella materia informe. In un altro luogo invece l’Alessandrino idea la creazione
come la divisione della materia informe. Cfr. Phil., Her. 140: “Così, dunque, Dio, avendo affilato il suo
Logos divisore di tutte le cose, divideva la sostanza informe e indeterminata del tutto (th,n te a;morfon
kai. a;poion tw/n o[lwn ouvsi,an), i quattro elementi del cosmo da essa separati, e le piante e gli animali da
esse composti”. Cfr. anche Phil Mutat. 135.
351
Phil., Leg. All. III 10.
149

adeguato nemmeno i genitori. Lo facciamo, ma sempre in maniera non


proporzionata rispetto ai doni ricevuti.
3. Per quanto riguarda Dio, nessuno lo onora come dovrebbe. In realtà non
esiste nessun dono adeguato a ricompensare i suoi benefici, perché da lui
proviene tutto. Lo ringraziamo dunque in modo ancora molto meno
proporzionato che i nostri genitori. Infatti, a Dio non possiamo dare alcun
dono che egli stesso non abbia creato. Tuttavia, come nel caso dei genitori,
dovremmo lodare e ringraziare Dio anche se non siamo capaci di farlo
ricambiando i suoi doni.

È chiaro che l’argomento esaminato in questo passo non riguarda esattamente la


creazione ma il ringraziamento che gli uomini debbono a Dio. Filone spiega il motivo
per il quale questo ringraziamento è sempre insufficiente e non proporzionato. In tale
contesto appare la formula evk mh. o;ntwn. Con essa l’Alessandrino vuole dire che tutta la
realtà che ci circonda proviene da Dio. Infatti accanto ai genitori esistono diverse cose
che non provengono da loro. Per quanto riguarda Dio invece non esiste nulla che non
provenga da lui. Ma la sostanza informe non è un qualcosa che esiste accanto alle cose
create. Essa è il sostrato del creato. Difatti, durante l’atto creativo, come ci informa
Filone nel trattato De opificio mundi, l’a;poioj ouvsi,a ricevette le forme, subì la
trasformazione e diventò il mondo visibile. Le cose cominciano ad esistere dal momento
in cui essa viene trasformata da Dio. Dunque l’espressione ‘dal nulla’ (evk mh. o;ntwn)
può anche significare ‘dalla materia’. In realtà la sostanza informe non esisteva nel
modo in cui esiste dopo la creazione, ovvero dopo che abbia ricevuto le forme. Era
a;poioj, ossia senza alcuna qualità, inaccessibile alla percezione e inaccessibile alla
cognizione, non assomigliava ad alcuna delle cose create – era mh. o;n rispetto a ciò che
esiste ora. Del resto, per quanto riguarda il tema del ringraziamento, gli uomini non
possono usare l’a;poioj ouvsi,a come un dono, che non proviene da Dio, perché essa non
esiste accanto al creato, ma è il sostrato delle cose create. Anch’essa dunque rientra nei
doni che provengono da Dio. È inseparabile da essi. Dopo la creazione noi non abbiamo
accesso alla pura a;poioj ouvsi,a. Siamo circondati solamente dalle cose create da Dio e
solo di esse possiamo fare un dono di ringraziamento a lui.

Dopo tutte queste osservazioni concludiamo affermando che nel passo


sopraccitato Filone esprime l’idea che tutto ciò che esiste proviene da Dio. Questa idea
gli serve per lo svolgimento dell’argomentazione che riguarda il tema del
150

ringraziamento. Non esamina, invece, il problema della creazione o della non-creazione


del sostrato dal quale vengono generate le cose. Inoltre, sarebbe strano che proprio qui,
nel contesto che non riguarda propriamente il tema della creazione, l’Alessandrino
volesse includere l’idea così importante, qual è quella della creatio ex nihilo (che,
sottolineiamo, è in contraddizione con la filosofia platonica), visto che il problema non
è stato esaminato nel trattato De opificio mundi dedicato appunto all’argomento della
creazione del mondo. Quello, e non questo, sarebbe stato il luogo più adatto per
affrontare tale argomento. Là invece, come abbiamo visto, Filone segue le orme di
Platone, anzi cita il passo del Timeo che si trova nel contesto in cui il filosofo greco
parla, appunto, della creazione del mondo dal sostrato preesistente352.

Dobbiamo notare invece che, oltre quello citato sopra, esistono anche altri passi
nei quali Filone accenna alla ‘creazione dal nulla’353, ma tutti al di fuori del trattato De
354
opificio mundi , e tutti segnalano soltanto l’idea suddetta, ma non la sviluppano. Può

352
Abbiamo sottolineato che nel trattato De opificio mundi, non troviamo il concetto della
creatio ex nihilo. Gli studiosi, però, che sostengono la presenza nel pensiero di Filone di tale dottrina,
anche nel De opificio mundi trovano argomenti che confermano la loro interpretazione. Infatti, osservano
che nel passo in cui Filone descrive l’opera del giorno ‘uno’, si tratta anche della creazione dei quattro
elementi e dell’idea del vuoto. Cfr. Phil., Opif. 29. Questa ultima dovrebbe corrispondere a una delle
accezioni della materia del Timeo di Platone. Filone, dunque, dichiarerebbe la creazione del vuoto il quale
dovrebbe accogliere i quattro elementi. In questo modo, nel De opificio mundi si tratterebbe di due
concetti: 1) la creazione della materia – dunque il concetto della creatio ex nihilo; e 2) l’ordinamento
della materia informe – dunque il concetto della creazione demiurgica. Cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol.
I, pp. 300-312; G. Reale, Filone di Alessandria e la prima elaborazione…, pp. 258-277. Questa
interpretazione, però, presuppone che il mondo intelligibile sia stato creato fuori della mente divina,
ovvero che esista un altro Logos che non si identifichi più con la mente divina, ma sussista fuori di essa.
A nostro avviso, però, il fatto che Filone concepisca le idee come pensieri di Dio, e non come sussistenti
di per sé, è il punto centrale della critica che l’Alessandrino fa alla dottrina platonica. Il to,poj delle Idee è,
secondo lui, solo il Logos divino, e il Logos divino nient’altro è che la mente dell’‘architetto’ che sta
progettando il mondo. Cfr. Phil. Opif. 20. Inoltre Dio, prima e dopo la creazione – sottolinea
l’Alessandrino – era assolutamente solo, non c’era niente accanto a lui. Cfr. Phil., Leg. All. II 1-2. Filone
con tanta forza pone l’accento su questi concetti, perché, appunto, polemizza con la dottrina di Platone.
Al livello del divino, dunque, non ci sono, secondo lui, due principi della creazione: uno formale e uno
efficiente (idee e Demiurgo), come pensava Platone, perché Dio è l’uno e l’altro. Caso mai, ci sarebbero
due cause: quella attiva e quella passiva: Dio e la materia, dove solo Dio è il principio della creazione nel
senso vero e proprio. Con questo ultimo concetto Filone non polemizza. Le idee, dunque, si trovano
solamente nella mente divina e non accanto ad essa. Per questo non posiamo parlare della creazione ex
nihilo della materia, già nel giorno ‘uno’, perché tutto ciò che fu creato (o generato) in questo giorno fuori
del tempo, sussiste solo come idea della mente divina.
353
Cfr. Phil., Deus 119; Migrat. 183; Mutat. 46; Mos. II 100. 267; Spec. Leg. IV 187.
354
Nel De opificio mundi si trova un solo passo che contenga la formula suddetta. A nostro
parere, invece, esso comprova l’interpretazione presentata sopra, ovvero che l’espressione evk mh. o;ntwn
può essere intesa appunto come ‘dalla materia’. In questo passo Filone esamina la situazione ipotetica:
quale sarebbe il mondo se Dio avesse dato agli uomini i beni già pronti e se gli uomini non dovessero
svolgere il lavoro di agricoltura. Alla fine dice: “È chiaro che è più facile produrre senza l’arte
dell’agricoltura lo sviluppo di ciò che già esiste che non il portare il non-essere all’essere (dh/lon ga.r w`j
euvmare,steron tou/ ta. mh. o;nta eivj to. ei=nai paragagei/n to. th.n evk tw/n o;ntwn fora.n a;neu te,cnhj
gewrgikh/j evpidayileu,sasqai)”. Cfr. Phil., Opif. 81. L’espressione ta. mh. o;nta eivj to. ei=nai è riferita al
lavoro dell’agricoltore che con la fatica produce le cose dal non-essere all’essere. In realtà, l’agricoltore
non produce dal nulla assoluto, ovvero si serve della terra, dei semi, dell’acqua etc. Produce comunque le
151

darsi, dunque, che la formula creatio ex nihilo, come formula verbale però, ma non
come teoria elaborata, sia stata conosciuta nell’ambito alessandrino ai tempi di Filone.
Infatti, la Bibbia dei Settanta contiene il Secondo Libro dei Maccabei, scritto
direttamente in greco, e probabilmente, appunto, nell’ambito alessandrino, nel quale
troviamo la frase della madre dei sette fratelli che esorta suo figlio più giovane nel
modo seguente: «Figliolo, guarda il cielo e la terra e osserva tutte le cose che sono in
essi. Sappi che non da cose esistenti (ouvk evx o;ntwn) Dio le ha fatte e che anche il genere
umano è stato fatto allo stesso modo»355. La formula usata in questa frase, a differenza
di quella adoperata da Filone, è ouvk evx o;ntwn e non evk mh. o;ntwn. A questo punto
osserviamo che in greco esistono due tipi di negazione. La parola ouv dunque riguarda la
negazione oggettiva, e serve a negare una realtà, mentre la parola mh, è relativa alla
negazione soggettiva, e serve a negare le possibilità, opinioni, desideri etc.356. Inoltre
l’uso del mh, accompagnato da un sostantivo non deve necessariamente significare la
non-esistenza assoluta di ciò che indica il sostantivo, ma la mancanza di una certa
caratteristica relativa a un’entità esistente357. Per di più, mh, associato ad un sostantivo o
ad un participio può indicare anche una realtà esistente, diversa però da quella che è
stata negata. Proprio in questo modo comprendeva l’espressione mh. o'n Platone358.

A prescindere dalla complessa problematica di negazione in Platone, non


sbagliamo se, in modo semplificato, affermiamo che per il filosofo greco sono le idee il

cose che non esistevano prima: il grano, la frutta, la verdura etc. Constatiamo, dunque, che l’espressione
ta. mh. o;nta eivj to. ei=nai significa portare all’esistenza ciò che prima non esisteva servendosi del sostrato
preesistente.
355
2 Mac. 7,28. Dobbiamo, però, osservare che in un altro libro biblico, anche quello scritto
direttamente in greco, e probabilmente altresì nell’ambito alessandrino, ovvero nel Libro della Sapienza,
troviamo un’affermazione opposta. Infatti, leggiamo in esso che la mano onnipotente di Dio “aveva
creato il mondo da materia informe (evx avmo,rfou u[lhj)”. Cfr. Sap. 11,17. Vediamo, dunque, che
nell’ambito del giudaismo ellenistico potevano coesistere ambedue le dottrine riguardo alla creazione. A
questo proposito G. May osserva: “It is true that hellenistic Jews could talk of a creation by God ‘out of
nothing’, but the formula was demonstrably not meant in an ontological sense and in no way excluded the
acceptance of an eternal material for the world.” Cfr. G. May, Creatio…, p. XI.
356
Cfr. F. Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino 2004, pp. 1512 sgg. e 1354 sgg.
357
Ad esempio l’espressione h` mh. evmpeiri,a significa ‘la mancanza dell’esperienza’, ma essa non
nega l’esistenza dell’esperienza in generale. Inoltre la ‘la mancanza dell’esperienza’ è relativa sempre a
un essere esistente, un uomo che è privo di una certa caratteristica, in questo caso dell’esperienza.
358
Cfr. Plat., Soph. 241 D: “Il non-essere in certo qual modo è (to. mh. o'n w`j e;sti kata, ti)”. In
un altro luogo Platone afferma che il non-essere esiste come qualcosa di diverso dall’essere e che ne
partecipano tutti gli esseri nelle loro relazioni tra gli altri esseri. Ogni essere è dunque in qualche modo
non-essere rispetto all’altro essere. Cfr. Plat., Soph. 258 E. Quando invece Platone vuole negare esistenza
di un essere nel senso assoluto, utilizza la negazione ouvk o;n. Cfr. Plat., Polit. 258 E. In questo passo
Platone parla del lavoro dei costruttori e dei manifattori che producono le entità che prima non esistevano
(sw,mata pro,teron ouvk o;nta). Non è questa la sede per esaminare fino in fondo il problema cui Platone
dedicò il dialogo intero, cioè il Sofista, ma vale la pena sottolineare ancora un’altra volta che la formula
mh. o'n non indica la negazione assoluta dell’esistenza, ma designa qualcosa che è diverso dal vero essere.
152

vero essere. Esse sono ciò che veramente è, sono essere in sé. Il mondo corporeo invece
è nel processo del divenire. Partecipa dell’essere ma non è l’essere in sé 359. La cw,ra, in
seguito, sarebbe qualcosa privo dell’essere. Infatti, prima della creazione essa non
partecipa ancora del vero essere che sono le idee. È appunto quasi il ‘non-essere’. Nella
gerarchia ontologica di Platone, la cw,ra, in quanto sostrato caotico, viene situata in
estrema opposizione all’essere vero360. Troviamo la stessa struttura della realtà in
Filone. Dio viene da lui spesso definito semplicemente come to. o;n, ovvero come l’Ente.
Il mondo corporeo riceve il suo essere da Dio ed è mantenuto nell’esistenza dall’Essere
divino. L’a;poioj ouvsi,a può essere definita come ‘non-essere’ perché è priva di qualsiasi
forma, ordine, bontà e bellezza divina. Prima della creazione del mondo Dio non
comunica il suo essere ad essa. In questo senso l’espressione “Dio dal mh. o;ntwn ha
posto in essere l’intera realtà” può significare anche che lo ha fatto “dalla materia
informe” che è to. mh. o'n rispetto al to. o;n che, in senso proprio, è solamente Dio361.

La situazione si complica, perché nelle opere filoniane troviamo ancora un altro


passo che esplicitamente afferma che Dio non è solamente un demiurgo, ma è il creatore
del mondo:

Come il sole quando si leva rende visibili i corpi prima immersi


nell’oscurità, così anche Dio quando generò tutte le cose, non solo le scoperse
alla nostra vista, ma creò ciò che prima non esisteva (a] pro,teron ouvk h=n(

359
Cfr. Plat., Tim. 27 D – 28 A: “Secondo la mia opinione, in primo luogo bisogna distinguere le
cose che seguono. Che cos’è ciò che è sempre e non ha generazione (ti, to. o'n avei,( ge,nesin de. ouvk e;con)?
E che cos’è ciò che si genera perennemente e non è mai essere (ti, to. gigno,menon me.n avei,( o'n de.
ouvde,pote)?”. La prima cosa, secondo Platone, sono ovviamente le idee, la seconda è il mondo, che come
vediamo, non è mai essere.
360
Che la dottrina platonica in questo modo sia stata interpretata anche nall’anicchità, lo
comprova un passo di Clemente Alessandrino. L’autore cristiano, infatti, afferma che la materia, definita
dai filosofi greci come “senza qualità e senza forma (u[lhn a;poion kai. avschma,tiston), da Platone, più
audacemente è detta «non essere» (mh. o'n pro.j tou/ Pla,twnoj)”. Clem., Strom. V 89,6-7. Cfr. Plat., Resp.
477 A; Tim. 49 A.
361
Che una tale interpretazione sia giustificabile, lo conferma lo stesso Filone dicendo a
proposito dell’Essere che veramente è: “Dio è il solo che resti saldo nell’essere. «Io sono colui che è» fa
comprendere che le realtà a lui inferiori non sono, dal punto di vista ontologico, veri e propri esseri, bensì
sono considerate sussistenti dall’opinione corrente”. Phil., Deter. 160. Gli studiosi che sostengono che
l’espressione evk mh. o;ntwn possa essere intesa come ‘dalla materia preesistente’ sono: E. Zeller, R.
Mondolfo, La filosofia…, pp. 534-536; H. Chadwick, Early Christian Thought and the Classical
Tradition, Oxford 1966, pp. 46-47. Dissente da loro G. May che, tuttavia, altresì non sostiene che in
Filone si trovi già il concetto della creatio ex nihilo: “When Philo speaks of a creation by God ‘out of
non-being’, this is not to be interpreted either as creatio ex nihilo or as formation of the ‘non-being’
matter. This alternative does not present itself to him. He will simply say that the world, which hitherto
did not exist, came into being through God’s creative act, which the Platonists could also teach, and he
seems to take for granted the eternity of mater”. Cfr. G. May, Creatio…, p. 18.
153

evpoi,hsen), non solo come un demiurgo, ma essendo lui stesso il creatore (ouv
dhmiourgo.j mo,non avlla. kai. kti,sthj auvto.j w;n)362.

Solo in questo passo Filone mette in evidenza la differenza tra il demiurgo e il


creatore. Prima utilizzava indifferentemente ambedue i termini. Anche i verbi come
poie,w, kti,zw oppure dhmiourge,w venivano adoperati da lui come sinonimi. È possibile
che l’Alessandrino col tempo, mentre componeva i suoi scritti, abbia esaminato e
ripensato la dottrina della creatio ex nihilo e alla fine l’abbia presa come sua e l’abbia
contrapposta alla dottrina platonica? Ma neppure nell’opera dalla quale proviene questo
passo, ovvero De somnis, troviamo un’elaborazione o una spiegazione di questo
concetto. Inoltre, sempre nel De somnis, l’Alessandrino nomina Dio come dhmiourgo,j
ancora un paio di volte363. Per gli studiosi, invece, che sostengono la presenza in Filone
della dottrina della creatio ex nihilo, la distinzione tra il dhmiourgo,j e il kti,sthj, dal
passo del Somn. I 76, è una prova evidente a favore di tale dottrina364. Quale altra
potrebbe esservi – domandano – la differenza tra l’azione del demiurgo e del creatore,
se non quella del creare dal nulla e produrre dal sostrato preesistente?365. Noi

362
Phil., Somn. I 76.
363
Cfr. Phil., Somn. I 204; II 27; II 220.
364
Cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, pp. 300 sgg.; G. Reale, Storia…, vol. 7, pp. 53-54; R.
Radice, Platonismo…, pp. 369 sgg.
365
Cfr. M. Heinze, Die Lehre vom Logos in der griechischen Philosophie, Aalen 1961, nota 1, p.
210; G. Reale, Filone di Alessandria e la prima elaborazione…, pp. 249. Ma, come possiamo spiegare il
fatto che, non solo nel De Somnis, ma in tutte le opere filoniane le parole: kti,sthj, dhmiourgo,j, tecni,thj e
poihth,j vengono adoperate in modo alterno nei confronti di Dio? Anzi, in tutti i testi dell’Alessandrino, le
parole dhmiourgo,j, tecni,thj e poihth,j appaiono centinaia di volte, mentre la parola kti,sthj viene
adoperata molto raramente, perché solamente 6 volte, e solamente nel caso del Somn. I 76 viene indicata
qualche differenza tra il dhmiourgo,j e il kti,sthj. Non sappiamo però precisamente in che cosa, secondo
Filone, consiste questa differenza perché egli stesso non ci lascia nessuna spiegazione a questo proposito.
Anche D. T. Runia nota che i termini: dhmiourgo,j, tecni,thj e poihth,j sono gli appellativi di Dio usati più
frequentemente da Filone e, in opposizione agli studiosi che si concentrano sulla differenza evidenziata
solo nel passo del Somn. I 76, fa un’altra osservazione: “To describe God as dhmiourgo,j is not merely the
appropriation of a traditional epithet. It tells something important about the nature of his creative
activity”. Cfr. D. T. Runia, Philo of Alexandria and the ‘Timaeus’…, pp. 421-422. Dall’altra parte ancora,
G. Reale, per confermare la sua tesi, dice che “il sostantivo kti,sthj e il relativo verbo kti,zein sono
termini biblici indicanti la specifica attività creatrice di Dio”. Cfr. G. Reale, Filone di Alessandria e la
prima elaborazione…, nota 7, pp. 249. Allo studioso sfugge invece il fatto che nel passo della Sap. 11,17,
al quale abbiamo accennato sopra, il verbo kti,zein è utilizzato, appunto, per indicare la creazione
demiurgica, ovvero evx avmo,rfou u[lhj. Il suo argomento, inoltre, non può essere forte anche perché, sia
nella Bibbia sia nei Padri della Chiesa vissuti prima della controversia ariana, relativamente al concetto
della creazione, troviamo diversi verbi (gi,gnomai, poie,w, kti,zw o genna,w) che spesso venivano utilizzati
come sinonimi. Non possiamo, dunque, parlare di una chiara distinzione terminologica già all’epoca di
Filone, il che, del resto, si nota anche nelle opere di Filone stesso.
Se l’Alessandrino avesse voluto sottolineare la differenza della quale parlano gli studiosi
suddetti, avrebbe dovuto essere più coerente nell’uso dei termini relativi a Dio, questa, infatti, sarebbe
stata una scoperta enorme che contrapporrebbe la sua dottrina a quella platonica. Inoltre avrebbe dovuto
spiegare questa differenza non solo nel De Somnis, dove in realtà non troviamo nessuna spiegazione
relativa a questo argomento, ma anche nel trattato De opificio mundi. Là, invece, l’unica differenza che
troviamo tra il concetto del demiurgo di Platone e il creatore filoniano, anche se la parola kti,sthj non
154

proponiamo un’altra ipotesi interpretativa di questo passo. La contrapposizione tra il


demiurgo e il creatore si trova nel contesto della metafora del sole. Esso rende visibili
tutte le cose così come Dio le rende conoscibili all’intelletto umano. L’Alessandrino,
però, dice che Dio non solo illumina, come fa il sole, ma anche crea il mondo. In
Platone le idee hanno anche funzione epistemologica e altresì l’idea del Bene viene
comparata con il sole366. Ma questa ultima non crea il mondo. È il Demiurgo a fissare il
suo sguardo sulle idee367 e a formare il mondo corporeo dal sostrato preesistente.
Sappiamo ormai che secondo Filone il mondo delle idee sussiste nella mente divina, e il
commento al primo giorno dell’opera della creazione descrive il formarsi di questo
mondo intelligibile368. Si può osservare, dunque, la differenza tra il concetto della
creazione filoniano e quello platonico. Infatti, l’opera del Demiurgo di Platone si limita
ad imprimere le immagini delle idee nel sostrato caotico, quella del creatore di Filone è
molto più vasta perché anche il progetto intelligibile del mondo viene generato da lui e
ontologicamente dipende da lui. Per questo l’Alessandrino può dire che Dio è ouv
dhmiourgo.j mo,non avlla. kai. kti,sthj. Non solo segue il progetto, ma lo crea369.

Inoltre nel passo del Her. 130-200, che abbiamo analizzato prima370, il Logos
impegnato nell’azione creatrice divide tutta la sostanza del universo in parti. All’inizio
distingue dal sostrato preesistente i quattro elementi371, poi li ordina, ne forma i parti
della terra, le piante, gli animali etc., e così costruisce il mondo visibile. Troviamo una
simile descrizione anche nel Timeo di Platone a proposito del Demiurgo372. Possiamo
dire, dunque, che Filone attribuisce la funzione demiurgica al Logos non a Dio. Il Logos
è il demiurgo di Filone. Dio, ovvero il Nous dell’universo, rimane sempre trascendente
rispetto al creato. Egli invece crea e conserva nella propria mente il piano intelligibile
del mondo corporeo. Sappiamo ormai che Dio e il suo Logos non sono, secondo Filone,
le entità distinte. L’una viene generata dall’altra. Per di più, il Logos, nel suo essere,

appare nel De opificio mundi, consiste soprattutto nel loro rapporto rispetto alle idee. Il Demiurgo
platonico, nello svolgere la sua attività, dipende dalle idee che sussistono di per sé. Il creatore filoniano
genera le idee nella propria mente. Esse, infatti, essendo il piano intelligibile del mondo corporeo,
costituiscono il primo stadio della creazione. Ne parleremo ancora più avanti.
366
Cfr. Plat., Resp. VI 508 A – 509 B.
367
Cfr. Plat., Tim. 28 A – 29 A.
368
Cfr. Phil., Opif. 15 sgg.
369
Cfr. H. F. Weiss, Untersuchungen…, pp. 55-58; G. May, Creatio…, pp. 12.
370
Cfr. il paragrafo 1.3: Il Logos: tra la trascendenza e l’immanenza ontologica.
371
Cfr. Phil., Her. 134.
372
Cfr. Plat., Tim. 50 B – 51 B; 53 A sgg. La descrizione della produzione dei quattro elementi,
delle parti del mondo, delle parti del corpo umano etc. è molto lunga e occupa quasi la metà del dialogo di
Platone. La descrizione filoniana è molto più breve, ma contiene elementi simili. Ad esempio, sia Platone
sia Filone parlano della produzione del pesante e del leggero, del caldo e del freddo etc. Una tale dottrina,
con tutti i suoi particolari, non può essere sicuramente d’origine biblica.
155

dipende sempre da Dio che lo ha generato. Per questo, nella stessa opera l’Alessandrino
scrive: “Così, dunque, Dio, avendo affilato il suo Logos divisore di tutte le cose
divideva la sostanza informe e indeterminata del tutto, i quattro elementi del cosmo da
essa separati, e le piante e gli animali da esse composti”373. Poiché, dunque, il Logos è
strettamente legato all’essenza divina, ovvero è stato generato da essa e dipende da essa
anche mentre crea il mondo, Filone può attribuire la funzione demiurgica anche a Dio
stesso. Ma egli non è solo il demiurgo, anzi è detto dhmiourgo,j solamente in modo
improprio, ma è anche il creatore. Infatti, egli stesso decide di creare il mondo, da lui
proviene il progetto intelligibile della creazione ed egli stesso ordina al suo Logos
divisore di impegnarsi nell’atto creativo. In questo modo viene evidenziata la differenza
tra il demiurgo e il creatore. Per quanto riguarda l’a;poioj ouvsi,a, invece, rimane valido
tutto ciò che abbiamo detto prima. Nel passo sopra citato, e nel contesto del quale
proviene, Filone non si concentra sull’argomento della creazione o non-creazione del
sostrato preesistente.

Tutte le analisi presentate in questo paragrafo tendevano all’affermazione che in


Filone non troviamo ancora pronto il concetto della creatio ex nihilo. Il motivo di tale
conclusione è dovuto alla mancanza dei testi che parlino in extenso di questo
argomento, ovvero che spieghino che cosa intenda l’Alessandrino sotto la formula evk mh.
o;ntwn. Al contrario troviamo nelle opere filoniane descrizioni ampie che riguardano la
creazione del mondo dal sostrato che appunto già esiste, ancora prima dell’atto creativo.
Per quanto riguarda invece la creazione di questo sostrato non abbiamo nessuna
informazione374. Esistono solamente pochissimi passi che adoperano la formula evk mh.
o;ntwn che, come abbiamo indicato, può essere intesa anche come ‘dalla materia’. Non
possiamo invece affermare con certezza che Filone non conosca la dottrina della creatio
ex nihilo, perché non troviamo nelle sue opere neppure una chiara affermazione che

373
Phil., Her. 140.
374
In realtà ci sono alcuni passi, pervenutici in traduzione armena, nei quali sembra che Filone
parli della creazione della materia. Cfr. Phil., Prov. I 6-8; II 50; De Deo 7-8. La valutazione di questi testi,
però, pone molte difficoltà. Cfr. D. T. Runia, Philo of Alexandria and the ‘Timaeus’…, pp. 64, 396 sgg.
Inoltre possiamo trovare in essi le affermazioni che suggeriscono la tesi contraria, ovvero che Mosè e
Platone erano concordi nell’accettare la preesistenza del sostrato materiale. Cfr. Prov. I 22. Cfr. anche G.
May, Creatio…, pp. 13-15. Nonostante questo, alcuni studiosi, sulla base di questi passi, sostengono che
la tesi relativa alla creazione della materia in Filone sia ben fondata. Cfr. G. Reale, R. Radice, La
genesi…, pp. LVIII-LXII. Non è questa la sede per analizzare tutte le posizioni degli studiosi che trattano
di tale argomento della trasmissione e della credibilità della traduzione armena dei testi filoniani. Per
questo motivo rimandiamo solamente allo status questionis presentato da D. T. Runia, Philo of
Alexandria and the ‘Timaeus’…, pp. 148-149. Nella stessa opera lo studioso riporta altresì una nuova
traduzione del testo aporetico (del Prov. I 6-8) e giunge alla conclusione che in Filone non troviamo il
concetto della creazione della materia e che a questo proposito l’Alessandrino concorda con Platone. Cfr.
Ibid., pp. 150 sgg.
156

l’a;poioj ouvsi,a esista ab aeterno375, ovvero che non sia stata creata da Dio o dalle sue
Potenze376. Nonostante questo vediamo che l’Alessandrino attraverso le formule
suddette e attraverso la sottolineatura che Dio non è solamente demiurgo, come pensava
Platone, ma è anche creatore, mostra la differenza che intercorre tra il Dio della Bibbia e
il Dio dei filosofi. Il primo supera anche il mondo intelligibile che viene generato nella
sua mente e che ontologicamente dipende da lui377.

Per quanto riguarda l’argomento dell’escatologia ci troviamo in una situazione


simile a quella relativa al tema della creatio ex nihilo. Infatti a questo proposito Filone
ci ha lasciato pochissime notizie e spesso contraddittorie. Notiamo all’inizio che
l’Alessandrino nella sua escatologia si allontana dalla dottrina di Platone. Non sostiene
che tutte le anime siano immortali, come pensava il filosofo greco, ma solamente quelle

375
Secondo alcuni studiosi, in questo caso, la formula precedette il pensiero. Cfr. G. May,
Creatio…, pp. 21.
376
Secondo B. Mondin è difficile chiarire il pensiero dell’Alessandrino per quanto riguarda la
questione della creazione o della non-creazione della materia perché Filone stesso ha fatto di tutto per non
esprimere la sua posizione. Lo studioso trova il motivo di un tale atteggiamento dell’Alessandrino nel
carattere apologetico dell’opera filoniana. Infatti, “questa, mira a difendere la razionalità della Sacra
Scrittura di fronte ai pagani dimostrando che tutto quello che hanno insegnato i filosofi greci, lo avevano
già insegnato i Profeti. I filosofi hanno insegnato che c’è un Logos, un mondo ideale, un uomo ideale?
Tutto questo lo si trova anche nella Scrittura. Riguardo alla materia i filosofi hanno insegnato che è
increata ed eterna e che è servito come strumento al demiurgo o al Logos? Perseguendo il suo intento
apologetico, Filone dimostra che anche la Scrittura parla di una materia, che ha avuto funzione di
strumento nella creazione delle cose. Ma non va oltre. Eppure egli sa che la materia di cui parla la Bibbia
non è eterna ed increata, ma creata e limitata nel tempo”. Cfr. B. Mondin, L’universo…, p. 376. Una
simile opinione esprime anche R. Radice, che, però, sostiene come Filone possa accettare sia il concetto
della creatio ex nihilo sia la quello della creatio demiurgica. Prima dunque Dio avrebbe creato la materia
e in seguito il mondo, appunto dal sostrato preesistente creato. Ma lo stesso studioso osserva anche che
l’Alessandrino non vuole spiegare questo argomento fino in fondo. “Tacendo di volta in volta sulle
conseguenze filosofiche delle sue scelte, egli si è mosso costantemente in una dimensione etica ed
esegetica, rispetto alla quale il livello teologico è in una posizione subordinata”. Cfr. R. Radice,
Commentario…, p. 236.
377
Con queste analisi abbiamo tentato di mostrare che, anche se in Filone non si trova ancora
un’elaborazione della dottrina della creatio ex nihilo, il fatto della preesistenza della materia non
indebolisce il concetto della trascendenza di Dio. L’Alessandrino concepisce Dio sempre come
assolutamente trascendente. Anzi, qualche volta sottolinea la differenza che intercorre tra il Dio della
Bibbia e il Dio dei filosofi, considerando il primo come ‘più trascendente’. Non lo fa soltanto quando dice
che “Dio non è solo il demiurgo ma è anche il creatore” (Somn. I 76), ma altresì quando nel Opif. 8
afferma che il Nous dell’universo “trascende la virtù, trascende il sapere, trascende persino il bene e il
bello”. Nel secondo paragrafo di questo capitolo abbiamo mostrato che in questo passo Filone si riferisce
alle dottrine filosofiche dei suoi predecessori greci e sottolinea che il Nous trascende tutte le entità
trascendenti delle quali i filosofi greci abbiano mai parlato. Infatti Dio trascende perfino l’idea del Bene e
del Bello che già in Platone è stata definita come evpe,keina th/j ouvsi,aj (Resp. VI 509 B). Il fatto della
preesistenza del materia non è ancora per il nostro filosofo il problema perché nell’epoca che lo
precedeva non ci fu nessuna discussione filosofica che avesse affrontato questo argomento. La materia,
pertanto, non è considerata da Filone come un principio al pari di Dio trascendente.
A conclusioni simili giunge H. F. Weiss che, rifiutando la presenza della dottrina della creatio ex
nihilo nelle opere filoniane, osserva che l’Alessandrino non pensa mai della materia come ad un principio
accanto a Dio. L’unico e vero principio della creazione è sempre per lui solo Dio. Dio è l’essere ed è
l’assolutamente onnipotente, la materia invece è quasi il non-essere ed è l’assolutamente impotente. Il
sostrato della creazione non può essere dunque concepito come il principio al pari di questo che è Dio
stesso. Cfr. H. F. Weiss, Untersuchungen…, pp. 19-74.
157

dei sapienti, che attraverso la vita virtuosa hanno acquisito l’immortalità378. Non ci
occupiamo qui delle anime dei malvagi e degli stolti che probabilmente muoiono o si
sciolgono a causa dei danni che il vizio fa in esse379, perché questo problema non rientra
nel nostro tema. Ciò che ci interessa è il luogo di permanenza delle anime dei santi e dei
sapienti. Esse si uniscono a Dio trascendente o sussistono in un altro luogo? In uno dei
passi Filone, interpretando la parola di Dio rivolta ad Abramo: «Tu te ne andrai dai tuoi
padri, dopo aver vissuto in pace una bella vecchiaia»380, così definisce la sede di queste
anime:

Significativa è l’affermazione che l’uomo buono non muore, ma “va


via”, affinché risulti che quel genere di anima che si sia perfettamente purificata
è inestinguibile e immortale, e destinato ad un viaggio da qui fino in cielo
(evnqe,nde pro.j ouvrano.n), e non alla dissoluzione e alla corruzione che la morte
sembra condurre con sé. Dopo “tu te ne andrai” è scritto “dai tuoi padri” (pro.j
tou.j pate,raj sou). Ora, vale la pena di ricercare chi siano questi padri381.

In seguito l’Alessandrino enumera diversi possibili significati dell’espressione:


“pro.j tou.j pate,raj sou”. In questo elenco troviamo affermazioni che provengono da
diverse dottrine filosofiche. Con alcune di esse Filone è d’accordo dalle altre dissente.
Così, dunque, “i padri” sicuramente non possono significare gli antenati di Abramo
sepolti nel paese dei Caldei382. Infatti, Dio ordinò ad Abramo di abbandonare la terra dei
parenti che significava l’invito all’abbandono della dimensione corporea. I Caldei

378
Inoltre, anche questo, a differenza della dottrina platonica, l’anima, secondo Filone, non
preesisteva prima della creazione del mondo ma è stata creata da Dio. Cfr. Phil., Confus. 179; Fug. 68-69.
Non ritorna dunque là dove era prima. Ma dove? Lo esamineremo più avanti.
379
Cfr. Phil., Legat. 91; Leg. All. I 105-108; II 77; Qu. in Gen. I 16; I 51; III 11; Poster. 39;
Deter. 168-169. Per quanto riguarda il destino delle anime dopo la morte del corpo, secondo Filone,
esistono probabilmente due possibilità: le anime che durante la vita terrena si legano troppo ai beni
corporei, che di natura sono mutevoli, diventano mutevoli come essi, perdono la stabilità e periscono;
invece le anime che durante la vita terrena si abituano ad avere rapporto con le realtà intelligibili, ad esse
si assomigliano e diventano immutabili e vivono in eterno. Cfr. D. Winston, Logos and Mystical
Theology…, pp. 38 sgg. Cfr. anche H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, pp. 395 sgg.; A. Maddalena, Filone…,
pp. 292-294, 299; G. Reale, L’itinerario a Dio…, p. 31.
Per quanto riguarda le anime di malvagi abbiamo usato l’avverbio “probabilmente”, perché su
questo argomento l’Alessandrino non è del tutto chiaro. Infatti, D. Zeller suggerisce che ‘la morte
dell’anima’ in Filone deve essere intesa solo in senso metaforico. Cfr. D. Zeller, The Life and the Death
of the Soul in Philo of Alexandria. The Use and the Origin of the Metaphor, SPhA 7 (1995), pp. 19-55.
Infatti, tra le opere filoniane troviamo anche i passi che parlano della punizione eterna delle anime dei
malvagi. Cfr. Phil., Congr. 57; Her. 45; Somn. I 151. Cfr. anche L. L. Grabbe, Eschatology in Philo and
Josephus, in Judaism in Late Antiquity, a cura di A. J. Avery-Peck, J. Neusner, vol. III, part IV: Death,
Life-after-death, Resurrection and the World-to-come in the Judaisms of Antiquity, Leiden – Boston
2001, pp. 168-169.
380
Gen. 15,15.
381
Phil., Her. 276-277.
382
Per analisi che segue cfr. Phil., Her. 277-283.
158

invece, secondo l’Alessandrino, sono il simbolo del popolo che non vede niente al di là
di ciò che è corporeo e che fa del mondo Dio stesso383. In seguito, come significato
della parola “i padri”, Filone indica il sole, la luna e tutti gli altri astri. Poi, “le idee
paradigmi, ossia quei modelli intelligibili e invisibili di queste realtà sensibili e visibili,
presso i quali trasmigra l’intelligenza del sapiente”384. “I padri” possono essere
considerati anche i quattro elementi dai quali ha tratto origine l’universo, ovvero: la
terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. Questi invece, come osserva l’Alessandrino sono “i
padri” solamente per le cose corporee. Infatti ogni corpo, dopo la morte, si scioglie in
questi quattro elementi, “ma la stirpe dell’anima, intelligente e celeste, farà ritorno
all’etere più puro, come ad un padre suo. Poniamo, dunque, che ci sia, secondo
l’opinione degli antichi, una quinta sostanza dotata esclusivamente di moto circolare,
superiore per valore alle altre quattro, e dalla quale sembra che abbiano tratto origine gli
astri e tutto il cielo: allora, per conseguenza, bisogna concludere che anche l’anima
umana è un frammento di essa”385. Con questa affermazione Filone conclude le sue
analisi. Non è questa la sede di esplorare il tema per quale motivo l’anima del sapiente
deve ritornare proprio all’etere386, ma vediamo che tra le possibilità enumerate sopra
non è stato incluso Dio come dimora delle anime.

Vale la pena osservare che, anche se, alla fine della sua analisi, l’Alessandrino
parla dell’etere, le idee paradigmi non sono state escluse come una possibilità
interpretativa della parola “padri”. Infatti Filone ha delle obiezioni riguardo ai quattro
elementi e agli antenati o parenti di Abramo sepolti nella terra dei Caldei. A proposito
delle idee dice ciò che ha ripetuto molte volte, ovvero che “presso esse trasmigra

383
Cfr. Phil., Migrat. 177-179; Her. 96-97.
384
Phil., Her. 280.
385
Ibid. 283.
386
A questo proposito vale la pena riportare l’opinione di J. Dillon che suggerisce che in Filone
non troviamo soltanto una semplice divisione tra il swmatiko,j e l’avsw,matoj. Secondo lo studioso
americano anche ciò che è invisibile e incorporeo, può essere composto dallo pneuma o dal fuoco puro
che non è del tutto swmatiko,j, nel modo in cui sono corporei gli esseri terreni, ma non è neppure del tutto
avsw,matoj. Tra questo tipo di esseri, oltre gli astri e gli angeli, J. Dillon enumera anche il Logos
immanente e l’intelletto individuale. Alla fine del suo articolo conclude: “This can be seen as e piece of
muddle-headedness, and as e compromise with Stoic materialism, but it can also – more profitably in my
view – be seen as an indication that the boundary between the corporeal and the incorporeal was not
drawn by many ancient thinkers where we might think it should be drown”. Cfr. J. Dillon, Asômatos:
Nuances of Incorporeality in Philo, in Philon d’Alexandrie et le langsge de la philosophie, a cura di C.
Lévy, Turnhout 1998, p. 110. Un’altra opinione presenta D. Winston che sostiene che “the description of
the human mind as ethereal pneuma is to be understood only metaphorically and is not meant to imply
that it is a corporeal substance in the stoic manner”. Cfr. D. Winston, Logos and Mystical Theology…, p.
29.
159

l’intelligenza del sapiente” anche durante la vita terrena387. Infatti, se si prende in


considerazione la dottrina etica ed epistemologica dell’Alessandrino, della quale
abbiamo parlato nei paragrafi precedenti, il vivere appunto nel mondo intelligibile,
anche dopo la morte del corpo, sarebbe la conseguenza più logica per coloro che sulla
terra si abituavano ad avere rapporto con il mondo intelligibile, ovvero sarebbe il
coronamento duraturo del cammino morale e intellettuale dei sapienti388.
L’affermazione che il ko,smoj nohto,j può essere la dimora escatologica delle anime la
troviamo anche in un altro luogo nel quale l’Alessandrino parla del Logos come di
un’abitazione delle anime:

Ora Mosè eleva questa preghiera: introduci noi come fossimo fanciulli
che cominciano ora ad imparare, muovendo dai primi elementi e dai fondamenti
della sapienza, e non lasciarci ignoranti di questi principi, ma piantaci nel Logos
supremo e celeste (evn u`yhlw/| kai. ouvrani,w| lo,gw| katafu,teuson). E questa
eredità è un’abitazione davvero preparata e pronta all’uso, una dimora in tutto
adatta, “che hai allestito come tempio”. Si dà il caso che Tu sia, o Padrone,
artefice di cose buone e sante, come, al contrario, il mondo del divenire,
soggetto a corruzione, è causa di realtà malvagie e dissacrate. Regna, dunque, in
eterno e all’infinito sull’anima del supplice (basi,leue dh. to.n a;peiron aivw/na
yuch/j th/j i`ke,tidoj) e non lasciarla neppure un momento senza la tua guida,

387
Nel passo del Her. 276-283, del quale frammento abbiamo citato sopra, B. Mondin distingue i
tre tipi dell’interpretazione allegorica. Il concetto dei ‘padri’, dunque, inteso come gli antenati di Abramo,
è l’esempio dell’interpretazione antropologica; inteso come ‘gli astri’ fa parte dell’interpretazione
cosmologica, invece inteso come ‘le idee’ è risultato dell’interpretazione spirituale. Sappiamo ormai che,
in Filone, diversi tipi dell’interpretazione allegorica non si escludono. Alcuni sensi del testo biblico,
invece, sono più privilegiati degli altri. Infatti non tutti sono in grado di arrivare al senso spirituale o
morale della Scrittura. Molti invece giungono, secondo Filone, solo al senso cosmologico o quello
antropologico. Cfr. B. Mondin, Filone e Clemente…, pp. 18-19. Nel caso del passo citato sopra, Filone
accenna all’interpretazione antropologica, ma non concorda con essa, ovvero non è la sua opinione che in
questo caso ‘i padri’ possano essere gli antenati di Abramo sepolti nella terra dei Caldei. A proposito
dell’interpretazione spirituale l’Alessandrino non esprime la sua opinione, ma se è vero che appunto
questo tipo d’interpretazione è quello privilegiato, le idee e non gli astri dovrebbero essere, secondo lui, la
dimora delle anime incorporee.
388
H. A. Wolfson, commentando il passo del Her. 277-283, individua le dottrine dei filosofi
greci alle quali Filone avrebbe potuto riferirsi riportando diverse opinioni per quanto riguarda
l’interpretazione dell’espressione ‘dai tuoi padri’. Così, dunque, l’opinione secondo cui l’anima dei
sapienti, dopo la morte del corpo, vive in mezzo agli astri è quella di Crisippo. La dottrina dell’etere,
inteso come la quinta sostanza, è stata elaborata da Aristotele. Per quanto riguarda la dottrina dei quattro
elementi, alcuni stoici hanno ritenuto che le anime dopo la morte ritornano all’anima del mondo che,
secondo loro era materiale, dunque costruita dai quattro elementi. Per quanto riguarda l’opinione relativa
al mondo delle idee Wolfson non trova nessun riferimento nella filosofia greca: “There is nowhere in
Greek philosophy a direct statement that the immortal souls after the death find their home ammong the
ideas”. Cfr. H. A. Wolfson, Philo…, vol. I, pp. 398-401. A nostro parere, come già detto, questa potrebbe
essere proprio l’opinione di Filone stesso. Inoltre, il passo che stiamo analizzando proviene dal trattato
Quis rerum divinarum heres sit che descrive l’ultima tappa della migrazione del sapiente dalla
dimensione corporea verso quella incorporea e intelligibile.
160

perché l’essere sempre a Te sottomessi è preferibile non solo alla libertà, ma


perfino ai più grande dei regni389.

Il testo citato non si trova esattamente in un contesto escatologico, però


possiamo ricavare da esso anche alcune conclusioni che riguardano l’escatologia. Poche
righe prima del passo riportato, Filone parla di Dio che regna in eterno (basileu,wn to.n
aivwn/ a kai. evpV aivwn/ a kai. e;ti)390. In seguito dice che un re non ha bisogno di nulla,
mentre, a buon diritto, ciò che gli è sottomesso è suo possesso. Nella preghiera, invece,
Mosè chiede che le anime siano governate dal loro re in eterno (to.n a;peiron aivwn/ a).
Filone, dunque, due volte parla dell’eternità, ovvero a proposito di Dio, il Re e a
proposito dell’anima, la sottomessa, come se volesse dire che è logico che un re, anche
se non deve, possieda i suoi sottomessi per tutta l’eternità. Come dimora o abitazione
pronta e preparata per le anime indica il Logos, ossia il mondo intelligibile. Dunque Dio
per tutta eternità esercita il suo potere sulle anime che sono giudicate degne
dell’immortalità e che sussistono nel Logos supremo e celeste (evn u`yhlw/| kai. ouvrani,w|
lo,gw|). Questa conclusione concorda con tutto ciò che Filone ho indicato a proposito del
cammino etico e intellettuale dell’uomo. Infatti, i sapienti hanno imparato, non solo ad
avere un rapporto con le entità intelligibili, ma a sottomettere la loro anima a Dio
esercitando le virtù pratiche e religiose. Anche se in modo teoretico non hanno
conosciuto l’essenza divina, l’intimità con Dio ha reso le loro anime simili alle entità
intelligibili e immortali391. Così, dunque, le anime dei sapienti, dopo la morte del corpo,
permangono nel mondo intelligibile e volentieri si sottomettono al governo di Dio, nello
stesso modo vissuto durante la vita terrena.

Invece tra le opere filoniane c’è un passo che, per quanto concerne il tema
dell’escatologia, parla non del mondo intelligibile, come dimora delle anime dei giusti,
ma di un luogo particolare presso Dio stesso. Là soggiorna l’anima del sapientissimo
Mosè:

Ci sono uomini che Dio ha condotti ancora più in alto, facendoli volare
al di sopra di tutte le specie e di tutte le stirpi, ed ha collocati accanto a Sé
(i[druse de. plhsi,on e`autou/), come Mosè, al quale dice: «Tu sta’ insieme con
Me»392. Quando Mosè, dunque, fu sul punto di morire, non gli successe, come

389
Phil., Plant. 52-53.
390
Cfr. Ibid. 51.
391
Ne abbiamo parlato nel paragrafo precedente.
392
Deut. 5,31.
161

ai precedenti, di “venir meno”, e di “essere aggiunto”, non potendo accogliere


in sé né addizione né sottrazione, ma trasmigrò «per opera di una Parola»393
della Causa, quella Parola in virtù della quale è stato creato il mondo intero.
Questo affinché tu impari che Dio considera il sapiente di valore pari a quello
del mondo, e che è con la medesima Parola che egli ha fatto l’universo e innalza
l’uomo perfetto dalle realtà terrene fino a Se stesso394.

Poche righe prima di questo passo Filone tratta brevemente delle anime di
Abramo e di Giacobbe che, lasciate le cose mortali, sono state “aggiunte al popolo di
Dio” e sono divenute uguali agli angeli. In seguito spiega: “gli angeli, infatti, anime
senza corpo e felici, sono l’esercito di Dio”395. Un altro luogo escatologico invece
l’Alessandrino designa a Isacco. Egli dunque giunse non al ‘popolo di Dio’ ma alla
‘stirpe’. “Quelli – chiarisce Filone – che non hanno rinunciato alle direttive di altri
uomini e, divenuti ben disposti discepoli di Dio, hanno ricevuto il sapere che non
richiede fatica, vengono trasferiti nella stirpe incorruttibile e perfettissima: hanno così
avuto una sorte migliore dei precedenti, e della loro sacra compagnia è riconosciuto
membro Isacco”396. Perché Isacco ha avuto sorte migliore di quella di Abramo e
Giacobbe? Filone non ci dà una risposta precisa397, perché ‘la stirpe’ viene definita da
lui come “un’unità, la più elevata, mentre ‘popolo’ è nome di una pluralità di
individui”398. Pur non soffermandoci su questo particolare, osserviamo che nel passo del

393
Deut. 34,5.
394
Phil., Sacrif. 8.
395
Ibid. 5.
396
Ibid. 7.
397
Ibid. 6. Alcuni studiosi, cercando di spiegare questa aporia, ovvero il fatto che Isacco, dopo la
morte, ricevette la sorte migliore che quella di Abramo e Giacobbe, dicono che il primo è il simbolo della
vita del perfetto gli altri due, invece, sono i simboli della vita del progrediente. Cfr. R. Radice, nota 4 a
De Sacrificiis, in Filone di Alessandria, Tutti i trattati…, p. 441. A questi stusiosi invece sfugge il fatto
che Abramo è considerato progrediente soltanto lungo il suo viaggio paradigmatico dalla terra dei Caldei
fino a Sichem, ma non al termine della sua vita terrena. A causa dell’obbedienza al comando divino
Abramo diventa , e viene considerato da Filone, il sapiente. Infatti, l’espressione VAbraa.m o` sofo,j oppure
o` sofo.j VAbraa,m viene adoperata da Filone molto frequentemente. Cfr. Phil., Cher. 31; Sacr. 122; Poster.
27; Plant. 73; Ebr. 24; Sobr. 17-18 etc. L’Alessandrino indica anche il momento preciso in cui Abramo
non viene più considerato il progrediente ma il sapiente. “Infatti – osserva Filone – il sapiente Abraamo le
ubbidisce [id est a Sara – simbolo della sapienza] allorché gli indica ciò che deve fare. All’inizio, quando
non era ancora divenuto perfetto, e quindi, prima di cambiar nome, egli cercava la sapienza nello studio
delle realtà celesti”. Cfr. Phil., Leg. All. III 244. Vediamo dunque che dal momento in cui Dio cambiò il
nome del partiarca da Abramo in Abrahamo egli viene considerato da Filone come il sapiente e perfetto.
Non troviamo dunque una spiegazione per il fatto che l’Alessandrino concepisce il luogo escatologico
della sua anima come inferiore a quello occupato dalle anime degli altri patriarchi, come ad esempio
quella di Isacco. A questo proposito Filone non ci ha lasciato le spiegazioni precise. Tuttavia, ciò che ci
interessa, per quanto riguarda l’argomento qui analizzato, è la gerarchia dei luoghi escatologici. Essa, a
prescindere dal fatto a chi sia stato designato il luogo inferiore e a chi quello superiore, sottolinea la
trascendenza ontologica di Dio rispetto alle anime anche dopo la morte del corpo.
398
A questo proposito D. Winston osserva: “Although his wording [i.e. of Philo] is rather vague,
the term ‘genos’ probably refers to the Ideas. Similarly, he says of Henoch, of whom Scripture writes that
162

Sacr. 5-8 Filone ipotizza una certa gerarchia dei ‘luoghi’ celesti e delle anime che li
occupano. Non tutte le anime, dunque, sono ‘vicinissime’ a Dio. Infatti, in cima a questa
gerarchia si trova l’anima di Mosè che viene collocata nel luogo più elevato, ovvero
presso Dio (i[druse de. plhsi,on e`autou/). Ma questo fatto significa che l’anima di Mosè è
unita all’essenza divina? Il verbo i`dru,w significa ‘installare’ o ‘far sedere’, invece
l’aggettivo plhsi,on significa ‘vicino’, ‘nei pressi’ o ‘nelle vicinanze’. Lo status
dell’anima di Mosè viene dunque descritto con il linguaggio di tipo fisico-spaziale che
non è adeguato per quanto riguarda le entità intelligibili. Ma anche da esso possiamo
osservare che viene conservata qualche distanza, se pur minima, tra l’anima di Mosè e
l’essenza di Dio. Infatti, mentre nel passo precedente (quello del Plant. 52-53) Filone,
parlando del Logos, inteso come dimora delle anime, adopera la preposizione evn
(nell’espressione: evn u`yhlw/| kai. ouvrani,w| lo,gw|), che, notiamo, dovrebbe indicare un
luogo escatologico inferiore rispetto a quello occupato dall’anima di Mosè, nel passo
analizzato ora (del Sacr. 8), riferendosi a Dio stesso, adopera l’aggettivo plhsi,on che
indica qualche distanza, anche se minima, tra entità distinte. Inoltre, non troviamo nelle
opere filoniane l’espressione evn qew/|/ che dovrebbe indicare il luogo della permanenza
escatologica delle anime399. L’anima di Mosè dunque ha ricevuto, come premio per la
vita virtuosa, il dono di permanere per tutta l’eternità nei pressi di Dio stesso.

“he was not found, for God had translated him”, that his immortal soul was translated “from a sensible
and visible place to an incorporeal and intelligible form” (Qu. in Gen. I 86)”. Cfr. D. Winston, Logos and
Mystical Theology…, p. 38. Se dunque ‘la stirpe’ indica le idee, che, infatti, sono più generali e più
elevate del mondo degli individui, che cosa significa ‘il popolo’? Può darsi che significhi l’insieme degli
esseri incorporei, ovvero gli angeli. Una tale interpretazione suggerisce il passo del Qu. in Gen. III 11 nel
quale Filone afferma che l’anima di Abramo è ritornata dai “suoi padri”, ovvero dagli abitanti del mondo
divino chiamati anche gli angeli. Per questo G. Reale afferma che Abramo giunge al mondo degli angeli.
“A Isacco (e a quelli come lui) tocca in sorte un ritorno al «genere», all’«intelligibile», ossia al mondo
delle Idee, che è oltre il cielo e oltre la compagnia degli angeli. A Mosè (e a quelli come lui) tocca in sorte
salire oltre gli angeli e oltre il mondo intelligibile”. Cfr. G. Reale, L’itinerario a Dio…, p. 33. Ma questa
spiegazione non risolve il problema del perché l’anima di Isacco dovrebbe occupare un luogo più elevato
di quello dell’anima di Abramo.
399
Troviamo invece un passo, relativo all’anima di Abele, che esprime l’idea seguente: “Abele,
il massimo del paradosso!, è eliminato eppure vive: è eliminato dall’animo dell’uomo stolto, ma vive la
vita beata che è in Dio (zh/| de. th.n evn qew/| zwh.n euvdai,mona)”. Phil., Deter. 48. Osserviamo, che Abele vive
non “in Dio”(evn qew/|/), ma vive “la vita beata” (th.n zwh.n euvdai,mona) che è in Dio. Dunque, l’idea qui
espressa riguarda lo stato dell’anima di Abele che gode felicità eterna (così come Dio), e non il luogo
della permanenza dell’anima dopo la morte del corpo. In realtà, poche righe dopo, Filone, rivolgendosi in
maniera retorica a Caino, l’uccisore del fratello, dice: “La dottrina dell’amore di Dio, che ti sembra di
avere eliminato, non vive forse accanto a Dio (zh/| para. qew/|)?”. Cfr. Deter. 78. È Abele ad essere il
simbolo della “dottrina dell’amore di Dio”. Dopo la morte, la sua anima vive para. qew/|. In greco, la
preposizione para, accompagnata dal sostantivo nel dativo, significa: ‘presso’, ‘vicino’ o ‘accanto a’, e
non ‘in’. L’anima di Abele, dunque, come quella di Mosè vive, accanto a Dio. Ma anche questa ultima
conclusione non è sicura. Prendendo in considerazione tutto ciò che abbiamo detto sopra, ovvero quanto
riguarda la gerarchia tra le anime dei sapienti, sorge la seguente domanda: perché l’anima di Abele, nella
gerarchia escatologica, deve occupare il luogo così elevato come quello dell’anima del sapientissimo
163

Ci rimane da spiegare la questione che riguarda il linguaggio fisico-spaziale


adoperato da Filone a proposito dell’escatologia, ovvero che cosa significa il fatto che
l’anima di Mosè è ‘presso’ Dio e le altre anime occupano luoghi inferiori. In realtà,
secondo Filone, ciò che è intelligibile è monadico. Tutti gli attributi di Dio sono Dio. Le
idee e le Potenze sussistono nella mente divina, ovvero nel Logos di Dio. In Dio non c’è
nessuna divisione né separazione né spazio fisico. Tutto è uno. Ma, come abbiamo già
visto, l’anima di Abramo sussiste nel Logos, inteso come mondo intelligibile, che è
luogo inferiore rispetto a quello che occupa l’anima di Isacco. L’anima di Mosè invece
viene elevata ancora di più di quella di Isacco. Dato che a proposito dell’anima di
Abramo, Filone parla anche dell’etere, ossia del quinto elemento della natura, diverso
dagli altri quattro dai quali è composta la materia: acqua, aria, terra e fuoco400, e dice
che da esso proviene anche l’anima, è probabile che concepisse questa gerarchia
escatologica delle anime proprio nel senso fisico-spaziale, ossia come luoghi sovra
celesti. Può anche darsi che, pur sottilissimi, in qualche modo materiali, ovvero eterici.
Il luogo dell’anima di Mosè sarebbe quello più vicino a Dio. Ma in un altro passo Filone
dice che Mosè al termine della sua vita terrena è divenuto nou/j purissimo e senza il
corpo è stato trasportato al cielo401. In che modo dunque una cosa incorporea può
occupare un posto corporeo? Abbiamo purtroppo troppo poche informazioni da parte di
Filone per rispondere alle varie domande che sorgono a proposito dell’escatologia. In
realtà, abbiamo già riportato sopra quasi tutti i passi significativi relativi a questo
argomento402.

Mosè, ossia accanto a Dio? Nelle opere filoniane non troviamo neppure un’affermazione che
suggerirebbe che Abele fosse più grande sapiente di Abramo, Isacco e Giacobbe. Le anime di questi
ultimi invece occupano il luogo meno elevato di quello dell’anima di Mosè. Può darsi, dunque, che Filone
parlando del paradosso: “è eliminato dall’animo dell’uomo stolto, ma vive la vita beata che è in Dio”,
adopera soltanto una forma retorica che serve come persuasione nello svolgimento del discorso. A questo
proposito, invece, non ha come lo scopo l’individuazione precisa del luogo della permanenza dell’anima
di Abele.
400
Cfr. Phil., Her. 283.
401
Per quanto riguarda Mosè, Filone, a differenza dell’affermazione scritturistica, sostiene che
egli non morì, ma, essendo vivo, fu trasformato in un nou/j purissimo e fu trasferito verso il cielo. Cfr.
Phil., Mos. II 288-291. Sull’interpretazione di questo fenomeno cfr. I. W. Scott, Is Philo’s Moses a Divine
Man?, SPhA 14 (2002), pp. 87-111.
402
In altri luoghi Filone ripete solamente ciò che ha già detto altrove, ovvero che le anime dei
giusti vengono trasportate o dai padri intesi come le idee o diventano come angeli. Cfr. Phil., Qu. in Gen.
III 11; I 86; Cher. 114.
Troviamo, invece, nelle opere filoniane ancora un altro passo che, come quello analizzato sopra
(del Sacrif. 8), si riferisce alla testo del Deut. 5,31: «Tu sta’ insieme con me». Questa volta invece
l’Alessandrino non interpreta la frase biblica nel senso escatologico. Nonostante ciò, dagli indizi forniti
da Filone, possiamo ricavare alcune conclusioni escatologiche: “Solo l’anima realmente inflessibile ha
accesso all’inflessibile Iddio (avtre,ptw| yuch/| pro.j to.n a;trepton qeo.n mo,nh| pro,sodo,j evsti), e quella che
possiede tale disposizione resta vicino alla potenza divina (kai. h` tou/ton diakeime,nh to.n tro,pon evggu.j w`j
164

Possiamo invece, oltrepassando il linguaggio fisico-spaziale, ipotizzare che tutte


le anime dei giusti, che dopo la morte sono state aggiunte al mondo intelligibile,
ricevono un accesso differenziato alla contemplazione del divino, a seconda dei meriti.
Infatti, anche durante la vita terrena i sapienti nella conoscenza di Dio giungono a
diversi livelli403. A proposito della teofania al roveto ardente, Dio si presenta a Mosè
come “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”404. Con questo, secondo Filone,
vuole fornire a Mosè la notizia seguente: «Sono stato visto da Abramo, Isacco e
Giacobbe, come loro Dio (qeo.j), ma non ho rivelato loro il mio nome di Signore
(ku,rioj)»405. Anche se Dio è inconoscibile e innominabile, rivela a Mosè un nome
nuovo, sempre improprio, con il quale non era conosciuto prima. Nella stessa teofania
Dio rivela anche qualcosa della sua natura, ovvero che lui è “colui che è”. Mosè,
dunque, durante la sua vita terrena apprese qualcosa di più del divino che Abramo,
Isacco e Giacobbe. Inoltre ha sperimentato il potere di ku,rioj manifestato nell’opera
dell’esodo del popolo d’Israele dall’Egitto. Ha visto tutte le meraviglie di Dio compiute
lungo il cammino nel deserto. Ha conosciuto e poi scritto la legge divina. Il suo nou/j
riempito delle idee divine si è reso simile a Dio, ovvero al Nous dell’universo. Ma

avlhqw/j i[statai duna,mewj qei,aj). L’oracolo dato dal sapientissimo Mosè mosra in maniera molto efficace
la saldissima fermezza dell’uomo di valore. L’oracolo è questo: «Tu sta’ insieme con Me» (Deut. 5,31).
Da questo derivano due cose: l’una, che l’Essere che muove e fa mutare le altre cose è immobile e
immutabile; l’altra, che Egli rende l’uomo di valore partecipe della sua natura, la quiete. Penso infatti,
che, come raddirizza con una retta guida le storture, così le cose in movimento sono arrestate e si
mantengono ferme per la forza di colui che resta immobile”. Cfr. Phil., Poster. 27-28. Da questo passo
ricaviamo che lo “stare insieme con Dio” significa essere immobile e immutabile come lui stesso è.
Filone legga la felicità a questa immobilità e immutabilità. Nel paragrafo precedente abbiamo parlato del
concetto di “uomo di Dio” (cfr. i passi Mutat. 19. 24. 26 là analizzati). A questo proposito abbiamo detto
che l’anima dell’uomo di Dio si assomiglia a Dio stesso. La vicinanza duratura con Dio rende inalterata
per sempre la fermezza dell’anima del sapiente. Infatti, secondo Filone, nell’immutabilità e nell’avpa,qeia
consiste la felicità di Dio. Lo stesso riguarda la felicità dell’anima dell’uomo che è diventato simile a Dio.
La frase dunque: “Tu sta’ insieme con Me” significa “sii immutabile con me” o “partecipa della mia
immutabilità”. Tale interpretazione suggerisce anche il contesto del passo riportato. Cfr. Poster. 27-30.
Osserviamo, inoltre, che nel passo qui citato Filone dice che l’anima immutabile resta presso la
potenza divina, non in Dio stesso. Probabilmente lo stesso riguarda la vita nell’aldilà. Le anime dei
perfetti godranno della vicinanza alla Potenza divina. La loro felicità consisterà nella assoluta avpa,qeia e
immobilità. Questo stato sarà la conseguenza della loro stabilità nella vita morale che hanno raggiunto
ancora sulla terra. Su questo argomento cfr. D. Winston, Was Philo a Mystic?..., pp. 162 sgg.
403
A. Maddalena osserva giustamente che il cambiamento di vita legata al corpo e di
conseguenza mortale in quella incorporea e di conseguenza immortale avviene, secondo Filone, ancora
durante la vita terrena dell’uomo. Questo cambiamento è sempre dono di grazia del quale è simbolo il
mutamento del nome (ad esempio, Abramo in Abrahamo, Giacobbe in Israele, Osea in Giosuè etc.). Ma
anche Mosè, per una grazia particolare (e senza cambiare il nome), cominciò a vivere la vita incorporea e
immortale essendo ancora sulla terra. Il dono di grazia, che converte il mortale in immortale, è, a sua
volta, conseguenza della pietà e dell’impegno morale ed intellettuale di ciascuno di loro. Cfr. A.
Maddalena, Filone…, pp. 361, 406-410. A seconda, dunque, dell’impegno nel cammino spirituale, diversi
personaggi biblici giungono a vari livelli della conoscenza e dell’assimilazione a Dio. La loro vita
nell’aldilà dunque è il prolungamento, forse anche il perfezionamento, della vita incorporea, ossia
spirituale, di cui fecero parte essendo ancora sulla terra.
404
Ex. 3,6.
405
Phil., Mutat. 13.
165

possiamo anche ipotizzare che Mosè, così come durante la vita terrena, non acquisisce
la cognizione dell’essenza divina, non la comprende neanche dopo la morte. Infatti al
roveto ardente egli non vide Dio stesso, ma ciò che lo accompagnava, ovvero le
Potenze406. In realtà, secondo Filone, il fatto che l’anima non può accogliere in sé
neppure le Potenze pure di Dio, come la Sapienza o la Saggezza, è un problema
ontologico, che consegue dal fatto di essere una creatura e non dal fatto di essere nel
corpo e sulla terra407. Troviamo invece tra le opere filoniane un passo che suggerisce
una tesi diversa:

L’Ente per la sua natura non può essere nominato, ma può soltanto
essere. Ne è prova la risposta oracolare data a Mosè che domandava se egli
avesse un nome: «Io sono colui che è», una risposta così formulata affinché,
non essendovi in Dio alcuna cosa che l’uomo sia in grado di afferrare con la
mente, egli ne conosca almeno l’esistenza. Ora, è verisimile che alle anime
incorporee e consacrate al suo servizio egli si mostri qual è e parli con esse
come un amico con delle amiche (tai/j me.n ou=n avswma,toij kai. qerapeutri,sin
auvtou/ yucai/j eivko.j auvto.n oi-oj, evstin evpifai,nesqai dialego,menon w`j fi,lon
fi,laij), ma che alle anime ancora racchiuse nei corpi si palesi assumendo
l’aspetto di angeli, senza mutare con ciò la propria natura, perché egli è
immutabile, ma ingenerando in chi ne ha la visione l’idea che si tratti di una
forma diversa, tanto da fargli ritenere che quell’immagine non sia una copia,
bensì l’originale stesso408.

Il passo citato non aggiunge niente di nuovo rispetto a ciò che abbiamo già detto
nei paragrafi precedenti, se non un piccolo dettaglio. Infatti, Dio pur rimanendo sempre
trascendente e inconoscibile, si palesa assumendo l’aspetto di angeli, come avvenne nel
caso di Agar, oppure ingenera nell’anima del sapiente una visione di tipo mistico, alla
quale presero parte Abramo e Mosè. Tutti loro pensavano di incontrare l’originale,
ovvero Dio stesso, invece, come spiega Filone, non era così. È stato Dio a produrre
questa convinzione nella loro mente. Tutto questo però riguarda le anime ‘ancora
racchiuse nei corpi’. Infatti, dice l’Alessandrino, è verosimile che alle anime incorporee
dei sapienti Dio “si mostri qual è e parli con esse come un amico con delle amiche”409.

406
Cfr. Phil., Fug. 161-165.
407
Ne abbiamo parlato nel paragrafo precedente. Cfr. i passi là analizzati: Phil., Deus 62; Mutat.
7.
408
Phil., Somn. I 230-232.
409
Secondo E. R. Goodenough, By Light…, p. 175, le anime incorporee vedono Dio nella sua
essenza. Un’altra posizione, invece, prende A. Maddalena, Filone…, pp. 345-345, che parla della
presenza di Dio che riempie l’anima e non della conoscenza intellettiva. É. Bréhier, altresì, osserva che la
166

Che cosa significa questa affermazione? È possibile che le anime dei sapienti dopo la
morte del corpo comprendano l’essenza divina? Può darsi che l’espressione: eivko.j
auvto.n oi-o,j evstin evpifai,nesqai debba essere intesa in modo che è probabile che Dio si
mostri alle anime senza nessuna mediazione, ovvero “così come è”. Non dovrà più
servirsi di una ‘copia’ e produrre nell’anima una convinzione che si tratti
dell’‘originale’. Infatti, dopo la morte viene diminuita la distanza tra Dio e l’anima
umana. Tutti e due sono di natura intelligibile e sussistono nel mondo intelligibile.
Questa affermazione invece non deve necessariamente significare che l’essenza di Dio
verrà compresa dall’anima. Osserviamo, inoltre, che Filone ipotizza anche una forma di
comunicazione tra Dio e le anime simbolo della quale è il dialogo tra un amico con delle
amiche (w`j fi,lon fi,laij). Se si trattasse dell’unione delle anime a Dio e dell’assoluta
comprensione della sostanza divina da parte delle anime, non si potrebbe parlare di
dialogo tra due soggetti distinti. Inoltre la natura dell’intelletto umano, secondo Filone,
è quella di espandersi410. Da ciò consegue che durante la vita terrena i sapienti,
attraverso l’apprendimento delle scienze, sono in un continuo processo di dilatazione
del loro intelletto e, insieme, nel processo di assimilazione a Dio che è il Nous colmo
delle idee. Possiamo ipotizzare che questo processo sia continuato anche al di là della
vita terrena, appunto attraverso il dialogo di Dio con le anime del quale si tratta nel
passo sopraccitato. In questo modo le anime, dopo la morte del corpo, diventano attività
pensante per tutta l’eternità, proprio così come lo è l’Intelletto divino. Si dilatano ed
hanno sempre qualcosa da apprendere dell’essenza divina che non è mai conoscibile
fino in fondo411.

Riassumendo le nostre analisi riguardo all’escatologia, osserviamo che nelle


opere dell’Alessandrino non troviamo una chiara affermazione sull’unione dell’anima

contemplazione di Dio in Filone non ha niente a che fare con la contemplazione intellettiva della quale
parla Aristotele. Secondo lo studioso francese Dio rimane sempre incomprensibile da parte dell’uomo.
Cfr. É. Bréhier, Les idées…, pp. 295-296. F. E. Brenk, invece, mostra che la posizione di Filone, per
quanto riguarda la conoscenza di Dio dopo la morte, non è univoca. Cfr. F. E. Brenk, Darkly beyond the
Glass. Middle Platonism and the Vision of the Soul, in Platonism in Late Antiquity, a cura di S. Gersh, C.
Kannengiesser, Notre Dame 1992, pp. 46-51.
410
Cfr. Phil., Deter. 90.
411
Infatti, in un altro passo Filone dice che “le anime, prive di carne e di corpo, passano tutta la
giornata nel teatro dell’universo (evn tw/| tou/ panto.j qea,trw|) e godono senza alcun impedimento,
contemplando e ascoltando cose divine, per le quali sono piene di insaziabile amore”. Cfr. Phil., Gig. 31.
L’Alessandrino non spiega che cosa possa significare l’espressione evn tw/| tou/ panto.j qea,trw|. Può darsi
che questo ‘teatro’ sia il mondo intelligibile, o i luoghi eterici, come ha suggerito in un altro luogo, dai
quali le anime contemplano Dio. Ma, osserviamo che l’amore delle anime verso le realtà divine è definito
come ‘insaziabile’ (a;plhstoj). Dunque, anche le anime incorporee, non acquisiscono la piena conoscenza
dell’essenza divina. Contemplando le realtà divine, si dilatano e si assomigliano sempre di più a Dio che è
il Nous pieno delle idee. Ma non sono mai sazie per quanto riguarda il desiderio della conoscenza o
dell’unione a Dio stesso.
167

umana a Dio stesso o sulla comprensione della sua essenza da parte delle anime. A
questo proposito Filone ci ha lasciato notizie scarse e spesso contraddittorie. A volte
dunque parla della gerarchia escatologica servendosi del linguaggio fisico-spaziale e
dice che l’anima può essere considerata un frammento della sostanza eterica, altre volte
parla del nou/j purissimo di Mosè che ha trovato la sua dimora presso Dio stesso.
Abbiamo visto ugualmente che Filone, anche se in altri passi afferma che la differenza
ontologica non permette di comprendere o di accogliere il divino da parte del creato,
ipotizza che dopo la morte del corpo cambi qualcosa nella relazione epistemologica tra
Dio e le anime. In questo caso invece si tratta di una forma di comunicazione che del
resto presuppone l’esistenza degli esseri distinti o separati, ovvero non uniti in maniera
assoluta, e la mancanza di piena cognizione del divino da parte dell’anima, altrimenti “il
dialogo” tra Dio e le anime non avrebbe alcun senso. Possiamo dunque concludere che,
anche per quanto riguarda l’ambito dell’escatologia, il concetto dell’assoluta
trascendenza ontologica ed epistemologica di Dio non viene mai esplicitamente
contraddetto dall’Alessandrino.

1.6. Conclusioni. L’originalità della dottrina della trascendenza

In questo breve paragrafo conclusivo, non vorremo ripetere ciò che abbiamo già
detto nel presente capitolo, bensì indicare gli elementi più forti e più originali, secondo
la nostra lettura, della filoniana dottrina della trascendenza di Dio. A questo proposito
esporremo anche la nostra proposta dell’interpretazione di alcune ambiguità apparse nel
corso delle analisi dei testi dell’Alessandrino.

Il concetto delle Potenze. L’originalità del pensiero filoniano appare sopratutto


nella dottrina delle Potenze412. Con essa l’Alessandrino riesce a conciliare ciò che per i
filosofi greci sembrava inconciliabile, ovvero il concetto della trascendenza radicale e
assoluta di Dio con quello della provvidenza divina. Appunto, la nozione delle Potenze,
permette al nostro filosofo di parlare, in modo originale, della divina ubiquità e nello
stesso tempo della divina atopia. Così, dunque, Dio è pantacou/, tramite le Potenze, ma

412
Anche J. Dillon, che nella sua opera I medioplatonici… dimostra che Filone in molte delle sue
tesi dipende dal platonismo alessandrino dell’epoca, aggiunge che la dottrina delle Potenze o il senso
della nullità dell’uomo in rapporto a Dio sono gli elementi sconosci alla filosofia di questo tempo. Infine
lo stesso studioso conclude: “La relazione di Filone con gli altri rappresentanti del platonismo
alessandrino, come abbiamo visto, non è particolarmente stretta”. Cfr. Ibid., pp. 220-221.
168

nello stesso momento è ouvdamou413, perché non è presente nel mondo secondo la sua
essenza414. Egli, poi, contiene l’universo intero, ma non è contenuto assolutamente da
nulla; è perie,cwn, ma non perieco,menoj415. Infatti, Dio essendo di natura intelligibile
non occupa nessun luogo nel senso fisico-spaziale, però, secondo Filone, egli stesso è il
luogo. È il luogo particolare e unico, ovvero quello di se stesso (auvto.j e`autou/ to,poj)416.
Questa affermazione può essere intesa anche nel senso che Dio, essendo Nous
dell’universo, è il luogo delle sue idee e delle sue Potenze generate in funzione della
creazione e del governo del mondo. In questo modo le idee e le Potenze si identificano
con Dio, in conseguenza di ciò, nel mondo creato è presente qualcosa che proviene
direttamente dall’essenza divina. Per questo, appunto, l’Alessandrino può dire che Dio
contiene tutto ma non è contenuto, è dovunque e in nessun luogo. L’insieme delle idee e
delle Potenze, però, anche se esse sono infinite, non è uguale all’essenza divina. Infatti,
in Filone, Dio trascende anche le realtà intelligibili. Nella dottrina delle Potenze,
dunque, si può scorgere quanto sia sottile il pensiero del filosofo di Alessandria.
Almeno per questo motivo, egli non dovrebbe essere considerato soltanto come un
pensatore eclettico nel senso negativo di questa parola. In realtà, Filone si serve delle
idee e del linguaggio dei filosofi precedenti e a lui contemporanei, però, commentando
la Sacra Scrittura, cerca di affrontare le aporie che quelli non erano stati in grado di
risolvere. Oltre a ciò che abbiamo qui ricordato, sulla base della concezione delle
Potenze, l’Alessandrino elabora anche la dottrina dell’onniscienza, dell’onnipotenza e
dell’infinità di Dio.

La difficoltà che sorge a questo proposito è quella che riguarda lo status


ontologico delle Potenze. A nostro avviso, le Potenze devono sussistere in una
strettissima relazione a Dio, altrimenti l’Alessandrino non avrebbe potuto elaborare tutti
questi concetti dei quali abbiamo parlato sopra. Non tutti gli studiosi, però, riescono ad
evidenziare tale rapporto. Alcuni, infatti, considerano le Potenze come ipostasi
autonome, create fuori della mente divina, e indicano i tre stadi di esistenza delle
Potenze a pari dei tre stadi di esistenza del Logos. È vero che il linguaggio
ipostatizzante e personificante dell’Alessandrino può condurre a queste conclusioni. Se
volessimo, però, prendere in considerazione tutte le affermazioni filoniane relative al
Logos o alle Potenze, dovremmo parlare non solo dei tre, ma ancora di più stadi o modi

413
Cfr. Phil., Confus. 136-137.
414
Cfr. Phil., Poster. 20; Migrat. 182.
415
Cfr. Phil., Poster. 7; Somn. I 63-64.
416
Cfr. Phil., Leg. All. I 44.
169

ipostatizzati della loro esistenza417. Proponiamo, dunque, un’interpretazione unitaria


della dottrina delle Potenze che sfrutta soprattutto la metafora filoniana del sole e dei
raggi. Essa, infatti, come abbiamo mostrato nel presente capitolo, spunta, non solo in
uno, ma in parecchi luoghi delle opere dell’Alessandrino418.

Secondo questa metafora Dio viene paragonato con il sole e le Potenze con i
suoi raggi. Molti studiosi, però, analizzando questo paragone si concentrano soprattutto
sul suo aspetto epistemologico. In effetti, è vero che l’Alessandrino, parlando di Dio
come della luce che abbaglia vuole chiarire soprattutto il concetto dell’inconoscibilità
divina, ma non solo. In realtà, nel passo del Deus 77-81 viene sottolineato l’aspetto
ontologico della metafora. In esso l’Alessandrino afferma che Dio si avvale delle
Potenze pure nei suoi confronti e delle Potenze mescolate riguardo al mondo. È così,
perché il creato non ha in sé spazio per contenere le Potenze non mescolate. In seguito,
servendosi della metafora, Filone spiega che le Potenze mescolate altro non sono che le
Potenze pure la forza delle quali è stata in qualche modo temperata o moderata in
misura delle capacità ricettive del creato. In modo simile – spiega il nostro filosofo –
anche i raggi del sole, che hanno la loro fonte nel sole stesso, devono essere mescolati
con l’aria fresca, affinché la loro forza di bruciare sia diminuita e non faccia danno alle
creature. Il sole e i raggi sono soltanto il simbolo, ma è ovvio, che per quanto riguarda
le Potenze divine, non si tratta della loro forza di bruciare, dato che esse non sono una
cosa corporea ma intelligibile, e nemmeno della loro mescolanza con l’aria. Le Potenze
pure non possono essere contenute dal creato, perché sussistendo in Dio, ed essendo con
lui una cosa sola, sono infinite e onnipotenti, appunto come Dio. Il creato invece è finito
e debole. A causa, dunque, della debolezza della struttura ontologica del creato, nel
mondo agisce una facoltà divina, moderata e temperata. Solo in questo modo Dio può
essere accolto dalle creature.

417
Infatti, per quanto riguarda, ad esempio, lo stadio delle Potenze immanenti, una cosa sono le
Potenze che sono responsabili per le leggi della natura, un’altra sono quelle che appaiono ad alcuni
personaggi biblici o quelle che ispirano i profeti o provocano l’estasi mistica. In realtà, non possiamo dire
che sono le leggi della natura a provocare ciò che riguarda il sovrannaturale. Si dovrebbe dunque
distinguere ancora diversi tipi delle Potenze al livello dell’immanenza. Della stessa opinione è A.
Maddalena che dice: “Se dovessimo pensare a tanti Logoi, o a tante Sapienze, quante sono le immagini
che Filone usa a indicarli, non di due Sapienze e di due Logoi dovremmo parlare, ma per lo meno di
quattro Sapienze e dieci Logoi”. Cfr. A. Maddalena, Filone…, nota 3, p. 320.
418
Invece, l’interpretazione di H. A. Wolfson e di coloro che la seguono (almeno parzialmente,
come G. Reale, R. Radice) si basa solo su alcuni passi provenienti del De opificio mundi, nel quale Filone
parla della creazione delle idee generali. Secondo loro, in questi passi l’Alessandrino avrebbe dovuto
parlare della creazione del Logos, inteso ko,smoj nohto,j, che poi dovrebbe essere collocato fuori della
mente divina. La metafora del sole contraddice tale interpretazione. Per i riferimenti alle opinioni di
questi studiosi rimandiamo alle numerose note fatte nel corso del presente capitolo.
170

Vediamo, dunque, che sulla base di questa metafora si può ben spiegare il
concetto della trascendenza e dell’immanenza ontologica di Dio. In realtà, Dio (come il
sole) non è mai presente nel mondo secondo la sua essenza che è infinita, onnipotente,
inafferrabile e indicibile. D’altra parte, egli stesso crea e governa ed è presente nel
mondo, perché la Potenza temperata e moderata che proviene da lui, ha sempre la sua
fonte nell’essenza divina (appunto come il raggio del sole nel sole stesso). Se vogliamo,
dunque, rispettare il senso della metafora, non possiamo parlare del Logos e delle
Potenze come degli esseri creati fuori della mente divina. Infatti, il raggio esiste in
quanto esiste il sole, non è creato accanto al sole, ma da esso proviene, anzi, dal ‘cuore’
stesso del sole. Ha in sé la forza di riscaldare e di illuminare proprio perché è sempre
unito all’essenza stessa del sole.

Inoltre, la metafora del sole spiega anche il fatto della molteplicità delle diverse
manifestazioni e dei modi di agire di Dio nel mondo. Infatti, Filone individua due
facoltà del sole: quella di riscaldare e quella di illuminare. In Dio, invece, le Potenze
sono infinite e innumerevoli. Anche se nel Deus 79 l’Alessandrino enumera solo la
Scienza, la Sapienza, la Saggezza e la Giustizia, aggiunge che ce ne sono anche altre.
Dio non manifesta, ad esempio, tutta la Potenza nella Giustizia, perché, a causa del
peccato o della malvagità degli uomini, essa potrebbe annullare il genere umano, così
come il raggio farebbe danno, se la forza di bruciare del sole non fosse in esso
diminuita. Per questo, osserva Filone, Dio “non vuole beneficare né punire le creature
come egli effettivamente può, ma nella misura in cui egli vede che ne sono capaci
coloro che devono avere parte dell’una o dell’altra cosa”419. Le Potenze, dunque, nel
loro grado ontologico superiore sono una cosa sola con Dio. Nel mondo, invece,
appaiono come pluralità che rispecchia la pluralità dei modi di agire di Dio. Se Dio, ad
esempio, vuole punire il creato appare come la Potenza punitrice; se vuole beneficare il
creato appare come la Potenza benefica. Ma sia nell’uno sia nell’altro caso, appare
come la Potenza detta “mescolata”, ovvero privata, in qualche modo, della forza che nel
suo grado superiore e puro sussiste solo nella mente divina.

Oltre la benefica e la punitrice ci sono altre Potenze, come abbiamo già descritto
nel presente capitolo. Sottolineiamo, però, che è l’uomo, secondo Filone, a distinguere e
a nominare tutti questi modi di agire di Dio. Ed è l’uomo a ipostatizzare ciò che in Dio
non è molteplicità. Infatti, ritornando alla nostra metafora, la forza di riscaldare e di

419
Cfr. Phil., Deus 80.
171

illuminare esiste in uno solo e lo stesso raggio che proviene dal sole. Nello stesso modo
Dio giusto e buono è presente nella sua Potenza che crea, governa, benefica o punisce il
creato. Le Potenze, dunque, vanno distinte solo dal punto di vista epistemologico. Ciò
viene chiaramente confermato dal passo dell’Abr. 119-123. Filone, riflettendo sul fatto
del perché Abramo alle querce di Mamre, abbia visto i tre e non solo l’uno, asserisce
che soltanto quando la mente è completamente purificata, è capace di vedere al di là
della moltitudine. Tale mente si avvicina, infatti, all’idea divina che non ha nessuna
complessità. La mente, invece, alla quale manca ancora la perfezione, percepisce Dio
per mezzo delle sue attività420. L’ipostatizzazione delle attività divine è dovuta dunque
all’imperfezione della cognizione umana. Concordiamo, dunque, con gli studiosi che
affermano che “la distinzione in duna,meij non esiste in Dio ma solo nel rapporto
imperfetto che l’uomo instaura con il divino”421. Infatti, le Potenze, che in Dio, come i
raggi del sole nel sole, sono una cosa sola, appaiono agli uomini come molteplicità. Ma
questo succede solo quando l’uomo, a causa della sua imperfezione intellettuale e
spirituale, non è in grado di giungere alla conoscenza della Causa suprema di tutte le
cose.

Ci sembra, dunque, che non si possa pensare separatamente Dio, il Logos e le


Potenze, altrimenti sorgono molti problemi interpretativi. Se il Logos e le Potenze
fossero stati creati fuori della sostanza divina e sussistessero come le ipostasi autonome
separate da Dio, in che modo Filone potrebbe parlare del rapporto tra Dio e il mondo?
Esisterebbe piuttosto la comunicazione tra il Logos, che non sarebbe Dio ma un’entità
creata accanto a Dio, e il mondo, che non sarebbe stato creato né è governato da Dio ma
da questa entità autonoma. In questo modo il Logos diventerebbe il Dio intermedio il
che nell’ambito del monoteismo giudaico, che Filone cerca sempre di difendere, sarebbe
impensabile422.

420
Anche nel Deus 82-83 Filone afferma che la distinzione tra le diverse manifestazioni (o
ipostasi) divine è instaurata dall’uomo. Infatti, commentando la frase biblica: «Una sola volta il Signore
ha parlato: io ho sentito queste due cose» (Sal. 61,12), l’Alessandrino dice che “Dio parla le monadi non
mescolate”, siamo noi invece a percepire come moltitudine e pluralità ciò che in Dio è di natura
monadica.
421
A. M. Mazzanti, QEOS e KURIOS…, p. 16. Anche D. Runia afferma che in Filone “God and
his Logos are conceptually, but not actually separable”. Cfr. D. T. Runia, Philo of Alexandria and the
‘Timaeus’…, p. 515.
422
Infatti, anche per questo motivo l’Alessandrino non vuole accettare i due principi della
creazione separati delle quali parlava Platone, ovvero il Demiurgo e le idee. Le idee, nella dottrina
filoniana diventano i pensieri di Dio. In questo modo uno solo e unico Dio diventa la causa formale ed
efficiente della creazione. In un altro passo invece, Filone sottolinea fortemente che prima e dopo la
creazione non c’era niente accanto a Dio. Dunque, il Logos non può essere inteso come il secondo Dio né
le Potenze come le ipostasi autonome.
172

Oltrepassando, dunque, il linguaggio personificante di Filone, preferiamo


considerare le Potenze come facoltà divine e non come ipostasi. A tale interpretazione ci
induce non solo la metafora del sole ma anche tante altre affermazioni dell’Alessandrino
che considerano le Potenze come avge,nhtoi, avcro,noi, avqa,natoi, qei/ai, avperi,grafoi,
avpoi,oi e per questo anche avo,ratoi, avkata,lhptoi kata. th.n ouvsi,an423, appunto come è
Dio. Tali caratteristiche non avrebbero nessun senso se le Potenze sussistessero, non in
Dio, ma accanto a lui come ipostasi autonome.

Communicatio idiomatum. La nozione, presa dall’ambito della cristologia


patristica, che ha dato il titolo a questa parte, non appare ovviamente nelle opere di
Filone, però, esprime benissimo ciò che qui vogliamo evidenziare. Infatti, alcune
affermazioni filoniane possono indurre alle interpretazioni errate se non si considera il
fatto che, spesse volte, è presente in esse lo scambio delle proprietà tra Dio in sé e le sue
Potenze. Da una parte l’Alessandrino attribuisce alle Potenze le caratteristiche e gli
attributi specificamente divini, dall’altra le opere delle Potenze vengono considerate da
lui come le opere di Dio stesso. In effetti, il nostro filosofo dice che Dio crea il mondo,
che Dio lo governa, che Dio riempie il mondo, che Dio appare ad Abramo e a Mosè e
che Dio dimora nell’anima del sapiente424. In altri passi invece l’Alessandrino afferma
chiaramente che Dio creava il mondo e divideva tutta la sostanza informe dell’universo
avendo affilato il suo Logos divisore; che Dio governa e riempie il mondo attraverso le
sue Potenze e che sono le Potenze, quelle mescolate, a dimorare nell’anima del
sapiente425. Questi due tipi dei testi non devono essere considerati come contraddittori,
perché, come abbiamo già detto, tra Dio e le Potenze esiste un rapporto strettissimo. In
effetti, anche del sole si dice che illumina e riscalda la terra, anche se esso rimane
sempre trascendente rispetto alla terra e sono i suoi raggi a compiere quest’opera.

A volte, parlando solo di Dio senza alcun accenno alle Potenze, Filone si serve
solamente di un’abbreviazione mentale, senza un motivo preciso. Invece di dire che
“Dio crea e governa il mondo tramite le sue Potenze”, dice semplicemente: “Dio fa
nascere tutte le cose”426, o “Dio è la Guida di tutte le cose”427. Altre volte, però, il fatto

423
Cfr., ad esempio, Phil., Deus 78; Sacrif. 51. 69; Her. 172, 312; Spec. Leg. I 47; Cher. 29;
Migrat. 181.
424
Ecco alcuni passi che parlano della presenza e dell’azione di Dio stesso nel mondo: Phil.,
Opif. 7-13; Leg. All., I 91; Sacrif. 59. 67; Poster. 14; Gig. 47; Her. 99; Somn. I 76.
425
Ecco alcuni passi nei quali sono le Potenze o il Logos a compiere l’azione che prima era
attribuita a Dio stesso: Phil., Her. 140. 166; Confus. 136; Migrat. 181-182; Fug. 101; Mutat. 9. 15.
426
Cfr. Phil., Deus 56.
427
Cfr. Phil. Spec. Leg. IV 174.
173

di sottolineare che Dio è l’autore di un’opera, senza menzionare le Potenze, ha il suo


scopo preciso. Così, dunque, l’Alessandrino pone l’accento sull’attività di Dio, e non
delle sue Potenze, mentre polemizza con i filosofi che “hanno mosso falsamente a Dio
l’empia accusa di grande inerzia (avpraxi,a)”428 o con coloro che negano la provvidenza
divina. In tali passi Dio stesso viene descritto come la causa attiva dell’universo. Egli
stesso viene indicato come colui che si prende cura di ciò che ha portato a
nascimento429. Infatti, lo strettissimo rapporto che esiste tra Dio e le Potenze permette a
Filone di esprimersi in questo modo. Nei passi nei quali, però, polemizza con coloro che
considerano Dio come corporeo e immanente al mondo, l’Alessandrino sottolinea che
Dio è al di là dell’universo e che creando non tocca neanche la materia, ma opera
attraverso le sue Potenze430. Nonostante la varietà delle affermazioni filoniane l’idea
principale del nostro filosofo è sempre la stessa: a causa dello strettissimo rapporto che
c’è tra Dio e le Potenze, Dio può essere considerato come l’autore delle opere compiute
dalle Potenze. Infatti, esse hanno la loro fonte nell’essenza divina. Per lo stesso motivo
anche le Potenze acquistano gli attributi propri di Dio stesso.

La teoria, che abbiamo definito come communicatio idiomatum, viene


confermata anche da una particolare esegesi che Filone fa riguardo al nome biblico di
Dio. Infatti, secondo il nostro esegeta, il termine qeo,j proviene dal verbo ti,qhmi, cioè
porre o stabilire. ‘Dio’ dunque significa ‘colui che ha posto tutta la realtà’. Ma poiché,
in realtà, non fu Dio in persona a porre e a ordinare tutta la realtà, ma una delle sue
Potenze, anch’essa – ragiona Filone – può essere chiamata con “il termine che
nell’etimologia ricorda questo significato”431. La parola qeo,j, dunque, è il nome della
Potenza. Inoltre, poiché la versione dei Settanta traduce il nome divino (Elohim IHWH)
come: ku,rioj o` qeo,j, l’Alessandrino individua ancora un’altra Potenza principale, alla
quale si riferisce il termine ku,rioj. Così, dunque, tutto ciò che la Sacra Scrittura
attribuisce al Signore Iddio, il nostro filosofo lo attribuisce alle Potenze, cioè a quella
creatrice e a quella regale o alla Bontà e alla Sovranità divina; la prima chiamata qeo,j, la
seconda ku,rioj. È logico, dunque, che le Potenze abbiano in Filone le stesse proprietà e
svolgano le stesse funzioni attribuite dalla Bibbia a Dio. Per questo, anche se in alcuni
passi l’Alessandrino parla solamente di Dio (qeo,j) come autore dell’opera compiuta nel
mondo, possiamo essere sicuri che si tratta di una Potenza, perché tutto ciò che Dio fa al

428
Phil., Opif. 7.
429
Cfr. Phil., Opif. 10.
430
Cfr. Phil., Spec. Leg. I 329 ; Deus 56-57.
431
Cfr. Phil., Confus. 137.
174

di fuori della sua essenza lo fa attraverso le sue Potenze. Anzi, Dio si vale delle Potenze
anche mentre si rivolge verso se stesso. Tale concezione di Dio giustifica, al livello
linguistico, l’uso dello scambio delle proprietà tra lui e le sue facoltà.

Tutto ciò che abbiamo espresso in queste pagine, si riferisce anche, anzi, ancora
di più, al Logos. Infatti, il Logos è considerato da Filone non solo come una delle
Potenze, o come l’insieme delle Potenze, ma come la mente divina, ovvero come il
to,poj delle idee e delle Potenze divine. In questo modo il Logos altro non è che Dio
rivolto verso il mondo e giustamente può essere chiamato come qeo,j, anche se per
quanto riguarda la sua presenza nel mondo si tratta soltanto di una facoltà divina e non
di un secondo Dio. Vediamo, dunque, che il linguaggio stoico adoperato da Filone lo
autorizza a polemizzare con le teorie che negano la provvidenza di Dio e la sua presenza
nel mondo. Il platonismo da lui adottato, invece, lo aiuta a criticare le dottrine di coloro
che considerano Dio come corporeo e immanente. Il concetto della trascendenza di Dio,
però, non viene mai contraddetto, anche se in alcuni passi, a causa dello scambio delle
proprietà, l’Alessandrino parla del qeo,j e non delle suo Logos presente nel mondo.

L’esperienza dei sapienti come prova dell’assoluta trascendenza di Dio. Due


volte in questo capitolo ci siamo rivolti ai passi filoniani che descrivono il contatto o la
visione delle realtà divine da parte di alcuni personaggi biblici. Lo abbiamo fatto, una
volta per mostrare che né Dio né il Logos in persona sono apparsi realmente in qualche
luogo della terra; un’altra, per mostrare che la cognizione del divino, che hanno
acquisito non ha procurato loro la cognizione dell’essenza divina. La nostra analisi dei
passi relativi alle teofanie bibliche ha confermato che in Filone troviamo un concetto
forte sia della trascendenza ontologica, sia quello della trascendenza gnoseologica di
Dio.

Anche a questo proposito l’Alessandrino si rivela come un pensatore originale.


In effetti, per quanto riguarda l’esperienza dei sapienti, egli polemizza e con i filosofi
antichi che consideravano Dio conoscibile attraverso la via del ragionamento, e con
quelli che lo consideravano inconoscibile. Filone, infatti, introduce nella sua
epistemologia un elemento nuovo, ovvero quello della grazia divina – sconosciuto
nell’ambito della filosofia antica. Secondo il nostro filosofo, l’uomo, a causa della
debolezza della sua struttura ontologica, cioè a causa della mancanza degli strumenti
cognitivi adeguati e sufficienti, non è in grado con le proprie forze di conoscere ciò che
trascende il creato. La comprensione della realtà divina, sempre comunque incompleta e
175

non assoluta, è possibile solo quando Dio stesso, in un dono sovrannaturale, vorrà
rivelare all’uomo qualcosa su di sé432. Per questo appunto i filosofi che non hanno fede
e umiltà, qualora fossero colti ed intelligenti, se non invocano l’aiuto di Dio e non
riconoscono la propria nullità davanti a lui, secondo Filone, non giungono mai alla
conoscenza del Dio vero.

A proposito di questo argomento, Filone fa un’interessante modificazione dentro


l’antico schema della tripartizione della ragione filosofica che vale la pena qui
evidenziare. In realtà, il nostro filosofo accetta la distinzione fatta dagli stoici, ovvero
che le principali parti della filosofia sono la logica, la fisica e l’etica433. La teologia,
però, che secondo gli stoici faceva parte della fisica, perché il loro Dio era corporeo e
immanente al mondo, viene in qualche modo elevata dall’Alessandrino e unita all’etica.
Questa ultima, invece, per la scuola del Portico era il coronamento e lo scopo di tutta la
ricerca filosofia. In realtà, Filone sostiene che non è possibile conoscere le realtà divine
senza l’esercizio delle virtù pratiche, cioè senza condurre una vita morale e che non si
può giungere alle più alte vette dell’etica senza l’esercizio delle virtù teoretiche, cioè
senza la ricerca intellettuale di Dio. Come esempi che supportano la sua teoria
l’Alessandrino indica alcuni personaggi biblici che incontrarono Dio per il loro
desiderio di conoscerlo, per la pratica delle virtù, ma soprattutto per il sovrannaturale
dono di grazia. Abramo e Mosè diventano, dunque, i simboli dei sapienti che nella
saggezza e sapienza superano di gran lunga la sapienza dei filosofi. Infatti, in una
visione mistica, o nell’estasi profetica, hanno il contatto con il vero Dio. Ma, come
abbiamo già detto, i sapienti, nonostante in qualche modo privilegiati, non per naturam,
ma per il loro impegno nel cammino morale ed intellettuale, non acquisiscono la
cognizione dell’essenza di Dio. Contemplano ciò che sta dietro di Dio e ciò che lo
segue434, ma non Dio stesso; sanno distinguere e non confondono Dio con le sue
manifestazioni; dietro di esse intuiscono l’esistenza della Causa prima e suprema del
tutto; infine riconoscono colui che è il Signore e la Guida del mondo e della storia, ma
non vedono e non apprendono l’essenza di Dio.

Una tale conoscenza può sembrare scarsa. In realtà, anche i filosofi antichi,
attraverso diverse prove e argomenti razionali, sono giunti alla conoscenza
dell’esistenza di Dio. Secondo l’Alessandrino, invece, i sapienti per la fede, l’amore e

432
Cfr. Phil., Poster. 15-16.
433
Cfr. Phil., Agr. 14-15.
434
Cfr. Phil., Fug. 161-165; Poster. 168-169; Mutat. 7-9; Spec. Leg. I 41-50.
176

l’obbedienza a Dio ricevono molto di più di ciò che tutti i filosofi antichi hanno ottenuto
per via di ragionamento. In realtà, i sapienti diventano gli eredi delle cose divine. Anche
a questo proposito, Filone appare come un pensatore originale. Dice, infatti, che colui
che ha percorso il cammino spirituale, cioè il sapiente, gode non solo della conoscenza
teoretica dell’esistenza di Dio, ma della sua vicinanza e amicizia. In effetti, Dio dimora
nella sua anima. Si serve di essa come di uno strumento utile ad annunciare al mondo la
sua volontà. Rende l’anima simile alla sua natura, ovvero la fa partecipare della sua
gloria, della sua immutabilità e della sua felicità. Dà all’anima del sapiente non solo la
certezza della sua esistenza, ma anche l’assicura della sua continua assistenza e del suo
aiuto, insomma dona quanto nessun filosofo antico poteva essere certo. Tale rapporto
tra Dio e il sapiente è possibile solo se si considera il Dio dell’Alessandrino, come un
Dio personale. In effetti, anche se Filone attribuisce al suo Assoluto le caratteristiche
simili a quello platonico-aristotelico, infatti, egli è di natura intelligibile, è un’attività
pensante, è il luogo delle idee, non mancano nelle sue opere i passi che lo rappresentano
come una persona. Dio dunque liberamente e non automaticamente crea il mondo. Lo
governa e lo guida con l’amore e la bontà. Conduce gli uomini verso la salvezza e,
facendo ciò, interviene nella storia del mondo per punire o per beneficare l’opera delle
sue mani. Infine, aiuta coloro che progrediscono nel cammino spirituale e arricchisce
dei suoi beni le anime di quelli che lo cercano.

A questo proposito troviamo ancora un’altra idea originale propria della dottrina
filoniana. Infatti, il nome biblico di Dio, cioè ku,rioj o` qeo,j, nasconde, secondo
l’Alessandrino, una verità alla quale solo i sapienti hanno il pieno accesso. Gli altri,
invece, conoscono Dio solo parzialmente: o come qeo,j, oppure come ku,rioj. Così,
dunque, i filosofi, che hanno riconosciuto Dio come il creatore del mondo, lo conoscono
solo come qeo,j. Alcuni credenti, invece, cioè quelli che non sono in grado di scorgere il
senso spirituale delle Scritture e di progredire nel cammino morale volontariamente,
hanno bisogno giustamente del “padrone temibile”, così ritiene Filone435. Costoro
considerano Dio come ku,rioj. Solo i sapienti hanno una giusta idea di Dio. Lo
considerano ku,rioj o`mou/ kai. qeo,j436, ovvero come il Creatore e il Signore, come il
Benefattore e la Guida del mondo e della storia. Non solo lo riconoscono come tale, ma
egli stesso diventa il Benefattore e la Guida della loro anima. Infatti, i sapienti
volontariamente si assoggettano alla guida di Dio in quanto ku,rioj, e rendono loro

435
Cfr. Phil., Mutat. 19; Deus 64.
436
Cfr. Phil., Mutat. 19.
177

anima spazio degno di ricevere i suoi benefici in quanto qeo,j. Di conseguenza, Dio in
quanto ku,rioj rende inalterata per sempre la fermezza dell’anima del sapiente, in
quanto qeo,j, invece, fa di lui un uomo di Dio in assoluto437. Il sapiente, dunque, lungo il
suo cammino morale e intellettuale si assimila a Dio. Partecipa della sua immutabilità e
della sua gloria.

L’epistemologia filoniana, dunque, con tutti i suoi punti qui evidenziati, è molto
originale. Da una parte lega la possibilità di conoscenza del divino all’etica, anzi
esclude la conoscenza di Dio senza la pratica delle virtù morali e religiose; dall’altra,
nega la possibilità di conoscere l’essenza divina anche da parte dei sapienti. Da una
parte sottolinea che i sapienti e i perfetti giungono solo alla conoscenza dell’esistenza di
Dio, appunto come lo possono fare tutti i filosofi; dall’altra, mostra che i sapienti
attraverso la grazia apprendono del divino molto di più che i filosofi che non hanno
fede.

In questo paragrafo abbiamo posto in evidenza soltanto alcuni punti originali


della dottrina sulla trascendenza di Dio in Filone. Questi punti, anche se non esaustivi,
bastano per dimostrare che il nostro filosofo, pur essendo un pensatore eclettico, è anche
molto creativo e ricco di intuizioni nuove. Anche se si serve del linguaggio e delle idee
provenienti da varie filosofie, appunto così come fanno i suoi contemporanei, polemizza
con diversi concetti elaborati dai suoi predecessori e introduce nell’ambito della
filosofia soluzioni teoretiche nuove, tra cui possiamo indicare la dottrina delle potenze,
dell’assoluta inconoscibilità dell’essenza divina o del cammino spirituale, insieme etico
e intellettuale, del sepiente. Le sue analisi, a volte, molto raffinate e sublimi come, ad
esempio, quelle concernenti l’ubiquità e l’atopia divina, aspirano ad essere la risposta
alle aporie per le quali gli antichi non avevano trovato una soluzione soddisfacente.

437
Cfr. Phil., Mutat. 24-26.
Capitolo secondo

LA TRASCENDENZA DI DIO IN CLEMENTE DI ALESSANDRIA

2.1. La gnosi cristiana. Le premesse di Clemente

La maggior parte delle osservazioni che abbiamo formulato nell’analogo


paragrafo su Filone, valgono anche per quanto riguarda l’attività letteraria di Clemente.
Così, dunque, anche l’autore cristiano, che vive nello stesso ambiente culturale e
intellettuale, fa uso del metodo allegorico1, si serve delle idee provenienti dalle diverse
scuole filosofiche dell’epoca, e anch’egli considera la sua religione – questa volta il
cristianesimo – come la vera filosofia che dà la risposta a tutte le domande degli antichi.
Anche se nelle opere clementine si individuano diverse influenze ideologiche, il
platonismo – come nel caso di Filone – è la corrente filosofica più apprezzata dal nostro
autore e pertanto più presente nella sua dottrina. Anch’egli, dunque, al modo platonico
distingue due livelli di realtà: quello intelligibile (nohto,j) e quello sensibile (aivsqhto,j).
Nonostante queste somiglianze nel metodo e nell’impostazione generale della filosofia

1
In fatto di allegorismo scritturistico Clemente non solo assomiglia, ma anche si ispira
all’esegesi di Filone. Così, ad esempio, anche per l’autore cristiano Abramo diventa il simbolo del
sapiente, Sara il simbolo della sapienza e Agar il simbolo dell’istruzione preliminare. Cfr. Clem., Strom. I
30,3-31,4. Vale la pena notare che a volte, come ad esempio nel passo qui riportato, Filone viene
esplicitamente menzionato. Sull’argomento cfr. J. Pépin, Mythe et allégorie. Les origines grecques et les
contestations judéo-chrétiennes, Paris 1958, pp. 265 sgg.; J. Daniélou, Typologie et allégorie chez
Clément d’Alexandrie, StPatr 4 (1961), pp. 191-211; R. Mortley, Connaissance religieuse et
herméneutique chez Clément d’Alexandrie, Leiden 1973; M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un
contributo alla storia dell’esegesi patristica, SEA 23, Roma 1985, pp. 66-73; D. Dawson, Allegorical
Readers and Cultural Revision in Ancient Alexandria, Oxford 1992, pp. 182 sgg.; D. Carabine, A Dark
Cloud. Hellenistic Influences on the Scriptural Exegesis of Clement of Alexandria and Pseudo-Dionysius,
in Scriptural Interpretation in the Fathers. Letter and Spirit, ed. T. Finan, V. Twomey, Dublin 1995, pp.
61-74.
179

dei due autori2, troviamo negli scritti clementini i due fili conduttori propri del
cristianesimo nascente. Il primo riguarda il carattere missionario della religione nuova
che, sin dai suoi inizi, si estende in tutto il mondo ellenistico; il secondo, le divisioni e i
problemi dottrinali all’interno del cristianesimo stesso. Da una parte, dunque, Clemente,
servendosi delle molteplici citazioni delle Scritture e degli autori pagani, esorta i greci a
convertirsi al cristianesimo, ovvero all’unica religione che è in grado di procurare la
salvezza; dall’altra confuta gli gnostici che attraverso le interpretazioni forzate delle
Scritture alterano la vera dottrina cristiana. In questo paragrafo mostreremo dunque in
che modo l’autore cristiano svolga la sua argomentazione per quanto riguarda i due
punti sopraindicati e come a questo proposito emerga la problematica relativa a Dio.

Nel suo Protrettico ai greci, uno scritto che si inserisce nella tradizione delle
Apologie cristiane3, Clemente elenca una serie di argomenti che svelano la vanità,
l’irrazionalità e qualche volta anche l’assurdità delle credenze pagane. Secondo
l’Alessandrino, il politeismo non è una religione vera e non proviene da Dio (o dagli
dèi), ma fu inventato dagli uomini stessi, che in maniera irriflessiva divinizzarono gli
astri, la terra, il mare, gli elementi della materia, le passioni e le virtù dell’anima, le
vicende liete e tristi della vita e persino il male e la vendetta 4. Allo sviluppo di tali
credenze contribuirono poeti antichi come Omero e Esiodo5 e alcuni tra i filosofi
materialisti quali Talete, Anassimene, Parmenide, Eraclito, Empedocle e altri6. I primi,
componendo i miti sulle origini e le vicende degli dèi, personificarono le entità astratte

2
Parleremo ancora di tutte queste somiglianze qui segnalate nel corso del presente capitolo; però
già qui accenniamo ad alcuni studi più importanti che trattano delle influenze del pensiero di Filone sulla
dottrina di Clemente. Cfr. S. Lilla, Clement of Alexandria. A Study in Christian Platonism and
Gnosticism, Oxford, 1971; J. C. M. van Winden, Quotations from Philo in Clement of Alexandria’s
Protrepticus, VigChr 32 (1978), pp. 208-213.; D. Wyrwa, Die christliche Platonaneignung in den
Stromateis des Clemens von Alexandrien, Berlin 1983; E. Osborn, Philo and Clement, Prud 19 (1987),
pp. 35-49; A. van den Hoek, Clement of Alexandria and His Use of Philo in the ‘Stromateis’. An Early
Christian Reshaping of a Jewish Model, Leiden 1988; E. Osborn, Philo and Clement. Quiet Conversion
and Noetic Exegesis, SPhA 10 (1998), pp. 108-124 D. T. Runia, Filone di Alessandria nella prima
letteratura cristiana, Milano 1999, pp. 144-170; E. Osborn, Clement of Alexandria, Cambridge 2005,
spec. cap. 4: Philo and Clement: from Divine Oracle to True Philosophy, pp. 81-105. A questo proposito
occorre notare che Clemente non apprende la dottrina platonica attraverso Filone, ma come giustamente
osserva il Runia, “avendo avuto una formazione filosofica pagana prima di diventare cristiano, con tutta
probabilità può aver letto Platone prima di aver acquisito familiarità con Filone. È ancora più probabile
che egli non si sia imbattuto in Filone sino a quando non giunse ad Alessandria e divenne allievo del suo
ultimo maestro, Panteno. Ciò significa che Filone non ha insegnato a Clemente il platonismo, bensì come
connettere il platonismo al pensiero biblico e in particolare all’esegesi biblica, soprattutto mediante l’uso
dell’allegoria”. D. T. Runia, Filone di Alessandria…, p. 163.
3
E come osserva E. Osborn: “It is a handbook for Christians as missionaries, taking the gospel to
those who do not believe”. E. Osborn, Clement of Alexandria…, p. 14.
4
Cfr. Clem., Protr. 26,1-7.
5
Cfr. Clem., Protr. 26,6; 27,4 sgg.; 35,1 sgg.
6
Cfr. Clem., Protr. 64,1-3.
180

o i fenomeni della naturali; i secondi, cercando di trovare le avrcai, della natura e


dell’universo, suggerirono che negli elementi materiali c’è una forza divina che ha il
potere di ordinare e di governare tutta la realtà. In tale modo anche quest’ultimi
“trasformarono la materia in oggetto di adorazione”7. Secondo Clemente, dunque, i
pagani, che prestano il culto a ciò che non esiste, o a ciò che una volta fu semplicemente
divinizzato dall’uomo, altro non sono che atei:

Essi sono affetti da una duplice forma di ateismo: la prima consiste nel
fatto che ignorano Dio, poiché non riconoscono come Dio colui che è
veramente Dio; l’altra, la seconda, consiste in questo errore: credono che
esistono entità che non esistono, e chiamano dei questi che in realtà non lo sono
o, meglio, che neppure esistono, ed altro non sono che semplici nomi8.

Ma con questa affermazione Clemente non si sofferma nella sua critica delle
credenze pagane. Rivela di seguito, infatti, le discordanze che intercorrono tra i miti9,
l’immoralità degli dèi olimpici descritta in essi10, l’assurdità di alcuni culti pagani11 e
l’empietà della devozione delle statue12. A tutto ciò viene contrapposta l’immagine del

7
Clem., Protr. 64,1.
8
Clem., Protr. 23,1. Le citazioni italiane del Protrettico riportate in questo studio provengono
da: Clemente Alessandrino, Protrettico ai greci, a cura di F. Migliore, Roma 2004. In caso della mia o di
un’altra traduzione, sarà segnalato nella nota. L’edizione critica di riferimento di tutte le operre
dell’Alessandrino è quella di O. Stählin, in Clemens Alexandrinus, vol. I: Protrepticus und Paedagogus,
GCS 12, Leipzig 1936; vol. II: Stromata, Buch I-VI, GCS 15, Leipzig 1939; vol. III: Stromata, Buch VII
und VIII. Excerpta ex Theodoto. Eclogae propheticae. Quis dives salvetur. Fragmente, GCS 17, Leipzig
1909.
9
A questo proposito, l’Alessandrino esibendo la sua conoscenza della letteratura mitografica
afferma che secondo diverse testimonianze vi furono tre dèi chiamati Zeus, cinque dee chiamate Atena e
tre dèi chiamati Apollo. Tutti costoro ebbero genitori diversi. Oltre l’origine degli dèi, Clemente rivela
anche le discordanze per quanto riguarda le vicende della loro vita. Atena, ad esempio, che secondo una
tradizione mitologica sarebbe dovuta essere vergine, in un’altra viene presentata come madre di Apollo.
Cfr. Clem., Protr. 28,1 sgg.
10
Per quanto riguarda questo argomento, Clemente mostra che molti dèi, più che l’uomo
qualunque, furono posseduti dalle passioni carnali. Poseidone, ad esempio, ha sedotto una innumerevole
schiera delle fanciulle. Esse, pur essendo tante, non erano in grado di saziare i suoi desideri. Dagli stessi
piaceri furono posseduti Apollo, Zeus e persino le divinità femminili. Queste ultime, secondo i racconti
dei poeti greci, commettevano nella loro vita adulteri innumerevoli. Cfr. Clem., Protr. 32,1 sgg.
11
Cfr., ad esempio, Clem., Protr. 38,4-5: “Gli elei fanno sacrifici in onore di Zeus Apomuio
[scacciatore di mosche] e i romani in onore di Eracle Apomuio […]. Gli argivi onorano Afrodite
Tymborychos [scavatrice di sepolcri], e gli spartani venerano Artemide Chelytide [che tossisce], poiché
nel loro dialetto chelúttein significa appunto «tossire»”. Sulle altre assurdità dei culti pagani cfr. Clem.,
Protr. 39,1 sgg.
12
Per quanto riguarda l’argomento, Clemente enumera una lista delle statue conosciute e
venerate all’epoca. Individua i loro autori e il materiale del quale furono fatte. Fa tutto ciò per mostrare
che non esiste una statua che ‘sia caduta dal cielo’. Se le cose stanno così, è empietà – conclude –
prestare il culto a ciò che è solamente l’opera delle mani dell’uomo (cfr. Clem., Protr. 47,1 sgg.). A
questo proposito non si astiene di fare anche una feroce ironia: “la maggior parte degli uccelli, quando
volano, espellono le loro feci sulle statue stesse, senza darsi il minimo pensiero né di Zeus Olimpico, né
di Asclepio Epidaurio, né di Atena Poliade o dell’egiziano Sarapide: neppure da essi voi riuscite ad
imparare che le statue sono prive di sensibilità”. Clem., Protr. 52,4.
181

Dio vero, ossia del Dio dei cristiani. Le statue venerate dai greci risultano così “pura e
semplice materia morta”, mentre “Dio, il solo che è veramente Dio” è incorporeo; non è
aivsqhto,j, ma nohto,j13. Di seguito, i pagani “plasmandosi le divinità terrene” seguono
nelle loro credenze le cose create (ta. genhta,), mentre il Dio dei cristiani è ingenerato
(avge,nhtoj)14. Egli, essendo senza principio (a;narcoj), è il creatore di tutti i principi
(avrcai,) divinizzati dai greci15. Infine gli dèi pagani sono immorali, a volte malvagi nei
confronti degli uomini, mutabili nelle loro decisioni, mentre il Dio vero è santo (a[gioj),
incontaminato (a;crantoj), imperituro (avkh,ratoj)16, invariabilmente uguale (i;soj avei,) e
immutabile17, ma nello stesso tempo benevolo (crhsto,j), buono (avgaqo,j)18 e
misericordioso. Clemente descrive nel modo seguente il suo amore verso l’uomo, la
provvidenza e la misericordia:

Mosso dall’immenso amore che nutre per gli uomini, infatti, Dio si erge
a difesa dell’uomo, come fa uccello madre, che vola sopra l’uccellino caduto dal
nido; e se mai una serpe strisciante spalanchi la bocca verso l’uccellino,
«intorno vola la madre, piangendo i piccoli amati»19. Dio è un padre e cerca la
sua creatura, guarisce la colpa, scaccia il serpente, risolleva di nuovo
l’uccellino, e lo incita ad alzarsi nuovamente20.

Nel Protrettico, dunque, accanto alla critica delle credenze pagane, troviamo
anche indicazioni sulla base delle quali è possibile costruire l’immagine del Dio vero
che Clemente cerca di trasmettere ai suoi lettori greci; tale Dio è vicino agli uomini, ma
allo stesso tempo trascendente. Nella sua provvidenza si prende cura, non solo del
mondo in generale, ma altresì di ciascun uomo in particolare21. Il rapporto che instaura
con l’uomo, come è possibile notare dalla metafora sopra riportata, è rapporto
personale. Egli è il Padre, infatti, che si preoccupa della condotta di suoi figli. Pur

13
Cfr. Clem., Protr. 51,6: e;stin ga.r w`j avlhqw/j to. a;galma u[lh nekra. tecni,tou ceiri.
memorfwme,nh\ h`mi/n de. ouvc u[lhj aivsqhth/j aivsqhto,n( nohto.n de. to. a;galma, evstinÅ nohto,n( ouvk aivsqhto,n
evsti @to. a;galma# o` qeo,j( o` mo,noj o;ntwj qeo,j.
14
Cfr. Clem., Protr. 56,4.
15
Clem., Protr. 65,4.
16
Cfr. Clem., Protr. 56,2.
17
Cfr. Clem., Protr. 69,3.
18
Cfr. Clem., Protr. 88,1-2.
19
Hom., Il. II 315.
20
Clem., Protr. 91,3.
21
Sull’argomento della provvidenza in Clemente cfr. A. Brontesi, La soteria in Clemente
Alessandrino, Roma 1972, pp. 297 sgg.; P. Karavites, Evil, Freedom, and the Road to Perfection in
Clement of Alexandria, Leiden 1999, spec. pp. 109 sgg.; S. P. Bergjan, Der fürsorgende Gott. Der Begriff
der PRONOIA Gottes in der apologetischen Literatur der alten Kirche, Berlin, 2002, pp.123 sgg.; E.
Osborn, Clement of Alexandria…, pp. 46 sgg.; J. D. Ewing, Clement of Alexandria's Reinterpretation of
Divine Providence. The Christianization of the Hellenistic Idea of Pronoia, Lewiston-New York 2008.
182

essendo persona, il Dio dei cristiani non è antropomorfo come gli dèi olimpici; è di
natura intelligibile e non occupa nessun luogo nel senso fisico-spaziale. Tale concetto di
Dio, come risulta anche dalle notizie contenute nel Protrettico, si contrappone sia alle
credenze pagane sia alle dottrine filosofiche degli antichi. I miti greci, infatti, non
parlano mai di un Dio intelligibile e trascendente, i filosofi invece non conoscono il Dio
che ama, “guarisce le colpe” e che si preoccupa della salvezza dell’uomo.

Anche se gli antichi non furono in grado di acquisire cognizione delle verità, alla
quale i cristiani giunsero per mezzo della rivelazione, secondo Clemente non tutti i greci
furono lontani o privi della verità. Occorre sottolineare, pertanto, che la critica
dell’Alessandrino è indirizzata unicamente a ciò che è assurdo o empio nelle credenze e
nelle dottrine filosofiche degli elleni, ma non a tutta la loro cultura. Anzi, Clemente,
come nessun altro Padre della Chiesa, nutre una grande stima degli autori pagani e li
cita innumerevoli volte. Anche se accusa i poeti di aver inventato e descritto
fantasiosamente le vicende degli dèi olimpici, riporta una serie dei passi di Omero,
Esiodo, Euripide, Orfeo, Menandro e molti altri che – come afferma – “rendono
testimonianza una buona volta alla verità”22. Per quanto riguarda la filosofia, critica,
infatti, gli stoici per il loro materialismo23, ma, poche righe dopo, gli stessi filosofi
vengono lodati per aver descritto adeguatamente la natura del bene e della provvidenza
divina24. Unicamente nei riguardi di Platone, l’Alessandrino sembra non avere obiezioni
gravi; anzi, la figura del filosofo di Atene viene contrapposta agli altri filosofi antichi e
indicata come esempio di una buona ricerca di Dio nella via del ragionamento. In realtà,
dopo aver elencato gli errori delle diverse dottrine filosofiche25, Clemente si rivolge a
Platone con queste parole:

Come, dunque, o Platone, si deve andare alla ricerca di Dio? «È impresa


difficile trovare il padre e il creatore di questo mondo e, trovatolo, è impossibile
manifestarlo a tutti»26. E perché mai è impossibile, in nome di lui stesso?
«Perché è assolutamente inesprimibile con parole umane»27. Bene, o Platone;
hai sfiorato la verità, ma non stancarti. Insieme con me intraprendi la ricerca
intorno al bene; infatti, in tutti gli uomini, proprio in tutti, ma soprattutto in
quelli che impiegano il loro tempo nei ragionamenti, è stato infuso un certo

22
Cfr. Clem., Protr. 73,1 sgg.
23
Cfr. Clem., Protr. 66,3.
24
Cfr. Clem., Protr. 72,1-3.
25
Cfr. Clem., Protr. 64,1-66,1.
26
Plat., Tim. 28 C.
27
Plat., Epist. VII 341 C.
183

effluvio divino (avpo,rroia qei?kh,). In verità, e grazie a questo effluvio che


costoro ammettono, anche se mal volentieri, che esiste un solo Dio, che egli è
immune da corruzione e da generazione (avnw,leqroj kai. avge,nhtoj)28, e che
esiste veramente e per sempre in alto, nelle più distanti regioni del cielo29, in
una sua propria e particolare dimora (periwph,)30,31.

Osserviamo all’inizio che il testo appena citato mostra da parte di Clemente


grande familiarità con l’intera produzione di Platone. In realtà, il nostro autore compone
la conversazione con il filosofo ateniese con citazioni tratte sia dai Dialoghi (come
Timeo, Fedro, Politico), che dalle lettere. Il motivo per cui la filosofia platonica è tanto
stimata dall’Alessandrino è appunto riguardo al concetto di Dio. Platone parla, infatti, di
un Dio intelligibile, dunque difficile da trovare da parte di coloro che sono abituati a
conoscere solo per il tramite delle sensazioni. Parla di un Dio indistruttibile e ingenerato
(avnw,leqroj kai. avge,nhtoj), lo considera il padre e il creatore dell’universo (path,r kai.
poihth,j tou/ panto,j). Tale Dio non fa parte del mondo visibile, ma esiste nelle “regioni
più distanti del cielo”, ovvero in un luogo definito come periwph,32. Il Dio di Platone,
dunque, è trascendente sia dal punto di vista ontologico, che da quello semiologico,
perché è “inesprimibile con parole umane”. È da notare, però, che nonostante
l’apprezzamento nei confronti della dottrina platonica, Clemente tende ad integrarla con
quanto è sfuggito, in qualche modo, al pensiero del grande filosofo. A ragione nel passo
sopraccitato, dopo le parole: “non stancarti [o Platone] e insieme con me intraprendi la
ricerca intorno al bene”, l’Alessandrino si rifà alla la dottrina stoica del logos
spermatikos, ossia dei semi razionali sparsi nell’umanità. Così, dunque, Dio è buono,
non soltanto perché ha creato il mondo buono e bello, come pensa Platone, ma anche
perché ha infuso in tutti gli uomini un “effluvio divino”, attraverso il quale proprio tutti,
e non solo i filosofi, possono giungere alla verità e alla conoscenza del Dio vero.
Nonostante nel passo citato l’Alessandrino adoperi la parola avpo,rroia qei?kh, (effluvio o

28
Cfr. Plat., Tim. 52 A.
29
Cfr. Plat., Phaedr. 247 B.
30
Cfr. Plat., Polit. 272 E.
31
Clem., Protr. 68, 1-3.
32
La parola periwph, significa ‘luogo dove si vede attorno’, ‘posto d’osservazione’, o ‘specola’.
Aggiungiamo però che nonostante l’uso di questa parola platonica l’Alessandrino non attribuisce a Dio
alcun luogo. Infatti, come vedremo più avanti, il Dio di Clemente è al di là del luogo. In questo passo il
nostro autore enumera soltanto alcuni punti dottrinali attraverso i quali Platone si è avvicinato alla
dottrina cristiana e perciò alla verità. Infatti, parlando della periwph,, il filosofo ateniese ha espresso l’idea
della trascendenza e dell’onniscienza di Dio. In questo modo si è staccato dal concetto del divino
contenuto nella mitologia.
184

emanazione divina) che è di provenienza biblica33, in altri luoghi, insieme agli stoici,
parlerà del Logos tramite il quale l’umanità intera è guidata verso la verità34.

Notiamo, dunque, che l’Alessandrino, pur stimando alcuni filosofi più di altri (è
il caso di Platone) e criticandone altri (gli stoici), apprezza e utilizza tutte le idee che
considera vere e giuste elaborate da diverse scuole filosofiche dell’antichità35. Lo stesso
riguarda altresì le verità contenute nelle opere dei poeti greci 36. In realtà, anche nel testo
che segue il passo sopracitato, Clemente riporta brani di Euripide e di Menandro che,
analogamente a Platone, parlano del Dio invisibile e inconoscibile37. Quale è il motivo
di tale atteggiamento? Da una parte l’Alessandrino, volendo fare un’apologia del
cristianesimo, mostra che i cristiani professano le stesse idee riguardo alle quali
parlavano i grandi autori dell’antichità; dall’altra egli crede veramente che tutto ciò che
è vero provenga da uno solo a cui appartiene la verità, ovvero dal Logos della verità38.
Se il Logos, come abbiamo già detto, guidava e ispirava gli antichi nella ricerca della
verità, la filosofia nata come il risultato di questa ricerca deve essere il dono
provvidenziale di Dio. All’epoca di Clemente, però, non tutti i cristiani erano di tale
parere. Anzi, alcuni consideravano la filosofia come l’opera del diavolo, ovvero
“escogitata da un malvagio inventore a rovina del genere umano”39. Perciò nei suoi
Stromati l’Alessandrino respinge tali opinioni e mostra la loro assurdità:

33
Cfr. Sap. 7,25.
34
Cfr. Clem. Protr. 74,7: “Se, infatti, pur avendo innegabilmente ricevuto alcune scintille del
Logos divino (evnau,smata, tina tou/ lo,gou tou/ qei,ou), i greci hanno fatto sentire solo pochi accenni della
verità, per un verso rendono testimonianza alla verità, riconoscendo che la sua potenza non è stata tenuta
nascosta, e dall’altro, dato che non sono giunti fino alla fine rivelano la propria debolezza”. Cfr. anche
Clem, Strom. I 37,1-5, dove il nostro autore interpreta la parabola evangelica del seminatore. Anche se le
influenze dello stoicismo in Clemente sono evidenti, egli non menziona mai gli spermatikoi. lo,goi. Cfr.
M. Pohlenz, La stoa. Storia di un movimento spirituale, Firenze 1967, vol. II, pp. 297 sgg. Questo
argomento viene analizzato più ampiamente da S. Lilla, Clement of Alexandria…, pp. 12-29.
35
Osserviamo, comunque, che l’unica filosofia della quale l’Alessandrino non ha nessuna stima
e della quale non vuole fare nessun uso è quella degli epicurei. Infatti, dopo aver descritto gli errori che
commisero diversi filosofi antichi dice: “Trascurerò, e lo faccio ben volentieri, soltanto Epicuro, il quale,
nella sua più totale empietà, crede che Dio non si curi di nulla”. Clem., Protr. 66,5. Sulla critica di
Epicuro cfr. anche Strom. I 1,2; 50,6; II 119,3-5; 127,1-128,2; V 90,2; VI 67,2.
36
A questo proposito osserviamo che l’Alessandrino “cita 348 autori classici, tra cui Platone
circa 600 volte e Omero 240. 300 sono i riferimenti a Filone Giudeo”. Cfr. M. Rizzi, Introduzione, in
Clemente di Alessandria, Gli Stromati. Note di vera filosofia, a cura di G. Pini, Milano 2006, p. VIII.
Sull’erudizione di Clemente cfr. anche H. Chadwick, Early Christian Thought and the Classical
Tradition. Studies in Justin, Clement, and Origen, Oxford 1966, pp. 36 sgg.; E. Osborn, Clement of
Alexandria…, pp. 16 sgg.; 71 sgg.
37
Cfr. Clem., Protr. 68,3-5.
38
In diversi luoghi delle opere clementine il Logos è chiamato il lo,goj th/j avlhqei,aj. Senza di
lui nessun uomo è capace di giungere la verità. Cfr. Clem., Protr. 75,1; 117,4; Ecl. Proph. 27,6; Strom. I
57,2; V 13,2.
39
Cfr. Clem., Strom. I 18,3. Secondo H. Chadwick, condivideva questa opinione sopratutto un
gruppo di cristiani “anti-gnostici”. Cfr. Id., Early Christian Thought…, pp. 43-44.
185

Non è dunque assurdo, se si attribuisce il disordine e l’iniquità al


diavolo, immaginare proprio lui datore di uno strumento di virtù come la
filosofia? C’è caso allora che egli si sia rivelato per i Greci più benevolo della
provvidenza e della’intelligenza divina nel dotarli di individui virtuosi! No, io
credo anzi che sia proprio di ogni legge e di ogni retta ragione dare a ciascuno
ciò che gli compete e gli è proprio e gli è conforme. Come la lira compete solo
al citaredo e il flauto al flautista, così il privilegio del bene è possesso dei buoni;
e allo stesso modo natura del benefattore è beneficare, come del fuoco
riscaldare e della luce illuminare. Il buono non farà mai del male, come mai la
luce non farà tenebra, né il fuoco raffredderà. Così, viceversa, il vizio non
produrrà mai nulla di virtuoso, perché la sua funzione è fare il male, come della
tenebra confondere la vista. Non è dunque opera del vizio la filosofia, se crea le
persone virtuose. Resta dunque [che sia opera] di Dio, opera del quale è soltanto
beneficare. Tutto ciò che è stato dato da Dio è bene che sia dato come che sia
ricevuto. E invero la pratica della filosofia non è cosa di gente malvagia. Anzi,
se è stata data ai migliori fra i Greci, è evidente anche da che fonte è stata
donata: naturalmente dalla Provvidenza, che distribuisce a ciascuno ciò che
secondo il merito gli si conviene. Meritamente dunque ai Giudei la legge, ai
Greci la filosofia, fino alla venuta40.

Il ragionamento contenuto in questo passo è seguente:

1. Il diavolo è l’autore del male. Egli non fa mai alcuna cosa buona.
2. La filosofia produce il bene, ovvero fa nascere gli uomini virtuosi.
3. La filosofia, dunque, non può essere l’opera del diavolo.
4. La natura del buono è fare il bene e del benefattore beneficare.
5. Dio è il buono e il benefattore. Egli non fa mai alcuna cosa malvagia.
6. La filosofia, dunque, dato che produce frutti buoni, deve essere l’opera di
Dio.

Abbiamo già detto che gli antichi, per il tramite della filosofia, sono giunti anche
alle verità nelle quali credono i cristiani. Ora vediamo che, secondo Clemente, c’è
ancora un altro frutto della filosofia, ossia la vita virtuosa che devono condurre coloro
che si occupano di essa. Infatti, “la pratica della filosofia non è cosa di gente malvagia”.
Se è così, ovvero se la filosofia fa nascere gli uomini virtuosi, per necessità deve essere
40
Clem., Strom. VI 159,1-8. Le citazioni italiane degli Stromati riportate in questo studio
provengono da: Clemente di Alessandria, Gli Stromati. Note di vera filosofia, a cura di G. Pini, con la
traduzione del libro VIII di A. Zanotti Fregonara, Milano 2006. In caso della mia o di un’altra traduzione,
sarà segnalato nella nota. L’edizione critica di riferimento è quella di O. Stählin, op. cit..
186

il dono della Provvidenza divina. In realtà, Dio – sostiene l’Alessandrino – “vuole


beneficare l’umanità attraverso la cultura […], e in ogni tempo lo vuole. Perciò suscita
le persone adatte alla proficua esplicazione delle attività che contribuiscono alla virtù,
alla pace, alla beneficenza”41. Prima della venuta del Salvatore, dunque, Dio beneficava
l’umanità anche per mezzo della filosofia. Essa, non solo, non è opera del diavolo, ma
come leggiamo nell’ultima parte del passo sopraccitato, per la volontà di Dio svolgeva
la stessa funzione in mezzo ai Greci che la legge in mezzo ai Giudei42. Infatti, grazie
alla filosofia gli antichi, pur non conoscendo l’insegnamento di Gesù Cristo, vissero
secondo i precetti evangelici. Inoltre, come afferma Clemente in un altro luogo, la
filosofia “abituava l’orecchio dell’umanità alla predicazione del Vangelo”43.

Vale la pena osservare che secondo l’Alessandrino la filosofia conserva il suo


valore anche dopo la venuta del Salvatore. Infatti, essa diventa “una propedeutica
(propaidei,a) per coloro che intendono conquistarsi la fede per via di dimostrazione
razionale”44. Per coloro invece che già credono in Cristo, la filosofia serve come
strumento per comprendere la fede acquisita45 e per difenderla con gli argomenti
razionali46. Anzi, secondo l’Alessandrino, il cristianesimo stesso è la vera filosofia,
perché conduce alla conoscenza sicura ed infallibile:

La conoscenza di quelli che si credono sapienti, si tratti di eresie


barbare o di filosofi greci, «questa conoscenza gonfia», al dire dell’apostolo47.
Degna di fiducia è invece la conoscenza, che è dimostrazione scientifica delle
dottrine trasmesse secondo la vera filosofia. E dovremo dire che essa è un
discorso logico che ci dà la fede in ciò di cui si dubita sulla base di quanto è
ammesso come certo. E poiché la fede è duplice, l’una deriva dalla scienza,
l’altra dalla congettura, niente vieta di parlare di una duplice dimostrazione,
l’una scientifica l’altra congetturale. Tanto più che si parla pure – altra duplicità
– di conoscenza e pre-conoscenza: l’una è perfetta nella sua natura, l’altra
manchevole. E forse la nostra dimostrazione è la sola vera, in quanto fornita da

41
Clem., Strom. VI 158, 2-4.
42
Cfr. Clem., Strom. I 28,3.
43
Clem., Strom. VI 44,1-2. Cfr. anche VII 11,2-3; 20,2.
44
Clem., Strom. I 28,1.
45
Cfr. Clem., Strom. VI 109,1-3; VII 55,1-5.
46
Cfr. Clem., Strom. I 20, 2-4; I 28,4.
47
1 Cor. 8,1.
187

divine Scritture, dalle sacre lettere e dalla sapienza «insegnata da Dio»48, come
dice l’apostolo […].

La dimostrazione congetturale invece è tutta umana e deriva dalle


argomentazioni retoriche e dai sillogismi dialettici. Insomma, la dimostrazione
superiore, quella a cui alludevamo col termine ‘scientifica’, ingenera la fede
attraverso l’esposizione e l’esplicazione delle Scritture alle anime desiderose
d’apprendere: e la conoscenza vuol dire tutto questo. Se infatti i modi di
indagine applicati ad un solo oggetto di ricerca si assumono come veri, come
[devono essere] se sono divini e profetici, è evidente allora che la conclusione
inferitane sarà di conseguenza inferita come vera: così la conoscenza, avrà per
noi davvero l’aspetto di una dimostrazione49.

Alla venuta del Salvatore, dunque, la filosofia continua a svolgere una funzione
importante, anche per quanto riguarda il cristianesimo stesso. L’esposizione della
dottrina cristiana avviene, infatti, secondo le regole del metodo adoperato dai filosofi.
Tale esposizione, perciò, viene definita da Clemente come evpisthmonikh. avpo,deixij
(dimostrazione scientifica). Ma il metodo scientifico non serve soltanto per convincere i
pagani a convertirsi al cristianesimo, contribuisce altresì al progresso nella fede di
coloro che già credono e ugualmente allo sviluppo della dottrina cristiana. In realtà,
secondo l’Alessandrino, le Sacre Scritture contengono le premesse certe e infallibili, ma
non tutta la conoscenza possibile che l’uomo credente può raggiungere. Ora, il discorso
logico (lo,goj), a partire dalle premesse scritturistiche, giunge a conclusioni che la
Bibbia non contiene. Anch’esse diventano ulteriormente oggetto della fede. Infatti –
dichiara Clemente – la dimostrazione scientifica della tradizione tramandata dagli
apostoli “ci dà la fede in ciò di cui si dubita sulla base di quanto è ammesso come
certo”. In questo modo la dottrina cristiana viene arricchita di idee e di concetti nuovi

48
1 Thess. 4,9.
49
Clem., Strom. II 48,1-4; 49,2-4: avllV h` me.n tw/n oivhsiso,fwn( ei;te ai`re,seij ei=en ba,rbaroi ei;te
oi` parV h]llhsi filo,sofoi( ¹gnw/sij fusioi/¹ kata. to.n avpo,stolon\ pisth. de. h` gnw/sij h[tij a'n ei;h
evpisthmonikh. avpo,deixij tw/n kata. th.n avlhqh/ filosofi,an paradidome,nwn) fh,saimen dV a'n auvth.n lo,gon
ei=nai toi/j avmfisbhtoume,noij evk tw/n o`mologoume,nwn evkpori,zonta th.n pi,stin) pi,stewj dV ou;shj ditth/j(
th/j me.n evpisthmonikh/j( th/j de. doxastikh/j( ouvde.n kwlu,ei avpo,deixin ovnoma,zein ditth,n( th.n me.n
evpisthmonikh,n( th.n de. doxastikh,n( evpei. kai. h` gnw/sij kai. h` pro,gnwsij ditth. le,getai( h] me.n
avphkribwme,nhn e;cousa th.n e`auth/j fu,sin( h] de. evlliph/Å kai. mh, ti h` parV h`mi/n avpo,deixij mo,nh a'n ei;h
avlhqh,j( a[te evk qei,wn corhgoume,nh grafw/n( tw/n i`erw/n gramma,twn kai. th/j ¹qeodida,ktou¹ sofi,aj kata.
to.n avpo,stolon […].
h` de. doxastikh. apo,deixij avnqrwpikh, te. evsti kai. pro.j tw/n r`htorikw/n ginome,nh evpiceirhma,twn
h' kai. dialektikw/n sullogismw/n h` ga.r avnwta,tw avpo/deixij( h]n hv|nixa,meqa evpisthmonikh,n( pi,stin
evnti,qhsi dia. th/j tw/n grafw/n paraqe,sew,j te kai. dioi,xewj tai/j tw/n manqa,nein ovregome,nwn yucai/j(
h[tij a'n ei;h gnw/sij) eiv ga.r ta. paralambano,mena pro.j to. zhtou,menon avlhqh/ lamba,netai( w`j a'n qei/a
o;nta kai. profhtika,( dh/lo,n pou w`j kai. to. sumpe,rasma to. evpifero,menon auvtoi/j avkolou,qwj avlhqe.j
evpenecqh,setai\ kai. ei;h a'n ovrqw/j h`mi/n avpo,deixij h` gnw/sij.
188

che sono altrettanto veri e sicuri come le premesse dalle quali derivano 50. Con queste
affermazioni l’Alessandrino pone il fondamento metodologico anche per la futura
teologia cristiana51.

Per comprendere meglio il peso dell’argomentazione contenuta in questo passo,


occorre accennare ad una distinzione terminologica dell’ambito dell’epistemologia
antica. Infatti, sin dai suoi inizi la filosofia greca distingueva due tipi di conoscenza:
l’evpisth,mh (la scienza) e la do,xa (l’opinione). L’uno relativo a ciò che è immutabile,
sempre uguale, basato sul logos, sicuro e infallibile; l’altro relativo a ciò che diviene,
basato sui sensi, ingannevole, incerto e spesso semplicemente erroneo 52. Ora Clemente,
conoscendo bene questa distinzione, attribuisce alla conoscenza dei cristiani lo status
dell’evpisth,mh. Il cristianesimo è, infatti, la vera scienza, perché si basa su premesse
certe e infallibili, ossia sulle verità divine, e, come già detto, viene esposta in modo
scientifico53. Se un ragionamento contiene premesse vere e indubitabili – riflette
l’Alessandrino – e se procede rispettando le regole della logica, le sue conclusioni per
forza devono essere altresì vere e indubitabili. È appunto, il caso della dottrina cristiana.
La conoscenza (gnw/sij) alla quale giungono i cristiani appartiene, a ciò che dagli antichi
veniva chiamato evpisth,mh, ovvero la scienza sicura e infallibile. Clemente attribuisce lo
status della do,xa, invece, alla conoscenza acquisita dai filosofi antichi. In realtà essa non
è la vera gnw/sij, ma pro,gnwsij; non perché i filosofi si siano basati sui sensi piuttosto
che sull’intelletto, o non abbiano usato il metodo scientifico, ma perché le premesse
50
Sull’argomanto cfr. J. Pépin, La vraie dialectique selon Clément d'Alexandrie, in Epektasis.
Mélanges patristiques offerts au Cardinal Jean Daniélou, a cura di J. Fontaine, C. Kannengiesser, Paris
1972, pp. 375-383; G. Apostolopoulou, Die Dialektik bei Klemens von Alexandria. Ein Beitrag zur
Geschichte der philosophischen Methoden, Frankfurt am Main 1977; E. F. Osborn, Logique et exégèse
chez Clément d'Alexandrie, in Lectures anciennes de la Bible, Strassbourg 1989, pp. 169-189; E. Osborn,
Clement of Alexandria…, pp. 62 sgg.
51
Cfr. C. Mondésert, Clément d'Alexandrie. Introduction à l'étude de sa pensée religieuse à
partir de l'écriture, Paris 1944, p. 237 sgg.
52
Tale distinzione troviamo già in Parmenide (cfr. DK 28 B 1), ma in Platone svolge un ruolo
particolarmente importante. Cfr. Plat., Men. 97 A sgg.; Resp. V 477 A sgg. e altri.
53
Anche se, come abbiamo accennato sopra, la distinzione tra l’evpisth,mh e la do,xa è presente
nella filosofia greca sin dai suoi inizi, in questo passo Clemente potrebbe riferirsi in particolare ad
Aristotele che introdusse la distinzione tra il sillogismo scientifico e dialettico. La questione è stata
analizzata dettagliatamente da S. Lilla che constata: “The distinction between pistis and avpo,deixij
evpisthmonikh, and doxastikh, which Clement points out in these two passages [i.e. Strom. II 48,1; VIII 5,2-
3] is based on the distinction drawn by Aristotle between the scientific syllogism on the one hand and the
dialectical and rhetorical syllogisms on the other. Whereas the scientific syllogism or demonstration (see
An. Pr. 71 B 18, avpo,deixin de. le,gw sullogismo.n evpisthmoniko,n) is based on premisses which are
primary and true, the two other kinds of syllogism start from premisses which belong to the sphere of
do,xa”. Cfr. S. Lilla, Clement of Alexandria..., p. 134. Cfr. Aristot., Top. 100 A 27-30; An. Pr. 46 A 9-10;
27 A 1; Rhet. 1355 A 6-9. Di seguito lo studioso italiano analizza anche le possibili fonti
mendioplatoniche di questo concetto clementino, nelle quali le influenze della terminologia aristotelica
sono evidenti. Cfr. Ibid., pp. 134-136. Sull’argomento cfr. anche H. A. Wolfson, La filosofia dei Padri
della Chiesa, vol. I: Spirito, Trinità, Incarnazione, Brescia 1978, pp. 113 sgg.
189

sulle quali costruivano “l’edificio” della loro scienza erano incerte e dubitabili. Infatti,
se all’inizio di un ragionamento viene posta come premessa una congettura o
un’opinione incerta, anche la conclusione deve essere soltanto congetturale
(doxastikh,)54; è stato nel caso della filosofia dei greci.

Bisogna comunque notare che, secondo l’Alessandrino, alcuni filosofi, come ad


esempio Platone, posero alla base dei loro sistemi premesse vere e giunsero a
conclusioni altresì vere. Potremmo dunque domandare: la conoscenza alla quale
giunsero costoro fu di tipo evpisthmonikh, o doxastikh,? Dopo tutto ciò che abbiamo detto,
dato che le premesse dei filosofi sono sempre soltanto congetturali, consegue che anche
le dottrine filosofiche vere dovrebbero appartenere a questo secondo tipo della
conoscenza, ovvero alla do,xa. Clemente è, però, consapevole che anche Platone aveva
distinto precisamente tra l’evpisth,mh e la do,xa55 considerando la sua filosofia appunto
come evpisth,mh. Probabilmente per questo, nel passo suddetto, invece di usare
l’indicativo, si serve dell’ottativo greco dicendo: “E forse la nostra dimostrazione è la
sola vera (h` parV h`mi/n avpo,deixij mo,nh a'n ei;h avlhqh,j), in quanto fornita da divine
Scritture, dalle sacre lettere e dalla sapienza insegnata da Dio”. Può darsi che, secondo

54
In realtà, la parola do,xa, come abbiamo già detto, significa ‘opinione’. L’aggettivo doxastikh,
dunque dovrebbe significare ‘concernente l’opinione’ o ‘che si fonda su un’opinione’. Ma dalla
spiegazione che nel passo suddetto ci dà Clemente risulta che la conoscenza dei filosofi non è
semplicemente un’opinione senza fondamento. Al contrario, è un ragionamento ben argomentato, però
fondato sulla congettura, ossia sulle premesse incerte. Quindi l’aggettivo doxastikh, può essere tradotto
anche come ‘congetturale’.
A questo proposito occorre notare che Clemente sostiene che non solo la dottrina cristiana, ma
anche i più perfetti sillogismi dei filosofi pagani si basano ultimamente sulla fede. Infatti, nel passo di
Strom. VIII 7,1-2 il nostro autore afferma: “Ora, o tutte le cose hanno bisogno di una dimostrazione,
oppure alcune di esse sono di per sé sicure. Ma, se nel primo caso, pretenderemo la dimostrazione di
ciascuna dimostrazione, avanzeremo verso un processo infinito, e così la dimostrazione stessa sarà resa
impossibile. Nel secondo caso, invece, quelle stesse cose, credibili di per se stesse, diventeranno principi
di dimostrazione. Per esempio, i filosofi riconoscono i principi di tutte le cose come indimostrabili. Tanto
che, se pure ci sia dimostrazione, è assolutamente necessario prima di tutto che ci sia qualcosa di sicuro di
per sé, cosa che viene definita principio indimostrabile. Tutta la dimostrazione allora si rimette alla fede
indimostrabile (evpi. th.n avnapo,deikton a;ra pi,stin h` pa/sa avpo,deixij avna,getai)”. Da questo passo risulta,
che dal punto di vista metodologico, tra la conoscenza dei filosofi cristiani e quella dei filosofi pagani,
non c’è nessuna differenza: la prima e la seconda si basano ultimamente sulla fede che i principi posti
come base di un ragionamento logico sono sicuri. La superiorità della dottrina cristiana, però, consiste nel
fatto che gli assiomi che ammette provengono da Dio e non da sola ragione umana. All’argomento
ritorneremo ancora nel paragrafo 2.4: La trascendenza gnoseologica di Dio, comunque già adesso
rimandiamo a uno studio (in gran parte dedicato all’epistemologia clementina) di H. F. Hägg, Clement of
Alexandria and the Beginnings of Christian Apophaticism, Oxford 2006. Sul nostro argomento cfr.
soprattutto cap.: The Concept of Knowledge, pp. 208-212.
55
Notiamo che, Platone non solo distingue tra l’evpisth,mh e la do,xa, come abbiamo accennato
sopra, ma lega l’evpisth,mh alle realtà intelligibili e trascendenti. Inoltre, è apprezzato da Clemente per
avere espresso adeguatamente il concetto del Dio trascendente.
190

l’Alessandrino, anche Platone, in quanto ispirato dal Logos della verità56, si fosse basato
non su opinioni meramente umane o su una congettura, ma sulle verità divine, quindi
certe e infallibili. Ma anche in questo caso la filosofia cristiana rimane superiore rispetto
a quella pagana, perché – come afferma il nostro autore in un altro passo – i cristiani,
tramite le Scritture raggiungono la verità in modo completo, mentre i filosofi antichi la
raggiungono soltanto parzialmente57. Per Clemente dunque la conoscenza (gnw/sij)
cristiana supera quella greca in diversi livelli. Anche se i cristiani si servono dello stesso
metodo scientifico che i greci, soltanto questi primi si basano sugli assiomi sicuri e
indubitabili58. E anche se i filosofi pagani giungono a volte alle medesime conclusioni
dei filosofi cristiani, solo questi ultimi, grazie alla rivelazione divina, sono in grado di
conoscere la verità completa.

Finora abbiamo parlato dello status metodologico della dottrina cristiana nei
confronti delle concezioni epistemologiche elaborate nell’ambito della filosofia greca.
Ma, il passo suddetto contiene ancora un’altra polemica. Infatti, il carico concettuale del
termine gnw/sij, adoperato in esso parecchie volte, richiama la discussione di Clemente
con le dottrine gnostiche. Furono, appunto, gli gnostici a credere e a vantarsi di

56
Infatti, in un luogo Clemente mentre cita Platone lo chiama: o` filalh,qhj Pla,twn oi‐on
qeoforou,menoj (l’amico della verità, quasi ispirato da Dio). Cfr. Clem., Strom. I 42,1.
57
Infatti, parlando dei principi veri presenti nelle dottrine di diverse scuole filosofiche
dell’antichità, Clemente afferma: “E questi stessi principi, sottratti alla grazia divina concessa ai “barbari”
sono stati abbelliti con eloquenza greca. [I Greci] in parte li sottrassero, in parte li fraintesero; negli altri
casi certe cose hanno espresso con divina ispirazione, ma non le resero alla perfezione, certe altre hanno
espresso con congetture e raziocinio umano, e qui anche falliscono. Essi s’illudono di raggiungere la
verità in modo completo, ma noi li scopriamo: essi la raggiungono solo parzialmente”. Clem, Strom., VI
55,4.
In questo passo, come in molti altri, appare, già tradizionale, l’argomento dei furta Graecorum.
Infatti, prima di Clemente ne avevano parlato Aristobulo (cfr. Clem., Strom. I 150,1-4), Filone (Her. 214;
Mutat. 167-168) e gli apologisti (cfr., ad esempio, Iust. I Apol. 60,1-5; 60,22). Così, dunque, i Greci
hanno sottratto ai barbari alcuni principi di provenienza divina. Ma anche in questo caso li fraintesero.
Perciò nonostante il furto delle idee non raggiunsero la verità completa. Sull’argomento dell’anteriorità
della sapienza cristiana rispetto a quella greca e sui furta Graecorum cfr. anche Clem, Strom., I 10,2; 72,4
sgg.; 101,1 sgg.; 148,1 sgg.; II 1,1 sgg.; 20,1; 101,1 sgg.; V 10,1 sgg.; 89,1 sgg. e altri. Notiamo, ancora,
che questo argomento è molto importante per Clemente, perché rivelando il plagio dei greci, egli risponde
alle simili accuse formulate dai pagani dell’epoca contro il cristianesimo. Infatti, nella seconda metà del
secondo secolo, il filosofo pagano Celso scrive un’opera intitolata VAlhqh.j lo,goj, nella quale mostra che
il cristianesimo non solo è una religione nuova e incoerente, ma sotto alcuni aspetti è semplicemente una
copia delle antiche dottrine dei filosofi greci. Sull’argomento cfr. C. Andresen, Logos und Nomos. Die
Polemik des Kelsos wider das Christentum, Berlin 1955, pp. 108 sgg.; S. Lilla, Clement of Alexandria...,
pp. 31 sgg.
58
A questo proposito riportiamo un’accurata conclusione di S. Lilla con la quale concordiamo:
“By regarding pistis as the acceptance of the principle of scientific demonstration and as immediate
knowledge, he [i.e. Clement] made it clear that, since any kind of knowledge must ultimately be based on
some undemonstrated principle, there was no sufficient reason for the opposition of the Greek
philosophers against the Christian idea of faith; by pointing out the necessary link between pistis (i.e. the
acceptance of the principle of demonstration) and gnosis (the result of demonstration itself) and by
identifying gnosis with the scientific pistis he showed to the Valentinians that there was no antithesis
between pistis and gnosis”. S. Lilla, Clement of Alexandria..., pp. 141-142.
191

possedere la vera gnosi. La loro convinzione non sarebbe stata così pericolosa per il
cristianesimo nascente se costoro non si fossero serviti delle stesse Scritture delle quali
si valeva la Chiesa cattolica. Anche per tale motivo l’Alessandrino pose un forte accento
proprio sul metodo dell’esposizione delle Scritture. Esso – insiste Clemente – deve
essere evpisthmonikh,, perché solo in questo modo possono essere raggiunte conclusioni
vere. Gli gnostici invece, anche se si servivano del metodo allegorico, uguale a quello
adoperato dai cristiani e dall’Alessandrino stesso, forzavano, o addirittura, qualche
volta, violavano, il senso delle Scritture in favore dei loro presupposti ideologici.
Clemente, dunque, dovrà mostrare che l’esposizione delle Scritture fatta dagli gnostici
non è metodologicamente accettabile. Infatti, essa non rispetta le regole dell’indagine
scientifica. Lo vedremo meglio in un altro esempio.

Nel suo Pedagogo Clemente di Alessandria dedica parecchio spazio all’analisi


del significato dei termini pai/j (bambino) e nh,pioj (fanciullo) che nelle Scritture
vengono spesso adoperati nei confronti di coloro che credono in Dio59. Tale indagine, a
prima vista di poca rilevanza, ha uno sfondo polemico molto importante. Gli gnostici
cercavano, a tal proposito, di mostrare che la Bibbia parla non soltanto dei “bambini”,
ma anche degli “uomini” (cioè degli adulti) nella fede. I primi sarebbero i fedeli
semplici, privi della vera gnosi, i secondi i perfetti, cioè gli gnostici stessi – gli unici
possessori della gnosi portata dal Salvatore. Inoltre, i semplici non sarebbero mai in
grado di raggiungere la conoscenza del Dio vero, mentre i perfetti, prima o poi,
dovrebbero acquisire la gnosi, perché per naturam sono destinati a questo scopo. Tale
presupposto ideologico, esposto ampiamente nel mito gnostico giuntoci attraverso la
testimonianza di Ireneo, influenzava l’esegesi gnostica dei passi scritturistici relativi alla
fanciullezza divina60. Clemente considera l’interpretazione siffatta forzata e non
scientifica. Perciò, elencando numerosi passi scritturistici nei quali appaiono i termini

59
Cfr. Clem., Paed. I 12,1 sgg.; 16,1 sgg.; 20,1 sgg.; 33,1 sgg.
60
In realtà, secondo la notizia di Ireneo, gli gnostici (soprattutto quelli della scuola di Valentino),
distinguevano tre nature degli uomini: gli spirituali, gli psichici e gli ilici. Gli spirituali erano destinati alla
salvezza per natura; gli psichici, essendo gli unici dotati di libero arbitrio, potevano, ma non dovevano
essere salvati; gli ilici per natura non potevano essere salvati. Gli gnostici sostenevano di essere di natura
spirituale e di possedere la gnosi perfetta delle cose divine. Dopo la morte ritornerebbero alla sostanza
spirituale, ovvero al Pleroma. I cristiani venivano considerati da loro come psichici, che pur non avendo
la gnosi perfetta, potrebbero essere salvati per le opere e per la ‘nuda fede’; però la loro dimora
escatologica sarebbe la ‘Regione intermedia’. Il gruppo degli ilici, invece, includeva i giudei e i pagani.
Costoro non erano in grado di raggiungere nessuna gnosi relativa alle realtà spirituali e alla fine sarebbero
ridotti a non essere insieme con tutta la materia del mondo. Cfr. Iren., Adv. Haer. I 6,1 sgg. Cfr. anche
Clem., Exc. ex Theod. 56,1-58,1; 61,8.
Anche se nel Pedagogo Clemente non cita esplicitamente il mito gnostico, possiamo ipotizzare
che i testi relativi alla fanciullezza divina da lui analizzati erano appunto gli stessi degli quali si servivano
gli gnostici per comprovare la loro teoria delle nature degli uomini.
192

pai/j o nh,pioj, argomenta che la Bibbia non intende mai dire ciò che suggeriscono gli
gnostici. Articola, invece, l’idea che tutti, ma proprio tutti senza alcuna eccezione, sono
“fanciulli” agli occhi di Dio. Oltre a ciò, quando la Scrittura adopera la parola
“bambino” nei confronti dei cristiani, non lo fa – secondo l’Alessandrino – per
designare l’ignoranza dei fedeli semplici, come vorrebbero gli gnostici, ma al contrario,
la perfezione della conoscenza di tutti i battezzati:

Noi, invero, non ci denominiamo fanciulli e bambini a motivo della


puerilità e spregevolezza delle nostre cognizioni, come sostengono
calunniosamente questi uomini gonfi di scienza61. Quando siamo stati
rigenerati62 abbiamo subito ricevuto in noi la perfezione, alla quale aspiravamo.
Siamo stati illuminati63 in quanto abbiamo conosciuto Dio; e certamente non
può essere imperfetto colui che ha conosciuto il Perfetto. E non sdegnatevi con
me se dichiaro di aver conosciuto Dio64: il Logos stesso ha ritenuto giusto
affermarlo, ed egli è libero di dirlo. Così quando il Signore fu battezzato,
risuonò una voce dal cielo per dare la testimonianza all’Amato di Dio: «Tu sei il
mio figlio amato, oggi ti ho generato»65. Ora interroghiamo questi [presunti]
sapienti: Cristo, essendo stato rigenerato oggi, è già perfetto o gli manca ancora
qualcosa? E se è così, allora deve ancora apprendere! Ma è evidente che egli,
essendo Dio, non ha assolutamente nulla da imparare. Nessuno infatti potrebbe
essere più grande del Logos e maestro dell’unico Maestro66 […].

Ebbene, tutto ciò vale anche per noi, giacché il Signore è un modello
per noi67. Essendo battezzati, veniamo illuminati; illuminati, siamo adottati
come figli; adottati come figli, diventiamo perfetti; ed essendo perfetti, siamo
resi immortali. «Io l’ho detto – afferma [la Scrittura] –: voi siete dèi e tutti figli
dell’Altissimo»68. Questa operazione viene chiamata in molti modi: grazia,
illuminazione, perfezione, lavacro69. Lavacro, tramite cui ci mondiamo dai
peccati; grazia, in virtù della quale ci sono state condonate le pene per i peccati;
illuminazione, grazie alla quale contempliamo quella santa luce della salvezza,

61
Cfr. 1 Cor. 8,2. ‘Gli uomini gonfi si scienza’ sono ovviamente gli gnostici. Osserviamo, però,
che abbiamo già incontrato la stessa citazione paolina nel passo citato prima (cfr. Clem., Strom. II 48,1),
dove l’Alessandrino parlava delle “eresie barbare o di filosofi greci”.
62
Cfr. 1 Ptr. 1,3.
63
Cfr. Hbr. 6,4; 10,32.
64
Cfr. 1 Io. 2,14; Io. 17,3.
65
Matth. 3,17; Ps. 2,7.
66
Cfr. Matth. 23,8.
67
Cfr. 1 Ptr. 2,21.
68
Ps. 81,6.
69
Cfr. Rom. 6, 23; 2 Cor. 4,4; Jac. 1,17; Tit. 3,5.
193

cioè vediamo, con lo sguardo penetrante, Dio; perfezione, infine, che è il non
avere più bisogno di nulla. Che cosa manca, infatti, a chi ha conosciuto Dio?
Sarebbe assurdo chiamare espressamente grazia di Dio un dono non completo!
Egli è perfetto e certamente elargisce in grazia doni perfetti. Come, invero, ogni
cosa avviene nel momento stesso in cui egli lo comanda70, così, quando egli
vuole elargire una grazia, la grazia è subito perfetta e completa71.

Ora possiamo osservare da vicino in che cosa consiste l’evpisthmonikh. avpo,deixij


della quale parla l’Alessandrino nel passo citato precedentemente72. Così, dunque, per
spiegare un concetto biblico che provoca qualche difficoltà, o che viene interpretato
falsamente dagli gnostici, il nostro autore si rifà sia agli altri passi biblici in cui esso
appare, cioè spiega la Scrittura con la Scrittura, sia al ragionamento di tipo sillogistico.
Ecco il primo ragionamento contenuto nel passo appena citato:

1. La Scrittura definisce il battesimo come illuminazione.


2. L’illuminazione consiste nella conoscenza del Dio vero.
3. Il catecumeno, dunque, nel momento del battesimo acquisisce subito la
perfetta conoscenza del Dio perfetto.

Il sillogismo esposto in questo modo può sembrare incompleto. In realtà, manca


ancora un altro elemento del concatenamento logico, che spieghi perché la conoscenza
acquisita nel battesimo sia perfetta. È tale, perché riguarda il Dio perfetto? Eppure
possiamo immaginare una imperfetta conoscenza di ciò che è perfetto. Bisogna dunque
aggiungere che questo sillogismo contiene ancora un’altra premessa che non viene
enunciata esplicitamente. Infatti, gli gnostici sostenevano che vi fossero due dèi: l’uno –
Dio dell’Antico Testamento – il Demiurgo, creatore del mondo materiale, l’autore della
legge antica, Dio imperfetto73; l’altro – Dio del Nuovo Testamento, il Dio sommo,
Padre di Gesù Cristo, perfetto sotto tutti gli aspetti. La gnosi, che gli gnostici
sostengono di possedere, riguarda il Dio sommo; i fedeli semplici, invece, avrebbero

70
Cfr. Ps. 32,9.
71
Clem., Paed. I 25,1-2; 26,1-3. Le citazioni italiane del Pedagogo riportate in questo studio
provengono da: Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, a cura di D. Tessore, Roma 2005. In caso della mia
o di un’altra traduzione, sarà segnalato nella nota. L’edizione critica di riferimento è quella di O. Stählin,
op. cit..
72
Cfr. Clem., Strom. II 48,1-4; 49,2-4.
73
Il Demiurgo era considerato dagli gnostici imperfetto, perché era l’autore delle cose
imperfette, ovvero del mondo corporeo e della legge dell’Antico Testamento. Cfr. Iren., Adv. Haer. I 5,1-
2; Epiph., Pan. 33,7,1-6; Ps.-Hippol., Refut. VI 32,7; 35,1; VII 23,6; Era imperfetto altresì per quanto
riguarda la sua natura, non era onnisciente. Infatti, ignorava l’esistenza del Dio sommo. Anche lui
secondo alcuni gnostici (la scuola di Valentino) si sarebbe convertito alla venuta del Salvatore. Cfr. Iren.,
Adv. Haer. I 5,3; 7,4, Ps.-Hippol., Refut. VI 36,1-4.
194

soltanto la conoscenza del Demiurgo e della sua legge. Clemente non accetta
ovviamente l’idea dell’esistenza dei due dèi74. Secondo lui esiste uno solo e lo stesso
Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento; il creatore del mondo e Padre del Salvatore.
Egli è perfetto e accanto a (o sotto di) lui non ve n’è nessun altro meno perfetto. Se è
così, esiste anche una sola gnosi relativa a Dio. I credenti, dunque, nel sacramento del
battesimo acquisiscono la conoscenza del Dio perfetto. Tale conoscenza è perfetta, non
nel senso assoluto, quasi che i cristiani raggiungessero la cognizione dell’essenza
divina, ma è completa e perfetta, perché non esiste un’altra che sia incompleta e
imperfetta. Infatti, se non esiste il Dio imperfetto, non può nemmeno esistere un’altra
gnosi, quella imperfetta, che lo riguardi. Tutti i battezzati, dunque, possiedono la
perfetta gnosi di ciò che il Dio perfetto, ovvero creatore del mondo e Padre di Gesù
Cristo, ha voluto rivelare su di sé.

Dopo questa spiegazione, vediamo che il ragionamento di Clemente, anche se in


qualche modo abbreviato, è compatto. Ma il nostro autore non si sofferma a questo
punto nella sua argomentazione antignostica. Per comprovare la conclusione acquisita
dal sillogismo, riporta una testimonianza scritturistica relativa al battesimo del Signore.
Se è vero – ragiona – che nel linguaggio biblico essere “fanciullo” o “bambino”
significhi essere imperfetto, come sostengono gli gnostici, anche il Salvatore dovrebbe
essere imperfetto. Infatti, anch’egli in un certo senso è “bambino”, perché – come
afferma la Scrittura – «è stato generato oggi»75. Inoltre, anch’egli, come del resto tutti i
fedeli, viene detto “Figlio di Dio”. Se gli gnostici concordano sul fatto che i testi biblici
relativi alla fanciullezza divina parlano dell’ignoranza o dell’imperfezione, devono
pensare la stessa cosa per quanto riguarda il Salvatore. Ma questo è assurdo. La Bibbia e
la liturgia della Chiesa pongono, invece, Gesù Cristo come modello per tutti i cristiani;
ebbene nel sacramento del battesimo avviene appunto ciò che avvenne durante il
battesimo del Salvatore. Le parole del Padre pronunciate sopra Gesù alle acque del
Giordano vengono altrettanto pronunciate sopra tutti i battezzati. Se il Figlio di Dio
possiede la perfetta gnosi nelle cose di suo Padre, anche quelli che diventano figli di
Dio devono essere perfetti nella stessa gnosi. I battezzati, dunque, acquisiscono la
conoscenza relativa a Dio che è il Padre del Salvatore, e non una conoscenza imperfetta
riguardante il Demiurgo e la sua legge. Diventano figli di Dio, ovvero figli del Padre di
Gesù Cristo. Come tali vengono illuminati nelle cose che riguardano l’unico e perfetto

74
Ne parla esplicitamente poco dopo. Cfr. Clem., Paed. I 71,1 sgg.
75
Cfr. Matth. 3,17; Ps. 2,7.
195

Dio. Il loro maestro diventa il Logos, “maestro dell’unico Maestro” e non il Demiurgo –
Dio imperfetto.

Quasi che queste spiegazioni non bastassero, Clemente si rifà ancora alle altre
testimonianze scritturistiche che definiscono il battesimo come grazia, illuminazione,
perfezione, lavacro e di seguito espone un altro ragionamento di tipo sillogistico:

1. Dio, essendo perfetto, elargisce soltanto le grazie perfette.


2. Il battesimo viene definito dalla Scrittura come la grazia.
3. Quindi, la grazia contenuta nel battesimo deve essere perfetta.

E subito dopo ancora un altro:

1. Dio non ha bisogno del tempo per portare a compimento una delle sue opere,
ma “ogni cosa avviene nel momento stesso in cui egli lo comanda”.
2. Nel battesimo Dio elargisce la grazia della conoscenza.
3. Quindi, la conoscenza dei battezzati è subito perfetta e completa.

Con questi due sillogismi, basati sulle testimonianze scritturistiche, Clemente


vuole respingere una possibile obiezione che gli gnostici potrebbero muovere contro le
sue tesi. È vero – potrebbero pensare – che la gnosi è la grazia perfetta del Dio perfetto,
tuttavia, dopo il battesimo si rende necessario ancora un ulteriore insegnamento o una
spiegazione relativa alle cose divine e alla fede ricevuta. Ma non tutti i cristiani si
apprestano a questo secondo livello dell’insegnamento. Perciò – argomenta Clemente –
nel battesimo tutti i credenti acquisiscono tutto ciò che è necessario per la loro fede e la
loro salvezza. Infatti, “essendo battezzati, vengono illuminati; illuminati, sono adottati
come figli; adottati come figli, diventano perfetti; ed essendo perfetti, sono resi
immortali”. Anche se tra i cristiani ci sono quelli più e meno istruiti, tutti, e non soltanto
i colti, possiedono i requisiti necessari per essere salvati76.

Sulla base di questo passo abbiamo potuto evidenziare uno dei temi – oggetto
della polemica antignostica che Clemente svolge nei suoi scritti, e anche il metodo,
detto l’evpisthmonikh. avpo,deixij, che a questo proposito adopera il nostro autore. Esso, da
una parte, contribuisce allo sviluppo della dottrina cristiana, infatti “ci dà la fede in ciò
di cui si dubita sulla base di quanto è ammesso come certo”; dall’altra è uno strumento
per respingere le interpretazioni scorrette della Scrittura, soprattutto quelle degli
76
Cfr. Clem., Strom. II 11,2; V 9,2; V 18,3. Cfr. S. Lilla, Clement of Alexandria..., p. 136-137; P.
Karavites, Evil, Freedom, and the Road to Perfection…, pp. 139 sgg.
196

gnostici. Il nostro autore continua ancora la sua argomentazione antignostica nel testo
che segue il passo sopra citato. Sviluppa l’argomento relativo all’illuminazione
battesimale77; fa esegesi degli altri passi dai quali gli gnostici tiravano le conclusioni
errate78; infine esamina la questione del Dio buono e Dio giusto mostrando che sono un
unico Dio79. Non è questa la sede per analizzare tutti questi passi. Avremo ancora la
possibilità di ritornare su tali argomenti nei paragrafi successivi. Aggiungiamo soltanto
che il metodo adoperato nei testi che contengono la polemica antignostica è sempre
simile. Così, dunque, Clemente per combattere una tesi erronea accumula la serie delle
testimonianze scritturistiche che parlano dello stesso argomento. In tale modo spiega la
Scrittura con la stessa Scrittura. Dopo di ciò passa ad esporre i ragionamenti sillogistici
che partono dalle premesse indubitabili e conducono alle conclusioni certe e infallibili80.

Bisogna comunque aggiungere che la concezione ottimista della gnosi cristiana


esposta nel Pedagogo differisce, in qualche modo, da quella delineata nel testo degli
Sromati. Infatti in questa opera Clemente parecchie volte ripete che “non da tutti è la
gnosi”81 e, insieme agli gnostici, distingue molto chiaramente fra diverse classi di
cristiani: i fedeli comuni e i perfetti82. In questo modo introduce la categoria dello
“gnostico cristiano”:

77
Cfr. Clem., Paed. I 29,1 sgg.
78
Cfr. Clem., Paed. I 35,1 sgg. Uno di essi è 1 Cor. 3,1-2: “Vi ho abbeverati con latte, come
bambini in Cristo, non con cibo solido: non eravate infatti ancora in grado di assumerlo; e neppure adesso
siete in grado”. Questa affermazione paolina doveva essere un forte argomento nella mano degli gnostici,
perché alla sua esegesi Clemente dedica parecchio spazio. Infatti, essa, anche se allegoricamente, in
maniera molto chiara ammetteva esistenza delle due categorie dei fedeli ai quali scrive Paolo: i semplici
(abbeverati con latte come bambini) e gli gnostici (in grado di assumere il cibo solido). Per questo
l’Alessandrino analizzando la simbologia del ‘latte’ cerca di mostrare che altresì il latte è un alimento che
nutre e in sostanza non differisce dal cibo solido. Nello stesso modo, anche nella Chiesa non ci sono due
insegnamenti diversi: uno per i semplici, e un altro per gli gnostici. Nonostante i modi di trasmettere la
Buona Novella siano diversi, il messaggio evangelico in sostanza è sempre uguale. Inoltre – conclude il
nostro autore – anche il Logos viene designato allegoricamente “come cibo, carne, nutrimento, pane,
sangue, latte”. E aggiunge: “Il Signore è tutte queste cose a beneficio nostro, dal momento che abbiamo
creduto in lui”. Clem., Paed. I 47,2. Sull’argomento cfr. J. L. Kovacs, Echos of Valentinian Exegesis in
Clement of Alexandria and Origen of 1 Cor 3,1-3, in Origeniana Octava. Origen and the Alexandrian
Tradition. Papers of the 8th International Origen Congress, a cura di L. Perrone, vol. I, Leuven 2003, pp.
317-330. Cfr. anche J. Davison, Structural Similarities and Dissimilarities in the Thought of Clement of
Alexandria and the Valentinians, SCen 3 (1983), pp. 201-218.
79
Cfr. Clem., Paed. I 62,1 sgg.
80
Sull’argomento cfr. E. Osborn, Clement of Alexandria…, pp. 62 sgg.
81
Clem., Strom. I 2,2; V 61,3; 62,1. Cfr. 1 Cor. 8,7.
82
È da notare che nella seconda parte degli Sromati Clemente si riferisce allo stesso passo
paolino (1 Cor. 3,1-2, che abbiamo citato poco prima), però gli dà un’altra interpretazione, diversa da
quella contenuta nel Pedagogo (I 47,2). Ora, secondo il nostro autore, l’apostolo utilizza la metafora del
latte e del cibo solido “per distinguere dalla perfezione “gnostica” la comune fede”. Cfr. Strom. V 25,5-
26,2. Non sappiamo se questo cambiamento sia uno sviluppo del pensiero di Clemente o meno. Non
conosciamo infatti la precisa cronologia delle opere dell’Alessandrino. In realtà, la teoria tradizionale
secondo la quale gli Stromati rappresentano gli appunti per la terza parte della trilogia clementina, nella
197

«Completamento della legge è l’amore»83, come lo è il Cristo, cioè la


presenza del Signore che ci ama, e come lo è il nostro insegnamento e il nostro
comportamento d’amore secondo Cristo. Con l’amore, ad esempio, si rende
perfetto il [comandamento di] non commettere adulterio e di non desiderare la
donna del vicino84, peccati impediti prima solo dalla paura. In genere lo stesso
atto assume diverso valore secondo che sia ispirato da paura o compiuto per
amore, e che si attui mediante la sola fede o anche con disposizione gnostica
(h;toi dia. pi,stewj h' kai. gnwstikw/j evnergou,menon). Ed è naturale che per lo
gnostico (tw|/ me.n gnwstikw|/) [il Signore] ha preparato «ciò che né occhio vide
mai, né orecchio udì, né si manifestò in cuore d’uomo»85, mentre al semplice
credente (tw|/ de. a`plw/j pepisteuko,ti) Egli promette il centuplo di ciò che ha
lasciato86: promessa che può essere intesa da intelligenza umana87.

Prima di analizzare questo passo è bene ritornare ad un concetto simile del quale
abbiamo già parlato nel capitolo su Filone. L’autore ebreo sostiene, infatti, che soltanto
alcuni lettori delle Sacre Scritture sarebbero in grado di scorgere in esse il senso più
profondo, ovvero quello spirituale, gli altri si soffermano solo al senso letterale. Ma,
anche questi ultimi ne traggono profitto. In realtà, il senso letterale, anche se non
esprime tutta la verità relativa alle cose divine, ha scopo educativo. In questo modo la
Bibbia esorta i semplici a temere e a obbedire a Dio. Ebbene, Filone distingue due tipi
dei fedeli: gli uni obbediscono a Dio e lo onorano così come veramente è, perché
oltrepassando gli antropomorfismi sanno scoprire il senso spirituale delle Scritture, gli
altri, invece, credono nelle “falsità” contenute nel senso letterale, ma altrettanto
obbediscono a Dio e progrediscono nel loro cammino morale. I primi lo fanno per
amore gli altri lo fanno per timore88. Clemente esprime un’idea simile. A proposito del
comandamento di non commettere adulterio, sostiene, infatti, che “lo stesso atto assume
diverso valore secondo che sia ispirato da paura o compiuto per amore, e che si attui
mediante la sola fede o anche con disposizione gnostica”. La disposizione gnostica è

quale il Logos sarebbe stato presentato prima come l’esortante (o` protreptiko,j), poi come il consigliere
(o` u`poqetiko,j) e in terzo luogo come l’istruttore (o` didaskaliko,j), (cfr. Clem., Paed. I 1,1-3,3) è stata
criticata da molti studiosi. Può darsi che il nostro autore esprima diverse opinioni riguardo al tema a
seconda del pubblico al quale indirizza le sue opere. Cfr. H. F. Hägg, Clement of Alexandria…, pp. 149
sgg. Sull’argomento del progetto letterario di Clemente e sulla cronologia delle sue opere cfr. E. Osborn,
Clement of Alexandria…, spec. paragrafo: Writings: The Literary Puzzle, pp. 5 sgg., dove viene
presentata anche la bibliografia concernente l’argomento.
83
Rom. 13,10.
84
Ex. 20,14. 17.
85
1 Cor. 2,9.
86
Cfr. Mc. 10,30.
87
Clem., Strom. IV 113,5-114,1.
88
Cfr. Phil., Deus 63-69.
198

dunque qualcosa di superiore rispetto alla sola fede dei fedeli semplici. Essa si collega,
inoltre, non soltanto alla conoscenza, ma anche all’amore. Secondo Clemente, dunque,
ci sono fedeli che obbediscono a Dio per amore e quelli che lo fanno per paura. Per di
più, i primi sanno vedere lo spirito della Scrittura mentre i secondi rimangono al livello
della lettera. In realtà, nella seconda parte del passo citato Clemente afferma che alcuni
prendendo le promesse escatologiche alla lettera, credono che dopo aver lasciato “casa o
fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa del vangelo” riceveranno nel
tempo presente “il centuplo in case, fratelli, sorelle, madri, figli e campi”89. I semplici,
dunque, seguono l’insegnamento del Vangelo, perché sperano di ricevere la ricompensa
materiale. Un altro atteggiamento assumono gli gnostici cristiani. Costoro, essendo in
grado di interpretare le promesse escatologiche in modo allegorico, invece che nel
“centuplo” credono in «ciò che né occhio vide mai, né orecchio udì, né si manifestò in
cuore d’uomo». Lo gnostico cristiano, dunque, differisce dai fedeli semplici sia per
quanto riguarda il modo d’interpretazione della Bibbia sia per quanto riguarda il motivo
e l’impostazione della fede90.

La distinzione fatta da Clemente non è però uguale a quella che facevano gli
gnostici. Infatti, essa non riguarda la natura, ma il livello dell’istruzione e del
perfezionamento nella fede e nell’amore. Inoltre, sia per Filone che per Clemente
l’obbedienza ai comandamenti per motivi imperfetti non è una cosa del tutto cattiva e
non esclude dalla salvezza91; anzi, dà profitto a coloro che non sono in grado di elevarsi
al livello superiore. In realtà, i fedeli semplici, nonostante la loro imperfezione
nell’amore e nell’istruzione, seguono Dio92. Per di più, anche costoro sono invitati a
passare dal livello più basso a quello più alto della fede, ossia a credere nelle realtà

89
Cfr. Mc. 10,29-20.
90
Cfr. Clem., Quis Div. 5,2: “Bisogna sapere chiaramente, per non intendere in senso materiale i
suoi detti [cioè del Salvatore], ma per scoprire e apprendere i significato nascosto in essi con adeguata
ricerca e comprensione, che il Salvatore ai suoi discepoli non insegna alla maniera degli uomini, ma con
sapienza divina e mistica”; Quis Div. 5,4: “[E gli insegnamenti] devono essere intesi non con un ascolto
superficiale, ma indirizzando la mente fino allo spirito e all’intimo pensiero del Salvatore”.
91
Come abbiamo segnalato precedentemente, gli gnostici congetturavano qualche possibilità di
salvezza anche agli psichici, in quanto dotati del libero arbitrio. Comunque il loro destino escatologico
sarebbe diverso da quello degli spirituali. Gli ilici, però, non avevano speranza della salvezza. La loro
natura non permetteva di passare da uno livello ad un altro della perfezione. Clemente, come abbiamo
potuto vedere, nonostante distingua fra diverse classi dei cristiani, sostiene che tutti e sempre possono
passare dal livello inferiore a quello superiore della perfezione e che tutti gli uomini possono essere
salvati per opera redentrice del Logos. Per tale motivo scrive appunto il Proterttico ai greci esortandoli
alla conversione. Crede, infatti, che anche i pagani (considerati dagli gnostici come ilici) possano
partecipare alla salvezza.
92
Clemente lo dice esplicitamente in un altro luogo. Infatti, polemizzando con Marcione che
aveva rifiutato l’Antico Testamento a causa dell’immagine di un Dio temibile che esso conteneva, il
nostro autore argomenta che il timore di Dio è un bene, perché allontana l’uomo dai mali che potrebbe
fare. Cfr. Clem., Strom. II 39,1-4.
199

intelligibili e obbedire a Dio per amore, non per paura93. Sottolineiamo infine che
Clemente, pur avvicinandosi in qualche modo alle idee degli gnostici, non concorda con
la maggior parte delle loro dottrine fondamentali. Difatti, non accetta i presupposti
ideologici esposti nel mito gnostico, né per quanto riguarda la concezione di Dio (o due
dèi), né per quanto riguarda la antropologia e, collegata ad essa, la divisione in nature.

2.2. La trascendenza ontologica di Dio

Alla nozione dello “gnostico cristiano”, alla quale abbiamo accennato sopra, si
collega anche il concetto della trascendenza di Dio. Gli gnostici cristiani, essendo in
grado di scorgere il senso spirituale della Scrittura, e quindi sapendo oltrepassare gli
antropomorfismi contenuti in essa, concepiscono Dio come essere trascendente la natura
del quale non ha niente in comune con le cose create. I semplici, al contrario, poiché
prendono i racconti biblici alla lettera, concepiscono Dio secondo le categorie mondane:

I più degli uomini, rivestiti della loro caducità come le conchiglie e


avviluppati, avvoltolati nelle loro libidini come i ricci, concepiscono intorno
alla beata incorruttibilità di Dio (peri. tou/ makari,ou kai. avfqa,rtou qeou/) press’a
poco le stesse opinioni che hanno di loro stessi. E così non vedono, anche se
frequentano noi, che infinite cose ci ha donato Dio, di cui Egli non è partecipe:
la generazione, ed Egli è ingenerato (avge,nhtoj); il nutrimento, ed Egli non ne ha
bisogno; lo sviluppo, ed Egli è in perenne uguaglianza (evn ivso,thti); una
vecchiaia e una morte felici, mentre Egli è esente da morte e da vecchiaia
(avqa,nato,j te kai. avgh,rwj). Non si creda quindi mai, che gli Ebrei attribuiscano
a Dio mani, piedi, bocca, occhi, orifizi, e ire e minacce come sue passioni. È
molto più pio interpretare come allegorie alcuni di questi attributi: e proprio
questo chiariremo, via via che il nostro discorso procede, a suo luogo94.

93
Infatti, sulla fede del fedele semplice e dello gnostico cristiano Clemente scrive in questo
modo: “A quanto pare l’apostolo annuncia una duplice fede, o meglio una sola, ma capace di
accrescimento e di perfezione. Infatti la fede comune sta alle fondamenta come base (tanto vero che a
quelli che desideravano essere risanati, poiché erano animati dalla fede, il Signore diceva: «La tua fede ti
ha salvato»), ma la fede più elevata, costruita sopra la prima, raggiunge la perfezione nel e con il fedele e
si integra con questa, essa che proviene dallo studio della dottrina e riesce ad adempire ai comandamenti
del Logos”. Clem., Strom. V 2,4-6.
Vediamo, dunque, che nonostante l’Alessandrino ammetta l’esistenza dei due gruppi dei fedeli,
afferma che esiste una sola fede che è capace di “accrescimento e di perfezione”. I perfetti dunque, non
sono perfetti per naturam, come vorrebbero gli gnostici, ma per ‘lo studio della dottrina’ e l’esercizio
etico. Sull’argomento cfr. anche Clem., Ecl. Proph. 19,1-2; Strom. VI 131,3; VII 29, 6-8.
94
Clem., Strom. V 68,1-3.
200

Anche se può sembrare insolito, agli inizi del terzo secolo, non solo i pagani ma
anche i cristiani, concepivano Dio come corporeo e mutabile95. Può darsi che tra di loro
ci fossero alcuni che frequentavano la scuola dello stesso Alessandrino96. Infatti,
l’espressione: ka'n plhsi,on h`mw/n tu,cwsin (anche se si trovano presso noi) può
concernere sia i cristiani di Alessandria in generale, sia quelli che ascoltavano gli
insegnamenti di Clemente. L’Alessandrino spiega, pertanto, che gli antropomorfismi
biblici vanno interpretati allegoricamente. “Non si creda quindi mai – ammonisce i suoi
lettori – che gli Ebrei attribuiscano a Dio mani, piedi, bocca, occhi, orifizi, e ire e
minacce come sue passioni”. Dal punto di vista ontologico, infatti, Dio è incorporeo e
impassibile. Nonostante abbia ragione la Scrittura descrivendo i suoi molteplici
interventi nella storia della salvezza, non è corretto pensare che essi siano attuati per il
tramite delle parti del corpo; e anche se è vero che Dio ama e si prende cura dell’uomo,
è scorretto pensare che provi a questo proposito gli stessi sentimenti o le passioni che
sperimenta l’anima umana97. Queste e altre dissomiglianze tra Dio e il creato derivano

95
Lo stesso problema, però concernente i fedeli ebrei di Alessandria, scorgeva anche Filone. Cfr.
Phil., Somn. I 235-236; Leg. All. I 43-44; Deus 52, citati nel paragrafo 1.1. Aggiungiamo anche che il
passo clementino di Strom. V 68,1-3 assomiglia a quello di Sacrif. 95-96, nel quale l’autore ebreo altresì
paragona gli uomini ai “ricci rannicchiati” che, pensando alla Divinità, fanno le stesse rappresentazioni
che hanno di loro stessi. Cfr. O. Stählin, GCS 15, nota alle righe 14-18, p. 371. Cfr. anche S. Lilla,
Clement of Alexandria..., p. 213; A. van den Hoek, Clement of Alexandria…, pp. 164 sgg.; E. Osborn,
Clement of Alexandria…, p. 88.
96
Anche se non è certo che, prima di Origene, sia esistito in Alessandria il famoso Didaskaleion,
del quale caposcuola sarebbe stato Panteno e dopo di lui Clemente (cfr. Euseb., Hist. Eccl., V 11,1-5; VI
6,1), è indubbio che il nostro autore svolgeva un’attività didattica nella città. Sull’argomento cfr. U.
Neymeyr, Die Christlichen Lehrer im zweiten Jahrhundert: ihre Lehrtätigkeit, ihr Selbstverständnis und
ihre Geschichte, Leiden 1989, pp. 42 sgg.; C. Scholten, Die alexandrinische Katechetenschule, JACh 38
(1995), pp. 16-37; R. van den Broek, The Christian “School” of Alexandria in the second and third
centuries, in Id., Studies in Gnosticism and Alexandrian Christianity, Leiden 1996, pp. 197-205; A. van
den Hoek; The “Catechetical” School of Early Christian Alexandria and its Philonic Heritage, HThR 90
(1997), pp. 59-87; E. Osborn, Clement of Alexandria…, pp. 19-24; M. Simonetti, E. Prinzivalli, Storia
della letteratura cristiana antica, Bologna 2010, pp. 129 sgg.
97
A questo proposito osserviamo che al nostro autore è cara la categoria stoica dell’avpa,qeia.
Come Filone (cfr. Phil., Leg. All. II 100-102; Deus 52; Abr. 202-203; Qu. in Gen. I 95), così anche
Clemente la usa sia nei confronti del sapiente sia nei confronti di Dio a cui l’uomo deve assimilarsi.
Inoltre, ambedue gli autori criticano i fedeli che attribuiscono a Dio impassibile (avpaqh,j) le stesse
emozioni che prova uomo: “A quanto pare noi non desistiamo dall’intendere, in simili casi, carnalmente
le Scritture e cioè dall’inferirne [il senso] in base alle nostre passioni, interpretando la volontà di Dio non
soggetto a passioni (tou/ avpaqou/j qeou/) per similarità con i nostri affetti umani. E se crediamo riguardo
all’Onnipotente le stesse cose stiano in realtà come noi siamo in grado di intendere, allora aberriamo
empiamente”. Clem., Strom. II 72,2-3. Aggiungiamo che il concetto dell’avpa,qeia di Dio si contrappone
alla mitica concezione dello fqo,noj qew/n. Cfr. Plat., Phaedr. 247 A.
È da notare, inoltre, che tra i cristiani che intendevano “carnalmente le Scritture” c’erano anche i
Marcioniti con i quali qui, e in altri luoghi, discute Clemente. La categoria dell’avpa,qeia divina, dunque,
viene adoperata dal nostro autore anche come argomento nella polemica con gli eretici che rifiutano
l’Antico Testamento. Infatti non è il Dio dell’Antico Testamento ad essere crudele e solamente giusto,
come lo concepiva Marcione, ma è l’interpretazione ‘carnale’ delle Scritture che lo mostra in questo
modo. In realtà, Dio rimane sempre avpaqh,j sia quando fa la giustizia sia quando rivela la sua
misericordia. Sull’argomento dell’avpa,qeia cfr. Clem., Strom. II 39,1-40,3, dove Clemente esplicitamente
confuta i seguaci di Marcione (oi` avpo. Marki,wnoj) con la loro concezione delle passioni. Inoltre, cfr.
201

dalla prima e basica differenza ontologica che Clemente colloca all’inizio dell’elenco
sopracitato. Dio è avge,nhtoj, mentre il mondo è genhto,j ed è nel processo della ge,nesij.
Essendo ingenerato, Dio sussiste di per sé, non dipende dalle cose esterne, non ha
dunque bisogno del nutrimento, non cresce, non invecchia, non muore e in generale non
è soggetto al processo del divenire. Essere ingenerato quindi significa appartenere a un
altro livello della realtà, diverso e trascendente rispetto a ciò che è nel divenire.

Come abbiamo già accennato, questi due livelli ontologici, sia in Filone sia in
Clemente, vengono spesso definiti come nohto,j e aivsqhto,j. Come in Filone così anche
in Clemente, Dio essendo di natura intelligibile viene identificato con il Nous e il luogo
delle idee. Interpretando allegoricamente il passo biblico che parla del viaggio di
Abramo verso il territorio di Moria, il nostro autore scrive:

«Abramo s’avviò verso il luogo che Dio gli aveva detto. Al terzo giorno
alzò gli occhi e vide il luogo da lontano»98. […] Che [Abramo] veda il luogo
«da lontano», è ragionevole, perché la regione di Dio è difficile a conquistarsi –
quel Dio che Platone ha chiamato la regione delle idee (cw,ran ivdew/n)99, e da
Mosè ha desunto che fosse un luogo (to,pon), in quanto capace di contenere
l’universo tutto. Ed è ragionevole che Abramo la veda «da lontano» (po,rrwqen),
perché era ancora nella generazione (evn gene,sei) e viene passo passo guidato al
mistero dall’angelo. Donde l’apostolo: «Ora vediamo come attraverso uno
specchio, ma allora faccia a faccia»100,101.

Con questa citazione ancora una volta possiamo scorgere influenze filoniane
nell’interpretazione allegorica di Clemente; infatti, è stato l’autore ebreo a vedere per
primo il problema della trascendenza di Dio nel racconto biblico sul viaggio di
Abramo102. Come Filone, così anche Clemente ragiona sul significato dell’espressione
“vedere il luogo da lontano”, offrendo la medesima risposta: Dio è irraggiungibile dalla
sua creatura. Anche se nel passo citato Dio non viene esplicitamente chiamato nou/j, è
identificato con il luogo delle idee (to,poj o cw,ra ivdew/n), che nella tradizione platonica

anche Clem., Paed. I 4,1; Ecl. Proph. 21,1; Strom. II 81,1; 103,1; IV 40,1; 137,2-138,1; V 94,5; VI 71,2;
VII 13,3 e altri.
98
Cfr. Gen. 22,3-4.
99
Cfr. Plat., Phaedr. 247 C-D.
100
1 Cor. 13,12.
101
Clem., Strom. V 73,1. 73,3-74,1.
102
Cfr. Phil., Poster. 17-19; Somn. I 64-66. Ne abbiamo parlato nel capitolo precedente. Cfr.
anche H. A. Wolfson, La filosofia dei Padri…, vol I, p. 239; A. van den Hoek, Clement of Alexandria…,
pp. 171 sgg.; E. Osborn, Clement of Alexandria…, p. 89.
202

significa appunto l’intelletto103. È da notare l’insuperabile abisso ontologico che viene


instaurato tra i due livelli della realtà. Abramo, infatti, poiché era ancora evn gene,sei,
ossia apparteneva al livello aivsqhto,j, non poté raggiungere la regione nohto,j che è Dio.
Essere nel divenire, dunque, è d’ostacolo al raggiungimento e conoscenza di ciò che è
intelligibile, ingenerato e sempre uguale104. Nonostante a livello letterale il testo biblico
parli di un luogo e di una distanza reale e materiale, è ovvio che a livello allegorico le
parole cw,ra, to,poj o po,rrwqen non sono intese nel senso fisico-spaziale. In realtà, Dio
essendo di natura intelligibile non si trova in nessun luogo, o meglio, trascende la
categoria del luogo e d’altronde tutte le altre categorie fisiche e metafisiche proprie del
livello aivsqhto,j:

Come potrebbe infatti essere definito colui che non è né genere né


alterità né specie né individuo né numero, e nemmeno accidente né soggetto cui
qualcosa possa capitare come accidente? Né lo si potrebbe dire rettamente un
tutto: il tutto è dell’ordine della grandezza, ed Egli è il Padre dell’universo. Né,
infine, si può parlare di parti in Lui, poiché l’Uno è indivisibile; per questo è
anche infinito, non nel senso dell’impossibilità di percorrerlo, ma dell’assenza
di dimensione e di limite, e pertanto è senza figura e innominabile105.

Vediamo che l’appellativo “luogo delle idee” viene utilizzato impropriamente


nei confronti di Dio. Infatti, egli non può essere considerato come un compositum di
qualcosa (anche qualora si trattasse del composito delle cose intelligibili), perché è
l’Uno indivisibile (avdiai,reton ga.r to. e[n). Non ci sono dunque in lui le parti. E non è

103
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, già in Filone Dio e il suo Logos vengono
definiti come il ‘luogo delle idee’. Cfr. Opif. 17-20, Confus. 96-97, Sobr. 63, Somn. I 62-67.
Aggiungiamo che a questo proposito Filone preferisce utilizzare la parola to,poj invece che cw,ra. Però,
troviamo nelle sue opere anche un passo nel quale Dio è definito come ivdew/n cw,ra. Cfr. Phil., Cher. 49:
o` qeo.j kai. oi=ko,j evstin( avswma,twn ivdew/n avsw,matoj cw,ra. Una chiara identificazione del Nous con il
luogo delle idee troviamo anche nei filosofi medioplatonici. Cfr., ad esempio, Alcin., Did. IX 1-3. Su
questa scia anche Clemente afferma altrove: “L’intelletto è il luogo delle idee, e intelletto è Dio (nou/j de.
cw,ra ivdew/n( nou/j de. o` qeo,j)”. Clem., Strom. IV 155,2. Cfr. anche S. Lilla, Clement of Alexandria..., pp.
201 sgg., che elenca diversi passi dei medioplatonici che concepiscono le idee come pensieri
dell’Intelletto divino.
104
Vale la pena notare una differenza tra l’interpretazione filoniana e quella clementina. L’autore
ebreo parla della irraggiungibilità e inconoscibilità di Dio in generale. Clemente invece ammette qualche
conoscenza di Dio dopo la morte, ovvero quando Abramo passerà dal mondo del divenire a quello
intelligibile. Perciò alla sua interpretazione del testo veterotestamentario aggiunge una citazione paolina
del 1 Cor. 13,12: «Ora vediamo come attraverso uno specchio, ma allora faccia a faccia». Di questo
argomento ci occuperemo più avanti.
105
Clem., Strom. V 81,5-6: pw/j ga.r a'n ei;h r`hto.n o] mh,te ge,noj evsti. mh,te diafora. mh,te ei=doj
mh,te a;tomon mh,te avriqmo,j( avlla. mhde. sumbebhko,j ti mhde. w|- sumbe,bhke,n ti) ouvk a'n de. o[lon ei;poi tij
auvto.n ovrqw/j\ evpi. mege,qei ga.r ta,ttetai to. o[lon kai. e;sti tw/n o[lwn path,r) ouvde. mh.n me,rh tina. autou/
lekte,on\ avdiai,reton ga.r to. e[n( dia. tou/to de. kai. a;peiron( ouv kata. to. avdiexi,thton noou,menon( avlla.
kata. to. avdia,staton kai. mh. e;con pe,raj( kai. toi,nun avschma,tiston kai. avnwno,maston)
203

neanche un “luogo”, perché ciò che è nohto,j non possiede né dimensione né limite né
figura. Non occupa dunque nessuno spazio106. Ebbene, a Dio non si può attribuire
propriamente nessuna delle categorie specifiche del livello aivsqhto,j. Clemente,
pertanto, afferma altrove: “Non è in un luogo la causa prima, ma oltre e sopra ogni
luogo e tempo e denominazione e intelligenza”107. Nonostante nel passo suddetto Dio
venga definito come l’Uno indivisibile in un altro leggiamo che “Dio è uno e al di là
dell’uno stesso e al di sopra dell’unità”108. Sebbene venga identificato con il Nous, non
si può affermare l’appartenenza di Dio al genere degli esseri intelligibili. Egli non è né
genere né specie né individuo di una specie. In un altro luogo, inoltre, Clemente
dichiara esplicitamente: “Il Signore è al di sopra di tutto il mondo, anzi trascende
l’intelligibile”109.

Dio dunque, come l’idea platonica del Bene, è evpe,keina th/j ouvsi,aj110, ovvero è
al di là dell’essere111. A differenza di Platone, però, per Clemente egli è anche evpe,keina
tou/ nohtou/, cioè al di là delle idee. Secondo il nostro autore, infatti, le idee sono i
pensieri divini e non hanno una propria sussistenza. Dio, essendo l’unico ingenerato, le
genera, ossia le pensa, e in tal modo diventa il loro principio e la loro fonte. E per
questo, anche se impropriamente, è detto il “luogo delle idee”; ciò che secondo Platone
sussiste di per sé, in Clemente dipende dall’unico ingenerato Intelletto divino. Un
concetto simile abbiamo già incontrato in Filone che, nonostante non utilizzi
106
Inoltre, nel passo suddetto Dio è detto a;peiroj, ossia infinito, e anche per questo motivo non
può occupare nessun luogo nel senso fisico-spaziale. All’argomento ritorneremo ancora più avanti.
107
Clem., Strom. V 71,5: ou;koun evn to,pw|/ to. prw/ton ai;tion( avllV u`pera,nw kai. to,pou kai.
cro,nou kai. ovno,matoj kai. noh,sewj. Ricordiamo che una simile affermazione abbiamo incontrato anche in
Filone. Cfr. Phil., Poster. 14, dove l’autore ebreo afferma che la causa (to. ai;tion) è al di sopra del luogo
e al di là del tempo (u`pera,nw kai. to,pou kai. cro,nou). Cfr. anche A. van den Hoek, Clement of
Alexandria…, pp. 168 sgg.; E. Osborn, Clement of Alexandria…, pp. 88-89.
108
Clem., Paed. I 71,1: e]n de. o` qeo.j kai. evpe,keina tou/ e`no.j kai. u`pe.r auvth.n mona,da. Anche
questa idea abbiamo già incontrato in Filone. Cfr. Phil., Praem. 40: avgaqou/ krei/tton kai. mona,doj
presbu,teron kai. e`no.j ei`likrine,steron. Cfr. anche Contempl. 2.
109
Clem., Strom. V 38,6: o` ku,rioj u`pera,nw tou/ ko,smou panto,j( ma/llon de. evpe,keina tou/ nohtou/.
110
Cfr. Plat., Resp. VI 509 B.
111
Occorre però notare che Clemente non utilizza expressis verbis la formula platonica: evpe,keina
th/j ouvsi,aj. Anzi, a volte Dio viene identificato nelle sue opere appunto con l’ouvsi,a. Infatti, nel passo di
Strom. VII 40,1 Dio viene definito come h` nohth. ouvsi,a, in Strom. VI 80,2 come ouvsi,a avmeta,blhton e in
Protr. 117,1 come h` avri,sth tw/n o;ntwn ouvsi,a. In ogni modo, dalle affermazioni che abbiamo riportato
sopra (u`pera,nw kai. to,pou kai. cro,nou; evpe,keina tou/ e`no.j kai. u`pe.r auvth.n mona,da; u`pera,nw tou/ ko,smou
panto,j), risulta che secondo l’Alessandrino Dio è un essere particolare che, paradossalmente, è al di là
dell’essere. Per di più, nel passo di Strom. VII 2,3 egli è detto to. evpe,keina a;ition, ossia la causa oltre le
cause. Questa formula è molto significativa perché nello steso passo il Figlio è definito come il principio
di tutti gli esseri, e allo stesso tempo, il più anziano in origine (to. presbu,taton evn gene,sei). Quindi, se il
Figlio è la causa dell’essere, e se il Padre è la causa oltre tutte le cause, la formula to. evpe,keina a;ition, nel
contesto in cui ricorre, equivale alla formula platonica: evpe,keina th/j ouvsi,aj. Cfr. J. Whittaker,
EPEKEINA NOU KAI OUSIAS, VigChr 23 (1969), p. 93; H. F. Hägg, Clement of Alexandria..., pp. 173
sgg.
204

l’espressione: evpe,keina tou/ nohtou/, afferma che il Nous dell’universo è krei,ttwn h'
avreth. kai. krei,ttwn h' evpisth,mh kai. krei,ttwn h' auvto. to. avgaqo.n kai. auvto. to. kalo,n112.

Va anche notata, nel passo sopraccitato, la presenza del concetto dell’infinità. Il


nostro autore afferma: “Poiché l’Uno è indivisibile; per questo è anche infinito”
(avdiai,reton ga.r to. e[n( dia. tou/to de. kai. a;peiron). A questo proposito, occorre
sottolineare che Clemente è il primo autore cristiano a parlare in modo positivo
dell’infinità di Dio. L’infinito (a;peiron) nell’ambito della filosofia greca, come abbiamo
accennato nel capitolo su Filone, era considerato come qualcosa negativo, in quanto
indeterminato, indefinito, incompiuto e perciò anche imperfetto. Per questo motivo
anche l’autore ebreo parlando dell’infinità di Dio e delle sue potenze, preferisce
utilizzare l’aggettivo avperi,grafoj, invece che a;peiroj113. Questo ultimo, infatti, per i
filosofi greci era il termine tecnico utilizzato nel discorso sull’infinito e non veniva
applicato alle realtà perfette e compiute. In ogni modo, affermando Filone che le
creature, anzi l’universo intero, non sono in grado di accogliere Dio, né alcuna delle sue
potenze nel loro stato puro (appunto perché sia Dio sia le sue potenze sono
avperi,grafoi), nient’altro vuole dire se non che Dio è infinito, a ragione del quale non
può essere abbracciato o compreso da ciò che è finito114. Clemente, invece, già
esplicitamente, e in maniera positiva, definisce Dio come a;peiroj. Con ciò egli appare
originale non soltanto nell’ambito della patristica, ma anche nell’ambito della filosofia
greca anteriore a Plotino. Occorre, però, osservare che non tutti gli studiosi moderni
scorgono questa originalità115. R. Mondolfo, ad esempio, nel suo volume sull’Infinito

112
Phil., Opif. 8. In un altro passo Filone dice che Dio “è più trascendente del Bene, più anziano
della Monade, più semplice dell’Uno (avgaqou/ krei/tton kai. mona,doj presbu,teron kai. e`no.j
ei`likrine,steron)”. Phil., Praem. 40. Cfr. anche Phil., Contempl. 2; Legat. 5. Dunque, l’autore ebreo
esprime la stessa idea che Clemente in passi: Paed. I 71,1 e Strom. V 71,5. Sull’argomento cfr. anche J.
Whittaker, EPEKEINA NOU KAI OUSIAS…, pp. 91-104, che tratta del significato del termine evpe,keina
nella tradizione platonica.
113
Cfr. Phil., Sacrif. 59; 124; Poster. 151; 174; Confus. 171; Opif. 23; Her. 31-33. Oltre
l’aggettivo avperi,grafoj, in questi passi appaiono anche altri con simile significato come: avteleu,thtoj,
avperio,ristoj e avu,qhtoj.
114
Ne abbiamo parlato nel capitolo su Filone. Cfr. paragrafo 1.2: La trascendenza ontologica di
Dio e i passi di Opif. 23, Sacrif. 59 e Deus 77-81 là citati.
115
A nostro avviso è così, perché da una parte gli storici della filosofia non sempre danno peso
(o non si interessano per niente) alle dottrine elaborate dai Padri della Chiesa (cfr., ad esempio, G. Reale,
Storia della filosofia greca e romana, Milano 2010, che in questa nuova edizione di 10 volumi non
prende in esame i concetti filosofici contenuti nelle opere di Giustino, Clemente oppure Origene, ma
accenna solamente all’esistenza del platonismo cristiano: vol. 8, pp. 205-208 e 353-359); dall’altra parte i
patrologi o gli storici della letteratura cristiana sanno bene che il successore di Clemente – Origene –
ancora “condivide la concezione negativa dell’infinito (= indefinito), caratteristica di tanta filosofia greca
anteriore a Plotino”. Cfr. M. Simonetti, voce: Dio (Padre), in Origene. Dizionario. La cultura, il
pensiero, le opere, a cura di A. Monaci Castagno, Roma 2000, p. 120. Cfr. anche C. Moreschini, I Padri
cappadoci. Storia, letteratura, teologia, Roma 2008, p. 171. Bisogna però aggiungere che gli studi recenti
205

nel pensiero dei Greci, pur notando nelle opere dei filosofi dell’ultimo periodo della
filosofia greca (cioè nei primi secoli d.C.) la presenza del positivo concetto
dell’infinità116, non fa nessun riferimento a Clemente, anche se questi parla del Dio
infinito in maniera molto più esplicita, rispetto ai filosofi menzionati dallo studioso
italiano. Il silenzio degli studiosi moderni, per quanto riguarda la nozione clementina
dell’infinità, è stato superato con le pubblicazioni di J. Whittaker117 e di A.
Choufrine118. Questo ultimo, a differenza del primo, mostra non soltanto l’originalità
della dottrina clementina dell’infinità nell’ambito della filosofia greca, ma anche le
conseguenze che il concetto positivo dell’infinito comporta per tutto il pensiero
dell’Alessandrino119. Dato che il Choufrine analizza dettagliatamente il passo da noi
citato, riportiamo qui i principali punti del suo ragionamento al riguardo120:

mostrano che anche in Origene troviamo il positivo concetto dell’infinità di Dio. Cfr. P. Tzamalikos,
Origen. Cosmology and Ontology of Time, Leiden 2006, spec. paragrafo: Time and the Notion of Infinite,
pp. 245-259, dove lo studioso mostra che alcuni passi origeniani tramandati da Giustiniano e incorporati
da P. Koetschau nell’edizione critica dei Principi (Id., Origenes Werke, vol. 5, GCS 22, Leipzig 1913)
non rappresentano l’opinione di Origene, il quale considera Dio come infinito. Cfr. Orig., C. Cel. III 77;
De Orat. XXVII 16; Sel. in Ps. 144 (PG 12, 1673.1-10), dove ricorre il termine a;peiroj utilizzato nei
confronti di Dio e dove la conoscenza (gnw/sij) della Trinità è detta avpe,rantoj, ossia illimitata o infinita.
È vero che secondo Origene Dio creò un numero finito di creature razionali e che l’infinito è
incomprensibile da parte dell’uomo, però – come osserva lo studioso – da ciò non risulta che la natura
divina debba essere finita e che l’Intelletto divino non possa comprendere ciò che è infinito. Cfr. P.
Tzamalikos, rigen…, pp. 246 sgg.
116
Infatti, conclude: “Tutta la speculazione religiosa del pensiero finale della filosofia greca è
piena di questa concezione dell’infinità divina, cioè dell’infinità intesa come perfezione per eccellenza e
non come difetto; come esuberante pienezza e non privazione di essere e di bene. La teologia negativa è,
tutta quanta, null’altro che lo sforzo continuo, esasperato di accentuare ogni pienezza e perfezione oltre
ogni limite del concepibile e dell’esprimibile: alla suprema realtà, quindi, non può corrispondere che la
suprema impotenza della mente e della parola, le quali sanno soltanto chiudere in determinazioni
concettuali e verbali i loro oggetti, e son quindi incapaci di comprendere in sé ciò che eccede ogni
grandezza afferrabile e determinabile”. R. Mondolfo, L’infinito nel pensiero dei Greci, Firenze 1934, p.
400. Lo studioso italiano fonda la sua conclusione sulla base dei passi dei medioplatonici (Filone e
Numenio) che parlando di Dio si servono della metafora della luce “che si irradia infinitamente, in ogni
direzione, dall’inesauribile e indiminuibile fonte” (Ibid.); e sulla base dei testi dei filosofi dell’epoca i
quali, anche se non adoperano il termine a;peiron, parlano dell’infinità della potenza (o delle potenze) di
Dio. Cfr. Ibid., cap. 17: Infinità negativa della materia e infinità positiva di Dio da Filone ai
neoplatonici. Il dinamismo e la triplice infinità divina. Continuità con la mistica orfica e con la teologia
aristotelica, pp. 393 sgg.
117
J. Whittaker, Philological Comments on the Neoplatonic Notion of Infinity, in The
Significance of Neoplatonism, ed. R. Harris, Norfolk 1976, pp. 155-172.
118
A. Choufrine, The Aspects of Infinity in Clement of Alexandria, JNS 2 (1997), pp. 3-44, che
successivamente è stato pubblicato come una parte del volume dello stesso autore: Gnosis, Theophany,
Theosis. Studies in Clement of Alexandria’s Appropriation of Hiss Background, Patristic Studies vol. 5,
New York 2002, Chapter III: Theosis as Infinity. A Background of Clement’s Interpretation of
‘Assimilation to God’, pp. 159-197.
119
Si tratta sopratutto dell’etica, epistemologia ed escatologia. Infatti, se Dio è infinito,
l’intelletto umano, che è finito, non è in grado di comprenderlo. Per lo stesso motivo neanche dopo la
morte Clemente ammette la possibilità di abbracciare o apprendere completamente ciò che è Dio. Ne
parleremo anche noi nei paragrafi successivi. Occorre però aggiungere che, prima del Whittaker e del
Choufrine, alla nozione dell’infinito in Clemente accennavano anche: E. F. Osborn, The Philosophy of
Clement of Alexandria, Cambridge 1957, pp. 27-31; E. Mühlenberg, Die Unendlichkeit Gottes bei Gregor
von Nyssa. Gregors Kritik am Gottesbegriff der klassischen Metaphysik, Göttingen 1966, pp. 29-76.
206

1. La frase di Strom. V 81,6 in cui ricorre il termine a;peiroj va considerata


nella sua interezza. Infatti, nell’affermazione: avdiai,reton ga.r to. e[n( dia.
tou/to de. kai. a;peiron( ouv kata. to. avdiexi,thton noou,menon( avlla. kata. to.
avdia,staton kai. mh. e;con pe,raj Clemente utilizza i termini tecnici adoperati
sia da Platone sia da Aristotele nel contesto del tema dell’infinito.
2. L’Alessandrino dipende da Platone soltanto parzialmente. Platone, nel suo
Parmenide, così come Clemente negli Stromati affermano che l’Uno è
indivisibile (avdiai,reton), e perciò anche infinito (a;peiron), e che esso non ha
limiti (pe,raj)121. L’autore cristiano si distacca, comunque, dalle affermazioni
contenute nel Parmenide platonico in quanto aggiunge che l’Uno è infinito

Questo ultimo afferma esplicitamente che Clemente, nel periodo post-socratico, era stato il primo ad
attribuire il termine a;peiroj a Dio. Ambedue gli studiosi, però, non hanno interpretato correttamente il
concetto dell’infinità in Clemente, paragonandolo solamente con le ipotesi esposte nel Parmenide di
Platone. A questo proposito il Choufrine osserva: “Unfortunately, neither Mühlenberg nor Osborn notices
the difference in the subject matter between the Parmenides and the Hellenistic interpretations. It is only
natural then that they fail to notice the uniqueness of Clement’s interpretation of “the One”. For Osborn,
Clement has just “expressed [the idea of the First Hypothesis] in the Christian context” (cfr. op. cit., p.
27). What makes Clement’s departure from Plato radical, I believe, is that the notion of “the One” in
Parmenides is the object of reflection on the paradoxes of language only; whereas with Clement, it first
becomes the tool of reflection on the paradoxes of God. The first (and perhaps, so far, the only) scholar to
have noticed the priority of Clement was Whittaker (cfr. op. cit., p. 159). His interest, however, was not
so much in Clement as it was in the evidence one can draw from Clement’s text for the «pre-Plotinian
theological interpretation of the First Hypothesis» (op. cit., p. 158)”. A. Choufrine, Gnosis…, pp. 165-
166. Aggiungiamo che dopo queste pubblicazioni, l’originalità e priorità del concetto clementino
dell’infinito, comincia ad essere sottolineata anche nei manuali pubblicati recentemente. Cfr., ad esempio,
C. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Brescia 2005, pp. 120-121.
120
I punti che seguono si basano sul volume di A. Choufrine, Gnosis…, pp. 159 sgg., che ripete
le tesi dell’articolo pubblicato in Journal of Neoplatonic Studies, menzionato sopra. La maggior parte
delle osservazioni di A. Choufrine concorda con ciò che prima aveva notato J. Whittaker nella sua
pubblicazione del 1976.
121
Riportiamo qui l’intera ipotesi di Platone per facilitare la comprensione della argomentazione
che segue. Plat., Parm. 137 C-D: “«Ebbene – disse Parmenide –, se l’Uno è Uno, non è vero che per
nessuna ragione potrà essere molti?». «Infatti, come potrebbe?». «Allora è necessario che non si abbia
una parte (me,roj) dell’Uno e che esso stesso non sia un tutto». «Perché?». «La parte è parte di un tutto».
«Sì». «Che cos’è un tutto? Non è forse quello a cui non manca alcuna parte?». «Senz’altro». «Quindi, in
ambedue i casi, che sia un tutto o che abbia parti, l’Uno sarebbe composto di parti». «Necessariamente».
«Pertanto, sia in un caso che nell’altro, l’Uno sarebbe molti, ma non Uno». «Vero». «Occorre invece che
sia non molti ma Uno». «È necessario». «Non sarà quindi un tutto e non avrà parti l’Uno, se è Uno».
«Certo che no». «Dunque se non ha parti, non ha inizio, né termine, né mezzo (ou;tV a'n avrch.n ou;te
teleuth.n ou;te me,son e;coi): infatti queste sarebbero sicuramente le sue parti». «Giusto». «Inoltre termine e
inizio sono limiti (pe,raj) di ogni oggetto». «Come no!». «Allora, l’Uno è infinito (a;peiron a;ra to. e[n), se
non ha inizio né termine». «Infinito». «E quindi senza una forma (kai. a;neu sch,matoj a;ra)»”. Trad. di M.
Migliori, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano 2008, p. 387. L’edizione critica di
riferimento è quella di J. Burnet, Platonis Opera, 5 vols., Oxoni 1900-1907.
Vediamo dunque che Clemente si serve degli stessi concetti che contiene la prima ipotesi del
Parmenide. Anche se il filosofo ateniese non dice esplicitamente che l’Uno è avdiai,reton, l’indivisibilità
dell’Uno, nel dialogo platonico, viene confermata dal fatto che esso non “ha parti”. Aggiungiamo che
oltre le somiglianze menzionate sopra, Clemente concorda con Platone anche sul fatto che l’Uno è “è
senza figura” (infatti a;neu sch,matoj del Parmenide equivale ad avschma,tiston degli Stromati).
207

ouv kata. to. avdiexi,thton noou,menon( avlla. kata. to. avdia,staton (non nel senso
che è impercorribile, ma nel senso che non ha dimensione)122.
3. La parola avdiexi,thton, che in qualche modo delimita (o precisa) la
definizione di Clemente, ricorre parecchie volte in diverse definizioni
dell’infinito proposte da Aristotele nella Fisica123, mentre il termine
avdia,staton – come afferma il Choufrine insieme al Whittaker – “does not
seem to appear in any context having to do with infinity prior to Clement”124.
4. L’Alessandrino, dunque, iscrive nello schema del Parmenide di Platone il
concetto dell’infinità di Aristotele. Invero, dicendo che l’Uno è infinito ouv
kata. to. avdiexi,thton Clemente concorda con lo Stagirita, per il quale
l’infinito inteso come avdiexi,thton (termine tecnico per l’infinito in
grandezza) non può esistere né in atto né in potenza125.
5. L’infinito che secondo Aristotele esiste (anche se soltanto in potenza) è
quello che in qualche modo è percorribile, però, non può essere mai percorso
in toto, perché il processo del percorrere non può avere mai un

122
A questo proposito A. Choufrine osserva che Clemente non fa uso della premessa minore del
sillogismo contenuto nel Parmenide. Infatti, per l’Alessandrino l’Uno non ha limiti, non perché non ha
parti, ma perché è infinito nel senso di avdia,staton. Per Platone invece l’Uno è infinito, perché non ha
parti; e i limiti sono per lui parti di ciò di cui sono limiti. Se Clemente avesse fatto uso di questa premessa
platonica la sua aggiunta: ouv kata. to. avdiexi,thton noou,menon( avlla. kata. to. avdia,staton, sarebbe stata
superflua, perché egli avrebbe concordato in toto con il ragionamento di Platone. Cfr. Ibid. pp. 167-168.
123
Cfr., ad esempio, Aristot., Phys. 204 A 2-17: “Innanzitutto dunque occorre distinguere in
quanti modi si dice l’infinito (to. a;peiron). In un primo senso, infinito è ciò che per natura non può essere
percorso (to. avdu,naton dielqei/n), giacché non fa parte della sua natura l’essere percorso (alla pari della
voce che è invisibile). In altro senso, infinito è ciò che si può percorrere, ma questo non può avere un
completamento (to. die,xodon e;con avteleu,thton), oppure si può percorrere a stento, o ciò che per natura
non è possibile percorrere o non ha limite (mh. e;cei die,xodon h' pe,raj). Inoltre, tutto ciò che è infinito, è
tale o per composizione, o per divisione, o per entrambe le cose. Non è possibile, dunque, che l’infinito
sia separabile dalle cose sensibili, dal momento che esso stesso è cosa infinita. Ma se l’infinito non è né
grandezza, né numero, ma è esso stesso sostanza – e questo non accidentalmente – sarà indivisibile
(avdiai,reton); (infatti tutto ciò che è indivisibile deve essere o grandezza o numero). Ma se è indivisibile,
non è infinito, a meno che non sia come la voce che è invisibile. Ma non dicono questo quanti sostengono
che l’infinito esiste, né noi ne facciamo oggetto di ricerca in quanto è cosa di tal tipo, ma in quanto è
impercorribile (avdiexi,thton). Mentre se l’infinito esiste in modo accidentale, esso non sarebbe elemento
delle cose, in quanto infinito, così come neppure ciò che è non visibile è un elemento del linguaggio,
sebbene la voce sia invisibile”. Trad. di L. Ruggiu, in Aristotele, Fisica. Nuova edizione, testo greco a
fronte, Milano 2007, pp. 103-105. L’edizione critica di riferimento è quella di W. D. Ross, Aristotle’s
Physics. A Revised Text with Introduction and Commentary, Oxford 1955.
Vediamo dunque che oltre la parola avdiexi,thton, nella definizione di Clemente ricorrono anche
altri termini tecnici del linguaggio aristotelico relativo al concetto dell’infinito, come avdiai,reton e pe,raj.
Ma anche il termine avteleu,thton che appare in questo passo aristotelico verrà utilizzato da Clemente,
appunto nel senso dell’infinito e attribuito a Dio. Ne parleremo più avanti.
124
Però appare in Plotino nel quale troviamo l’eco del linguaggio clementino. Cfr. Plot., Enn. III
7,11,45-58, dove ricorrono insieme i termini: e[n, avdia,statoj, a;peiroj e me,roj adoperati nel passo di
Strom. V 81,6. Cfr. A. Choufrine, Gnosis…, nota 34, p. 167.
125
Cfr. Aristot., Phys. 206 B 22 sgg.
208

completamento. Dato che non esistono le sostanze impercorribili, secondo lo


Stagirita, questo tipo di infinito esiste solo in potenza126.
6. Aristotele, quindi – come osserva A. Choufrine – costruisce il suo concetto
dell’infinito in modo paradossale, perché parla del “non-passable passage”
(die,xodoj avdie,xodoj)127. Anche in Clemente troviamo un simile paradosso
linguistico, che altresì esprime l’infinità divina. Infatti, in un altro luogo egli
afferma che Dio è teloj avteleu,thton128.
7. Il concetto dell’infinito, che in Aristotele poteva esistere solo in potenza,
Clemente lo applica a Dio, e in ciò egli è il primo pensatore anteriore a
Plotino, che riesce a superare la connotazione negativa di questa nozione.
Non solo utilizza l’aporetico termine dell’a;peiron, ma costituisce la propria
definizione dell’infinito basata sulle riflessioni di Platone sull’Uno (che
erano solamente le ipotesi concernenti i paradossi del linguaggio) e di
Aristotele sull’infinito (il quale non ha mai applicato nessuna delle sue
definizioni al Nous che, in quanto l’atto puro, doveva essere compiuto, ossia
finito).

Oltre il brano di Strom. V 81,6, il Choufrine analizza anche altri passi degli
Stromati, come ad esempio quello di Strom. V 71,2-3, dove si parla del me,geqoj tou/
Cristou/; e Strom. IV 156,2-157,2, dove il Logos viene definito come pa,nta e[n. E di
nuovo, paragonando le affermazioni dell’Alessandrino con la terminologia utilizzata da
Platone e da Aristotele nel contesto dell’argomento dell’infinito, lo studioso mostra che
anche il Logos è considerato da Clemente come infinito129. Non è qui la sede di
presentare tutti i particolari dell’analisi del Choufrine130: sufficiente per noi affermare al
momento l’approfondita conoscenza di Clemente delle riflessioni sull’infinito di Platone
nel suo Parmenide così come quelle di Aristotele nella Fisica. In una sola frase il nostro
autore, infatti, utilizza i termini tecnici di ambedue i filosofi ateniesi e si serve delle
conclusioni riuscite dai loro ragionamenti. In tutto ciò è originale, perché costruisce una
propria definizione dell’infinito (oltre i termini aristotelico-platonici introduce la

126
Cfr. Aristot., Phys. 206 B 3 sgg.
127
Cfr. A. Choufrine, Gnosis…, p. 177.
128
Cfr. Clem., Strom. II 134,1; VII 56,3. Aggiungiamo che il termine avteleu,thton viene
utilizzato anche da Aristotele in una delle diverse definizioni dell’infinito (cfr. Aristot. Phys. 204 A 5-6)
e, come osserva A. Choufrine, “is Clement’s technical term for infinity as well”. Cfr. A. Choufrine,
Gnosis…, pp. 177 sgg.
129
Cfr. A. Choufrine, Gnosis…, pp. 168 sgg.
130
Ritorneremo ancora a questo argomento più avanti, quando parleremo del Logos e della
escatologia clementina.
209

nozione dell’avdia,staton) e in modo positivo l’attribuisce a Dio. Aggiungiamo


solamente che oltre il termine a;peiroj, Clemente utilizza nei confronti di Dio anche altri
aggettivi come avperi,grafoj131, usato da Filone: avpe,rantoj132 o menzionato sopra
avteleu,thtoj133. Una simile terminologia sarà adoperata successivamente dai Padri
Cappadoci, e in particolare da Gregorio di Nissa il quale, probabilmente, si basava sui
concetti elaborati da Filone e da Clemente anche per quanto riguarda l’argomento
dell’infinità di Dio134.

La nozione dell’infinità, che troviamo nelle opere dell’Alessandrino, sottolinea


ancora di più la trascendenza ontologica di Dio. Occorre però notare che un così forte
concetto della trascendenza divina è ugualmente comune alla filosofia più affermata
dell’epoca nella quale vive Clemente, ovvero al medioplatonismo135. Non possiamo

131
Cfr. Clem., Strom. V 74,4.
132
Cfr. Clem., Strom. V 81,3-4.
133
Cfr. Clem., Strom. II 134,1; VII 56,3.
134
Cfr., ad esempio, Greg. Nyss., Contr. Eunom. III 7,33: “Ma la natura divina è priva di
dimensione e, in quanto tale, non ha limite, e quello che è illimitato è infinito, ed è detto tale (avlla. mh.n
avdia,statoj h` qei,a fu,sij( avdia,statoj de. ou=sa pe,raj ouvk e;cei( to. de. avpera,twnton a;peiro,n evsti, te kai.
le,getai)”. Vediamo dunque che in Gregorio, come prima in Clemente, l’infinito è ciò che non ha né
dimensione (avdia,statoj) né limite (pe,raj ouvk e;cei). Cfr. anche Greg. Nyss., Contr. Eunom. I 168 sgg.; I
291; I 357; I 466; I 667 sgg.; II 528 sgg.; Vit. Mos. I 5-7; II 236-239; II 242; In Cant. 370. Come in
Filone, così anche in Gregorio, dal concetto della infinità di Dio deriva anche l’infinità delle sue potenze e
qualità. Cfr. Greg. Nyss., Contr. Eunom. II 122: “Poiché, infatti, Dio fece tutte le cose nella sapienza, e la
sapienza di Dio non ha confine («della sua sapienza», dice infatti la Scrittura (Ps. 146,5) «non vi è
confine»), il mondo siccome è delimitato dalle sue proprie misure, non può contenere in sé la spiegazione
della sapienza infinita (th/j avori,stou sofi,aj lo,gon)”. Cfr. anche Contr. Eunom. I 367. Una simile
argomentazione abbiamo incontrato altresì in Filone. Cfr. Phil. Opif. 23; Poster. 151; Deus 79-81.
Sull’argomento cfr. T. Böhm, Theoria, Unendlichkeit, Aufstieg. Philosophische Implikationen zu “De
Vita Moysis” von Gregor von Nyssa, Leiden-New York-Köln 1998; A. K. Geljon, Divine Infinity in
Gregory of Nyssa and Philo of Alexandria, VigChr 59 (2005), pp. 154-177; M. Weedman, The Polemical
Context of Gregory of Nyssa’s Doctrine of Divine Infinity, JECS 18 (2010), pp. 81-104. Tutti questi studi,
insieme a quelli di R. Mondolfo, J. Whittaker, P. Tzamalikos e di A. Choufrine, citati prima, mostrano
che il concetto positivo dell’infinità di Dio era presente nella filosofia pagana, giudaica e cristiana sin dai
tempi di Filone di Alessandria. Però è vero che la dottrina dell’infinità divina viene più ampiamente
sviluppata solo nelle opere di Plotino e di Gregorio di Nissa.
135
Anche se il medioplatonismo non può essere considerato come un unicum, perché riguarda i
filosofi provenienti da diverse parti dell’Impero (Apuleio, Alkinoos, Numenio, Plutarco, Massimo di Tiro,
Attico) e le dottrine con diverse sfumature e accentuazioni (aristotelizzante e non aristotelizzante), nel
corso del I e II secolo dell’epoca imperiale si può osservare una crescita della letteratura dedicata
all’interpretazione della filosofia di Platone. In essa si possono individuare gli elementi dottrinali comuni,
come ad esempio l’identificazione di Dio con l’Intelletto trascendente, le idee con i pensieri di Dio e la
presenza degli intermediari tra Dio e il mondo: il secondo intelletto o l’anima del mondo. Sull’argomento
cfr. P. Merlan, Greek Philosophy from Plato to Plotinus, in The Cambridge History of Later Greek and
Early Medieval Philosophy, ed. A. H. Amstrong, Cambridge 1969, pp. 53 sgg.; S. Lilla, Introduzione al
Medio platonismo, SuPatr 6, Roma 1992; Id., voce: Medio platonismo, in NDPAC, pp. 3181-3185; H.
Tarrant, Plato’s First Interpreters, London 2000; G. Reale, Storia…, vol. 7: Rinascita del platonismo e
del pitagorismo, Corpus Hermeticum e oracoli caldaici, Milano 2010; H. Tarrant, Platonism before
Plotinus, in The Cambridge History of Philosophy in Late Antiquity, a cura di. L. P. Gerson, Cambridge,
2010, vol. I, pp. 63-99; J. Dillon, I medioplatonici. Uno studio sul platonismo (80 a.C.-220 d.C.), a cura
di E. Vimercati, Milano 2010, che contiene la bibliografia aggiornata su diversi temi legati a questa
corrente filosofica.
210

escludere che il nostro autore, oltre Filone, si sia ispirato anche ai testi dei
medioplatonici. Infatti, nel Didaskalikos – l’opera del filosofo medioplatonico Alkinoos
– troviamo una descrizione dell’Intelletto divino che in diversi punti assomiglia a quella
del passo clementino sopraccitato:

[Il primo dio] è ineffabile e afferrabile solo con l’intelletto, come si è


detto, poiché non è né genere né specie né differenza, e non ha neppure nessun
accidente. Non è un male: non è lecito dirlo; non è un bene: sarebbe tale in base
alla partecipazione a qualcosa, e soprattutto alla bontà. Non è una cosa
indifferente: neanche questo si accorda con il pensiero che si ha su di lui. Non è
qualità: non ha ricevuto una qualità e non ne è stato neanche reso perfetto; non è
neppure mancanza di qualità: non è privo di una qualità che gli toccherebbe.
Non è parte di qualcosa, non è un tutto provvisto di parti, e neanche qualcosa di
identico e di diverso. Non ha alcun accidente in base al quale può essere distinto
dalle altre cose, non muove e non è mosso136.

Sebbene Alkinoos non parli dell’infinità divina137 come Clemente nel passo di
Strom. V 81,5-6, afferma, tuttavia, che Dio non è né genere, né specie, né accidente.
Non possiede nessuna qualità, non ci sono in lui le parti e nemmeno egli stesso è parte
di qualcosa. Infine, secondo ambedue gli autori, Dio, poiché trascende tutte le categorie
fisiche e metafisiche, è indefinibile e indicibile138. Bisogna comunque aggiungere che, i
medioplatonici (come ad esempio citato Alkinoos o Numenio) introducono, oltre al
primo, anche il secondo intelletto che svolge la funzione di intermediario tra Dio e il
mondo; sempre rivolto da una parte verso il Nous trascendente, dall’altra verso il

136
Alcin., Did. X 4: a;rrhtoj dV evsti. kai. nw|/ mo,nw| lhpto,j( w`j ei;rhtai( evpei. ou;te ge,noj evsti.n
ou;te ei=doj ou;te diafora,( avllV ouvde. sumbe,bhke, ti auvtw|/( ou;te kako,n \ ouv ga.r qe,mij tou/to eivpei/n\ ou;te
avgaqo,n\ kata. metoch.n ga,r tinoj e;stai ou‐toj kai. ma,lista avgaqo,thtoj\ ou;te avdia,foron\ ouvde. ga.r tou/to
kata. th.n e;nnoian auvtou/\ ou;te poio,n\ ouv ga.r poiwqe,n evsti kai. u`po. poio,thtoj toiou/ton
avpotetelesme,non\ ou;te a;poion\ ouv ga.r evste,rhtai tou/ poio.n ei=nai evpiba,llonto,j tinoj auvtw|/ poiou/\ ou;te
me,roj tino,j( ou;te w`j o[lon e;con tina. me,rh( ou;te w[ste tauvto,n tini ei=nai h' e[teron\ ouvde.n ga.r auvtw|/
sumbe,bhke( kaqV o] du,natai tw/n a;llwn cwrisqh/nai\ ou;te kinei/ ou;te kinei/tai. Il testo greco di
riferimento in: Alcinoos, Enseignement des doctrines de Platon, Introduction, texte établi et commenté
par J. Whittaker, Paris 1990. Traduzione italiana di S. Lilla, Introduzione al Medio platonismo…, fr. 12,
p. 30.
137
Però lo fa un altro medioplatonico – Apuleio – che nella sua opera De Platone et eius
dogmate, enumerando diversi attributi divini (simili a quelli che troviamo in Clemente) afferma che Dio è
uno incorporeo e avperi,metroj, cioè senza limiti o infinito. In seguito, il filosofo descrive Dio come padre e
creatore di tutte le cose, il vero essere, beato, eccellente, di nulla manchevole, afferrabile soltanto col
pensiero, uguale e simile a se stesso, ineffabile, innominabile, invisibile e invincibile. Cfr. Apul., De Plat.
I 190-193. Cfr. anche C. Moreschini, Studi sul De dogmate Platonis di Apuleio, Pisa 1966; S. Lilla,
Introduzione al Medio platonismo…, pp. 41 sgg.; J. Dillon, I medioplatonici…, pp. 353 sgg.; G. Reale,
Storia…, vol. 7, pp. 123 sgg.
138
Sull’argomento cfr. J. Whittaker, Numenius and Alcinous on the First Principle, Phx 32
(1978), pp. 144-154; H. F. Hägg, Clement of Alexandria..., spec. cap. 3: The Concept of God in Middle
Platonism, pp. 71 sgg.
211

mondo. Per suo tramite il primo Dio ordina le cose del mondo. Clemente non parla
esplicitamente dei due intelletti o dei due dèi, tuttavia, attribuisce al Logos di Dio una
funzione demiurgica:

Il Figlio agisce quando guarda la bontà del Padre, Egli, chiamato Dio
Salvatore, principio dell’universo che, primo e prima dei secoli, fu fatto
«immagine del Dio invisibile»139 ed ha informato di sé tutte le cose venute ad
essere dopo di sé140.

Questo passo rivela chiaramente il duplice “volto” del Logos, caratteristica che i
medioplatonici, e soprattutto Numenio141, assegnavano al secondo dio. In realtà, il
Figlio agisce nel mondo mentre guarda la bontà del Padre (w`j ble,pei tou/ patro.j th.n
avgaqo,thta( o` ui`o.j evnergei). L’azione a cui si riferisce il nostro autore è l’azione
creatrice. Contemplando il Padre, il Logos forma o modella (tetu,pwken) le cose venute
ad essere dopo di lui (ta. meqV e`auth.n a[panta geno,mena). Le caratteristiche che Clemente
attribuisce al Logos mettono in risalto la trascendenza ontologica di Dio. Non è il Padre
in persona ad entrare in contatto con la realtà corporea, ma il suo Figlio che fu generato
in funzione della creazione e del governo del mondo. Il Logos, dunque, è il principio
dell’universo (h` tw/n o`lwn avrch,) che ha il suo principio nel Padre. Dio, invece, è la
causa prima, ossia è il principio senza principio (a;narcoj)142. Appunto per questo in un

139
Col. 1,15.
140
Clem., Strom. V 38,7: w`j ble,pei tou/ patro.j th.n avgaqo,thta( o` ui`oj. evnergei/( qeo.j swth.r
keklhme,noj( h` tw/n o`lwn avrch,( h[tij avpeiko,nistai me.n evk tou/ qeou/ tou/ avora,tou prw,th kai. pro. aivw,nwn(
tetu,pwken de. ta. meqV e`auth.n a[panta geno,mena)
141
In effetti, Numenio parla di tre dèi. Il primo, come in Clemente, viene concepito come il Nous
trascendente e indivisibile. Il secondo, invece, e il terzo, come afferma il filosofo di Apamea, sono uno.
Infatti, rappresentano due volti del Demiurgo che da una parte contempla ininterrottamente il primo Dio
e, dall’altra, si prende cura della materia. Ecco che dice esplicitamente Numenio: “Il primo dio, che
risiede in se stesso, è semplice e, rimanendo sempre in se stesso non può essere divisibile. Il secondo e il
terzo dio, comunque sono uno; ma nel processo di contatto con la materia, che è la diade, egli le dona
unità, ma egli stesso è diviso da essa, perché la materia ha un carattere propenso al desiderio ed è fluida.
Pertanto, non essendo in contatto con l’intelligibile (che significherebbe ripiegare su se stesso), dato che
si rivolge alla materia e se ne preoccupa, egli si dimentica di se stesso. Egli entra in contatto con il mondo
sensibile, se ne prende cura e lo eleva al suo carattere, come risultato del suo tendere alla materia”. Num.,
Fr. 11, in: Numénius, Fragments, ed. É. des Places, Paris 1973. Trad. di E. Vimercati, in J. Dillon, I
medioplatonici…, p. 411.
Inoltre, anche Numenio similmente come Clemente nel passo del Strom. V 38,7, considera il
primo Dio come il ‘bene in sé’ (to. avgaqo,n) e il secondo come l’imitatore (mimhth,j) del primo. E anche il
filosofo di Apamea, sostiene che il Demiurgo agisce quando guarda la bontà del primo Dio. Cfr. Num.,
Fr. 16 e 19 (É. des Places). Aggiungiamo che Clemente senza dubbio aveva avuto il contatto con i scritti
di Numenio, perché altrove li cita esplicitamente. Cfr. Clem., Strom. I 150,4. Cfr. anche M. J. Edwards,
Atticizing Moses? Numenius, the Fathers and the Jews, VigChr, 44 (1990), pp. 64-75. Sui principi primi
in Numenio cfr. M. Baltes, Numenios von Apamea und der platonische „Timaios“, VigChr 29 (1975), pp.
241-270; S. Lilla, Introduzione al Medio platonismo…, pp. 100 sgg.; M. Edwards, Numenius of Apamea,
in The Cambridge History of Philosophy…, vol. I, pp. 115-125; J. Dillon, I medioplatonici…, pp. 410 sgg.
142
Cfr. Clem., Strom. IV 162,5: o` qeo.j de. a;narcoj( avrch. tw/n o[lwn pantelh,j( avrch/j poihtiko,j.
212

altro luogo l’Alessandrino definisce il Padre come “la causa oltre le cause (to. evpe,keina
ai;tion), la più antica e la più benefica di tutte (to. pre,sbiston kai. pa,ntwn
euvergetikw,taton)”143.

Anche se in diversi punti la dottrina clementina concorda con la filosofia dei


medioplatonici144, per quanto riguarda il concetto della creazione del mondo il nostro
autore dipende senza dubbio da Filone. Anch’egli, infatti, nel racconto del libro della
Genesi scorge la doppia creazione: la prima intelligibile e la seconda corporea e visibile:

La filosofia “barbara” conosce un mondo intelligibile e un mondo


sensibile, l’uno come archetipo, l’altro immagine del così detto esemplare; e
attribuisce il primo alla “monade”, in quanto intelligibile, l’altro, quello
sensibile, alla “esade” – l’esade è chiamata dai Pitagorici “matrimonio”, in
quanto numero rappresentativo della generazione. E nella monade pone insieme
il cielo invisibile (ouvrano.n avo,raton), la terra informe (gh/n aveidh/) e la luce
intelligibile (fw/j nohto,n). Infatti dice [la Scrittura]: «In principio Dio fece il
cielo e la terra; e la terra era invisibile»; poi aggiunge: «E disse Dio: “Sia fatta
la luce”; e la luce fu»145. Nella formazione del mondo sensibile invece fa creare
il celo “solido” (stereo.n ouvrano.n) – e ciò che è solido è percepibile con i sensi
(to. de. stereo.n aivsqhto,n) –, la terra “visibile” e la luce percepibile all’occhio.
Orbene, non ti pare che derivi di qui Platone, quando lascia nel mondo
intelligibile le idee degli esseri viventi e fa creare le specie sensibili secondo il
modello dei generi intelligibili? E quindi logico che Mosè affermi che il corpo
fu plasmato «di terra» – Platone lo chiama «involucro di terra» – mentre
l’anima razionale, dall’alto, fu da Dio «soffiata in viso»146. Infatti qui, si
afferma, risiede la facoltà che ci guida, e s’interpreta così la sopravvenuta
introduzione dell’anima, nel progenitore, attraverso gli organi sensoriali: così
«l’uomo fu fatto ad immagine e somiglianza»147. Immagine di Dio è il Logos

143
Cfr. Clem., Strom. VII 2,3.
144
Oltre i passi di Alkinoos e di Numenio, ai quali abbiamo accennato sopra, possediamo ancora
molti altri frammenti dei medioplatonici relativi alla trascendenza divina che contengono idee e termini
simili a quelli che troviamo nei scritti dell’Alessandrino. Non è necessario riportare qui tutti questi testi,
perché lo aveva già fatto in modo dettagliato S. Lilla nel suo sempre attuale studio su Clemente al quale
rimandiamo. Cfr. Id., Clement of Alexandria…, pp. 214 sgg. Cfr. anche E. Osborn, Clement of
Alexandria…, pp. 111 sgg.
145
Gen. 1,1-3.
146
Gen. 2,7.
147
Gen. 1,26.
213

divino e sovrano (eivkw.n me.n ga.r qeou/ lo,goj qei/oj kai. basiliko,j) – Uomo non
soggetto a passioni –, immagine dell’immagine è la ragione umana148.

Nonostante Clemente non dedichi molto spazio al commento del racconto della
creazione secondo il libro della Genesi, come fa Filone, è possibile, tuttavia, notare
l’approfondita conoscenza che possiede sull’interpretazione offerta dall’ebreo di
Alessandria riguardo all’argomento. Queste sono le somiglianze che troviamo nei testi
di ambedue gli autori:

1. Clemente concorda con Filone sul fatto che la prima frase della Scrittura,
che nella versione dei LXX suona: evn avrch/| evpoi,hsen o` qeo.j to.n ouvrano.n
kai. th.n gh/n h` de. gh/ h=n avo,ratoj149, comincia la descrizione della
formazione del mondo intelligibile in quanto appunto avo,ratoj. In primo
luogo, dunque, Dio modellò il mondo delle idee: il cielo invisibile
(ouvrano.n avo,raton), la terra informe (gh/n aveidh/) e la luce intelligibile
(fw/j nohto,n)150.
2. Entrambi gli alessandrini sostengono ugualmente che la descrizione della
creazione sensibile comincia a partire del Gen. 1,6, dove si parla della
creazione dello stere,wma (firmamento) che per ambedue indica una realtà
corporea151.
3. Sia l’autore cristiano che quello ebreo separano il giorno “uno” dagli altri
giorni della creazione152 e, servendosi del significato simbolico dei
numeri153, assegnano al ko,smoj nohto,j, la natura monadica154 e al ko,smoj

148
Clem., Strom. V 93,4-94,5.
149
Gen. 1,1-2.
150
Cfr. Phil., Opif. 26-29.
151
Cfr. Phil., Opif. 36-37.
152
Altrove, identificando il giorno ‘uno’ con il Logos, Clemente afferma: “Affinché impariamo
che il mondo è generato, ma non crediamo che Dio abbia creato nel tempo, la Scrittura profetica
aggiunse: «Questo è il libro della genesi [del cielo e della terra] e delle cose che sono in essi, quando
furono creati, nel giorno nel quale Dio fece il cielo e la terra» (Gen. 2,4); dove le parole «quando furono
creati» sono espresse con forma aoristica, senza tempo; e l’inciso «nel giorno nel quale Dio fece», cioè,
nel quale e mediante il quale fece tutte le cose e «senza il quale nessuna cosa fu fatta» (Jo. 1,3), significa
l’attività del Figlio. Di lui dice David: «Questo è il giorno che il Signore ha creato: esultiamo e
rallegriamoci in esso» (Ps. 117 [118],24), cioè godiamoci il divino banchetto, secondo la gnosi da lui
dataci. «Giorno» è infatti detto il Logos illuminante le cose nascoste (cfr. 1 Cor. 4,5) e tramite il quale è
venuta la luce, alla nascita, ogni cosa creata”. Clem., Strom. VI 145,4-7. Cfr. anche Phil., Leg. All. I 20;
Qu. in Gen. I 1, dove il passo del Gen. 2,4 viene commentato in modo simile.
153
Aggiungiamo che anche Filone, per quanto riguarda il significato dei numeri, in diversi luoghi
si rivolge alla simbologia elaborata dai pitagorici. Cfr. Phil., Opif. 13; 49 sgg.; 99 sgg.; Leg. All. I 14 sgg.
154
Cfr. Phil., Opif. 15. 35.
214

aivsqhto,j il carattere della ge,nesij, ovvero della generazione e del


divenire155.
4. In più, per ambedue gli autori il ko,smoj nohto,j è l’archetipo (avrce,tupoj)
e il modello (para,deigma) del ko,smoj aivsqhto,j. Quest’ultimo invece è
l’immagine (eivkw,n) e l’imitazione (mi,mhma) del primo156.
5. Clemente concorda, infine, con Filone nel ritenere che l’uomo sia
“l’immagine dell’immagine” (eivkw.n eivko,noj), ovvero che fu creato a
immagine del Logos che, a sua volta, è l’immagine di Dio157.

Dopo queste considerazioni rimane ancora irrisolta la questione relativa alla


natura e al luogo della prima creazione. Il passo sopraccitato parla della creazione vera e
propria del mondo incorporeo158 o soltanto delle idee, ossia dei pensieri di Dio? Inoltre,
essa avvenne al di là del to,poj che è Dio, o si identifica con il progetto intelligibile
foggiato nel suo Intelletto? Rispondendo a questa domanda osserviamo che il brano che
stiamo analizzando è la parte di un testo polemico nel quale Clemente parla del furto
greco dalla filosofia “barbara”159. Nel nostro caso l’Alessandrino mostra che Platone ha
plagiato dalle Scritture il concetto delle idee. Clemente conosce le caratteristiche che il
filosofo ateniese attribuiva alle idee, ovvero intelligibilità, immutabilità, immobilità,
incorruttibilità, eternità, sussistenza propria e non polemizza con la maggior parte dei
punti di questa dottrina. Pertanto afferma che il filosofo greco “che lascia nel mondo
intelligibile le idee degli esseri viventi e fa creare le specie sensibili secondo il modello
dei generi intelligibili”160, attinge la sua dottrina dalla Scrittura. Ebbene il ko,smoj nohto,j
creato nel giorno “uno” è nient’altro che il mondo delle idee. Esse, tranne la propria
sussistenza, in quanto pensieri divini, conservano tutte le altre caratteristiche delle idee

155
Cfr. Phil., Opif. 12-14..
156
Cfr. Phil., Opif. 16.
157
Cfr. Phil., Opif. 25. Aggiungiamo che ambedue gli autori usano il termine ‘immagine’
soltanto con riferimento all’intelletto. In effetti, non scorgono nessuna somiglianza tra Dio e l’uomo “in
base ai tratti del corpo”. Cfr. Phil., Opif. 69. Le somiglianze tra la dottrina della creazione di Clemente e
quella di Filone enumera anche S. Lilla, Clement of Alexandria…, pp. 191-192. Per di più, lo studioso
italiano riporta altresì i passi dei medioplatonici: Plutarco, Alkinoos, e Apuleio nei quali ricorre la stessa
terminologia platonica. Cfr. Plut., De Anim. Procr. 1013 C; 1023 C; Is. et Osir. 373 A-B; Alcin., Did. XII
1; Apul., De Plat. I 192-199.
158
Infatti, troveremo poi tale concetto in un altro grande pensatore alessandrino, Origene
secondo il quale la prima creazione riguarda gli esseri razionali, dotati del libero arbitrio e pertanto, anche
se incorporei, mutabili. Cfr. Orig., De Princ. I 6,2; II 9,2. 6; III 1,22.
159
Cfr. Clem., Strom. V 89,1 sgg. Come ‘filosofia barbara’ Clemente intende soprattutto le
dottrine contenute nelle Scritture, a volte anche la filosofia giudaica (come quella di Filone) e il
cristianesimo stesso.
160
Clem., Strom. V 94,2: a=rV ouv dokei/ soi evnteu/qen o` Pla,twn zw|,wn ivde,aj evn tw|/ nohtw|/
avpolei,pein ko,smw| kai. ta. ei;dh ta. aivsqhta. kata. ta. ge,nh dhmiourgei/n ta. nohta,.
215

platoniche. Sono dunque gli esemplari e archetipi dei futuri esseri viventi e delle specie
sensibili, ma non individui incorporei.

Nel trattato De opificio mundi, fonte di ispirazione per Clemente, Filone


identifica l’opera del giorno “uno”, ossia il mondo intelligibile, con il Logos divino.
L’autore cristiano, anche se non esplicitamente, compie la medesima operazione. Alla
fine del passo citato, infatti, aggiunge: eivkw.n me.n ga.r qeou/ lo,goj qei/oj e di seguito:
eivkw.n dVeivko,noj avnqrw,pinoj nou/j. Se nella tradizione platonica l’intelletto si identifica
con il “luogo delle idee” e se l’intelletto umano è l’immagine del Logos divino, ne
consegue che anche il Logos sia il luogo delle idee161. Come in Filone, dunque, così
anche in Clemente il Logos di Dio in quanto ko,smoj nohto,j è il prodotto dell’attività
pensante di Dio162; in quanto to,poj ivdew/n si identifica con la mente divina. Di
conseguenza è probabile che a volte, mentre Clemente parla di Dio come del “luogo
delle idee”163, intenda come luogo (to,poj o cw,ra) appunto il Logos di divino164. Quando
invece vuole parlare di Dio in sé, ovvero dell’assoluto principio di tutte le cose, visibili
e invisibili (ta. aivsqhta. kai. ta. nohta,), afferma che Dio non è un luogo, ma u`pera,nw
to,pou165, e non è soltanto il ko,smoj nohto,j, ma è evpe,keina tou/ nohtou/166. Soltanto e

161
In un altro luogo Clemente afferma: “L’espressione «ad immagine e somiglianza», come
sopra abbiamo detto, non si riferisce a ciò che è secondo il corpo, poiché non si può assimilare mortale ad
immortale, ma soltanto secondo intelletto e pensiero (kata. nou/n kai. logismo,n)”. Clem., Strom. II 102,6.
Quindi, la somiglianza tra Dio e l’uomo intercorre sia nel fatto di possedere l’intelletto (nou/j) sia
nell’attività intellettiva (logismo,j).
162
In effetti, a proposito di questo argomento Clemente dice altrove: “Il Logos di Dio dice: «Io
sono la verità» (Io. 14,6); il Logos si può dunque contemplare solo con l’intelletto. Platone scrisse: «– Chi
sono quelli che definisci filosofi? – Sono quelli che amano contemplare la verità –» (Resp. V 475 E). Nel
Fedro chiarirà poi che parla della verità come idea. E l’idea è pensiero di Dio o, come dicono i “barbari”,
Logos di Dio”. Clem., Strom. V 16,1-3. In questo passo notiamo una chiara identificazione dell’idea
platonica con il pensiero di Dio e del pensiero di Dio con il Logos di Dio. Cfr. anche Clem., Protr. 98,4.
A proposito del testo appena citato Wolfson osserva giustamente che “nel passo di Platone cui
Clemente si rifferisce e di cui cita una parte, Platone non parla della verità come di una idea singola, cioè
come di una verità ideale che sia modello delle verità individue del nostro mondo, ma la considera
piuttosto come la totalità delle idee. Anche nel Filebo (59 C) e nella Repubblica (595 C) Platone parla
della verità come caratterizzazione delle idee in generale. Di conseguenza, dal momento che paragona il
Logos cristiano alla verità che Platone considera idea – Clemente sulle orme di Filone, concepisce il
Logos cristiano come comprendente la totalità delle idee”. H. A. Wolfson, La filosofia dei Padri…, vol I,
p. 240.
163
Cfr. Clem., Strom. V 73,3-74,1; IV 155,2, analizzati precedentemente.
164
Cfr. H. A. Wolfson, La filosofia dei Padri…, vol I, p. 239-241; S. Lilla, Clement of
Alexandria..., pp. 201 sgg., i quali suggeriscono che i due passi citati da noi precedentemente (Strom. IV
155,2 e V 73,3) parlano implicitamente del primo stadio dell’esistenza del Logos. In questo stadio il
Logos è identico all’Intelletto divino. Cfr. anche A. Orbe, La teologia dei secoli II e III. Il confronto della
Grande Chiesa con lo gnosticismo, vol. I: Temi veterotestamentari, Roma 1987, pp. 200 sgg.; E. Osborn,
Clement of Alexandria…, pp. 129 sgg.
165
Cfr. Clem., Strom. V 71,5.
166
Cfr. Clem., Strom. V 38,6.
216

unicamente lui è ingenerato. Il suo Logos, invece, nonostante si identifichi con i


pensieri divini, fu generato in funzione della creazione del mondo.

Osserviamo che il modo in cui Clemente concepisce l’atto creativo mette in


risalto la trascendenza ontologica di Dio. Infatti, nella creazione del mondo l’unico
Ingenerato si serve del suo Logos che diventa la causa formale ed efficiente
dell’universo. In quanto causa formale il Logos è l’insieme delle idee, in quanto causa
efficiente è la potenza che imprime (tupo,w)167 nella materia le idee contemplate nel
Padre.

Alla dottrina della trascendenza si collega anche il concetto della provvidenza


divina. Secondo Clemente Dio non soltanto governa il mondo istituendo le leggi della
natura, ma a differenza dei filosofi greci, guida gli uomini verso la salvezza e influisce
persino sui fatti particolari168. Essendo radicalmente trascendente egli, come nel caso
della creazione, non agisce in persona, ma per mediazione169. Ricordiamo che a
proposito di questo argomento Filone sviluppa largamente il concetto delle potenze
(duna,meij), che non solo governano il mondo, ma a volte, quasi che fossero gli esseri
personificati170, entrano in rapporto con alcuni personaggi biblici. Per Clemente,
secondo il dato neotestamentario, è Cristo ad essere “la Potenza e la Sapienza di
Dio”171. Per questo, anziché al plurale, il nostro autore utilizza la parola du,namij al
singolare172. Tuttavia, anche in Clemente troviamo le reminiscenze della dottrina
filoniana delle duna,meij:

Mi sembra che, poiché lo stesso Logos è venuto a noi dal cielo, noi non
dobbiamo più rivolgerci alla dottrina umana, dandoci da fare per conoscerla
recandoci ad Atene e nel resto dell’Ellade e persino nella Ionia. Se infatti il
nostro maestro è colui che ha riempito il tutto con le sue sante potenze (o`
plhrw,saj ta. pa,nta duna,mesin a`gi,aij) – con la creazione, la salvezza, la

167
Cfr. Clem., Strom. V 38,7, analizzato precedentemente.
168
Cfr. Clem., Strom. I 52,3; VI 28,3; VII 6,5-6; Protr. 91,3; Ecl. Proph. 18,1.
169
Cfr. Clem., Strom. VII 8,4-5; 9,1-2.
170
“Quasi” – perché, come abbiamo mostrato nel capitolo precedente, anche nel caso delle
teofanie bibliche (l’incontro di Dio con Abramo o con Mosè) non si tratta di apparizione vera e propria.
Infatti, Filone interpretando il testo in modo allegorico, considera la teofania come una visione mistica. Di
conseguenza, essa non era stata colta con gli occhi del corpo, ma attraverso l’occhio dell’anima o
dall’intelletto. In realtà, secondo l’autore ebreo, le potenze sono di natura intelligibile e come Dio sono
infinite. Cfr. Phil., Sacrif. 59; Mutat. 3-6; Fug. 161-165.
171
Cfr. 1 Cor. 1,24: Cristo.n qeou/ du,namin kai. qeou/ sofi,an.
172
Cfr. Clem., Protr. 117,1: “O santa e benedetta questa potenza, mediante la quale Dio diventa
concittadino degli uomini (duna,mewj( dVh-j avnqrw,poij sumpoliteu,tai qeo,j)!”; Protr. 120,4: “Questo è il
Logos di Dio, braccio del Signore, potenza dell’universo (du,namij tw/n o[lwn), la volontà del Padre”. Cfr.
anche Clem., Strom. I 88,8; 169,4, dove il passo del 1 Cor. 1,24 viene citato esplicitamente.
217

benevolenza, le leggi, le profezie, l’insegnamento – ora il maestro ci insegna


ogni cosa e mediante il Logos tutto il mondo è ormai Atene ed Ellade173.

Il testo parla di una duplice rivelazione, quella naturale e quella sovrannaturale


che si collega all’incarnazione del Logos. Secondo Clemente, pertanto, le verità
ricercate dai filosofi greci, comprensive certamente della verità relativa all’esistenza di
Dio, sono raggiungibili da ciascun uomo attraverso l’opera della creazione o per mezzo
dell’insegnamento del Salvatore174. In merito al nostro argomento, però, risulta di
particolare interesse l’espressione nella quale Clemente afferma che Dio “ha riempito il
tutto con le sante potenze”. Possiamo notare l’eco della dottrina di Filone, il quale
ugualmente parla di Dio che con le sue potenze ha riempito “la terra, l’acqua, l’aria e il
cielo e non ha lasciato alcuna parte priva di sé”175. E nonostante nella lista che segue,
l’autore cristiano utilizzi i sostantivi piuttosto che gli aggettivi, non è infondato scorgere
qui le analogie con alcuni nomi delle potenze filoniane176. Quindi, secondo ambedue gli
autori le potenze divine sono presenti ed agiscono nel mondo. Per il tramite di esse Dio
crea e governa il mondo, benefica o punisce gli uomini, stabilisce le leggi e comunica il
suo volere177.

Abbiamo accennato che in Clemente la parola du,namij è soprattutto il nome


proprio del Logos divino. È da osservare, però, che come in Filone, così anche in
Clemente il Logos è una potenza particolare, perché abbraccia o unisce in sé tutte le
altre potenze di Dio:

Tutte le potenze dello Spirito, divenute insieme un solo essere, si


consumano nel medesimo, nel Figlio, ma egli è irriducibile a un limite definito,
se si persegua la nozione di ogni singola potenza. Perciò non è, il Figlio, uno in
quanto uno, né molteplice come parti, ma uno come [unione di] tutte le cose.
Onde è anche tutte le cose. Infatti è egli stesso come un circolo di tutte le
potenze che in uno si risolvono e si unificano. Per questo il Logos è detto «alfa

173
Clem., Protr. 112,1.
174
Per il momento tralasciamo questo argomento. Ne ritorneremo nel paragrafo 2.4: La
trascendenza gnoseologica di Dio.
175
Cfr. Phil., Confus. 136-137.
176
Infatti, anche Filone parla della potenza creativa, benefica e legislativa. Cfr. Phil., Fug. 95.
177
Sull’argomento cfr. D. T. Runia, Clement of Alexandria and the Philonic Doctrine of the
Divine Power(s), VigChr 58 (2004), pp. 256-276.
218

e omega»178: di Lui solo il termine diventa principio e di nuovo termina al


principio iniziale, senza mai permettere interruzione179.

Anche se il Logos, come vediamo nel passo citato, costituisce l’insieme delle
potenze, non può essere considerato come un compositum. Di natura interamente
intelligibile (e tutto ciò che è intelligibile è monadico) non ci possono essere in lui né
parti, né luoghi, né limiti180. La potenza, dunque, non è un elemento o una parte del
Logos, ma un aspetto della sua multiforme attività, che in lui ha il suo principio. Se è
così, il Logos è irriducibile (avpare,mfatoj). In realtà, se esaminiamo la nozione della
potenza creativa, benefica o quella legislativa, indaghiamo qualcosa intorno al Logos
generato in funzione della creazione e del governo del mondo. Comunque, l’attività, o il
potere del Logos, non si riduce solamente all’una o all’altra potenza e neanche a tutte le
potenze insieme. Come Dio, essendo Nous, ossia attività pensante, non si riduce
soltanto ai suoi pensieri, ma li trascende, così anche il Logos, essendo l’attività operante
rivolta verso il creato è irriducibile alla somma delle potenze che esprimono la sua
multiforme attività181.

Da una parte, dunque, il Logos è molteplice, anzi è ta. pa,nta, perché esprime
tutta l’attività di Dio al di là dell’essenza divina; dall’altra parte è e[n, perché tutto ciò
che è in lui è una cosa sola; inoltre egli stesso è uno solo in quanto l’unigenito Figlio di
Dio. Pertanto – afferma Clemente – il Logos non è semplicemente e[n w`j e[n né polla.
w`j me,rh, ma pa,nta e[n182. In realtà, e[n w`j e[n è l’appellativo proprio del Dio

178
Apoc. 1,8; 21,6; 22,13.
179
Clem., Strom. IV 156,1-157,1: pa/sai de. ai` duna,meij tou/ pneu,matoj sullh,bdhn me.n e[n ti
pra/gma geno,menai suntelou/sin eivj to. auvto,( to.n ui`o,n( avpare,mfatoj de. evsti th/j peri. e`ka,sthj autou/ tw/n
duna,mewn evnnoi,aj) kai. dh. ouv gi,netai avtecnw/j e[n w`j e[n( ouvde. polla. w`j me,rh o` ui`oj, ( avllV w`j pa,nta e[n)
e;nqen kai. pa,nta\ ku,kloj ga.r o` auvto.j pasw/n tw/n duna,mewn eivj e]n eivloume,nwn kai. e`noume,nwn) dia.
tou/to ¹a;lfa kai. w=¹ o` lo,goj ei;rhtai( ou- mo,nou to. te,loj avrch. gi,netai kai. teleuta|/ pa,lin evpi. th.n
a;nwqen avrch,n( ouvdamou/ dia,stasin labw,n.
180
Ne abbiamo parlato precedentemente, a proposito dei passi del Strom. V 93,4-94,5 e V 81,5-6
181
Ricordiamo che anche in Filone il ko,smoj nohto,j, ossia il Logos, è costituito dalle potenze.
Cfr. Phil., Confus. 172; Somn. I 62. E come in Clemente così anche in Filone il Logos non si riduce alle
singole potenze, ma le trascende. Cfr. Phil., Cher. 27; Fug. 95; 101.
182
A proposito del concetto di pa,nta e[n, S. Lilla afferma: “This idea immediately reminds us of
the second hypothesis of Plato’s Parmenides as well as of some statements of Plotinus about the
metaphysical nou/j”. In seguito lo studioso italiano riporta i passi di Platone (Parm. 145 C) e di Plotino
(Enn. V 3,11; 4,2; 9,6; 9,8) e conclude: “The similarity between Clement’s Logos in the second stage of
its existence, the Plotinian nou/j, and the doctrine of the ‘One’ as it appears in the second hypothesis of the
Parmenides can be easily explained, if we assume that Clement was under the influence of
Neopythagorean interpretation of Plato’s Parmenides analogous to that on which Plotinus’ doctrine of the
nou/j is based. E. R. Dodds has shown that the Neopythagorean schools of the first centuries A.D.
distinguished two kinds of ‘one’: the first, absolutely transcendent ‘one’, and the second ‘one’, which is
the principle of all things and contains everything in itself; they related the former to the ‘one’ of the first
hypothesis of the Parmenides and the latter to the ‘one’ of the second hypothesis of the same dialogue”.
S. Lilla, Clement of Alexandria..., pp. 205-206. Cfr. E. R. Dodds, The ‘Parmenides’ of Plato and the
219

trascendente; polla. w`j me,rh, invece, è la caratteristica delle cose corporee. Molteplicità
delle potenze, dunque, non equivale alla molteplicità degli intermediari tra Dio e il
mondo. Le potenze in Clemente, infatti, non sono le ipostasi sussistenti, ma le facoltà
del Logos o modi in cui egli agisce nel mondo. È piuttosto l’uomo a distinguere e a
ipostatizzare ciò che al livello dell’intelligibile è unità.

Aggiungiamo alla fine che nell’ultima frase del passo citato Clemente tocca in
qualche modo il tema dell’infinità del Logos e delle sue potenze. Basandosi, infatti,
sulla frase dell’Apocalisse: «Io sono alfa e omega» il nostro autore afferma che nel
Logos “il termine diventa principio e di nuovo termina al principio iniziale, senza mai
permettere interruzione”. L’attività del Logos è quindi ininterrotta e la sua potenza non
si esaurisce mai. Di questa frase, però, è interessante l’espressione: ouvdamou/ dia,stasin
labw,n. Per comprendere meglio questa affermazione rivolgiamoci al passo esaminato
prima, dove Clemente dice: “l’Uno è indivisibile e per questo è anche infinito (a;peiron),
non nel senso dell’impossibilità di percorrerlo, ma dell’assenza di dimensione (kata. to.
avdia,staton) e di limite”183. La parola dia,stasij significa: “divisione”, “dimensione” o
“intervallo” e viene utilizzata sia nel senso spaziale sia nel senso temporale. Osserviamo
che, secondo la definizione del nostro autore, “infinito” (a;peiron) è ciò che appunto non
possiede divisione, dimensione o intervallo184. Sulla base dei passi riportati, dunque,
vediamo che anche il Logos è infinito. Infatti, come Dio egli non ha né dimensione né
divisione (dia,stasij), in quanto intelligibile, né intervallo (dia,stasij) in quanto perenne
attività pensante e operante185. Incessantemente, dunque, contempla Dio e senza alcun

Origin of the Neoplatonic One, CQ 22 (1928), pp. 129-142. Sull’argomento cfr. anche E. F. Osborn, The
Philosophy of Clement of Alexandria…, spec. chapter 1: The One and the Many, pp. 17-24; H. F. Hägg,
Clement of Alexandria…, pp. 212-217.
183
Clem., Strom. V 81,6: avdiai,reton ga.r to. e[n( dia. tou/to de. kai. a;peiron( ouv kata. to.
avdiexi,thton noou,menon( avlla. kata. to. avdia,staton kai. mh. e;con pe,raj( kai. toi,nun avschma,tiston kai.
avnwno,maston.
184
Infatti, nel passo sopra citato Clemente utilizza la preposizione di causa: dia. tou/to. “L’Uno –
afferma – è indivisibile dia. tou/to (a causa di ciò o per questo) è anche infinito”. E di seguito spiega
come concepisce tale affermazione.
185
Dell’infinità del Logos in Clemente parla anche A. Choufrine (Gnosis…, pp. 173 sgg.) che,
come S. Lilla citato sopra, paragona il nostro passo con le ipotesi contenute nel Parmenide di Platone,
però tira le conclusioni seguenti: “Here [i.e. in Strom. 156,1-157,2] Clement contrasts the “one as all
[things]” (which he elsewhere identifies with the monad) with the “one as one” and the “many as
[divided] parts”. He does not give any reason for bringing together the three concepts. What might all
three have in common? Interestingly, the three notions of infinity one finds in the Parmenides are
precisely those; the one as one (the First Hypothesis, Parm. 137 C), the one as many (the Second
Hypothesis, Parm. 143 A), and the many as many (the Fourth, Parm. 158 C, and the Eighth Hypotheses,
Parm. 165 B-C). Clement thus seems to assume that the audience he addresses knows the Parmenides
well enough to understand his belief that the infinity of the monad is to be construed in terms not of the
First, Fourth or Eighth, but of the Second Hypothesis. Another conclusion one may draw is that for
Clement there are two grades of infinity in God (corresponding to the monad and “the One”), the
220

intervallo compie la volontà del Padre186. Ebbene, è infinito secondo la sua essenza e
secondo la sua potenza187.

Al concetto delle potenze si collega anche la dottrina dell’ubiquità di Dio.


Poiché Dio provvede ogni cosa, “fino ai fatti particolari”, in qualche modo deve essere
anche onnipresente. Essendo radicalmente trascendente, però, non è presente nel mondo
secondo la sua essenza, ma secondo la sua potenza:

Egli essendo lontano è venuto vicinissimo: miracolo ineffabile! «Io


sono un Dio che si avvicina»188, dice il Signore: lontano per essenza (come
potrebbe mai, infatti, ciò che è generato avvicinarsi all’ingenerato?), ma
vicinissimo per la sua potenza con cui racchiude in sé tutte le cose. «Se
qualcuno farà qualcosa di nascosto», dice, «che forse io non lo vedrò?»189.
Invero la potenza di Dio è sempre presente e ci tocca con la sua forza vigile,
benefattrice, educatrice. Perciò Mosè, convinto che Dio non sarà mai conosciuto
con sapienza umana, dice: «Rivelati a me»190; ed è costretto ad entrare «nella
tenebra»191, dov’era la voce di Dio, cioè nei ragionamenti impenetrabili e senza
luce intorno all’essere. Poiché Dio non è in una tenebra o in un luogo, ma al di
sopra del luogo e tempo e proprietà del creato; per cui non si trova mai in una
parte o per delimitazione o per separazione, in quanto contenente e non
contenuto192.

difference between which is technical enough for him to inscribe them without reservations into Plato’s
scheme”. Ibid., p. 174. In seguito lo studioso si riferisce al passo di Strom. V 71,2-3, dove si parla del
me,geqoj tou/ Cristou/, e afferma: “In Plato, “the One” is the multitude (to. plh/qoj); he means infinity in
number. Clement, to contrary, speaks of Christ’s magnitude (to. me,geqoj). Thus he inscribes into the
scheme of Plato’s Parmenides the Aristotelian concept of infinity”. Ibid. 175. Anche E. Osborn,
nonostante non faccia così dettagliata analisi come quella del Choufrine, afferma che in Clemente
troviamo due tipi dell’infinità: una riguarda il Padre, l’altra il Figlio. Cfr. E. Osborn, Clement of
Alexandria…, p. 126.
186
Perciò è detto anche “la volontà del Padre”. Cfr. Clem., Protr. 120,4.
187
Per quanto riguarda questo argomento vale la pena aggiungere ancora che nell’Alessandrino
Dio è detto pantokra,twr, ovvero onnipotente. Cfr. Clem., Strom. I 85,6; V 71,3; IV 2,2; VI 28,3 e altri.
Se il Dio trascendente tutto ciò che fa, fa tramite la sua potenza, ossia il Logos, anche questa potenza deve
essere onnipotente. Infatti, essa, come in Filone, rappresenta l’attività divina che proviene da una fonte
infinita. Pertanto tra i testi di Clemente troviamo i passi nei quali altresì il Logos è detto pantokra,twr, o
la potenza onnipotente (pagkrath,j). Cfr. Clem., Paed. I 84,1; Strom. IV 107,8; V 6,3.
188
Jer. 23,23, in LXX: qeo.j evggi,zwn evgw,.
189
Cfr. Jer. 23,24 in LXX.
190
Ex. 33,13.
191
Cfr. Ex. 20,21.
192
Clem., Strom. II 5,4-6,3: o` de. auvto.j makra.n w'n evgguta,tw be,bhken( qau/ma a;rrhton\ ¹qeo.j
evggi,zwn evgw,¹( fhsi. ku,rioj\ po,rrw me.n katVouvsian $pw/j ga.r a'n suneggi,sai pote. to. gennhto.n
avgennh,tw|È%( evgguta,tw de. duna,mei( h|- ta. pa,nta evgkeko,lpistaiÅ ¹eiv poih,sei tij kru,fa¹( fhsi,( ¹ti( kai. ouvk
evpo,yomai auvto,nȹ kai. dh. pa,restin avei. th|/ te evpoptikh|/ th|/ te euvergetikh|/ th|/ te paideutikh|/ a`ptome,nh
h`mw/n duna,mei du,namij tou/ qeou/) o[qen o` Mwsh/j ou;pote avnqrwpi,nh| sofi,a| gnwsqh,sesqai to.n qeo.n
pepeisme,noj( ¹evmfa,niso,n moi seauto.n¹ fhsi. kai. ¹eivj to.n gno,fon¹( ou- h=n h` fwnh. tou/ qeou/( eivselqei/n
bia,zetai( toute,stin eivj ta.j avdu/touj kai. aveidei/j peri. tou/ o;ntoj evnnoi,aj\ ouv ga.r evn gno,fw| h' to/pw| o`
221

Può sembrare che la prima frase del passo parli dell’incarnazione del Logos.
Infatti, alla venuta del Salvatore il Dio “lontano” si è avvicinato alla sua creatura. “È
venuto vicinissimo (evgguta,tw be,bhken)” – come esplicitamente dice Clemente. Però,
leggendo quanto scritto di seguito, vediamo che Dio è vicino al creato da sempre
(pa,restin avei.). E da sempre opera nel mondo tramite la sua potenza. Osserviamo che il
termine du,namij è stato usato a questo proposito in duplice significato. In primo luogo
designa il Logos che è la du,namij tou/ qeou/; in secondo le potenze delle quali egli si
vale. Esse vengono identificate come du,namij evpoptikh,, euvergetikh, e paideutikh,. Tate
distinzione concorda con tutto ciò che abbiamo detto a proposito del passo analizzato
precedentemente193. Infatti, il Logos è l’insieme delle potenze pur non essendo
riducibile a nessuna di esse. E perciò è detto pa,nta e[n. Ora possiamo allargare il
significato di questa espressione. Vediamo, difatti, che il Logos è l’unica potenza di Dio
(perciò è e[n) “che tutte le cose (ta. pa,nta) racchiude in sé (evgkeko,lpistai)”, ossia pur
essendo uno solo è presente in tutte le cose. Non nel senso panteistico, ma tramite la sua
multiforme potenza.

Abbiamo incontrato un’idea simile in Filone, il quale ugualmente afferma che la


potenza di Dio “racchiude in sé (evgkeko,lpistai) ogni realtà ed è diffusa in ogni singola
parte del tutto”194. Tale potenza è detta dall’autore ebreo con il termine qeo,j. Egli può
dire a giusta ragione persino che “Dio riempie il tutto come contenente e non come
contenuto (perie,cwn ouv perieco,menoj)”195. L’espressione perie,cwn ouv perieco,menoj
troviamo pure nell’ultima frase del passo succitato. Anche secondo Clemente, difatti,
Dio è perie,cwn, ovvero colui che contiene tutto il mondo, però non è perieco,menoj,
ovvero non è contenuto in alcuna parte del mondo. In realtà, pur toccando tutte le cose
attraverso la sua potenza, Dio rimane “lontano” secondo la sua essenza (po,rrw me.n
katVouvsian)196. In questo modo il nostro autore, così come prima lo aveva fatto Filone,

qeo,j( avllV u`pera,nw kai. to,pou kai. cro,nou kai. th/j tw/n gegono,twn ivdio,thtoj) dio. ouvdV evn me,rei
katagi,netai, pote a[te perie,cwn ouv perieco,menoj h' kata. o`rismo,n tina h' kata. avpotomh,n. Trad. mia.
193
Cfr. Clem., Strom. IV 156,1-157,1.
194
Phil., Confus. 137.
195
Cfr. Phil., Confus. 136; Poster. 7; Somn. I 63-64.
196
È da notare che, oltre Filone, il concetto di Dio che è perie,cwn ouv perieco,menoj è presente
anche tra le dottrine degli gnostici. Infatti, nella Lettera dogmatica dei Valentiniani tramandataci da
Epifanio leggiamo: “All’inizio colui che da sé è Padre in sé conteneva tutte le cose, che stavano in lui
nell’ignoranza: lui alcuni chiamano Eone che non invecchia, sempre giovane, androgino, che tutto
contiene e non è contenuto (perie,cei oukv evmperie,cetai)”. Epiph., Pan. 31,5,3. Trad. di M. Simonetti, in
Testi gnostici in lingua greca e latina, Milano 2005. p. 217.
Vediamo dunque che nell’ambito intellettuale alessandrino funzionavano certe espressioni
tecniche per descrivere alcuni concetti filosofici. Infatti, anche se per quanto riguarda la teoria degli eoni,
il concetto della creazione, l’antropologia e l’escatologia Clemente dissente dalla visione degli gnostici,
222

riconcilia ciò che per gli antichi sembrava contraddittorio, ossia il concetto della
radicale trascendenza di Dio con la dottrina della divina provvidenza, onnipresenza e
onniscienza197.

Nella seconda parte del passo citato Clemente sposta il tema della trascendenza
divina dal livello ontologico a quello epistemologico e afferma che Dio “non sarà mai
conosciuto con sapienza umana”. A questo proposito si serve di un esempio
scritturistico relativo all’incontro di Mosè con Dio e, come Filone198, argomenta che il
patriarca non era in grado né di vedere né di conoscere il suo Interlocutore. Infatti, ciò
che trascende le categorie del luogo, del tempo e ogni proprietà del creato è
irraggiungibile alle capacità dell’intelletto umano. Mosè dunque non “entrò nella
tenebra dove era Dio”, come afferma la versione dei LXX (Mwush/j de. eivsh/lqen eivj to.n
gno,fon ou- h=n o` qeo,j), ma – secondo l’interpretazione allegorica di Clemente – nella
“tenebra” dei ragionamenti o delle nozioni (evnnoi,aj) impenetrabili, dove era “la voce di
Dio” (ou- h=n h` fwnh. tou/ qeou/)199. Il legislatore dunque è guidato nei suoi pensieri da
qualche “voce divina” – cioè da una potenza, probabilmente quella educatrice
(paideutikh,) della quale si parla prima – però non incontra e non parla con l’Ingenerato
“faccia a faccia”200, come al livello letterale suggerisce la Scrittura201.

usa gli stessi termini per descrivere la trascendenza di Dio. Prima di loro, e anche nell’ambito
alessandrino, la stessa terminologia fu adoperata da Filone di Alessandria.
197
Infatti, per il tramite della sua potenza protesa in tutto il mondo Dio è anche onnisciente. Lo
suggerisce Clemente anche nel nostro passo, quando subito dopo aver parlato della potenza “che tutte le
cose racchiude in sé” cita il testo del profeta Geremia. «Se qualcuno farà qualcosa di nascosto, ebbene io
non lo vedrò?» (Jer. 23,24). Quindi, Dio tutto vede e nulla è nascosto davanti a lui, appunto per il fatto di
essere presente (secondo la sua potenza) in ogni singola parte del tutto. Sull’argomento cfr. P. L.
Reynolds, The Essence, Power and Presence of God: Fragments of the History of an Idea, from
Neopythagoreanism to Peter Abelard, in From Athens to Chartres: Neoplatonism and Medieval Thought.
Studies in Honour of Edouard Jeauneau, a cura di H. J. Westra, Leiden, 1992, pp. 351–380; spec. pp. 359
sgg.; H. F. Hägg, Clement of Alexandria…, pp. 246 sgg.
198
Cfr. Phil., Fug. 161-165; Poster. 14-16; 168-169; Mutat. 7-9; Spec. Leg. I 41-50. Cfr. anche
A. van den Hoek, Clement of Alexandria…, pp. 148 sgg.; E. Osborn, Clement of Alexandria…, p. 87.
199
È da notare che in un altro passo, dove si tratta anche di una teofania la fwnh. tou// qeou/ viene
identificata con il Logos di Dio. Cfr. Clem., Strom. VI 34,3. Ne parleremo ancora nel paragrafo
successivo.
200
Cfr. Num. 12,8.
201
Abbiamo già detto che anche secondo Filone, Mosè, nonostante diverse teofanie alle quali
partecipò, non fu in grado di comprendere ciò che è Dio. Aggiungiamo che tra i passi filoniani che
toccano quetso argomento (cfr. sopra) c’è uno – quello di Poster. 14-16 – a cui Clemente sicuramente si è
ispirato nella sua interpretazione allegorica contenuta nel passo di Strom. II 5,4-6,2. Infatti, in questo
luogo l’autore ebreo, così come quello critiano, afferma che Mosè entrò nella tenebra “cioè negli oscuri e
impenetrabili pensieri riguardanti l’Essere” (toute,stin eivj ta.j avdu,touj kai. aveidei/j peri. tou/ o;ntoj
evnnoi,aj). Inoltre, anch’egli dice che Dio è “al di sopra del luogo e tempo” (u`pera,nw kai. to,pou kai.
cro,nou). In seguito, afferma ugualmente che Dio riempie di sé l’universo, attraverso le sue potenze
(peplh,rwke to.n ko,smon e`autou/\ dia. duna,mewj). Poco dopo (Poster. 20) troviamo anche l’affermazione
che Dio è “vicinissimo e insieme lontano” (le,getai dV o[ti kai. evggu,tata o` auvto.j w'n kai. makra,n evstin).
223

Vediamo dunque che per salvaguardare il concetto della trascendenza divina


Clemente ricorre all’interpretazione allegorica dei testi biblici che al livello letterale
parlano di un incontro tra Dio e l’uomo. Così, dunque, non è Dio secondo la sua
essenza, ma una potenza divina ad entrare in contatto con il creato. Questa dottrina,
difficile da intendere per i fedeli dell’epoca202, viene chiarita dal nostro autore anche
attraverso immagini e metafore. Tra di esse troviamo anche quella che era molto cara a
Filone, ossia la metafora della luce:

Ora, se uno pensa Dio – non certo in modo degno, perché quale realtà
potrebbe essere degna di Dio? ma come è possibile – pensi «una luce
inaccessibile (fw/j avpro,siton)»203, grande, incomprensibile e bellissima, che
possiede in sé ogni potenza buona (pa/san du,namin avgaqh,n), ogni virtù nobile,
che si cura di tutti gli esseri, compassionevole, impassibile, buona, che sa tutto,
che prevede tutto, limpida, dolce, radiosa, incontaminata204.

Ricordiamo che Filone per mettere in risalto la trascendenza divina ha


paragonato Dio con il sole e le potenze con i suoi raggi205. In questo modo Dio, pur
rimanendo sempre al di là del mondo – come il sole – penetra, mantiene nell’esistenza e
governa tutto ciò che aveva creato. Clemente, anche se non parla esplicitamente del
sole, afferma che Dio è paragonabile a una luce, che possiede in sé ogni potenza buona
(pa/san du,namin avgaqh,n) e che si cura di tutti gli esseri. Come il sole filoniano anche la
luce clementina è inaccessibile (avpro,siton) e incomprensibile (avperino,hton). Influisce

L’unica cosa pe cui differisce l’interpretazione clementina da quella filoniana è la forma in cui ricorre la
parola du,namij. Infatti, mente l’autore ebreo la utilizza al plurale, l’autore cristiano lo fa al singolare. Però,
come abbiamo visto sopra (cfr. Strom. IV 156,1-157,1), anche Clemente parla a volte delle duna,meij del
Logos di Dio.
Una simile interpretazione allegorica troviamo anche in Strom. V 71,5, dove, citando le stesse
parole di Mosè dell’Ex. 33,13 («Rivelati a me»), Clemente afferma che questo desiderio del legislatore
comprova il fatto che Dio non può essere compreso da parte dell’uomo, e nello stesso tempo, che la
conoscenza dell’Invisibile è il dono di grazia che proviene da Dio attraverso il Figlio (h` ca,rij de. th/j
gnw,sewj parV auvtou/ dia. tou/ ui`ou/).
202
Che la dottrina della trascendenza ontologica di Dio fosse difficile e incomprensibile, lo
abbiamo mostrato anche in questo paragrafo citando i passi nei quali Clemente rifiuta l’interpretazione
‘carnale’ della Scrittura. Cfr. Clem., Strom. II 39,1-40,3; II 72,2-4; V 68,1-3. In questi luoghi il nostro
autore non solo critica il metodo dell’interpretazione dei testi biblici, ma ci informa che tra i cristiani
dell’epoca c’erano anche quelli che concepivano Dio in maniera antropomorfa. Anzi, alcuni lo
consideravano corporeo.
203
1 Tim. 6,16.
204
Clem., Ecl. Proph. 21,1. Le citazioni italiane delle Eclogae propheticae riportate in questo
studio provengono da: Clemente Alessandrino, Estratti profetici, a cura di C. Nardi, Firenze 1999. In caso
della mia o di un’altra traduzione, sarà segnalato nella nota. L’edizione critica di riferimento è quella di
O. Stählin, op. cit..
205
Cfr. Phil., Deus 78-79. Come abbiamo detto nel capitolo precedente la metafora del sole e
della luce è quella preferita da Filone. Oltre il passo qui riportato essa appare ancora in molti altri luoghi
delle opere filoniane. Cfr., ad esempio, Phil., Opif. 71; Cher. 97; Ebr. 44-45; Fug. 165; Mutat. 4-6; Somn.
I 73-76; I 116.
224

con la sua potenza su tutto ciò che succede nel mondo, però il mondo non influisce su di
essa. Infatti, è compassionevole (filoikti,rmon), però allo stesso momento impassibile
(avpaqe,j). Tale luce non è ovviamente di natura materiale e non è visibile. Anche se qui
Clemente non lo dice esplicitamente, in un altro luogo afferma: “Conducendoci fuori
dal disordine, il Signore ci illumina (fwti,zei), guidandoci alla luce senz’ombra e non
più materiale (ouvke,ti u`liko,n)”206. La metafora della luce, dunque, svolge una doppia
funzione. Da una parte rivela la trascendenza ontologica, dall’altra la trascendenza
epistemologica di Dio. In realtà, Dio non solo agisce nel mondo pur non toccando la
materia, ma anche illumina l’uomo pur rimanendo incomprensibile. Anche se dei
problemi epistemologici parleremo successivamente, già a questo punto vale la pena
aggiungere che la metafora della luce non amplia la scienza relativa a Dio. È soltanto –
come afferma Clemente – uno dei “modi indegni” nei quali egli, può essere
rappresentato all’intelletto umano. Infatti, essa ci dice semplicemente che Dio non fa
parte di questo mondo e nonostante ciò in qualche modo influisce e agisce in esso. Non
ci dice comunque niente della sua essenza207.

Riassumendo questo paragrafo possiamo dire che nei testi di Clemente troviamo
non solo una chiara distinzione tra due livelli della realtà nohto,j e aivsqhto,j, distinti e
trascendenti l’uno rispetto all’altro, ma anche una distinzione tra l’avge,nhtoj e il genhto,j.
In questo modo Dio, nonostante sia di natura intelligibile, in quanto nou/j, essendo
l’unico ingenerato trascende persino ciò che è intelligibile. È evpe,keina tou/ nohtou/. Da
lui proviene tutta la realtà visibile e invisibile ed egli è il principio assoluto del tutto. È

206
Clem., Ecl. Proph. 5,3. Aggiungiamo a questo proposito che anche Filone parla della luce
intelligibile (nohto.n fw/j, cfr. Phil. Abr. 119) e del sole intelligibile (h[lioj nohto,j, cfr. Phil. Spec. Leg. I
279).
207
In modo simile Clemente spiega un’altra metafora di provenienza biblica. Infatti, la Scrittura
chiama Dio “fuoco divorante” (pu/r katanali,skon). Cfr. Dt. 4,24; Hbr. 12,29. Per escludere qualsiasi
interpretazione letterale di questa espressione il nostro autore dice: “Così anche quando Dio è detto
«fuoco divorante», va inteso come nome e simbolo (o;noma kai. su,mbolon) non di malvagità, ma di
potenza (duna,mewj): come il fuoco è il più forte degli elementi e li domina tutti, così anche Dio tutto può e
tutto governa, lui che può dominare, creare, produrre, nutrire, far crescere salvare, perché ha potere
sull’anima e sul corpo. Come il fuoco sovrasta gli elementi, così l’Onnipotente sovrasta dèi, potenze e
dominazioni. Duplice è la potenza del fuoco: l’una atta alla produzione e maturazione dei frutti e alla
nascita e nutrimento degli esseri viventi, la cui immagine è il sole; l’altra atta alla dissoluzione e
distruzione, com’è il fuoco terrestre. Quando Dio è detto «fuoco divorante», è potenza forte e irresistibile
(du,namij ivscura. kai. avprosa,nthtoj), per la quale nulla è impossibile, ma che può anche far perire”.
Clem., Ecl. Proph. 26,1-4.
Non è necessario commentare a lungo questo passo, perché il suo contenuto è molto chiaro. Basti
soltanto affermare che anche la metafora del fuoco parla, secondo il nostro autore, della trascendenza
ontologica di Dio. Infatti, come “il fuoco sovrasta gli elementi”, così Dio sovrasta tutte le realtà visibili e
intelligibili. Però, più che sulla natura materiale del fuoco Clemente si concentra sulla sua duplice potenza
che è far nascere (in questo senso il fuoco viene identificato con il sole) e far perire. L’espressione
biblica: «fuoco divorante» va dunque intesa come simbolo dell’onnipotenza divina.
225

to. evpe,keina ai;tion. La trascendenza assoluta di Dio viene sottolineata ancora di più
attraverso il concetto dell’infinità. In questo punto della sua dottrina l’Alessandrino
appare originale, non soltanto nell’ambito della patristica, ma anche nell’ambito della
filosofia greca anteriore a Plotino. Nelle sue opere, prima volta nella filosofia
postsocratica, la nozione dell’a;peiroj aquista la connotazione positiva in quanto
attribuita a una realtà perfetta, cioè all’Assoluto 208. La trascendenza ontologica di Dio si
rivela, poi, non soltanto attraverso gli attributi che Clemente assegna all’Essere
supremo, ma anche nel modo in cui egli agisce al di là della sua essenza. Difatti, nella
creazione e nel governo del mondo Dio si serve della potenza generata da sé che è il
Logos. Anche se la funzione del Logos, come la presenta il nostro autore, è totalizzante,
ovvero esprime tutta l’attività di Dio al di là dell’essenza divina, troviamo nei testi
clementini l’eco della dottrina filoniana delle potenze. In realtà, il Logos è detto pa,nta
e[n, in quanto l’unigenito Figlio di Dio che unisce in sé ed opera per il tramite delle
potenze. Grazie allo strettissimo rapporto che c’è tra Dio e il Logos – infatti il Logos si
identifica in primo luogo con l’intelletto divino, in secondo luogo con ciò che è da lui
generato – il Dio “lontano” diventa il Dio “vicinissimo”. Così, dunque, Dio per la sua
potenza racchiude in sé tutte le cose, però non è presente nel mondo secondo la sua
essenza. È perie,cwn ouv perieco,menoj. Pertanto, anche se in “modo indegno”, è
paragonabile con il sole che pur rimanendo al di là della terra, con i suoi raggi fa
nascere e fa perire le cose terreste. Grazie a questa soluzione teoretica Clemente
riconcilia ciò che per gli antichi sembrava irreconciliabile o contraddittorio, ovvero il
concetto dell’assoluta trascendenza ontologica di Dio con la dottrina della sua
onnipresenza, provvidenza, onniscienza e onnipotenza209. Infatti, attraverso le potenze
Dio “ci tocca”, vede e prevede tutto, “si cura di tutti gli esseri”, fa nascere e fa perire ciò
che vuole, ma nello steso momento rimane assolutamente trascendente, perché la sua
essenza che è sempre evpe,keina tou/ nohtou/ kai. evpe,keina th/j ouvsi,aj è “irriducibile”
(avpare,mfatoj) a nessuna delle potenze.

208
Come abbiamo mostrato nel capitolo precedente, già Filone parla dell’infinità di Dio e delle
sue potenze, comunque a questo proposito non utilizza il termine tecnico a;peiroj, che nell’ambito della
filosofia greca aveva le connotazioni negative. Clemente, invece, non solo afferma che Dio è a;peiroj,
ma, come abbiamo visto sopra, costruisce la propria definizione dell’infinito che si basa sulle riflessioni
di Platone e di Aristotele relative a questo argomento.
209
Tale soluzione, come abbiamo mostrato prima, troviamo anche in Filone e nei medioplatonici
dell’epoca.
226

2.3. Il Logos personale: trascendente e immanente

Abbiamo dovuto toccare, già nel paragrafo precedente, molte delle questioni
relative all’argomento del Logos in Clemente. Infatti, per parlare della trascendenza
ontologica di Dio non era possibile non accennare al modo con il quale egli crea e
governa il mondo corporeo. Così dunque, sappiamo ormai che il Logos in primo luogo
si identifica con l’Intelletto divino; in secondo con l’insieme delle idee e delle potenze
divine; in terzo con una potenza immanente che governa l’universo. In questo paragrafo
cercheremo di approfondire questi argomenti, e rispondere ad alcune domande relative
al tema della nostra tesi. Il Logos, dunque, è coeterno a Dio trascendente o fu generato
in qualche ‘momento’ prima della fondazione del mondo corporeo? Se è trascendente
come Dio, in che modo governava il mondo ed istruiva l’umanità prima della sua venuta
nel corpo? Quale è il rapporto tra il Logos generato prima di tutti i secoli, la potenza
governatrice del mondo e il Logos incarnato210? Quale è la funzione dell’incarnazione?

Per quanto riguarda la prima questione bisogna distinguere due cose: il Logos
inteso come la mente divina e il Logos inteso come ciò che fu generato da Dio in
funzione della creazione e del governo del mondo. Non c’è dubbio che il Logos inteso
come il to,poj ivdew/n è coeterno a Dio. Infatti, non c’è nessuna differenza tra il luogo
delle idee e il Nous che è Dio. Però, l’intelletto divino, come abbiamo visto nel
paragrafo precedente, genera da sé le idee che costituiscono il ko,smoj nohto,j –
l’archetipo della futura creazione. Anche questo archetipo viene identificato con il
Logos di Dio. Ma, il Logos inteso in questo modo è anche ab aeterno? Indubbiamente
Dio essendo attività pensante, incessantemente pensa le idee che per Clemente sono i
pensieri della mente divina, però tra queste idee si trovano anche gli archetipi dei futuri
individui corporei? Se è così, Dio eternamente pensa il mondo ed eternamente genera il
Logos. Ma, troviamo già in Clemente questa idea, che successivamente verrà sviluppata
da Origene? Purtroppo ci sono pochissimi passi nei quali il nostro autore tratta della vita
intradivina, ossia di ciò che avvenne nella mente divina prima della creazione del
mondo211. Anzi, c’è uno – quello del Strom. V 93,4-94,5 – che abbiamo già citato nel

210
Questa domanda è importante perché, come vedremo più avanti, secondo la notizia
tramandataci da Fozio (cfr. Phot., Bibl., cod. 109), Clemente avrebbe sostenuto l’esistenza dei due Logoi.
Inoltre, non il Figlio, ma una potenza da lui generata sarebbe dovuta farsi carne.
211
In realtà ci sono moltissimi testi clementini che parlano del Logos nel contesto della sua
attività nel mondo corporeo e nella storia dell’umanità. Ci sono anche quelli che parlano del rapporto tra
227

paragrafo precedente. Esso ci suggerisce che il mondo delle idee fu creato nel giorno
‘uno’ della creazione. Però, il giorno ‘uno’, come in Filone così anche in Clemente, è un
giorno particolare. Infatti, è fuori della generazione e fuori del divenire. Ciò che fu
creato in esso non solo è detto intelligibile, ma anche monadico. Si può parlare dunque
della creazione nel caso del Logos inteso come il ko,smoj nohto,j, o si tratta di un’attività
di Dio che ab aeterno pensa le idee? Alla risposta a questa domanda può avvicinarci un
altro passo:

Non è vero, come alcuni interpretano il riposo di Dio, che Dio abbia
cessato di essere attivo: essendo buono, se cesserà mai di fare il bene, cesserà
anche di essere Dio (avgaqo.j ga.r w;n( eiv pau,setai, pote avgaqoergw/n( kai. tou/
qeo.j ei=nai pau,setai). E questo è empio anche a solo dirlo. Quell’essersi
riposato significa invece l’aver disposto l’ordine delle cose venute all’esistenza
in modo che si conservasse inalterabilmente per ogni tempo, cioè aver posto
termine all’antico disordine per ogni cosa creata. Infatti le creazioni distribuite
in vari giorni s’erano succedute con ordine perfetto (avkolouqi,a| megi,sth|)
secondo il principio che ricevessero [ciascuna] il suo valore da quella anteriore
(evk tou/ progeneste,rou th.n timh,n), valore che tutte le cose venute all’esistenza
avrebbero avuto, perché create nello stesso tempo con un atto di pensiero (a[ma
noh,mati ktisqe,ntwn), non però con uguale dignità. Altrimenti non sarebbe stata
espressamente dichiarata la nascita di ciascuna cosa separatamente, mentre è
detto che la creazione fu fatta insieme: bisognava pur nominare qualche cosa
come prima. Per questo i profeti parlano di un primo, da cui poi un secondo,
mentre tutto nacque insieme da una sola Essenza, per una sola potenza: a quanto
pare una è la volontà di Dio, e in una sola identità. E come la creazione avrebbe
potuto aver luogo nel tempo, se anche il tempo è nato insieme con le cose?212

Anche se questo passo non parla esplicitamente della generazione del Logos, per
la seconda volta possiamo notare come il racconto della creazione descritto nel libro
della Genesi venga interpretato da Clemente allegoricamente. Nel caso del passo del
Strom. V 93,4-94,5 i numeri: ‘uno’ e ‘sei’ simboleggiavano il mondo intelligibile e
quello sensibile. L’uno immutabile, l’altro soggetto al processo del divenire. Ora, nel

il Logos incarnato e il Padre che egli venne ad rivelare. Però di ciò che avvenne in Dio prima della
creazione del mondo Clemente non ci lascia tanti indizi. Non troviamo in Clemente una descrizione o un
ragionamento relativo alla generazione del Logos. In realtà, nel paragrafo precedente abbiamo già citato
quasi tutti i passi che parlano di Dio come del luogo delle idee e della generazione del mondo intelligibile.
Come abbiamo potuto notare, l’argomento che cerchiamo di approfondire viene trattato in essi molto
scarsamente.
212
Clem., Strom. VI 141,7-142,4.
228

passo appena citato, la sequenza dei giorni descritta nel racconto sulla creazione viene
concepita da Clemente in senso assiologico213. Infatti, secondo il nostro autore, ciascuna
delle cose possiede la dignità a seconda del numero del giorno in cui fu creata. Così, ad
esempio, l’uomo creato per ultimo supera secondo la dignità tutto ciò che nel racconto
biblico venne ad esistere prima di lui. Tutte le cose, difatti, furono create per lui e
vengono sottomesse al suo governo214. In realtà, afferma Clemente, ciascuna delle
creature riceve il suo valore da quella anteriore (evk tou/ progeneste,rou th.n timh,n)215. E
tale è il senso del testo biblico che al livello letterale dichiara la nascita di ciascuna delle
cose separatamente e in diversi giorni. Ebbene, secondo il nostro autore, il libro della
Genesi parla dell’ordine logico (avkolouqi,a) secondo il quale Dio organizzò il mondo. I
numeri dei giorni indicano allegoricamente i gradi nella gerarchia delle creature, ma non
l’estensione temporale dell’atto creativo216. Aggiungiamo che questa gerarchia riguarda
ovviamente soltanto le cose corporee e non ciò che secondo la Scrittura fu creato nel
giorno ‘uno’. Infatti, il Logos, secondo la sua dignità, non è il più basso, ma il più
elevato tra gli esseri generati da Dio. Anzi, egli è colui nel quale questo ordine fu
iscritto e la potenza tramite la quale esso fu introdotto nel mondo. Il Logos, dunque, non
può essere considerato semplicemente come una delle creature. È quel ‘primo’ da cui
poi tutta la realtà corporea riceve l’esistenza e l’ordine. A questo punto, però, rimane
sempre irrisolta la questione relativa al momento della sua creazione vel generazione. In
realtà, se considerassimo il Logos come creato ‘prima’ della creazione del mondo
corporeo, contraddiremmo ciò che afferma Clemente riguardo al tempo, e cioè che “il
tempo è nato insieme con le cose”. Se è così, non si può dire che il Logos fu generato
‘prima’, perché prima della creazione del mondo non esiste nessuno ‘prima’ né ‘poi’217.

213
Osserviamo, dunque, che in Clemente un solo testo della Scrittura può ricevere diverse
interpretazioni allegoriche.
214
Cfr. Clem., Paed. I 6,5: “Questa sapienza dapprima si occupò dell’universo e del cielo, delle
rotazioni del sole e delle orbite e dei corsi degli altri astri, in funzione dell’uomo; poi si occupò dell’uomo
stesso, per il quale tutta questa sollecitudine veniva profusa”. Cfr. anche Phil., Opif. 77-88, dove Filone
enumera quattro cause per cui l’uomo fu creato per ultimo. Anche l’autore ebreo considera l’uomo come
la creatura che supera, secondo la sua dignità, tutte le altre venute all’esistenza prima di lui.
215
La parola timh, significa: ‘onore’, ‘dignità’ o ‘signoria’. Dunque, le creature venute
all’esistenza prima, annunciano in qualche modo la dignità o la signoria di quelle che nel racconto biblico
vengono create dopo. Gli animali hanno bisogno delle piante e le superano secondo la dignità e il valore.
L’uomo invece è il signore di tutte le creature venute all’esistenza prima di lui e nella gerarchia assiologia
occupa il posto superiore.
216
Dell’avkolouqi,a contenuta nel la sequenza dei giorni della creazione parla anche Filone e
anch’egli sostiene che tutta la creazione avvenne simultaneamente e fuori del tempo. Cfr. Phil., Opif. 26-
28. 65; Leg. All. I 20; Sacrif. 65; Deus 31-32.
217
In ogni caso, dobbiamo aggiungere che per quanto riguarda la generazione del Logos
Clemente utilizza anche gli avverbi temporali. Infatti, dice che egli e originario del Padre ‘prima’ di tutte
le cose che vennero ad esistenza (pro. pa,ntwn tw/n genome,nwn avrcikw,tatoj lo,goj tou/ patro,j). Cfr.
Clem., Strom. VII 7,4.
229

Rimane dunque che egli o venne ad esistere simultaneamente insieme alle cose oppure
viene generato eternamente dal Padre.

A questo proposito bisogna notare che la prima frase del passo citato suggerisce,
difatti, che la creazione del mondo possa essere continua, e, implicitamente, che anche
la generazione del Logos possa essere tale. Invero, leggiamo che Dio non cessa mai di
essere attivo, “essendo buono, se cesserà mai di fare il bene, cesserà anche di essere
Dio”. Quindi, la perenne attività creatrice e benefica, appartiene alla natura di Dio218.
Senza l’attività Dio non è più Dio. Se è così, Dio non solo crea incessantemente il
mondo, ma nello stesso modo, cioè altresì incessantemente, genera il suo Logos che è la
causa formale ed efficiente della creazione. Tale conclusione, però, è soltanto
un’ipotesi. Infatti, dobbiamo ricordare che nel passo citato Clemente polemizza con
costoro che interpretano il ‘riposo’ del settimo giorno come il termine dell’attività
divina. Secondo l’Alessandrino, invece, Dio sempre si prende cura di ciò che ha portato
a nascimento e perciò non cessa mai di creare e di beneficare il mondo. Da ciò, però,
non necessariamente risulta che Dio ab aeterno crea il mondo corporeo, ma solamente
che lo benefica sempre dal momento della sua creazione. In realtà, se prendessimo alla
lettera l’espressione di Clemente: eiv pau,setai, pote avgaqoergw/n( kai. tou/ qeo.j ei=nai
pau,setai, potremmo giungere alla conclusione che Dio per essere Dio ha bisogno del
mondo corporeo219, altrimenti non potrebbe esercitare la sua perenne attività benefica220.
Purtroppo Clemente non ci ha lasciato un sistematico resoconto della dottrina della
creazione per poter comprovare l’ipotesi riguardo la creazione continua. Perciò nella
nostra interpretazione non possiamo spingerci oltre ciò che abbiamo già detto. Per

218
Cfr. Phil., Leg. All. I 5: “Dio non cessa mai di creare, ma, come è proprio del fuoco bruciare e
della neve raffreddare, così anche è proprio di Dio il fare: anzi, a lui questa proprietà compete molto di
più di quanto non competa ad altri, giacché egli è anche l’origine della attività di tutti gli altri esseri”. Cfr.
anche Phil., Cher. 87.
219
Però, in un altro luogo Clemente afferma: “È fin dal principio, da quando è Padre, che la sua
giustizia ci viene mostrata per mezzo del suo Logos. Infatti, prima di essere creatore, era già Dio, era
buono, e proprio per questo volle essere Creatore e Padre”. Clem., Paed. I 88,2.
220
Aggiungiamo, però, che a una simile conclusione, relativa tuttavia al mondo intelligibile,
giungerà successivamente Origene: “Perché si possa dimostrare che Dio è onnipotente, deve esistere
l’universo. Infatti se uno ammette che sian passati secoli o periodi di tempo o qualsiasi cosa si voglia dire,
senza che fossero state fatte le cose che sono state fatte, senza dubbio ciò dimostrerà che in quei secoli o
periodi di tempo Dio non era onnipotente e lo è diventato dopo, quando ha cominciato ad avere esseri su
cui esercitare il suo dominio: in tal modo sembrerà che egli abbia fatto un progresso e sia passato da
condizione inferiore ad una migliore, se non v’è dubbio che per lui è meglio essere onnipotente che non
esserlo […]. Che se non c’è stato momento in cui Dio non sia stato onnipotente, necessariamente dovevan
sussistere anche quelle cose per cui egli è detto onnipotente, ed egli ha sempre avuto esseri su cui
esercitare il suo potere, governati dalla sua autorità”. Orig., De Princ. I 2,10. Trad. di M. Simonetti, in
Origene, Principi, Torino 1989.
230

quanto riguarda il Logos, invece, troviamo ancora altri indizi che potrebbero avvicinarci
alla risposta riguardo la natura della sua generazione:

Non c’è Padre senza Figlio, perché con l’essere Padre egli è Padre di un
Figlio (ouv mh.n ouvde. o` path.r a;neu ui`ou/\ a[ma ga.r tw|/ tath.r ui`ou/ path,r). E il
Figlio è verace maestro intorno al Padre. Quindi perché uno creda nel Figlio,
bisogna conoscere il Padre, cui il Figlio stesso si riconduce; e viceversa per
conoscere il Padre dobbiamo credere nel Figlio, perché il Figlio di Dio ce lo
insegna221.

Il passo citato non parla precisamente della generazione del Logos. Infatti, è
stato estratto dal testo in cui Clemente polemizza con gli gnostici che distinguono tra la
fede riguardo al Figlio e la gnosi riguardo al Padre222. Come possiamo notare,
rispondendo a loro l’Alessandrino dice che per conoscere il Padre bisogna credere nel
Figlio e viceversa. Comunque, l’affermazione contenuta nella prima frase del passo dice
chiaramente che Dio in quanto Padre è sempre Padre di un Figlio. È probabile, dunque,
che secondo Clemente Dio essendo Padre ab aeterno, ab aeterno abbia o generi suo
Figlio, cioè il Logos. Tale ipotesi concorda con ciò che abbiamo detto sopra riguardo il
passo del Strom. VI 141,7-142,4. Infatti, nonostante Dio non crei eternamente il mondo
corporeo, è sempre l’attività senza la quale “Dio non è più Dio”. Da sempre dunque
pensa il mondo e da sempre genera il Logos che è l’insieme delle sue idee. A tale
conclusione giungerà successivamente un altro grande Alessandrino, Origene il quale,
può darsi ispirato alle espressioni di Clemente, esplicitamente parlerà della generazione
continua del Logos da parte del Padre. Chiaramente affermerà anche che la generazione
di questo tipo, in quanto l’attività di Dio eterno, non può avere “alcun momento
d’inizio”223. Tale precisa constatazione non troviamo ancora in Clemente. Perciò, non
volendo imporre alla sua dottrina concetti che provengono da soluzioni filosofiche
posteriori, dobbiamo aggiungere che nelle opere del nostro autore troviamo anche passi

221
Clem., Strom. V 1,3-4.
222
Infatti, gli gnostici consideravano i cristiani della Chiesa (i psichici) come coloro che
possiedono soltanto la ‘nuda fede’ riguardo al Figlio, mentre la vera gnosi relativa al Padre avrebbero solo
gli gnostici (gli spirituali). Cfr. Iren., Adv. Haer. I 6,2; Clem., Exc. Ex Theod. 56,3. Perciò, poco prima
del passo citato sopra, Clemente afferma: “Non c’è gnosi senza fede né fede senza gnosi”. Clem., Strom.
V 1,3.
223
Cfr. Orig., De Princ. I 2,2: “Noi riconosciamo che Dio è sempre Padre del Figlio suo
unigenito, che da lui è nato ed ha tratto il suo essere, tuttavia senza alcun momento d’inizio, non solo
quello che si può determinare cronologicamente, ma neppure quello che la mente può immaginare da sé e
che, per così dire, si può osservare solo con l’intelletto e l’animo: bisogna credere che la sapienza è stata
generata senza alcun punto d’inizio che si possa esprimere e immaginare. In questa sapienza sussistente
era contenuta virtualità e forma di ogni futura creatura”. Trad. di M. Simonetti, op. cit..
231

nei quali il Logos è considerato come una creatura. Così, dunque, polemizzando con gli
stoici riguardo la natura di Dio l’Alessandrino afferma:

Mentre noi lo chiamiamo il solo creatore, e creatore mediante il Logos,


gli stoici dicono che Dio pervade la sostanza universale: li fuorviò quello che è
detto nella Sapienza: «Pervade e penetra tutte le cose per la sua purezza»224;
poiché essi non intesero che ciò è detto della Sapienza, la prima creazione di
Dio (th/j sofi,aj th/j prwtokti,stou tw|/ qew|)/ 225.

Sappiamo ormai che in diversi luoghi Clemente critica gli stoici per la loro
materialistica e immanentistica concezione di Dio. Ora il nostro autore, nel capitolo
degli Stromati nel quale enumera diversi furta graecorum, accusa gli stoici di aver
frainteso ciò che, mentre plagiavano, leggevano nelle Scritture. Infatti, ispirandosi al
libro della Sapienza i filosofi della scuola del Portico concepirono Dio come un essere
che “pervade e penetra tutte le cose”. Non capirono, però, che il testo sul quale si
basavano trattava non di Dio, che sempre è al di là del mondo, ma della Sapienza. A
questo proposito il nostro autore definisce la Sapienza come la ‘prima creazione’ di Dio.
Ciò, dunque, che è presente nel mondo, ciò che lo pervade e penetra è qualcosa che
proviene da Dio, ossia la sua Sapienza, ma non Dio stesso secondo la sua essenza. In un
altro luogo la stessa Sapienza viene esplicitamente identificata con il Logos 226. Ma
l’essere prwto,ktistoj, ovvero la prima creatura, come questo aggettivo ha tradotto G.
Pini, significa che il Logos non è esistito prima della sua creazione? Nel capitolo
precedente abbiamo accennato che prima della controversia ariana i verbi: poie,w,
kti,zw, gi,gnomai o genna,w, venivano utilizzati a volte come sinonimi, cioè sia nel
contesto della creazione sia nel contesto della generazione. È probabile che tale
fenomeno si verifichi anche in Clemente. Può darsi che il nostro autore adoperando la
parola prwto,ktistoj lo fa soltanto perché nel testo veterotestamentario che parla
dell’origine della Sapienza trova appunto il verbo kti,zw227. In un altro luogo, invece,
mentre cita il testo neotestamentario il Salvatore è detto prwto,tokoj228 e prwto,gonoj229,

224
Sap. 7,24.
225
Clem., Strom. V 89,3-4.
226
Cfr. Clem., Strom. VII 7,4: “L’ignoranza non tocca il Figlio, che fu consigliere del Padre
prima della fondazione del mondo (cfr. Is. 40,13). Era questa infatti la Sapienza «di cui si compiacque»
(Prov. 8,30) Dio onnipotente: il Figlio è «potenza di Dio» in quanto Logos originario del Padre prima di
tutto ciò che fu, e «Sapienza di Dio» (1 Cor. 1,24) dovrebbe propriamente essere chiamato, e maestro di
tutte le sue creature”. Cfr. anche Strom. VI 61,1.
227
Cfr. Prov. 8,22, in LXX: ku,rioj e;ktise,n me avrch.n o`dw/n auvtou/ eivj e;rga auvtou/.
228
Cfr. Clem., Protr. 82,7.
229
Cfr. Clem., Strom. VI 58,1.
232

ossia con gli aggettivi che suggeriscono la sua generazione invece che la creazione. Non
è dunque improbabile che in Clemente il prwto,ktistoj sia anche sinonimo del
prwto,tokoj o del prwto,gonoj230. Inoltre, nel passo in cui troviamo questa parola

230
Che tale ipotesi sia anche possibile, basti il presente excursus:
La parola prwto,ktistoj non è una parola biblica e non la troviamo nella versione dei LXX. Nelle
opere di Clemente, invece, ricorre 20 volte tra cui 10 volte negli Excerpta ex Theodoto. Nella maggior
parte dei casi (tranne i soli due) viene utilizzata in plurale. I prwto,ktistoi sono i sette angeli superiori.
Nel passo dell’Ecl. Proph. 57,1 l’Alessandrino così definisce tali creature: “I protoctisti (prwto,ktistoi),
pur essendo potenze (duna,meij), sono probabilmente troni (qro,noi), perché Dio riposa in loro come anche
nei credenti”. Sull’argomento cfr. anche Strom. V 35,1; Ecl. Proph. 51,1-52,1; 56,7-57,4; Exc. ex Theod.
10,1-6; 11,4-12,1; 27,3.5. Notiamo, però, che gli stessi angeli detti prwto,ktistoi, vengono definiti altrove
come prwto,gonoi. Cfr. Strom. V 143,1. Già questo fatto ci fa capire come Clemente non distingua con
grande precisione tra i significati dei verbi kti,zw e gi,gnomai che per i moderni è molto importate. Infatti,
se nel passo del Strom. V 89,3-4 fosse stata utilizzata la parola prwto,gonoj invece di prwto,ktistoj, il
traduttore sicuramente l’avrebbe tradotta come primogenito e non la prima creatura.
I due casi nei quali il termine prwto,ktistoj appare in singolare sono quello citato sopra relativo
alla Sapienza (Strom. V 89,4) e il passo dell’Exc. ex Theod. 20,1 che suona: “L’espressione «Prima
dell’aurora ti ho generato» (Ps. 109,3, in LXX) intendiamo come concernente il Primogenito (?) Verbo di
Dio” = to. ga.r ¹pro. e`wsfo,rou evge,nnhsa, se¹ ou[twj evxakou,omen evpi. tou/ prwtokti,stou qeou/ lo,gou. Trad.
mia.
Lo stesso Logos che nel passo appena citato è detto prwto,ktistoj, sempre negli Excerpta ex
Theodoto viene definito anche come prwto,tokoj (cfr. 7,3; 8,2; 10,5; 19,4; 33,2) e ugualmente monogenh,j
(cfr. 6,2-3, 7,3.5; 8,3; 10,3.5; 26,1). La maggior parte di questi passi contiene il commento di Clemente
all’opera di Teodoto ed esprime l’opinione propria del nostro autore riguardo al Logos. Gli altri (7,3a;
6,2-3; 26,1) contengono le idee dello gnostico valentiniano. Cfr. F. Sagnard, Introduction, in: Clément
d’Alexandrie, Extraits de Théodote, SCh 23, Paris 1970, p. 8-21. Tra di essi riportiamo qui almeno due:
10,5 e 33,2. Ambedue contengono l’opinione propria di Clemente.
Nel primo (10,5) parlando del Figlio di Dio il nostro autore afferma: “E lui è detto «luce
inaccessibile» (cfr. 1 Tim. 6,16), in quanto unigenito e primogenito, «che occhio non vide, né orecchio
udì, né mai entrò in cuore di uomo» (1 Cor. 2,9). Tale essere non vi sarà né tra le prime creature né tra gli
uomini” = kai. o] me.n ¹fw/j avpro,stion¹ ei;retai( w`j monogenh.j kai. prwto,tokoj( ¹a] ovfqalmo.j ouvk ei=de kai.
ou=j ouvk h;kousen ouvde. evpi. kardi,an avnqrw,pou avne,bh¹( ouvde. e;stai tij toiou/toj( ou;te tw/n prwtokti,stwn
ou;te avnqrw,pwn (Trad. mia). Nel testo – cosa interessante – troviamo tutti gli aggettivi degli quali abbiamo
parlato sopra. Così, dunque, il Figlio detto monogenh,j e prwto,tokoj è ben diverso dagli angeli detti
prwto,ktistoi e dalle altre creature.
Nel secondo passo (33,2) Clemente accusa gli gnostici di non aver compreso l’insegnamento
della Chiesa riguardo al Salvatore. Infatti, costoro sostengono che la parola prwto,tokoj non riguarda la
natura del Figlio, ma viene adoperata dalla Scrittura per descrivere la primogenità di Cristo soltanto nei
confronti degli uomini, mentre nella Pleroma egli non sarebbe il primogenito (cfr. Exc. ex Theod. 33,1).
In tale contesto il nostro autore afferma: “Questo discorso è una mal compresa interpretazione della nostra
dottrina che chiama il Salvatore Primogenito nei riguardi del suo soggetto; ed egli è la nostra radice e
testa, mentre la Chiesa il suo frutto” = e;stin ou=n o` lo,goj ou-toj tara,kousma tou/ h`mete,rou( evk tou/
u`pokeime,nou prwto,tokon le,gontoj to.n swth/ra\ kai. e;stin w`sperei. r`iza kai. kefalh. h`mwn\ h` de.
evkklhsi,a karpoi. auvtou/. Trad. mia.
Da tutto ciò che abbiamo detto finora consegue che:
1. I verbi kti,zw, gi,gnomai, genna,w insieme agli aggettivi e ai sostantivi che derivano da essi
vengono usati dal nostro autore scambievolmente.
2. Molte volte nelle opere clementine il Logos è detto monogenh,j e prwto,tokoj, mentre la
parola prwto,ktistoj che deriva dal verbo kti,zw, viene adoperata nei suoi confronti
solamente due volte. Una volta riguardo alla Sapienza, l’altra riguardo al Figlio. Nel
secondo caso, però, il prwto,ktistoj ricorre subito dopo il testo che descrivendo l’origine del
Logos utilizza il verbo genna,w.
3. Nei passi in cui il Figlio è detto prwto,tokoj viene messa in risalto la differenza tra la sua
origine particolare e quella delle altre creature. Il Salvatore dunque non è un essere dello
stesso livello che i protoctisti o che gli uomini. Il suo essere primogenito, riguarda la sua
natura divina o il soggetto (u`pokei,menon), vale a dire è prwto,tokoj di Dio e non soltanto nei
233

Clemente, polemizzando con gli stoici, argomenta che nell’universo non è presente il
Dio trascendente, ma una potenza che proviene da lui. Non sviluppa, però, l’argomento
relativo alla creazione o alla eventuale generazione di tale potenza. A questo proposito
vale la pena ricordare ancora una volta ciò che il nostro autore dice nel passo del Strom.
IV 156,1-157,1, e cioè che il Logos, pur essendo l’insieme delle potenze, non è
riducibile a nessuna di esse. Se è così, nel mondo non è presente il Logos secondo la sua
essenza, che è sempre unito al Padre, ma qualcosa che in lui ha la sua fonte. Tale
interpretazione trova la sua conferma anche in un altro passo:

La natura più perfetta e più santa, la più sovrana e autorevole e regale,


la più benefica è quella del Figlio, che è la più prossima all’unico Onnipotente
(h` ui`ou/ fu,sij h` tw|/ mo,nw| pantokra,tori prosecesta,th). Essa è l’eccellenza
massima, che tutto dispone secondo «il volere del Padre»231 e governa tutto
ottimamente. Essa ogni cosa compie con infaticabile e inesausta potenza
(avkama,tw| kai. avtru,tw| duna,mei), perché vede i nascosti pensieri [di Dio] e
attraverso essi opera. Il Figlio di Dio non si scosta mai dalla sua specola
(periwph/j), poiché non è diviso, non è separato, non trapassa dal luogo a luogo.
Egli è dovunque, sempre, e in nessun luogo è contenuto (pa,nth| de. w'n pa,ntote
kai. mhdamh|/ perieco,menoj): tutto intelletto, lutto luce del Padre, tutto occhio.

confronti del creato, come sostengono gli gnostici. Quindi, non può essere inteso solamente
come la prima tra le creature.
Può darsi dunque che in Clemente il prwto,ktistoj sia anche il sinonimo del prwto,tokoj e del
prwto,gonoj. Per rafforzare tale ipotesi aggiungiamo, che ancora nel IV secolo, quindi nel tempo della
controversia ariana, Eusebio di Cesarea parla della prwto,gonoj kai. prwto,ktistoj tou/ qeou/ sofi,a. Cfr.
Euseb., Hist. Eccl., I 2,21. In una sola frase, dunque, nei confronti della Sapienza utilizza i due aggettivi
che successivamente avranno i significati ben diversi. È da notare anche che lo stesso autore e nella stessa
opera considera il Logos come to. prw/ton kai. mo,non tou/ qeou/ ge,nnhma. Cfr. I 2,3. Vediamo, dunque, che
fino alla controversia ariana le parole che derivano dai verbi kti,zw, gi,gnomai o genna,w a volte vengono
utilizzati scambievolmente. Anzi, persino gli autori che consideravano il Figlio generato e non creato non
si astenevano di usare gli appellativi che potrebbero suggerire la sua creazione nel odierno senso di questa
parola.
Occorre, però, notare che alcuni studiosi, ispirati dall’interpretazione del Wolfson (espressa in
Philo. Foundations of Religious Philosophy… e poi applicata al pensiero dei padri della Chiesa in The
Philosophy of the Church Fathers…), sostengono che la parola prwto,ktistoj che ricorre nel passo di
Strom. V 89,3-4 sopraccitato, indica il terzo stadio di esistenza del Logos in cui esso sarebbe dovuto
essere un’entità creata e immanente al mondo. Cfr. S. Lilla, Clement of Alexandria…, pp. 204-212. Con
tale interpretazione non concordano M. J. Edwards (Clement of Alexandria and his Doctrine of the Logos,
VigChr 54 (2000), pp. 159-177) e H. F. Hägg (Clement of Alexandria…, pp. 185 sgg.) che dimostrano che
l’Alessandrino rifiuta esplicitamene la distinzione stoica: logos endiathetos / logos prophorikos, e che per
il pensatore cristiano esiste uno solo Logos generato, non creato. Il nostro excursus sul termine
prwto,ktistoj non contraddice ciò che hanno dimostrato M. J. Edwards e H. F. Hägg, ma diventa un altro
argomento per rifiutare la dottrina degli stadi di esistenza del Logos imposta dal Wolfson. Ritorneremo
ancora a questo tema più avanti.
231
Cfr. Io. 3,34.
234

Ogni cosa vede, ogni cosa ode, ogni cosa conosce, scruta le potenze; con la sua
potenza (duna,mei ta,j duna,meij evreunw/n)232.

Possiamo comprendere bene questo passo se non attraverso la dottrina filoniana


delle potenze, l’eco della quale, come abbiamo già detto, troviamo anche in Clemente. Il
Logos, infatti, essendo l’insieme delle potenze divine è presente in ogni parte del mondo
e in ogni tempo. Guardando incessantemente le idee che sono nel Padre, governa il
mondo dall’interno per il tramite delle sue potenze233. Come Dio, però, così anche il
Logos non è contenuto in nessun luogo, non è perieco,menoj, perché è presente nel
mondo secondo la potenza, non secondo la sua essenza. Perciò – afferma il nostro
autore – “il Figlio di Dio non si scosta mai dalla sua specola (periwph/j)234, poiché non è
diviso, non è separato, non trapassa dal luogo a luogo”. Con queste constatazioni
Clemente stabilisce una chiara distinzione tra ciò che è l’essenza del Logos e ciò che è
la sua potenza, ossia la facoltà che opera nel mondo. La prima è unita all’essenza di
Dio. Infatti, dice l’Alessandrino, h` ui`ou/ fu,sij h` tw|/ mo,nw| pantokra,tori prosecesta,th.
La seconda è lo strumento del quale il Logos si serve mentre opera nel mondo corporeo.
Difatti, leggiamo che egli compie tutto avkama,tw| kai. avtru,tw| duna,mei. È probabile,
dunque, che anche nel passo del Strom. V 89,3-4, nel quale Clemente polemizza con gli
stoici riguardo il concetto di Dio che “pervade e penetra tutte le cose”, si tratta di tale
soluzione teorica. Così, dunque, gli stoici sbagliano, perché non distinguono tra Dio e
ciò che proviene da lui, che però non è né Dio né il Logos (secondo la sua essenza). In
realtà, la potenza presente nel mondo non può del tutto identificarsi con il Logos, perché
egli è irriducibile (avpare,mfatoj) a nessuna delle potenze235. A questo punto
aggiungiamo che questa distinzione tra il Logos e la sua potenza condurrà
successivamente il patriarca Fozio a formulare contro Clemente l’accusa di sostenere

232
Clem., Strom. VII 5,3-5.
233
Attraverso le potenze il Logos è anche onnisciente. Infatti, è “tutto intelletto, lutto luce del
Padre, tutto occhio. Ogni cosa vede, ogni cosa ode, ogni cosa conosce”. Un simile concetto troviamo
anche in Filone. Altresì, l’autore ebreo afferma che attraverso la sua potenza Dio tutto vede e tutto sente.
Cfr. Phil., Spec. Leg. I 279.
234
Per sottolineare la trascendenza del Logos rispetto il mondo Clemente utilizza la parola
platonica periwph,. È da notare che lo stesso termine viene usato per designare il luogo nel quale risiede
Dio. Ne abbiamo parlato precedentemente. Cfr. Clem., Protr. 68, 3.
235
Cfr. il passo citato precedentemente: Strom. IV 156,1-157,1. È vero che il Logos si identifica
con la Sapienza in quanto ‘consigliere di Dio’ prima della creazione del mondo (cfr. Strom. VII 7,4). Però
la citazione del libro della Sapienza della quale Clemente si serve nella sua polemica con gli stoici (cfr.
Strom. V 89,3-4) riguarda una delle potenze che pur avendo la sua fonte nel Logos non esprime tutta la
sua essenza.
235

l’esistenza dei due Logoi, tra cui solamente uno – non il Figlio del Padre, ma la potenza
emanata da lui – si fece carne236.

236
Cfr. Phot., Bibl., cod. 109 (fr. 23 in Stählin, vol. III, GCS 17, p. 202). In questo codice il
patriarca di Costantinopoli, che aveva letto l’opera caduta di Clemente intitolata ~Upotupw,seij (cfr.
Euseb., Hist. Eccl., VI 13,2; 14,1 sgg.), osserva che il suo autore a volte sembra essere ortodosso altre
volte, invece, induce il lettore ai discorsi empi e leggendari (eivj avsebei/j kai. muqw,deij lo,gouj evkfe,retai).
Così, dunque, l’Alessandrino, secondo la notizia di Fozio, avrebbe sostenuto l’eternità della materia, la
metempsicosi, l’esistenza di diversi mondi prima di Adamo, inoltre, avrebbe ridotto il Figlio a qualcosa
creato e la sua incarnazione soltanto all’apparenza. Per ultimo il patriarca parla dei due Logoi e a questo
proposito riporta un passo delle perdute Ipotiposi, nel quale Clemente avrebbe dovuto esporre la sua
dottrina erronea. Il frammento suona nel modo seguente: le,getai me.n kai. o` ui`oj. lo,goj( o`mwnu,mwj tw|/
patrikw|/ lo,gw|/( avllV ou; nun ou-to,j evstin o` sa.rx geno,menoj\ ouvde. mh.n o` patrw|/oj lo,goj( avlla. du,nami,j tij
tou/ qeou/ oi-on avpo,rroia tou/ lo,gou auvtou/( nou/j geno,menoj ta.j tw/n avnqrw,pwn kardi,aj diapefoi,thke.
Il vocabolario e i concetti contenuti in questo passo insieme alla costruzione grammaticale del
discorso di Fozio non ci lasciano nessun dubbio che si tratta qui di una diretta citazione dell’opera
clementina. Rimane però incerto se il patriarca di Costantinopoli abbia bene inteso ciò che aveva scritto
l’Alessandrino.
R. P. Casey traduce questo frammento nel modo seguente: “The Son is called Logos like the
paternal Logos but this not the one that became flesh. No, nor was it the paternal Logos but a certain
power of God, a kind of emanation of his Logos that became reason and has been immanent in the hearts
of men”. Cfr. R. P. Casey, Clement and the Two Divine Logoi, JTS 25 (1924), p. 43.
Nell’articolo dal quale proviene questa traduzione lo studioso inglese osserva giustamente che
nel frammento riportatoci da Fozio troviamo i tre concetti clementini che in una simile configurazione
appaiono anche negli altri luoghi delle opere del nostro autore: 1) il Logos paterno = il Nous; 2) il Figlio =
il Logos; 3) l’intelletto (nou/j) dell’uomo. Cfr. Clem., Protr. 98,3-4; Strom. VII 16,5-6. Ciò che aveva
provocato l’erronea interpretazione del passo delle Ipotiposi da parte di Fozio è il fatto che Clemente
definisce l’Intelletto del Padre una volta come o` nou/j e un’altra volta come o` patriko,j lo,goj. La lettura
del frammento clementino, dunque, dovrebbe essere seguente. L’Intelletto paterno (o` patriko,j lo,goj)
non è quel Logos che si fece carne, ma fu il suo Figlio che nella Scrittura è chiamato il lo,goj. In questo
caso la parola lo,goj con la quale viene nominato il Figlio è l’omonimo della mente divina, ossia della
mente paterna. Di seguito Clemente parla di un’altra omonimia. Infatti, l’intelletto dell’uomo, nonostante
sia chiamato in greco nou/j (o altrove anche lo,goj), non si identifica con il nou/j del Padre, cioè non è una
parte di Dio. E non è neanche una parte del Logos. Ciò che è divino e ciò che opera nell’uomo è una
du,namij che fu generata dal Logos – il Figlio di Dio. Infatti, quest’ultimo è la causa efficiente della
creazione che opera nel mondo attraverso le sue potenze. Sui particolari dell’analisi di R. P. Casey cfr. op.
cit., pp.43-56.
Anche se non conosciamo il contesto del frammento delle Ipotiposi, possiamo supporre che il
problema che Clemente abbia voluto in qualche modo toccare era quello relativo alle omonimie che
avrebbero potuto provocare una certa confusione per un lettore greco. Infatti, le parole nou/j e lo,goj nella
lunga storia della filosofia greca (Eraclito, Anassagora, Platone, Aristotele, gli stoici, Filone) venivano
utilizzate a volte come sinonimi e a volte con una precisa distinzione. Sempre invece indicavano un’entità
o una forza razionale sia per quanto riguarda il divino sia per quanto riguarda l’uomo. Per di più, con il
cristianesimo la parola lo,goj diventa il nome proprio del Salvatore che è una persona distinta dal Dio
Padre. In questo contesto, Clemente, che espone la sua dottrina servendosi dei concetti provenienti da
diverse scuole filosofiche deve precisare con quale significato utilizza i termini nou/j e lo,goj. Spiega,
dunque, che mentre parla dell’incarnazione del Logos, il lettore non dovrebbe confondere il Figlio che
nelle scritture è detto lo,goj con l’Intelletto (lo,goj) del Padre, perché non fu quest’ultimo ad incarnarsi.
Mentre invece parla del nou/j dell’uomo, dato che in diverse filosofie la parola nou/j significa una forza
divina, il lettore non dovrebbe considerare l’intelletto umano come una parte della divinità (cfr. Strom. V
88,3-4). Interpretando il frammento delle Ipotiposi in questa maniera vediamo che Clemente rimane in
piena ortodossia. Aggiungiamo che non solo R. P. Casey, ma la maggioranza degli studiosi moderni
considera la conclusione di Fozio (quella relativa a una potenza incarnata) come una malintesa
comprensione delle affermazioni dell’Alessandrino. Sull’argomento cfr. anche J. Daniélou, Messaggio
evangelico e la cultura ellenistica, Bologna 1975, pp. 430-431; S. Lilla, Clement of Alexandria..., nota 1,
p. 200; C. Markschies, “Die wunderliche Mär von zwei Logoi”. Clemens Alexandrinus, Fragment 23 –
Zeugnis eines Arius ante Arium oder des arianischen Streits selbst?, in Logos. Festschrift für Luise
Abramowski, a cura di H. C. Brennecke, E. L. Grasmück, C. Markschies, Berlin 1993, pp. 193–219; M. J.
236

Anche se questa accusa non può essere comprovata sulla base dei testi
pervenutici, vogliamo osservare che a Clemente manca ancora il preciso linguaggio
teologico il quale sarà elaborato nei secoli successivi. Perciò troviamo nelle sue opere
delle espressioni che dal punto di vista della teologia posteriore possono sembrare non
ortodosse237. In realtà, anche nel passo sopracitato il nostro autore, nonostante dica che
la natura (fu,sij) del Figlio è “la più perfetta e più santa, la più sovrana e autorevole e
regale, la più benefica”, aggiunge che essa è la più vicina (prosecesta,th) all’unico
Onnipotente. Tutti questi aggettivi di grado superlativo, anche se sottolineano la
trascendenza ontologica del Logos rispetto alle creature, non rendono alla fine il
concetto della consustanzialità del Figlio col Padre. Infatti, essere ‘vicinissimo’ non
significa essere uguale o simile. In un altro passo, invece, il nostro autore afferma che la
generazione del Logos avvenne nell’ambito della stessa essenza vel sostanza (ouvsi,a) che
è quella divina:

«E il Logos si fece carne»238: non soltanto per la sua venuta [nel mondo]
è divenuto uomo, ma anche «nel principio», il Logos nella sua identità (o` evn
tauvto,thti lo,goj) è divenuto Figlio, secondo la delimitazione e non secondo
essenza (kata. perigrafh.n kai. ouv katVouvsi,an). Dall’altra parte «si fece carne»
operando attraverso i profeti. Il Salvatore è detto figlio del Logos nella sua
identità (tou/ evn tauvto,thti lo,gou). Per questo [è scritto]: «In principio era il
Logos e il Logos era presso Dio»239. «Ciò che è nato in lui era la vita»240: e la
vita è il Signore […].

E nel modo ancora più chiaro ed esplicito [Paolo] dice in un altro passo:
«Egli che è l’immagine del Dio invisibile»241. Poi aggiunge «Primogenito di
tutta la creazione». Per «immagine del Dio invisibile» lui designa il <figlio> del
Logos nella sua identità (tou/ lo,gou tou/ evn tauvto,thti); «Primogenito di tutta la

Edwards, Clement of Alexandria and his Doctrine of the Logos…, pp. 159-177; H. F. Hägg, Clement of
Alexandria…, pp. 189-194; P. Ashwin-Siejkowski, Clement of Alexandria on Trial. The Evidence of
‘Heresy’ from Photius’ Bibliotheca, Leiden 2010, pp. 57-74.
237
Sull’argomento dell’ortodossia ed eresia nel cristianesimo primitivo cfr. W. Bauer,
Rechtgläubigkeit und Ketzerei im ältesten Christentum, Tübingen 1934, alcune tesi di questa opera sono
state criticate da diversi studiosi, cfr. H. E. W. Turner, The Pattern of Christian Truth. A Study in the
Relations Between Orthodoxy and Heresy in the Early Church, London 1954 (la 2a edizione: Eugene
2004); R. Williams, Does It Make Sense to Speak of Pre-Nicene Orthodoxy?, in The Making of
Orthodoxy: Essays in Honour of Henry Chadwick, ed. R. Williams, Cambridge 1989, pp. 1-23; M.
Simonetti, Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, in Id. Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Soveria
Mannelli 1994, pp. 11-45.
238
Io. 1,14.
239
Io. 1,1.
240
Io. 1,3-4.
241
Col. 1,15.
237

creazione», perché generato in maniera impassibile, lui è divenuto il creatore e


il primogenitore dell’insieme della creazione e dell’essere. In effetti, «in lui» il
Padre «tutto creò»242,243.

In questo passo Clemente parla della duplice generazione del Logos. La prima –
quella avvenuta prima della creazione del mondo, quando Dio generò il suo Figlio; la
seconda – quella relativa all’incarnazione, quando il Logos si fece carne. Per quanto
riguarda la prima generazione l’Alessandrino afferma che “il Logos nella sua identità è
divenuto Figlio”. Di seguito dice che l’Immagine di Dio, cioè il Logos, è “figlio del
Logos nella sua identità”. Può sembrare che queste affermazioni comprovino l’accusa
del patriarca Fozio riguardo i due Logoi. Infatti, l’uno è ‘figlio’ dell’altro. Perciò
bisogna analizzare per primo che cosa significhi l’espressione o` evn tauvto,thti lo,goj. A
questo proposito in un altro luogo Clemente scrive:

Noi diciamo che il Logos nella sua identità (to.n evn tauvto,thti lo,gon) è
Dio in Dio. Egli che è anche detto colui che esiste «nel seno del Padre»,
inseparabile, indivisibile, un solo Dio (ei-j qeo,j)244.

Per comprendere bene questi passi difficili, ricordiamo che in Clemente


troviamo una distinzione tra l’Intelletto divino, che è definito anche come il to,poj
ivdew/n, e ciò che da questo intelletto è pensato, ossia il ko,smoj nohto,j – detto anche il
Logos. Questa distinzione è solamente teorica, perché al livello dell’intelligibile non ci
sono né parti né dimensione, come lo abbiamo ripetuto parecchie volte 245. Comunque
metaforicamente si può dire che il mondo delle idee è qualcosa che dimora
nell’intelletto di Dio.

Ora, altresì soltanto teoricamente, Clemente distingue tra un solo Dio e Dio
inteso come il Padre che ha già generato il suo Figlio. Nel primo caso il Logos non è
ancora generato, ma sussiste “nel seno del Padre”, è “Dio in Dio”. Tale Logos è detto o`

242
Col. 1,16.
243
Clem., Exc. Ex Theod. 19,1-2.4: ¹kai. o` lo,goj sa.rx evge,neto¹( ouv kata. th.n parousi,an mo,non
a;nqrwpoj geno,menoj( avlla. kai. ¹evn avrch|/¹ o` evn tauvto,thti lo,goj( kata. perigrafh.n kai. ouv katVouvsi,an
geno,menoj Îo`Ð ui`oj) kai. pa,lin ¹sa.rx evge,neto¹ dia. profhtw/n evnergh,saj) te,knon de. tou/ evn tauvto,thti
lo,gou o` swth.r ei;rhtai) dia. tou/to ¹evn avrch/| h=n o` lo,goj( kai. o` lo,goj h=n pro.j to.n qeo,n\ o` ge,gonen evn
auvtw/|( zwh, evstin¹\ zwh. de. o` ku,rioj […]. kai. e;ti safe,steron kai. diarrh,dhn evn a;lloij le,gei\ ¹o[j evsti
eivkw.n tou/ qeou/ tou/ avora,tou¹) ei=ta evpife,rei\ ¹prwto,tokoj pa,shj kti,sewj¹) & ¹avora,tou¹ me.n ga.r ¹qeou/
eivko,na¹ to.n Éui`o.nË le,gei tou/ lo,gou tou/ evn tauvto,thti\ ¹prwto,tokon de. pa,shj kti,sewj¹( Éo[tiË gennhqei.j
avpaqw/j( kti,sthj kai. genesia,rchj th/j o[lhj evge,neto kti,sew,j te kai. ouvsi,aj\ ¹env auvtw|/¹ ga.r o` path.r ta.
pa,nta evpoi,hsen. Trad. mia.
244
Clem., Exc. Ex Theod. 8,1: h`mei/j de. to.n evn tauvto,thti lo,gon qeo.n evn qew/| famen( o]j kai. ¹eivj
to.n ko,lpon tou/ patro.j¹ ei=nai le,getai( avdia,statoj( avme,ristoj( ei-j qeo,j. Trad. mia.
245
Cfr. Clem., Strom. V 81,5-6; 93,4-94,5
238

evn tauvto,thti. Nel secondo caso il Logos viene generato e diventa la causa formale ed
efficiente del mondo.

Quindi, o` evn tauvto,thti lo,goj, in quanto dimora “nel seno del Padre”, è
l’insieme dei pensieri divini. Infatti, Dio essendo la perenne attività pensante, ab
aeterno pensa i suoi pensieri che permangono in lui. Questo mondo intelligibile, però,
mentre (sempre teoricamente) si analizza l’essenza di Dio inteso come uno solo, non è
distinguibile da Dio, ma è una sola cosa con lui246. Perciò parlando del evn tauvto,thti
lo,goj Clemente aggiunge “inseparabile (avdia,statoj), indivisibile (avme,ristoj), un solo
Dio (ei-j qeo,j)”. Nonostante questa identità sostanziale di Dio e del Logos, la distinzione
teorica tra ciò che pensa e ciò che è pensato in Dio rimane molto importante. Essa serve
a Clemente per mostrare che cosa (ossia quale ‘parte’ di Dio, se si può dire così) è
divenuto Figlio. Così, dunque, non fu l’Intelletto paterno a diventare Figlio, ma ciò che
da questo Intelletto era eternamente pensato. Dicendo dunque che “il Logos nella sua
identità (o` evn tauvto,thti lo,goj) è divenuto Figlio” l’Alessandrino afferma che ci sono
due stadi dell’esistenza del Logos. Anche se non sappiamo quale era il contenuto delle
perdute Ipotiposi, possiamo supporre che probabilmente sulla base di tali constatazioni
il patriarca Fozio, abbia potuto formulare la sua accusa riguardo i due Logoi in
Clemente. Notiamo, però, che nel caso del nostro passo il soggetto di ciò che è “nel
seno del Padre” e di ciò che viene successivamente generato è sempre lo stesso. Infatti,
ciò che Dio pensa eternamente diventa poi il suo Figlio. E se la distinzione tra Dio
inteso come uno solo e Dio inteso come Padre del Logos è solamente teorica, come
supponiamo, può darsi che il passaggio dal primo al secondo stadio dell’esistenza del
Logos è continuo ed eterno. Così dunque un solo Dio eternamente pensa in sé o` evn
tauvto,thti lo,goj che continuamente diventa suo Figlio247.

Clemente, però, come abbiamo già detto, non esprime esplicitamente il concetto
della generatio perpetua, così come farà Origene. Perciò deve cercare di mostrare che
tra diversi stadi dell’esistenza del Logos (confermati da diverse affermazioni

246
Anche secondo G. W. H. Lampe l’espressione o` evn tauvto,thti lo,goj viene utilizzata da
Clemente per disegnare l’identità del Figlio con il Padre in quanto un solo Dio. Cfr. voce: tauvto,thj, in G.
W. H. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, pp. 1377-1378. Cfr. anche E. Osborn, Clement of
Alexandria…, p. 128.
247
Cfr. M. J. Edwards, Clement of Alexandria and his Doctrine of the Logos…, pp. 159-177, che
appunto ammette tale soluzione. Infatti, dopo l’analisi dei testi di Clemente conclude: “The least tentative
conclusion to be drawn from the present study is that Clement held no theory of two stages in the
procession of the logos. Consequently we have no reason to quarrel with the evidence that he posited an
eternal generation of the logos as a hypostasis distinct from God the Father”. Ibid., p. 177. Cfr. anche H.
F. Hägg, Clement of Alexandria…, pp. 188 sgg. e 202 sgg.
239

scritturistiche) c’è una connessione, anzi l’identità. Pertanto appunto sottolinea che colui
che è “nel seno del Padre”, nel momento in cui Dio prende la decisione di creare il
mondo, diventa “l’immagine del Dio invisibile” e “Primogenito di tutta la creazione”.
Per di più, aggiunge che la generazione del Figlio non consiste nella comparsa di una
nuova sostanza, diversa da quella del Padre, ma è avvenuta secondo la delimitazione
della stessa sostanza divina. Ciò, dunque, che era il pensiero divino e che si identificava
con l’essenza di Dio ora diventa il Figlio che è della stessa sostanza. Tale, infatti, è il
significato della frase: o` evn tauvto,thti lo,goj( kata. perigrafh.n kai. ouv katVouvsi,an
geno,menoj Îo`Ð ui`oj. Aggiungiamo che nella teologia dei secoli successivi la parola
perigrafh, sarà sostituita con l’u`po,stasij o il pro,swpon, ciò però non cambia il fatto
che per quanto riguarda questo punto della sua dottrina Clemente appare ortodosso248 e
originale. Infatti, la sua formula è uno dei primi tentativi di descrivere con il linguaggio
filosofico il rapporto tra il Padre e il Figlio249. I suoi predecessori apologisti, infatti,
cercavano di spiegare questo problema attraverso le metafore250.

Vale la pena aggiungere ancora che il concetto dell’incarnazione riceve in


Clemente diversi significati metaforici. Così, dunque, «il Logos si fece carne» nel
principio (evn avrch|/), ossia quando Dio l’aveva generato in funzione della creazione e del
governo del mondo. Di seguito «si fece carne» operando attraverso i profeti. Per ultimo

248
Anche se successivamente Origene considererà come eretica l’opinione di coloro che parlano
dell’ouvsi,a kata. perigrafh,n del Figlio. Cfr. Orig., Com. Io., II 2,16. In realtà, l’Adamanzio parla in
questo passo di due tipi degli eretici che “per timore di affermare due dèi incappano all’estremo opposto
di dottrine false ed empie: infatti o negano al Figlio una individualità (ivdio,thta) distinta da quella del
Padre, pur ammettendo che sia Dio colui che, a parer loro, soltanto di nome è chiamato «Figlio»; oppure
negano al Figlio la divinità, salvandone la individualità (ivdio,thta) e la sostanza [individualmente]
circoscritta (ouvsi,a kata. perigrafh,n), concepita come distinta da quella del Padre”. Trad. di E. Corsini,
in: Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, Torino 1995.
I due tipi delle eresie delle quali parla Origene sono: 1) il modalismo, nelle sue forme diverse; e
2) l’adozionismo. Clemente, nonostante utilizzi la parola perigrafh, sembra non cadere né nell’una né
nell’altra estremità. Infatti, non nega la divinità del Logos (anzi in diversi luoghi afferma che egli è Dio o
che è una sola cosa col Padre, cfr. Paed. I 4,1; I 62,4), ma per sottolineare la sua individualità afferma che
egli fu generato kata. perigrafh.n kai. ouv katVouvsi,an. Avendo dunque la stessa natura il Figlio, per la sua
generazione è ben distinto dal Padre. La parola perigrafh,, per il modo in cui viene utilizzata da
Clemente, si avvicina nel suo significato a ciò che nelle future formulazioni dogmatiche sarà reso come
u`po,stasij. Giusta è dunque l’osservazione di H. Hägg che a proposito della formula clementina scrive:
“Clement here seems to stress both the continuity of the Logos with God, that the Son’s coming to earth
did not affect his identity with God (ouv katV ouvsi,an geno,menoj Îo`Ð ui`oj), and the fact that his Sonship is
not only linked to his advent, but also to ‘the beginning’”. H. F. Hägg, Clement of Alexandria…, p. 203.
249
F. Sagnard afferma anzi che l’espressione kata. perigrafh.n kai. ouv katVouvsi,an sembra essere
la formula più ortodossa prima del concilio di Nicea. Cfr. Clément d’Alexandrie, Extraits de Théodote,
SCh 23, Paris 1970, nota 2, p. 93. Una simile osservazione esprime il Daniélou: “Abbiamo qui un testo
capitale per la teologia successiva, il più prossimo alla verità, così come sarà precisata nel quarto secolo”.
J. Daniélou, Messaggio evangelico…, p. 431.
250
Ad esempio: il fuoco e la luce; la fonte e il fiume, la vite e il virgulto. Cfr. Iust., Dial. 61,2;
62,4; 69,6; 128,3-4.
240

«si fece carne» per la sua venuta nel corpo, quando è divenuto uomo (a;nqrwpoj
geno,menoj). È indubbio che l’incarnazione vera e propria del Logos è soltanto questa
ultima. Le altre esprimono metaforicamente diverse funzioni, o stadi dell’esistenza, del
Logos ancora non incarnato251. È da osservare, però, che nonostante questi diversi stadi
dell’esistenza, prima e dopo l’incarnazione, Clemente conserva l’unità del soggetto del
Logos. Colui, dunque, che realmente si fece carne, ossia il Salvatore, è colui che parlava
per i profeti ed è colui che evn avrch|/ fu generato dalla sostanza del Padre. In tutti gli stadi
della sua esistenza il Logos è sempre uno solo e lo stesso soggetto. Se è così rimane
dubbia la notizia di Fozio secondo la quale Clemente avrebbe dovuto sostenere che non
il Logos, ma una potenza da lui emanata si fosse fatta carne252.

Per quanto riguarda l’attività governatrice ed educatrice del Logos prima della
sua incarnazione, troviamo tra le opere clementine il passo che in maniera abbastanza
sintetica mostra che l’oggetto di tutte le teofanie dell’Antico Testamento era non Dio
trascendente, ma appunto il suo Logos – il Pedagogo dell’umanità. È da notare che
anche in questo caso possiamo scorgere che c’è l’identità del soggetto del Logos
preesistente e del Logos che si è fatto carne. Così, dunque, subito dopo la citazione del
passo del Deuteronomio253 che descrive la costante cura di Dio nei confronti del popolo
nel deserto, il nostro autore afferma:

La Scrittura si riferisce qui con molta chiarezza – mi pare – al


Pedagogo, descrivendone l’azione educativa. Altrove, parlando in prima
persona, designa se stesso come il Pedagogo: «Io sono il Signore tuo Dio, che ti
ho fatto uscire dalla terra di Egitto»254. E chi ha il potere di far entrare e di far
uscire, se non il Pedagogo? Egli apparve ad Abramo e gli disse: «Io sono il tuo
Dio: comportati davanti a me sì da piacermi»255; in modo molto pedagogico lo
guidò ad essere un figlio fedele […].

Egli fu Pedagogo anche di Giacobbe e ciò risulta chiaramente; gli dice


infatti: «Ecco, io sono con te, ti custodisco in ogni sentiero su cui camminerai.
Ti ricondurrò in questa terra e non ti lascerò finché non avrò fatto quel che ti ho

251
Non c’è bisogno di comprovare questa affermazione, perché nel corso di questo capitolo,
molte volte abbiamo ripetuto che ciò che è intelligibile è incorporeo. Eppure, intelligibile è “l’Immagine
del Dio invisibile” generata evn avrch|/.
252
È vero che non conosciamo le cadute Ipotiposi nelle quali Clemente avrebbe dovuto sostenere
tale tesi, però non la troviamo neanche nel passo riportato da Fozio. In questo caso, come abbiamo visto
precedentemente, si tratta di una mal compresa interpretazione delle espressioni dell’Alessandrino.
253
Cfr. Dt. 32,10-12.
254
Ex. 20,2.
255
Gen. 17,1.
241

detto»256. Sta scritto, poi, che lottò con lui: “Giacobbe fu lasciato solo e un
uomo lottò con lui – era il Pedagogo – fino al mattino”257. Costui era l’uomo
che lo guidava e lo conduceva, era l’uomo che insieme a lui si allenava, e
preparava alla lotta contro il male l’atleta Giacobbe. Ora, giacché il Logos era
allo stesso tempo l’allenatore di Giacobbe e il Pedagogo dell’umanità, “quegli –
dice – lo interrogò e gli disse: «Rivelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi
chiedi il mio nome?»”258. Teneva infatti in serbo il suo nome nuovo per il
popolo novello, il popolo bambino. A quei tempi il Signore Dio era ancora
senza nome, non essendo ancora diventato uomo259.

Osserviamo che tra Dio è il Logos c’è una strettissima relazione. Infatti, tutte le
parole che secondo la Scrittura furono pronunciate da Dio stesso, nell’interpretazione
allegorica di Clemente diventano le parole del Logos, il Pedagogo dell’umanità, che
parla in prima persona260. Così, dunque, non fu il Dio trascendente, ma il suo Logos ad
apparire e a parlare con Mosè, Abramo e Giacobbe. Dall’altra parte, come ci informa
l’ultima frase del passo citato, lo stesso Logos che educava il popolo dell’antica alleanza
è diventato uomo ed ha rivelato al popolo nuovo il suo nome tenuto nascosto per
secoli261. Non ci sono dunque due o tre Logoi diversi, ma uno solo che in un primo
luogo è “Dio in Dio”; di seguito diventa il creatore e la guida del popolo antico; alla fine
si fa carne e in maniera più manifesta educa il popolo nuovo262.

256
Gen. 28,15.
257
Gen. 32,25.
258
Gen. 32,30.
259
Clem., Paed. I 56,1-57,2.
260
Sul stretto rapporto tra Dio e il Logos cfr. Clem., Paed. I 57,2-3, dove il Logos è detto “il
volto di Dio”; Paed. I 24,3, dove è definito: “Figlio nel Padre e Padre nel Figlio”; Paed. I 62,4, dove Dio
e il Logos sono detti “una cosa sola” (e]n ga.r a;mfw).
261
Che lo stesso Logos sia stato l’educatore del popolo dell’antica e della nuova alleanza,
dimostra molto chiaramente un altro passo in cui viene interpretata in modo allegorico la teofania al
roveto ardente: “L’onnipotente Signore di tutte le cose, infatti, quando cominciò a dettare la Legge per
mezzo del Logos e volle manifestare la sua potenza a Mosè, apparve a quest’ultimo in visione divina
sotto forma di luce in un roveto ardente. Ora il roveto è una pianta spinosa. Quando poi il Logos finì di
dettare la Legge e di dimorare tra gli uomini, egli, il Signore, fu di nuovo misticamente incoronato di
spine, andandosene di qua e tornando là donde era venuto e ripetendo così ciò che era avvenuto in
principio, alla sua prima discesa [con la legge data a Mosè]; in tal modo il Logos, che si manifestò
all’inizio nel roveto e alla fine fu elevato [in croce] con le spine, mostra che tutto è opera di una sola
potenza, essendo egli uno, come uno è il Padre, principio e fine del tempo”. Clem., Paed. II 75,1-2.
262
A questo proposito riportiamo ancora un altro passo nel quale il Logos che era evn avrch|/ viene
identificato con il Creatore e di seguito con il Salvatore che è il Cristo. Il passo proviene dal Protrettico ai
greci nel quale il nostro autore cerca di mostrare che il cristianesimo non è una religione nuova, ma al
contrario, la più antica di tutte le altre. Infatti, qualora non fosse così – ragiona Clemente – l’errore
sarebbe più antico della verità. In tale contesto afferma: “Noi siamo anteriori alla creazione dell’universo,
noi che, destinati a esistere in Dio, siamo stati generati anteriormente da lui, noi le creature razionali del
Logos di Dio, per il quale esistiamo dal principio, perché appunto: «In principio era il Logos». Ora, dato
che il Logos era dal principio, egli era ed è origine divina di tutte le cose; ma poiché ora prese il nome già
fin dall’antichità riconosciuto come santo, e degno della potenza, il Cristo, è stato da me chiamato Canto
242

È da notare che per quanto riguarda la teofania che ebbe Giacobbe, il nostro
autore afferma che colui che lottava con il patriarca era uomo (ou-toj h=n o` a;nqrwpoj).
Sappiamo, tuttavia, che Clemente è molto critico nei confronti degli antropomorfismi
biblici che secondo lui vanno interpretati allegoricamente, non letteralmente. È
impensabile che il nostro autore possa ipotizzare un’incarnazione del Logos prima della
sua incarnazione vera e propria. Perciò dobbiamo considerare tale affermazione come
una figura retorica. In realtà, Clemente si serve di essa per mostrare che alcuni
avvenimenti o persone dell’Antico Testamento preannunziavano simbolicamente le
realtà del Nuovo Testamento. In questo caso, la vicenda legata alla teofania che ebbe
Giacobbe – come spiega l’Alessandrino – significa allegoricamente un allenamento alla
lotta contro il male. Eppure il male è una cosa incorporea. Colui che già nell’Antico
Testamento preparava il popolo a tale lotta era il Logos. Egli nel racconto biblico viene
raffigurato come o` a;nqrwpoj per indicare metaforicamente la sua futura incarnazione. In
questo modo l’episodio della misteriosa lotta decritta nel libro della Genesi diventa il
simbolo della definitiva lotta contro il male che vincerà lo stesso allenatore di Giacobbe,
ossia il Logos fatto carne.

Clemente non ci spiega chi fosse colui che realmente lottò con il patriarca.
Avrebbe potuto esserci un uomo attraverso il quale operava la potenza del Logos263 o un
angelo. Può darsi anche che tutta quella lotta sia avvenuta solamente nella mente di
Giacobbe264. Infatti, l’Alessandrino scrive altrove:

Dio onnipotente è capace di produrre voci e rappresentazioni uditive


anche senza oggetto alcuno, se vuole mostrare la sua maestà oltre quanto è di
solito legato alla causalità naturale, perché l’anima che ancora non crede si
converta e il comandamento dato sia accolto […]. Perciò dice il profeta: «Voi
udivate voce di parole e non vedevate immagine di volto»265. Vedi che la voce
del Signore è Logos senza figura (h` kuriakh. fwnh. lo,goj avschma,tistoj): la

Nuovo”. Clem., Protr. 6,4-5. Il nome di Cristo, dunque, prese colui che era evn avrch|/ e nel quale sussisteva
tutto il ko,smoj nohto,j.
263
Infatti in un altro luogo Clemente considera l’uomo Mosè come colui attraverso il quale
operava il Logos: “Tramite Mosè, infatti, il Signore fu davvero Pedagogo del popolo antico, ma
personalmente è la guida del popolo nuovo, faccia a faccia”. Clem., Paed. I 58,1. Cfr. anche Paed. I 96,3,
dove viene affermato che il Logos guidava il popolo attraverso i profeti. Tale affermazioni non
significano ovviamente che il Logos si sia incarnato prima della sua venuta nel corpo, ma che attraverso
alcuni uomini operava la potenza del Logos.
264
Ricordiamo che anche Filone considera alcune teofanie come una visione mistica. Così ad
esempio tutto l’incontro di Abramo con i tre uomini misteriosi alle querce di Mamre avvenne soltanto
nella mente del patriarca nella quale Dio produsse tre immagini. Cfr. Phil., Sacrif. 59-60; Abr. 119-123.
Cfr. anche Phil., Mutat. 3-6 e i nostri commenti a questi passi nel capitolo precedente.
265
Dt. 4,12.
243

potenza del Logos, parola luminosa del Signore, verità scesa dall’alto del cielo
per radunare la chiesa, operava attraverso l’immediato ministero della luce266.

Dio dunque in quanto onnipotente può produrre diverse rappresentazioni fuori


della casualità naturale. In questo modo l’uomo può udire o vedere qualcosa, anzi può
essere convinto che ha qualche rapporto con Dio anche se l’oggetto stesso del fenomeno
sovrannaturale non è presente materialmente nel luogo della teofania. Colui che nel
nome di Dio manda il messaggio ad un uomo (come del resto tutta l’attività di Dio al di
là della sua essenza) è sempre il Logos – “la voce del Signore”. Egli in quanto di natura
intelligibile è avschma,tistoj, ossia non rappresentabile con figure o informe – perciò
anche impercettibile ad occhio del corpo267. Nonostante dunque a proposito della
teofania che ebbe Giacobbe il nostro autore parli di un a;nqrwpoj, che viene poi definito
come il Pedagogo dell’umanità, è scorretto pensare che il patriarca abbia visto il vero
volto del Logos incarnato.

Ricordiamo, inoltre, che nel passo del Strom. II 5,4-6,2 citato nel paragrafo
precedente, sebbene la Scrittura al livello letterale parli di una teofania nella quale
partecipò Mosè, Clemente afferma che il legislatore non vide Dio, ma entrò nella
“tenebra dei ragionamenti impenetrabili”268. In un altro passo, altresì già citato (Strom.
VII 5,3), l’Alessandrino dice che il Logos “è dovunque, sempre, e in nessun luogo è
contenuto (mhdamh|/ perieco,menoj)”. Perché dunque nel Pedagogo il nostro autore
sostiene che nelle teofanie dell’Antico Testamento fu udito o visto, anzi lottò con
Giacobbe, il Logos che negli Stromati è definito come avschma,tistoj e mhdamh|/
perieco,menoj? A questo punto è necessario notare che gli Stromati, nonostante siano un
insieme di appunti, sono un’opera per un pubblico di cristiani più maturo, cioè più
istruito nelle questioni relative alla fede e alla filosofia. Il Pedagogo, invece, è destinato
al pubblico dei neoconvertiti o forse anche ai catecumeni. Questi ultimi non sono ancora
in grado di apprendere certe questioni filosofiche difficili269. Lo scopo del Pedagogo è

266
Clem., Strom. VI 34,1-3.
267
La parola avschma,tistoj è il termine platonico adoperato dal filosofo ateniese per descrivere
appunto ciò che è del livello intelligibile, che l’oggetto della scienza, non della percezione sensibile. Cfr.
Plat. Phaedr. 247 C.
268
Inoltre, come abbiamo osservato nel paragrafo precedente, nella versione dei LXX c’è scritto:
Mwush/j de. eivsh/lqen eivj to.n gno,fon ou- h=n o` qeo,j (Ex. 20,21), mentre secondo Clemente egli entrò nella
tenebra dove c’era “la voce di Dio” (ou- h=n h` fwnh. tou/ qeou/), cioè “nei ragionamenti impenetrabili”. Cfr.
Clem., Strom. II 5,4-6,2. Ora vediamo che h` kuriakh. fwnh. è lo,goj avschma,tistoj. Dunque, anche Mosè
ebbe un rapporto solo con il Logos e non con il Dio trascendente. Inoltre, anche questo Logos rimase
invisibile.
269
Abbiamo presente che molti cristiani dell’epoca credevano ancora che Dio fosse corporeo,
mutabile e passibile. Nonostante l’argomento relativo all’incorporeità e alla trascendenza divina venga
244

mostrare che il Cristo nel quale hanno creduto i lettori dell’opera è l’educatore e guida
di tutta l’umanità sin dalla fondazione del mondo. A questo proposito il nostro autore
non entra fino in fondo alla questione filosofica dell’ubiquità e dell’atopia del Logos.
Tali argomenti, come abbiamo visto, vengono esaminati più largamente negli Sromati,
destinati a coloro che si definiscono ‘gnostici cristiani’.

L’ultima questione che vogliamo esaminare in questo paragrafo riguarda


l’incarnazione del Logos: la sua natura270 e funzione. A questo proposito Clemente
scrive:

[Il Logos] non potrebbe mai abbandonare la cura degli uomini perché
distratto da qualche piacere, egli che assunse la carne per natura soggetta a
passione (th.n sa,rka th.n evmpaqh/ fu,sei genome,nhn avnalabw.n) per educarla fino
ad un abito di assenza di passioni (eivj h[xin avpaqei,aj evpai,deusen). E come
potrebbe essere Salvatore e Signore, se non fosse Salvatore e Signore di tutti?
Invero, se dei fedeli è Salvatore perché hanno avuto la volontà di conoscerlo,
degli infedeli è Signore nell’attesa che, resi capaci di confessarlo, ottengano il
suo beneficio in modo loro proprio e corrispondente. Insomma tutta l’azione del
Signore si riconduce all’Onnipotente, e per così dire il Figlio è un’attività del
Padre. Mai dunque il Salvatore avrà odio per l’uomo, egli che nel suo
sconfinato amore non disprezzò la debolezza della carne umana, ma la rivestì
(sarko.j anqrwpi,nhj euvpa,qeian ouvc u`peridw,n( allV evndusa,menoj), e venne per
comune salvezza degli uomini […].

Così di tutti i beni per volontà del Padre onnipotente è causa il Figlio,
originaria potenza creatrice del mondo, inafferrabile con i sensi. Come egli era,
non fu visto da chi non poteva capire per la debolezza della carne; ma assunse

accennato anche nel Protrettico e nel Pedagogo, in queste opere destinate ai non credenti e ai
neoconvertiti, Clemente deve soprattutto respingere alcune accuse contro il cristianesimo che
formulavano i pagani. Una di esse riguarda la ‘novità’ della verità predicata nella Chiesa. Perciò sia nel
Protrettico sia nel Pedagogo il nostro autore mostra che il cristianesimo non è una religione nuova,
perché il Logos che nella pienezza dei tempi si fece carne operava nel mondo anche prima della sua
incarnazione: in modo naturale – attraverso le leggi della natura; e in modo sovrannaturale – intervenendo
nella storia del popolo eletto.
Dall’altra parte Clemente sta davanti al problema di un gruppo dei cristiani (soprattutto i
marcioniti), che rifiutavano l’Antico Testamento considerandolo come nocivo e inutile al cospetto della
novità dell’insegnamento portato dal Salvatore. Perciò l’Alessandrino deve mostrare ai lettori delle sue
opere che il Cristo è presente anche sulle pagine delle Scritture giudaiche. E lo fa appunto anche
attraverso l’interpretazione allegorica delle teofanie veterotestamentarie.
270
Parlando della natura, o con altre parole, del carattere dell’incarnazione, vogliamo rispondere
alla domanda: Il corpo del Logos incarnato era vero e proprio o – come suona l’accusa di Fozio – soltanto
apparente? Cfr. Phot., Bibl., cod. 109.
245

lui carne sensibile (aivsqhth.n de. avnalabw.n sa,rka) e venne a mostrare ciò che è
possibile agli uomini nell’ubbidienza ai comandamenti271.

In questo passo troviamo un triplice riferimento al corpo del Salvatore. Così,


dunque, la carne che assunse il Logos era dotata di sensibilità, per natura soggetta a
passione e percettibile mediante i sensi. Le espressioni: th.n sa,rka th.n evmpaqh/ fu,sei
genome,nhn avnalabw.n, di seguito: sarko.j anqrwpi,nhj euvpa,qeian ouvc u`peridw,n e infine:
aivsqhth.n de. avnalabw.n sa,rka non ci lasciano nessun dubbio che si tratti di una carne
vera e propria. Essa nonostante la sua debolezza non viene disprezzata, ma assunta dal
Salvatore per la salvezza del genere umano. Infatti, la ragione per la quale il Logos si
fece carne, come ci spiega il nostro autore, era lo “sconfinato amore verso gli uomini”
(u`perba,llousa filanqrwpi,a)272. Tale amore non è selettivo e nemmeno legato ad alcun
affetto, piacere o passione273. In realtà, il Logos venne in questo mondo “per comune
salvezza degli uomini”274, fedeli e infedeli. Anche se questi ultimi non lo confessano
come Salvatore, il Logos essendo il Signore di tutto il creato opera in tal modo da
renderli capaci di confessarlo275. Ma l’incarnazione ha anche un altra funzione che è
quella esemplare ed educativa. Infatti, scrive Clemente, il Logos assunse la carne “per
educarla fino ad un abito di assenza di passioni (eivj h[xin avpaqei,aj evpai,deusen)”. In
questo modo il Logos incarnato diventa modello per tutta l’umanità che, come vedremo
più avanti, peccò appunto assoggettandosi alle passioni del corpo e così perse la
somiglianza con Dio. Il Cristo, invece, pur avendo il corpo uguale a tutti gli uomini, e
cioè soggetto a passioni, realizzò nella sua vita l’ideale del sapiente stoico, che è
l’assoluta avpa,qeia276. Tale ideale è realizzabile anche per tutti i fedeli per l’ubbidienza
ai comandamenti277, ma in modo particolare diventa il fine della vita dello gnostico
cristiano:

271
Clem., Strom. VII 7,5-8,1; 8,5-6.
272
Cfr. Clem., Paed. I 62,1, dove viene affermato che l’incarnazione del Logos è la più grande
prova del suo amore per l’uomo (ossia della filanqrwpi,a). Cfr. anche Clem., Protr. 27,3; Strom. VII
72,1.
273
Cfr. Clem., Strom. VII 7,1-2.5
274
L’espressione: e,pi. th.n koinh.n tw/n avqrw,pwn evlh,luqen soteri,an può essere anche la
polemica con gli gnostici secondo i quali gli ilici, ossia i pagani e i giudei, non potrebbero essere salvati,
mentre il destino escatologico degli psichici, cioè dei cristiani salvati, sarebbe diverso da quello degli
pneumatici, ovvero gli gnostici stessi. Cfr. Iren., Adv. Haer. I 6,1 sgg; Clem., Exc. Ex Theod. 56,1-58,1;
61,8.
275
Sull’argomento della soteriologia di Clemente cfr. A. Brontesi, La soteria in Clemente
Alessandrino, Roma 1972; e per quanto riguarda la funzione soterica del Logos spec. pp. 309 sgg.
276
Per l’avpa,qeia del Cristo cfr. Clem., Strom. V 94,5, VI 71,2-3; VII 7,2.5; 72,1.
277
Cfr. Clem., Strom. II 134,1-2; IV 130,1-5.
246

Lo “gnostico” è tale che soggiace soltanto alle passioni che sono in


funzione del mantenimento del corpo, come fame, sete e simili. Quanto al
Salvatore, invece, sarebbe ridicolo pensare che il corpo, in quanto corpo,
richiedesse i necessari servigi per il mantenimento: non è che egli mangiasse a
causa del corpo, che era tenuto in vita da una potenza, ma perché in chi lo
frequentava non si insinuassero falsi pensieri intorno a lui, come in effetti alcuni
poi cedettero che egli si fosse manifestato solo in apparenza (dokh,sei). In realtà
egli era assolutamente immune da passione (auvto.j de. a`paxaplw/j avpaqh.j h=n);
nessun moto di passione penetrava la persona, né piacere né dolore278.

Sulla base della critica del docetismo esposta in questo passo279 e avendo
presente le caratteristiche del corpo del Logos incarnato, che abbiamo elencato prima,
possiamo affermare che nelle opere pervenuteci Clemente esclude l’apparente carattere
dell’incarnazione del Figlio di Dio. Infatti, molto chiaramente dichiara che il Logos
assunse il corpo reale, sensibile e soggetto a passioni, però, come vediamo ora, visse in
esso in modo tale da non sottomettersi a nessuna passione. E appunto per questo motivo
la sua vita può essere il modello per lo gnostico cristiano che per quanto riguarda le
passioni cerca di soddisfare soltanto quelle che sono in funzione del mantenimento del
corpo. È da notare, però, che a questo proposito, l’Alessandrino afferma che, il corpo
del Salvatore “era tenuto in vita da una potenza” in modo da non dover soddisfare le
necessità fisiche, come ad esempio quella di mangiare280. E appunto tale o simili
affermazioni avrebbero potuto provocare il patriarca Fozio a formulare l’accusa relativa
all’apparente carattere dell’incarnazione in Clemente281. Anche se non conosciamo il
testo delle perdute Ipotiposi che aveva letto il patriarca di Costantinopoli, vediamo che
l’Alessandrino anche nelle opere pervenuteci, e nonostante la critica del docetismo, non
attribuisce al corpo del Salvatore tutte le funzioni del corpo umano282.

278
Clem., Strom. VI 71,1-2.
279
Sulla critica del docetismo cfr. anche Clem., Strom. III 91,1 sgg., dove il nostro autore
polemizza con Giulio Cassiano, definito come ‘l’iniziatore del docetismo’ (o` th/j dokh,sewj evxa,rcwn).
280
A questo proposito H. Hägg scrive: “There is no doubt that for Clement the reality of the
body was important for the truth of the incarnation. On the other hand, to Clement the Platonist the idea
of attributing to the creator and sustainer of the universe a lack or a need for anything external to sustain
his own body, would seem ludicrous. In addition, the idea that God would have to eat would, in
Clement’s eyes, reduce him to equal status with the gods of the heathen”. H. F. Hägg, Clement of
Alexandria…, p. 196.
281
Cfr. Phot., Bibl., cod. 109.
282
Sull’argomento cfr. anche P. Ashwin-Siejkowski, Clement of Alexandria on Trial…, pp. 95-
111, dove lo studioso, dopo le analisi dei tesiti al riguardo, conclude: “His [i.e. of Clement] use of
‘dangerous’ idioms was part of the process of thinking together, alongside and against the theological
models of his opponents. Borrowing, assimilating and reinterpreting were crucial parts of that process.
Clement’s Logos-Christ was not a Saviour who originating in a personal mystical experience, as was
247

Tuttavia, il fatto di essere tenuto in vita da una potenza, non vuol dire che,
secondo il nostro autore, il Logos non soffrisse nel corpo in quanto sensibile e soggetto
a passioni283. È piuttosto la sua anima, come l’anima del sapiente stoico, nonostante le
sofferenze del corpo, non fu mai turbata da alcuna passione: né da piacere né da
dolore284. In altre parole – il Salvatore non commise mai nessun peccato che per
l’Alessandrino è sempre legato alla sottomissione alle passioni285. Infatti, l’avpa,qeia
come ormai sappiamo è uno dei attributi che descrive la perfetta natura di Dio.
Diventare avpaqh,j, dunque, significa per Clemente assimilarsi a Dio286. Assoggettarsi
alle passioni, invece, significa peccare e perdere la somiglianza divina. E appunto in
questo, come abbiamo già accennato, consisteva anche il peccato originale:

A vero dire il Signore venne, come tutti ammettono, «per [risanare] ciò
che è perduto»287: ma perduto non [perché calato] dall’alto fino alla nostra
generazione qui sulla terra – la generazione è creata ed è creazione
dell’Onnipotente (ktisth. ga.r h` ge,nesij kai. kti,stij tou/ pantokra,toroj), che
non avrebbe mai fatto calare l’anima da una condizione migliore ad una
peggiore –. Il Salvatore venne per quelli che sono perduti nei pensieri, venne
per noi: i nostri pensieri si corruppero in seguito alla disobbedienza ai
comandamenti, per la nostra avidità di piaceri. E ciò forse perché il nostro

Paul’s, nor did he know the historical Jesus of Nazareth. For Clement, as for Valentinus, Basilides,
Cassian, Marcion and Irenaeus of Lyons, ‘the Saviour’ was a construct of deep personal reflection on the
Scriptures; ‘the Saviour’ came to Clement through a specific path of ecclesiastical and Christian tradition,
including of vital role of his teacher, Pantenaeus. Nor is it surprising that his Saviour, God’s Logos, has
some theological and metaphysical similarities with Philo of Alexandria’s doctrine, for, even as a
Christian, Clement was directly inspired by Philo’s notion of the divine Logos. This kind of Logos,
although not ‘abstract’, is perhaps less ‘historical’ than the one found in other ecclesiastical authors of
time. For Clement, in contrast to Philo, this divine Logos became flesh, but in this encounter of the divine
with the human, Clement was always more attracted to the divine aspect of the Redeemer”. Ibid., p. 110.
283
Cfr. Clem., Paed. I 62,2: “Il Signore, il Pedagogo, è quindi sommamente buono ed è
irreprensibile, essendosi unito, per un eccesso d’amore, alla natura di ciascuno di noi uomini nel
partecipare con noi al sentimento della sofferenza (sumpaqh,saj)”. Cfr. anche Paed. I 74,4; Strom. VII 6,5.
284
In un altro luogo Clemente afferma esplicitamente che l’uomo deve cercare di rendere simile
la sua anima appunto all’anima di Cristo, che è perfettamente impassibile: “Il nostro Pedagogo, o figli,
assomiglia a Dio suo Padre, del quale è Figlio, senza peccato, irreprensibile e non toccato dalle passioni
nell’anima (avpaqh.j th.n yuch,n): è Dio immacolato “sotto forma di uomo” (cfr. Phil. 2,7), servitore della
volontà paterna, Logos Dio, che è nel Padre ed “è alla destra del Padre” (cfr. Act. 7,55), Dio anche nella
forma. Egli è per noi l’icona senza macchia, a lui dobbiamo cercare con tutte le forze di rendere simile la
nostra anima. Tuttavia, mentre egli è completamente libero dalle passioni umane e per questo è anche
l’unico giudice, essendo l’unico senza peccato, noi dobbiamo invece sforzarci semplicemente di peccare
il meno possibile, nella misura in cui vi riusciamo. Nulla infatti è più urgente che l’allontanare, dapprima,
le passioni e le infermità, dipoi impedire una facile ricaduta nella consuetudine al peccato”. Clem., Paed.
I 4,1-2.
285
Cfr. Clem., Strom. VII 14,2-3.
286
E ciò significa anche diventare felice e perfetto. Ricordiamo che tale concetto troviamo anche
in Filone. Cfr. Phil., Leg. All. II 100-103; III 131. Sulla dottrina del pa,qoj e dell’avpa,qeia in Clemente cfr.
S. Lilla, Clement of Alexandria..., pp. 84 sgg. e 103 sgg.; M. Pohlenz, La stoa…, vol. II, pp. 301 sgg.; P.
Karavites, Evil, Freedom, and the Road to Perfection…, pp. 165 sgg.
287
Cfr. Matth. 18,11; Lc. 19,10.
248

primo progenitore anticipò il tempo, cioè si lascio eccitare alle lusinghe del
matrimonio prima del momento stabilito, e peccò: poiché «chiunque guarda una
donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei»288. Così egli non
attese il momento della volontà [divina]. Era dunque il medesimo Signore che
anche allora condannava la concupiscenza che previene il matrimonio289

Osserviamo all’inizio che in questo passo Clemente respinge abbastanza


chiaramente la dottrina platonica della metempsicosi290 – dunque un altro concetto
eretico che secondo il patriarca Fozio sarebbe stato contenuto nelle perdute Ipotiposi291.
Le anime, quindi, non sono calate nei corpi da un altro mondo, ma sono state create da
Dio (ktisth. ga.r h` ge,nesij kai. kti,stij tou/ pantokra,toroj)292. La “caduta” dell’anima,
invece, significa metaforicamente il peccato che, per l’Alessandrino, consiste sempre
nella sottomissione alle passioni. In questo modo anche Adamo – il primogenitore
cadde assoggettandosi alle passioni legate alla corporeità. Egli, infatti, come ci spiega
Clemente “si lascio eccitare alle lusinghe del matrimonio prima del momento stabilito, e
peccò”. Perciò è stato condannato dallo stesso Logos che nel Vangelo (Matth. 5,28)

288
Matth. 5,28.
289
Clem., Strom. III 94,2-95,1.
290
Cfr. Plat., Phaed. 81 C-E; Phaedr. 248 C-E.
291
Cfr. Phot., Bibl., cod. 109. È vero che la metempsicosi, oltre che la preesistenza, riguarda
soprattutto la trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro, però il nostro autore afferma che
l’Onnipotente “non avrebbe mai fatto calare l’anima da una condizione migliore ad una peggiore”. E
appunto tale situazione congetturano i testi di Platone relativi alla metempsicosi. Cfr. i passi indicati
sopra.
292
Bisogna comunque aggiungere che la questione rimane aporetica. Infatti, in un altro luogo
(Strom. VII 9,4), il nostro autore afferma che dopo la morte gli eletti occupano le dimore a seconda della
loro perfezione, dalla prima fino all’ultima, mentre “quelli che per debolezza sono perversi, caduti nel
male per iniqua, insaziabile avidità, non dominano [le passioni] né sono dominati [dal bene], e rovinano
avvoltolati nelle passioni, e cadono giù a terra (avpopi,ptousi camai,)”. Questa ultima affermazione
potrebbe appunto suggerire la metempsicosi. Non sappiamo, però, che cosa significhi “cadere a terra”.
Può darsi che tale espressione sia una metafora di una punizione post mortem della quale parlano i
vangeli. Infatti, in Lc. 12,5 e in Matth. 10,28 leggiamo che Dio ha il potere di “gettare nella geenna” o di
“far perire nella geenna e l’anima e il corpo”. Cfr. Clem., Exc. Ex Theod. 14,3; Ecl. Proph. 26,1-4. Così,
dunque, se la caduta del passo del Strom. III 94,2-95,1 significa metaforicamente il peccato, anche quella
del Strom. VII 9,4, che riguarda l’anima dopo la morte corporea, potrebbe designare, altresì
metaforicamente, la pena della geenna. Anzi, non è escluso che tale espressione significhi anche la morte
dell’anima. In realtà, subito dopo il passo citato, Clemente continua il suo pensiero dicendo che i
comandamenti della legge “permisero che chi era compiaciuto del vizio rimanesse unito a ciò che aveva
scelto”. Strom. VII 10,1. E altrove afferma che il vizio provoca la morte dell’anima. Cfr. Clem., Strom. II
135,1-2; III 63,4-64,1; Paed. I 95,1.
A questo proposito, H. Chadwick afferma: “Clement’s attitude to the Platonic conception of the
soul as having fallen from heaven to become imprisoned in matter is not perfectly clear”, comunque poco
dopo, riferendosi all’accusa formulata da Fozio, lo studioso conclude: “Clement’s mind is so strongly
anti-determinist that it is improbable that he ever accepted the fatalistic conception of transmigration”. H.
Chadwick, Early Christian Thought…, pp. 48-49.
Sull’argomento cfr. anche P. Ashwin-Siejkowski, Clement of Alexandria on Trial…, pp. 115-
128, che a proposito della accusa di Fozio scrive: “the existing evidence shows the opposite: Clement of
Alexandria did believe in the creation of the soul and the uniqueness of human life on earth”. Ibid., p.
126. Al problema dell’anima e della sua vita post mortem ritorneremo ancora più avanti, nel paragrafo
2.5: Le aporie riguardo alla trascendenza di Dio.
249

biasima i desideri carnali. Il primo uomo, dunque, e insieme a lui tutto il genere umano,
a causa della caduta nelle passioni, perse la somiglianza al Dio impassibile (avpaqh,j).
L’incarnazione del Logos, il suo insegnamento e la sua vita nel corpo durante la quale
egli realizzò perfettamente l’ideale dell’avpa,qeia, hanno come scopo la restaurazione
dell’originaria somiglianza con Dio:

Da quanto è detto, possiamo concludere dicendo che il nostro Pedagogo


Gesù ha tracciato per noi il modello della vita vera e ha guidato, come un
pedagogo, l’uomo che è in Cristo. La sua attitudine non è né troppo severa né
troppo permissiva a causa della sua bontà. Dà comandi, ma infonde in essi un
carattere tale da renderli praticabili. E certamente, mi pare, è lui che ha plasmato
l’uomo dalla polvere, l’ha rigenerato con l’acqua, l’ha elevato con lo Spirito,
l’ha educato con la parola, l’ha guidato con santi precetti verso l’adozione filiale
e la salvezza, così da riplasmare l’uomo di terra trasformandolo in uomo santo e
celeste e dare in tal modo compimento a quel che sta scritto: «Facciamo l’uomo
a nostra immagine e somiglianza» (katV eivko,na kai. kaqV o`moi,wsin)293. E questo,
che Dio ha detto, Cristo lo ha adempiuto perfettamente, mentre di ogni altro
uomo si può solo dire “ad immagine” (kata. mo,nhn noei/tai th.n eivko,na) [e non
“a somiglianza”]. Mettiamo dunque in pratica la volontà del Padre, ascoltiamo il
Logos e imbeviamoci del salvifico stile di vita del nostro Salvatore294.

L’incarnazione del Logos, dunque, oltre la funzione esemplare, indica l’inizio


della nuova creazione katV eivko,na kai. kaqV o`moi,wsin. In primo luogo il Logos
ricostruisce la somiglianza nell’uomo il quale egli stesso si era fatto, di seguito
attraverso i sacramenti (“con l’acqua”)295 e i suoi precetti guida l’uomo verso la totale
restaurazione della somiglianza perduta. In questo modo trasforma “l’uomo di terra” che
egli aveva creato in “uomo celeste”, simile a Dio. A questo punto vale la pena osservare
che in Clemente la parola o`moi,wsij acquista un doppio significato e indica: 1) la

293
Gen. 1,26.
294
Clem., Paed. I 98,1-3.
295
Notiamo che l’incarnazione del Logos non ha come unico scopo quello di tracciare il modello
della vita avpaqh,j, ma anche elargire le grazie senza le quali l’uomo non è capace di assimilarsi a Dio.
Perciò Clemente considera il Salvatore anche il medico dell’anima: “Il nostro Pedagogo e Logos è
dunque, attraverso i suoi ammonimenti, il terapeuta delle passioni dell’anima che sono contro natura. In
senso proprio la cura delle malattie del corpo è detta medicina, un’arte insegnata dalla sapienza umana.
Ma l’unico medico delle infermità umane è il Logos del Padre, santo guaritore e mago dell’anima malata
[…]. Ora, il buon Pedagogo, la Sapienza, il Logos del Padre, il Creatore dell’uomo, si prende cura di tutta
l’opera delle sue mani: ne sana sia il corpo che l’anima, lui che è medico e panacea dell’umanità […].
Certamente egli guarisce l’anima anche in se stessa, con i suoi comandi e con le sue grazie”. Clem., Paed.
I 6,1-4. Oltre a questo, troviamo in Clemente molti altri passi che descrivono l’azione terapeutica del
Logos nei confronti delle passioni dell’anima umana. S. Lilla, nella sua opera su Clemente, mostra le
fonti stoiche e medioplatoniche di questo concetto. cfr. S. Lilla, Clement of Alexandria..., pp. 95 sgg.
250

somiglianza intesa staticamente, come qualcosa impresso nell’uomo durante la


creazione, ma perso a causa del peccato originale; 2) il processo di assimilazione a Dio
da parte dell’uomo che come scopo ha l’acquisizione della somiglianza perduta. In
questo secondo significato l’o`moi,wsij diventa la meta dello gnostico cristiano che
attraverso pratica delle virtù cerca, in quanto possibile, di realizzare nella sua vita
l’ideale che ha tacciato il Salvatore296. Come, dunque, possiamo notare l’Alessandrino
trova una connessione tra il brano biblico del Gen. 1,26 e il famoso passo del Theaet.
176 A-B di Platone297. Nel primo l’o`moi,wsij viene concepita staticamente, nel secondo
dinamicamente.

Da ultimo segnaliamo che il Logos è venuto nel mondo anche per portare la vera
gnw/sij e donare all’uomo la vita eterna. Quale è il contenuto di questa gnosi? In che
misura l’intelletto umano è capace di comprendere qualcosa della natura di Dio? In che
cosa consiste la vita dell’anima dopo la morte del corpo? A queste domande cercheremo
la risposta nei paragrafi successivi.

296
A questo proposito ricordiamo che l’o`moi,wsij intesa come il cammino intellettuale ed etico
dell’uomo è il concetto platonico contenuto nel famoso passo del Theaet. 176 A-B, che abbiamo citato nel
capitolo su Filone. Infatti, anche il giudeo di Alessandria ne fa parecchio uso. Cfr. Phil., Opif. 144;
Migrat. 131; Fug. 63; Spec. Leg. IV 73; IV 188. Cfr. anche Clem., Strom. II 97,1: “Questi è lo ‘gnostico’
«ad immagine e somiglianza», colui che imita Dio per quanto è possibile, nulla tralasciando di quanto
giova a questa realizzabile somiglianza (mhde.n paralipw.n tw/n eivj th.n evndecome,nhn o`moi,wsin): egli è
continente e paziente, vive secondo giustizia, domina le passioni, dà ciò che ha, per quanto può, benefica
con la parola e con l’opera”. Sull’argomento cfr. P. H. Merki, ~OMOIWSIS QEW|. Von der platonischen
Angleichung an Gott zur Gottähnlichkeit bei Gregor von Nyssa, Freiburg in der Schweiz 1952, pp. 44-60;
S. Lilla, Clement of Alexandria..., pp. 106-117; P. Karavites, Evil, Freedom, and the Road to
Perfection…, pp. 155 sgg. Parleremo ancora del concetto dell’o`moi,wsij qew|/ nel paragrafo successivo,
perché, come vedremo, l’assimilazione a Dio svolge un ruolo importante anche nell’epistemologica di
Clemente.
297
Lo stesso afferma S Lilla che, però, aggiunge: “He [i.e. Clement] does not consider the two
expressions katV eivko,na and kaqV o`moi,wsin as synonyms: whereas the expression katV eivko,na means for
him that man, when he was created, was given by God a rational faculty which was a copy of the divine
Logos, the image of God, the expression kaqV o`moi,wsin does not refer, in his opinion, to the natural
kinship with God which man has possessed since his creation, but points on the contrary to the moral
perfection which man must reach during his life by practicing virtue”. S. Lilla, Clement of Alexandria...,
p. 108. Concordiamo con la prima parte di questa affermazione e parzialmente anche con la seconda.
Infatti, è vero che per Clemente l’immagine e la somiglianza non sono i sinonimi e che questa seconda è
raggiungibile attraverso il cammino spirituale. A nostro avviso, però, il primo uomo possedette anche
l’o`moi,wsij che comunque perse assoggettandosi alle passioni, come suggerisce il passo del Strom. III
94,2-95,1 sopraccitato. In un altro luogo, però, l’Alessandrino domanda: “E non è forse vero che alcuni
dei nostri interpretano che l’uomo abbia ricevuto l’essenza «secondo immagine» subito alla nascita,
mentre «secondo somiglianza» dovrà riceverla in seguito, via via che diviene perfetto?”. Strom. II 131,5-
6. Tra questi “alcuni dei nostri” (tine.j tw/n h`mete,rwn) potrebbe esserci anche Ireneo, che afferma la stessa
cosa, però, nei confronti degli uomini nati dopo Adamo. Egli infatti perse la somiglianza originaria per la
sua disobbedienza. Cfr. Iren., Adv. Haer. V 16,2.
251

L’argomento del Logos è il tema centrale di quasi tutte le opere di Clemente298 e


come tale potrebbe essere l’oggetto di un’altra tesi. In questo paragrafo, ci siamo posti
come obiettivo soltanto l’analisi di quei passi che riguardano in qualche modo il tema
della trascendenza divina. Abbiamo dunque mostrato che il Logos esprime tutta
l’attività del Padre al di là dell’essenza divina. In questo modo è trascendente e
immanente nello stesso momento. Pur essendo stato generato in funzione della
creazione, del governo e della salvezza del mondo, non si stacca mai dall’ouvsi,a del
Padre dalla quale proviene. Prima della sua generazione dimorava nel “seno del Padre”.
Questa espressione biblica, dal punto di vista filosofico significa che il Logos era
l’effetto della perenne attività pensante del Nous dell’universo che è Dio. Per la
generazione ricevette l’individualità e divenne la causa formale ed efficiente della
creazione. Sulla base di alcuni passi, però, sembra probabile che il nostro autore abbia
sostenuto la generazione continua ed eterna del Logos da parte del Padre. Tale tesi,
comunque, non viene enunciata in maniera esplicita, così come lo farà Origene. Come
potenza governatrice del mondo il Logos, essendo nohto,j, rimane sempre trascendente
rispetto a ciò che è del livello aivsqhto,j. Non si mescola con la materia come pensavano
gli stoici e neanche si rende presente in un luogo secondo la sua essenza, ma secondo la
potenza. Pur essendo dovunque è mhdamh|/ perieco,menoj. Grazie alla sua onnipotenza può
ingenerare nella mente dell’uomo una rappresentazione visuale o uditiva in tal modo da
fargli credere che si tratti di una realtà corporea. In questo modo si spiegano le teofanie
nelle quali parteciparono alcuni personaggi dell’Antico Testamento. Solo l’incarnazione
del Logos, che è l’espressione della divina filanqrwpi,a, lo rende veramente
immanente. Il corpo del Salvatore, infatti, è reale e passibile299. Nonostante ciò il Logos
vive in esso in maniera avpaqh,j e in questo modo traccia il modello di vita che diventa
l’ideale dello gnostico cristiano. Il processo dell’o`moi,wsij qew|/ che incominciò Cristo
nel suo corpo significa ugualmente la nuova creazione durante la quale l’uomo
riacquista la somiglianza persa a causa del peccato.

298
Nel Protrettico ai greci il Logos viene presentato come l’esortante (o` protreptiko,j), nel
Pedagogo come il consigliere (o` u`poqetiko,j), nell’opera intitolata forse il Maestro, probabilmente mai
scritta, il Logos dovrebbe essere presentato come l’istruttore (o` didaskaliko,j). Su queste tre funzioni del
Logos cfr. Clem., Paed. I 1,1-3,3. Ma anche negli Stomati e nelle altre opere minori dell’Alessandrino
troviamo numerosi passi che trattano della natura e delle molteplici funzioni del Logos.
299
Anche se, come abbiamo visto, Clemente non attribuisce ad esso tutte le funzioni del corpo
umano.
252

2.4. La trascendenza gnoseologica di Dio

La trascendenza gnoseologica è la conseguenza della trascendenza ontologica di


Dio. Infatti, ciò che trascende tutte le categorie metafisiche, ossia ciò che non è né
genere né specie né individuo né numero, né accidente, ciò che non ha né parti né
dimensione né figura né limite, ciò che è indivisibile e infinito300 non può essere
appreso da parte dell’uomo. E non si tratta qui soltanto dell’impossibilità di
rappresentare Dio secondo le categorie del livello aivsqhto,j301, perché per Clemente
l’uomo in quanto logiko,j è in grado di conoscere anche ciò che è intelligibile e
invisibile302, ma di assoluta incapacità dell’intelletto umano di comprendere l’essenza di
colui che trascende persino ciò che è del livello nohto,j303. Di questa naturale debolezza
cognitiva dell’uomo l’Alessandrino scrive in modo seguente:

Non sono maestri degni di fede gli uomini quando parlano di Dio, in
quanto uomini, perché un uomo non può goder fiducia di dire il vero anche su
Dio: egli, debole e mortale, su l’Ingenerato e Incorruttibile (o` avsqenh.j kai.
evpi,khroj peri. tou/ avgennh,tou kai. avfta,rtou), la creatura sul Creatore. E poi egli
che nemmeno su di sé è capace di dire la verità, non è forse molto più dubbio
che lo possa su Dio? Quanto l’uomo è inferiore a Dio per potenza, altrettanto è

300
Cfr. il passo citato precedentemente Clem., Strom. V 81,5-6.
301
Cfr. Clem., Strom. VI 163,1: “Nessuna immagine di Dio può esserci fra le cose generate”.
302
Infatti, Clemente lo afferma molto chiaramente: “Legati al corpo terreno, percepiamo le cose
sensibili attraverso il corpo (tw/n me.n aivsqhtw/n dia. sw,matoj avntilamnbano,meqa), mentre le intelligibili le
apprendiamo con la sola facoltà razionale (tw/n de. nohtw/n diV auvth/j th/j logikh/j evfapto,meqa duna,mewj)”.
Clem., Strom. V 7,4.
Tale capacità è il risultato della somiglianza che intercorre tra l’intelletto divino e l’intelletto
umano: “Poiché intelligente è il Logos di Dio (noero.j ga.r o` lo,goj tou/ qeou/), per cui la rappresentazione
dell’intelletto (o` tou/ nou/ eivkonismo.j) si vede solo nell’uomo: onde l’uomo retto secondo anima ha forma
di Dio ed è pari a Dio (qeoeidh.j kai. qeoei,keloj) e a sua volta Dio ha forma umana (avqrwpoeidh,j), poiché
l’essenza di ciascuno è l’intelletto (o` nou/j), da cui siamo caratterizzati. Ne deriva pure che coloro che
peccano contro l’uomo sono esecrabili ed empi”. Clem., Strom. VI 72,2.
Nonostante questa somiglianza l’intelletto umano non è parte di Dio, ma è stato da lui creato. E
in ciò sta essenzialmente la più importante differenza tra i due intelletti. Infatti, il nou/j dell’uomo, anche
se è di natura intelligibile (e perciò qeoeidh.j kai. qeoei,keloj), non è avge,nhtoj come Dio, ma genhto,j, e
quindi debole e finito. Inoltre, esso non è un’immagine diretta di Dio, ma immagine dell’immagine:
“«Immagine di Dio» è, infatti, il suo Logos – e il Logos divino, luce archetipo della luce, è legittimo
figlio del Nous – e immagine del Logos è l’uomo vero, cioè la mente che è nell’uomo (o` nou/j o` evn
avnqrw,pw|), il quale per questo motivo è detto essere stato creato «a immagine» di Dio e «a sua
somiglianza», perché per mezzo dell’intelligenza del suo cuore, egli si fa simile al divino Logos e perciò
si fa razionale (logiko,j)”. Clem., Protr. 98,4. Cfr. Clem., Paed. I 100,3; Strom. II 102,6; V 87,4-88,5;
94,5; VII 16,5-6. Sull’argomento cfr. anche S. Lilla, Clement of Alexandria…, pp. 13 sgg.
303
In realtà, nella sezione dedicata alla trascendenza ontologica di Dio abbiamo mostrato che
secondo Clemente Dio è. evpe,keina th/j ouvsi,aj kai. evpe,keina tou/ nohtou/. Cfr. Clem., Strom. V 38,6; V
71,5; VII 2,3; Paed. I 71,1 e i nostri commenti a questi passi nel paragrafo 2.2.
253

debole la sua parola, anche se non vuole esprimere Dio in sé, ma esprimersi
intorno a Dio e al divino Logos. Per sua natura la ragione umana è debole e
impotente a esprimere Dio (avsqenh.j ga.r fu,sei o` avnqrw,peioj lo,goj kai.
avdu,natoj fra,sai qeo,n), non dico il nome – questo lo nominano comunemente
non solo i filosofi, ma anche i poeti –, né l’essenza (ouvde. th.n ouvsi,an) – cosa
impossibile (avdu,naton ga,r) –, ma la potenza e le opere di Dio. E anche coloro
che si attribuiscono come maestro Dio a stento giungono ad una concezione di
Dio, quando pure la grazia li aiuta a formarsi una conoscenza in certa misura
approfondita, in quanto si abituano a contemplare la volontà con la volontà, lo
Spirito Santo con lo Spirito Santo304.

L’intelletto umano, dunque, nonostante sia “a immagine e somiglianza”


dell’intelletto divino, e perciò capace di accogliere le idee, non è in grado di
comprendere e di esprimere adeguatamente l’essere “che sta al di sopra d’ogni
pensiero”305. Tale incapacità si spiega con il fatto di essere creato. Infatti, ciò che è
finito non è in grado di accogliere o abbracciare l’infinito, generato l’ingenerato,
corruttibile l’incorruttibile, creatura il suo creatore. Però, non solo l’essenza (ouvsi,a) che
è per natura inconcepibile, ma anche la potenza e tutte le opere di Dio sono
difficilmente afferrabili dalla ragione umana. Osserviamo comunque che Clemente parla
in questo passo degli “uomini in quanto uomini” (a;nqrwpoi kaqo. a;nqrwpoi), ossia di
quelli che con le proprie forze vogliono giungere alla concezione di Dio ed esprimerla
adeguatamente. Tale tentativo non è realizzabile – appunto a causa della debolezza
naturale dell’intelletto umano (avsqenh.j ga.r fu,sei o` avnqrw,peioj lo,goj). Ci sono però
quelli che “si abituano a contemplare la volontà con la volontà306, lo Spirito santo con lo
Spirito santo”. Costoro avendo come maestro Dio ed essendo aiutati dalla sua grazia
riescono a formarsi una conoscenza di Dio. La concezione di Dio alla quale in questo
modo giungono, non riguarda però la sua essenza – cosa impossibile (avdu,naton) da
apprendere – ma la sua potenza e le sue opere. E cioè l’uomo con l’aiuto divino è in
grado di concepire Dio come il principio assoluto di tutte le cose, quelle dell’ordine
naturale e quelle dell’ordine sovrannaturale, visibili e invisibili307:

304
Clem., Strom. VI 165,5-166,3.
305
Clem., Strom., V 65,2: o` ga.r tw/n o[lwn qeo.j u`pe.r pa/san fwnh.n kai. pa/n no,hma kai. pa/san
e;nnoian.
306
Cfr. Clem., Protr. 120,4, dove il Logos è detto “volontà del Padre” (to. qe,lhma tou/ patro,j).
307
Cfr. Clem., Strom. IV 162,5: “Dio è senza principio, ma principio assoluto dell’universo,
creatore del principio. In quanto è Essere, è principio della scienza della natura; come Bene è principio
254

«Conobbi tutto ciò che è nascosto e tutto ciò che ci è manifesto: la


Sapienza, artefice di ogni cosa, me lo ha insegnato»308. Eccoti, in breve, ciò che
promette la nostra filosofia. Lo studio di essa, esercitato con retta condotta
morale, attraverso «la sapienza artefice di ogni cosa», ci riconduce a colui che è
guida dell’universo, difficilmente afferrabile e catturabile (dusa,lwto,n ti crh/ma
kai. dusqh,raton), poiché sempre si allontana e si ritrae davanti a chi lo insegue
(evxanacwrou/n avei. kai. po,rrw avfista,menon tou/ diw,kontoj)309.

La conoscenza delle cose visibili e invisibili tra cui anche di quelle divine è lo
scopo della filosofia cristiana310. Essa si basa non soltanto sulla ragione naturale, che di
per sé è debole e incapace di comprendere le cose di Dio, ma anche sulla Sapienza –
“artefice di ogni cosa”, cioè sul Logos311. Nonostante l’assistenza di questo elemento
sovrannaturale, che nel passo precedente viene definito come grazia (ca,rij), il filosofo
cristiano non riesce ad afferrare o a catturare l’oggetto della sua ricerca, perché esso
continuamente “si allontana e si ritrae”312. Va apprendendo sempre di più del modo del
suo agire nel mondo e nella storia, ma non è capace a comprendere che cos’è colui che è
il principio e la guida dell’universo (h`gemw.n tou/ panto,j). In altre parole, il filosofo
passo a passo si avvicina a Dio, riesce a scorgere la grandezza della sua potenza, ma non
è mai in grado di conoscere l’essenza divina313.

dell’etica; in quanto poi è Intelletto, è principio della scienza del pensiero e del giudizio. Onde unico
maestro è il Logos, Figlio dell’altissimo Padre che è intelletto. Egli è l’educatore dell’uomo”.
L’uomo dunque riesce a concepire Dio come il principio di molte cose, però l’essenza di questo
Principio che trascende tutto rimane nascosta alla cognizione umana. Cfr. Clem., Strom. V 81,3-4: “E
l’apostolo Giovanni [dice]: «Dio non lo ha mai visto nessuno: l’Unigenito Dio, quegli che è nel seno del
Padre, egli lo rivelò» (Io. 1,18), egli che nominò seno di Dio l’invisibile e l’ineffabile (avo,raton kai.
a;rrhton). Onde alcuni lo hanno chiamato abisso (cfr. Iren., Adv. Haer. I 1,1), perché tiene come avvolte e
abbracciate in seno tutte le cose: irraggiungibile e infinito insieme (avne,fikto,n te kai. avpe,ranton). Ed è
precisamente questa la questione teologica più difficile da trattare: se il principio di ogni cosa è difficile
da rintracciarsi, allora il primo e più antico principio sarà sommamente difficile da dimostrare, perché è
esso anche per gli altri esseri tutti causa della nascita e dell’esistenza”.
308
Sap. 7,21
309
Clem., Strom. II 5,2-3.
310
Poche righe prima del passo citato Clemente afferma che la “filosofia barbara” (cioè cristiana)
si occupa anche dello studio della natura, ossia “di tutte le cose che si sono formante nel mondo sensibile
(aivsqhto,j)”. Cfr. Strom. II 5,1. La citazione dalla Sapienza che viene riportata nel nostro passo parla di
krupta. kai. evmfanh/, cioè delle cose nascoste e manifeste. Quindi la filosofia cristiana, come quella pagana
cerca di comprendere la struttura e i principi delle realtà visibili e invisibili (aivsqhto,j e nohto,j).
Comunque supera quella seconda, perché aspira anche alla conoscenza delle cose divine che sono
nascoste (krupta,) alla conoscenza naturale.
311
Cfr. Clem., Strom. VII 7,4; VI 61,1.
312
Ricordiamo che il concetto simile abbiamo incontrato anche in Filone. Cfr. Phil., Poster. 18
(citato nel paragrafo 1.4), dove l’autore ebreo altresì afferma che il sapiente lungo il suo cammino
spirituale comincia a rendersi conto che l’oggetto della sua ricerca è “difficile da catturare”, perché “si
tira sempre indietro e si mantiene ben lontano”.
313
Infatti, subito dopo il passo qui riportato segue il testo che abbiamo citato nel paragrafo 2.2,
nel quale il nostro autore afferma che Dio è lontano per essenza (po,rrw me.n katVouvsian), ma vicinissimo
255

Osserviamo, inoltre, che questo avvicinamento a Dio è riservato a coloro che


insieme all’esercizio intellettuale conducono la vita moralmente buona, ossia si
esercitano anche nella pratica delle virtù. In questo modo, l’anima che si assimila a Dio,
comprende sempre di più della vita divina, appunto attraverso l’assimilazione. Infatti,
secondo il concetto platonico, noto a Clemente, il simile è conoscibile attraverso il
simile314. E questo è l’unico modo di apprendere qualcosa della perfetta natura di Dio,
perché di per sé l’essenza divina è inconoscibile e non può essere oggetto della scienza:

Dio dunque, indimostrabile, non può essere oggetto di scienza


(avnapo,deiktoj w'n ouvk e;stin evpisthmoniko,j); invece il Figlio è sapienza,
scienza, verità e tutto quanto a queste qualità è inerente, e perciò offre
possibilità di dimostrazione e di descrizione315.

Dato che il Logos è sapienza, scienza e verità, e poiché è presente nel mondo e
nell’intelletto umano attraverso la sua potenza, è dimostrabile e descrivibile. Infatti, ciò
che è immanente al mondo può essere oggetto della scienza. E appunto per questo
motivo i filosofi antichi erano in grado di scoprire il Logos, e per il suo tramite di
conoscere, almeno parzialmente, le verità divine316. Invece, ciò che è Dio nella sua
essenza sfugge ad ogni tentativo dell’intelletto umano. Dato che egli è l’unico
ingenerato, e siccome trascende tutte le realtà visibili e invisibili, è assolutamente
indimostrabile e inafferrabile. Invero, non può essere appreso e descritto
scientificamente ciò che è al di là di ogni possibile oggetto della scienza umana317.
Perciò Clemente afferma altrove: “E nemmeno con la scienza della dimostrazione egli

per la sua potenza (evgguta,tw de. duna,mei). Cfr. Clem., Strom. II 5,4-6,2. Questa potenza “è sempre
presente e ci tocca con la sua forza vigile, benefattrice, educatrice”. Il filosofo, dunque, si avvicina alla
comprensione dei molteplici modi dell’attività di Dio nel mondo e così comprende la grandezza della
potenza divina.
314
Abbiamo detto “concetto platonico”, anche se era già nella filosofica presocratica, perché
appunto Platone ne fa uso in diversi luoghi delle sue opere, e probabilmente da esse lo desunse Clemente.
Cfr. Plat., Tim. 90 D; Lys. 214 B; Gorg. 510 B. Cfr. anche Clem., Strom. V 18,5: “Infatti noi
apprendiamo, mediante una nozione simile, ciò che le è simile”. Troviamo però testimonianze che prima
di Platone ne parlava anche Empedocle e i pitagorici. Cfr. Aristot., Anim. 404 B; Metaph. 1000 B (=DK
31 B 109); Sext., Adv. Math. VII 92 (=DK 44 A 29).
315
Clem., Strom. IV 156,1.
316
Cfr., ad esempio, Clem. Protr. 74,7; 68, 1-3; Strom. I 57,1-6. Ne abbiamo parlato nel
paragrafo 1.1.
317
Ricordiamo che anche secondo Filone l’intelletto umano non è in grado, con le proprie forze
naturali, di comprendere Dio trascendente. Cfr. Phil., Deus 62; Mutat. 7. Aggiungiamo che all’epoca di
Clemente anche il medioplatonico Numenio (cfr. Fr. 17, É. des Places), e gli gnostici (cfr. Iren., Adv.
Haer. I 1,1; 2,1; Clem., Exc. Ex Theod. 7,1) concepivano Dio come inconoscibile. Sull’argomento cfr. S.
Lilla, Clement of Alexandria…, pp. 217 sgg.; Id., Introduzione al Medio platonismo…, nota 353, p. 102,
dove lo studioso italiano afferma: “Il motivo dell’inconoscibilità di Dio avvicina Numenio più a Filone
che ad altri esponenti del medioplatonismo, per i quali Dio può essere compreso con l’intelligenza o è
conoscibile solo ai sapienti”.
256

può essere colto (ouvde. evpisth,mh| lamba,netai th|/ avpodeiktikh|/), perché quella si costruisce
sulla base di premesse anteriori e più note, mentre all’Ingenerato nulla preesiste”318.
Un’altra volta, dunque, possiamo notare che l’assoluta trascendenza ontologica di Dio è
la causa della sua trascendenza gnoseologica319. Esiste però un modo, che secondo
Clemente, permette all’uomo di arrivare a qualche, non erroneo, concetto di Dio che è
quello della via negationis:

Noi possiamo raggiungere la fase della purificazione mediante la


confessione, quella della contemplazione ascendendo, mediante l’analisi, verso
l’Intelligenza prima. Si comincia con l’analisi degli esseri che le sono soggetti,
astraendone le qualità fisiche, spogliandone la dimensione in profondità, poi
quella in larghezza, da ultimo quella in lunghezza. Il punto che resta è l’unità.
Essa serba ancora, per così dire, una posizione. Se la spogliamo della posizione,
si giunge al concetto di unità. Se poi, astraendo da tutte le qualità inerenti ai
corpi e alle così dette realtà incorporee, ci slanciamo nella grandezza del Cristo
(eivj to. me,geqoj tou/ Cristou/) e di qui procediamo in santità [di vita] verso
l’abisso (eivj to. avcane.j), allora potremo in qualche modo giungere
all’intelligenza dell’Onnipotente (th|/ noh,sei tou/ pantokra,toroj): conoscendo
però non ciò che è, ma ciò che non è (ouvc o[ evstin( o] de. mh, evsti gnwri,santej).
Una forma, un moto, uno stato, una sede o luogo, una destra o una sinistra del
Padre dell’universo non sono affatto cose da concepire: eppure sono state scritte
anche queste; ma che cosa poi voglia significare ognuno di quegli attributi, si
chiarirà a suo tempo320.

In questo passo Clemente espone il metodo di astrazione, noto anche ai


neopitagorici e ai medioplatonici dell’epoca321, attraverso il quale l’uomo è in grado di
giungere a qualche concetto di Dio. Spogliando, dunque, teoricamente gli esseri
appartenenti al livello aivsqhto,j delle loro qualità fisiche, ossia della profondità,
larghezza e lunghezza si arriva alla nozione del punto che, secondo la definizione
aristotelica322, possiede ancora una posizione. Astraendo dalla posizione il filosofo
giunge al puro concetto dell’unità. Però, Dio non è soltanto l’unità, egli è l’Intelligenza,

318
Clem., Strom., V 82,3.
319
Cfr. anche Clem., Strom., V 65,2.
320
Clem., Strom. V 71,2-4.
321
Cfr., ad esempio, Alcin., Did. V 4-5. Cfr. anche J. Whittaker, Neopythagoreanism and
Negative Theology, SymO 44 (1969), pp. 109-125; S. Lilla, Clement of Alexandria…, p. 221; R. Mortley,
The Fundamentals of the Via Negativa, AJPh 103 (1982), pp. 429-439; R. Mortley, From Word to
Silence, vol. II: The Way of Negation Christian and Greek, Bonn 1986, pp. 12-32; E. Osborn, Clement of
Alexandria…, p. 124; H. F. Hägg, Clement of Alexandria…, pp. 120 sgg.
322
Cfr. Aristot., Anim. 409 A 6; An. Post. 87 A 36.
257

l’Onnipotenza (e sicuramente anche la Bontà, la Giustizia e la Misericordia etc.). Per


comprendere tutto ciò che Dio è, uno deve “slanciarsi – come suggerisce l’Alessandrino
– nella grandezza di Cristo e di qui procedere in santità di vita verso l’abisso”323. Infatti,
il Cristo in quanto potenza e sapienza di Dio, rivela perfettamente i caratteri del Padre,
ma anche, in quanto pedagogo e medico dell’anima, insegna all’uomo come elevarsi
oltre le cose sensibili e salva dalle passioni che gli impediscono di progredire nella
conoscenza del divino324. In ogni modo, anche in questo caso l’esercizio intellettuale
accompagnato dalla buona condotta morale e dalla grazia divina non può procurare la
cognizione dell’essenza di Dio. Infatti, il filosofo giunge sempre e soltanto alla scienza
negativa, e cioè che gli attributi divini, nonostante siano omonimi degli appellativi con i
quali l’uomo descrivere le realtà terrene, sono assolutamente diversi da tutte le qualità
inerenti ai corpi e alle realtà incorporee. Conosce di Dio non ciò che egli è, ma ciò che
non è (ouvc o[ evstin( o] de. mh, evsti gnwri,santej)325. Clemente, come viene accennato alla

323
Notiamo che per la parola ‘abisso’ Clemente non utilizza il termine gnostico buqo,j (cfr.
Epiph., Pan. 31,5,8; 6,3; Iren., Adv. Haer. I 1,1; 8,4; 21,2; Ps.-Hippol., Refut. VI 30,7), ma la parola to.
avcane,j che significa anche infinito o vuoto. Infatti, il concetto al quale conduce la via negationis è
“vuoto”, ossia privo di qualsiasi qualità concepibile dall’uomo.
Ricordiamo che A. Choufrine, citato nel paragrafo 2.2: La trascendenza ontologica di Dio,
utilizza questo passo (oltre molti altri) per mostrare che in Clemente è presente il positivo concetto
dell’infinità di Dio e del Logos. Cfr. A. Choufrine, Gnosis…, pp. 173 sgg. Secondo lo studioso,
l’Alessandrino si serve della definizione dell’infinito in numero formulata nel Parmenide di Platone e
dell’infinito in grandezza formulata da Aristotele nella Fisica. Dio dunque è infinito in quanto “Uno” (to.
e[n) e il Logos è infinito secondo la grandezza (to. me,geqoj). In questo modo, conclude il Choufrine,
Clemente “inscribes into the scheme of Plato’s Parmenides the Aristotelian concept of infinity”. Ibid.
175. Cfr. anche E. Osborn, Clement of Alexandria…, p. 126: “God and his bosom are infinite in different
ways. The father includes nothing; the bosom includes all things. One can be limitless in two ways: by
drawing limits together until they disappear, or by unceasingly pushing them further apart. The father is
infinite in the first way, the son in the second. Both are God who is infinite in both ways, this is why is
hard to talk about him”.
324
Cfr. A. Le Boulluec, in Clément d’Alexandrie, Les Stromates, tom. 5: Stromate V, vol. II:
Commentaire, bibliographie et index, SCh 279, Paris 1981, p. 247; D. T. Runia, Clement of Alexandria
and the Philonic Doctrine of the Divine Power(s)…, p. 267.
325
Sull’argomento della teologia negativa di Clemente rimandiamo a uno studio recente di H. F.
Hägg, che abbiamo già citato: Clement of Alexandria and the Beginnings of Christian Apophaticism,
spec. pp. 154 sgg. e 217 sgg. A proposito del passo che abbiamo riportato sopra (Strom. V 71,2-4) lo
studioso osserva: “Clement here distinguishes himself from the more philosophical approaches and
practices of the via negativa, not only by such formulas as ‘casting himself into the greatness of Christ’,
but also by again pointing to the spiritual/ethical side of the process, that the road must be tread ‘by
holiness’. It is difficult, I think, to express the basic nature of apophatic theology in more adequate terms
than Clement does in this last phrase: arriving at the point, we abstract its position and are left with unity
itself. After the method of abstraction has been exhausted, however, one advances, by an extra-rational
step, into the ‘immensity of Christ’. But not even Christ can mediate knowledge of God; if there is
knowledge to be gained, it is a negative one. The consistency as well as perseverance in Clement’s
thought regarding the inaccessibility of God is remarkable”. Ibid., p. 225. Cfr. anche R. Mortley, From
Word to Silence…, vol. II, spec. chapter II: The First Christian negative theology: Justin and Clement, pp.
33-44, secondo il quale Clemente è stato il primo pensatore cristiano ad adoperare in modo sistematico la
via negationis. I suoi predecessori – apologisti, infatti, anche se utilizzavano nei confronti di Dio le
espressioni proprie della teologia negativa (come ad esempio gli aggettivi con a-privativo), e anche se
sostenevano l’inconoscibilità della natura divina, non hanno descritto il procedimento metodologico
attraverso il quale l’intelletto umano giunge alla nozione negativa di Dio.
258

fine del passo sopraccitato, avrebbe dovuto parlare degli attributi divini in un altra
opera, probabilmente mai scritta326. Ma anche negli Stromati troviamo alcune
spiegazioni su come devono essere concepiti gli appellativi che vengono comunemente
utilizzati nei confronti di Dio:

E se mai volgiamo designarlo, e lo designiamo, impropriamente (ouv


kuri,wj kalou/ntej), o l’Uno o il Bene o l’Intelletto o l’Essere in sé o Padre o Dio
o Creatore o Signore, non diciamo [queste definizioni] come proferendo il suo
nome, ma in mancanza di meglio applichiamo begli appellativi, perché il
pensiero possa basarsi su di essi senza aberrare con il ricorrere ad altri: ogni
singolo termine non può significare Dio, ma tutti nel loro complesso sono
indicativi della potenza dell’Onnipotente (avqro,wj a[panta evdeiktika. th/j tou/
pantokra,toroj duna,mewj). Poiché le cose di cui si parla sono designabili in base
alle qualità loro inerenti o alla relazione reciproca; ma niente di ciò può essere
assunto a proposito di Dio327.

Dato che Dio è inconoscibile, è anche assolutamente ineffabile. Infatti,


conoscere il nome proprio significa conoscere l’essenza di una cosa. Perciò, come per
Filone, così anche per Clemente Dio non può avere nessun nome che possa
adeguatamente esprimere la sua natura328. L’intelletto umano abituato a descrivere le
qualità del livello aivsqhto,j o ciò che, nonostante sia nohto,j, entra in qualche relazione
con il mondo visibile, non è in grado di trovare il nome proprio per l’essere che
trascende tutta la realtà visibile e invisibile. Tutti gli appellativi, dunque, dei quali si
serve l’uomo per parlare di Dio, vengono utilizzati in modo improprio (ouv kuri,wj).
Indicano piuttosto ciò che Dio è nei confronti del creato, ma non ciò che è Dio in sé,
ossia sono indicativi della sua potenza (du,namij) e non della sua essenza (ouvsi,a)329.
Inoltre, l’informazione contenuta nell’appellativo che l’uomo adopera parlando di Dio
(o Padre o Creatore o Signore), descrive soltanto qualche aspetto della divina
onnipotenza. Pertanto, come suggerisce l’Alessandrino, per avere più adeguato concetto
326
Cfr. anche Clem., Strom. IV 2,1-2.
327
Clem., Strom. V 82,1-4.
328
Cfr. Phil., Migrat. 40; Mutat. 10-11; Somn. I 230-231.
329
Cfr. anche Clem., Strom. II 72,4: “Infatti non è possibile parlare della divinità nel modo come
essa è, ma viceversa, nel modo come era possibile che intendessimo noi, inviluppati nella carne, così ci
parlavano i profeti. Il Signore si adatta, per fin di salvezza, alla debolezza umana”. Per questo motivo, il
linguaggio che più adeguatamente descrive la natura divina è quello proprio della teologia negativa. E
infatti Clemente utilizza nelle sue opere un gran numero degli aggettivi con a-privativo che contengono
informazione concernente piuttosto ciò che Dio non è che ciò che egli è. Secondo il nostro autore,
dunque, Dio è: avo,ratoj, avdiai,retoj, a;peiroj, avge,nnhtoj, a;narcoj, avschma,tistoj, a;fqartoj, avpaqh,j. Per la
lista completa degli aggettivi con a-privativo utilizzati dall’Alessandrino cfr. H. F. Hägg, Clement of
Alexandria…, p. 159.
259

di Dio bisogna utilizzarli tutti nel loro complesso. Però, anche in questo caso non si è in
grado di esprimere ciò che è l’essenza divina, ma si comprende meglio la multiforme
attività di Dio al di là della sua essenza330. E questa attività, come ormai sappiamo, è il
Logos divino. Egli, dato che entra in contatto con il livello aivsqhto,j, offre la possibilità
di descrizione331.

A questo proposito dobbiamo ritornare all’argomento dell’incarnazione del


Logos ed esaminare la questione, alla quale abbiamo accennato nel paragrafo
precedente, e cioè quella relativa la gnosi portata dal Salvatore. Finora, infatti, abbiamo
parlato dell’inconoscibilità e ineffabilità di Dio soprattutto in considerazione delle
capacità naturali dell’intelletto umano. Ma in molti luoghi delle sue opere, Clemente
esprime la convinzione che coloro che avevano creduto nel Logos incarnato e vivono
secondo il suo insegnamento sono capaci di comprendere molto di più della natura di
Dio che coloro che lo cercano basandosi solamente sulle forze naturali332. Anzi, già il
fatto stesso dell’incarnazione rivela, secondo il nostro autore, qualcosa della natura del
Dio inconoscibile333. Per di più, tra quelli che avevano creduto e sono diventati cristiani
ci sono, come ormai sappiamo, i fedeli semplici e gli gnostici. Il loro livello della
cognizione delle cose divine non è uguale. Perciò nasce la presene questione: a che tipo
di cognizione del divino è in grado di arrivare lo gnostico cristiano? Per rispondere a

330
Sull’argomento cfr. P. L. Reynolds, The Essence, Power and Presence of God…, p. 361; H. F.
Hägg, Clement of Alexandria…, pp. 246-251, che nel paragrafo intitolato: The Distinction between
Essence and Dynamis riporta e analizza diversi passi delle opere di Clemente nei quali viene espresso il
concetto dell’inconoscibilità dell’essenza divina a differenza della conoscibilità della sua potenza. La
maggior parte di essi abbiamo citato anche noi nel corso di questo capitolo.
Occorre comunque notare che neppure la potenza divina è fino in fondo afferrabile ed
esprimibile da parte dell’uomo. Infatti Clemente scrive altrove: “Il Dio dell’universo, che sta al di sopra
d’ogni pensiero, d’ogni concetto, non potrà mai essere affidato alla scrittura, essendo ineffabile nella sua
potenza (o` ga.r tw/n o[lwn qeo.j u`pe.r pa/san fwnh.n kai. pa/n no,hma kai. pa/san e;nnoian ouvk a;n pote
grafh|/ paradoqei,h( a;rrhtoj w'n duna,mei th|/ au`tou/). Clem., Strom. V 65,2.
331
Cfr. il passo citato precedentemente Strom. IV 156,1.
332
Cfr. Clem., Strom. VI 162,4: “Infatti, la vera scienza, che a nostro avviso solo lo gnostico
possiede, è una comprensione sicura che attraverso prove razionali vere e solide conduce alla gnosi della
causa”. Cfr. anche Strom. I 177,1: “Impegno filosofico congiunto alla verità, la verità dialettica esamina
la realtà e sa distinguere le Dominazioni e le Potestà; poi trascende via via all’Essenza sovrana e osa
spingersi oltre (evpe,keina), verso l’Iddio dell’universo. Né promette esperienze profane, ma scienza di
realtà divine e celesti, cui tiene dietro un’adeguata pratica delle cose umane, nelle parole e nelle azioni”.
Questi due passi mostrano che la conoscenza che possiede lo gnostico cristiano è superiore rispetto a
quella raggiungibile attraverso la sola ragione naturale. Infatti, la filosofia cristiana tende a spingersi
verso la comprensione del Dio inconoscibile. E ciò è in qualche modo possibile appunto a causa della
rivelazione portata dal Figlio. “Da lui [lo gnostico] apprende la Causa [oltre le cause], la più antica, la più
benefica di tutte, il Padre dell’universo”. Clem., Strom. VII 2,3. Cfr. anche Strom. II 45,7; V 12,3 e altri.
333
Cfr. Clem., Strom. V 33,6-34,2: “Il pensiero di Dio è inaccessibile all’udito e alle altre facoltà
del genere. Per questo il Figlio è detto «faccia di Dio» (cfr. Ps. 23,6, in LXX): Egli rivestì la carne
rendendosi percepibile ai cinque sensi, Egli, il Logos, rivelatore dei caratteri propri del Padre (o` tou/
patrw|,ou mhnuth.j ivdiw,matoj)”.
260

questa domanda dobbiamo prendere in esame il concetto della “gnosi” in Clemente. A


questo proposito leggiamo:

La “gnosi” è, in una parola, una sorta di perfezionamento dell’uomo in


quanto uomo; essa si completa mediante la scienza delle cose divine, nelle
abitudini di vita e nella parola, concorde e coerente con se stessa e con il Logos
divino. Per la “gnosi” diventa perfetta la fede, perché il fedele diventa perfetto
soltanto con essa. La fede è un bene interiore, che confessa l’esistenza di Dio
anche senza cercarlo e lo glorifica come esistente. Da questa base di fede
bisogna dunque elevarsi per ricevere, crescendo in essa per grazia di Dio, la
“gnosi” intorno a lui nella misura del possibile. Noi affermiamo poi che la
“gnosi” differisce dalla sapienza che si ottiene per insegnamento, poiché in
quanto qualcosa è “gnosi”, in tanto è assolutamente anche sapienza, ma in
quanto qualcosa è sapienza, non assolutamente è “gnosi”. Infatti ci si può
rappresentare il termine “sapienza” nell’<ambito> del solo discorso
espressamente manifestato. Del resto il non dubitare di Dio, ma credere è il
fondamento della “gnosi”. Ora il Cristo è ambedue le cose, cioè il fondamento e
la costruzione postavi sopra: perciò egli è il principio e la fine. I due estremi, il
principio e la fine, non s’insegnano, e sono la fede e l’amore; ma la “gnosi”,
trasmessa per tradizione, è affidata come un deposito, per grazia di Dio, a quelli
che si rendono degni del suo insegnamento: e da essa rifulge la dignità
dell’amore, di luce in luce. È detto infatti: «A chi ha sarà dato in aggiunta»334:
alla fede la “gnosi”, alla “gnosi” l’amore, all’amore l’eredità. E ciò avviene
quando uno si fa dipendente dal Signore per fede, per “gnosi”, per amore, e
ascende con Lui là dove è il Dio e Custode della nostra fede e del nostro
amore335.

334
Matth. 25,29.
335
Clem., Strom. VII 55,1-56,1. Dato che è un passo importante riportiamo l’intero testo greco:
e;stin ga,r( w`j e;poj eivpei/n( h` gnw/sij telei,wsij tij avnqrw,pou w`j avnqrw,pou( dia. th/j tw/n qei,wn
evpisth,mhj sumplhroume,nh kata, te to.n tro,pon kai. to.n bi,on kai. to.n lo,gon( su,mfwnoj kai. o`mo,logoj
e`auth|/ te kai. tw|/ qei,w| lo,gw|) dia. tau,thj ga.r teleiou/tai h` pi,stij( w`j telei,ou tou/ pistou/ tau,th| mo,nwj
gignome,ou) pi,stij me.n ou=n evndia,qeto,n ti, eviti avgaqo,n( kai. a;neu tou/ zhtei/n to.n qeo.n o`mologou/sa ei=nai
tou/ton kai. doxa,zousa w`j o;nta) o[qen crh,( avpo. tau,thj avnago,menon th/j pi,stewj kai. auvxhqe,nta evn auvth|/
ca,riti tou/ qeou/( th.n peri. auvtou/ komi,sasqai w`j oi-on, te, evitin gnw/sin) gnw/sin de. sofi,aj th/j kata.
didaskali,an evgginome,nhj diafe,rein fame,n) h|- me.n ga,r ti, evsti gnw/sij( tau,th| pa,ntwj kai. sofi,a
tugca,nei( h|- de, ti sofi,a( ouv pa,ntwj gnw/sij) evn mo,nh| ga.r th|/ tou/ proforikou/ lo,gou to. th/j sofi,aj
o;noma fanta,zetai) plh.n avlla. to. mh. dista,sai peri. qeou/( pisteu/sai de. qeme,lioj gnw,sewj( a;mfw de. o`
Cristo,j( o[ te qeme,lioj h[ te evpoikodomh,( diV ou- kai. h` avrch. kai. ta. te,lh) kai. ta. me.n a;kra ouv
dida,sketai( h[ te avrch. kai. to. te,loj( pi,stij le,gw kai. h` avga,ph( h` gnw/sij de. evk parado,sewj diadidome,nh
kata. ca,rin qeou/ toi/j avxi,ouj sfa/j auvtou.j th/j didaskali,aj parecome,noij oi-on parakataqh,kh
evgceiri,zetai(avfV h-j to. th/j avga,phj avxi,wma evkla,mpei evk fwto.j eivj fw/j) ei;rhtai ga.r ¹tw|/ e;conti
prosteqh,setai¹( th|/ me.n pi,stei h` gnw/sij( th|/ de. gnw,sei h` avga,ph( th|/ avga,ph| de. h` klhronomi,a) gi,netai de.
tou/to( o`po,tan tij kremasqh|/ tou/ kuri,ou dia, te pi,stewj dia, te gnw,sewj dia, te avga,phj kai. sunanabh|/
auvtw|/ e;nqa evsti.n o` th/j pi,stewj h`mw/n kai. avga,phj qeo.j kai. frouro,j .
261

La gnosi, dunque, è il perfezionamento dell’uomo (telei,wsij tij avnqrw,pou) che


può essere raggiunto soltanto per la grazia di Dio (ca,riti tou/ qeou/)336. Tale
perfezionamento riguarda la fede e la sapienza che sono la base della gnosi. Notiamo,
però, che sia la fede sia la sapienza vengono intese in questo passo in senso riduttivo.
Infatti, la fede viene concepita soltanto come “un bene interiore, che confessa
l’esistenza di Dio anche senza cercarlo e lo glorifica come esistente”337. Nello stesso
modo la sapienza: essa può essere ottenuta “per insegnamento” ed è formulabile in un
“discorso espressamente manifestato”. La gnosi, invece, completa e supera la fede e la
sapienza definite in maniera qui esposta. In realtà, essa crede non soltanto nell’esistenza
di Dio, ma si spinge oltre e cerca di comprendere le cose “intorno a lui nella misura del
possibile”. Inoltre, non solo vuole comprendere intellettualmente, ma cerca di

336
A questo punto occorre sottolineare che il termine gnw/sij riceve in Clemente diversi
significati. Nel passo di Strom. VI 2,4-3,2, ad esempio, troviamo le tre seguenti definizioni di questa
nozione: “[1]: La nostra “gnosi” – il nostro giardino spirituale – è lo stesso Salvatore nel quale siamo stati
innestati; trasferiti e trapiantati nella terra buona dalla vita vecchia; e il trapianto conferisce alla bontà dei
frutti. Luce è il Signore e la vera “gnosi” di Lui, nel quale siamo stati trasferiti. [2]: Si parla poi, anche in
altri campi, di un duplice tipo di “gnosi”. Una è nel senso comune, ed è l’intelligenza e la facoltà di
percezione che si manifesta in genere ugualmente in tutti gli uomini nell’atto di prendere conoscenza di
ogni oggetto. Di essa partecipano non solo gli esseri razionali; io non la chiamerei “gnosi”, proprio perché
è per natura atta ad una percezione anche sensoriale. [3]: L’altra, detta “gnosi” per eccellenza, è
caratterizzata dall’intelligenza e dalla ragione, per essa diventeranno “gnosi” i soli esseri razionali, che si
applicano agli intelligibili per l’attività pura dell’anima, assolutamente”.
Secondo E. Osborn, i diversi significati della nozione gnw/sij che troviamo in Clemente sono
riducibili ai due principali: A) la gnosi “spirituale” – delineata nella prima definizione del passo appena
citato, e B) la gnosi “logica” – delineata nella terza definizione. La gnosi legata alla percezione sensoriale
(la seconda definizione), anche se da alcuni filosofi è considerata come un tipo della vera conoscenza,
secondo l’Alessandrino, che in questo punto si ispira alla filosofia platonica, non dovrebbe essere
chiamata con il termine “gnosi”. Sull’argomento cfr. E. F. Osborn, The Philosophy of Clement of
Alexandria…, spec. chapter 11: Logical Knowledge, pp. 146-157 e chapter 12: Spiritual Knowledge pp.
158-167. Cfr. anche H. F. Hägg, Clement of Alexandria…, pp. 208 sgg. Nel passo che esaminiamo sopra
(Strom. VII 55,1-56,1) si tratta evidentemente della gnosi di tipo “spirituale”, ossia quella legata
rivelazione del Logos.
337
Dobbiamo, però, tenere presente che l’argomento della “fede” è uno dei fili centrali degli
Sromati e non può essere ridotto soltanto all’affermazione espressa sopra. Infatti, questo concetto
(similmente come quello della “gnosi”) viene esaminato dal nostro autore da diversi punti di vista. Così,
ad esempio, la fede nell’ambito dell’epistemologia è un assenso razionale alle idee, opinioni o giudizi
indimostrabili scientificamente, ma ritenuti come ovvi (cfr. Strom. II 54,3-55,2; VII 95,6; VIII 7,1-2); è
anche il giudizio che segue alla scienza, in quanto dà assenso alla conclusione riuscita dalla dimostrazione
scientifica (cfr. Strom. II 15,5-16,1); è la confessione dell’esistenza di Dio (come nel passo citato sopra);
è la virtù che confessa il Logos come Salvatore e tiene unita la Chiesa (Strom. II 55,3-4; V 1,1-4; VI
44,4); è un atto di assenso alle verità che sono risultato dello studio della dottrina cristiana (Strom. II 48,1-
2; V 2,4-6). In questo ultimo senso la fede in correlazione con adempimento dei comandamenti del Logos
si avvicina al concetto della gnosi, che appunto è perfezionamento della fede. Infatti, nel passo qui
segnalato (V 2,4-6) Clemente parla di una duplice fede: quella dei semplici e quella che raggiunge la
perfezione – “la fede più elevata, costruita sopra la prima”. Sull’argomento Cfr. T. Camelot, Foi et gnose.
Introduction a l’étude de la connaissance mystique chez Clemént d’Alexandrie, Paris 1945, pp. 23-68; H.
A. Wolfson, La filosofia dei Padri…, pp. 113-120; H. Chadwick, Early Christian Thought…, pp. 51-54;
S. Lilla, Clement of Alexandria..., pp. 119-142; E. F. Osborn, Arguments for Faith in Clement of
Alexandria, VigChr 48 (1994), pp. 1–24; J. Lössl, Der Glaubensbegriff des Klemens von Alexandrien im
Kontext der hellenistischen Philosophie, ThPh 77 (2002), pp. 321-337; P. Karavites, Evil, Freedom, and
the Road to Perfection…, pp. 142 sgg.
262

conoscerlo per amore, dunque in un modo intraducibile in un discorso logico. Un’altra


caratteristica, molto importante, della gnosi che troviamo in questo passo è che essa è
stata “trasmessa per tradizione” (evk parado,sewj diadidome,nh), perciò riguarda
l’insegnamento di Cristo tramandato dagli apostoli338. E nonostante Clemente, insieme a
Paolo, affermi a volte che “non da tutti è la gnosi”339, essa non è tale perché è destinata
agli eletti per natura, ma perché non tutti i fedeli si apprestano di realizzare nella vita i
precetti evangelici340. Non tutti, dunque, diventano gli gnostici, anche se tutti, appunto
per la tradizione, hanno ricevuto i requisiti necessari per la salvezza341.

La gnosi, allora, può essere raggiunta attraverso il cammino teoretico e pratico


che, da una parte, consiste nell’approfondimento dell’insegnamento di Cristo, dall’altra
nella pratica dei suoi comandamenti. Quindi, coincide con il concetto dell’assimilazione
a Dio (o`moi,wsij qew|)/ , al quale abbiamo accennato nel paragrafo precedente342. In questo
cammino spirituale e morale dello gnostico il Logos incarnato diventa la guida e il

338
Cfr. Clem., Strom. IV 130,4: “Nel Vangelo poi lo “gnostico” progredisce via via, senza
basarsi solo sulla legge come su di un gradino, ma comprendendola e interpretandola come la trasmise
agli apostoli quel Signore che ci ha dato i Testamenti”. Sull’argomento della gnosi che viene trasmessa
per tradizione cfr. anche Clem., Strom. I 11,2-3; Ecl. Proph. 27,1-32,3.
339
Cfr. 1 Cor. 8,7; Clem., Strom. I 2,2; V 61,3; 62,1.
340
Bisogna comunque aggiungere che in Clemente troviamo parecchi passi che parlano di una
tradizione segreta e che sottolineano il carattere esoterico della gnosi cristiana. Cfr. Strom. I 13,1-2; V
35,5; 80,3; VI 116,1; 126,1-2; 129,4 e altri. Spiegando questo fenomeno, S. Lilla scorge un’influenza
delle correnti filosofiche ed ideologiche dell’epoca (come la filosofia giudaica alessandrina, il
medioplatonismo, il neoplatonismo e lo gnosticismo) che Clemente voleva imitare. Cfr. S. Lilla, Clement
of Alexandria..., pp. 144-158. Nonostante ciò la gnosi, come abbiamo osservato sopra, è riservata non agli
eletti per naturam, ma a coloro che si fanno degni di essa attraverso l’esercizio morale ed intellettuale. E
questa è la più importante differenza tra l’esoterismo clementino e quello degli gnostici. Sull’argomento
cfr. anche G. G. Stroumsa, Hidden Wisdom. Esoteric Traditions and the Roots of Christian Mysticism,
Leiden 2005; H. F. Hägg, Clement of Alexandria…, pp. 135-152, A. C. Itter, Esoteric Teaching in the
‘Stromateis’ of Clement of Alexandria, Leiden – Boston 2009.
341
Cfr. Clem., Strom. II 11,2; V 9,2; V 18,3; VII 29,6-8. Cfr. H. F. Hägg, Clement of
Alexandria…, p. 151, che giustamente afferma: “Gnosis, as mentioned above, may be seen as a twofold
thing: it is, on the one hand, a subject matter and, on the other, a way or a process. As to the first aspect,
gnosis is often used as an equivalent of God’s message in Scripture, also called a mystery, or even
mysteries. The mysteries of God that are veiled in the prophesies have, according to Clement, been
revealed in our time: it is the paradox of the coming of the Lord (Protr. 111.2). Gnosis is thus essentially
the Logos himself, or Christ, the mystery of God”.
342
Nel paragrafo precedente abbiamo parlato del concetto dell’assimilazione nei confronti della
nozione dell’avpa,qeia. Poiché Dio è avpaqh,j, e dato che il Logos incarnato realizzò nella sua vita l’ideale
stoico dell’avpa,qeia, anche lo gnostico per assimilarsi a Dio deve seguire il modello di vita tracciato dal
Salvatore. Ora vediamo che il processo dell’o`moi,wsij qew|/ è molto più complesso. Infatti, secondo il
famoso passo platonico del Theaet. 176 A-B, noto e citato esplicitamente sia da Filone sia da Clemete,
rendersi simili a Dio significa “diventare giusti e santi, acquistando saggezza” (o`moi,wsij de. di,kaion kai.
o[sion meta. fronh,sewj gene,sqai). Lo gnostico, dunque, non solo deve diventare impassibile, ma deve
anche praticare la giustizia, l’amore come del resto tutte le altre virtù intellettuali e morali.
Sull’argomento dell’o`moi,wsij cfr. Clem., Paed. I 4,1-2; 9,1; 99,1; Strom. I 52,3; II 45,7; 80,5-81,1; 100,3-
4; 131,5-6; III 42,1; 69,3; IV 30,1; 137,1; 168,2; V 94,4-95,1; VI 77,4-5; 114,4-115,1; VII 13,2-3; 16,5-6
e altri. Su diversi componenti del concetto dell’o`moi,wsij qew|/ parlano P. H. Merki, ~OMOIWSIS QEW|…,
pp.48-60; S. Lilla, Clement of Alexandria..., pp. 109-117; P. Karavites, Evil, Freedom, and the Road to
Perfection…, pp. 155 sgg.
263

modello della perfetta assimilazione a Dio. Infatti, la fede in lui è il principio della gnosi
e l’amore, che egli realizzò perfettamente, è il suo fine. Vediamo, dunque, che in
Clemente i concetti: sofi,a, pi,stij, gnw/sij e avga,ph sono correlati l’un all’altro. La
gnosi è qualcosa tra la fede e la sapienza, da una parte, e l’amore dall’altra. È il
perfezionamento della fede raggiungibile soltanto attraverso l’esercizio intellettuale ed
etico che mira alla perfetta realizzazione dell’amore – la cosa che di più assimila l’uomo
a Dio343. Alle due virtù teologiche: fede e amore, alle quali è legata la gnosi, Clemente
aggiunge anche quella terza, cioè la speranza (evlpi,j), che promette allo gnostico la
realizzazione futura del processo di assimilazione a Dio:

Il prendere coscienza dell’ignoranza è comunque la prima lezione per


chi vuole procedere secondo ragione. Se uno si è accorto di ignorare, cerca; se
cerca, trova il maestro. Quando l’ha trovato, ha la fede; e se ha fede, spera
(pisteu,saj h;lpisen): di qui inizia ad amare e si assimila all’oggetto del suo
amore, studiandosi di essere quello che aveva già iniziato ad amare344.

In un altro luogo Clemente definisce la speranza (evlpi,j) come “una lieta


aspettazione di beni o [in particolare] di un bene lontano”345. Ma come vediamo nel
passo appena citato, la speranza spinge l’uomo ad amare e ad assimilarsi all’oggetto del
suo amore ancora durante la vita terrena346. In questo processo l’esercizio intellettuale
sembra essere inferiore rispetto all’amore che, come abbiamo accennato prima, è una
virtù che di più assimila l’uomo a Dio. Infatti, il filosofo in primo luogo procede
secondo la ragione e cerca, poi trova il maestro ed ha la fede, se ha fede, spera ed inizia
ad amare ed amando si assimila a Dio. La conoscenza e la ricerca intellettuale, dunque,

343
A questo punto aggiungiamo che per Clemente diverse virtù sono reciprocamente connesse,
così che “colui il quale ha una virtù, nel modo come la possiede lo gnostico, le ha tutte per la reciproca
interdipendenza”. Clem., Strom. II 80,3. In un altro luogo l’Alessandrino spiega questa reciprocità in
modo seguente: “Così anche le virtù sono reciprocamente cause l’una dell’altra nella misura in cui restano
tra loro correlate, essendo tra loro connesse; come le pietre di un arco sono cause reciproche del
categorema di non cadere, ma non sono cause l’una dell’altra; e il maestro e il discepolo sono cause
reciproche del categorema di fare progressi”. Clem., Strom. VIII 30,2. Cfr. anche Clem., Strom. II 45,1;
IV 59,2; 163,3. Tale dottrina troviamo già negli stoici, ma anche in Filone e nei medioplatonici. Cfr. SVF
I 199; III 295 sgg.; Phil., Ebr. 88-92; Mos. II 7; Sacrif. 84; Apul., De Plat. II 228; Alcin., Did. XXIX 4 –
XXX 1. Cfr. S. Lilla, Clement of Alexandria…, pp. 83-84.
344
Clem., Strom. V 17,1.
345
Clem., Strom. II 41,1. Insieme a G. Pini conserviamo la lezione del manoscritto L: evlpi.j de.
prosdoki,a avgaqw/n h' avpo,ntoj avgaqou/ eu;elpij. Cfr. G. Pini, Note critiche, in Clemente di Alessandria, Gli
Stromati…, p. 834.
346
Altrove Clemente afferma che lo gnostico anticipa, appunto per la speranza, la condizione in
cui sarà: “Ed egli, già trovandosi attraverso l’amore nella condizione in cui sarà, poiché ne ha già
anticipata la speranza tramite la “gnosi”, non aspira più nemmeno ad alcuna cosa, possedendo per quanto
è possibile, l’oggetto stesso d’ogni aspirazione. Logicamente pertanto egli permane nell’unico abito
immutabile, con amore “gnostico”; né arderà mai dello zelo di assimilarsi ai buoni, avendo nell’amore
parte al Bene”. Clem., Strom. VI 73,4-5.
264

vengono collocati dal nostro autore soltanto all’inizio del cammino dello gnostico. Ed è
l’amore, e non la cognizione, ad essere il suo fine. Tuttavia, per l’Alessandrino amare è
anche un modo di conoscere:

«Dio è amore»347, quel Dio che si lascia conoscere a chi lo ama, come
fedele è Dio, la cui conoscenza, attraverso lo studio, si tramanda ai fedeli. E noi
dobbiamo familiarizzarci con lui attraverso l’amore divino, proprio per
contemplare il simile con il simile348.

Amando l’uomo cresce nella familiarità con Dio e studiando se stesso conosce
qualcosa della vita divina. Infatti, secondo il concetto epistemologico della filosofia
greca, il simile è conoscibile solo da ciò che gli è simile349. Tale conoscenza per
assimilazione non riguarda, però, la comprensione dell’essenza di Dio. E neppure la
piena assimilazione a Dio sembra essere realizzabile durante la vita terrena dell’uomo.
In realtà, lo gnostico è sempre in cammino perché cerca di “giungere a un fine che non
ha fine”350. Dobbiamo tuttavia aggiungere che, oltre la conoscenza per amore, che è
l’elemento proveniente della tradizione giovannea351, l’Alessandrino sfrutta nella sua
epistemologia anche i concetti della tradizione paolina. Difatti, insieme a Paolo crede
che è possibile conoscere e predicare la “sapienza che non è di questo mondo, né dei
principi di questo mondo”, ma che è “la sapienza di Dio, che sta nel mistero, quella
nascosta che Dio preordinò prima dei secoli per nostra gloria. È una sapienza che
nessuno dei principi di questo mondo conobbe”352. Questa sapienza è Cristo che allo
gnostico offre la possibilità della comprensione delle cose del passato, del presente e del
futuro.

Se noi definiamo “sapienza” il Cristo353 nella sua persona e nella sua


opera, spiegata dai profeti, attraverso la quale possiamo apprendere la tradizione
“gnostica”, come la insegnò egli stesso ai santi apostoli al tempo della sua
venuta (diV h-j e;sti th.n gnwstikh.n para,dosin evkmanqa,nein( w`k auvto.j kata. th.n
parousi,an tou.j a`gi,ouj evdi,daxen avposto,louj), anche la “gnosi” deve essere

347
1 Io. 4,16.
348
Clem., Strom. V 13,1-2.
349
Cfr. DK 31 B 109; 44 A 29; Plat., Tim. 90 D; Lys. 214 B; Gorg. 510 B.
350
Cfr. Clem., Strom. II 134,1; VII 56,3.
351
Cfr. 1 Io. 4,16: “E noi abbiamo conosciuto e abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi.
Dio è amore e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui”. Questo passo e gli simili (cfr. 1
Io. 3,18-19; 4,8; 4,17) vengono citati da Clemente in diversi luoghi. Cfr. Strom. IV 100,5; 113,4; VII
46,3.
352
1 Cor. 2,6-8, cfr. Clem., Strom. V 25,2.
353
Cfr. 1 Cor. 1,24. 30.
265

sapienza: essa è scienza e comprensione sicura ed infallibile di ciò che è, che


sarà e che è passato, in quanto tramandata e rilevata dal Figlio di Dio. E se il
fine del sapiente è la contemplazione, ebbene l’attività contemplativa di chi
tuttora fa filosofia tende, sì, alla divina scienza, ma non la consegue ancora: a
meno che non apprenda con disciplina la voce profetica che [solo così] le si fa
chiara, attraverso la quale può comprendere «le cose che sono, che saranno e
che furono»354, nel modo che sono, furono e saranno355.

Nel passo analizzato precedentemente (Strom. VII 55,1-56,1) la nozione della


‘sapienza’ è stata definita dal nostro autore come una scienza che può essere ottenuta
“per insegnamento” e traducibile in un “discorso espressamente manifestato”. Ora
vediamo che la gnosi è anche la sapienza, perché appunto la “insegnò Cristo stesso ai
santi apostoli al tempo della sua venuta”. Per la seconda volta, dunque, possiamo notare
che Clemente lega il concetto della gnosi alla tradizione. Infatti, la “tradizione gnostica”
(h` gnwstikh, para,dosij) viene trasmessa attraverso la tradizione ecclesiastica356. Essa
riguarda la persona e l’opera di Cristo che vanno essere intese nella luce delle Scritture
dell’Antico (“i profeti”) e del Nuovo (“gli apostoli”) Testamento357. Ma la gnosi è anche
la sapienza perché, oltre la comprensione dell’opera del Salvatore, riguarda pure la
scienza relativa alle “cose che sono, che saranno e che furono, nel modo che sono,
furono e saranno”358. Perciò il nostro autore la definisce altrove come “intelligenza della
profezia”359. Non tutti i fedeli, però, possiedono tale intelligenza. Alcuni, come ormai
sappiamo, interpretano le scritture in modo carnale e – per fare un esempio – sperano di
ricevere nei tempi escatologici una ricompensa materiale invece che quella spirituale360.
Per tale motivo appunto Clemente, insieme a Paolo, distingue tra i fedeli semplici e gli
spirituali361. E anche se tutti hanno i requisiti necessari alla salvezza, solo quelli ultimi

354
Hom. Il. I 70.
355
Clem., Strom. VI 61,1-2.
356
Cfr. altri luoghi nei quali Clemente parla della tradizione gnostica o ecclesiastica: Strom. IV
3,2; V 1,4; VI 125,2-3; 166,1; VII 41,3; 90,2; 103,5-6.
357
Cfr. Clem., Strom. IV 130,4.
358
Cfr. Clem., Strom. VI 54,1-2: “Definiamo poi la sapienza una solida conoscenza delle cose
divine ed umane, una comprensione sicura e non mutabile, che abbraccia presente, passato e futuro:
quella che, sia attraverso la sua presenza sia attraverso i profeti, ci ha insegnato il Signore. Tramandataci
dalla medesima volontà che la rende assolutamente vera, essa non è mutabile ad opera di ragionamento,
in quanto è stata conosciuta attraverso il Figlio”.
359
Cfr. Clem., Strom. II 54,1.
360
Cfr. Clem., Strom. IV 113,5-114,1, analizzato nel paragrafo 2.1.
361
Cfr. Clem., Strom. V 25,5-26,2: “Egli [cioè Paolo] sa che “spirituale” e “gnostico” è il
discepolo dello Spirito Santo, inviato da Dio e che è «l’intelligenza di Cristo». «L’uomo “psichico” non
accoglie le cose dello spirito, ai suoi occhi sono follia» (1 Cor. 2,14). Ed ecco che proprio l’apostolo per
distinguere dalla perfezione “gnostica” la comune fede, la chiama talvolta “fondamento” (1 Cor. 3,10),
ma talvolta “latte”, scrivendo così: «Fratelli, non potei parlare a voi come a persone “spirituali”, ma come
266

comprendono le cose “che saranno nel modo che saranno”. Costoro, sapendo che la
ricompensa escatologica promessa dal Salvatore non sarà corporea, già in questo mondo
si preparano alla contemplazione delle realtà divine ed intelligibili. Ora le contemplano
come attraverso uno specchio, ma allora le vedranno “faccia a faccia”362. A questo
punto vediamo che la gnosi non è soltanto il perfezionamento della fede che per la
speranza e l’amore rende simile l’uomo a Dio, ma è anche una contemplazione
intellettiva. Tale contemplazione è anche il fine del sapiente363. Se è così, lo gnostico
non solo deve cercare di amare sempre di più e di condurre una vita moralmente buona,
ma attraverso la filosofia e l’esercizio intellettuale deve prepararsi alla futura, ossia
escatologica, visione di Dio:

Tutto il nostro intimo colloquio Dio ascolta, sempre. In questo


colloquio alziamo il capo, tendiamo le braccia al cielo, ci alziamo in punta di
piedi nell’acclamazione che conclude la preghiera, risalendo con il fervore dello
spirito all’essenza intelligibile. Così cerchiamo di staccare insieme con le parole
il corpo dalla terra, rendiamo aerea «l’anima alata»364, per la brama dei beni
superiori e la costringiamo a salire ai «luoghi santi»365, nel totale disprezzo dei
vincoli carnali. Ben sappiamo infatti che lo gnostico attua in sé volontariamente
la fuga completa dal mondo, proprio come i Giudei dall’Egitto e così mostra
chiaramente, più d’ogni altra cosa, che egli sarà quanto più è possibile vicino a
Dio366.

Anche se all’inizio di questo passo troviamo una descrizione di un modo di


preghiera, probabilmente liturgica367, la spiegazione dell’Alessandrino che segue subito

a persone “carnali”, bambini in Cristo. Vi ho dato latte da bere, non cibo solido, perché non lo tollerate
ancora. Anzi, non lo tollerate nemmeno adesso, perché siete ancora “carnali”. Se c’è tra voi gelosia e
discordia non siete forse carnali, non procedete a maniera di uomini?» (1 Cor. 3,1-3), [vale a dire]
secondo le scelte dei peccatori, mentre coloro che se ne tengono lontani rivolgono i loro pensieri a Dio e
prendono parte ad un cibo gnostico”.
Ricordiamo che il passo paolino del 1 Cor. 3,1-3 viene esaminato ampiamente dal nostro autore
anche nel Pedagogo (cfr. Paed. I 35,1 sgg.), dove la distinzione tra i fedeli semplici e gli gnostici non è
sottolineata così chiaramente come nella seconda parte degli Stromati. Ne abbiamo parlato nel paragrafo
2.1 di questo lavoro.
362
Cfr. 1 Cor. 13,12; Clem., Strom. I 94,4-6; V 7,5; 74,1; VI 102,2; VII 57,1; 68,4.
Sull’argomento cfr. R. Mortley, The Mirror and 1 Cor. 13,12 in the Epistemology of Clement of
Alexandria, VigChr 30 (1976), pp. 109-120.
363
Cfr. Clem., Strom. VII 102,2: “Dello gnostico duplice è il fine, almeno su questa terra, da un
lato la contemplazione che fa scienza, dall’altro l’azione”.
364
Plat., Phaedr. 246 B-C.
365
Hbr. 9,25.
366
Clem., Strom. VII 39,6-40,1-2.
367
Lo suggerisce la parola sunekfw,nhsij, che G. Pini traduce come “l’acclamazione”, e che
precisamente significa “l’espressione simultanea” o “il parlare insieme”. Comunque, in questo caso il
termine potrebbe appunto disegnare un’acclamazione, ossia una risposta del popolo alla conclusione della
267

dopo esprime un concetto tipicamente platonico di abbandono del corpo da parte


dell’anima. Infatti, lo gnostico durante l’esercizio ascetico deve “rendere aerea” la sua
anima e costringerla a salire ai “luoghi santi, nel totale disprezzo dei vincoli carnali”.
Ricordiamo che un simile concetto abbiamo già trovato in Filone368. In realtà, secondo
la tradizione platonica l’anima per contemplare l’intelligibile deve purificarsi, ossia
staccarsi da tutte le cose corporee e prescindere dalle sensazioni che provengono dai
sensi. Solo in questo modo sarà capace di contemplare le cose pure, cioè le idee che non
hanno niente a che fare con le realtà corporee369. Vediamo, dunque, che il concetto
epistemologico della filosofia greca: “il simile è conoscibile attraverso il simile”
riguarda non soltanto la conoscenza per amore, come abbiamo visto prima370, ma anche
la contemplazione intellettiva, la condizione della quale è la purificazione dai vincoli
carnali371. Tale purificazione si attua per il tramite della preghiera, ma anche attraverso
l’esercizio intellettuale e la pratica della filosofia372.

Oltre le due vie che conducono l’uomo alla conoscenza di Dio, quella per amore
e quella per esercizio intellettuale (che alla fine si completano l’una all’alta e sono

preghiera comune. Inoltre, subito dopo il passo citato Clemente parla delle ore liturgiche della preghiera
che sono: la terza, la sesta e la nona. Cfr. Strom. VII 40,3.
368
Cfr. Phil. Migrat. 191; Her. 71-74, citati nel capitolo 1.4: La trascendenza gnoseologica di
Dio.
369
Aggiungiamo che per Clemente la purificazione dell’anima è necessaria per comprendere
qualsiasi tipo della verità, anche per quanto riguarda i principali articoli della fede: “Ecco quindi che noi
affermiamo necessario purificare preventivamente le anime dalle opinioni viziose e cattive attraverso la
retta ragione, e solo dopo volgersi al commento dei principali capitoli [della fede]. Infatti, anche prima
dell’iniziazione ai misteri si vuole applicare certi riti di purificazione agli iniziati, nella convinzione che
solo dopo essersi spogliati dei pensieri empi ci si debba disporre a [ricevere] la tradizione della verità”.
Clem., Strom. VII 27,6.
Altrove, anche insieme a Platone, l’Alessandrino parla della morte “razionale dell’anima”: “Ed
ecco che, come la morte è «separazione dell’anima dal corpo» (Plat., Phaed. 67 D), così la gnosi è quasi
una morte razionale, che allontana e separa l’anima dalla passione e la conduce a una vita di attività
virtuosa”. Clem., Strom. VII 71,3. Cfr. Clem., Strom. IV 152,3; V 14,2; 67,1-3; 106,1 e altri. Gli stessi
concetti, come abbiamo accennato sopra, troviamo in Platone. Cfr. Phaed. 65 A-C; 66 A; 79 A; 114 B-C;
Resp. 511 A; Phaedr. 247 C; Crat. 400 C; ma anche nei medioplatonici cfr. Alcin. Did. I 1-2; II 1-2.
Sull’argomento cfr. T. Camelot, Foi et gnose…, pp. 101-110 ; S. Lilla, Clement of Alexandria…, pp. 163-
169.
370
Cfr. Clem., Strom. V 13,1-2, citato precedentemente.
371
Sull’argomento della contemplazione dello gnostico cfr. una dettagliata analisi terminologica
di W. Völker, Der wahre Gnostiker nach Clemens Alexandrinus, Berlin 1952, pp. 301 sgg.
372
Cfr. Clem., Strom. VI 91,1-2: “Tutte le discipline sono dunque un aiuto della filosofia; la
filosofia stessa è un aiuto a comprendere la verità. Ecco una veste: prima era lana greggia; fu poi cardata e
divenne filo per il tessuto, e ordito; poi fu tessuta. Così l’anima va preparata prima e variamente lavorata,
se deve essere condotta alla perfezione. Poiché della verità una parte è gnostica, un’altra volta al fare,
però deriva dall’aspetto teoretico ed ha bisogno di esercizio, addestramento molto e pratica”. Cfr. anche
Clem., Strom. I 177,1-178,1. Vediamo dunque che non solo la filosofia, ma anche tutte le discipline
encicliche contribuiscono alla comprensione dell’intelligibile, perché, come l’Alessandrino afferma
altrove, sono una ginnastica per l’anima. Cfr. Clem., Strom. I 93,5: “Neppure lo stesso [Socrate] consente
che il completo ciclo educativo contribuisca al pieno possesso del bene, ma che cooperi alla sollecitazione
e alla ginnastica dell’anima per la vita intellettuale”. Il simile concetto abbiamo incontrato in Filone. Cfr.
Phil., Congr. 74-79, con il nostro commento nel paragrafo 1.4.
268

inseparabili), Clemente accenna ancora ad una terza, sovrannaturale – quella di


illuminazione:

Così, io credo, a coloro che bussano si apre l’oggetto della loro ricerca e
a coloro che allo stesso modo fanno domande, secondo le Scritture, viene da
Dio ciò verso cui tendono, ossia il dono della conoscenza data da Dio,
attraverso una vera e propria illuminazione, per comprensione diretta, della
ricerca condotta secondo logica373.

Tale illuminazione coincide con la contemplazione mistica:

E con la frequente ripetizione delle parole: «Io sono il Signore vostro


Dio»374, la Scrittura vuole sgomentarci nel modo più drastico, insegnandoci a
seguire Dio che ci ha dato i comandamenti; ma pure delicatamente ci esorta a
cercare Dio, a sforzarci di conoscerlo come più si può: ed è senz’altro la più
grande contemplazione, quella mistica (h[tij a'n ei;h qewri,a megi,sth( h`
evpoptikh,), la verace scienza, non mutabile mediante il ragionamento. Questa
sola sarà la “gnosi” della sapienza, da cui mai andrà disgiunta la pratica della
giustizia375.

Da questi due passi vediamo che l’illuminazione o l’esperienza mistica376 è


concessa solo a coloro che con tutte le forze cercano di apprendere le cose divine per la
via del ragionamento. Quando arrivano ai limiti delle capacità naturali dell’intelletto
umano viene loro incontro Dio con il suo dono sovrannaturale. Egli, però, dà una
comprensione delle cose divine soltanto a quelli che, oltre l’esercizio intellettuale,
praticano le virtù morali. Infatti, il nostro autore sottolinea: “questa sola sarà la “gnosi”
della sapienza, da cui mai andrà disgiunta la pratica della giustizia” 377. Aggiungiamo
che tale illuminazione, a causa della trascendenza di Dio, avviene sempre per il tramite
del Logos che altrove è detto il “sole dell’anima”378. Per di più, essa sembra essere un

373
Clem., Strom. VIII 2,1: toi/j ou[twj( oi=mai( krou,ousin avnoi,gnutai to. zhtou,menon kai. toi/j
ou[twj aivtou/sin ta.j peu,seij kata. ta.j grafa.j evfV o] bai,nousin evk tou/ qeou/ gi,netai( h` do,sij th/j
qeodwrh,tou gnw,sewj katalhptikw/j dia. th/j logikh/j o;ntwj evklampou,shj zhth,sewj.
374
Lev. 18,1-5.
375
Clem., Strom. II 47,4.
376
Che l’illuminazione e la contemplazione mistica coincidono l’una con l’altra cfr. Clem.,
Strom. VII 57,1, dove è detto che l’ascesi mistica avviene attraverso una luce divina; e Strom. III 44,2-5,
dove la “gnosi” è definita come una particolare luce che si accende nell’anima.
377
Cfr. anche Clem., Strom. II 46,1: “Il nostro filosofo si tiene ancorato a questi tre punti: primo,
alla contemplazione; secondo, all’attuazione dei comandamenti; terzo, alla formazione di uomini onesti.
Questi elementi, appunto, congiunti insieme, formano lo “gnostico”; e qualunque fra essi manchi, resta
monca la gnosi”.
378
Cfr. Clem., Protr. 68,4: “Neppure il sole potrà mai mostrare il vero volto di Dio, ma lo potrà
mostrare il Logos salutare, che è il sole dell’anima, grazie al quale soltanto, quando sia sorto dentro di
269

tipo di cognizione intuitiva piuttosto che riflessiva. In realtà, nonostante venga definita
come la verace scienza (h` tw|/ o;nti evpisth,mh), non è “mutabile mediante il
ragionamento” (avmeta,ptwtoj lo,gw| gignome,nh). È dunque intraducibile in un discorso
logico. Perciò rimane ineffabile – così come ineffabile è Dio. Ma tale esperienza, anche
se inesprimibile, è in grado di procurare all’uomo una comprensione dell’essenza
divina? Clemente non risponde precisamente a questa domanda. A volte suggerisce che
il perfetto gnostico dovrebbe giungere alla conoscenza della causa o dell’essere in sé,
perché appunto tale è lo scopo della filosofia cristiana e della gnosi 379. Altre volte,
invece, afferma che in questo mondo non è possibile apprendere ciò che è Dio380.
Troviamo, però, negli Stromati un passo, nel quale l’Alessandrino riporta e commenta il
brano del 2 Cor. 12,2-4, relativo all’esperienza mistica di Paolo. E l’apostolo di Tarso
appunto – come Mosè per Filone – viene considerato dal nostro autore come simbolo
del sapiente perfetto. Analizzando, dunque, questo testo potremo scorgere a che tipo di
cognizione giunse colui che nella sua vita realizzò l’ideale della gnosi 381:

«Conosco un uomo in Cristo, rapito fino al terzo cielo» e di qui «nel


paradiso; e udì parole ineffabili, che non è lecito ad un uomo proferire»382. Così
egli allude alla ineffabilità di Dio. E non aggiunge le parole «non è lecito» in
rapporto ad una legge o per timore di qualche precetto, ma per rivelare che la
divinità è inesprimibile per [la sua stessa santa potenza]383, se è vero che
comincia a parlarne solo da oltre il terzo cielo, come è lecito a quegli [angeli]
che qui si trovano iniziare al mistero le anime elette. Io so infatti che anche
Platone pensò a molti cieli (la penna mi trascura per ora gli esempi della
filosofia “barbara”, e sarebbero tanti!, perché, fedele alle promesse precedenti,
sa attendere il momento giusto). In ogni caso nel Timeo, incerto se dovere
ammettere più mondi o questo unico, usa indifferentemente i nomi, parlando di
“mondo” e di “cielo” come di sinonimi. Ecco le sue parole: «Abbiamo detto
bene “un solo cielo” o sarebbe stato meglio dire “molti”, anzi “infiniti cieli”?

noi, nella profondità della mente, s’illumina l’occhio dell’anima”. Inoltre in un altro luogo il nostro autore
scrive: “Questi è il vero unigenito, «impronta della gloria» del Padre (Hbr. 1,3), sovrano universale e
onnipotente, che imprime nello gnostico la perfetta attività contemplativa ad immagine sua”. Clem.,
Strom. VII 16,6.
379
Cfr. Clem., Strom. I 177,1; II 76,3; V 74,2-3; VI 162,4; VII 17,2.
380
Cfr. Clem., Strom. I 94,6; V 7,5-7; 65,2; 73,4-74,1; VII 56,3-57,3.
381
Secondo Clemente Paolo non solo giunse alle più alte vette della gnosi, ma egli stesso era il
maestro e l’insegnante di essa. Infatti, attraverso il suo insegnamento pose i fondamenti dell’edificio
“gnostico” per tutto il cristianesimo. Cfr. Clem., Strom. V 25,1-26,5.
382
2 Cor. 12,2. 4.
383
Insieme a G. Pini conserviamo la lezione del manoscritto L: duna,mei a`gi,a|, coretto poi in
avnqrwpei,a|. Cfr. G. Pini, Note critiche, in Clemente di Alessandria, Gli Stromati…, p. 843.
270

Uno, se è vero che dovrà essere foggiato secondo il modello»384. Anche nella
Lettera ai Corinzi di Clemente Romano è scritto: «Oceano invalicabile e i
mondi che sono oltre quello»385. Ed ecco corrispondente l’esclamazione del
grande apostolo: «O profondità di ricchezza, di sapienza, di “gnosi”
divina!»386,387.

Notiamo che in questo passo l’attenzione di Clemente si concentra sul fatto che
l’apostolo nella sua esperienza mistica giunse al terzo cielo. Infatti, subito dopo la
citazione della lettera paolina, l’Alessandrino riporta il passo del Timeo di Platone nel
quale il filosofo ateniese esprime la sua incertezza riguardo all’esistenza dell’uno (e[na
ouvrano.n) o dei molti o anzi dei infiniti cieli (pollou.j kai. avpei,rouj). A questo proposito
bisogna tener presente che nell’antichità il numero dei cieli che separavano Dio dal
creato variava a seconda della dottrina. Così dunque, sia nelle dottrine filosofiche sia
nell’apocalittica giudaica e cristiana, i cieli potevano esserci tre, cinque, sette, dieci o
anzi trecentosessantacinque, come il numero dei giorni nell’anno388. Clemente conosce
bene questa problematica. Infatti, poco prima del passo sopraccitato, riporta un brano
della cosiddetta Apocalissi di Sofonia che menziona i cinque cieli389. Secondo questo
apocrifo, il profeta nella sua esperienza mistica, simile a quella paolina, fu sollevato fino
al quinto cielo dove vide gli angeli che “celebravano Dio ineffabile e altissimo”390.
Purtroppo il nostro autore lascia questa citazione senza nessun commento. In realtà, la
questione che esamina in questa parte degli Stromati è quella relativa all’inconoscibilità
e ineffabilità di Dio391. Così, dunque, colui che trascende le capacità cognitive

384
Plat., Tim. 31 A.
385
Clem. Rom., 1 Cor. 20,8.
386
Rom. 11,33.
387
Clem., Strom. V 79,1-80,2.
388
Dei tre cieli parla Apocalisse di Mosè 73,5; dei cinque 3 Baruch 11,1-17,1; dei sette il testo
giudeocristiano dell’Ascensione di Isaia 23-32 e Ireneo in Demonstr. 9. I dieci cieli sono menzionati nel 2
Enoch 22,1 e nel testo gnostico dell’Apocalisse di Paolo 24. Inoltre, secondo la testimonianza di Ireneo
gli gnostici avrebbero dovuto parlare anche dei sette (i valentiniani, cfr. Iren., Adv. Haer. I 5,2) o dei
trecentosessantacinque (Basilide, cfr. Iren., Adv. Haer. I 24,3) cieli.
389
Cfr. Clem., Strom. V 77,2. Aggiungiamo che oltre questo passo, in diversi luoghi delle sue
opere, l’Alessandrino fa accenni alla letteratura apocalittica giudaica e cristiana. Cfr. Ecl. Proph. 2,1;
41,1; 48,1-49,1; 53,4; Strom. I 153,1; III 59,2; 100,3; V 10,2-3; VI 132,2-3; VII 46,6.
390
Bisogna, però, aggiungere che oltre la citazione del passo dell’Apocalissi di Sofonia che
menziona i cinque cieli, Clemente parla anche degli otto cieli, l’esistenza dei quali avrebbero dovuto
sostenere i valentiniani. Cfr. Clem., Exc. ex Theod. 63,1. Questa testimonianza contraddice quella di
Ireneo, che abbiamo riportato sopra (Adv. Haer. I 5,2) secondo la quale i valentiniani avrebbero parlato
dei sette cieli. Tuttavia, questi sette cieli, menzionati da Ireneo, potrebbero essere i cieli inferiori, mentre
l’ottavo cielo del quale si tratta nel passo degli Excerpta ex Theodoto, sarebbe riservato alle anime dei soli
pneumatici, che hanno la sua dimora escatologica presso il Salvatore. Cfr. Clem., Exc. ex Theod. 62,3.
391
Cfr. Clem., Strom. V 71,1-80,4. In questa sezione troviamo anche il passo relativo ad Abramo
(73,3-74,1), che abbiamo citato precedentemente. Come ormai sappiamo, il patriarca non giunge alla
conoscenza di Dio, ma lo vede «da lontano», perché – spiega l’Alessandrino – “era ancora nella
271

dell’intelletto umano, soltanto in modo sovrannaturale può rivelare all’uomo qualcosa


della sua natura. Però, non rivela, di certo, tutto ciò che è nella sua essenza, perché essa
è imperscrutabile392. E appunto, probabilmente per questo motivo, a proposito
dell’esperienza mistica di Paolo, l’Alessandrino cita anche il passo della Lettera ai
Corinzi di Clemente Romano che parla dell’“oceano invalicabile (wvkeano.j
avpe,rantoj)393”. Infatti, questo “oceano” viene paragonato metaforicamente
all’impenetrabile essenza di Dio, e “i mondi che sono oltre quello” ai cieli che separano
Dio dal creato. Non sappiamo, dunque, che cosa esattamente pensa Clemente riguardo
al numero dei cieli394, né che cosa del divino apprese Paolo quando fu rapito al terzo
cielo. Può darsi che l’apostolo abbia potuto scorgere in qualche modo la grandezza della
potenza di Dio, o convincersi dell’imperscrutabilità e della profondità della sua
sapienza, ma non era in grado di abbracciarla intellettualmente. Tale appunto potrebbe
essere lo scopo della citazione riportata alla fine del passo: «O profondità di ricchezza,
di sapienza, di “gnosi” divina!»395. Questa profondità di certo non potrà mai essere
penetrata fino in fondo, non soltanto a causa della debolezza dell’intelletto umano, che
per natura è finito e limitato396, ma anche perché l’essenza di Dio è illimitata e
infinita397.

generazione e viene passo passo guidato al mistero dall’angelo”. Notiamo che anche Sofonia e Paolo a cui
è stata concessa l’esperienza mistica giungono al luogo in qui si trovano angeli “iniziare al mistero le
anime elette”.
392
Cfr. Clem., Strom. VI 166,2.
393
La parola avpe,rantoj, oltre a invalicabile significa infinito o illimitato.
394
Origene, ad esempio, rifiuta molto chiaramente la dottrina che sosteneva l’esistenza dei sette
cieli. Infatti, la considera non fondata scritturisticamente. Cfr. Orig., C. Cels. VI 21.23. E insieme a Paolo
preferisce parlare dei soli tre cieli. Cfr. Orig., De Orat. I,1; Co. Cant. I.
Clemente, invece, come abbiamo visto sopra, parla dei tre, cinque e otto cieli. Per quanto
riguarda questo ultimo numero dei cieli, ossia l’otto, non è soltanto l’opinione degli gnostici, riportata dal
nostro autore, ma probabilmente anche quella di Clemente stesso. Infatti, oltre il passo dell’Exc. ex
Theod. 63,1, l’Alessandrino parla dell’ogdogade in modo simile anche nel Strom., IV 109,2; 158,4; VI
108,1; VII 57,5. Tuttavia, bisogna notare che “l’otto” è il numero simbolico e riceve diversi significati.
Infatti, anche nei passi qui riportati l’ogdogade può significare allegoricamente la perfezione dell’anima
gnostica, il numero dei giorni o appunto il numero dei cieli. Cfr. S. Lilla, Clement of Alexandria…, pp.
184-185. Clemente stesso parla dell’ambiguità del concetto dell’ogdogate nel passo del Strom. IV 159,2.
In ogni caso, qualora l’Alessandrino veramente avesse sostenuto l’esistenza degli otto cieli,
significherebbe che Paolo, nella sua esperienza mistica si era trovato molto lontano dal Dio trascendente e
perciò non aveva possibilità di vederlo “faccia a faccia”. E ciò confermerebbe ancora di più la nostra tesi
riguardo l’impossibilità di comprendere Dio anche da parte dei più perfetti gnostici.
395
Infatti, subito dopo l’esclamazione citata da Clemente, Paolo continua: “Quanto insindacabili
sono i suoi giudizi e incomprensibili le sue vie!” Cfr. Rom. 11,33.
396
Cfr. il passo citato precedentemente Clem., Strom. VI 165,5-166,3.
397
Cfr. Clem., Strom. V 81,5-6, citato precedentemente, dove Dio è detto a;peiroj; Strom. V 74,4,
dove è detto avperi,grafoj; Strom. V 81,3-4, dove è detto avpe,rantoj. A causa dell’infinità dell’essenza
divina Clemente afferma altresì che per lo gnostico Dio è sempre “fine che non ha fine” (te,loj
avteleu,thton). Cfr. Clem., Strom. II 134,1; VII 56,3.
272

Il testo paolino del 2 Cor. 12,2, relativo all’esperienza mistica dell’apostolo,


viene citato dall’Alessandrino anche nel Pedagogo, nel contesto della polemica
antignostica riguardo all’argomento della risurrezione della carne. A questo proposito il
nostro autore afferma:

È con questa stessa carne infatti che, con volto angelico, vedremo faccia
a faccia la realizzazione della promessa. Ora, se tale è effettivamente, dopo la
nostra partenza da quaggiù, la realizzazione della promessa, «che occhio mai
non vide né entrò mai in mente d’uomo»398, come possono allora essi affermare
di sapere – non certo per averci riflettuto con lo spirito, bensì per averlo appreso
– «ciò che orecchio mai non udì»? L’udì soltanto l’orecchio di colui che «fu
rapito al terzo cielo»399. Anche a lui, comunque, fu intimato di non dir nulla400.

In questo passo Clemente confuta le dottrine degli gnostici che negano l’idea
della risurrezione della carne contenuta nelle Scritture. Non solo negano, ma parlano in
particolari delle cose che in realtà “occhio non vide, né orecchio udì, né entrò mai in
mente di uomo”. Il verace testimone delle cose escatologiche può essere soltanto
l’apostolo al quale esse sono state rivelate in modo sovrannaturale. Per il nostro
argomento, comunque, è interessate il fatto che mentre per la prima volta l’Alessandrino
cita 1 Cor. 2,9, dell’intera frase di Paolo esclude l’espressione: “né orecchio udì”,
lasciando soltanto: “che occhio mai non vide né entrò mai in mente d’uomo”. Di seguito
però afferma: “l’udì soltanto l’orecchio di colui che fu rapito al terzo cielo”. Con ciò il
nostro autore vuole sottolineare che l’apostolo, durante la sua esperienza mistica, non
vide Dio “faccia a faccia” – cosa impossibile durante la vita terrena401 – ma soltanto
“udì parole ineffabili, che non è lecito ad un uomo proferire”402. A Paolo, dunque, è
stato rivelato qualche mistero relativo alle cose future – ne aveva ascoltate – ma non
aveva visto, né conosciuto Dio in persona403. Aveva potuto scorgere, o meglio, intuire

398
1 Cor. 2,9.
399
2 Cor. 12,2.
400
Clem., Paed. I 36,6-37,1.
401
Poche righe prima del passo citato, Clemente, commentando il brano del 1 Cor. 3,1-2: “Vi ho
abbeverati con latte, come bambini in Cristo, non con cibo solido”, afferma: “Può essere che [l’apostolo]
si riferisca, con il termine “cibo solido”, alla luminosa manifestazione “faccia a faccia” che avrà luogo nel
mondo futuro. «Ora vediamo come attraverso uno specchio – dice il medesimo Apostolo – allora invece
vedremo faccia a faccia» (1 Cor. 13,12)”. Clem., Paed. I 36,5. Poi segue il nostro passo nel quale
Clemente afferma che nella sua esperienza mistica Paolo aveva conosciuto le cose segrete per l’ascolto.
Quindi, secondo l’Alessandrino, la visione di Dio “faccia a faccia” avrà luogo solo nei tempi escatologici.
Cfr. anche Clem., Strom. V 7,5-7. Ne parleremo più ampiamente nel paragrafo successivo.
402
2 Cor. 12,4. Cfr. il passo citato prima del Strom. V 79,1-80,2.
403
A questo proposito notiamo che nella citazione del 1 Cor. 2,9 riportata da Clemente c’è
ancora un altro cambiamento di parole paoline. Infatti mentre Paolo dice: “né entrò in cuore d’uomo” (kai.
evpi. kardi,an avnqrw,pou ouvk avne,bh), l’Alessandrino scrive: “né entrò in mente d’uomo” (ouvde. evpi. nou/n
273

“la profondità della ricchezza, sapienza e conoscenza di Dio” – come suggerisce il passo
citato precedentemente – però non è giunto alla cognizione dell’essenza del Dio “che sta
al di sopra d’ogni pensiero”404. Ricordiamo a questo proposito che anche un altro
sapiente – Mosè – nonostante la Scrittura ammetta il suo diretto contatto con il divino,
secondo l’interpretazione allegorica di Clemente non aveva visto Dio. Infatti,
commentando la teofania che ebbe il patriarca, l’Alessandrino afferma che egli entrò
nella “tenebra” dei ragionamenti “dove era la voce di Dio”405. Aggiungiamo che questa
“voce di Dio” viene identificata successivamente con il Logos divino406.

Da tutto ciò che abbiamo detto in questo paragrafo consegue che la cognizione
di ciò che è Dio, a causa della sua assoluta trascendenza ontologica, è impossibile, né in
via del ragionamento né per il dono sovrannaturale dell’esperienza mistica. Infatti,
l’intelletto umano, in quanto creato, e perciò debole e finito – come afferma Clemente –
non è in grado di abbracciare colui che è ingenerato, incorruttibile e infinito. In ogni
modo, l’Alessandrino ammette una certa possibilità di conoscere qualcosa della vita
divina attraverso il processo di assimilazione (o`moi,wsij qew|/). Questo concetto platonico,
espresso nel famoso passo del Theaet. 176 A-B, viene ampiamente sviluppato,
soprattutto negli Stromati, dove l’o`moi,wsij qew|/ coincide con la nozione della gnw/sij.

avnqrw,pou ÎouvkÐ avne,bh). Può darsi che il nostro autore avesse a disposizione qualche altro manoscritto del
testo paolino, dove invece di kardi,a è stata usata la parola nou/j, o che citasse il passo a memoria.
Tuttavia, in un altro luogo della stessa opera, dove viene riportata la stessa citazione del 1 Cor. 2,9,
troviamo la parola kardi,a. Così, dunque, parlando dei beni che ai suoi seguaci offre il Pedagogo,
Clemente afferma: “i veri beni sono quelli che orecchio non udì, né ascesero mai al cuore (avgaqa. me.n ga.r
o;ntwj ¹a] ou;te ou=j h;kousen ou;te evpi. kardi,an avne,bh pote,¹)”. Clem., Paed. III 86,2. È possibile dunque
che l’Alessandrino abbia cambiato la versione coscientemente. Infatti, i beni sono una cosa che può essere
accolta dal cuore, la conoscenza delle cose future invece riguarda l’intelletto (nou/j). Aggiungiamo che la
citazione del 1 Cor. 2,9 che contiene la parola kardi,a viene riportata anche in Clem., Quis Div. 23,4;
Protr. 94,4; 118,4; Exc. ex Theod. 10,5; Strom. II 15,3; IV 114,1; 135,3; V 25,4; 40,1; VI 68,1. Tranne il
Paed. I 36,6 non troviamo una versione del 1 Cor. 2,9 che contenga la parola nou/j.
Dato che nel Paed. I 36,6-37,1 Clemente fa coscientemente alcuni cambiamenti della citazione
paolina (escludendo l’espressione: “né orecchio udì”, come lo abbiamo detto sopra), può darsi che anche
la sostituzione della parola kardi,a con il nou/j non sia casuale. Se è così, l’idea che esprime il nostro passo
sarebbe seguente. Nessuno aveva mai visto, né conosciuto (con il nou/j) le cose future – neanche
l’apostolo. Costui ne aveva soltanto ascoltate mentre “fu rapito al terzo cielo”.
404
Clem., Strom. V 65,2.
405
Cfr. Clem., Strom. II 5,4-6,2, citato e analizzato nel paragrafo 2.2. Cfr. anche H. F. Hägg,
Clement of Alexandria…, p. 161. Cfr. anche D. T. Runia, Clement of Alexandria and the Philonic
Doctrine of the Divine Power(s)…, pp. 267-268 che a questo proposito scorge un’interessante differenza
tra l’interpretazione allegorica di Filone e quella di Clemente. Infatti, afferma: “Clement agrees with
Philo that ultimate knowledge of God as he is in his essence is unreachable – for God is even beyond the
One and the monad, so how could any circumscription in knowledge or language be possible? But in his
doctrine of the Son-Logos he proves to be more optimistic than Philo. In Philo’s case it is only God’s
existence that can be known through the action of his powers in the cosmos. For Clement the word
became flesh (V 72,3, alluding to John 1,14) and, when hung on the tree, brought us to knowledge. The
central role accorded by Philo to the theophanic presence and action of God’s powers in the cosmos is
replaced by the single event of the incarnation”.
406
Cfr. Clem., Strom. VI 34,3.
274

Infatti, afferma il nostro autore: “La ‘gnosi’ è, in una parola, una sorta di
perfezionamento dell’uomo in quanto uomo”. Di seguito spiega che in questo
perfezionamento la fede e la sapienza umana vengono elevate al livello superiore e che
il fine della gnosi è l’amore – cosa che di più assimila l’uomo a Dio. Lo gnostico
perfezionato nell’amore, studiandosi, comincia a comprendere qualcosa della vita divina
– infatti contempla il simile con il simile. Nonostante Clemente ponga l’accento
sull’aspetto morale del processo di assimilazione (elemento della tradizione giovannea),
sostiene che per giungere alla vera gnosi l’uomo deve praticare anche le virtù
intellettuali, ossia deve approfondire l’insegnamento del Salvatore ed esercitarsi nella
contemplazione dell’intelligibile al modo del filosofo. Solo così potrà abituarsi alla
futura contemplazione “faccia a faccia” (elemento della tradizione paolina). Dato che il
cammino morale ed intellettuale che conduce alla gnosi è così difficile (infatti “non da
tutti è la gnosi”), l’uomo ha bisogno dell’aiuto sovrannaturale. In realtà, soltanto tramite
la grazia lo gnostico è in grado di apprendere qualcosa del divino e di progredire nel
cammino del perfezionamento. Nonostante questo aiuto dall’al di là, nessun uomo
giunge alla piena conoscenza di Dio, perché egli è “fine che non ha fine” (te,loj
avteleu,thton). Il processo dell’assimilazione, dunque, è il progetto per tutta la vita e non
finisce mai. La conoscenza dell’essenza divina, come abbiamo visto poco prima, non è
raggiungibile neanche da parte dei sapienti perfetti. Costoro, anche se possiedono una
particolare sapienza riguardo al mistero di Dio, finché vivono nel corpo, contemplano
Dio per speculum et in aenigmitate. La vera contemplazione “faccia a faccia” avrà
luogo solo dopo la partenza da questo mondo. Ma allora dunque sarà possibile
conoscere Dio nella sua essenza? A questa domanda cercheremo la risposta nel
paragrafo successivo.

2.5. Le aporie riguardo alla trascendenza di Dio

Nei paragrafi precedenti abbiamo già accennato ad alcune aporie che sorgono a
proposito della ricostruzione del pensiero di Clemente. La maggior parte di esse
corrisponde in un certo modo alle accuse formulate dal patriarca Fozio. Abbiamo infatti
visto che il Logos viene definito dall’Alessandrino una volta come la “prima creatura”
(prwto,ktistoj), altre volte invece come prwto,tokoj e monogenh,j. Poi, da una parte il
nostro autore sembra esprimere l’idea della generatio perpetua del Figlio da parte del
275

Padre407, dall’altra invece afferma che colui che esisteva “nel seno del Padre” è divenuto
Figlio prima della creazione del mondo. In questo modo attesta l’esistenza dei due
Logoi, o dei due stadi dell’esistenza di un solo Logos408. Inoltre, nonostante Clemente
affermi che il corpo del Logos incarnato fosse reale, sensibile e patibile, non gli
attribuisce tutte le caratteristiche del corpo umano. In realtà, esso era mantenuto in vita
da una potenza in modo da non dover essere nutrito materialmente. Anche se nel corso
del presente studio abbiamo cercato di risolvere alcune di queste aporie, non possiamo
affermare che tutte le accuse di Fozio siano infondate.

In questo paragrafo esamineremo altri argomenti aporetici del pensiero


clementino, e in particolare quelli relativi alla creazione del mondo e all’escatologia.
Infatti, se Dio è assolutamente trascendente non dovrebbe esserci accanto a lui nessun
altro principio ugualmente eterno. Ma in Clemente troviamo già il concetto della creatio
ex nihilo? E similmente, se Dio è evpe,keina th/j ouvsi,aj kai. evpe,keina tou/ nohtou/,
neanche dopo la morte dovrebbe esserci la possibilità di conoscere la sua essenza da
parte delle anime e nemmeno di unirsi a essa. Ma l’Alessandrino cerca di salvaguardare
l’assoluta trascendenza di Dio anche nei tempi escatologici?

Per quanto riguarda il primo argomento, segnaliamo che il patriarca di


Costantinopoli, elencando le idee eretiche che aveva incontrato nelle Ipotiposi, pone
come prima appunto quella relativa alla materia preesistente409. Dato che l’opera
perduta conteneva le spiegazioni degli argomenti scritturistici a partire dal libro della
Genesi410, possiamo supporre che tale concetto fosse il frutto dell’esegesi del racconto
biblico sulla creazione del mondo. In ogni modo, negli Stromati troviamo alcuni passi
407
Infatti, sostiene che prima della creazione del mondo non ci fu il tempo. Inoltre, afferma,
quasi come Origene: “Non c’è Padre senza Figlio, perché con l’essere Padre egli è Padre di un Figlio”.
408
Ricordiamo che in questo studio abbiamo preferito parlare degli “stadi di esistenza” invece
che dei due o tre Logoi distinti. Infatti, anche se Clemente parla della molteplice attività del Logos, prima
e dopo la creazione del mondo, conserva l’unità del suo soggetto. Colui, dunque, che realmente si fece
carne, ossia il Salvatore, è colui che parlava per bocca dei profeti ed è colui che evn avrch|/ fu generato dalla
sostanza del Padre.
Inoltre, abbiamo anche rigettato l’accusa di Fozio (almeno per quanto riguarda il passo delle
Ipotiposi riportato dal patriarca) relativa all’incarnazione di una certa potenza emanata dal Logos. Infatti
abbiamo mostrato che in questo caso si tratta di una mal compresa interpretazione del testo clementino.
Nonostante ciò, la questione che riguarda la generazione del Logos rimane aporetica. Non è così ben
chiara come sarà in Origene, e perciò suscettibile di diverse interpretazioni.
409
E precisamente alla “materia atemporale” (u[lh a;cronoj). Si tratta comunque della materia
preesistente nella quale Dio, durante l’atto creativo, avrebbe dovuto imprimere le idee. Questa dottrina
appunto è considerata da Fozio come eretica. Cfr. Phot., Bibl., cod. 109.
410
Eusebio di Cesarea ci informa che “nelle Ipotiposi Clemente ha fornito concise spiegazioni di
tutta la Scrittura testamentaria, non tralasciando gli scritti controversi, vale a dire la Lettera di Giuda e le
altre lettere cattoliche, la Lettera di Barnaba e l’Apocalisse detta di Pietro”. Euseb., Hist. Eccl., VI 14,1.
Fozio, invece, menziona soltanto: la Genesi, l’Esodo, i Salmi, le lettere di Paolo, le lettere cattoliche ed
l’Ecclesiaste.
276

nei quali Clemente sembra parlare della creatio ex nihilo. Eccone uno dei più
significativi:

Che il mondo sia generato è ancora una teoria che i filosofi desunsero
da Mosè. Platone, ad esempio, ha detto espressamente: «È sempre stato, senza
avere avuto alcun principio qualsiasi? È nato, perché è visibile ed è tangibile, e
se è tangibile ha anche un corpo». E dopo, quando dice: «Scoprire il creatore e
padre di questo universo è difficile impresa»411, non solo dimostra che il mondo
è stato generato, ma rivela che è nato da quello come figlio e quello è chiamato
suo “padre”, per dire che esso è nato da lui solo ed è venuto ad esistere dal nulla
(evk mh. o;ntoj). Anche gli stoici pongono il mondo come generato412.

Il contesto dal quale è stato estratto questo passo è quello che riguarda i furta
Graecorum413, dei quali abbiamo parlato già prima. In questo caso l’Alessandrino tende
a mostrare che anche il concetto della creazione contenuto in diverse filosofie è di
provenienza biblica. Lo attestano, secondo lui, i testi di Platone e degli stoici che
definiscono il mondo come generato (genhto,j). Platone, inoltre, più adeguatamente
ripete con la Scrittura che Dio è il poihth,j kai. path,r tou/de tou/ panto,j. Tale
espressione, a parere del nostro autore, significa non solo che Dio è l’unico principio
della creazione, ma anche che il mondo “è venuto ad esistere dal nulla”. Ma dietro la
formula evk mh. o;ntoj, che appare a questo proposito, ci sta veramente il concetto della
creatio ex nihilo? In realtà, l’Alessandrino sa benissimo che il filosofo ateniese,
esaminando l’argomento della genesi dell’universo, parla della materia preesistente414
nella quale il Demiurgo imprime le forme contemplate nel mondo delle idee. Perché
dunque sostiene ora che Platone, pronunciando queste parole, avrebbe pensato alla
creazione dal nulla? È probabile che il nostro autore voglia sottolineare che tra diverse
filosofie, nelle quali il mondo viene concepito come generato, la dottrina platonica è
quella che di più assomiglia alle idee contenute nelle Scritture. Infatti, gli stoici,
menzionati anche nel passo sopraccitato, nonostante intendano il mondo come generato,
parlano della sua conflagrazione (evkpu,rwsij) e rinascita che si ripetono ciclicamente ed
eternamente (evx avidi,ou)415. Secondo costoro, la base materiale della rinascita sono gli
stessi elementi dai quali era costituito il mondo precedente. Il Dio degli stoici, cioè il

411
Plat. Tim. 28 B-C.
412
Clem., Strom. V 92,1-4.
413
Clemente esamina questo argomento a partire del Storm. V 81,1.
414
Cfr. Clem., Strom. V 89,5-90,1. Il passo sarà citato successivamente.
415
Cfr. SVF, II 528; 596-599.
277

Logos, fa parte di questi elementi, anzi è la sostanza del mondo corporeo. Viene
identificato, infatti, con il fuoco nel quale tutto si scioglie e dal quale poi tutto rinasce.
In Platone, invece, Dio è trascendente e di natura intelligibile. Non fabbrica il mondo
dagli elementi che facevano parte di un altro mondo, ma crea ciò che prima non è
assolutamente esistito. Perciò di più assomiglia al Dio della Bibbia. Inoltre, egli non
crea dalla sua stessa sostanza, come è nel caso della filosofia stoica, ma crea da ciò che
è nulla (evk mh. o;ntoj), cioè dalla materia informe416.

Non sembra che in questo passo Clemente voglia correggere la dottrina del
filosofo ateniese, perché lo avrebbe potuto fare in maniera più chiara ed esplicita.
Osserviamo, infatti, che nello stesso capitolo degli Stromati, mentre il nostro autore
accusa gli stoici di aver plagiato il loro concetto di Dio dal libro della Sapienza, dice
apertamente: “essi non intesero che ciò è detto della Sapienza, la prima creazione di
Dio”417. Per quanto riguarda Platone, invece, non troviamo tale o simile affermazione.
L’Alessandrino, dunque, non accusa l’autore del Timeo di aver frainteso le Scritture
mentre parla della creazione del mondo, perché non considera come erronea la dottrina
che congettura l’esistenza di una materia increata. Anzi, vuole piuttosto mettere in
risalto l’originalità del concetto platonico e la sua affinità nei confronti delle idee
scritturistiche. A questo proposito intende la materia informe come il “nulla”418: quindi
appunto così come la concepiva il filosofo ateniese.

Per comprovare la nostra interpretazione, riportiamo un altro passo nel quale la


materia preesistente viene esplicitamente definita come mh. o'n, ossia “non essere”:

Sì, dicono [certi cristiani]: ma intanto i filosofi pongono la materia fra i


principi, e non un solo principio: così stoici, Platone, Pitagora e anche Aristotele
peripatetico. Ebbene, sappiano che la così chiamata materia è definita da quelli
senza qualità e senza forma (th.n kaloume,nhn u[lhn a;poion kai.

416
A questo punto aggiungiamo che in greco esistono due tipi di negazione. La ouv riguarda la
negazione oggettiva, e serve a negare una realtà, mentre la mh, è relativa alla negazione soggettiva, e serve
a negare le possibilità, opinioni, desideri etc. Cfr. F. Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino
2004, pp. 1512 sgg. e 1354 sgg. Nel paragrafo 1.5, relativo alle aporie della dottrina di Filone, abbiamo
fatto un excursus su questo argomento riportando parecchi esempi della filosofia greca al riguardo. Non
volendo ripetere tutta l’argomentazione lì contenuta, concludiamo soltanto che ouvk o'n significa l’assoluto
e totale non essere, mentre mh. o'n significa il “non essere” che in certo qual modo è. Cfr. Plat., Soph. 241
D. Che Clemente abbia concepito la materia informe come mh. o'n, lo mostreremo di seguito.
417
Cfr. Clem., Storm. V 89,4. Ne abbiamo parlato nel paragrafo 2.2.
418
Ricordiamo che anche Filone pur parlando chiaramente della creazione da una materia
preesistente, in alcuni luoghi delle sue opere afferma che Dio creò il mondo “dal nulla” (evk mh. o;ntwn),
intendendo il sostrato preesistente appunto come il “nulla”. Cfr. Phil., Opif. 21-23; Leg. All. III 10; Somn.
I 76; Deus 119; Migrat. 183, insieme ai nostri commenti a questi passi nel paragrafo 1.5.
278

avschma,tiston)419, e da Platone poi, più audacemente è detta «non essere» (mh.


o'n)420. Ed è proprio perché egli conosceva, forse, in via perfettamente mistica,
l’unità del principio reale che nel Timeo dice letteralmente: «Ora il nostro
pensiero resti espresso così: per quanto riguarda il principio – sia un principio,
siano più principi, o comunque si creda di ciò – di tutte le cose, non se ne parli
per ora: e per nessun altro motivo se non perché è difficile manifestare la
propria opinione seguendo il nostro presente metodo d’esposizione»421.
Specialmente la famosa frase biblica «la terra era invisibile e informe»422 ha
offerto ai filosofi motivo di [concepire la] sostanza materiale423.

Come il passo precedente, anche questo proviene dalla sezione degli Stromati in
cui Clemente enumera diversi furta Graecorum. Dopo aver mostrato che gli stoici
avevano desunto il loro concetto di Dio dal libro della Sapienza, cerca di convincere i
suoi lettori che anche la nozione dell’unico principio dell’universo proviene dalle
Scritture. A questo proposito, però, sorge un problema. Infatti, “certi cristiani”424 –
riferisce l’Alessandrino – sostengono che i filosofi, esaminando l’argomento della
genesi dell’universo, ammettono più principi, mentre la Scrittura parla di uno solo che è
Dio. A tale obiezione il nostro autore risponde dicendo che la materia preesistente, che
alcuni potrebbero concepire come uno dei principi della creazione, in realtà non è
nessun principio. Essa, essendo senza qualità e senza forma (a;poioj kai.
avschma,tistoj)425, non può essere intesa neanche come un essere, in quanto tutti gli
esseri possiedono appunto le qualità e le forme. Inoltre, l’essere in senso vero e proprio,
ovvero l’essere in sé, è colui che imprime le forme nella materia informe e in questo
419
Cfr. Aristot., Phys. 191 A 10; 191 B 36; Cael. 306 B 16-18.
420
Cfr. Plat., Resp. 477 A; Tim. 49 A.
421
Plat., Tim. 48 C.
422
Gen. 1,2.
423
Clem., Strom. V 89,5-90,1.
424
In realtà, Clemente non utilizza la parola cristianoi,, però dal contesto si capisce che
l’obiezione relativa ai molteplici principi doveva essere formulata da un gruppo di cristiani che conosceva
l’insegnamento delle Scritture riguardo la creazione del mondo. Infatti, all’inizio del capitolo
l’Alessandrino si rivolge ai lettori della sua opera segnalando che in questa sezione del quinto Stromate
cercherà di mostrare: “il furto greco della filosofia barbara” (Strom., 89,1). Di seguito, dopo aver mostrato
il plagio degli stoici, continua l’argomento cominciando con le parole: nai,( fasi,n, ed espone l’obiezione
di coloro che pensano che il concetto della creazione contenuto nelle Scritture non concorda con le teorie
dei filosofi. Non sono di certo i filosofi che criticano le proprie dottrine, ma un gruppo dei cristiani colti
che conosce sia l’insegnamento della Bibbia sia diversi concetti della filosofia greca. E perciò appunto è
in grado di scorgere la differenza che c’è tra di loro. Questi cristiani potrebbero già confessare la dottrina
della creatio ex nihilo, perché sono convinti che nessun filosofo abbia mai concepito la creazione del
mondo così come la concepisce il cristianesimo. Invero tale concetto lo troviamo anche in Ireneo,
contemporaneo di Clemente. Cfr. Iren., Adv. Haer. II 10,2-4; 28,7; IV 20,2. Ne parleremo ancora più
avanti.
425
Ricordiamo che anche Filone concepisce la materia preesistente come priva di qualità e,
insieme agli stoici, la chiama a;poioj ouvsi,a. Cfr. Phil., Opif. 21-23. Cfr. anche SVF I 493; II 300; 394;
1168 e altri.
279

modo chiama all’esistenza tutti gli esseri che prima non esistono. Perciò lui solo deve
essere considerato come l’unico principio della creazione. Tale dottrina, secondo
Clemente, viene chiaramente comprovata dalle parole stesse di Platone che definisce la
materia informecome mh. o'n, ossia “non essere”426.

A questo punto, però, dobbiamo constatare che non sappiamo quale sarebbe in
realtà la posizione del nostro autore. Da una parte, infatti, egli cerca di mostrare che i
filosofi antichi avevano desunto i loro concetti dalle Scritture, dall’altra parte, invece, fa
un’apologia del cristianesimo, mostrando che le sue idee non sono nuove in quanto
condivise dai più noti autori dell’antichità pagana. Così, dunque, i cristiani non
annunziano nessuna novità mentre credono che ci sia un solo principio dell’universo. Lo
sosteneva anche Platone. Ma da ciò risulta che anche il concetto platonico della materia
preesistente fa parte della dottrina cristiana? Può darsi. Invero, alla fine del passo citato
l’Alessandrino afferma che appunto “la famosa frase biblica «la terra era invisibile e
grezza» ha offerto ai filosofi motivo di concepire la sostanza materiale”. D’altronde
però sappiamo che la stessa frase, interpretata allegoricamente, serve a Clemente per
mostrare che sulle pagine della Bibbia è descritta la dottrina delle idee427. Difatti, la
prima creazione, in quanto avo,ratoj, concerne il mondo intelligibile. Ora, invece,
l’aggettivo avo,ratoj, insieme all’avkataskeu,astoj, viene riferito alla materia preesistente.
Può darsi che il nostro autore consideri accettabili ambedue le interpretazioni
allegoriche. Ma è anche possibile che quella seconda interpretazione sia, secondo lui,
erronea in quanto opinione dei soli filosofi. Comunque, vediamo che sorge un’aporia,
perché non sappiamo in realtà che cosa abbia pensato l’Alessandrino riguardo
all’interpretazione del Gen. 1,2. I filosofi greci, dunque, hanno capito bene il significato
della frase biblica, oppure, come negli altri casi, hanno frainteso il testo biblico che
plagiavano?

Concludiamo dicendo che il passo di Strom. V 89,5-90, che abbiamo analizzato


sopra, non chiarisce la questione relativa al concetto della creazione in Clemente.
Infatti, ambedue le soluzioni del problema sono probabili:

426
Notiamo che Platone non utilizza la parola u[lh, come suggerisce l’Alessandrino nel passo
sopraccitato. in raltà, u[lh è il termine aristotelico. Platone, invece, parla della cw,ra, che viene concepita
da lui sia come ciò in cui le cose si generano sia come ciò da cui si generano. Cfr. Plat., Tim. 50 C - E; 52
A - 53 A. In ogni modo, la parola u[lh viene utilizzata dai medioplatonioci dell’epoca che a volte
applicano la terminologia aristotelica ai concetti platonici. Cfr. Alcin., Did. VIII 1-3; XII 2.
427
Cfr. Clem., Strom. V 93,4-94,5, esaminato nel paragrafo 2.2.
280

1. Nel passo Clemente cerca soltanto di difendere Platone dalle erronee


interpretazioni della sua dottrina concernente i principi dell’universo.
Tuttavia, insieme al filosofo ateniese, confessa l’esistenza della materia
increata;
2. L’Alessandrino sostiene che Dio creò il mondo ex nihilo, insieme ai “certi
cristiani” da lui menzionati, e in maniera apologetica tende soltanto a
mostrare che la dottrina cristiana non sta in contraddizione con la filosofia
greca. Infatti, anche Platone considera la materia come “non essere”.

Sottolineiamo, però, che il problema principale del passo sopraccitato non è


quello se Dio avesse creato il mondo dalla materia preesistente o meno, ma la questione
è se si dovevano ammettere uno o più principi della creazione. Dunque, qualunque
concetto sia quello clementino: o creazione dalla materia preesistente o creatio ex
nihilo, vediamo che il nostro autore, insieme a Platone, parla di uno solo e l’unico
principio che è Dio. La materia, sia preesistente sia creata, non è un principio vero e
proprio della creazione. Infatti viene concepita da ambedue gli autori come mh. o'n428.

Ritorniamo ancora all’opinione di questi “certi cristiani” ai quali accenna


Clemente. Costoro sottolineano che esiste uno solo principio della creazione e nello
stesso momento scorgono la differenza che a questo proposito intercorre tra ciò che
professa il cristianesimo e ciò che dicono i filosofi. Questo gruppo dei cristiani colti
potrebbe ormai conoscere non solo la formula, che ricorre anche nella Scrittura429 e in

428
Alla stessa conclusione giunge S. Lilla. Lo studioso italiano, però, differentemente da noi,
non mette in dubbio il fatto che Clemente abbia sostenuto l’esistenza della materia anteriore alla
creazione del mondo: “The evidence we possess justifies the assumption that Clement believed in the
existence of a matter prior to the origin of the world […]. What Clement says in the Stromateis does not
contradict the doctrine which he expounded in the ~Upotupw,seij, but, on the contrary, provides us with a
more complete picture of his views on this question”. S. Lilla, Clement of Alexandria…, pp. 193. Inoltre,
lo studioso italiano riporta i passi dei medioplatonici nei quali la materia è considerata come eterna e
senza qualità, e suggerisce che Clemente, anche se non cita questi filosofi, sembra condividere le loro
opinioni. Cfr. Ibid., pp. 193-196. Cfr. anche H. Chadwick, Early Christian Thought…, pp. 46-48. Di un
altro parere è A. Orbe: “Secondo Fozio Clemente insegna l’esistenza di una materia atemporale
(a;kronoj), anteriore all’origine del mondo sensibile e, a quanto pare, priva di ogni qualità, «non ente».
Eterna? Nulla può provarlo. Le sue testimonianze non vanno oltre i testi classici di Sap. 11,17 e Giustino,
1 Apol. 10,59, che presuppongono la materia preesistente alla creazione del mondo, senza aggiungere
nulla sulla sua esistenza ab aeterno. Una cosa è riconoscere alla hyle un’esistenza anteriore al tempo,
un’altra attribuirgliela eterna”. A. Orbe, La teologia dei secoli II e III…, vol. I, p. 199. A nostro avviso,
ambedue le ipotesi sono possibili. Infatti, come abbiamo evidenziato sopra, non sappiamo quale è in
realtà la posizione dell’Alessandrino riguardo all’argomento. Condivide l’opinione di Platone per quanto
riguarda la preesistenza della materia, o soltanto tende a mostrare che secondo il filosofo ateniese la
materia non è un principio vero e proprio, sostenendo, insieme agli altri cristiani, che Dio abbia creato il
mondo ex nihlio?
429
Infatti, dobbiamo distinguere tra la formula, che appare in 2 Mac. 7,28, e la dottrina che non è
stata elaborata in nessun libro della Scrittura. Anzi, nel Libro della Sapienza, scritto all’epoca ellenistica,
281

Filone, ma persino la dottrina della creatio ex nihilo. Che essa sia stata già nota
all’epoca di Clemente lo comprova il seguente passo:

Dio non ha nessun abito naturale rispetto a noi, come vorrebbero i


fondatori delle eresie, né se crea dal nulla (ou;tV eiv evk mh. o;ntwn poi,h), né se
fabbrica da una materia (ou;tV eiv evx u[lhj dhmiourgoi,h), perché il nulla non è e la
materia è del tutto altra da Dio: a meno che non si osi dire che noi siamo parti di
Dio e della sua stessa sostanza430.

In questo passo l’Alessandrino enumera i tre possibili concetti della creazione:

1. La creazione dal nulla (evk mh. o;ntwn);


2. La creazione demiurgica (evx u[lhj);
3. La creazione dalla stessa sostanza (ouvsi,a) di Dio431.

È da notare che solo questo ultimo concetto viene assolutamente respinto dal
nostro autore432. Per di più, soltanto in questo passo, tra quelli in cui troviamo
l’argomento della creazione, viene sottolineata in modo molto chiaro la differenza tra la
creazione demiurgica e la creazione ex nihilo. Nonostante ciò, l’Alessandrino non ci
informa di nuovo quale sarebbe la sua stessa opinione riguardo all’argomento433. In
realtà, né la prima né la seconda soluzione viene da lui criticata. La cosa certa, però, è
che all’epoca di Clemente esisteva già la dottrina della creatio ex nihilo. Essa viene
elencata come uno dei tre possibili modelli della creazione noti e confessati in diversi
circoli del cristianesimo. È probabile dunque che il nostro autore, respingendo soltanto
la terza soluzione – quella relativa alla creazione dalla sostanza divina – accetti il
pluralismo delle opinioni per quanto riguarda i due modelli della creazione rimanenti. È
vero che il suo contemporaneo Ireneo sostiene già che Dio aveva creato il mondo ex
nihlo, anzi sottolinea che tale dottrina rivela di più la grandezza della divina
onnipotenza434: per Clemente, però, essa rimane soltanto una delle due soluzioni

troviamo un’affermazione opposta. Infatti, leggiamo in esso che la mano onnipotente di Dio “aveva
creato il mondo da materia informe (evx avmo,rfou u[lhj)”. Cfr. Sap. 11,17.
430
Clem., Strom. II 74,1.
431
In realtà, Clemente non utilizza precisamente la parola ouvsi,a, però dal senso della frase si
capisce che si tratta della creazione dalla sostanza divina. Infatti, nell’ultima affermazione del passo
sopracitato vengono utilizzate le parole me,roj (parte) e o`moousi,oj (consustanziale) relativi al rapporto che
c’è tra Dio e il creato: eiv mh, tij me,roj auvtou/ kai. o`moousi,ouj h`ma/j tw|/ qew|/ tolmh,sei le,gein.
432
Di tale opinione erano gli gnostici che si considerano come o`moou,sioi con Dio. Cfr. Iren.,
Adv. Haer. I 5,1,5; Epiph., Pan. 33,7,8; Clem., Exc. Ex Theod. 42,3; 58,1.
433
Cfr. A. Orbe, La teologia dei secoli II e III…, vol. I, pp. 199-200.
434
Cfr. Iren., Adv. Haer. II 10,2-4; 28,7; IV 20,2. Cfr. anche A. Orbe, La teologia dei secoli II e
III…, vol. I, pp. 210 sgg.; E. Osborn, Irenaeus of Lyons, Cambridge 2001, e in particolare il paragrafo:
282

ugualmente accettabili. Inoltre, bisogna aggiungere che l’Alessandrino è fortemente


influenzato da Platone, molto più che Ireneo435. Infatti, considera il filosofo ateniese
come “l’amico della verità, quasi ispirato da Dio”436. Pertanto difende la sua filosofia, in
diversi luoghi delle sue opere, anche da coloro che in maniera malintesa comprendono
la sua teoria della creazione, come abbiamo visto sopra. E forse per questo motivo, ossia
a causa della stima che ha verso Platone437, non vuole affermare in modo inequivocabile
che solo la creatio ex nihilo è l’unica dottrina che adeguatamente descrive la verità sulla
genesi dell’universo438.

Dopo tutto ciò che abbiamo detto finora possiamo concludere che in Clemente
troviamo chiare prove che ad Alessandria, nella seconda metà del secondo secolo, era
già nota la dottrina della creatio ex nihilo. Tale dottrina, però, non faceva ancora parte
dell’ufficiale insegnamento della Chiesa cattolica. Perciò neppure il nostro autore ci
dice a favore di quale modello della creazione si dichiari. Infatti, troviamo, nelle sue
opere, passi nei quali sembra essere favorevole della dottrina della creazione da una
materia preesistente, ma anche altri che potrebbero comprovare la sua propensione

Creatio ex nihilo: formula and concept, pp. 69-73 e H. Chadwick, Early Christian Thought…, p. 47 che a
questo proposito afferma: “For Irenaeus creation ex nihilo had seemed an essential affirmation to exclude
Gnosticism, and the point had been reinforced by the Gnostic Hermogenes whose central arguments were
based upon the denial of this proposition. Clement has read Irenaeus and at least knows about
Hermogenes”.
435
Tuttavia, anche Ireneo apprezza Platone considerandolo più religioso degli gnostici. Cfr.
Iren., Adv. Haer. III 25,5.
436
Cfr. Clem., Strom. I 42,1. Anche nel passo citato precedentemente (Strom. V 89,7) Clemente
afferma che Platone apprese la dottrina della creazione probabilmente in maniera perfettamente mistica
(mustikw,tata).
437
Ricordiamo che all’epoca di Clemente, non tutti i cristiani consideravano la filosofia come la
praeparatio evangelica. A volte, come riferisce il nostro autore, pensavano anzi che essa fosse l’opera del
diavolo. Cfr. Clem., Strom. I 18,3. Perciò in diversi luoghi delle sue opere l’Alessandrino cerca di
mostrare che ciò che a parere di alcuni fedeli è malvagio, in realtà è il dono della provvidenza divina. Cfr.
Clem., Strom. VI 159,1-8. Elencare le somiglianze tra Platone e il cristianesimo, mostrare le verità alle
quali giunse il filosofo ateniese e difendere la sua dottrina dalle interpretazioni erronee, è anche il modo
di riabilitare la filosofia in ambito cristiano.
438
A questo punto ritorniamo, ancora una volta, all’opinione di S. Lilla, esposta in Clement of
Alexandria…, pp. 193-196. Lo studioso italiano non sbaglia mentre scorge le analogie tra le affermazioni
dei medioplatonici, che considerano la materia come eterna, informe e “non ente”, e quelle di Clemente.
Anche noi nel corso di questo studio abbiamo accennato a tali somiglianze in diversi punti del pensiero
dell’Alessandrino. Però, per quanto riguarda l’argomento della creazione, bisogna anche tener presente
che all’epoca di Clemente i cristiani conoscono già la dottrina della creatio ex nihilo (Ireneo ne è
esempio) e sono consapevoli della differenza che intercorre tra la creatio ex nihilo e le teorie dei filosofi
greci (ne parla anche Clemente stesso). Le somiglianze terminologiche che intercorrono tra i testi dei
medioplatonici e quelli di Clemente, non sono dunque una prova sufficiente per sostenere che
l’Alessandrino condivide le loro opinioni. Preferiamo dunque lasciare questo argomento come aperto. In
realtà, non abbiamo le prove sufficienti per confermare l’una o l’altra ipotesi. La stima che Clemente ha
verso la filosofia di Platone, non ci permette di affermare che egli rifiuta la sua dottrina della creazione da
una materia preesistente. Invece, tutti gli accenni relativi alla dottrina della creatio ex nihilo, che troviamo
nelle sue opere, non ci permettono di affermare che egli esclude assolutamente la possibilità che Dio
abbia creato il mondo dal nulla.
283

verso la creatio ex nihilo439. Nonostante ciò, rimane indubbio che per Clemente soltanto
Dio è l’unico principio della genesi dell’universo. Dunque, anche qualora egli
sostenesse, in maniera platonica, la tesi sulla creazione demiurgica, considera la materia
informe come “non essere” (mh. o'n). Perciò, insieme a quel gruppo dei cristiani che
confessa già la dottrina della creatio ex nihilo, anche lui può affermare che Dio crea
tutto dal nulla (evk mh. o;ntwn)440.

Per quanto riguarda l’argomento dell’escatologia, accenniamo all’inizio che


nelle opere di Clemente troviamo alcuni elementi della dottrina dell’apocatastasi che
successivamente verrà sviluppata da Origene441. Bisogna però sottolineare che il
termine avpokata,stasij riceve nell’Alessandrino diversi significati442, e in realtà, non si
riferisce mai alla “restaurazione di tutte le cose” (avpokata,stasij pa,ntwn), come viene

439
Infatti, oltre i passi sopra analizzati Clemente dice, ad esempio, che “nulla può esistere se non
riceve da Dio la causa del suo essere” (ouvde.n de. e;stin( w|- mh. th.n aivti,an tou/ ei=nai o` qeo.j pare,cetai).
Paed. I 62,3. Da questa affermazione può risultare che neanche la materia informe può esistere se non
riceve la causa del suo essere da Dio. Cfr. H. Chadwick, Early Christian Thought…, pp. 47-48. Però la
materia, dopo tutto ciò che abbiamo detto, può essere considerata come un essere?
In un altro luogo, ancora, commentando il riposo del settimo giorno (cfr. Gen. 2,2-3), il nostro
autore afferma: “Quell’essersi riposato significa invece l’aver disposto l’ordine (th.n ta,xin) delle cose
venute all’esistenza in modo che si conservasse inalterabilmente per ogni tempo, cioè aver posto termine
all’antico disordine (th/j palaia/j avtaxi,aj) per ogni cosa creata”. Strom. VI 142,1. In questo passo la
creazione è concepita come portare l’ordine nell’antico disordine, cioè nella materia caotica. Una simile
affermazione troviamo anche in Platone e nei medioplatonici e anche costoro utilizzano i termini ta,xij e
avtaxi,a, caratterizzando con questo ultimo la materia preesistente. Cfr. Plat., Tim. 30 A; Alcin., Did. XII 2.
440
Sull’argomento cfr. pure P. Ashwin-Siejkowski, Clement of Alexandria on Trial…, pp. 23-38.
Anche lo studioso polacco sostiene, che Clemente considera la materia preesistente come mh. o'n.
Comunque, nel suo studio sulle accuse formulate da Fozio non si sofferma sul passo di Strom. II 74,1
sopraccitato, dove l’Alessandrino enumera diverse possibili soluzioni del concetto della creazione, ma la
sua ricerca sull’argomento conclude in modo seguente: “To sum up, both parts of the present
reconstruction show that Clement did not believe in creatio ex nihilo. It is significant and not
coincidental, that, while being acquainted with 2 Maccabees, nowhere in his oeuvre did he mention the
famous declaration on the creation of the visible world out of nothing: o[ti ouvk evx o;ntwn evpoi,hsen auvta. o`
qeo,j (7:28). This direct Scriptural evidence would provide him with a substantial argument against the
Gnostic dualistic tendencies, held for example by Tatian the Syrian, or even against the opinion of some
Valentinians that the creator of the visible world originates from the passion of desire (evk pa,qouj th/j
evpiqui,aj). Against Gnostic adversaries, Clement did not use the argument from 2 Maccabees, which
emphasises the goodness of all creation, although it was certainly known to him. Therefore the evidence
is against Clement of Alexandria being the first theologian to subscribe to the notion of creatio ex nihilo.
This does not undermine the fact that he was convinced that whole of reality, ko,smoj nohto,j as well as
ko,smoj aivsqhto,j, is totally dependent on God and good Creator the divine Logos”. Ibid., pp. 35-36.
441
Cfr. Orig., De Princ. I 6,1 sgg.; III 6,1 sgg. e altri.
442
Ad esempio, nei passi del Strom. I 124,3-4 e 140,7, Clemente parla della “reintegrazione degli
Ebrei” (th/n ~Ebrai,wn avpokata,stasin) nella Palestina e del “ristabilimento del popolo” (th/j avpokata,sewj
tou/ laou/) dopo l’esilio babilonese. Invece, nei passi del Strom. II 36,1 e II 37,6 il nostro autore riporta
l’opinione dei seguaci di Basilide e utilizzando il termine avpokata,stasij parla della “restaurazione (o
riabilitazione) a uno stato primitivo”. Infine, attribuendo il significato cristiano alla parola avpokata,stasij,
l’Alessandrino afferma: “L’assimilazione al retto Logos nella misura del possibile è il nostro fine, e così
pure la riabilitazione alla perfetta adozione filiale attraverso il Figlio (eivj th.n telei,an u`ioqesi,an dia. tou/
u`iou/ avpokata,stasij)”. Strom. II 134,2. Del significato escatologico del termine avpokata,stasij in
Clemente parliamo più avanti.
284

menzionato in Act. 3,21. Il nostro autore non cita neanche il passo del 1 Cor. 15,24-28,
che diventerà uno dei fondamentali argomenti scritturistici nella speculazione
origeniana intorno alla fine del mondo e all’apocatastasi443. In questo testo, infatti,
Paolo afferma che alla fine dei tempi Cristo porrà tutti i nemici sotto i suoi piedi e che
infine “Dio sarà tutto in tutti”444. Inoltre, il nostro autore sostiene probabilmente che
l’anima è mortale per naturam, in quanto la Scrittura afferma che il peccato è morte
d’anima445. Se è così, l’immortalità sarebbe solo un dono sovrannaturale riservato per i
giusti e per gli gnostici. Avendo presente queste considerazioni non possiamo affermare
che Clemente è sostenitore della dottrina dell’apocatastasi allo stesso modo di
Origene446. Nonostante ciò, il nostro autore parla dell’apocatastasi finale degli eletti,
fondando la sua teoria su Matth. 5,3 sgg., che enumera le promesse escatologiche legate
alle beatitudini, e sul passo paolino di 1 Cor. 13,12, che parla della visione “faccia a
faccia”:

Quando dunque vive nella contemplazione, nella pura consuetudine con


il divino, colui che partecipa in modo “gnostico” alla santa qualità [di tale vita]
si avvicina vieppiù in abitudine alla Identità senza passioni (tauvto,thtoj
avpaqou/j), tanto che non più ha scienza, non più possiede “gnosi”, ma è scienza e

443
Cfr. Orig., De Princ. I 6,1-2; 7,5; II 3,5; 3,7; III 5,6-7; 6,1-2 e altri.
444
Nelle opere clementine troviamo una sola allusione al 1 Cor. 15,28, che in realtà non è una
citazione vera e propria. Cfr. Clem., Strom. I 159,6: “Dio infatti ha affidato tutto e sottoposto tutto a
Cristo nostro re”. Per di più, l’allusione alle parole paoline, come vediamo, non viene riferita
dall’Alessandrino ai tempi escatologici, ma al presente.
445
Cfr. Clem., Strom. II 135,1-2; III 63,4-64,1; Paed. I 95,1. Cfr. anche Ez. 18,4 in LXX: h` yuch.
h` a`marta,nousa au[th avpoqanei/tai. Abbiamo detto “probabilmente”, perché l’Alessandrino non sviluppa
questo argomento, citando soltanto alcuni testi scritturistici e lasciandoli senza commento. C’è, però, il
passo nel quale, spiegando la metafora del “fuoco divorante”, Clemente dice che Dio può fare tutto: ha
potere sull’anima e sul corpo (sw,matoj kai. yuch/j evxousi,an e;cwn), può far crescere, ma anche può far
perire (avlla. kai. to. avpole,sai dunato,n). Cfr. Ecl. Proph. 26,1-4. Tale affermazione potrebbe essere
un’allusione al testo di Matth. 10,28, nel quale leggiamo: fobei/sqe de. ma/llon to.n duna,menon kai. yuch.n
kai. sw/ma avpole,sai evn gee,nnh| (temete piuttosto colui che ha il potere di far perire nella geenna e l'anima
e il corpo). Se è così, può darsi che la “morte dell’anima” significhi metaforicamente la pena della geenna
destinata ai malvagi e non l’annichilamento totale della sostanza dell’anima.
446
In ogni modo, alcuni studiosi suggeriscono anche questo. A. I. Bendigo, ad esempio, dando
peso soprattutto ai due passi di Clemente: Quis Div. 36,1-2 e Strom. III 63,1-4, mostra il ruolo degli eletti
nella totale apocatastasi finale. Nel primo passo, infatti, l’Alessandrino afferma che “tutti i credenti sono
buoni e vicini a Dio […]. E tuttavia ve ne sono alcuni ancora più eletti fra gli eletti”. Essi sono definiti da
Clemente come «luce del mondo» e «sale della terra» (Matth. 5,14.13), ma anche il “seme” inviato sulla
terra. Grazie a loro Dio mantiene il mondo nell’esistenza fino alla messe escatologica. Il secondo passo,
invece, parla della “reintegrazione” (avpokata,stasij) di questi eletti, “per cui anche le sostanze
promiscuamente confuse nel mondo saranno restituite alla loro originaria sede”. A questo proposito viene
accennata anche l’attività del Salvatore che distrugge tutti i peccati definiti come “le opere del desiderio”,
e cioè: “avidità, ambizione, brama di gloria, pazzia per le donne”, etc. Se il peccato significa
metaforicamente “la morte dell’anima” (Strom. III 63,3), e se il Salvatore distrusse l’opera del desiderio, è
probabile che nel passo si tratti dell’apocatastasi non solo degli eletti, ma anche di tutte le cose. Cfr. A. I.
Bendigo, The Restoration of the Elect: Clement of Alexandria’s Doctrine of Apocatastasis, StPatr XLI
(2006), pp. 169-174.
285

“gnosi”. Quindi «beati gli operatori di pace»447: essi hanno addomesticato e reso
mansueta la legge che è in lotta con l’aspirazione della nostra mente, le minacce
dell’ira, le esche del desiderio e tutte le altre passioni che contrastano con la
ragione; essi sono vissuti con scienza, con opere buone e con vera ragione, e
saranno restituiti nella più amorevole adozione (eivj ui`oqesi,an
448
avpokatastaqh,sontai th.n prosfilesta,thn) .

Una simile idea, con il riferimento al 1 Cor. 13,12, esprime il passo seguente:

In senso veramente spirituale scrive l’apostolo: «Ora vediamo come


attraverso uno specchio, ma allora, faccia a faccia»449. A pochi è data la visione
della verità. Tanto vero che anche Platone dice nell’Epinomide: «Affermo che è
impossibile agli uomini in genere diventare beati e felici, tranne che a pochi.
Questa definizione la riferisco al tempo finché siamo vivi. Ma c’è buona
speranza che dopo morti otterremo tutto»450. Ugual significato ha la frase che si
legge in Mosè: «Nessuno vedrà la mia faccia, e vivrà»451. Evidentemente
nessuno potrà mai durante il tempo della vita comprendere chiaramente Dio
(to.n qeo.n evnargw/j katalabe,sqai). Ma «i puri di cuore vedranno Dio»452 quando
saranno giunti all’ultima perfezione (evpa.n eivj th.n evsca,thn avfi,kwntai
telei,wsin)453.

Vediamo che nel primo passo l’avpokata,stasij454 viene concepita come la


conseguenza del processo di assimilazione a Dio e consiste nella definitiva
restaurazione della somiglianza divina nell’anima dello gnostico. Anche se a questo
proposito Clemente utilizza le parole bibliche “operatori di pace” e “figliolanza”, spiega
all’inizio che la vera pace possiede colui che attraverso la contemplazione e la pratica
delle virtù si avvicina a Dio e in questo modo, già sulla terra, partecipa alla vita divina.
Lo gnostico, dunque, è detto “operatore di pace”, perché divenuto avpaqh,j come Dio,
ossia avendo annientato tutte le passioni che contrastano con la ragione, insegna agli

447
Matth. 5,9.
448
Cfr. Clem., Strom. IV 40,1-2.
449
1 Cor. 13,12.
450
Plat., Epin. 973 C.
451
Ex. 33,20.
452
Matth. 5,8.
453
Clem., Strom. V 7,5-7.
454
In realtà, il passo contiene il verbo avpokati,sqhmi che significa ristabilire, reintegrare o far
ritornare, comunque il termine avpokata,stasij nel significato escatologico, ossia inteso come la finale
reintegrazione o restaurazione, ricorre nei seguanti passi: Clem., Strom. II 134,4; 136,3-6; III 63,4; 64,3;
IV 132,1; 145,1-2; VI 75,2; VII 56,5; Ecl. Proph. 57,1; Exc. ex Theod. 22,3. Più avanti, ritorneremo
ancora ad alcuni di essi.
286

altri a vivere in modo impassibile455. In questo modo diventa maestro e promotore


dell’avpa,qeia che è in grado di procurare la pace dell’anima. Ma dato che durante la vita
terrena la totale assimilazione a Dio non è mai possibile456, allo gnostico viene
promessa la piena e duratura restaurazione della somiglianza divina nei tempi
escatologici. Allora diventerà avpaqh,j in modo inalterabile. Quindi la frase biblica «Beati
gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio»457, viene letta da Clemente in
chiave del concetto stoico dell’avpa,qeia. Infatti, essere chiamato figlio di Dio, significa
riavere la perduta somiglianza e diventare avpaqh,j come Dio. Questo ideale è
realizzabile pienamente solo nell’apocatastasi che viene concepita come la
reintegrazione escatologica, non di tutte le cose, ma appunto di coloro che durante la
vita terrena sono vissuti in modo gnostico.

Nel secondo passo l’Alessandrino si rifà a un’altra beatitudine che promette ai


puri di cuore di vedere Dio. Tale visione, come nel caso di perfetta assimilazione, è
raggiungibile soltanto dopo la morte. Infatti, afferma che “nessuno potrà mai durante il
tempo della vita comprendere chiaramente Dio”. Clemente fonda la sua tesi su due
argomenti scritturistici, l’uno del 1 Cor. 13,12: «Ora vediamo come attraverso uno
specchio» e l’altro del Ex. 33,20: «Nessuno vedrà la mia faccia, e vivrà» e anche sul
passo del dialogo platonico, nel quale il filosofo esprime un dubbio riguardo la
possibilità di essere felici sulla terra458. E di nuovo, come nel caso dell’assimilazione,
anche la futura contemplazione “faccia a faccia” è accessibile solo ai pochi (ovli,goij ga.r
h` th/j avlhqei,aj qe,a dedotai), e soltanto quando saranno giunti all’ultima perfezione
(evpa.n eivj th.n evsca,thn avfi,kwntai telei,wsin).

Dai testi qui riportati traspare dunque un certo esclusivismo dell’escatologia


clementina. Infatti, come “non da tutti è la gnosi”459, così non è da tutti la
contemplazione “faccia a faccia” e la restaurazione (avpokata,stasij) della piena
somiglianza a Dio nell’aldilà460. Occorre, però, notare che tra le opere dell’Alessandrino

455
Ne parla Clemente più avanti. Cfr. Strom. IV 40,4.
456
E neanche la contemplazione è sempre stabile e duratura. Perciò, appunto, lo gnostico prega
perché il suo stato si accresca e perduri. Cfr. Clem., Strom. VII 46,4.
457
Matth. 5,9.
458
A questo proposito, bisogna notare che per Platone la felicità consiste appunto nella
contemplazione delle idee e soprattutto di quella del Bene e del Bello. Cfr., ad esempio, Plat., Tim. 90 A-
C; Resp. 517 B-D; Symp. 210A-211B.
459
Cfr. Clem., Strom. I 2,2; V 61,3; 62,1.
460
Su diversi aspetti del concetto dell’avpokata,stasij in Clemente cfr. A. Méhat, “Apocatastase”
rigène, Clément d’Alexandrie, Act. 3.21, VigChr 10 (1956), pp. 196-214; A. C. Itter, Esoteric Teaching
in the ‘Stromateis’..., pp. 175-216.
287

troviamo anche testi che suggeriscono l’esistenza di certi gradi della conoscenza del
divino e dell’affinità a Dio anche dopo la morte corporea. Così, dunque, parlando della
chiesa del cielo (avnw,tath evkklhsi,a), dove si radunano i filosofi di Dio e “i puri di
cuore, nei quali non c’è inganno”461, Clemente aggiunge: “«Ci sono anche altre pecore –
dice il Signore – che non sono di questo ovile»462, ritenute degne d’altro ovile e d’altra
dimora in proporzione alla fede”463. Da ciò risulta che la ricompensa escatologica è
proporzionale al livello della fede raggiunto durante la vita terrena dell’uomo 464. Per di
più, il nostro autore parla anche della purificazione penitenziale e della possibilità di
passare da un grado inferiore a uno superiore nella gerarchia della chiesa celeste465.
Grazie a tale struttura dell’aldilà, la salvezza dei semplici non è esclusa. Comunque la
gnosi, che è il processo del perfezionamento e della purificazione dell’anima, conduce il
filosofo cristiano al grado più elevato della gerarchia escatologica, ossia assicura la
contemplazione “faccia a faccia”:

La “gnosi” conduce ad un fine che è senza fine e perfetto (pro.j te,loj


a;gei to. avteleu,thton kai. te,leion), insegnandoci in anticipo lo stile di vita
secondo Dio, che sarà nostro quando saremo fra dèi, liberati da ogni castigo e
pena che in conseguenza dei nostri peccati sopportiamo per una correzione
salutare. Dopo questo riscatto il premio e l’onore sono concessi ai perfetti, che
hanno cessato la pena di purificazione e anche ogni altro ministero, sia pur
santo e in cose sante. Divenuti «puri di cuore»466, li aspetta quindi la
reintegrazione definitiva (avpokata,stasij) nella contemplazione eterna per
l’unione con il Signore. E hanno ricevuto nome di dèi, quelli che occuperanno
lo stesso trono degli altri dèi, disposti come prima gerarchia sotto il Salvatore.
Rapida via di purificazione è dunque la “gnosi”, ed atta ad provocare il ben
gradito trapasso al grado superiore. Essa dunque facilmente traspone l’uomo in
quella condizione divina e santa che è congenita all’anima e gli fa via via
percorrere i gradi della mistica ascesa attraverso una luce sua propria, fino ad
instaurarlo nel luogo supremo del riposo. Essa ammaestra il «puro di cuore» a
contemplare per scienza e piena comprensione Dio «faccia a faccia»467. La

461
Cfr. Clem., Strom. VI 108,1
462
Io. 10,16.
463
Clem., Strom. VI 108,2.
464
Ricordiamo, infatti, che Clemente distingue “la fede comune” e “la fede più elevata, costruita
sopra la prima” che “proviene dallo studio della dottrina e riesce ad adempire ai comandamenti del
Logos”. Cfr. Clem., Strom. V 2,4-6.
465
Cfr. Clem., Ecl. Proph. 56,6 sgg. Ne parleremo ancora più avanti.
466
Matth. 5,8.
467
1 Cor. 13,12.
288

perfezione dell’anima “gnostica” sta infatti qui: nell’essere con il Signore dove
Egli è, in una posizione immediatamente inferiore, dopo aver superato ogni
prova di purificazione e ministero468.

Questo passo risponde in un certo modo alla domanda che ci siamo posti
all’inizio di questo paragrafo, quella relativa alla possibilità della piena comprensione di
Dio nell’aldilà. Infatti, Clemente ripete qui due volte che la dimora escatologica degli
gnostici divenuti “puri di cuore”, sarà quella più prossima a Dio, però inferiore rispetto
a quella del Salvatore. I salvati, dunque, saranno come gli angeli (questo appunto
significa la parola “dèi” utilizzata nel passo469) e occuperanno i posti nelle gerarchie
angeliche ordinate secondo una gradazione. La prima è quella più vicina a Dio, le altre
sono più lontane e non offrono l’immediata contemplazione “faccia a faccia”. Va
notato, però, che neanche i perfetti disposti nella prima gerarchia avranno in realtà la
possibilità del “contatto” immediato o dell’unione al Dio trascendente. Infatti, questa
gerarchia è situata sotto il Salvatore (u`po. tw|/ swth/ri). Se è così, i “puri di cuore”
contempleranno Dio non direttamente, ma per il tramite del Logos470. E dato che il
Logos si identifica con il ko,smoj nohto,j, l’espressione paolina “faccia a faccia” dovrà
significare metaforicamente l’accesso al mondo delle idee divine, prima contemplate
per speculum et in aenigmate. Essendo in tale prossimità con l’intelligibile, le anime
gnostiche progrediranno nella chiara comprensione del mistero di Dio. Comunque, non
saranno mai in grado di abbracciare intellettualmente l’essenza del Dio trascendente che
è evpe,keina tou/ nohtou/471.

A favore di questa tesi parla anche il fatto che Clemente definisce il fine dello
gnostico come te,loj to. avteleu,thton, ossia infinito o interminabile. L’aggettivo
avteleu,thtoj, infatti, può essere inteso in due modi, nel senso ontologico o nel senso
temporale. Se applichiamo questo termine a Dio, che appunto è te,loj to. avteleu,thton
kai. te,leion472, significa che la sostanza di Dio non ha limiti, ovvero è infinita e perciò

468
Clem., Strom. VII 56,3-57,2.
469
Cfr. Clem., Ecl. Proph. 56,3-7; Strom. II 125,4-6; VII 57,5; 78,6. È probabile che a questo
proposito l’Alessandrino abbia in mente il passo del Ps. 81,6: evgw. ei=pa qeoi, evste kai. ui`oi. u`yi,stou
pa,ntej. Cfr. S. Lilla, Clement of Alexandria…, pp. 186-187.
470
Cfr. Clem., Strom. IV 155,4: “Quando l’anima, sfuggita alla generazione, sia di per sé sola e
s’accompagni alle idee, come il «corifeo» del Teeteto (cfr. Plat., Theaet. 173 C), allora l’uomo sarà
«come un angelo» e «unito a Cristo» (Matth. 22,30; Phil. 1,23); vivrà nella contemplazione e osserverà
sempre la volontà di Dio”.
471
Cfr. Clem., Strom. V 38,6, citato precedentemente.
472
Clemente lo dice esplicitamente in un altro luogo: “Quanto a noi, ci è proposto di giungere ad
un fine che non ha fine (eivj te,loj avteleu,thton) se ubbidiremo ai comandamenti, cioè a Dio (toute,sti tw|/
qew|)/ ”. Clem., Strom. II 134,1.
289

imperscrutabile da parte di un’anima creata. Invero, ciò che è finito non può mai
abbracciare l’infinito473. Se, invece, la parola avteleu,thtoj applichiamo al processo della
cognizione di Dio, che altresì è il fine della gnosi, significa che il progresso nella
comprensione del divino è interminabile e non giungerà mai il suo completamento. In
realtà, sempre rimarrà qualcosa del divino ancora non conosciuto da parte dell’anima. In
ogni modo, anche questo significherebbe implicitamente che l’essenza di Dio è infinita.
Infatti, l’anima non giunge mai alla piena comprensione del Dio trascendente, perché
l’oggetto della sua contemplazione è infinito. E appunto perciò Clemente parla altrove
di una contemplazione insaziabile (avko,restoj qewri,a)474. Se è così, non resta che
concludere che le anime dei perfetti, nonostante abbiano l’immediato contatto con
l’intelligibile, non sono in grado di comprendere l’essenza divina che trascende ogni
intelligenza475.

Dal concetto dell’infinità di Dio, dunque, consegue il fatto dell’inconoscibilità


della sua essenza. A questo punto ricordiamo, ancora una volta, che la nozione
dell’infinità concepita nel senso positivo che troviamo in Clemente, è una grande novità
nell’ambito della filosofia greca476. Infatti, secondo gli antichi non poteva essere
perfetto o felice colui che non è compiuto, ossia finito. Lo afferma molto chiaramente
Aristotele quando dice: te,leion dV ouvde.n mh. e;con te,loj (niente è perfetto se non ha
fine)477. Clemente, invece, quasi polemizzando con le parole del filosofo, definisce il
fine dello gnostico come te,loj to. avteleu,thton kai. te,leion – cioè infinito, però
perfetto478.

473
Cfr. Clem., Strom. VI 165,5-166,3; V 81,5-6.
474
Cfr. Clem., Strom. VI 108,1. La parola avko,restoj significa insaziabile o insoddisfacente, che
non produce sazietà. Infatti, il desiderio di conoscere Dio non può essere mai saziato, appunto perché egli
e imperscrutabile e infinito. Quindi, non ci sarà mai un momento, nemmeno nell’aldilà, in cui l’anima
possa comprendere pienamente Dio. Una simile idea viene espressa anche nel passo del Strom. VII 13,1,
dove l’Alessandrino parla di una visione (qe,a) luminosa, pura e insaziabile (avko,restoj) per “le anime
straordinariamente infiammate di amore”.
475
Cfr. Clem., Strom. V 71,5.
476
Lo abbiamo già detto nel paragrafo 2.2: La trascendenza ontologica di Dio, dove abbiamo
citato il passio di Strom. V 81,5-6 nel quale Dio è detto e[n a;peiron e dove abbiamo presentato gli
argomenti di A. Choufrine relativi all’infinità di Dio in Clemente. Ricordiamo che secondo questo
studioso l’aggettivo avteleu,thtoj “is Clement’s technical term for infinity as well”. Cfr. A. Choufrine,
Gnosis…, pp. 177 sgg.
E. Osborn, invece, che non ha fatto così dettagliata analisi del concetto dell’infinità come quella
del Choufrine, non vede le analogie tra le espressioni dello Stagirita e quelle dell’Alessandrino. Per lui lo
scopo dello gnostico, che è te,loj to. avteleu,thton, significa che. “Our holiness ends in everlasting life and
there remains something yet to be received”. Cfr. E. Osborn, Clement of Alexandria…, p. 231-232.
477
Aristot., Phys. 207 A 14.
478
Nonostante Clemente non concordi con questa affermazione di Aristotele, si ispira
probabilmente alle definizioni dell’infinito formulate dallo Stagirita nella Fisica. A questo proposito A.
290

Alla fine ritorniamo ancora ad un’altra idea contenuta nel passo sopraccitato,
quella della possibilità della purificazione (ka,qarsij) delle anime. Invero,
l’Alessandrino afferma che Dio sarà nostro “quando saremo fra dèi, liberati da ogni
castigo e pena che in conseguenza dei nostri peccati sopportiamo per una correzione
salutare”. Da questa affermazione risulta che: 1) oppure gli gnostici, dopo essersi
purificati durante la vita terrena, raggiungono la felicità presso Dio, infatti “rapida via di
purificazione è la gnosi”; 2) oppure tale possibilità viene loro concessa anche dopo la
morte, nell’aldilà, in quanto il processo di assimilazione a Dio non è mai pienamente
realizzabile durante la vita. Che questa seconda soluzione sia altresì possibile, Clemente
ci informa nel passo seguente:

Secondo l’apostolo, coloro che occupano il grado più alto


dell’apocatastasi sono “protoctisti” (oi` evn th|/ a;kra| avpokatasta,sei
prwto,ktistoi): i “protoctisti”, pur essendo potenze, sono probabilmente
«troni»479, perché Dio riposa in loro come anche nei credenti. Ciascuno, a

Choufrine scrive: “Given that avteleu,thtoj is a rare word in any writer before Clement, the possibility of
some (perhaps, indirect) influence of Aristotle is not implausible. Although the formula te,loj
avteleu,thton seems unique to Clement in phrasing, it may go back to the concept of die,xodoj avdie,xodoj in
Aristotle (which is no less paradoxical) in content”. A. Choufrine, Gnosis…, p. 178.
Ricordiamo, a questo proposito, che nel passo di Phys. 204 A 5-6, che abbiamo citato nel
paragrafo 2.2, Aristotele come l’infinito considera “ciò che si può percorrere, ma questo non può avere un
completamento (to. die,xodon e;con avteleu,thton)”. L’avteleu,thtoj, dunque, è altresì il termine aristotelico.
Perciò, a proposito della formula clementina te,loj avteleu,thton, che viene utilizzata nel contesto del
cammino spirituale dello gnostico, il Choufrine scrive: “In his Stromateis, Clement skilfully elaborates
upon this idea of deification. He construes it on the lines of Aristotle’s concept of infinity, as the process
of the infinite approach of the believer to the Lord. By this he understands the «advance» (prokoph,) of the
gnostic «in to the state of passionlessness», up to «the orbit which has transcended in everlastingness
(aivdio,thti) of contemplation even the [orbit] next to the Lord (kai. th/j prosecou/j tou/ kuri,ou)». Strom.
VII 10.1f. The Gnostic thus transcends every possible orbit that separates him from the Lord; draws
nearer to Him than the closest possible proximity. On the other hand, this transcending never ends”. Ibid.,
p. 181.
Aggiungiamo ancora che troviamo anche in Gregorio di Nissa un concetto simile, ossia che Dio
è inconoscibile appunto a causa dell’infinità della sua natura. Anch’egli afferma che Dio è “bene che non
ammette limite” e che “il desiderio di chi cerca di parteciparne, tendendo all’infinito, non può mai trovare
riposo”. Greg. Nyss., Vit. Mos. I 7. Cfr. anche Vit. Mos. II 238-239: “Non si può immaginare una
circoscrizione della natura illimitata, e ciò che è incircoscritto per natura non può essere compreso. Ecco
perché tutto il desiderio di bene, che trae a quell’ascesa, si tende sempre di più per la corsa di chi si
slancia verso il bene. Effettivamente vedere Dio significa non saziarsi mai di desiderarlo, ed è inevitabile
che chi vede, per il fatto stesso di poter vedere, sia sempre arso dal desiderio di vedere di più. Così nessun
limite impedisce il progredire dell’ascesa verso Dio perché il bene non ha limite, né il progredire del
desiderio di bene è impedito da alcuna sazietà”. Trad. di M. Simonetti, in Gregorio di Nissa, La vita di
Mosè, Milano 2001, pp. 11-13 e 205. Vediamo che anche Gregorio, così come Clemente (cfr. Strom. VI
108,1 e VII 13,1 riportati prima), parla di un mai saziabile desiderio di conoscere Dio. Tale desiderio non
von viene mai soddisfatto fino in fondo, perché la natura divina è infinita. Sull’argomento cfr. T. Böhm,
Theoria, Unendlichkeit…, in particolare pp. 137-149; A. K. Geljon, Divine Infinity…, pp. 162 sgg., dove,
oltre i passi di Gregorio di Nissa, vengono esaminati anche i simili passi di Filone; A. Choufrine,
Gnosis…, pp. 178 sgg., dove l’autore, dato che il cammino spirituale tende verso l’infinito, parla anche
dell’«infinity of the human being» in Clemente.
479
Cfr. Col. 1,16.
291

seconda del proprio progresso, possiede un’appropriata “gnosi” di Dio, in virtù


della quale Dio riposa in lui, perché chi lo ha conosciuto con la “gnosi” è
divenuto eterno […]. E ciò che è «al di sopra di ogni dominazione, potestà e
potenza e di ogni nome che possa essere nominato»480 sono gli angeli e gli
arcangeli, che, da uomini quali erano, sono stati resi perfetti sì da diventare
angeli “protoctisti”. Coloro che da uomini si trasformano in angeli per mille
anni sono discepoli degli angeli, per costituirsi nella perfezione; poi quelli che
hanno insegnato si mutano in arcangeli, mentre quelli che hanno appreso fanno
da maestri a coloro che da uomini si trasformano in angeli: quindi, in tal modo,
nei periodi stabiliti sono costituiti nel regno angelico loro appropriato, «del
corpo»481,482.

Ora possiamo scorgere più chiaramente la struttura dell’aldilà, alla quale


abbiamo accennato prima. Così, dunque, Clemente, insieme a Paolo (Eph. 1,21), elenca
alcune delle gerarchie angeliche, che sono: “dominazioni, potestà e potenze” e afferma
che al di sopra di esse vengono disposti gli angeli detti protoctisti (prwto,ktistoi). Nella
sua classificazione degli angeli, però, l’Alessandrino non è coerente, perché all’inizio
del passo afferma che “i protoctisti, pur essendo potenze (duna,meij), sono probabilmente
troni (qro,noi)”. In ogni caso, per l’argomento del nostro studio è importante un’altra
affermazione, e cioè che l’uomo, dopo essere stato reso perfetto, altresì può acquistare
la natura degli angeli, anzi persino quella dei protoctisti. Tale mutamento ontologico,
però, non è l’immediata conseguenza del cammino spirituale che gli gnostici percorrono
durante la vita terrena, ma avviene durante lunghissimo processo (più di due mila anni)
del perfezionamento in mezzo alle gerarchie angeliche inferiori. Infatti, dall’ultima frase
del passo risulta che gli uomini, dopo la morte, si trasformano in angeli e diventano
discepoli degli angeli per mille anni, “per costituirsi nella perfezione” (eivj teleio,thta
avpokaqista,menoi). Di seguito, essendo stati resi perfetti, coloro che erano discepoli
diventano maestri (altri mille anni), mentre coloro che li ammaestravano diventano
arcangeli. In questa dinamica struttura dell’aldilà, i protoctisti, raggiunti il rango più
elevato tra le gerarchie angeliche, non svolgono più nessun servizio, ma, come leggiamo
un po’ prima del passo citato, “sono in riposo presso esclusiva contemplazione di
Dio”483.

480
Eph. 1,21.
481
Cfr. 1 Cor. 12,12-28; Col. 1,18. 24.
482
Clem., Ecl. Proph. 57,1-2. 4-5.
483
Cfr. Clem., Ecl. Proph. 56,3: ei=nai evn avnapau,sei kai. pro.j mo,nh| th|/ qewri,a| tou/ qeou/.
292

Va notata in questo passo la somiglianza che intercorre tra la dottrina


escatologica di Clemente e quella degli gnostici. Infatti, anche costoro sostenevano che
la dimora escatologica superiore sarà riservata ai perfetti, ossia agli pneumatici, mentre
gli psichici dovranno occupare un luogo inferiore, presso il Demiurgo. Inoltre, anche
questi ultimi potranno passare al grado superiore della loro perfezione – almeno fino ad
un certo punto484. Sottolineiamo comunque che queste somiglianze si limitano soltanto
a una certa struttura presente nell’aldilà. Infatti, il nostro autore, come abbiamo ormai
mostrato, non accetta assolutamente i presupposti ideologici esposti nel mito gnostico e
in particolar modo l’esistenza dei due dèi e la distinzione delle nature degli uomini.
Invece, per quanto riguarda alcuni elementi dell’angelologia stessa, Clemente si sarebbe
potuto ispirare – come suggerisce J. Daniélou – agli concetti provenienti della tradizione
giudeo-cristiana che il nostro autore ha ricevuto da Panteno485. Da lì appunto potrebbe
provenire la dottrina di mille anni di apprendimento e di insegnamento che svolgono gli
angeli prima di passare dall’uno all’altro grado della gerarchia celeste.

Comunque, bisogna aggiungere che l’Alessandrino fonda la sua dottrina


escatologica indubbiamente sulla Scrittura e in particolar modo sui testi paolini nei
quali si parla del corpo mistico di Cristo. Invero, secondo l’apostolo (cfr. 1 Cor. 12,12-
28), la Chiesa, in quanto corpo, per svolgere la sua funzione nel mondo, deve avere
diverse membra, più e meno nobili. E non tutte possono essere collocate presso il capo
stesso. Infatti, “se il corpo fosse tutto occhio – domanda Paolo – dove sarebbe l’udito?
Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ma Dio ha disposto le membra in modo distinto nel
corpo, come ha voluto. Che se tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo?
Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo”486. L’allusione a questa
immagine paolina troviamo anche alla fine del passo citato, dove il nostro autore
afferma che tutti “sono costituiti nel regno angelico loro appropriato, «del corpo»”. La

484
Ne parla anche Clemente in Exc. ex Theod. 62,3-63,2. La perfezione degli psichici, come
abbiamo accennato sopra, riguarda probabilmente soltanto il passaggio dall’Ebdomade all’Ogdogade,
dove stanno gli spirituali durante il tempo che corre fra la loro morte corporea e il momento della
consumazione finale. Però, dato che tra gli uni e gli altri c’è la differenza delle nature, la presenza finale
degli psichici nel Pleroma risulta poco probabile. Comunque, M. Simontetti, paragonando il passo del
Exc. ex Theod. 62,3-63,2 con alcuni passi del Trattato Tripartito (119,24 sgg.; 132,23 sgg.; 133,7 sgg.),
non esclude la possibilità della salvezza finale degli psichici accomunata con quella degli spirituali. Cfr.
M. Simonetti, Teti gnostici…, nota 385, pp. 520-521. Cfr. anche M. Simonetti, Eracleone, gli psichici e il
Trattato Tripartito, in Id., Ortodossia ed eresia…, pp. 205-243.
485
Cfr. J. Daniélou, Messaggio evangelico…, pp. 536-537. S. Lilla, invece, completa le
osservazioni dello studioso francese e riporta diversi passi di Platone, dei medioplatonici e degli gnostici
che potrebbero essere le fonti della dottrina clementina di Himmelsreise dell’anima. Cfr. S. Lilla, Clement
of Alexandria…, pp. 181-189.
486
1 Cor. 12,17-20.
293

parola tou/ sw,matoj si riferisce appunto alla metafora di 1 Cor. 12,12-28. Clemente parla
di essa anche prima del passo sopraccitato:

Compiutosi il corso dello stato di cose attuale, il Signore verrà dai giusti
che hanno fede, nei quali riposa come in una tenda. «Saranno un solo corpo
tutti»487 coloro che, dalla stessa stirpe, hanno scelto la stessa fede e giustizia per
costituirsi «nella stessa unità»488 (eivj th.n auvth.n e`no,thta avpokatasthso,menoi);
ma alcuni come capo, altri come occhi, altri come orecchi, altri come mani, altri
come petto, altri come piedi489 saranno posti nel sole, luminosi, «splendidi come
il sole»490, o nel sole, perché nel sole c’è un angelo con un compito direttivo. È
stato ordinato «per il dominio dei giorni», come la luna è «per dominare la
notte»491: e ad essere chiamati «giorni» furono gli angeli492. [I giusti]
prenderanno posto con gli angeli che sono col sole – il sole è un’unità in quanto
«capo del corpo»493 che è uno – destinati ad essere per un certo periodo anche
loro dominatori dei giorni494.

Come vediamo, questo passo è composto da una serie di diverse citazioni


scritturistiche, che in realtà mirano a chiarire la frase di Ps. 18,5: «nel sole pose la sua
tenda»495, la cui interpretazione Clemente comincia poco prima496. In ogni modo, ciò
che ci interessa è il fatto che nel passo troviamo una chiara allusione all’immagine
paolina del corpo di Cristo. Questa metafora, che si riferisce alla struttura gerarchica e
carismatica della Chiesa terrena, viene utilizzata dal nostro autore per descrivere la
struttura della realtà escatologica. Così, dunque, come nella Chiesa terrena, anche in
quella celeste ci saranno diverse membra, più o meno nobili. E altresì nell’aldilà non
tutti i salvati potranno avere la loro dimora presso il capo stesso. Nonostante anche in
questo passo venga ammessa la possibilità di passare da un grado inferiore a quello
superiore della gerarchia, la struttura dell’aldilà viene sempre salvaguardata. Infatti,
come leggiamo più avanti, il rango abbandonato da coloro che sono stati resi perfetti
viene occupato da quelli che erano loro sottoposti. E analogamente il luogo lasciato da

487
1 Cor. 12,12
488
Cfr. Eph. 4,13.
489
Cfr. 1 Cor. 15,21.
490
Cfr. Matth. 13,43.
491
Cfr. Gen. 1,16. 18.
492
Cfr. Ps. 18,3 in LXX.
493
Col. 1,18.
494
Clem., Ecl. Proph. 56,3-6.
495
In LXX: evn tw/| h`li,w| e;qeto to. skh,nwma auvtou/. Cfr. Clem., Ecl. Proph. 56,1 sgg.
496
Cfr. Clem., Ecl. Proph. 56,1 sgg.
294

questi ultimi offre la possibilità di progresso a coloro che stanno al livello ancora più
basso della gerarchia angelica497.

Ma tale struttura durerà eternamente o si risolverà alla fine dei tempi, quando
ormai tutti saranno giunti alla contemplazione “faccia a faccia”? Può darsi. Infatti, il
perfezionamento del quale parla Clemente potrebbe avere dei limiti, ossia le anime
progrediranno soltanto fino ad un certo punto, finché non giungano alla dimora loro
destinata. E questa appunto, sarebbe la ricompensa proporzionale alla vita trascorsa
sulla terra. Tale conclusione ricaviamo anche dall’immagine paolina del corpo di Cristo
che per Clemente diventa la metafora delle realtà escatologiche. Infatti, se la Chiesa
celeste, in quanto corpo, deve sempre avere diverse membra, più e meno nobili, può
darsi che alla fine dei tempi la sua struttura gerarchia sarà anche conservata. In questo
modo, il progresso fino alla contemplazione “faccia a faccia” riguarderebbe soltanto gli
gnostici e i perfetti ai quali era stata promessa la ricompensa più elevata rispetto a quella
dei semplici. Gli altri potrebbero progredire soltanto fino ad un certo punto senza la
possibilità di oltrepassare il livello loro destinato. In favore di questa ipotesi parlano le
seguenti affermazioni dell’Alessandrino. Alcune di esse sono state già citate:

1. “Ci sono infatti presso il Signore più ricompense e «dimore»498, in rapporto


al genere di vita prescelto”499.
2. “«Ci sono anche altre pecore – dice il Signore – che non sono di questo
ovile»500, ritenute degne d’altro ovile e d’altra dimora in proporzione alla
fede”501.
3. “Attratti dallo Spirito santo, gli eletti occupano la prima dimora, gli altri via
via fino all’ultima”502.

497
Cfr. Clem., Ecl. Proph. 56,7: “E coloro che sono immediatamente vicini a questi [cioè ai
perfetti divenuti protoctisti] progrediranno fino a raggiungere il rango che quelli hanno abbandonato, e
così analogamente quelli che sono sottoposti”.
498
Osserviamo che il termine monh, che in Giovanni significa semplicemente una dimora
escatologica, uguale a tutte le altre (cfr. Io. 14,2: evn th/| oivki,a| tou/ patro,j mou monai. pollai, eivsin), in
Clemente designa i gradi della beatitudine celeste.
499
Clem., Strom. IV 36,3: eivsi. ga.r para. kuri,w| kai. misqoi. kai. monai. plei,onej kata. avnalogi,an
bi,wn.
500
Io. 10,16.
501
Clem., Strom. VI 108,2: ¹e;stin de.. kai. a;lla¹( fhsi.n o` ku,rioj( ¹pro,bata( a] ouvk e;stin evk th/j
auvlh/j tau,thj¹( a;llhj auvlh/j kai. monh/j avnalo,gwj th/j pi,stewj kathxiwme,na.
502
Clem., Strom. VII 9,4: kai. tw|/ a`gi,w| pneu,mati evlko,menoi oi` me.n evna,retoi oivkeiou/ntai th|/
prw,th| monh|/( evfexh/j dV a;lloi me,cri th/j teleutai,aj.
295

4. “A queste tre elette dimore alludono i numeri della parabola evangelica,


trenta, sessanta, cento503. L’eredità perfetta è di quelli che raggiungono lo
stato «di uomo perfetto»”504.
5. “Ciascuno, a seconda del proprio progresso, possiede un’appropriata “gnosi”
di Dio, in virtù della quale Dio riposa in lui”505.

Le affermazioni elencate sopra parlano soprattutto del destino di coloro che


durante il corso della vita terrena, pur non essendo perfetti, avevano fede, almeno quella
semplice, e facevano delle opere buone. A costoro appunto viene promessa la
ricompensa proporzionale alle loro opere e alla loro fede. Tuttavia, la questione rimane
aporetica, perché la struttura dinamica della Chiesa celeste, descritta nelle Eclogae
Propheticae, suppone che i salvati (e dunque anche questi semplici) diventeranno i
discepoli degli angeli (per mille anni) e di seguito loro stessi diventeranno maestri etc.
Se i semplici dovessero fermarsi in un certo momento di questo progresso, potremmo
immaginare una situazione ipotetica in cui i loro discepoli, quelli che sulla terra
conducevano la vita dello gnostico, potrebbero oltrepassare la perfezione dei propri
maestri. E ciò sarebbe assurdo. Anzi, sarebbe paradossale già il fatto stesso che i
semplici perfezionati nell’aldilà diventassero maestri degli gnostici giunti nella chiesa
celeste dopo di loro. Può darsi dunque che, secondo Clemente, i perfetti non dovranno
passare attraverso tutte le tappe della gerarchia escatologica per giungere così
immediatamente alle dimore più elevate. Infatti, “rapida via di purificazione è la gnosi,
ed atta a provocare il ben gradito trapasso al grado superiore”506. Purtroppo, Clemente
non ci ha lasciato un trattato sistematico della dottrina dell’escatologia, per poter
risolvere tutte le questioni aporetiche qui segnalate. In realtà, le nostre ipotesi si basano
soltanto su alcuni passi, a volte contraddittori, che non sono in grado di procurarci le
risposte sicure e inattaccabili riguardo all’argomento.

In ogni modo, dopo quanto è stato detto finora, possiamo formulare una
conclusione riguardo al tema del nostro studio. Nonostante tutte le ambiguità elencate
sopra, per quanto riguarda il concetto della trascendenza di Dio, Clemente sembra
essere conseguente. Così, dunque, l’essenza divina rimane sempre imperscrutabile da

503
Cfr. Matth. 13,8. Si tratta della parabola del seminatore.
504
Clem., Strom. VI 114,3-4: tau,taj evklekta.j ou;saj ta.j trei/j mona.j oi` evn tw|/ euvaggeli,w|
avriqmoi. aivni,ssontai( o` tria,konta kai. Éo`Ë e`xh,konta kai. o` e`kato,n) kai. h` me.n telei,a klhronomi,a tw/n
¹eivj a;ndra te,leion¹ avfikoume,nwn. Cfr. Eph. 4,13.
505
Clem., Ecl. Proph. 57,2: e[kastoj ga.r kata. th.n ivdi,an prokoph.n oivkei,an e;cei th.n peri. qeou/
gnw/sin( evfV h|- gnw,sei avnapau,etai o` qeo,j.
506
Cfr. Clem., Strom. VII 56,7.
296

parte dell’uomo sia durante il corso della vita terrena sia dopo la morte. E anche se il
nostro autore, in diversi luoghi delle sue opere, promette allo gnostico la
contemplazione “faccia a faccia”, in realtà non ammette l’immediato “contatto” con il
Dio trascendente. Infatti, la più elevata dimora escatologica, come abbiamo visto, è
sempre inferiore rispetto a quella del Logos. Se è così, la “chiara comprensione di Dio”,
della quale a volte parla Clemente, significherà l’accesso al mondo delle idee, anche
imperscrutabile per natura, che lo gnostico, durante la sua vita terrena, contempla
soltanto per speculum et in aenigmitate.

2.6. Conclusioni. L’originalità della dottrina della trascendenza

In questo breve paragrafo conclusivo, come nell’analogo su Filone, evidenziamo


i più pregnanti e i più originali elementi della dottrina della trascendenza di Dio, ma
altresì alcune nuove soluzioni teoriche che per la prima volta troviamo negli scritti
dell’Alessandrino e che successivamente saranno riprese e sviluppate da diversi
pensatori: filosofi e teologi. A questo proposito cerchiamo di evitare di paragonare la
dottrina di Clemente con quella di Filone, in quanto il completo quadro comparativo del
pensiero di ambedue gli alessandrini sarà fatto nel capitolo successivo.

Il concetto dell’infinità di Dio. Clemente è il primo scrittore cristiano, ma anche


in genere: il primo pensatore nell’ambito della filosofia greca anteriore a Plotino a
parlare in maniera esplicita dell’infinità di Dio507. Questo fatto, come abbiamo mostrato
nel corso del presente capitolo, è sfuggito all’attenzione di molti studiosi moderni e
finora non è stato abbastanza sottolineato508. È vero che già i presocratici (come ad

507
Cioè è il primo che utilizza l’aporetico termine a;peiron nei confronti di Dio. Prima di lui,
dell’infinità divina parlava anche Filone, e probabilmente alcuni medioplatonici, come ad esempio
Apuleio (cfr. Apul., De Plat. I 190-193). Costoro, però, utilizzavano a questo proposito gli aggettivi
diversi, come: avperi,grafoj, avteleu,thtoj, avperi,metroj, avperio,ristoj e avu,qhtoj che possono acquisire vari
significati. L’a;peiron, invece, nella storia della filosofia greca è diventato il termine tecnico nel discorso
sull’infinito.
508
H. F. Hägg, ad esempio, nella sua tesi dottorale pubblicata recentemente (Clement of
Alexandria and the Beginnings of Christian Apophaticism, Oxford 2006), nonostante riporti il passo
clementino di Strom. V 81,6 nel quale per la prima volta dai tempi dei presocratici appare il positivo
concetto dell’infinità nei confronti di Dio, non si sofferma su questo argomento. Probabilmente è così,
perché lo studioso durante la sua ricerca non ha preso in esame, anche se lo esigerebbe l’argomento della
sua tesi, le pubblicazioni del Whittaker e del Choufrine (cfr. J. Whittaker, Philological Comments on the
Neoplatonic Notion of Infinity, in The Significance of Neoplatonism, ed. R. Harris, Norfolk 1976, pp. 155-
172; A. Choufrine, The Aspects of Infinity in Clement of Alexandria, JNS 2 (1997), pp. 3-44) che
contengono un’analisi dettagliata della nozione dell’infinità di Dio in Clemente, nel medio- e nel
neoplatonismo. In realtà, questi studi non sono né citati nel corso dello studio del Hägg né elencati nella
sua bibliografia finale.
297

esempio Anassimandro o Anassagora) parlavano della nozione dell’a;peiron nei


confronti dell’avrch, dell’universo, comunque il primo principio delle loro dottrine era
considerato ancora come corporeo. Costoro, infatti, appunto per distinguere l’avrch, dagli
altri elementi materiali attribuivano ad essa il carattere dell’indeterminato e illimitato,
mentre gli elementi: l’acqua, l’aria, il fuoco e la terra erano determinati e finiti. Tale
concetto dell’infinito-corporeo è stato criticato dai filosofi che consideravano Dio come
un essere trascendente e intelligibile; e cioè da Platone e Aristotele. Può sembrare,
comunque, che già Platone abbia parlato dell’infinito incorporeo in maniera positiva
perché nella prima ipotesi del suo Parmenide dimostra che l’uno è infinito in quanto
privo di parti e di limiti. Tuttavia, bisogna notare che le ipotesi esposte nel dialogo
summenzionato riguardano i paradossi del linguaggio e che né il Demiurgo né le idee
vengono considerati dal filosofo come gli esseri infiniti. Aristotele, invece, nella sua
Fisica molto chiaramente respinge la tesi che l’infinito possa esistere in atto.
L’Alessandrino conosce bene sia l’una sia l’altra opera e indubbiamente doveva
riflettere sulle argomentazioni in esse contenute, in quanto nella sua definizione
dell’a;peiron inserisce i termini tecnici dei quali si servivano i filosofi ateniesi. La sua
originalità, però, non consiste nell’uso della terminologia elaborata dai predecessori, ma
nel fatto che egli, servendosi delle conclusioni alle quali sono giunti Platone e Aristotele
durante le loro riflessioni intorno all’infinito, introduce nella discussione filosofica una
nozione nuova: quella dell’avdia,staton, e non si astiene più dal definire Dio come
a;peiron. Infatti afferma: avdiai,reton ga.r to. e[n( dia. tou/to de. kai. a;peiron( ouv kata. to.
avdiexi,thton noou,menon( avlla. kata. to. avdia,staton kai. mh. e;con pe,raj 509. Per Clemente,
dunque, Dio inteso come l’Uno è infinito perché è indivisibile e, in quanto di natura
intelligibile, non ha né dimensione né limite. Introducendo nella sua definizione la
delimitazione: ouv kata. to. avdiexi,thton( avlla. kata. to. avdia,staton il nostro autore mette
in risalto che ciò che non ha dimensioni non può essere percorribile, ma neanche
impercorribile. In questa breve, ma assai importante constatazione, l’Alessandrino
concorda con Platone secondo il quale l’Uno, in quanto indivisibile e senza limiti,
dovrebbe essere considerato come infinito510; e con Aristotele per il quale l’infinito
inteso come impercorribile (avdiexi,thton) non può esistere né in atto né in potenza511. In
ogni modo, Clemente polemizza con i filosofi ateniesi in quanto non lega più la nozione

509
Clem., Strom. V 81,6.
510
Cfr. Plat., Parm. 137 C-D.
511
Cfr. Aristot., Phys. 206 B 22 sgg.
298

dell’a;peiron all’imperfezione e l’attribuisce a Dio – un essere trascendente e perfetto –


gesto che né Platone né Aristotele avevano mai fatto.

A questo proposito va sottolineata anche la polemica dell’Alessandrino con


un’altra affermazione dello Stagirita. Infatti, mentre Aristotele afferma: te,leion dV ouvde.n
mh. e;con te,loj (niente è perfetto se non ha fine)512, Clemente definisce Dio appunto
come te,loj to. avteleu,thton kai. te,leion513 – cioè il fine infinito e perfetto. Ricordiamo
che l’avteleu,thton, oltre l’a;peiron, è altresì il termine aristotelico tecnico e ricorre nelle
definizioni dell’infinito contenute nella Fisica514. Conformemente alla sua tesi, lo
Stagirita non può attribuire la caratteristica dell’infinità al ‘suo’ Dio. Infatti, il Primo
Motore Immobile, in quanto causa finale, deve essere perfetto (e perciò perfettamente
compiuto), altrimenti non potrebbe essere l’oggetto di desiderio e non potrebbe attirare,
ossia muovere tutti gli altri esseri. Inoltre, se egli non fosse atto puro, che per
definizione è compiuto, significherebbe che c’è in lui qualche potenzialità di diventare
qualcos’altro; e in questo caso potrebbe anche non muovere. Se, poi, il Primo Motore
Immobile non muovesse non ci sarebbe il movimento nell’universo e questo per lo
Stagirita è impensabile, in quanto sia il movimento sia il tempo sono considerati da lui
come le realtà eterne515. Gli assiomi del sistema metafisico di Aristotele, dunque,
impediscono al filosofo di attribuire a Dio la caratteristica dell’infinità. Clemente non ha
più questo problema, perché non deduce l’esistenza di Dio dal fatto dell’eternità del
movimento (correlata all’eternità del tempo) e non considera Dio soltanto come il
principio del movimento. Per lui Dio è il creatore del mondo e il suo benefattore. La sua
potenza, come attestano diverse affermazioni della Bibbia, è infinita; il che vuol dire
che egli può agire in modi infiniti al di fuori della sua essenza, e che niente è in grado di
opporsi alla sua onnipotenza; mentre il Dio di Aristotele pensa solamente se medesimo
e non sa niente del mondo corporeo516. Occorre, però, notare che anche in Clemente
Dio, in quanto Nous, è l’attività pensante e che il fatto del suo agire nell’universo non
contraddice la sua radicale trascendenza. In realtà, egli non entra in diretto contatto con
il mondo corporeo, ma agisce per il tramite del Logos. Quest’ultimo, avendo la sua
fonte nell’infinita essenza divina, è altresì infinito. In questo modo il Dio infinito, pur
512
Aristot., Phys. 207 A 14.
513
Clem., Strom. VII 56,3; Cfr. anche Strom. II 134,1.
514
Cfr., ad esempio, Aristot., Phys. 204 A 5-6.
515
Tale convinzione è la conseguenza logica della definizione aristotelica del tempo. Cfr.
Aristot., Metaph. 1071 B 6-9. Cfr. anche Phys. 250 B sgg., dove l’argomento dell’eternità del tempo e del
movimento (accennato soltanto nella Metafisica) viene più largamente sviluppato. Ne abbiamo parlato nel
capitolo introduttivo: Una breve storia della trascendenza nella filosofia antica.
516
Cfr. Aristot., Metaph. 1074 B, 15-35.
299

rimanendo al di là dell’essere, è la causa prima di tutto ciò che avviene nel mondo. È la
causa oltre le cause (to. evpe,keina ai;tion)517 dalla quale proviene tutta la realtà visibile e
invisibile.

Sottolineiamo ancora che l’argomento dell’infinità divina in Clemente non


appare soltanto a proposito di alcune definizioni o formule polemiche con i filosofi
ateniesi, ma svolge un ruolo molto importante in tutta la dottrina dell’Alessandrino.
Infatti, dato che Dio è infinito, l’intelletto umano, creato e finito, non è mai in grado di
comprenderlo, e di conseguenza, di esprimerlo in modo adeguato518: né con le forze
naturali della ragione, né in modo sovrannaturale, ossia con l’aiuto della grazia divina.
Da ciò consegue la dottrina della totale inconoscibilità e ineffabilità dell’essenza divina
sottolineata in diversi luoghi delle opere dell’Alessandrino. Per questo motivo anche
l’assimilazione a Dio (o`moi,wsij qew|/) – l’ideale e la meta dello gnostico cristiano –
diventa un processo che tende verso l’infinito. Esso non si conclude neanche dopo la
morte del corpo. Infatti, pure nell’aldilà le anime si perfezionano nella conoscenza e
nell’amore di Dio e passano attraverso diversi gradi della gerarchia escatologica519 per
occupare alla fine la dimora più vicina presso l’Ingenerato. Ma anche allora, ossia
quando si realizza la promessa relativa alla contemplazione “faccia a faccia”, le anime
degli gnostici non riescono ad abbracciare nell’amore né comprendere intellettualmente
ciò che è Dio, appunto perché egli è infinito. “Ciascuno – afferma Clemente – a seconda
del proprio progresso, possiede un’appropriata “gnosi” di Dio, in virtù della quale Dio
riposa in lui”520, però non esiste un’anima che in toto possa abbracciare l’infinita
essenza dell’Ingenerato. Per questo motivo, appunto, Clemente parla di una visione che
non produce mai la sazietà521. Infatti, il desiderio di possedere e di conoscere Dio, che
spinge le anime dei perfetti a progredire sempre di più nel processo di assimilazione,
non viene mai soddisfatto: sempre rimarrà qualcosa che persino le anime più
assomigliate a Dio non hanno ancora appreso dalla natura di colui che è infinito.
Quindi, il cammino spirituale, che lo gnostico comincia durante la vita terrena e
continua nell’aldilà, tende verso l’infinito, appunto perché l’infinito è il fine di questo
processo. “Quanto a noi – ribadisce il nostro autore – ci è proposto di giungere ad un

517
Cfr. Clem., Strom. VII 2,3.
518
Cfr. Clem., Strom. VI 165,5-166,3.
519
Cfr. Clem., Ecl. Proph. 57,1-5.
520
Clem., Ecl. Proph. 57,2.
521
Cfr. Clem., Strom. VI 108,1; VII 13,1. Cfr. anche Greg. Nyss., Vit. Mos. I 7; II 238-239 che
riprende lo stesso argomento, ossia che a causa dell’infinità dell’essenza divina le anime che cercano di
comprenderla non giungono mai allo stato di sazietà.
300

fine che non ha fine (eivj te,loj avteleu,thton) […], cioè a Dio (toute,sti tw|/ qew|/)”522.
L’Alessandrino, dunque, non solo considera l’infinito come una caratteristica positiva,
ma traendo dal fatto dell’infinità di Dio le conseguenze concernenti l’epistemologia,
l’etica e l’escatologia, anticipa le idee che posteriormente saranno sviluppate nella
filosofia di Plotino e nel pensiero dei Padri cappadoci523.

La via negationis. A causa dell’inconoscibilità dell’essenza divina, tutti gli


appellativi, anche quelli biblici, che l’uomo utilizza parlando di Dio, secondo
l’Alessandrino, sono nomi impropri e non descrivono adeguatamente ciò che egli è. In
realtà, l’intelletto umano non è in grado di formulare una definizione di Dio, perché
conosce soltanto il modo in cui egli appare, ossia come agisce a favore del creato, ma
non ciò che egli è in se stesso. In ogni modo, Clemente si serve di molteplici aggettivi,
soprattutto quelli con a-privativo, che a suo parere, descrivono più adeguatamente la
natura divina. Dio, quindi, è: avo,ratoj, avdiai,retoj, a;peiroj, avge,nnhtoj, a;narcoj,
avschma,tistoj, a;fqartoj, avpaqh,j etc. Tutti questi aggettivi, negando una realtà propria
del livello visibile della realtà (e quindi conoscibile da parte dell’intelletto umano),
dicono qualcosa sulla natura divina, comunque rivelano piuttosto ciò che essa non è, che
ciò che essa è. L’utilizzo di questo tipo di terminologia nei confronti di Dio non è una
novità, in quanto anche gli apologisti anteriori a Clemente si servivano degli stessi o
simili aggettivi. L’originalità del nostro autore consiste però nel fatto che egli, per la
prima volta nell’ambito della patristica, descrive il metodo di astrazione attraverso il
quale l’intelletto umano può arrivare a qualche, non erroneo, concetto di Dio. Infatti, nel
passo di Strom. V 71,2-3 il nostro autore afferma che questo procedimento
metodologico “comincia con l’analisi degli esseri che le sono soggetti, astraendone le
qualità fisiche, spogliandone la dimensione in profondità, poi quella in larghezza, da
ultimo quella in lunghezza. Il punto che resta è l’unità. Essa serba ancora, per così dire,
una posizione. Se la spogliamo della posizione, si giunge al concetto di unità”. E Dio
appunto è l’uno che è al di sopra di tutte le categorie fisiche e metafisiche delle quali si
serve l’intelletto umano. Anzi, “Dio è uno e al di là dell’uno stesso e al di sopra

522
Clem., Strom. II 134,1.
523
E soprattutto nelle opere di Gregorio di Nissa. Lo abbiamo mostrato nel corso del presente
capitolo citando parecchi passi del Cappadoce nei quali vengono riprese le affermazioni
dell’Alessandrino.
301

dell’unità”524, perché la nozione dell’unità è caricata ancora di significati propri del


livello visibile della realtà.

Questo metodo di astrazione era già noto ai medioplatonici dell’epoca, ma con


Clemente diventa altresì il metodo della teologia cristiana. Occorre però notare che
l’Alessandrino in questo punto della sua dottrina appare originale anche per quanto
riguarda la storia della filosofia greca. Infatti, lega questo procedimento
specificatamente teoretico al processo di perfezionamento etico-spirituale al quale
dovrebbe partecipare il filosofo che mira a conoscere Dio. In realtà, subito dopo il passo
appena citato il nostro autore continua dicendo: “Se poi, astraendo da tutte le qualità
inerenti ai corpi e alle così dette realtà incorporee, ci slanciamo nella grandezza del
Cristo e di qui procediamo in santità di vita verso l’abisso, allora potremo in qualche
modo giungere all’intelligenza dell’Onnipotente”525. Prescindendo dall’affermazione in
cui viene menzionata la figura del Cristo – elemento tipicamente cristiano – per
l’Alessandrino la buona condotta morale diventa una condizione senza la quale l’uomo
non può giungere a una conoscenza di Dio. Questo elemento etico-spirituale sembra
essere un altro lato dello stesso processo in cui l’intelletto del vero filosofo si eleva
metodicamente verso un’adeguata comprensione del divino526. La stessa dottrina
incontriamo successivamente nella filosofia di Plotino. Infatti – come osserva L.
Pelloux – “tutta la filosofia di Plotino trova il suo punto di riferimento nell’Assoluto: e
ciò non avviene solo per la speculazione astratta, avulsa della vita; ma per la vita stessa.
Vivere è per Plotino elevarsi verso l’Assoluto, ritornare all’Assoluto”527. Questo ritorno
consiste nell’ascesi, insieme speculativa e morale, durante la quale l’anima via via si
libera dal mondo sensibile per conoscere sempre di più ciò che è intelligibile e divino;
dunque appunto nello stesso modo in cui l’ascesi dell’anima concepisce Clemente.

La generazione del Logos. Per quanto riguarda la dottrina del Logos, anche se
essa non viene esposta in modo chiaro e sistematico (e perciò è suscettibile di diverse
interpretazioni), troviamo alcune soluzioni originali nelle opere dell’Alessandrino che,
può darsi, siano state lo spunto per la speculazione posteriore a riguardo
dell’argomento. Infatti, a proposito della generazione del Logos il nostro autore

524
Clem., Paed. I 71,1.
525
Clem., Strom. V 71,3-4.
526
Cfr. H. F. Hägg, Clement of Alexandria…, p. 225 che nell’esposizione clementina della via
negativa (nota già ai medioplatonici) scorge l’originalità dell’Alessandrino appunto nel fatto della
connessione di questi due lati del metodo di astrazione, ossia quello speculativo e quello etico-spirituale.
527
L. Pelloux, L’assoluto nella dottrina di Plotino, Milano 1994, p. 206.
302

afferma: “«nel principio», il Logos nella sua identità (o` evn tauvto,thti lo,goj) è divenuto
Figlio, secondo la delimitazione e non secondo essenza (kata. perigrafh.n kai. ouv
katVouvsi,an)”528. Nonostante Clemente non utilizzi in questa constatazione la distinzione:
ouvsi,a / u`po,stasij, della quale si servirà sistematicamente la teologia a partire del quarto
secolo, è evidente che secondo lui tale generazione, avvenuta fuori del tempo, non
congettura la divisione della sostanza (ouvsi,a) divina. Il Logos, dunque, è della stessa
sostanza del Padre, anche se il termine o`moou,sioj non appare nelle sue opere se non
soltanto nel contesto della polemica con i concetti antropologici degli gnostici529. Può
darsi anche che tale generazione, come suggeriscono alcuni studiosi, sia una
generazione perpetua. In realtà, in un altro luogo, il nostro autore afferma che “non c’è
Padre senza Figlio, perché con l’essere Padre egli è Padre di un Figlio (ouv mh.n ouvde. o`
path.r a;neu ui`ou/\ a[ma ga.r tw|/ path.r ui`ou/ path,r)”530: dunque esprime la stessa idea che
troviamo in Origene. Non sottolinea, comunque, così chiaramente come lo farà
l’Adamanzio, che il Figlio ha tratto il suo essere dal Padre “senza alcun momento
d’inizio”531.

Dato che le affermazioni di Clemente riguardo al Logos non sono univoche,


alcuni studiosi interpretando la sua dottrina parlano degli stadi dell’esistenza del
Logos532. Secondo questa interpretazione, prima il Logos sarebbe stato impersonale, in
quanto la totalità delle potenze e delle idee divine, e successivamente, ossia dopo che
Dio aveva preso la decisione di creare il mondo, sarebbe diventato un’ipostasi –
principio della futura creazione. S. Lilla introduce persino il terzo stadio dell’esistenza
del Logos nel quale questi dovrebbe essere inteso come un essere creato, immanente al
mondo. La sua tesi, però, si basa su un solo passo, isolato dal contesto, nel quale ricorre
il termine prwto,ktistoj utilizzato nei confronti della Sapienza biblica. Tuttavia, come
abbiamo mostrato nel corso del presente capitolo, la parola prwto,ktistoj non
necessariamente deve significare “la prima creatura” (come avviene in diversi luoghi
delle opere dell’Alessandrino533), bensì può equivalere a prwto,tokoj o prwto,gonoj
(primogenito). In realtà, prima della controversia ariana, e anche nelle opere stesse di

528
Clem., Exc. Ex Theod. 19,1.
529
Cfr., ad esempio, Clem., Strom. II 74,1; IV 91,2; Exc. ex Theod. 42,3.
530
Clem., Strom. V 1,3.
531
Cfr. Orig., De Princ. I 2,2.
532
Cfr. S. Lilla, Clement of Alexandria…, pp. 204-212; A. Orbe, La teologia dei secoli II e III…,
vol. I, pp. 200-203.
533
In realtà, i prwto,ktistoi sono i sette angeli superiori. Cfr., ad esempio, Clem., Ecl. Proph.
57,1.
303

Clemente, i verbi kti,zw, gi,gnomai o genna,w a volte vengono utilizzati


scambievolmente534 e indicano, a seconda del contesto, o la creazione o la generazione
nel senso stabilito dalla teologia posteriore. Per di più, occorre notare che
l’Alessandrino, in diversi luoghi delle sue opere, mette in risalto lo strettissimo rapporto
che c’è tra il Figlio e il Padre, e lo fa sia per quanto riguarda il Logos preesistente sia
per quanto riguarda il Logos incarnato. Questi, infatti, è detto: la volontà del Padre 535, il
volto di Dio536, la voce del Padre537, il braccio del Signore538; la luce e l’occhio del
Padre539. Il Logos, secondo Clemente, esisteva nel seno del Padre540 non soltanto in
principio (evn avrch|/), ma è sempre uno con lui, anche “dopo”541 la sua generazione e
dopo la sua incarnazione542. Pertanto, riflettendo sul mistero dell’incarnazione, il nostro
autore esclama: “O grande Dio, o Bambino perfetto! Figlio nel Padre e Padre nel
Figlio”543. Va anche notato che l’Alessandrino attribuisce al Logos immanente le stesse
caratteristiche con cui altrove viene descritto il Dio trascendente: egli, infatti, pur
essendo presente nel mondo, “non si scosta mai dalla sua dimora (periwph,)544, poiché
non è diviso, non è separato, non trapassa dal luogo a luogo. Egli è dovunque, sempre, e
in nessun luogo è contenuto”545. Per di più, Clemente cerca sempre di conservare
l’identità del soggetto del Logos: colui, dunque, che evn avrch|/ era “nel seno del Padre” è
lo stesso che parlava per mezzo dei profeti e infine è lo stesso che si è fatto carne. Per

534
Questo fenomeno è osservabile anche nel caso degli angeli “protoctisti” che altrove vengono
definiti come prwto,gonoi. Cfr. Clem., Strom. V 143,1.
535
Cfr. Clem., Protr. 120,4.
536
Cfr. Clem., Paed. I 57,2-3.
537
Cfr. Clem., Strom. VI 34,3.
538
Cfr. Clem., Protr. 120,4.
539
Cfr. Clem., Strom. VII 5,5.
540
Cfr. Clem., Exc. Ex Theod. 8,1.
541
Scriviamo la parola “dopo” tra le virgolette, perché in realtà Clemente non stabilisce il
momento della generazione del Logos e, può darsi, che tale momento non sia mai esistito se supponiamo
che il Logos sia generato eternamente.
542
Clem., Paed. I 62,4; II 75,2. Cfr. anche Paed. I 4,1, dove parlando del Logos incarnato
Clemente afferma che egli è “colui che è nel Padre” (o` evn tw|/ patri,).
543
Clem., Paed. I 24,3.
544
La parola periwph,, che esplicitamente significa ‘luogo dove si vede attorno’ o ‘posto
d’osservazione’, è il termine platonico (cfr. Plat., Polit. 272 E) che in un altro luogo delle opere
clementine viene utilizzato per indicare la dimora propria del Dio trascendente: “Esiste un solo Dio, egli è
immune da corruzione e da generazione, ed esiste veramente e per sempre in alto, nelle più distanti
regioni del cielo, in una sua propria e particolare dimora (periwph,)”. Clem., Protr. 68,3.
545
Clem., Strom. VII 5,5. Cfr. anche Clem., Strom. II 6,2-3, dove la stessa caratteristica (ossia:
“contenente, ma non contenuto”) viene utilizzata nei confronti del Dio trascendente.
Notiamo, a questo proposito, che le affermazioni contenute nel passo sopraccitato contraddicono
all’interpretazione di S. Lilla secondo il quale il Logos immanente (il terzo stadio della sua esistenza)
sarebbe una creatura. In realtà, il Logos, anche se è dovunque, non è diviso e non è contenuto in nessun
luogo, perché è presente nel mondo secondo la sua potenza (o per il tramite delle potenze che hanno la
loro fonte in lui, cfr. Strom. IV 156,1-157,1), mentre la sua essenza è sempre unita all’essenza del Padre.
Non esistono dunque i due Logoi: l’uno generato e unito al Padre, l’altro creato e immanente al mondo.
304

questi motivi, e dato che l’Alessandrino molto chiaramente afferma che prima della
creazione del mondo non ci fu il tempo546, l’interpretazione che introduce gli stadi di
esistenza del Logos è difficilmente sostenibile. E infatti essa è stata criticata
recentemente da M. J. Edwards e H. F. Hägg547. Costoro argomentano che lo schema
stoico: logos endiathetos / logos prophorikos, secondo il quale molti studiosi
presentano la Logos-Theologie dei primi due secoli, non è stato applicato da tutti gli
autori cristiani di questa epoca, se non soltanto da Teofilo di Antiochia che ne parla in
modo esplicito548 e che Clemente stesso rigetta il concetto secondo il quale il Figlio
possa essere inteso come il lo,goj proforiko,j549. M. J. Edwards e H. F. Hägg mostrano,
per di più, che l’Alessandrino, polemizzando con gli gnostici, tende appunto a
salvaguardare l’unità del Logos, anche se da alcune delle sue affermazioni, isolate dal
contesto, può sembrare il contrario550. A nostro avviso gli studiosi che parlano degli
stadi dell’esistenza del Logos in Clemente si sono ispirati troppo a un’interpretazione
particolare della dottrina filoniana fatta da H. A. Wolfson551 e trasportata dallo stesso
autore nell’ambito del pensiero cristiano dei primi secoli552. Abbiamo parlato di questa
interpretazione in diversi luoghi del capitolo su Filone. Sottolineiamo soltanto che
Filone stesso, che senza nessun dubbio ha influenzato molti Padri della Chiesa (e
Clemente ne è un esempio evidente), non parla esplicitamente degli stadi dell’esistenza
del Logos. Questa è un’interpretazione del Wolfson, criticata recentemente da tanti
studiosi. Inoltre, l’ebreo di Alessandria, sebbene conosca la distinzione: logos
endiathetos / logos prophorikos, non l’applica mai al Logos di Dio. In realtà, essa

546
Cfr. Clem., Strom. VI 141,7-142,4.
547
Cfr. M. J. Edwards, Clement of Alexandria and his Doctrine of the Logos…, pp. 159-177; H.
F. Hägg, Clement of Alexandria…, pp. 185 sgg.
548
Cfr. Theoph., Ad Autol. II 10; II 22. In ogni modo, come osserva M. J. Edwards, “no-one cites
his work [i.e. of Theophilus of Antioch] before Eusebius, and no-one before Eusebius’ time returned to
the combination endiathetos / prophorikos in expounding the generation of the Logos”. Id., Clement of
Alexandria and his Doctrine of the Logos…, p. 161.
549
Cfr. Clem., Strom. V 6,3. Cfr. anche H. F. Hägg, Clement of Alexandria…, pp. 242-243.
550
A questo proposito, M. J. Edwards riporta anche l’accusa che aveva formulato il vescovo
Alessandro contro la dottrina di Ario che, secondo lo studioso, mostra che la dottrina di due Logoi era
considerata ad Alessandria come un’eresia. Anche se questa testimonianza proviene dal quarto secolo, M.
J. Edwards argomenta: “In Clement’s time the only proponents of any such belief would seem to have
been the Valentinians, whose influence all would-be-orthodox writers of this epoch, and especially those
of Egypt, felt obliged to counteract [...]. Clement’s Valentinian contemporaries did not maintain an
eternal generation of the Word who became incarnate; instead they apply this title, along with other
Christological appellations, to consecutive modes of being”. M. J. Edwards, Clement of Alexandria and
his Doctrine of the Logos…, p. 173. Di seguito lo studioso riferisce la polemica clementina con i concetti
cristologici degli gnostici fatta negli Excerpta ex Theodoto. Cfr. Ibid. pp. 173 sgg.
551
ed esposta nella sua opera monumentale di due volumi: Philo. Foundations of Religious
Philosophy in Judaism, Christianity, and Islam, op. cit.
552
Cfr. Id., The Philosophy of the Church Fathers, op. cit.
305

appare nelle sue opere soltanto nel contesto dell’antropologia553. Sembra dunque che lo
studioso americano, e quelli che seguono la sua interpretazione, abbiano sopravvalutato
questa distinzione epistemologica che, a quanto pare, anche nella scuola del Portico
stessa svolgeva un ruolo marginale. Infatti, nella raccolta dei frammenti degli stoici
antichi, fatta dal von Arnim, essa ricorre una sola volta554, e, come lo è in Filone, viene
utilizzata soltanto nel contesto antropologico, non teologico555.

Pur avendo parlato anche noi in questo studio degli stadi di esistenza del Logos
al fine di dividere metodicamente il materiale da esaminare556, non intendiamo la parola
“stadio” nel senso ontologico o temporale, bensì nel senso logico. Infatti, l’Alessandrino
parlando della realtà che è il Logos in diversi contesti ai quali è legata, non accenna mai
a un momento temporale in cui il Logos sarebbe passato dall’uno all’altro stadio della
sua esistenza o in cui sarebbe divenuto un’ipostasi che non era prima. Sono i
commentatori, e non Clemente stesso, a definire il Logos che esiste nel seno del Padre
come impersonale e quello generato come personale557. Può darsi anche che, secondo
l’Alessandrino, il passaggio dall’uno all’altro “stadio”, distinto soltanto logicamente, sia
continuo, in quanto prima della creazione del mondo non c’era nessuno “prima” o
“poi”. In questo modo il Logos sarebbe eternamente generato dal Padre. Questa, però, è
soltanto un’ipotesi, che comunque, come abbiamo mostrato, ha il suo fondamento in
alcune delle affermazioni del nostro autore.

553
Cfr. Spec. Leg. IV 68; Mos. II 127-129. A. Kamesar, argomenta, anzi, che Filone si sarebbe
potuto ispirare, non soltanto alla distinzione epistemologica degli stoici, che troviamo nella raccolta dei
frammenti fatta da von Arnim, ma anche a una delle interpretazioni allegoriche del passo dell’Iliade di
Omero, preservata in D-scholium a Iliade 5.385, in cui si tratta di due giganti gemelli Oto ed Efialte, il
primo identificato con il logos prophorikos, il secondo con il logos endiathetos. Infatti, altresì Filone nella
sua interpretazione allegorica adopera suddetta distinzione nei confronti di due fratelli: Mosè – logos
endiathetos e Aronne – logos prophorikos (cfr. Phil., Migrat. 76–81; Deter. 38–40; Mutat. 208; Qu. in Ex.
II 27), però non lo fa mai nei confronti delle realtà divine. Cfr. A. Kamesar, The Logos Endiathetos and
the Logos Prophorikos in Allegorical Interpretation. Philo and the D-Scholia to the Iliad, GRBS 44
(2004), pp. 163–181.
554
Cfr. SVF II 43.
555
In effetti, il dio degli stoici non è trascendente e nel suo agire nel mondo non si serve delle
ipostasi intermedie, ma si identifica con la sostanza del mondo. Non esiste dunque il logos endiathetos
che sussiste nel intelletto divino e quello prophorikos che opera nel mondo.
556
Infatti, prima abbiamo preso in esame l’argomento del Logos, in quanto sussistente nel “seno
del Padre”, di seguito la questione della sua generazione e della sua attività nel mondo prima della sua
incarnazione e infine i temi legati all’incarnazione stessa.
557
Tale interpretazione sembra essere un’imposizione dei concetti ricavati dagli scritti di alcuni
apologisti – come ad esempio Taziano o Atenagora (cfr. Tatian., Orat. 5; Athenag., Legat. 10) – al
pensiero di un autore che vive in un altro contesto intellettuale. Cfr. M. J. Edwards, Clement of
Alexandria and his Doctrine of the Logos…, pp. 160-161.
306

La distinzione tra l’essenza e la potenza di Dio. Un altro concetto originale,


almeno nell’ambito della teologia nascente558, è la distinzione tra l’essenza e la potenza
divina559. Grazie ad essa Clemente è in grado di parlare della totale trascendenza
ontologica ed epistemologica di Dio e allo stesso tempo della sua immanenza e
conoscibilità. Infatti, nel passo di Strom. II 5,4-5 afferma molto chiaramente che Dio
pur essendo lontano è vicinissimo: “lontano per essenza (po,rrw me.n katVouvsian) – come
potrebbe mai, infatti, ciò che è generato avvicinarsi all’ingenerato? – ma vicinissimo per
la sua potenza (evgguta,tw de. duna,mei) con cui racchiude in sé tutte le cose […]. Invero la
potenza di Dio è sempre presente e ci tocca con la sua forza vigile, benefattrice,
educatrice”. Per questo motivo, anche Dio è detto “contenente, ma non contenuto”
(perie,cwn ouv perieco,menoj): contenente perché è presente in ogni parte del mondo
secondo la sua potenza; ma non contenuto, perché, secondo la sua essenza, rimane
sempre al di là di ogni luogo e tempo560. Clemente identifica questa potenza con il
Logos di Dio. Infatti, riflettendo sul ruolo del Figlio nella storia della salvezza il nostro
autore esclama: “O santa e benedetta questa potenza, mediante la quale Dio diventa
concittadino degli uomini”561.

Ma, come abbiamo già accennato, la distinzione filosofica tra l’essenza e la


potenza divina svolge il ruolo importante anche nell’ambito dell’epistemologia. In
realtà, secondo l’Alessandrino, Dio è indimostrabile e “non può essere oggetto di
scienza; invece il Figlio è sapienza, scienza, verità e tutto quanto è inerente a queste
qualità e perciò offre possibilità di dimostrazione e di descrizione”562. La potenza di
Dio, dunque, è afferrabile da parte dell’intelletto umano. Va notato, però, che questa
constatazione non riguarda soltanto la rivelazione avvenuta attraverso l’incarnazione del
Logos, ma anche la rivelazione naturale. Per questo motivo appunto, ossia poiché la
potenza divina offre la possibilità “di dimostrazione e di descrizione”, i filosofi pagani,
ancora prima dell’incarnazione del Logos, erano in grado di giungere alle stesse verità,
alle quali molti dei cristiani sono giunti solo attraverso l’insegnamento del Salvatore, e

558
Infatti, tale distinzione troviamo già nello scritto pseudo-aristotelico De mundo (397 B – 399
B) e in Filone di Alessandria del quale abbiamo parlato nel capitolo precedente. Cfr. anche P. L.
Reynolds, The Essence, Power and Presence of God…, pp 351 sgg.
559
Osserviamo a questo proposito che Filone di Alessandria, al quale abbiamo accennato sopra,
parla delle potenze molteplici, che a volte sembrano essere gli intermediari che separano il Dio
trascendente dal creato, mentre Clemente parla di una sola potenza che è Dio rivolto verso il mondo.
560
Clem., Strom. II 6,1-3.
561
Clem., Protr. 117,1.
562
Clem., Strom. IV 156,1.
307

cioè per la fede563. Può sembrare che concetti simili si possano trovare anche negli
scritti degli apologisti anteriori a Clemente, tuttavia, come giustamente osserva H. F.
Hägg, le distinzioni che fanno costoro hanno un background diverso. Inoltre, gli
apologisti, introducendo la figura intermediaria del Logos, cercano di rispondere alla
domanda riguardo al modo con cui il Dio trascendente può essere visto e in che modo
egli avrebbe potuto creato il mondo564. Nonostante si servano a questo proposito del
termine du,namij, così come lo fa Paolo nel passo di 1 Cor. 1,24, non utilizzano la
distinzione tra l’essenza e la potenza di Dio nell’ambito epistemologico, così come lo fa
l’Alessandrino. Per costui, infatti, l’essenza equivale a ciò che è Dio in sé; e la potenza a
ciò che è Dio al di fuori della sua essenza: ossia Dio che si rivela. Se poi il Logos viene
identificato, altresì da Clemente, con la potenza divina (intesa nel modo appena
indicato), allora mette in risalto anche la sua consustanzialità col Padre. Il Figlio,
difatti, è secondo l’Alessandrino il Dio rivolto verso il mondo, o come dice egli stesso:
“il volto di Dio” o “la volontà del Padre”. Questa essendosi rivelata nella creazione
offre la possibilità “di dimostrazione e di descrizione”. L’intelletto umano, dunque, che
tende a conoscere Dio per il tramite della ricerca intorno alle sue opere è in grado di
giungere alla conoscenza del “Logos del Padre dell’universo, che non è questo
pronunciato (proforiko,j), ma sapienza e bontà assolutamente manifesta di Dio e,
rispettivamente, potenza dominatrice di tutto e veramente divina (du,nami,j te au=
pagkrath.j kai tw|/ o;nti qei,a), comprensibile anche a chi non lo confessa, volontà
onnipotente”565. In Clemente, dunque, il termine du,namij non è semplicemente uno degli
appellativi attribuiti al Logos, ma è una concezione legata alla sua dottrina
epistemologica e ugualmente alla sua teologia negativa. In effetti, la potenza è questa
“parte” del Dio trascendente (se si può dire così) che diventa afferrabile per l’intelletto
umano; oppure, con altre parole, è Dio rivolto verso il mondo che si rivela attraverso le
sue opere, ma rimane inconoscibile secondo la sua essenza.

563
Bisogna comunque osservare che per la debolezza naturale della ragione umana, anche la
potenza divina è difficilmente afferrabile. Infatti, per avere un’adeguata concezione della potenza e delle
opere di Dio il filosofo deve essere ben disposto all’azione della grazia divina e progredire nel processo di
assimilazione, del quale abbiamo parlato prima. Altrimenti corre pericolo di cadere in errore, come in
realtà avvenne nel caso di molti pensatori pagani. Cfr. Clem., Strom. VI 166,2-3: “Per sua natura la
ragione umana è debole e impotente a esprimere Dio, non dico il nome – questo lo nominano
comunemente non solo i filosofi, ma anche i poeti –, né l’essenza (ouvde. th.n ouvsi,an) – cosa impossibile
(avdu,naton ga,r) –, ma la potenza e le opere di Dio (avlla. th.n du,namin kai. ta. e;rga tou/ qeou/). E anche
coloro che si attribuiscono come maestro Dio a stento giungono ad una concezione di Dio, quando pure la
grazia li aiuta a formarsi una conoscenza in certa misura approfondita, in quanto si abituano a
contemplare la volontà con la volontà, lo Spirito Santo con lo Spirito Santo”.
564
Cfr. H. F. Hägg, Clement of Alexandria…, p. 242. Sul background ideologico degli apologisti
cfr. P. L. Reynolds, The Essence, Power and Presence of God…, pp. 351 sgg.
565
Clem., Strom. V 6,3.
308

La fede e la gnosi. Alla fine accenniamo ancora ad alcune distinzioni


epistemologiche relative alla nozione di fede (pi,stij) e di conoscenza (gnw/sij) che per
la prima volta, nell’ambito della patristica, troviamo appunto negli scritti di Clemente.
Esse saranno poi riprese e sviluppate nella scolastica medievale. In primo luogo, dunque
l’Alessandrino distingue tra la fede “logica” e la fede “spirituale”566. Il primo tipo della
fede riguarda l’ambito dell’epistemologia e consiste nell’assenso dell’intelletto umano
alle idee indimostrabili, ma ritenuti come veri e ovvi567; dall’altra parte la fede logica è
anche il giudizio che segue alla scienza, in quanto dà assenso alla conclusione riuscita
dalla dimostrazione scientifica568. In questo senso la pi,stij è il fenomeno comune sia
per i filosofi pagani sia per il cristianesimo. In realtà, dal punto di vista metodologico, la
dottrina cristiana non differisce dai sistemi dei più grandi filosofi greci in quanto
anch’essa all’inizio ammette la fede negli assiomi indimostrabili e procede
metodicamente per arrivare alle verità nuove che poi altresì diventano l’oggetto di fede.
Tale argomento viene utilizzato dall’Alessandrino nella polemica con i pensatori pagani
che accusavano il cristianesimo di porre la fede oltre la ragione. In realtà, secondo il
nostro autore, la dottrina cristiana è la vera filosofia, anzi è la filosofia che supera tutte
le altre filosofie, perché, oltre il metodo scientifico che adopera, pone alla base del suo
sistema gli assiomi sicuri e inattaccabili in quanto provenienti da Dio stesso569.

L’altro tipo di fede, ossia quello spirituale, è già specificamente cristiano. Si


tratta del dono di grazia che è in grado di procurare all’uomo la vita eterna. Ma a questo
proposito Clemente introduce ancora un’altra distinzione. Infatti, parla di una fede
comune (koinh. pi,stij), propria dei fedeli semplici; e di una fede “più elevata

566
La terminologia che abbiamo utilizzato per distinguere questi due tipi di fede non è
clementina, ma è stata introdotta da un eminente studioso di Clemente E. Osborn. Cfr. Id., The
Philosophy of Clement of Alexandria…, pp. 127-145; Id., Arguments for Faith in Clement of
Alexandria…, pp. 1–24.
567
Cfr. Clem., Strom. II 54,3-55,2; VII 95,6; VIII 7,1-2.
568
Cfr. Clem., Strom. II 15,5-16,1.
569
È vero che anche gli apologisti anteriori a Clemente consideravano il cristianesimo come la
vera filosofia, però, non toccavano a questo proposito i temi epistemologici e metodologici, così come lo
fa l’Alessandrino. In realtà, costoro si rivolgevano alla nozione stoica del logos spermatikos
argomentando che lo stesso Logos che prima ispirava i profeti e i filosofi pagani in un certo momento
della storia si è fatto carne e ha rivelato la verità tutta intera che prima poteva essere raggiunta soltanto
parzialmente. Clemente, invece, pur non rigettando l’argomento dei suoi predecessori cristiani, si
sofferma piuttosto sul fenomeno della fede e della conoscenza, per mostrare che ogni tipo della
conoscenza umana si basa ultimamente sulla fede negli assiomi indimostrabili, e, dato che questi sono
soltanto congetturali e variano a seconda del sistema, anche la conoscenza dei filosofi è soltanto
congetturale, ossia doxastikh,, mentre la dottrina cristiana viene definita da lui come avpo,deixij
evpisthmonikh,. Cfr. Clem., Strom. II 48,1-4; 49,2-4, citato e analizzato nel capitolo 2.1 La gnosi cristiana.
Le premesse di Clemente.
309

(evxai,retoj), costruita sopra la prima che raggiunge la perfezione nel e con il fedele”570.
La fede comune crede nella lettera delle Scritture e perciò a volte provoca la paura.
Questa, a sua volta, non è del tutto il fenomeno negativo in quanto spinge i fedeli
semplici ad osservare i comandamenti biblici. La fede più elevata, invece, è propria
degli gnostici cristiani che sono capaci di scorgere il senso più profondo delle
affermazioni bibliche e che osservano i comandamenti del Logos per amore. Per
raggiungere questo più elevato livello della fede è necessario entrare nel cammino
spirituale, insieme etico e intellettuale, che mira all’assimilazione a Dio (o`moi,wsij qew|)/ .
Durante questo cammino lo gnostico cristiano apprende sempre di più delle realtà
divine in quanto (conformemente al concetto platonico) incomincia a contemplare il
simile con il simile571. La fede “più elevata”, quindi, si identifica con la nozione della
gnosi “spirituale” che appunto viene definita come il perfezionamento della fede572.

A questo proposito va notato che anche la gnw/sij, ossia la conoscenza,


acquisisce nelle opere di Clemente vari significati. Infatti, la gnosi “spirituale” –
risultato del processo di assimilazione a Dio differisce dalla gnosi “logica” – risultato di
un ragionamento filosofico; e anche se in un luogo l’Alessandrino afferma: “la nostra
gnosi – il nostro giardino spirituale – è lo stesso Salvatore nel quale siamo stati
innestati”573, la gnosi spirituale non esclude la gnosi logica. Lo studio di diverse
discipline e l’esercizio intellettuale sono, al contrario, indispensabili per raggiungere
una maggiore e più adeguata comprensione del divino. Lo abbiamo visto, anche mentre
parlavamo della via negationis. Questo procedimento scientifico, durante il quale
l’intelletto umano astrae da tutte le qualità inerenti ai corpi e giunge alla nozione
dell’unità, passa subito dal livello logico a quello spirituale. In realtà, dopo aver
raggiunto il concetto dell’unità l’intelletto deve slanciarsi – come suggerisce Clemente –
“nella grandezza del Cristo e di qui procedere in santità di vita verso l’abisso”574. La
gnosi spirituale, dunque, che è legata alla fede in Cristo, si basa altresì sulla gnosi
logica. Infatti, l’esercizio intellettuale guida lo gnostico verso una migliore
comprensione delle realtà che sono l’oggetto di fede. Perciò anche, il nostro autore
afferma altrove: “Non c’è gnosi senza fede né fede senza gnosi”575. La fede “più

570
Clem., Strom. V 2,4-6.
571
Cfr. Clem., Strom. V 13,1-2.
572
Cfr. Clem., Strom. VII 55,1-56,1.
573
Cfr. Clem., Strom. VI 2,4-3,2, dove vengono riportati anche diverse definizioni della nozione
della gnw/sij. Ne abbiamo parlato nel capitolo 2.4: La trascendenza gnoseologica di Dio.
574
Clem., Strom. V 71,3-4.
575
Clem., Strom. V 1,3.
310

elevata”, infatti, che coincide con la gnosi “spirituale” è il coronamento del cammino
etico e intellettuale che procura la comprensione delle verità divine alle quali l’uomo
non è in grado di giungere con le forze naturali del proprio intelletto576.

576
Non è difficile a scorgere che molte delle constatazioni clementine riportate in questo
paragrafo assomigliano o addirittura sono uguali a quelle che contengono dottrine degli gnostici. Va
comunque notato che a questo proposito il nostro autore non introduce la divisione di nature propria della
scuola di Valentino. Le sue distinzioni riguardano piuttosto diversi livelli del perfezionamento spirituale
al quale hanno accesso tutti, persino i pagani. A costoro, infatti, è indirizzato il Protrettico in cui
l’Alessandrino esorta i greci a convertirsi al cristianesimo, ovvero all’unica religione che è in grado di
procurare la salvezza. È vero comunque che anche Clemente, come gli gnostici, ammette un certo tipo di
esclusivismo in quanto nelle sue opere ripete parecchie volte che “non da tutti è la gnosi”. “Non da tutti”,
però, perché in realtà sono pochi coloro che si accostano a questo difficile cammino etico e intellettuale,
ma non perché soltanto pochi sono gli gnostici per naturam.
CONCLUSIONI FINALI: SOMIGLIANZE E DIFFERENZE

Come abbiamo potuto osservare lungo il corso del nostro studio, la filosofia
alessandrina dei primi secoli dopo Cristo, sia quella giudaica, sia quella cristiana, ma
anche quella pagana, pone un forte accento sull’assoluta trascendenza di Dio. Tale
concetto svolge un ruolo importante in diversi campi della ricerca intellettuale dei
filosofi alessandrini: nella fisica, nell’etica, nell’epistemologia e persino
nell’escatologia. I pensatori di quest’epoca vengono soprannominati “eclettici”, però,
occorre sottolineare che ognuno di loro, pur riprendendo molte delle idee elaborate dai
loro predecessori: i presocratici, Platone, Aristotele così come stoici, cerca di fornire
delle risposte alle grandi domande poste dalla filosofia. A volte queste risposte risultano
alquanto originali. Gli alessandrini, Infatti, servendosi delle idee provenienti da diverse
scuole dell’antichità, giungono a delle nuove soluzioni teoriche, sconosciute ai loro
antecessori. Abbiamo già parlato di queste originalità alla fine di ciascuno dei capitoli
riguardanti Filone e su Clemente, le cui opere abbiamo scelto come esempio per
illustrare la complessità e l’importanza della dottrina della trascendenza divina nella
filosofia alessandrina. Ora, in diversi punti, che ripetono, per altro, l’ordine della nostra
ricerca, evidenzieremo le somiglianze e le differenze che intercorrono tra le loro
dottrine1:

1. Sia Filone che Clemente considerano la propria religione – il primo il


giudaismo, il secondo il cristianesimo – come la vera filosofia. Di conseguenza,
tendono a spiegare e a descrivere le idee religiose della Bibbia con i termini

1
Nei punti che seguono non riportiamo tutti i riferimenti a alle opere di Filone e di Clemente per
comprovare le nostre constatazioni. Lo abbiamo fatto in sufficienza nel corso del presente studio. Le sigla
alle opere degli alessandrini saranno indicate solo quando verrà fatta una citazione esplicita.
312

filosofici, familiari ai loro contemporanei. In questo modo inseriscono


coscientemente la fede giudaica e cristiana nell’ambito della cultura greca.
Ambedue si servono del famoso argomento dei furta Graecorum, considerando
le idee contenute nelle Scritture come anteriori rispetto a quelle elaborate dai più
grandi filosofi dell’antichità. Clemente, tuttavia, a differenza di Filone, utilizza a
questo proposito ancora un altro argomento. Per lui, Cristo – il Dio fatto uomo –
è la risposta a tutte le domande degli antichi: anche quelle degli ebrei. Egli è la
verità, pertanto soltanto i cristiani sono in grado di raggiungerla in modo
completo, a differenza dei filosofi pagani i quali arrivano ad essa soltanto
parzialmente. Occorre anche osservare che in Clemente l’argomento dei furta
Graecorum viene in qualche modo moderato, in quanto la filosofia anteriore al
cristianesimo viene considerata da lui come dono della Provvidenza divina e
perciò anche come praeparatio evangelica. Infatti, secondo il maestro di
Alessandria, non tutti i filosofi sono i “ladri delle idee”: alcuni, come Platone,
detto “ispirato da Dio”2, seguendo le “scintille del Logos”3 – lo stesso che in un
certo momento della storia si è fatto carne – per via di ragionamento sono giunti
alle stesse verità che i cristiani hanno acquisito per via di rivelazione.
2. Per quanto riguarda la tecnica d’interpretazione della Scrittura, ambedue gli
alessandrini si servono del metodo allegorico, noto già agli stoici antichi e
adoperato nell’Alessandria dell’epoca da diversi pensatori, nei confronti dei miti
di Omero e di Esiodo, ma anche dagli gnostici. In coerenza con i loro
presupposti ideologici – prevalentemente d’impostazione platonica – sia Filone,
che Clemente criticano gli antropomorfismi biblici, considerando Dio come un
essere di natura intelligibile e privo delle passioni proprie dell’anima umana.
Nonostante ciò, ambedue i pensatori scorgono il lato positivo delle affermazioni
bibliche nelle quali in maniera antropomorfa vengono attribuiti a Dio l’ira, la
preoccupazione, la tristezza o la gioia. Gli ammonimenti, così come le minacce,
delle quali parlano le Scritture al livello letterale, svolgono, a detta loro, una
funzione pedagogica e medicinale, ovvero, incitano un fedele, che non è in
grado di elevarsi oltre la lettera, a ubbidire ai comandamenti facendolo ritornare
dalla via della malvagità, alla via della salvezza. Occorre, inoltre, sottolineare, a
tal proposito la ripresa, da parte di Clemente, di molte interpretazioni allegoriche
dell’Antico Testamento fatte da Filone, in un modo avulso da ogni
2
Clem., Strom. I 42,1.
3
Clem. Protr. 74,7.
313

meccanicismo. A volte, infatti, alcuni particolari introdotti dall’Alessandrino


cristiano mutano il significato del testo interpretato precedentemente dall’ebreo
di Alessandria. Ritorneremo ancora su questo argomento più avanti, mostrando
con un esempio concreto le differenze che intercorrono tra le interpretazioni
fatte dai due alessandrini.
3. La dottrina su Dio di entrambi i pensatori, sebbene influenzata dalla filosofia
platonica, come già accennato, non si distacca dalle idee e dai concetti biblici;
pertanto, nonostante la critica degli antropomorfismi, sia Filone che Clemente
considerano Dio come una persona: provvidente, compassionevole e
misericordiosa; la persona che si prende cura di ciò che aveva portato a
nascimento, che libera dal male, che guarisce le colpe e che, intervenendo in
modo sovrannaturale nella storia dell’umanità, guida il suo popolo verso la
salvezza. A causa della sua assoluta trascendenza, però, il Dio degli alessandrini
interviene nel mondo corporeo tramite degli intermediari. Su questo argomento
ritorneremo ancora più avanti.
4. Dal punto di vista filosofico, Dio è l’attività pensante, è l’Intelletto (nou/j): lo
affermano esplicitamente ambedue i pensatori di Alessandria. In quanto Nous,
egli è il luogo (to,poj) delle idee4 e le idee, a loro volta, sono i pensieri di Dio.
Occorre sottolineare, a tal proposito, che Filone è il primo filosofo (a nostra
conoscenza) ad identificare in modo esplicito le idee platoniche con i pensieri
divini5. Clemente segue questa soluzione teorica, sebbene ai suoi tempi fosse già
nota anche ai filosofi medioplatonici.
5. In Filone e in Clemente troviamo ancora un’altra “modifica” della filosofia
platonica. Infatti, mentre per il filosofo ateniese, il Nous è il Demiurgo del
Timeo e l’idea del Bene della Repubblica è definita come una realtà che sussiste
al di là dell’essere (evpe,keina th/j ouvsi,aj), gli alessandrini attribuiscono al Nous i
caratteri dell’idea del Bene, assegnando, invece, la funzione demiurgica al
Logos di Dio. Per sottolineare, addirittura, l’assoluta trascendenza di Dio, sia
Filone che Clemente affermano che il Nous è superiore o più trascendente
dell’idea platonica del Bene. L’Intelletto divino, dunque, non è soltanto evpe,keina

4
Cfr. Phil., Opif. 17-20, Confus. 96-97; Clem., Strom. V 73,3-74,1 e altri.
5
Anche in Aristotele l’anima è definita come il luogo delle idee (cfr. Anim. 429 A 27-29) e il
Dio dello Stagirita, essendo il Nous, sicuramente è altresì il luogo delle idee. Ad ogni modo il Nous di
Aristotele pensa solamente se medesimo e non crea il mondo corporeo, mentre le idee delle quali parlano
gli alessandrini sono i paradigmi o gli archetipi della creazione: svolgono dunque la stessa funzione che le
idee platoniche. E questa è la novità che per la prima volta (in maniera esplicita) troviamo nel giudaismo
ellenistico.
314

th/j ouvsi,aj, ma anche evpe,keina tou/ nohtou/6, quindi trascende tutte le realtà
visibili e intelligibili: è “oltre e sopra ogni luogo e tempo e denominazione e
intelligenza”; è “perfettamente puro e incontaminato, che trascende la virtù, che
trascende il sapere, che trascende persino il bene e il bello”; è “la causa oltre le
cause, la più antica e la più benefica di tutte”; è “uno e al di là dell’uno stesso e
al di sopra dell’unità”; “è più trascendente del bene, più anziano della monade,
più semplice dell’uno”7.
6. Dio, in quanto di natura intelligibile e onnipotente, è anche infinito. E questa è
un’altra novità che per la prima volta troviamo nella filosofia giudaico-
ellenistica. Infatti, l’infinito (a;peiron) era considerato da tutti i filosofi antichi,
anteriori a Plotino (esclusi alcuni presocratici, per i quali l’a;peiron era una realtà
corporea), come negativo in quanto indeterminato e imperfetto. Filone,
inspiratosi probabilmente ad alcune affermazioni bibliche che parlano
dell’onnipotente e multiforme potenza divina, giunge alla conclusione che non
solo le potenze, ma anche Dio stesso, che è la loro fonte, è infinito. A questo
proposito, però, non utilizza l’aporetico termine a;peiron, ma si serve degli
aggettivi con un significato simile come: avperi,grafoj, avteleu,thtoj,
avperio,ristoj e avu,qhtoj. Dal contesto delle sue affermazioni risulta chiaramente
che l’autore concepisce, comunque, Dio come una realtà infinita. Infatti, nessuna
creatura finita e neppure il mondo intero sono in grado di afferrare, di
abbracciare o di accogliere ciò che è infinito. Per questo motivo Filone parla
anche di due tipi di potenze divine: quelle delle quali Dio si avvale verso se
stesso e quelle delle quali si avvale verso il creato: queste ultime devono essere
in qualche modo diminuite o moderate a seconda delle capacità ricettive di una
creatura, per non fare nessun danno a chi sta per entrare in un rapporto con il
divino. Clemente, invece, per la prima volta nella storia della filosofia antica,
utilizza il termine a;peiron nei confronti di Dio. La sua riflessione però non si
basa più sulle idee di provenienza biblica, ma sulle conclusioni alle quali sono
giunti Platone nel suo Parmenide e Aristotele nella Fisica; le corregge, completa
e costruisce la propria definizione dell’infinità. Secondo lui, infatti, Dio in
quanto “Uno è indivisibile; per questo è anche infinito (a;peiron), non nel senso
6
Lo abbiamo mostrato citando e commentando diverse affermazioni di Filone e di Clemente nei
quali ricorrono le parole evpe,keina, krei,ttwn h', u`pera,nw, u`pe,r utilizzate dagli alessandrini per paragonare
il Nous con le altre realtà visibili e intelligibili. Cfr. Phil., Opif. 8; Praem. 40; Contempl. 2; Legat. 5;
Clem., Paed. I 71,1 e Strom. V 38,6; V 71,5; VII 2,3.
7
Per tutte queste citazioni cfr. i passi indicati nella nota di sopra.
315

dell’impossibilità di percorrerlo, ma in quanto assenza di dimensione e di


limite”8. Oltre l’a;peiron Clemente utilizza anche un altro termine tecnico
proveniente dalle definizioni dell’infinito proposte dallo Stagirita, cioè
avteleu,thtoj e polemizzando con il filosofo ateniese afferma che Dio è te,loj to.
avteleu,thton kai. te,leion (“il fine infinito e perfetto”)9. La nozione dell’infinità
di Dio, introdotta dagli alessandrini, sottolinea ancora di più il fatto della sua
trascendenza.
7. Dato che Dio è radicalmente trascendente, la comunicazione tra lui e il mondo
corporeo si realizza per il tramite degli intermediari. A questo proposito Filone
introduce la dottrina delle potenze (duna,meij) – un’altra idea nuova nell’ambito
della filosofia greca. Non è dunque Dio in persona a creare, a governare, a
beneficare e a giudicare il mondo, ma le sue potenze: la creativa (h` poihtikh,), la
regale (h` basilikh,), la benefica (h` i[lewj) e la legislativa (h` nomoqetikh,)10.
Queste elencate non sono, però, le uniche, proprio perché, come già menzionato,
il numero delle potenze è infinito, come infinita è l’attività pensante e operante
che è Dio. Le potenze, dunque, non solo creano e governano il mondo ma lo
mantengono nell’esistenza, tengono uniti tutti i suoi elementi, ma anche, in
modo sovrannaturale, intervengono nella storia della salvezza comunicando ad
alcuni eletti la volontà del Padre di tutte le cose. Grazie ad esse Dio si fa
presente nel mondo: è dovunque (pantacou/), ma allo stesso momento non è da
nessuna parte (ouvdamou/); è contenente, ma non contenuto (perie,cwn( ou/
perieco,menoj), cioè racchiude in sé ogni realtà, però non è contenuto da nessuna
dalle cose create11. In questo modo Filone riconcilia il concetto dell’assoluta
trascendenza di Dio con quello della provvidenza; l’ubiquità con l’atopia. Con
tale dottrina viene spiegata anche la nozione della divina onnipotenza e
onniscienza. In Clemente, invece, il termine du,namij ricorre soprattutto al
singolare: infatti, per il cristiano di Alessandria, è Cristo ad essere la potenza di
Dio e la sapienza di Dio (qeou/ du,namij kai. qeou/ sofi,a)12. In ogni modo, anche
nelle opere clementine troviamo la reminiscenza della dottrina filoniana delle
potenze. In realtà, il Logos, nonostante anche lui detto la potenza, è fonte delle

8
Clem., Strom. V 81,6.
9
Clem., Strom. VII 56,3; Cfr. anche Strom. II 134,1.
10
Cfr. Phil., Fug. 95.
11
Cfr. Phil., Confus. 136-137; Poster. 7; Somn. I 63-64.
12
Cfr. 1 Cor. 1,24.
316

potenze e nel suo agire nel mondo si serve delle potenze13. Perciò altresì
Clemente afferma che Dio è contenente e non contenuto (perie,cwn ou/
perieco,menoj), è “lontano per essenza, ma vicinissimo per la sua potenza con cui
racchiude in sé tutte le cose”14.
8. Per quanto concerne l’argomento del Logos, troviamo tra la dottrina filoniana e
quella clementina alcune somiglianze, ma anche differenze significative. In
primo luogo, ambedue gli alessandrini identificano il Logos con l’insieme delle
idee e delle potenze divine e perciò anche con la mente divina in quanto la
sostanza intelligibile, a loro parere, è eterna e monadica. Infatti, dato che nel
Nous non ci sono né distanze né parti nel senso fisico-spaziale, il Logos è una
sola cosa con Dio. In funzione della creazione e governo del mondo questo
Logos diventa la causa formale ed efficiente dell’universo, ossia il ko,smoj
nohto,j che contiene il progetto intelligibile della futura creazione corporea e,
allo stesso modo, la potenza che porta a compimento questo progetto divino.
Fino a questo punto i pensatori alessandrini concordano l’uno con l’altro. Però,
mentre per Clemente il Logos è vera persona che in un certo momento della
storia si fa carne – perciò egli può parlare anche della generazione vera e propria
del Figlio da parte del Padre – in Filone lo status ontologico del Logos
trascendente e la questione della sua processione da Dio risulta più complessa.
Alcuni studiosi (H. A. Wolfson e i seguaci della sua interpretazione)15
sostengono che il Logos filoniano, inteso come il ko,smoj nohto,j, viene creato
prima della creazione del mondo e sussiste al di fuori dell’essenza divina come
un’ipostasi autonoma e distinta da Dio. Questo dovrebbe essere il secondo stadio
dei tre della sua esistenza. Altri invece (come D. T. Runia, F. Calabi e C.
Termini) considerano il Logos filoniano o come un aspetto di Dio; o come una
“energheia”; oppure come una “estensione” dell’attività divina che ha sempre la
sua fonte in Dio e non viene mai separata da lui – anche mentre opera nel mondo
corporeo. I motivi per i quali anche noi concordiamo con questa seconda
interpretazione sono seguenti:
a. In Filone è osservabile un forte monoteismo che non accetta l’esistenza
di altri principi ugualmente divini e trascendenti accanto a Dio. E
considerare il Logos trascendente come un’ipostasi divina, sussistente

13
Cfr., ad esempio, Clem., Protr. 112,1; Strom. IV 156,1-157,1.
14
Cfr. Clem., Strom. II 5,4-6,3.
15
Abbiamo parlato dei particolari di questa interpretazione nel corso del nostro studio.
317

accanto a Dio, modificherebbe notevolmente questa caratteristica della


religione mosaica.
b. La metafora dell’architetto del De opificio mundi16 parla di un progetto
intelligibile del mondo che ha la sua sede nella mente divina e non al di
là di essa. Così, dunque, come l’architetto, prima di costruire una città,
pensa al suo progetto, che appare nella sua mente, così Dio, prima di
creare il mondo, fonda in se medesimo (in quanto tutto l’intelletto) il
progetto intelligibile della futura creazione corporea. Afferma, infatti,
Filone: “la città concepita nel pensiero altro non è se non il calcolato
ragionamento dell’architetto quando ormai sta progettando di fondare la
città che ha in mente”17. A questo proposito Filone non accenna nulla
alla creazione di un’ipostasi separata dall’intelletto divino.
c. La metafora del sole e dei raggi, con la quale Filone spiega non solo la
trascendenza epistemologica, ma anche quella ontologica di Dio 18,
dimostra chiaramente che i raggi (simbolo delle potenze, ma anche del
Logos in quanto l’insieme delle potenze) sono intrinseci alla natura del
sole (simbolo di Dio) e non vengono creati accanto al sole. Essi sono una
“estensione” della potenza che è nel sole stesso. Questa potenza – come
spiega Filone – viene in qualche modo diminuita per non fare nessun
danno al creato: infatti il raggio del sole mescolato con l’aria fresca non
ha più lo stesso potere di bruciare come prima, sussistendo nel sole
stesso. E appunto il Logos immanente è una diminuita o moderata
“estensione” della potenza che è in Dio, ma non un’ipostasi autonoma.
La sua fonte è sempre nella mente divina, ossia nel Logos trascendente.
d. Gli interventi sovrannaturali del Logos o delle sue potenze (l’argomento
affrontato da Filone a proposito dell’interpretazione allegorica delle
teofanie bibliche), in realtà non sono le apparizioni vere e proprie di
un’ipostasi. Infatti, come ha dimostrato la nostra analisi, la visione di Dio
concessa a un personaggio biblico avviene soltanto nella sua mente e
dipende dal livello dell’istruzione o del perfezionamento spirituale di una
persona veggente. Questa ultima talvolta personifica la realtà che, in

16
Cfr. Phil., Opif. 17 sgg.
17
Phil., Opif. 24.
18
Cfr., ad esempio, Phil., Deus 78-79.
318

quanto intelligibile, non ha nessuna dimensione19. La teofania, dunque,


l’oggetto della quale è il Logos o le potenze, secondo l’interpretazione
allegorica di Filone, è il fenomeno epistemologico: è una
rappresentazione (fantasi,a) ingenerata da Dio nell’anima di un
personaggio biblico, ma non una reale apparizione di un’ipostasi
autonoma.
9. In Clemente invece il Logos, anche quello preesistente, è sempre una persona.
Anzi, a proposito dell’interpretazione allegorica della teofania che ebbe
Giacobbe, il cristiano di Alessandria dichiara che colui che si allenava con il
patriarca era un uomo (ou-toj h=n o` a;nqrwpoj)20. Questo dato biblico
preannunzia, secondo lui, la futura incarnazione del Logos che vincerà la
battaglia definitiva contro il male21. Inoltre, per quanto riguarda la generazione
del Logos, Clemente afferma che “il Logos, nella sua identità (o` evn tauvto,thti
lo,goj), è divenuto Figlio secondo la delimitazione e non secondo essenza (kata.
perigrafh.n kai. ouv katVouvsi,an)”22 e con ciò (anche se non utilizza il termine
o`moou,sioj) anticipa, in un certo qual modo, le future formulazioni dogmatiche.
Sostiene, infatti, che la generazione non consiste nella comparsa di una nuova
sostanza e, di conseguenza, il Logos generato è della stessa sostanza del Padre.
Occorre però notare che anche nel caso di Clemente alcuni studiosi (H. A.
Wolfson, S. Lilla, A. Orbe) parlano degli stadi di esistenza e sostengo che il
Logos che ab aeterno sussisteva nel seno del Padre, essendo l’insieme delle idee
divine, era una realtà impersonale. Egli ricevette la personalità e divenne
l’ipostasi solo con la sua generazione, avvenuta prima della creazione del
mondo. Tale interpretazione è stata criticata recentemente da M. J. Edwards e H.
F. Hägg. Gli argomenti che convincono anche noi a respingere la teoria degli
stadi di esistenza del Logos sono seguenti:

19
Cfr., ad esempio, Phil., Sacrif. 59; Mutat. 3-6.
20
Cfr. Clem., Paed. I 56,1-57,2.
21
Anche Filone nell’interpretazione allegorica del passo di Gen. 32,25-32 afferma che Giacobbe
si allenava, comunque, non con un uomo, ma con un angelo. Cfr. Phil., Mutat. 87, Sobr. 65. Nel passo di
Somn. I 238-241, però, l’ebreo di Alessandria spiegando la stessa teofania, la concepisce come un
fenomeno epistemologico. Infatti, il patriarca, in quello momento della sua vita e del suo cammino
spirituale, era ancora il progrediente, non il perfetto, perciò nella lotta descritta nel libro della Genesi, che
è soltanto un simbolo della lotta spirituale, raggiunge il mondo delle idee, ossia il Logos, ma non vede
ancora ciò che è al di là di esso. In un altro passo Filone dice esplicitamente che i perfetti possono avere
qualche conoscenza di Dio, per gli altri c’è il Logos. “Questo sarebbe il Dio per noi uomini imperfetti, il
Dio dei sapienti e dei perfetti è invece quello che sta ancora prima”. Phil., Leg. All. III 207.
22
Clem., Exc. Ex Theod. 19,1. Per il significato dell’espressione o` evn tauvto,thti lo,goj
rimandiamo alle nostre analisi fatte nel paragrafo 2.3 sul Logos in Clemente.
319

a. Clemente esplicitamente rigetta la distinzione stoica tra il lo,goj


evndia,qetoj e il lo,goj proforiko,j. Per lui esiste un solo Logos che è la
Sapienza di Dio, e allo stesso tempo, la “potenza dominatrice di tutto”23.
b. Ai tempi di Clemente sono stati gli gnostici valentiniani a distinguere
diversi stadi e modi di esistenza del Logos. Infatti, secondo costoro il
Padre inconoscibile, volendo farsi conoscere agli eoni, estrinseca il
pensiero che era nel suo Intelletto. Esso, essendo uscito dal “seno del
Padre”, diventa il suo figlio che comunica agli eoni la gnosi di Dio.
Clemente polemizza esplicitamente con tali concetti negli Excerpta ex
Theodoto24, dove afferma che per lui il Logos che è nel “seno del Padre”
non è soltanto un pensiero divino ma è “Dio in Dio” (qeo,j evn qew|)/ ,
inseparabile e indivisibile. Di seguito, citando il passo del Prologo
giovanneo (“Dio nessuno l’ha visto mai. L’Unigenito Dio, che è nel seno
del Padre, egli lo ha rivelato”25) sottolinea che il Logos, pur rimanendo
sempre nel seno del Padre, crea tutte le cose visibili e invisibili e rivela
ad esse le verità divine. In questo modo Clemente, non soltanto rigetta la
dottrina gnostica degli stadi di esistenza del Logos, ma considera colui
che è nel “seno del Padre” come una persona – diversamente da ciò che
sostengono alcuni studiosi sopra menzionati.
c. Poiché la creazione del mondo, secondo Clemente, avvenne fuori del
tempo, è impossibile stabilire un momento temporale in cui il Logos
impersonale divenne l’ipostasi distinta da quella di Dio Padre. Anzi,
troviamo nelle sue opere l’affermazione che potrebbe suggerire la
generatio perpetua del Figlio da parte del Padre. Infatti, dice: “Non c’è
Padre senza Figlio, perché con l’essere Padre egli è Padre di un Figlio”.
Questa constatazione sarà ripresa da Origene il quale aggiungerà
esplicitamente che il Figlio unigenito è nato ed ha tratto il suo essere dal
Padre “senza alcun momento d’inizio”26.
d. Nonostante possa sembrare che Clemente parli veramente di diversi stadi
di esistenza, egli di fatto si limita a spiegare separatamente l’argomento
della natura della mente divina, che è il luogo delle idee, e la questione

23
Cfr. Clem., Strom. V 6,3.
24
Cfr. Clem., Exc. Ex Theod. 6-8, dove prima viene esposta la dottrina degli gnostici valentiniani
e di seguito la sua critica fatta da Clemente.
25
Io. 1,18.
26
Cfr. Orig., De Princ. I 2,2.
320

della generazione del Logos. Chiarendo, dunque, quale “parte” della


sostanza divina divenne il Figlio (distingue, infatti, la mente divina e ciò
che è da essa pensato), non considera le sue distinzioni teoriche come le
“tappe” della vita divina bensì desidera spiegare, piuttosto, come sia
possibile che il Padre e il Figlio siano della stessa sostanza. Per di più, in
diversi luoghi delle sue opere sottolinea sempre l’unità del soggetto del
Logos. Per lui, il Figlio che opera nel mondo “non si scosta mai dalla sua
specola (periwph/j)27, poiché non è diviso, non è separato, non trapassa
dal luogo a luogo. Egli è dovunque, sempre, e in nessun luogo è
contenuto: tutto intelletto, lutto luce del Padre, tutto occhio”28. Il Logos,
infatti, essendo sempre un’ipostasi, ed essendo sempre unito all’intelletto
del Padre, penetra tutto l’universo attraverso le sue potenze, e facendo
ciò, rimane sempre indiviso e identico a se stesso29. Persino il Bambino
nato a Betlemme è per Clemente colui che è “nel seno del Padre” 30. I
diversi contesti in cui viene esaminata la questione del Logos sono
dunque le distinzioni logiche, introdotte per fini metodologici, ma non le
tappe temporali o stadi ontologici della sua esistenza.
10. Per quanto riguarda l’argomento della trascendenza epistemologica di Dio, sia
Filone che Clemente sostengono che l’intelletto dell’uomo con le proprie forze
non sia in grado di comprendere ciò che è Dio in sé. Anche se per via di
ragionamento l’uomo può arrivare alla conoscenza dell’esistenza di Dio, o
indagare intorno alle sue opere compiute in favore del creato – e in questo modo
conoscere la potenza (o le potenze) di Dio – non giunge mai alla comprensione
della sua essenza. Dio, infatti, non può essere l’oggetto della scienza, perché
trascende tutte le categorie fisiche e metafisiche delle quali si serve l’intelletto
umano. Per questo motivo ambedue gli alessandrini mentre parlano di Dio
preferiscono utilizzare gli aggettivi con a-privativo come: avo,ratoj, a;rrhtoj,
avge,nnhtoj, a;fqartoj, avpaqh,j, avdiai,retoj, avperi,grafoj, avteleu,thtoj etc. che,
negando una caratteristica propria del livello aivsqhto,j della realtà, ci informano
piuttosto che cosa Dio non è, bensì che cosa è. Clemente, inoltre, descrive con i
particolari il procedimento scientifico di astrazione, detto via negationis,

27
Ricordiamo che il termine platonico periwph/j viene utilizzato da Clemente anche per indicare
il luogo in cui risiede il Dio Padre. Cfr. Clem., Protr. 68,3.
28
Clem., Strom. VII 5,5.
29
Clem., Strom. II 5,4-5.
30
Clem., Paed. I 24,3; Cfr. anche Paed. I 4,1; I 62,4; II 75,2.
321

attraverso il quale l’intelletto umano può raggiungere qualche non erroneo


concetto di Dio31. Tale concetto, però, risulta quasi “vuoto” e non dice niente
dell’essenza divina: in realtà, adoperando questo metodo, il filosofo giunge
unicamente alla convinzione che la natura di Dio non ha niente in comune con
tutte le proprietà inerenti ai corpi e ai concetti matematici. Difatti, persino la
nozione dell’unità deve essere privata della “posizione” per poter essere
applicata a Dio. L’unica cosa, dunque, che l’uomo, anche dopo aver adoperato il
procedimento proposto da Clemente, può affermare adeguatamente nei confronti
di Dio è che egli è evpe,keina, ossia al di là di tutto. Anche se, la via negationis
porta alla constatazione che Dio è l’uno, ciò non vuol dire che egli sia uno nel
senso concepito dai matematici. Pertanto meglio dire “Dio è uno e al di là
(evpe,keina) dell’uno stesso e al di sopra dell’unità”32.
11. A causa della sua trascendenza ontologica ed epistemologica, secondo ambedue
gli alessandrini, Dio è ineffabile. Tutti gli appellativi, dunque, che l’uomo gli
attribuisce – anche quelli contenuti nella Bibbia – sono considerati da Filone e
da Clemente come nomi impropri. In realtà, essi dicono qualcosa sul modo con
cui Dio agisce in favore del creato, ossia parlano della potenza di Dio, ma non
rivelano niente di ciò che è l’essenza divina. Questa rimane sempre inafferrabile
e perciò indefinibile, indescrivibile, insomma indicibile.
12. Anche se gli alessandrini introducono così forte il concetto della trascendenza
epistemologica di Dio, ambedue sostengono che attraverso l’esercizio
intellettuale ed etico, accompagnato dalla grazia divina, l’uomo può avere
qualche accesso alle realtà divine. A questo proposito, sia Filone che Clemente,
usufruendo del concetto platonico dell’o`moi,wsij qew|,/ espresso nel famoso passo
del Teateto33, parlano di un cammino spirituale del sapiente (o, nel caso di
Clemente, dello gnostico) che mira alla conoscenza di Dio. Così, dunque,
staccandosi dalle cose corporee e assimilandosi a Dio, per il tramite delle virtù
teoretiche e pratiche, l’anima comprende sempre di più della vita divina, in
quanto comincia a contemplare il simile con il simile34. Per Filone, Abramo è
simbolo dell’uomo che, rispondendo all’invito di Dio: “Vattene dalla tua terra,

31
Cfr. Clem., Strom. V 71,2-4.
32
Clem., Paed. I 71,1.
33
Cfr. Plat., Theaet. 176 A-B.
34
Cfr. Plat., Tim. 90 D; Lys. 214 B; Gorg. 510 B.
322

dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò”35,
ha percorso tutte le tappe di questo cammino spirituale dell’anima. Il suo viaggio
paradigmatico è stato descritto nel trattato De migratione Abrahami. Questa
interpretazione allegorica di Filone è nota a Clemente, perché anche lui
considera Abramo come simbolo del sapiente, Sara come simbolo della sapienza
e Agar come simbolo dell’istruzione preliminare36. Occorre, però, notare che per
l’ebreo di Alessandria, sebbene, oltre Abramo, parli ancora di altri personaggi
biblici indicando metaforicamente le tappe del loro cammino spirituale, il
simbolo del sapiente perfetto è principalmente il legislatore Mosè, che secondo
le Scritture ebbe il diretto contatto con Dio e annunciò al popolo eletto la legge
divina. Per Clemente, invece, simbolo del perfetto gnostico sarebbe Paolo; egli,
poi, non costituisce soltanto un simbolo, perché realmente raggiunse le più alte
vette della gnosi, attraverso il suo stile di vita e l’approfondimento delle verità
rivelate dal Logos incarnato.
13. Le nostre analisi dei passi in cui viene affrontata la questione delle teofanie
bibliche, o di un’esperienza mistica concessa ai personaggi considerati dagli
alessandrini come i sapienti perfetti, ci ha portato alla conclusione che né Filone
né Clemente ammettono alla fine un diretto contatto dell’uomo con il Dio
trascendente. Mosè, infatti, in tutte le teofanie alle quali partecipò, secondo
l’interpretazione allegorica dell’autore ebreo, ebbe un rapporto con le potenze
divine e attraverso esse giunse soltanto alla conoscenza dell’esistenza di Dio che
è al di là delle potenze. Paolo, invece, nella sua esperienza mistica fu portato
solo al terzo cielo, dove “si trovano [gli angeli] iniziare al mistero le anime
elette”37. Infatti, sulla base di alcune affermazioni contenute nelle opere di
Clemente possiamo supporre che l’autore cristiano ammetteva l’esistenza di non
soli tre, ma di più cieli che separano il Dio trascendente dal creato.
14. A questo proposito sottolineiamo anche una differenza significativa che
intercorre tra l’interpretazione allegorica filoniana e quella clementina del passo
di Ex. 20,21, che descrive una delle teofanie che ebbe Mosè38. Infatti, anche se

35
Gen. 12,1.
36
Cfr. Clem., Strom. I 30,3-31,4. Questo schema appare anche in Filone Cfr. Phil., Leg. All. III
244, Sacrif. 59, Poster. 130 (e altri).
37
Cfr. Clem., Strom. V 79,1-80,2.
38
In realtà, sia Filone che Clemente compilano a questo proposito due passi scritturistici. Prima
citano l’Ex. 33,13, dove si trova la richiesta di Mosè rivolta a Dio: “Rivelati a me”, di seguito quello
dell’Ex. 20,21, nel quale viene affermato che Mosè “entrò nella tenebra dov’era Dio”. Cfr. Phil., Poster.
14-15; 168-169 e altri passi paralleli; Clem., Strom. II 6,1-4; V 71,5; V 78,1-4.
323

ambedue gli alessandrini concordano che il legislatore non vide né conobbe Dio,
l’autore ebreo spiega che le potenze, con le quali Mosè avrebbe dovuto avere
qualche contatto, “non rivelano l’essenza di Dio, ma la sua esistenza, a partire
dalle cose da lui prodotte”39. L’autore cristiano, invece, ha una visione più
ottimista delle potenze, o meglio della Potenza, che è il Logos. In realtà, dopo
aver affermato che Dio è inafferrabile e ineffabile da parte dell’intelletto umano,
aggiunge che egli diventa conoscibile per il tramite della sua potenza, in quanto
“la grazia della gnosi proviene dal Padre attraverso il Figlio”40. Poco dopo cita
alcuni passi scritturistici su Cristo “nel quale sono nascosti tutti i tesori della
sapienza e conoscenza”41. Egli – aggiunge – fa comprendere ai suoi discepoli “i
misteri del regno dei cieli”42; apre la sua bocca “per proferire parabole e
rievocare gli arcani dei tempi antichi”43. Infine, l’autore cristiano riporta il testo
degli Atti degli Apostoli, dove Paolo parla di un “Dio ignoto” che i pagani
“venerano senza conoscerlo”44, suggerendo che sono appunto i cristiani ad avere
la comprensione delle cose nascoste. La Potenza di Clemente, dunque, non
separa (come le potenze filoniane), ma avvicina l’uomo a Dio e rivela qualcosa
su di lui. In realtà, il Dio trascendente diventa conoscibile appunto per il tramite
del suo Figlio. Tale conoscibilità, come abbiamo già sottolineato, è in qualche
modo limitata: infatti non concerne l’essenza di Dio, ma i suoi “misteri” che egli
ha voluto rivelare. In ogni modo, in questo esempio vediamo che Clemente non
ripete automaticamente le interpretazioni allegoriche di Filone, ma le modifica a
seconda dei propri obiettivi. Sostiene, infatti, che i cristiani, grazie alla
rivelazione avvenuta con l’incarnazione del Logos, sono in grado di
comprendere molto di più delle cose divine che i più grandi sapienti greci e
giudei, più del il sapientissimo Mosè.
15. Alla fine di ciascuno dei capitoli di questo studio abbiamo affrontato due
argomenti aporetici che troviamo nelle opere di Filone e di Clemente, ossia la
questione della creazione della materia e la dottrina escatologica. A questo
proposito abbiamo voluto rispondere alle seguenti domande: Il Dio trascendente
crea tutto l’universo dal nulla, o esiste accanto a lui un altro principio della

39
Phil., Poster. 169.
40
Clem., Strom. V 71,5: h` ca,rij de. th/j gnw,sewj par’ auvtou/ dia. tou/ u`iou/.
41
Col. 2,3.
42
Matth. 13,11.
43
Ps. 78,2.
44
Cfr. Act. 17,23. Tutte le citazioni riportate sopra si trovano nella sezione di Strom. V 78,1-
82,4.
324

creazione, cioè la materia preesistente? Se Dio è trascendente in modo assoluto


quale fine faranno le anime dei salvati? Giungeranno ultimamente alla
conoscenza dell’essenza divina e si uniranno ad essa, o la trascendenza
ontologica ed epistemologica di Dio sarà salvaguardata anche nell’aldilà? Per
quanto riguarda il primo argomento, anche se siamo propensi a constatare che in
ambedue gli alessandrini non sia ancora presente la dottrina della creatio ex
nihilo, occorre segnalare che troviamo nelle loro opere delle affermazioni
contraddittorie. Probabilmente è così, perché neppure la Scrittura si pronuncia
precisamente sull’argomento. In realtà, nel Secondo Libro dei Maccabei, scritto
nell’epoca ellenistica e direttamente in greco, troviamo la frase della madre dei
sette fratelli che esorta suo figlio più giovane nel modo seguente: «Figliolo,
guarda il cielo e la terra e osserva tutte le cose che sono in essi. Sappi che non da
cose esistenti (ouvk evx o;ntwn) Dio le ha fatte e che anche il genere umano è stato
fatto allo stesso modo»45. In un altro libro biblico, anche quello scritto
direttamente in greco, e probabilmente nell’ambito alessandrino, ovvero nel
Libro della Sapienza, leggiamo che la mano onnipotente di Dio “aveva creato il
mondo da materia informe (evx avmo,rfou u[lhj)”46. Non hanno dunque ragione gli
studiosi (come G. Reale) che indicando il passo di 2 Mac. 7,28 constatano che
Filone doveva seguire la dottrina formulata già nella Bibbia. In realtà, come
risulta dalle nostre analisi, anche se l’ebreo di Alessandria utilizza la formula evk
mh. o;ntwn47, non significa che leghi ad essa la dottrina della creatio ex nihilo
elaborata posteriormente. Per lui, infatti, l’espressione mh. o'n potrebbe indicare
appunto la materia preesistente, così come la concepiva Platone48. Anche se, a
nostro parere, Filone condivide la dottrina creazionistica contenuta nel Timeo
platonico, non considera la materia preesistente come un altro principio della
creazione uguale a quello divino. Per lui Dio è l’unico, vero e proprio principio
di tutte le cose. Egli è la fonte dell’essere, anzi l’Essere è il suo nome. Nell’atto
creativo, dunque, Dio comunica l’essere imprimendo le forme nella materia
preesistente e così chiama all’esistenza ciò che prima era mh. o'n, ossia il non
essere. Della stessa opinione è Clemente: anche costui non considera la materia
45
2 Mac. 7,28.
46
Sap. 11,17.
47
Cfr., ad esempio, Phil., Leg. All. III 10 e le nostre analisi fatte al riguardo.
48
In realtà, per Platone “il non-essere in certo qual modo è (to. mh. o'n w`j e;sti kata, ti)”. Plat.,
Soph. 241 D. Inoltre, secondo il filosofo ateniese il vero essere sono le idee, mentre la materia
preesistente, priva ancora di qualsiasi forma, si colloca al lato opposto della struttura ontologica della
realtà: in un certo senso è quindi come “non essere”.
325

come un vero principio. Anzi, in un passo, difendendo la dottrina di Platone


contro gli attacchi di alcuni cristiani che sostenevano l’introduzione di più
principi della creazione da parte dei filosofi, afferma che Platone stesso
considera la materia preesistente come «non essere» (mh. o'n)49. A differenza di
Filone, però, in cui troviamo soltanto le formule, ma non la dottrina della creatio
ex nihilo, Clemente conosce già la dottrina stessa: la conosce, anche senza
condividerla probabilmente. Nel passo di Strom. II 74,1, infatti, enumera i tre
possibili concetti della creazione che sono: 1. la creazione dal nulla (evk mh.
o;ntwn); 2. la creazione demiurgica (evx u[lhj); 3. la creazione dalla stessa sostanza
(ouvsi,a) di Dio, e solo uno di questi tre – il terzo – considera come non
accettabile dal punto di vista della fede cristiana. Sono stati gli gnostici, con i
quali polemizza il nostro autore, a sostenere di essere della stessa sostanza di
Dio. Rimane, comunque, incerto quale era in realtà l’opinione di Clemente
stesso sull’argomento. Da una parte, nei suoi tempi, esisteva già la dottrina della
creatio ex nihilo. La troviamo nelle opere di Ireneo, che – cosa interessante – la
utilizza come un’arma nella lotta contro le opinioni degli gnostici. Dall’altra
parte, Clemente, essendo influenzato e affascinato della filosofia di Platone, non
respinge facilmente quelle idee del filosofo ateniese che non stanno in
contraddizione con la fede cristiana. In ogni modo, come abbiamo già detto, la
dottrina della creazione demiurgica non congettura, secondo lui, l’esistenza di
due principi della creazione, in quanto la materia preesistente essendo mh. o'n è
assolutamente impotente e priva di vita.
16. Per quanto riguarda la dottrina escatologica ci troviamo in una situazione simile
a quella concernente l’argomento della creatio ex nihilo. Infatti, gli autori
alessandrini ci hanno lasciato poche notizie in merito e a volte non molto chiare.
Ambedue sostengono che le anime dei giusti e dei sapienti che durante la vita
terrena si assimilavano a Dio diventano immortali e godono la felicità che
consiste nella contemplazione delle realtà divine, mentre quelle dei peccatori e
malvagi probabilmente muoiono. Questa ultima tesi, però, non è del tutto chiara
e molti studiosi considerano “la morte dell’anima” come una metafora. Sia
Filone che Clemente, poi, parlano di una gerarchia delle anime dei salvati che
rispecchia in un certo senso diversi livelli della perfezione spirituale raggiunti
durante la vita nel corpo. I sapienti perfetti, dunque, ricevono la dimora

49
Cfr. Clem., Strom. V 89,5-90,1.
326

escatologica più vicina a Dio, gli altri, a seconda della propria perfezione, le
dimore più lontane. Ma da ciò risulta che i sapienti afferrano e comprendono
l’essenza divina? A questo proposito Filone ci dice soltanto che il sapientissimo
Mosè al termine della propria vita terrena non morì, ma essendo vivo, fu
trasformato in un nou/j purissimo e trasferito verso in cielo50. Lì fu collocato
“vicino a” o “nei pressi di” Dio51. Non ci spiega comunque che cosa significa,
secondo lui, “essere vicino (plhsi,on) a Dio”. Può darsi, come risulta da alcune
delle sue affermazioni, che concepisca le dimore escatologiche delle anime in
senso fisico-spaziale. In un altro luogo, invece, afferma che il Logos è la sede
più degna delle anime: “questa eredità – aggiunge – è un’abitazione davvero
preparata e pronta all’uso, una dimora in tutto adatta”52. Le anime, dunque,
avranno accesso o, anzi, faranno parte del ko,smoj nohto,j. Altrove ancora parla di
una forma di comunicazione tra Dio e le anime, simbolo della quale è il dialogo
tra un amico con delle amiche53. Da ciò risulta che anche nell’aldilà continuerà il
processo della conoscenza e che in tale comunicazione tra Dio e le anime, queste
ultime, riempiendosi delle idee nuove, apprenderanno sempre di più della vita
divina. Ma questo processo avrà il suo termine? Può darsi che, in quanto Dio è
infinito, le anime non comprenderanno mai fino in fondo che cosa sia l’essenza
divina, perché sempre rimarrà qualcosa che non è stato ancora conosciuto.
L’Alessandrino, comunque, non lo afferma esplicitamente. A differenza di
Filone, l’autore cristiano sostiene che la dimora escatologica delle anime dei
sapienti perfetti non sarà collocata accanto a Dio, ma in una posizione inferiore a
quella del Salvatore (u`po. tw|/ swth/ri)54. Questo significa che gli gnostici
cristiani (questi sono infatti i sapienti di Clemente) contempleranno Dio non
direttamente, ma per il tramite del Logos55; e dato che il Logos si identifica con
il ko,smoj nohto,j, l’espressione paolina “faccia a faccia”, ripetuta dall’autore
cristiano numerose volte56, dovrà significare metaforicamente l’accesso al
mondo delle idee divine, prima contemplate per speculum et in aenigmate.
Occorre anche notare che Clemente parla a questo proposito di una “visione

50
Cfr. Phil., Mos. II 288-291.
51
Cfr. Phil., Sacrif. 8, dove ricorre il termine plhsi,on.
52
Cfr. Phil., Plant. 52-53.
53
Cfr. Phil., Somn. I 230-232.
54
Cfr. Clem., Strom. VII 56,3-57,2.
55
Cfr. Clem., Strom. IV 155,4.
56
Cfr. 1 Cor. 13,12; Clem., Strom. I 94,4-6; V 7,5; 74,1; VI 102,2; VII 57,1 e altri.
327

insaziabile”57. Tale insaziabilità è la conseguenza dell’infinità dell’essenza


divina. In realtà, le anime contemplando le cose divine non si saziano mai, ossia
non raggiungono mai il momento in cui acquisiscono la piena comprensione di
ciò che è Dio in sé. Il processo di perfezionamento e di assimilazione a Dio
incominciato sulla terra continua dunque anche nell’aldilà, e probabilmente
senza mai finire. La conferma di tale interpretazione la troviamo nelle parole di
Clemente stesso, mentre afferma: “Quanto a noi, ci è proposto di giungere ad un
fine che non ha fine (eivj te,loj avteleu,thton) se ubbidiremo ai comandamenti,
cioè a Dio (toute,sti tw|/ qew|/)”58. Essendo infinito, infatti, Dio non potrà mai
essere afferrato da un’anima creata, neanche da quella più perfetta. Gli gnostici,
dunque, (e questa sarà la loro felicità) progrediranno eternamente nella
conoscenza delle cose divine, ma non apprenderanno mai l’essenza del Dio
trascendente. Nonostante, per quanto riguarda la dottrina escatologica, gli autori
alessandrini non sempre siano precisi e chiari, sembra che anche in questa parte
della loro filosofia tendano a salvaguardare l’assoluta trascendenza ontologica
ed epistemologica di Dio.

La dottrina dell’assoluta trascendenza divina è caratteristica di tanta filosofia


alessandrina dei primi secoli dopo Cristo. Oltre Filone e Clemente la troviamo
ugualmente nei medioplatonici, come Alkinoos, Numenio e Attico, negli gnostici, poi in
Origene e in Plotino, ma anche nei pensatori non provenienti dall’ambiente
alessandrino, ma ispirati dagli scritti di Filone e di Clemente come, ad esempio, in
Gregorio di Nissa. Tutti costoro cercheranno di rispondere alle domande: In che modo il
Dio trascendente crea e governa il mondo?; Come avviene la comunicazione tra il
Creatore e le creature?; Qual è lo status ontologico degli intermediari?; Fino a che punto
l’uomo è in grado di conoscere il divino?; In che cosa consiste il ritorno a Dio? Anche
se le risposte a queste domande variano a seconda dell’autore, in molte di esse, come a
volte mostravamo anche noi nel corso di questo lavoro, è possibile trovare le riprese,
più o meno dirette, dei concetti elaborati da Filone e Clemente di Alessandria.

57
Cfr. Clem., Strom. VI 108,1; VII 13,1.
58
Clem., Strom. II 134,1.
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INDICE

Abbreviazioni .................................................................................................................... 1
Introduzione ...................................................................................................................... 7
1. L’importanza dell’argomento per la patristica e la storia della filosofia ............ 7
2. L’obiettivo e il metodo dello studio .................................................................. 11
3. Lo status quaestionis ......................................................................................... 13
Una breve storia della trascendenza nella filosofia antica ............................................ 25
1. Il concetto del nou/j e del lo,goj nei presocratici ................................................ 25
2. Platone e Aristotele. La scoperta della trascendenza ........................................ 33
3. Gli stoici. Il ritorno all’immanenza ................................................................... 40
1. La Trascendenza di Dio in Filone di Alessandria ....................................................... 46
1.1. Tra il Dio della Bibbia e il Dio dei filosofi. Le premesse di Filone ................. 46
1.2. La trascendenza ontologica di Dio .................................................................... 63
1.3. Il Logos: tra la trascendenza e l’immanenza ontologica ................................... 89
1.4. La trascendenza gnoseologica di Dio ............................................................. 118
1.5. Le aporie riguardo alla trascendenza di Dio ................................................... 144
1.6. Conclusioni. L’originalità della dottrina della trascendenza .......................... 167
2. La Trascendenza di Dio in Clemente di Alessandria ................................................ 178
2.1. La gnosi cristiana. Le premesse di Clemente.................................................. 178
2.2. La trascendenza ontologica di Dio .................................................................. 199
2.3. Il Logos personale: trascendente e immanente ............................................... 226
2.4. La trascendenza gnoseologica di Dio ............................................................. 252
2.5. Le aporie riguardo alla trascendenza di Dio ................................................... 274
2.6. Conclusioni. L’originalità della dottrina della trascendenza .......................... 296
Conclusioni finali: somiglianze e differenze ................................................................. 311
Bibliografia ................................................................................................................... 328
Indice ............................................................................................................................. 353

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