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Ritorno ad Aristotele

a cura di
Amedeo Alessandro Raschieri
Stefano Casarino
Aracne editrice

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Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale

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via Vittorio Veneto, 


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con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopie


senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: novembre 


Ritorno ad Aristotele
ISBN 978-88-255-0830-7
DOI 10.4399/97888255083073
pag. 49–89 (novembre 2017)

La rondine di Aristotele (EN 1.7.1098a 18 s.)

Un celebre proverbio sulla felicità


di MICHELE CURNIS*

Giuseppe, da quel giovane leale che era, non


si nascondeva affatto che col seguire vecchi
adagi si esponeva a un grande pericolo che
gli avrebbe turbato il cuore...

Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli


(III. Giuseppe in Egitto)

1. Proverbio e argomentazione filosofica: un dissidio esegetico

“Una rondine non fa primavera” è uno dei pochi proverbi uni-


versalmente noti, che dal greco e dal latino ha ritrovato una per-
fetta corrispondenza in tutte le lingue occidentali moderne. È al-
tresì ben nota la prima e illustre attestazione del proverbio, nelle
pagine iniziali dell’Etica Nicomachea (d’ora in poi EN) di Ari-
stotele. Meno noto è il particolare rapporto tra il ricco serbatoio
di proverbi arcaici e le esigenze argomentative di Aristotele, an-
che nel passaggio in questione; con un atteggiamento di genera-
le disinteresse, infatti, molto raramente gli interpreti del filosofo
si sono soffermati sul proverbio della rondine, considerando
talmente ovvio il suo significato da non ritenere necessario for-

*
Ricercatore presso l’Universidad Carlos III de Madrid. La presente ricerca rientra
nell’ambito del progetto CONEX, finanziato dalla Universidad Carlos III de Madrid,
dallo European Union’s Seventh Framework Programme per la ricerca e lo sviluppo
tecnologico (n. 600371), dal Ministerio de Economía y Competitividad del Governo di
Spagna (COFUND2013-40258) e dal Banco Santander. Ringrazio sentitamente Franci-
sco Lisi che ha letto il dattiloscritto, suggerendo correttivi e migliorie con la consueta
disponibilità e generosità; grazie anche all’anonimo revisore della collana “Mnemata”
per le opportune osservazioni e integrazioni.

49
50 Michele Curnis

nire alcun commento o spiegazione. Tale mancanza di applica-


zione esegetica vale anche per la letteratura aristotelica antica,
dal momento che i commentari superstiti al libro I di EN non of-
frono osservazioni significative sul proverbio. Proposito di que-
sta nota è dimostrare che il significato della sentenza non è poi
così ovvio, e quindi che sul piano argomentativo Aristotele è ri-
corso a essa come al più funzionale – e forse anche il più “ari-
stotelico” – dei detti sentenziosi a sua disposizione (talmente
“aristotelico” da passare alla storia come un proverbio di Ari-
stotele, quasi ne fosse l’autore)1.

2. L’occorrenza testuale e la sua collocazione

È molto importante ricordare che il proverbio della rondine non


solo si ritrova in apertura di EN quale primo esempio di espres-
sione popolare, ma ancor più che esso costituisce il sigillo della
prima conclusione importante cui il filosofo intende approdare
nelle pagine d’introduzione, ossia che il bene umano risulta es-
sere l’attività dell’anima secondo la più eccellente e perfetta
delle virtù nel corso di una vita compiuta. Al pari dell’uso, nep-
pure la collocazione del proverbio appare casuale, se è vero che
Aristotele ricorre a questa forma espressiva specialmente per
corroborare o introdurre la conclusione di un più articolato ra-
gionamento. Che il proverbio posto al termine di 1.7 funga an-
che da segnaletica di un punto fermo nel ragionamento, è dimo-

1
Per una considerazione complessiva della presenza del proverbio in Aristotele – sia
come ritrovato argomentativo sia come oggetto tipologico dell’indagine retorica – ri-
mando a CURNIS 2009, in cui peraltro il proverbio della rondine non è trattato, ma sol-
tanto menzionato (164 n. 1). I passi provenienti dalle tre opere di etica attribuite ad Ari-
stotele sono riportati nella traduzione di FERMANI 2008, cui si rimanda anche per una il-
lustrazione molto equilibrata del problema dell’autenticità e delle relazioni interne. Sul
proverbio in generale nella cultura linguistica e letteraria della Grecia antica e del mon-
do romano è ora imprescindibile la raccolta di studi curata da LELLI 2009-2011; punto
di partenza sempre utile per l’indagine sul proverbio presente nei testi di Aristotele resta
la voce παροιμίαι in BONITZ 1870, 569 s. Le tre opere di Aristotele maggiormente citate
nel testo originale fanno riferimento alle seguenti edizioni critiche: per Etica Nicoma-
chea BYWATER 1894, per Poetica KASSEL 1965, per Retorica KASSEL 1976. Dove non
specificato diversamente le traduzioni dal greco sono di chi scrive.
La rondine di Aristotele 51

strato dalla coerenza interna rispetto all’inizio del trattato. EN si


apre infatti con l’affermazione che ogni tecnica, ricerca, azione
o scelta tenda a un qualche bene, e che tale bene sia dunque un
fine; se il fine si desidera per se stesso, e non in funzione di un
fine successivo, allora esso costituisce il fine e il bene supremo.
Nel seguito dell’esposizione Aristotele concentra l’analisi del
fine sull’uomo, perché se tutte le cose hanno un fine, anche
l’uomo e la sua azione devono essere caratterizzati da un fine
specifico, e non generico o particolare2. All’interno della pagina
che si conclude con il proverbio della rondine Aristotele giunge
appunto a definire quale sia il fine precipuo dell’essere umano3.

EN 1.7.1098a 7-20: εἰ δ’ ἐστὶν ἔργον ἀνθρώπου ψυχῆς ἐνέργεια κατὰ


λόγον ἢ μὴ ἄνευ λόγου, τὸ δ’ αὐτό φαμεν ἔργον εἶναι τῷ γένει τοῦδε
καὶ τοῦδε σπουδαίου, ὥσπερ κιθαριστοῦ καὶ σπουδαίου κιθαριστοῦ,
καὶ ἁπλῶς δὴ τοῦτ’ ἐπὶ πάντων, προστιθεμένης τῆς κατὰ τὴν ἀρετὴν
ὑπεροχῆς πρὸς τὸ ἔργον· κιθαριστοῦ μὲν γὰρ κιθαρίζειν, σπουδαίου δὲ
τὸ εὖ· εἰ δ’ οὕτως, [ἀνθρώπου δὲ τίθεμεν ἔργον ζωήν τινα, ταύτην δὲ
ψυχῆς ἐνέργειαν καὶ πράξεις μετὰ λόγου, σπουδαίου δ’ ἀνδρὸς εὖ
ταῦτα καὶ καλῶς, ἕκαστον δ’ εὖ κατὰ τὴν οἰκείαν ἀρετὴν ἀποτελεῖται·
εἰ δ’ οὕτω,] τὸ ἀνθρώπινον ἀγαθὸν ψυχῆς ἐνέργεια γίνεται κατ’

2
In relazione a EN 1.7 i fini di cui parla Aristotele sono in realtà di tre tipi: «los que
se eligen por otra cosa, los que se eligen por sí mismos y por otra cosa y el fin último»
(Lisi 2004b, 107).
3
Non sempre il detto proverbiale o sentenzioso serve a confermare un ragionamento
filosofico; al contrario, un’espressione vulgata può essere richiamata quale antitesi della
conclusione cui è appena giunto il procedimento logico-razionale: è il caso del secondo
snodo importante all’interno del I libro di EN (1.8.1098b 31-1099a 29), allorché Aristo-
tele afferma che la felicità consiste nell’attività e nell’uso. Nell’argomentazione che se-
gue all’affermazione di 1098b 31-33 il filosofo rimarca il carattere unitario della felici-
tà, distinguendo la propria conclusione dallo spirito del distico dell’iscrizione di Delo
riportato in 1099a 27 s. («La felicità, quindi, è ciò che c’è di migliore, di più bello e di
più piacevole, e tutte queste caratteristiche non sono separate, come invece risulta
dall’iscrizione di Delo: “la cosa più bella è quella più giusta, la cosa migliore è lo stare
in salute; / mentre la cosa più piacevole di tutte è l’ottenere ciò che si ama”. Infatti le at-
tività migliori hanno tutte queste caratteristiche»; cf. FERMANI 2008, 461). Com’è noto,
la stessa epigrafe che Aristotele riferisce al vestibolo del tempio di Latona a Delo offre
anche il polemico spunto di apertura dell’Etica Eudemia (1.1.1214a 1-8, per cui valgono
le osservazioni di LISI 2004b, 108: «El dístico que abre la EE [...] es un indicio de la di-
rección en que Aristóteles va a dirigir su indagación. [...] Aristóteles pretende
diferenciar su concepción de la felicidad de la del común de la gente, no es justicia,
dinero, ni éxito, sino algo diferente»). Si veda anche il paragrafo dedicato a possesso e
uso della virtù in Grande etica 1.19.1190a 28-b 2 (cf. FERMANI 2008, 1049).
52 Michele Curnis

ἀρετήν, εἰ δὲ πλείους αἱ ἀρεταί, κατὰ τὴν ἀρίστην καὶ τελειοτάτην. ἔτι


δ’ ἐν βίῳ τελείῳ. μία γὰρ χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ, οὐδὲ μία ἡμέρα· οὕτω
δὲ οὐδὲ μακάριον καὶ εὐδαίμονα μία ἡμέρα οὐδ’ ὀλίγος χρόνος.4

Se, poi, la funzione specifica dell’essere umano è l’attività dell’anima


secondo ragione o non senza ragione, e se diciamo che, quanto al ge-
nere, sono identiche la funzione specifica di una certa cosa e la fun-
zione specifica di una certa cosa realizzata alla perfezione, come ad
esempio avviene nel caso di un citarista e di un citarista che suona alla
perfezione, e ciò vale in generale per tutti i casi, una volta che si ag-
giunge all’esercizio della funzione quel di più dato dalla virtù (infatti
la caratteristica del citarista è quella di suonare la cetra, mentre quella
del bravo citarista è quella di suonarla bene), se è così, il bene umano
risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù, e, se le virtù sono
molte, secondo la più eccellente e la più perfetta. E, inoltre, in una vita
compiuta: infatti, come una rondine non fa primavera, né la fa un solo
giorno, così un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono
beato e felice nessuno.5

Chi legge il testo aristotelico può assumere come forma pro-


verbiale l’intero periodo μία γὰρ χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ, οὐδὲ μία
ἡμέρα, e non soltanto la parte relativa al mancato rapporto di
causa / effetto tra una rondine e la primavera. In altre parole,
l’enunciazione completa del proverbio, per come appare nel pe-
riodo aristotelico, contempla sia l’unità di causa (la singola ron-
dine, la cui presenza non è sufficiente a comprovare l’arrivo
della primavera) sia l’unità di tempo (non in un giorno giunge la
primavera, ma in una serie di giorni, nel trapasso da una stagio-
ne all’altra). Nelle non numerose riprese del proverbio attestate

4
Il testo greco è riprodotto secondo l’edizione di BYWATER 1894, 11. L’editore ritie-
ne che all’interno del paragrafo si sia inserita una glossa che ricapitola l’intero ragiona-
mento (probabilmente a causa dell’iterazione del connettivo quasi identico εἰ δ᾿ οὕτως
... εἰ δ᾿ οὕτω), e dunque la espunge («repetitio esse videtur eorum quae praecedunt»); cf.
n. successiva per la traduzione.
5
Traduzione di FERMANI 2008, 455. Poiché la studiosa segue il testo edito da Bywa-
ter, coerentemente non traduce la parte espunta (cf. n. precedente), che potrebbe essere
così resa: “ma se le cose stanno così, [abbiamo posto come funzione specifica
dell’uomo un certo tipo di vita, da intendersi come attività dell’anima e azioni secondo
ragione, e che un uomo di valore sappia realizzare tutto questo in un modo buono e bel-
lo, portandolo a buon compimento ciascuno secondo la propria virtù; ebbene, se le cose
stanno davvero così]”. Né RAMSAUER 1878, 36 né SUSEMIHL 1880, 11 s. avevano sug-
gerito tale espunzione nelle loro edizioni.
La rondine di Aristotele 53

nella letteratura greca6, però, la clausola temporale οὐδὲ μία


ἡμέρα non compare mai. Al massimo può comparire nella glos-
sa finalizzata a spiegare il proverbio medesimo, ma con altre
parole e con altri paragoni (come in Fozio e in Michele Aposto-
lio)7; soltanto in Aristobulo Apostolio (figlio del precedente,
noto come Arsenio) la trascrizione della forma aristotelica è
completa, appunto perché si tratta di una citazione testuale
(Ἀριστοτέλης Ἠθικῆς) e non della memoria proverbiale, che di
per sé è solitamente disancorata dai testi d’autore8.
La ragione principale dell’apparente decurtazione del pro-
verbio rispetto al testo aristotelico può essere spiegata in modo
molto semplice, perché lo stesso Aristotele potrebbe aver tra-

6
Cf. Jul. Ep. 82.138; Lib. Ep. 754; Greg. Nazianz. In sancta lumina (or. 39) 36.352
(cui si riferisce anche Joann. Damasc. Orationes de imaginibus 1.25.33); Procop. Gaz.
Ep. 16.8; Scholia vetera in Ar. Av. 1417. La maggior parte delle occorrenze, comunque,
si deve alla letteratura tecnica di paroemiografi e lessicografi, che a volte suggeriscono
un’esegesi della sentenza o menzionano Aristotele quale suo utilizzatore. Si vedano
LEUTSCH-SCHNEIDEWIN 1839-1851, I, 120 (Zenobio, Βούλεται δὲ εἰπεῖν, ὅτι μία ἑμήρα
οὐκ ἐᾷ εἰς γνῶσιν ἐμβαλεῖν ἢ εἰς ἀμαθίαν); II, 79 (Gregorio di Cipro), 531 (Michele
Apostolio, βούλεται δὲ εἰπεῖν, μία ἡμέρα οὐ ποιεῖ τὸν σοφὸν εἰς τελείωσιν ἐμβαλεῖν),
oltre che Suid. μ 1030; Macar. 6.1; Arsen. 17.20b (Ἀριστοτέλης Ἠθικῆς); Paus.Gr. μ 18;
Simp. in Epict. 134.32; Hsch. μ 1318. Sulle attestazioni di Zenobio e Diogeniano si ve-
da comunque la recente edizione di LELLI 2006b, 191 (dove il proverbio della rondine
compare al n. 12) e la relativa n. 461.
7
Μία χελιδών: παροιμιῶδες τοῦτο, ὅτι μία χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ· βούλεται δέ τι
εἰπεῖν· μία ἡμέρα καὶ εἰ τὸν σοφὸν εἰς τελείωσιν ἐμβάλλειν· καὶ δυσημερία μία τὸν
σοφὸν εἰς ἀμαθίαν· μέμνηται δὲ αὐτῆς Ἀριστοτέλης ὁ φιλόσοφος ἐν Ἠθικοῖς (Phot. μ
269); per Michele Apostolio cf. la n. precedente.
8
In realtà, nella storia della fortuna del proverbio, la riduzione non si è neppure arre-
stata al nesso fondamentale di rondine e primavera; anzi, è proseguita con
l’eliminazione del termine temporale, conservando l’emblematicità animale del solo vo-
latile. Era sufficiente dire “Una rondine ...” (cf. n. precedente) per evocare il senso pro-
verbiale, esattamente come nell’italiano corrente è sufficiente dire “A buon intenditor
...” (sottointendendo “... poche parole”) o più minacciosamente “Uomo avvisato ...” (tra-
lasciando la conclusione, tutt’altro che rassicurante, “mezzo salvato”). La compendiosi-
tà del proverbio si spiega con il semplice fatto che tutti lo conoscono alla perfezione, e
dunque non è necessario ripeterlo interamente: basta l’attacco, come fanno intendere i
lemmi del grammatico Pausania e di Fozio. Basarsi sulla decurtazione testuale di certe
fonti, però, può inficiare la considerazione del testo originale: forse in seguito
all’attestazione del proverbio in forma ristretta SUSEMIHL 1880, 12 propose
nell’apparato critico della sua edizione di EN di espungere οὐδὲ μία ἡμέρα; superfluo
precisare che nessuna ragione fondata autorizzi un’espunzione del genere. Al contrario,
come si cercherà di dimostrare nei paragrafi che seguono, la clausola diventa il comple-
tamento indispensabile del proverbio ai fini del ragionamento filosofico di Aristotele.
54 Michele Curnis

scritto il detto popolare e avervi aggiunto una coda originale sua


(οὐδὲ μία ἡμέρα: non si dimentichi che la trattazione dei capito-
li iniziali di EN è centrata sul tempo della vita, e del graduale
manifestarsi della virtù quale raggiungimento, altrettanto gra-
duale, della felicità). In tal caso, oltre che suo primo utilizzatore
scientifico, si dovrebbe considerare Aristotele come autore di
una postilla del proverbio, che ne completa il messaggio nella
dimensione del tempo. Ipotesi diversa, meno suffragata dai ri-
scontri testuali, è che Aristotele abbia originalmente coniato il
proverbio con il doppio soggetto (rondine e giorno), ma che la
tradizione successiva ne abbia ridotto l’enunciazione, affascina-
ta dalla presenza simbolica ed evocativa della rondine. In tal ca-
so la memoria dei lettori si sarebbe arrestata al richiamo zoolo-
gico, tipico di un mondo favolistico e mitico in cui effettiva-
mente la rondine costituisce un elemento importante e ambi-
guo9. Il mito stesso della rondine e la sua suggestione, in altre
parole, avrebbero prevalso sulla compiutezza della comparazio-
ne aristotelica10.
In merito alla presunta “autorialità” di Aristotele (completa o
parziale) è superfluo specificare che non si dispone di dati suffi-
cienti per risolvere la questione in termini netti11. È invece pos-

9
Cf. Paus. 1.41.8 s., 10.4.8 s.; Apollod. 3.14.8 per il mito di Procne, Filomela e Tereo,
rispettivamente tramutati in usignolo, rondine, upupa. Nella poesia latina i nomi delle
due sorelle sono invertiti, così che la trasformazione in rondine interessa Procne: cf. Ca-
tull. 65.13 s.; Verg. Georg. 4.511; e soprattutto Ov. Met. 6.571-674 (sulle ragioni di tale
inversione si veda BÖMER 1976, 177 s.).
10
Sulla presenza della rondine nella letteratura greca, sulla pluralità di aspetti positivi
o negativi connessi alla sua presenza e sulla simbologia derivante dal mito di Procne, si
vedano la voce di GOSSEN 1921 e l’ampia ricerca di DI PILLA 2002, esaustiva anche nei
riferimenti bibliografici.
11
Aristotele, oltre a dedicare molte pagine alla rondine nei trattati di zoologia, è per-
fettamente consapevole del fenomeno che sta alle spalle dell’invenzione del proverbio
(quale che sia la sua origine), ossia l’irregolarità dei cicli stagionali; assume
un’importanza di primo piano ai fini della nostra analisi l’avvertenza di come la prima-
vera possa ritardare rispetto ai tempi previsti in Arist. HA 5.22.553b 20. Ovviamente
Aristotele sa bene che la rondine emigra d’inverno (HA 7[8].12.597b 3 s., 16.600a 11-
14) per far ritorno con la stagione mite; in HA 8[9].7.612b 21-31 si diffonde
sull’intelligenza di questo volatile, che costruisce il proprio nido con tecnica affine a
quella con cui l’uomo costruisce la propria casa; a questo proposito, nella Fisica, speci-
fica come la nidificazione costituisca un’espressione della natura stessa della rondine (ἡ
χελιδὼν φύσει ποιεῖ τὴν νεοττίαν, Phys. 2.8.199a 26).
La rondine di Aristotele 55

sibile raccogliere informazioni più utili a proposito degli ele-


menti testuali che circondano l’asserzione proverbiale o che so-
no assenti. Per esempio, a differenza di quanto accade abitual-
mente, manca nel capitolo di EN la didascalia proverbiale, ossia
il termine stesso con cui il filosofo segnala la presenza di un
proverbio, perché il lettore lo riconosca quale ricorso retorico
definito (παροιμία)12. Che non compaia alcuna etichetta retori-
co-linguistica, non significa però che Aristotele non intendesse
far percepire ai suoi lettori il detto della rondine come prover-
biale a tutti gli effetti. Al contrario, l’interesse retorico-
didascalico per la natura di argomentazioni in forma condensa-
ta, come exempla, sententiae, massime e proverbi, è ora sosti-
tuito da un’urgenza argomentativa ben più rilevante ai fini etici,
dal momento che il filosofo sta prospettando il modello di
un’esistenza umana interamente trascorsa nell’esercizio della
virtù. Fine del ragionamento è additare il τέλειος βίος (sul cui
significato cf. infra) quale unico contesto possibile per una pra-
tica della virtù abituale, non episodica, e dunque davvero in
grado di condurre alla felicità. Appare evidente che di fronte a
un argomento di tale importanza la qualifica di un’espressione
come proverbiale, sentenziosa, o poetica sia insignificante, o
addirittura disturbante. Per questo Aristotele preferisce non in-
serire alcun marcatore linguistico. Del resto, sul piano altrettan-
to evidente ma più produttivo della coesione interna al testo, è
anche vero che l’asserzione proverbiale si ritrova collegata sia a
quanto precede (grazie al connettivo argomentativo γάρ) sia a
quanto segue (grazie al nesso comparativo ed enfatico οὕτω δέ)13.

12
Cf. per esempio Arist. Metaph. 1.993a 30-b 5, Rh. 1.6.1363a 3-8, 1.11.1371b 12-17,
1.12.1372b 31-1373a 4, 1.15.1375b 19-1376a 17, 2.6.1384a 34-36, Pol. 7.15.1334a 16-
22, etc. Rassegna e disamina sistematica in CURNIS 2009, 179-192. Sul termine
παροιμία resta sempre indispensabile l’articolo di RUPPRECHT 1949.
13
La tradizione latina e volgare, per esempio, recepisce senza fallo questi elementi di
coesione interna, e li riproduce esattamente, segno della perfetta proprietà comparativa e
al tempo stesso argomentativa del proverbio in relazione all’analisi etico-
comportamentale. Una recente nota di Sonia Gentili documenta in poche righe questa
secolare fedeltà al modello argomentativo, anche quando i termini del ragionamento eti-
co sono semplificati o modificati dal traduttore/commentatore medioevale: «Ev I 7, f.
18va: “una sola virtude non può l’uomo fare beato né perfetto, sì come una rondine
quando apare sola e uno die temperato non danno certa dimostranza che sia venuta la
56 Michele Curnis

Ancora in merito all’evocazione simbolica degli elementi


proverbiali, è utile osservare come da quello aristotelico della
rondine sola, che non significa avvento della primavera, derivi
un altro proverbio (suo preciso parallelo) per cui non è suffi-
ciente una sola ape per produrre miele: nelle differenti redazioni
delle Paroemiae di Gregorio di Corinto i due proverbi sono
sempre congiunti nella forma Μία χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ οὐδὲ
(μία) μέλισσα μέλι. Poiché il detto “Ape sola non fa miele” è at-
testato soltanto in Gregorio, e sempre in abbinamento al prover-
bio della rondine, è presumibile non solo che quello sia nato da
questo, ma anche che l’ambito di tale nascita sia letterario o ad-
dirittura filologico. Forse la considerazione che un’ape sola non
è in grado di produrre il miele proveniva da un confronto pre-
sente in qualche pagina di commento all’Etica Nicomachea di
cui si sono perse le tracce, ma che la tradizione paremiografica

primavera. Onde perciò né in piccola vita de l’uomo, ill’è in picciol tempo che l’uomo
faccia buona operatione, non potemo dicere che sia beato”; sottolineo le locuzioni corri-
spondenti in Tommaso d’Aquino, Sententia libri Ethicorum, ed. R. A. Gauthier in
Eiusd. Opera omnia iussu Leonis XIII edita, vol. XLVII, Roma, Commissio Leonina,
1969, lib. I, lect. 10, p. 37, 170-174: “Sicut enim una hirundo veniens non demonstrat
ver nec una dies temperata, ita etiam nec una operatio semel facta facit hominem feli-
cem, sed quando homo per totam vitam continuat bonam operationem”, che sono para-
frasi di En 98a 11: “Si autem plures virtutes, secundum perfectissimam et optimam.
Amplius autem in vita perfecta. Una enim irundo non facit ver, neque una dies. Ita uti-
que neque beatum et felicem una dies neque paucum tempus”. Diverso il dettato di Sa1,
p. 43 e Sa2, p. 199: “Una nempe hyrundo non pronosticatur ver neque dies unica tempe-
rati aeris [sicut una hyrundo non prenuntiat ver futurum, nec una dies serena aerem
temperatum Sa2], sic nec vita pauca et tempus modicum signum certum sunt beatitudi-
nis [beatitudinis hominum Sa2]”» (GENTILI 2014, 40 n. 5, in cui le abbreviazioni vanno
così sciolte: Ev è l’Etica Nicomachea volgarizzata da Taddeo Alderotti, En è l’Etica Ni-
comachea nella traduzione latina di Roberto Grossatesta, Sa1 e Sa2 indicano due mano-
scritti contenenti una specifica redazione della Summa Alexandrinorum, «epitome della
Nicomachea tradotta in arabo e poi in latino da Ermanno il Tedesco»; cf. ancora GENTI-
LI 2014, 39-40 e n. 3). Si può ancora aggiungere la versione della celebre traduzione
quattrocentesca di Leonardo Bruni: «Nam una quidem yrundo non facit ver nec una
dies». Il discorso sulla virtù può anche essere soggetto a reinterpretazioni marcate, ma la
carismatica chiarezza del paragone proverbiale di Aristotele resta intatta. Un momento
importante della ricezione moderna del proverbio è naturalmente segnato dagli Adagia
di Erasmo da Rotterdam (1.7.94): «Una hirundo non facit ver» (il n. 638 ne-
gli Adagiorum collectanea del 1500 è provvisto di un breve interpretamen-
tum: «non una hirundo ver efficit: id est non unum quiddam est satis, in quo multa re-
quiruntur. Veluti si ex una coniectura quis iudicet»). Sul riuso dei proverbi antichi in
Erasmo e nella tradizione umanistica si vedano TOSI 1991 e 2005.
La rondine di Aristotele 57

ha incluso nelle sue raccolte. Il fatto che dal proverbio principa-


le, per gemmazione, possa nascerne uno secondario, che ripro-
duce la struttura e la tipologia del primo, significa naturalmente
che il primo è tanto suggestivo ed efficace quanto bisognoso di
comparazioni e parallelismi.
Ecco delineato uno dei limiti della ricezione del proverbio:
“Una rondine non fa primavera” è stato riscritto, illustrato con
aforismi affini, soprattutto comparato ad altre situazioni prover-
biali, ma molto raramente è stato spiegato nella sua reale fun-
zione argomentativa all’interno di quell’autore in cui compare
per la prima e unica volta. Occorre tener conto della perdita di
alcuni commentari al libro I di EN, specialmente di quelli risa-
lenti all’età bizantina, che rendono parziale la nostra rassegna;
tra gli autori superstiti, comunque, Eustrazio di Nicea è l’unico
che tra XI e XII secolo abbia cercato di spiegare il proverbio
con attenzione al valore simbolico della rondine.

Ἑτέρα παρατήρησις, ἣν δεῖ φυλάττειν θεωρεῖν βουλομένους τὸ


εὔδαιμον. δεῖ γάρ φησι τοῦτο ἐν βίῳ τελείῳ ἐκτείνεσθαι, ὡς μέχρι τοῦ
τέλους τῆς παρούσης τοῦ ἀνθρώπου ζωῆς τὴν τοιαύτην ἐνέργειαν
ἀνένδοτον ἐπεκτείνεσθαι. ὡς γὰρ χελιδὼν ἄγγελος ἔαρος οὖσα οὐκ
ἀρκεῖ μία πρὸς τὴν τῆς ὥρας ταύτης σημείωσιν ἀλλὰ δεῖ πολλὰς
φανῆναι, ἵνα δι’ αὐτῶν τὸ τῆς ὥρας γνωρίσωμεν εὔκρατον, αἴτιον
γινόμενον ἀναζωώσεως τῷ τοιούτῳ ζῴῳ παντὶ ἐν παραβύστῳ
ὑποκειμένῳ νεκρῷ διὰ τὸ χειμέριον ψῦχος, ἔτι δὲ οὐδὲ μία ἡμέρα ἀλλ’
ὁ χρόνος ἅπας ὁ τῇ παρατάσει τῆς ὥρας ταύτης ἁρμόδιος, οὕτως οὐδὲ
μακάριον καὶ εὐδαίμονα μία ἡμέρα ἢ ὀλίγος χρόνος ποιεῖ, ἀλλὰ δεῖ
διὰ τέλους παραμένειν κατορθουμένην τὴν τοιαύτην ἐνέργειαν, ἵν’
οὕτω τῷ καλῶς βιοῦντι ἀληθῶς τὸ μακάριον ἐπιλέγοιτο.14

Un’ulteriore osservazione di cui tener conto riguarda la comprensione


di coloro che desiderano la felicità. Dice infatti (Aristotele) che neces-
sariamente una tale felicità si sviluppa nel corso di una vita completa,
come è necessario che l’attività di cui parla si prolunghi in modo co-
stante fino al termine della presente vita umana. La rondine, che pure
è la messaggera della primavera, non basta da sola per attestare
l’arrivo di questa stagione; al contrario, bisogna che ne appaia un gran

14
Testo critico in HEYLBUT 1892, 71. Con riferimento al lemma ἔτι δὲ ἐν βίῳ τελείῳ
Aspasio si limita a parafrasare il testo (ma non il proverbio), spiegando le fasi del ragio-
namento senza comparazioni o cenni metaforici. Cf. HEYLBUT 1889b, 19 rr. 1-11.
58 Michele Curnis

numero, perché grazie a essa si riconosca il clima temperato della sta-


gione, che diventa principio del richiamo alla vita per ogni animale
che giace in segreto letargo, come morto per il freddo del passato in-
verno; in più, non un unico giorno, ma il tempo nella sua interezza è il
fattore adatto al prolungamento di questa stagione. Allo stesso modo
non sono un giorno o poco tempo a rendere un uomo beato o felice;
anzi, bisogna perseverare fino alla fine in tale attività condotta con
successo affinché a colui che sa vivere bene si possa davvero attribui-
re la beatitudine.

Basterebbe la definizione della rondine quale messaggera


(ἄγγελος) della primavera per denotare in Eustrazio una sensibi-
lità differente rispetto a quella di altri commentatori. In realtà
egli non nota neppure la presenza di un proverbio nel testo di
Aristotele; piuttosto, riduce la presenza di un buon numero di
rondini a σημείωσις dell’avvento della primavera, perché il cuo-
re della sua spiegazione è il principio che richiama alla vita
(ἀναζώωσις), cui paragona l’ἐνέργεια dell’uomo, che a sua vol-
ta permette il conseguimento della felicità. Il commentatore
inoltre non ha dubbi nell’indicare il τέλειος βίος come corrispet-
tivo umano del χρόνος ἅπας, come corso di tutt’una esistenza
fino alla fine (μέχρι τοῦ τέλους τῆς παρούσης τοῦ ἀνθρώπου
ζωῆς). Il secondario accenno alla rondine scompare in un altro
testo che parrebbe dipendere dai commenti di Eustrazio e di
Michele Efesio, ed è la parafrasi dello pseudo-Eliodoro (un au-
tore bizantino probabilmente vissuto tra XIII e XIV secolo)15:

Τὸ δὲ τέλος τῶν ἀνθρωπίνων πράξεων ἐδείχθη ταὐτὸν τῇ εὐδαιμονίᾳ·


ἡ εὐδαιμονία ἄρα εὕρηται, ὅπερ ἔδει ποιῆσαι. ἔτι δὲ προσήκει τὸ
ἀνθρώπινον ἔργον, εἰ μέλλοι πάντῃ τέλειον εἶναι, ἐν βίῳ εἶναι τελείῳ·
μία γὰρ χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ οὐδὲ μία ἡμέρα· οὕτω δὲ οὐδὲ μακάριον
καὶ εὐδαίμονα μία ἡμέρα οὐδὲ ὀλίγος χρόνος. ὡρίσθω μὲν οὖν τὸ
ἀγαθὸν τὸ ἀνθρώπινον ἡ εὐδαιμονία τοῦτον τὸν τρόπον, ψυχῆς
ἐνέργεια κατ᾿ ἀρετὴν ἐν βίῳ τελείῳ. δεῖ γὰρ ἴσως ὑποτυπῶσαι πρῶτον,
εἶτα τελείως γράψαι καθάπερ εἰκόνα τὸν περὶ τοῦ ἀγαθοῦ λόγον.16

15
Un tempo identificato come Eliodoro di Prusa; sull’intricata questione, e più in ge-
nerale sulla parafrasi pseudo-eliodorea e le sue fonti cf. ora TRIZIO 2013.
16
Testo critico di HEYLBUT 1889a, 14.
La rondine di Aristotele 59

Il termine ultimo delle azioni umane è stato così indicato nella felicità.
E così la felicità è stata individuata, proprio come era necessario fare.
Per di più, è conveniente che la funzione specifica dell’uomo si svolga
in una vita completa, se si intende esercitarla in una modalità del tutto
completa; una rondine infatti non fa primavera e neppure un sol gior-
no. Allo stesso modo non rendono beato o felice l’uomo né un sol
giorno né poco tempo. È dunque la felicità a definire il bene umano in
questo modo: attività dell’anima secondo virtù nel corso di una vita
completa. Prima di tutto, infatti, è necessario fornire in qualche modo
un quadro generale, e poi descrivere compiutamente, come se fosse
un’immagine particolare, il ragionamento riguardo al bene.

Nel commentario filosofico di natura ‘tecnica’ si riscontra


costantemente l’inosservanza della qualità letteraria (il prover-
bio) cui ricorre Aristotele per esemplificare quanto ha appena
asserito sul raggiungimento della felicità. Si tratta di una man-
canza doppia: non solo gli esegeti (antichi e moderni) non si so-
no preoccupati di porre in stretta relazione la metafora popolare
e la conclusione del ragionamento (per comprendere meglio
quest’ultimo), ma non hanno neppure segnalato quella sorta di
‘intrusione’ del linguaggio parlato costituita da un proverbio
popolare (παροιμία)17.

3. Il proverbio in relazione al τέλειος βίος

Nella pagina in esame di EN Aristotele presenta la realizzazione


del bene umano come condizionata dal trascorrere del tempo
della vita, cioè dall’esercizio della virtù migliore ἐν βίῳ τελείῳ.
Questo nesso ha obbligato lettori e studiosi a un’interpretazione
in riferimento al raggiungimento della felicità. E siccome il la-
vorio critico non è stato né facile né condiviso, soprattutto per-
ché dipendente dalla tipologia di felicità che il filosofo vuole si-

17
Persino opere fondamentali e molto analitiche nel commento alla pagina di EN non
si preoccupano di registrare la presenza di un proverbio quale strumento argomentativo,
e tanto meno di comprenderne il vero significato (cf. GAUTHIER, JOLIF 1959, 59 s.; PU-
RINTON 1998; DIRLMEIER 1999, 280; BROADIE, ROWE 2002, 278; RICHARDSON LEAR
2004, 44, 123, 182; DAHL 2011. Non c’è traccia del proverbio neppure nella raccolta
miscellanea edita da KRAUT 2006).
60 Michele Curnis

gnificare, la maggior parte degli interpreti ha concesso meno at-


tenzione al proverbio che segue (o meglio: ha agito come se tale
sigillo gnomico neppure esistesse)18. In realtà il proverbio non è
una semplice appendice di registro popolare al precedente ra-
gionamento filosofico; esso è anzi il vero completamento delle
argomentazioni sul bene più grande in una vita compiuta, e de-
termina il trait d’union alla conclusione che per raggiungere fe-
licità e beatitudine agli uomini non bastano né un giorno né po-
co tempo. Dal momento che l’interpretazione del nesso τέλειος
βίος ha causato in passato e causa ancora motivo di divergenze,
l’ambizione della nostra ricerca è appunto di dimostrare che
Aristotele abbia inserito il proverbio della rondine con
l’intenzione di spiegare meglio tale nesso.
La critica aristotelica, in ogni caso, anziché scorgere nel
proverbio una risorsa esegetica, lo ha considerato come un or-
pello popolaresco del tutto superfluo, e dunque trascurabile in
sede di commento e analisi. Persino in un articolo interamente
dedicato al τέλειος βίος19 la connessione di significato tra sin-
tagma filosofico e proverbio è pressoché assente; oppure, quan-
do vi si accenna, essa è tratteggiata con un certo compatimento,
quasi fosse necessario registrarla in mancanza di argomenti più
solidi20. Per Paul Farwell, autore dello studio appena citato,

18
Non sempre l’assenza di interesse per il proverbio è spiegabile con l’attenzione ri-
servata al precedente nesso, che nell’esegesi complessiva del trattato rappresenta senza
dubbio un locus conclamatus; questo si nota per esempio dallo stringato commento che
ne offre la pur importante edizione commentata di RAMSAUER 1878, 37: «Quod enim
ἁπλῶς τέλειον est, ut de beatitate cap. 5 audivimus, debet etiam κατὰ χρόνον esse
τέλειον; tempus vero τέλειον in rebus humanis totum aevum». Come prevedibile, del
proverbio non è detto assolutamente nulla. Cf. infra per una discussione e una definizio-
ne meno assertive del τέλειος βίος.
19
FARWELL 1995. Il suo attacco tradisce una percezione anomala nei confronti di un
riferimento ritenuto pittoresco, stravagante, poetico, non filosofico: «In an almost poetic
mood Aristotle tells us in the Nicomachean Ethics that happiness requires a complete li-
fe, a bios teleios, because “one swallow does not make a spring, nor does one day, and in
the same way, one day or a brief period does not make someone blessed or happy”» (247).
20
«If the passage about swallows and spring days were nothing more than a claim that
a complete life is one that has attained ethical maturity, Aristotle has added nothing new
or meaningful to what preceded it» (FARWELL 1995, 249). Anche quando riprende la
metafora della rondine a fini costruttivi o esemplificativi, lo studioso ritiene necessario
affiancargli altri argomenti, evidentemente perché non la reputa sufficientemente effica-
ce a esprimere la complessità del ragionamento: «there is no exact number of virtuous
La rondine di Aristotele 61

l’adeguata comprensione del nesso dipende dalla relazione con


il detto di Solone a proposito della felicità umana21, riportato da
Erodoto (1.30-33) e a cui Aristotele allude in più di una circo-
stanza22. In effetti in Etica Eudemia (d’ora in poi EE) 2.1.1219b
6-8 il filosofo elogia la considerazione di Solone, mentre in EN
1.10.1100a 10-13 elabora una nuova parte del ragionamento a
partire da un dubbio su tale asserzione: «È vero, quindi, come
dice Solone, che non bisogna mai dire nessuno felice finché è
vivo, ma bisogna aspettare il compimento della sua vita? Ma al-
lora, se si deve accettare questa tesi, ne deriva che uno è davve-
ro felice solo allora, cioè dopo che è morto?»23. Com’è noto,
questa pagina conduce a una conclusione ben diversa, in cui ri-
torna l’espressione del τέλειος βἰος, e in cui Aristotele sembra
voler riprendere la precedente pagina, proprio quella con il pro-
verbio della rondine. A proposito dell’uomo felice, costante e
determinato il filosofo precisa che «non perderà facilmente il
suo stato di felicità, nemmeno a causa di disgrazie, ma lo perde-
rà se queste saranno grandi e numerose, e dallo stato in cui è
caduto non potrà risollevarsi in poco tempo fino allo stato di fe-
licità. Tuttavia, se ciò dovesse avvenire, sarà dopo un lungo pe-
riodo di tempo, e in un periodo compiuto (ἐν πολλῷ τινὶ καὶ
τελείῳ), qualora nel frattempo sia riuscito nelle sue imprese e
abbia ottenuto grandi e importanti successi. Che cosa ci impedi-
sce, dunque, di dire felice colui che agisce sulla base di una vir-
tù perfetta (κατ᾿ ἀρετὴν τελείαν) ed è sufficientemente provvi-

actions that count someone as a virtuous person, just as there is no precise number of
swallows that make a spring nor a number of soldiers making a stand that turn a battle
into a rout, it is nevertheless possible to make some rough, empirical judgment, and
most likely within the span of a few years» (251). Il riferimento ai soldati di un esercito
deriva sempre da EN 1.10.1101a 3-5. Cf. anche FARWELL 1995, 256.
21
«The fact that Aristotle associates well-being, eudaimonia, with a complete span of
time brings to mind Solon’s advice that we should wait until the end of a life to call some-
one happy» (FARWELL 1995, 252). Si veda anche BURGER 2008, 190-216 (il capitolo
Happiness; 238 n. 57 per il τέλειος βίος e i problemi lasciati aperti dalla sua definizione).
22
Anche quando non compare il riferimento esplicito a Solone l’allusione risulta in-
dubbia, come in Grande Etica 1.5.1185a 6-9: «molti dicono giustamente che è necessa-
rio giudicare la felicità di un individuo nell’arco di tempo più esteso della sua vita, poi-
ché ciò che è compiuto deve esserlo sia in un tempo compiuto sia in un essere umano
adulto» (traduzione di FERMANI 2008, 1015).
23
Traduzione di FERMANI 2008, 467.
62 Michele Curnis

sto di beni esteriori, non in un periodo di tempo qualsiasi ma in


una vita intera? (τέλειον βίον)»24. Grazie a questa seconda oc-
correnza si comprende che τέλειος βίος più che con “vita com-
pleta” o “perfetta” (latinismo equivalente al greco, ma in italia-
no piuttosto ambiguo) debba intendersi come fase dell’esistenza
fortemente caratterizzata da un τέλος ben preciso, che è il recu-
pero della perduta εὐδαιμονία. Più che una “vita compiuta” in
assoluto, l’espressione si spiega come fase di vita compiuta dal
raggiungimento di obbiettivi25. Anche per questo motivo, per
comprovare la gradualità e la costanza nell’applicazione, in oc-
casione della prima comparsa del nesso Aristotele lo corrobora
con il proverbio della rondine. Detto con una parafrasi:
l’esercizio della migliore delle virtù non può essere episodico o
saltuario, perché non sufficiente in vista del raggiungimento

24
Arist. EN 1.10.1101a 9-16; traduzione di FERMANI 2008, 471. È pur vero che anco-
ra in EN 10.8.1179a 9-12 la sentenza soloniana è nuovamente citata in termini elogiativi
(Σόλων δὲ τοὺς εὐδαίμονας ἴσως ἀπεφαίνετο), ma in questa pagina non si accenna più
alla durata o al termine della vita, come se la questione fosse stata effettivamente risolta
nella discussione del libro I. Per quanto riguarda le modalità aristoteliche della citazione
soloniana, non esistono elementi in grado di sancirne l’esattezza, al di là del filtro ero-
doteo (che probabilmente era la fonte principale anche per Aristotele); le menzioni di
Solone si moltiplicano invece nella Politica (2.7.1266b 17, 2.12.1273b 34, 35, 41,
1274a 11, 15, 3.11.1281b 32, 4.11.1296a 19), soprattutto in merito alla sua riforma co-
stituzionale. In un solo caso, all’inizio dell’opera e a proposito del limite dell’arte acqui-
sitiva, il filosofo cita testualmente un verso di Solone (Pol. 1.8.1256b 33 s. = Sol. f. 13,
71 = Stob. 3.9.23), ma per contrasto, per confutarne lo spirito. La scelta va sottolineata,
perché «come in molti altri casi nel libro I, il verso è estrapolato dal contesto e caricato
di un significato gnomico. [...] Il detto di Solone viene presentato in quanto contraddice
la consapevolezza, che è invece aristotelica, che i mezzi capaci di procurare una vita
buona non sono infiniti» (BESSO, CURNIS 2011, 285 s.). L’utilizzo di un verso dal sapo-
re gnomico a scopo contrastivo rientra nella ben nota tecnica argomentativa aristotelica
di impiego degli ἔνδοξα (cf. n. 3 per il caso emblematico dell’apertura di EE).
25
«Aristóteles tiende a utilizar el adjetivo τέλειος en sentido fuerte para designar la
mejor realización de la virtud que es única, en otras palabras para designar la perfección
de la virtud, no tanto su carácter de completo o incompleto, aunque esta idea esté
presente» (LISI 2004b, 99); dirimente la conclusione dello stesso saggio: «El bios teleios
no es, por tanto, una vida que ha concluido, sino una vida que ha llegado al culmen de
su desarrollo, ha alcanzado su finalidad, e. d. su inteligencia teórica se encuentra en
acto. Éste es el significado primero de la expresión teleia eudaimonia (EN X 7
1177a15)» (LISI 2004b, 120). Sul τέλος in EN si veda anche SAUVÉ MEYER 2011. Non
propone nuove prospettive esegetiche la pur ampia ricerca di DUDLEY 2012, 217 s. Sulla
felicità come τέλος si veda invece l’analisi, più sistematica e più utile, di FERMANI 2012,
328-331.
La rondine di Aristotele 63

della felicità, esattamente come non è sufficiente la presenza di


una sola rondine per comprovare l’avvento della primavera.
Nella metafora proverbiale, però, il verbo riferito alla rondi-
ne è ποιεῖ, dal tema che per eccellenza indica ‘produrre, fabbri-
care, compiere, attuare’. Aristotele non dice che la rondine porti
la primavera (altra metafora, ma più comprensibile, nel senso
che l’animale accompagnerebbe l’avvento della stagione); dice
invece che la attua, come se l’ἔργον della rondine fosse proprio
la ‘produzione’ della primavera, in parallelo alla funzione speci-
fica dell’uomo, che è l’attività dell’anima. Rendere la rondine
soggetto attivo di una sua propria ἐνέργεια (pure all’interno di
una metafora esplicativa) permette di capire meglio sia Eustra-
zio di Nicea sia il proverbio parallelo attestato da Gregorio di
Corinto. Eustrazio scrisse infatti che sono necessarie molte ron-
dini perché l’uomo riconosca l’effettivo inizio della primavera
(δεῖ πολλὰς φανῆναι, ἵνα δι’ αὐτῶν τὸ τῆς ὥρας γνωρίσωμεν
εὔκρατον), quando tutti sanno per certo che il vero rapporto di
causa / effetto è il contrario: per il fatto che la primavera è dav-
vero iniziata, sono visibili molte rondini, tornate dalla migra-
zione. Il commentatore, in realtà, dimostra straordinaria finezza
esegetica, in quanto è l’unico ad aver riconosciuto la funzionali-
tà con cui Aristotele costruisce un parallelo tra l’azione concreta
dell’uomo e quella traslata della rondine. Non a caso Gregorio
sceglie (o elabora) un proverbio in cui il verbo riferito
all’animale è lo stesso ποιεῖ sottinteso, perché in effetti l’ape
produce il miele (sebbene non da sola). Insomma, la rondine di
EN è soggetto di un proverbio popolare, utilizzato però in ter-
mini squisitamente dialettici; e il capovolgimento del rapporto
di causa / effetto tra rondini e primavera (la seconda permette la
presenza delle prime, ma il proverbio dice che sono le prime a
realizzare la seconda) passa in secondo piano grazie alla clauso-
la temporale, la necessità della ‘costruzione’ della primavera in
un tempo compiuto, esattamente come prescritto per la condi-
zione di felicità umana. Soltanto a questo punto dell’analisi il
lettore dovrebbe passare dal piano funzionale della metafora a
quello qualitativo, chiedendosi per esempio perché l’obbiettivo
64 Michele Curnis

sia la realizzazione della primavera26; prima, però, è più opportu-


no riassumere la relazione tra proverbio e scrittura aristotelica.

4. Il proverbio nell’analisi e nell’argomentazione aristoteliche

Il ricorso alla παροιμία è una scelta insieme retorica e stilistica,


oltre che argomentativa; pertanto l’analisi delle sue presenze
negli scritti di un autore non può prescindere da rilievi di carat-
tere formale e letterario. Nel caso di Aristotele questa conside-
razione obbliga al richiamo dell’antico problema: la suddivisio-
ne delle sue opere in due gruppi, uno (quasi del tutto perduto) di
carattere essoterico, dialoghi e trattati di esortazione alla vita fi-
losofica27, e l’altro (quello conservato e risistemato in edizioni
successive alla morte dell’autore) degli scritti redatti a uso in-
terno della scuola, a volte sotto forma di sillogi di ricerche (le
varie μέθοδοι o τέχναι) e di argomenti didattici. Questi ultimi, a
quanto sembra, furono soggetti più volte a revisione e integra-
zione analitica da parte dell’autore28, ma restarono privi di quel-
la cura formale e stilistica, addirittura di quella piacevolezza e
di quel carattere brillante che i lettori antichi riconoscevano nel-
le opere del primo gruppo29. Ci si potrebbe domandare se la

26
L’evocazione della primavera, nel proverbio così come nell’opera di Aristotele, non
significa soltanto stagione di rinascita e fioritura, ma in generale tempo della giovinez-
za, ossia momento indispensabile in funzione della stagione successiva, l’estate della
pienezza. Questo valore “qualitativo” e funzionale si intende bene dal doppio riferimen-
to della Retorica (1.17.1365a 31-33, 3.10.1411a 2-4) al «paragone che per Aristotele si
trova nell’Epitafio di Pericle, secondo cui la morte di tanti giovani in guerra era equipa-
rata alla sottrazione della stagione primaverile all’anno. Questa espressione non è presen-
te nella versione che ci è tramandata da Tucidide nel libro II» (GASTALDI 2014, 403).
27
Per una rapida rassegna di ipotesi su entità e finalità degli ἐξωτερικοὶ λόγοι si veda
l’Introduzione di ZANATTA 2008, in particolare 26-35.
28
La ‘dinamicità’ degli scritti del filosofo è stata da tempo valorizzata: già Jaeger
«comprese che lo stato del testo aristotelico, da lui magistralmente descritto nelle Stu-
dien da un punto di vista puramente filologico, era il prodotto di un lungo e ripetuto la-
voro sui problemi e delle esigenze dell’esposizione orale, come mostravano, oltre alla
Metafisica, anche le Etiche e la Politica, e concepì dunque l’idea dell’evoluzione del
pensiero di Aristotele» (BERTI 2008, 27).
29
Numerosi luoghi potrebbero essere citati in proposito; ci si limiterà a due, cicero-
niani e icastici: Veniet flumen orationis aureum fundens Aristoteles (Academ. Pr.
2.38.119); Scripsi igitur Aristotelio more, quem ad modum quidem volui, tris libros in
La rondine di Aristotele 65

presenza di una παροιμία all’interno di un’argomentazione, e


più in generale all’interno di uno scritto strutturalmente unita-
rio, dipenda anche dalla funzione comunicativa con cui l’autore
redige l’opera. Non si può comunque ipotizzare che le senten-
tiae proverbiali abbondassero o scarseggiassero negli scritti
perduti, a confronto della notevole frequenza con cui ricorrono
in determinati titoli fra quelli conservati. Si suggerisce piuttosto
l’assai relativa utilità di cataloghi, regesti, calcoli statistici sulla
frequenza del proverbio, in un autore il cui corpus complessivo
è impossibile da ricostruire, e la cui fisionomia linguistica e sti-
listica è stata a lungo ed è tuttora motivo di divergenza30.
Nel III libro della Retorica, a proposito di espedienti di ele-
ganza ed efficacia linguistica, ai proverbi è riservato appena un
paragrafo, verso la conclusione, tra detti celebri, metafore, pa-
ragoni, antitesi, stile pittoresco, enigmi, neologismi, omonimie,

disputatione ac dialogo ‘De oratore’ (Fam. 1.9.23; il modus stilistico del De oratore
sarebbe quindi commisurato sull’esempio aristotelico). Cf. i testimonia ai Dialogi in
ROSS 1955, 1-7.
30
A titolo di esempio si può menzionare un proverbio che Aristotele cita in una pagi-
na del Protrettico (f. 3 Ross = B 2-5 Düring = 76.1.3 Gigon), attestata sia da Stob.
3.3.25 sia da POxy IV, 666; nel corso della discussione, che potrebbe essere sintetizzata
come confronto di apparire / essere, corroborato da frequenti esemplificazioni, Aristo-
tele introduce un proverbio sullo stato moralmente infelice di soggetti “degni di nessun
pregio”: τίκτει γάρ, ὥς φησιν ἡ παροιμία, κόρος μὲν ὕβριν, ἀπαιδευσία δὲ μετ᾿ ἐξουσίαν
ἄνοιαν (sul «tema della superiorità dell’anima ben educata rispetto ai beni esteriori» si
veda la n. di commento di Zanatta 2008, 234; cf. anche BERTI 1997, 406 s.). Per quanto
riguarda la tradizione testuale, il proverbio conosce discreta fortuna nella letteratura
gnomologica, poiché, introdotto dal lemma Ἀριστοτήλους, si legge autonomamente o
nel contesto complessivo in una serie di raccolte medioevali (Mantissa Proverbiorum
2.98 = LEUTSCH, SCHNEIDEWIN 1839-1851, II, 774, PGMax 824A-B, VatMax 17, 39,
etc.; cf. SEARBY 1998, 116 n. 85, 132, 231). Ai fini di un’indagine complessiva su uti-
lizzo e funzionalità del proverbio nelle argomentazioni aristoteliche, va osservato che il
procedimento del Protrettico è lo stesso che si presenta così di frequente nelle opere in-
terne alla scuola: esso compare sempre come argomento sintetico che conclude il ragio-
namento con un giudizio di dominio pubblico (l’analogia che contiene), e allo stesso
tempo provoca la continuazione del discorso con altri argomenti (prosecuzione
dell’analogia); è sufficiente osservare come esso sia introdotto (con un γάρ che richiama
le precedenti asserzioni), e come il testo prosegua subito appresso: τοῖς γὰρ διακειμένοις
τὰ περὶ τὴν ψυχὴν κακῶς οὔτε πλοῦτος οὔτ᾿ ἰσχὺς οὔτε κάλλος τῶν ἀγαθῶν ἐστίν· ἀλλ᾿
ὅσῳ περ ἂν αὗται μᾶλλον αἱ διαθέσεις καθ᾿ ὑπερβολὴν ὑπάρξωσι, τοσούτῳ μείζω καὶ
πλείω τὸν κεκτημένον βλάπτουσιν ἄνευ φρονήσεως παραγενόμεναι. Come si è già os-
servato, anche il proverbio della rondine è ben coeso con quanto precede grazie a un
γάρ in funzione di connettivo.
66 Michele Curnis

iperboli. Aristotele inserisce dunque la παροιμία all’interno del


catalogo di stratagemmi linguistici, subito prima della disamina
degli stili (deliberativo, giudiziario, epidittico) e delle parti
dell’orazione, che concludono il trattato. Ma la definizione in
sé, esaminata con l’esempio che segue nel testo e che dovrebbe
argomentarla, è piuttosto deludente: al proverbio Aristotele de-
dica pochissime righe, e il lettore ha la netta impressione che
l’inserzione all’interno del catalogo sia avvenuta en passant.
Questo però non significa che il proverbio nella Retorica in ge-
nerale non apporti un contributo fondamentale per comprendere
quale valore e quale funzionalità gli attribuisse il filosofo31. Oc-
corre procedere con ordine, poiché alla definizione di Rh.
3.11.1413a 14 s. si giunge dopo una nutrita serie di exempla;
nelle relative pagine l’autore utilizza il proverbio e ne pone in
evidenza l’efficacia argomentativa, senza però aggiungervi ri-
flessioni di carattere teorico (poiché non sarebbe quella la sede
appropriata). Limitatamente al proverbio il lettore della Retori-
ca non ritrova quella sistematicità con cui Aristotele tratta soli-
tamente un oggetto di ricerca, riportandone gli ἔνδοξα e fornen-
do poi la propria analisi, corredata di opportune argomentazioni.
In altre parole, Aristotele cita molto spesso il proverbio (nel
senso che ricorre alla sua molteplicità di esempi), premurandosi
quasi sempre di definire come παροιμία l’argomento sintetico
aggiunto al discorso, cui riserva la posizione privilegiata di
clausola (esattamente come accade alla rondine di EN I)32. Ma
allorché la definizione teorica giunge, essa non pare connotata
di un valore autonomo; sembra piuttosto un corollario alla defi-
nizione e agli argomenti precedenti (nella fattispecie, quelli sul-
la similitudine).

31
Si veda l’utile indice in WARTELLE 1982, 325 (παροιμία) e 498 s. (Proverbes, dic-
tons et sentences).
32
Aristotele teorizza la posizione dell’esempio in coda (ἐπιλόγῳ) al ragionamento in
Rh. 2.20.1394a 10-14 («occorre servirsi degli esempi, come testimonianze, utilizzandoli
come conclusione per gli entimemi: se infatti li si fa precedere, assomigliano a
un’induzione, ma nei discorsi retorici l’induzione non è adatta se non in pochi casi,
mentre se li si mette nella conclusione si utilizzano come testimonianze, e la testimo-
nianza è persuasiva in tutti i casi». Traduzione di GASTALDI 2014, 227). È presumibile che
la stessa teorizzazione dell’efficacia dell’epilogo valga anche per massime e proverbi.
La rondine di Aristotele 67

Rh. 3.11.1413a 17-20: καὶ αἱ παροιμίαι μεταφοραὶ ἀπ᾿ εἴδους ἐπ᾿


εἶδός εἰσιν· οἷον ἄν τις ὡς ἀγαθὸν πεισόμενος αὐτὸς ἐπαγάγηται, εἶτα
βλαβῇ, ὡς ὁ Καρπάθιός φασι τὸν λαγώ· ἄμφω γὰρ τὸ εἰρημένον
πεπόνθασιν.

Dal momento che la classificazione della παροιμία avviene


tra quella di εἰκόνες e quella di ὑπερβολαί (alle quali è dedicato
molto più spazio esemplificativo), non deve meravigliare che
l’unico esempio riportato e spiegato abbia la forma di una simi-
litudine (εἰκών), e non di un proverbio vero e proprio. A partire
da questa osservazione, nasce il sospetto che anche la definizio-
ne come μεταφορὰ ἀπ᾿ εἴδους ἐπ᾿ εἶδος non abbia funzione ana-
loga a quella delle altre componenti (massime, detti celebri,
etc.), e quindi strutturale, ma sia esclusivamente comparativa.
Anche i proverbi possono essere piegati a far parte delle compa-
razioni e delle similitudini (nel caso specifico: “Come l’uomo di
Carpato con la lepre”); quello che Aristotele non dice – proba-
bilmente perché a questo punto della Retorica la disamina della
παροιμία non era pertinente – è che i proverbi non procedono ἐκ
δυοῖν, come aveva appena scritto per le similitudini (αἱ εἰκόνες
... ἀεὶ γὰρ ἐκ δυοῖν λέγονται, ὥσπερ ἡ ἀνάλογον μεταφορά, οἷον
ἡ ἀσπίς, φαμέν, ἐστι φιάλη Ἄρεως, κτλ.). Nel proverbio, che è
metafora pura, manca il medium di paragone che l’εἰκών richie-
de; ma se il proverbio è usato per dar corpo a una similitudine, è
necessario anteporgli ὡς / ὡσπερ, come accade infatti con il det-
to sulla lepre del Carpatese. Che quest’ultimo fosse proverbio a
tutti gli effetti (e circolasse senza bisogno di avverbio compara-
tivo) è testimoniato da Zen. vulg. 4.48 (Leutsch, Schneidewin
1839-1851, I, 98), nel cui lemma e nella cui glossa è semplice-
mente Καρπάθιος τὸν λαγών33.

33
Καρπάθιος τὸν λαγών. Διὰ γὰρ τὸ μὴ εἶναι λαγὼς ἐν τῇ χώρᾳ, ἐπηγάγοντο αὐτοί·
καὶ τοσοῦτοι ἐγένοντο, ὥστε τὸν σῖτον καὶ τὰς ἀμπέλους αὐτῶν ὑπ᾿ αὐτῶν βλαβῆναι. Ὁ
γοῦν Ἀρχίλοχος ταύτην τὴν παροιμίαν ἔφη (Zen. vulg. 4.48 = LEUTSCH, SCHNEIDEWIN
1839-1851, I, 98; cf. Epich. f. 95; Zen. 1.80; Suid. 3.513). ‘Carpatese la lepre’, per tra-
durre in modo incomprensibile al lettore; in età medioevale l’ellissi necessitava certa-
mente di explanatio, se Aristobulo Apostolio e Macario Crisocefalo chiosavano: ἐπὶ τῶν
ἐφ᾿ ἑαυτοῖς ἐφελκομένων τὰ κακά (LEUTSCH, SCHNEIDEWIN 1839-1851, I, 98 n. 48).
Per renderne più intelligibile la forma in una lingua moderna, si potrebbe tradurre il
proverbio ricorrendo ad altro esempio: come ‘il vaso di Pandora’ così ‘la lepre del Car-
68 Michele Curnis

A questo punto è possibile tracciare un résumé sul proverbio


secondo Aristotele: al di là dell’esempio riportato a seguito del-
la definizione, e dei problemi esegetici e formali che da esso na-
scono34, il filosofo consegna due caratterizzazioni del proverbio,
una di tipo retorico (‘metafora da specie a specie’), l’altra di ti-
po storico, in quanto il proverbio costituirebbe l’unica traccia
della riflessione filosofica di età remotissime della storia uma-
na. È Sinesio di Cirene a riportare questa straordinaria testimo-
nianza, nell’Elogio della calvizie:

Εἰ δὲ καὶ ἡ παροιμία σοφόν – πῶς δ᾿ οὐχὶ σοφόν, περὶ ᾧ Ἀριστοτέλης


φησίν, ὅτι παλαιᾶς εἰσι φιλοσοφίας ἐν ταῖς μεγίσταις ἀνθρώπων
φθοραῖς ἀπολομένης ἐγκαταλείμματα, περισωθέντα διὰ συντομίαν καὶ
δεξιότητα; – παροιμία δήπου καὶ τοῦτο, καὶ λόγος ἔχων ἀξίωμα τῆς
ὅθεν κατηνέχθη φιλοσοφίας τὴν ἀρχαιότητα, ὥστε βόειον ἐπιβλέπειν
αὐτῇ. Πάμπολυ γὰρ οἱ πάλαι τῶν νῦν εἰς ἀλήθειαν εὐστοχώτεροι. [...]
τὸ γὰρ ἀπαθανατίζον τὰς παροιμίας αὐτὸ τοῦτό ἐστιν, ἡ συνέχεια τῶν
χρωμένων, οὓς ἐφ᾿ ἑαυτῶν ὑπομιμνήσκει τὰ πράγματα· ὁρώμενα γὰρ
ἐπὶ τῶν ἑκάστοτε συμβαινόντων μαρτύρονται καὶ μαρτυροῦσι τοῖς
παραδείγμασιν.

patese’, quali emblemi di una situazione in cui il male è stato provocato involontaria-
mente o da un comportamento impulsivo. Si noti l’incrocio di fonti e di auctoritates a
supporto del proverbio: Zenobio, che non menziona la citazione aristotelica, rimanda
però ad Archiloco (f. 191 Tarditi = 248 West), riprendendo la stessa frase del lessico di
Esichio (alla voce, che è variante del proverbio, Καρπάθιος τὸν μάρτυρα). Ma, con
l’espressione ταύτην τὴν παροιμίαν ἔφη, Esichio e Zenobio intendono forse dire che
Archiloco abbia formulato e pronunciato per primo il proverbio? Oppure, semplicemen-
te, che egli ne facesse uso nei suoi componimenti poetici? Il f. citato è stampato dagli
editori o con incertezza metrica (« ̮ _ _ Καρπάθιος / τὸν μάρτυρα», Tarditi), o sempli-
cemente su un rigo (West).
34
In parte già rilevati dagli studiosi del trattato; di recente: «Auch einige Sprichwörter
sind in bestimmter Weise Metaphern und passen daher zur Aufzählung von Stilmitteln,
die dadurch, dass sie nicht wörtlich das sagen, was sie meinen, einen geistreichen Ein-
druck hinterlassen. (1.) Warum stellen Sprichwörter Metaphern ‚von der Art auf die Art’
dar? Für das vorgelegte Beispiel lässt sich das wie folgt erklären. Wenn man auf je-
manden das Sprichwort „wie der Karpathier den Hasen“ anwendet, dann stellt das Ver-
halten dieser Person und das Verhalten des sprichwörtlichen Karpathiers [...] Arten der
Gattung ‚etwas wählen, weil man es für ein Gut hält, und später Schaden daraus erlei-
den’ dar. (2.) Wie passen die Sprichwörter in dieses Kapitel? [...] Inwiefern sind sie Me-
taphern? Wer das angeführte Sprichwort verwendet, tut dies nicht, um von jemandem
im literalen Sinn zu behaupten, er sei ein Karpathier» (RAPP 2002, 919).
La rondine di Aristotele 69

Ci si domanda se anche il proverbio abbia una sua saggezza: e come


non dovrebbe, visto che Aristotele dice dei proverbî che essi sono i re-
sti, salvatisi grazie alla concisione e all’efficacia, dell’antica filosofia
andata perduta nelle fortunose vicende dell’umanità? Proverbio è an-
che questo, un detto che include nell’antichità un assioma della filoso-
fia dalla quale deriva, in modo tale da farci guardare ad esso fissamen-
te. Gli antichi invero furono abili molto più dei moderni nel mirare al-
la verità. [...] Ciò che rende immortali i proverbî è proprio la continui-
tà del loro uso, in quanto gli argomenti stessi che toccano li richiama-
no alla memoria. Gli eventi che vediamo verificarsi di volta in volta li
chiamano a testimonî e li comprovano con nuovi esempî.35

Opportunamente confrontata con la descrizione tecnica del


μεταφέρειν poetico, la pagina di Sinesio permette di intendere
la differenza che secondo Aristotele intercorre tra un traslato
(μεταφορά) e un proverbio. Nella Poetica non c’è spazio per la
classificazione della παροιμία, sebbene alla metafora sia dedica-
ta dettagliata disamina; ma tale disinteresse per il proverbio è
conseguente alla funzione che la metafora riveste nell’elabora-
zione poetica e alla tipologia di metafora presa in esame. Nel
capitolo 22, dedicato genericamente alla λέξεως ἀρετή (per ri-
prenderne le parole d’apertura), il talento naturale del poeta è
infatti misurato sulla capacità di coniare metafore, ossia di co-
gliere le somiglianze nei fenomeni della realtà.

Po. 22.1459a 4-9: Ἔστιν δὲ μέγα μὲν τὸ ἑκάστῳ τῶν εἰρημένων


πρεπόντως χρῆσθαι, καὶ διπλοῖς ὀνόμασι καὶ γλώτταις, πολὺ δὲ
μέγιστον τὸ μεταφορικὸν εἶναι. Μόνον γὰρ τοῦτο οὔτε παρ᾿ ἄλλου
ἔστι λαβεῖν εὐφυΐας τε σημεῖόν ἐστι· τὸ γὰρ εὖ μεταφέρειν τὸ τὸ
ὅμοιον θεωρεῖν ἐστιν.

Ora è una gran cosa servirsi a proposito di ciascuno dei procedimenti


ricordati, i nomi doppi e quelli peregrini, ma molto più grande ancora
è essere capace dei traslati; questa sola cosa, infatti, non è possibile ot-
tenerla da altri ed è segno di un talento naturale: perché far bene i tra-
slati è saper vedere la somiglianza.36

35
Testo e traduzione in GARZYA 1989, 654 s. Per un’analisi di questa complessa pa-
gina di tradizione indiretta e i suoi possibili rapporti con le opere perdute di Aristotele si
veda ancora CURNIS 2009, 164-171.
36
Traduzione di DONINI 2008, 153. Nella n. 255 (ibidem) Donini rileva come “saper
vedere la somiglianza” sia una «dote altamente filosofica, alla base dell’unificazione e
70 Michele Curnis

Nella Poetica, così come in Rh. 3.11, Aristotele analizza le


virtù di una τέχνη – ora quella retorica ora quella poetica – per
fare emergere i tratti distintivi del buon oratore e del buon poe-
ta. Appunto perché esemplificativi delle artes in esame, sono
capitoli ricchi di citazioni letterarie; e l’exemplum è motivato
dall’originalità, dall’efficacia, dalla celebrità di cui gode. In
questo ambito di indagine, che è allo stesso tempo analitico e
prescrittivo, non c’è spazio per espressioni che tutti conoscono
(i proverbi), poiché retaggio di una cultura filosofica antidilu-
viana. Già nel II libro della Retorica Aristotele aveva posto re-
strizioni nette all’utilizzo delle massime (γνῶμαι)37:

Rh. 2.21.1395a 2-8: ἀρμόττει δὲ γνωμολογεῖν ἡλικίᾳ μὲν πρεσβυ-


τέρων, περὶ δὲ τούτων ὧν ἔμπειρός τις ἐστίν, ὡς τὸ μὲν μὴ τηλικοῦτον
ὄντα γνωμολογεῖν ἀπρεπὲς ὥσπερ καὶ τὸ μυθολογεῖν, περὶ δὲ ὧν
ἄπειρος, ἠλίθιον καὶ ἀπαίδευτον. σημεῖον δὲ ἱκανόν· οἱ γὰρ ἄγροικοι
μάλιστα γνωμοτύποι εἰσὶ καὶ ῥᾳδίως ἀποφαίνονται.

Gli argomenti possono essere stilisticamente soggetti a una


distinzione sociologica. Ma sarebbe improprio sovrapporre lo
γνωμολογεῖν di questo passaggio alla creazione di παροιμίαι38,
per concludere in termini socialmente e culturalmente ‘bassi’
anche sulla loro origine. «Gran facitori di proverbi e pronti dici-
tori di sentenze sono i contadini e le persone di poca cultura.
L’osservazione è di Aristotele, il quale osserva pure che la nar-
razione di fatterelli inventati, favole e apologhi, è molto adatta
per le assemblee popolari, mentre per i consigli delle città val-

della gerarchizzazione delle esperienze, poi dei concetti secondo specie e genere; cfr.
Rhet., III, XI, 1412a10 e Top., I, XVIII, 108b7-12».
37
«Innazitutto, la massima è una semplice “affermazione” (apophansis) e non ancora
un’argomentazione, in secondo luogo, essa è formulata in termini generali e, infine, si
riferisce esclusivamente all’ambito delle azioni umane. Ciascuno di questi tre aspetti
rende la massima particolarmente adatta a diventare una delle tre premesse
dell’entimema. Esso, infatti, è un sillogismo intorno a questi stessi argomenti e pertanto
“si può dire che le conclusioni e le premesse degli entimemi, considerati indipendente-
mente dal sylloghismós, sono massime” (Rhet. 1394a 26-28)» (PIAZZA 2008, 119).
38
Un corrispettivo παροιμιάζειν è attestato più volte in Aristotele, ma nel significato
di ‘utilizzare proverbi, citarli’ (e.g. EN 5.1.1129b 29), oppure, alla diatesi passiva, ‘esse-
re detto dal proverbio, diventare proverbiale’ (Arist. GA 2.7.746b 7 s.), mai in quello di
‘creare proverbi, trasformare in proverbio’ (presente invece in Pl. Lg. 7.818b, etc.).
La rondine di Aristotele 71

gono più le narrazioni di fatti storici»39. In realtà Aristotele non


parla di facitori di proverbi, né identificherebbe mai tali artefici
con gli ἄγροικοι, considerata la sua opinione sulla nascita del
proverbio, che vale richiamare con altre parole: «nei cosmici ca-
taclismi l’antica sapienza filosofica si oscura e se ne perde la
tradizione, rimanendone solo qualche bagliore nei proverbi,
conservatisi per la loro brevità ed il loro acume, proverbi che
sono piccole faville di antica perduta saggezza»40. Del resto, a
impedire la confusione tra γνώμη e παροιμία è lo stesso Aristo-
tele; poche righe di testo dopo aver avvertito che non tutti gli
oratori possono (né devono) permettersi di pronunciare massi-
me, aggiunge infatti: ἔτι ἔνιαι τῶν παροιμιῶν καὶ γνῶμαί εἰσιν,
οἷον [παροιμία] Ἀττικὸς πάροικος (Rh. 2.21.1395a 17 s.)41. Que-

39
DI CAPUA 1947, 55 s., con esplicito riferimento al passaggio riportato della Retorica.
40
BIGNONE 1973, 130, a commento della testimonianza di Sinesio (che, seguendo
Rose, attribuiva al perduto De philosophia). Parrebbe proseguire sulla scorta dello stes-
so Bignone anche Jaeger, allorché osserva entusiasticamente, a proposito del titolo
Παροιμίαι nel catalogo laerziano: «Perciò egli [scil. Aristotele] inizia una raccolta di
proverbi greci sentendo nelle loro brevi e taglienti verità d’esperienza i resti di una ori-
ginaria e non ancora letteraria filosofia conservatisi per via orale, in grazia della loro la-
conica ricchezza di contenuto, attraverso tutte le vicende spirituali del popolo. Con acu-
ta intuizione egli riconosce il valore dei proverbi e della poesia gnomica per l’indagine
dei primordi della riflessione morale» (JAEGER 1968, 170).
41
(Avere) un Attico per vicino è un esempio di proverbio molto interessante tra quelli
che Aristotele riporta, per almeno due motivazioni: 1) al di là della glossa che gli dedica
Zenobio (2.28= LEUTSCH, SCHNEIDEWIN 1839-1851, I, 40), è possibile ritrovare forse la
fonte principale da cui è scaturita la sintesi proverbiale in Th. 1.69.3-70, ossia il discor-
so di rimprovero dei Corinzi ai Lacedemoni, colpevoli di non essersi accorti delle ambi-
zioni espansionistiche e della politica aggressiva degli Ateniesi in vista della guerra del
Peloponneso («Così se uno riassumendo dicesse che essi [scil. gli Ateniesi] per natura
sono fatti per non avere tranquillità loro stessi e per non permetterla agli altri uomini, di-
rebbe una cosa giusta» [traduzione di DONINI 1982, 181]. Il dire ‘una cosa giusta’ da
parte di un soggetto generico [τις ... ὀρθῶς ἂν εἰποι] è la trasposizione in forma ipotetica
di un proverbio probabilmente già circolante, e forse proprio di origine corinzia). 2)
Non si tratta di una delle solite παροιμίαι, richiamate da Aristotele nel fluire delle sue
argomentazioni, quali resti di antica filosofia divenuti asserzioni note e condivise: que-
sto è invece un proverbio di origine recente, nato dalla storia dei rapporti tra Atene e le
πόλεις vicine. Inoltre, ed è quel che più importa, “avere un vicino Attico” significa tro-
varsi in una situazione difficile, a causa di un interlocutore pretenzioso, aggressivo, au-
dace (secondo l’aggettivazione tucididea): si tratta insomma di un giudizio di valore,
che secondo Aristotele è tipico della γνώμη, ma non della παροιμία (eccettuati quei casi,
come questo, in cui massima e proverbio coincidono). Commentando il passaggio in cui
si parla del vicino Attico, già Pier Vettori rimarcava la differenza tipologica rispetto alla
sentenza, insistendo però sul carattere retorico di testimonium del proverbio stesso: «non
72 Michele Curnis

sta pagina della Retorica è interamente dedicata alle massime; i


proverbi fanno capolino in via eccezionale, soltanto perché al-
cuni di essi, oltre alla natura di παροιμία, hanno anche quella di
γνώμη. Ma non tutti i proverbi sono massime42, poiché caratte-
ristica principale di queste ultime è l’intento morale, mentre i
primi raramente esprimono un chiaro giudizio etico: [...] ταύτην
τε δὴ ἔχει μίαν χρῆσιν τὸ γνωμολογεῖν, καὶ ἑτέραν κρείττω·
ἠθικοὺς γὰρ ποιεῖ τοὺς λόγους. ἦθος δ᾿ ἔχουσιν οἱ λόγοι, ἐν
ὅσοις δήλη ἡ προαίρεσις (Rh. 2.21.1395b 12-14). Aristotele si
diffonde sull’origine delle massime, ma non su quella dei pro-
verbi. Ed è, questo della loro origine, uno dei due problemi cen-
trali negli scritti aristotelici (l’altro, come si è visto, è la classifi-
cazione tecnica del proverbio all’interno del sistema retorico)43.

nulla praeterea proverbia vim sententiarum habere, atque utiliter posse usurpari, cum
aliquid alicui praecipere ac suadere volumus: cuius generis est proverbium illud [quello
del vicino Attico]. [...] Non omnia igitur proverbia eam naturam habere vult, ut loco
sententiarum poni possint: alia enim vis est sententiarum, alia proverbiorum, diversa-
que; haec inter se sunt: non ita tamen discrepantia, ut quaedam etiam proverbia non in-
veniantur, quae usum sententiarum expleant, atque admoneant, quomodo se in vita
homines aliqua in re gerere oporteat. [...] nam proverbia genus esse testimoniorum cer-
tum est, et ipse in extremo primo libro tradidit, ubi probationis artificii expertes, expli-
cavit» (VETTORI 1579, 453).
42
Distinzione ben acquisita dalla trattatistica retorica moderna: «Eine in besonders
weitem Sinne infinite Sentenz wird (propositio) maxima genannt (fr. maxime, engl. ma-
xim). – Eine in einer Sprachgemeinschaft als Volksweisheit verbreitete Sentenz wird
‚Sprichwort‘ (proverbium, adagium, παροιμία) genannt» (LAUSBERG 1963, 132 n. 3).
Perelman, affidandosi a quanto pare a strumenti lessicografici, opera invece una classi-
ficazione semplificata, e considera i proverbi un sottoinsieme delle massime: «I prover-
bi, dicono i nostri dizionari, sono brevi massime divenute popolari; Schopenhauer li av-
vicina ai luoghi; sono, egli dice, luoghi a tendenza pratica» (PERELMAN, OLBRECHTS-
TYTECA 1966, 175).
43
Il problema non riguarda soltanto Aristotele e la sua tradizione, ed è stato rilevato
anche per la poesia arcaica. In particolare per Alceo è emersa la difficoltà di definire il
rapporto tra metafora e proverbio (lo stesso problema, nella pratica di oratore e poeta,
promana irrisolto dai trattati aristotelici): «Alceo è, a buon diritto, il poeta delle metafo-
re. Ma μεταφορά, per i Greci, non era solo la nostra metafora, bensì una gamma di figu-
re e trópoi assai più ampia: tra questi, anche i proverbi [...]. Alcune immagini impiegate
da Alceo, in effetti, si rivelano all’analisi paremiografica come vere e proprie incursioni
nel patrimonio dei proverbi greci, più che come espressive e metaforiche creazioni
d’autore. Uno dei problemi più spinosi da affrontare, infatti, è proprio questo: distingue-
re le immagini ‘artisticamente’ metaforiche dai veri e propri proverbi, attestati per altre
vie o per comparazione con altre culture. Ciò è vero, in particolare, nella definizione di
alcune espressioni alcaiche problematiche, ove il confine tra metafora ‘d’autore’ e im-
maginario proverbiale è assai sottile» (LELLI 2006a, 24).
La rondine di Aristotele 73

Per comprendere meglio la pagina della rondine in EN I è


opportuno richiamare ancora alcuni passaggi della Retorica in
cui si fa strada la valenza argomentativa del proverbio. È il II
libro del trattato a presentare una discussione in cui esso si inse-
risce molto bene, e da cui si comprende la sua natura di enti-
mema già preparato dalla tradizione. Tutti i ritrovati sentenziosi
dell’oratore devono infatti rispondere a un intento morale, ed
essere preparati sulla base di una tecnica peculiare; devono en-
trare a far parte di un entimema, e quindi i loro elementi costitu-
tivi devono essere ricercati nei luoghi più opportuni e introdotti
grazie alla struttura del traslato (similitudine o metafora). In
breve, tali formule devono essere l’esito di un’operazione tecni-
ca, di scelte critiche e di argomentazione specifica per ciascuna
situazione, di volta in volta. Il proverbio può sortire efficacia,
ma è un traslato cristallizzato e immodificabile; l’oratore può
servirsene, ma a patto di non cambiarlo, perché diversamente
l’uditorio non lo riconoscerebbe, e non lo percepirebbe più co-
me proverbio, vale a dire come sentenza retaggio di un tempo
antichissimo, γνώμη ereditata da epoche remote di cui non ri-
mane nient’altro. Nella Retorica Aristotele insegna a costruire
esempi ed entimemi, cioè ad adattare i traslati al proprio discor-
so; manca una peculiare trattazione del proverbio poiché, al
contrario, esso non si può adattare al discorso; è il discorso che
deve risultare adatto al proverbio. È pur vero che la grande va-
rietà di detti sentenziosi rende molto spesso possibile tale adat-
tamento, e anzi connota la presenza del proverbio come effica-
ce, ma se si osserva bene la pratica aristotelica si può verificare
come esso sia citato – e sovente classificato – al termine del
procedimento argomentativo, al termine dell’entimema e al se-
guito di altri traslati. Secondo il fine retorico di Aristotele, è
esatto che il proverbio sia collocato in fondo, poiché ἔνδοξον
privo di originalità, neppure attribuibile a una personalità intel-
lettuale.
Ora, secondo un procedimento analitico tipicamente aristote-
lico, anche la nostra ricerca può ritornare dal quadro generale al
caso particolare, quello della rondine. Dopo aver compreso per-
ché Aristotele ricorra alla tipologia del proverbio per suggellare
74 Michele Curnis

un passaggio così difficile, il lettore può porsi la questione fon-


damentale, sul suo autentico significato all’interno del discorso
sulla felicità e sui metodi per raggiungerla.

5. La parte non è il tutto: una rondine non è la primavera

La dinamica che collega la rondine alla primavera è natural-


mente la stessa che relaziona la parte al tutto, secondo una tipica
riflessione filosofica di Aristotele. Anche le altre occorrenze
dello stesso proverbio e delle sue variazioni negli autori succes-
sivi (“Ape sola non fa miele”, per esempio), permettono di in-
tuire che nella pagina di EN dedicata al raggiungimento della
felicità nel corso di una vita completa Aristotele sia implicita-
mente ricorso all’assioma negativo “la parte non è il tutto”, de-
clinato in ambito stagionale-naturalistico. Tale utilizzo del pro-
verbio a fini argomentativi non risulta soltanto appropriato al
contesto etico, ma deriva molto coerentemente dalle distinzioni
e dalle avvertenze della Retorica. Nel libro II del trattato, e
sempre a proposito degli entimemi in generale, la relazione tra
la parte e il tutto rientra in un luogo fondamentale del discorso,
come quello del possibile: «se le parti sono possibili, lo è anche
l’intero e se è possibile l’intero, lo sono per lo più anche le par-
ti: se la suola, la punta e la tomaia possono essere fatte, e se
possono essere fatte le scarpe, possono essere fatte anche la
suola e la punta» (Rh. 2.19.1392a 27-31)44. L’esemplificazione
della scarpa, delle parti che la compongono e della loro possibi-
le esistenza reciproca è utile al filosofo per illustrare come ci si
accorga dell’esistenza di qualcosa a partire dalla relazione fra il
tutto e le sue parti; in più, il ricorso al luogo del possibile è so-
prattutto tipico dei discorsi deliberativi (Rh. 1392a 5-7), il cui
fine deve sempre essere un bene (1393a 14). E in vista di tale
fine, aggiunge Aristotele per concludere, le cose particolari ri-
sultano più appropriate di quelle universali (κυριώτερα γάρ
ἐστιν πρὸς τὴν χρείαν τῶν καθόλου τὰ καθ᾿ ἕκαστα τῶν

44
Traduzione di GASTALDI 2014, 221.
La rondine di Aristotele 75

πραγμάτων, 1393a 17-19). Quest’ultima affermazione, come il


seguito delle argomentazioni permette di capire, non è in con-
traddizione rispetto al fatto che il tutto sia più importante della
parte. A partire da Rh. 2.20.1393a 25 il discorso si specializza
centrandosi sull’entimema, di cui la γνώμη è parte; ed è questo
il motivo per cui la sezione si riveste di importanza ai fini della
nostra indagine, considerato che il proverbio è una tipologia di
massima. La presentazione dei contenuti suggerisce un ordine
di importanza diverso per il filosofo e per le attese dei lettori;
prima viene l’avvertenza: εἰσὶ δ᾿ αἱ κοιναὶ πίστεις δύο τῷ γένει,
παράδειγμα καὶ ἐνθύμημα· ἡ γὰρ γνώμη μέρος ἐνθυμήματός
ἐστιν (1393a 24 s.). Il lettore può domandarsi perché sia presen-
te quel connettivo argomentativo γάρ riferito alla massima, con-
siderato che sono stati appena prima introdotti l’esempio e
l’entimema. Analoga avvertenza sulla massima, apparentemente
poco coerente, si verifica anche in 2.21.1394b 19-21, quando
Aristotele afferma di volerla definire prima di specificarne l’uso
nel discorso. I due passaggi ravvicinati tradiscono probabilmen-
te l’impazienza che Aristotele immaginava nei suoi lettori a
proposito dell’uso della massima; in particolare nel primo, il fi-
losofo sembra rispondere alla domanda: perché, oltre
all’esempio e all’entimema, non si include anche la massima tra
i mezzi di persuasione più efficaci? Presupporre uno stile inter-
locutorio in questa sezione della Retorica serve a rivelare la
consapevolezza di Aristotele dell’importanza delle massime nel
discorso deliberativo, e in generale nell’arte del discorso greco.
Ma, d’altra parte, i due segnali di anticipazione riferiti alla
γνώμη sono anche segno di una certa insofferenza nei confronti
di una struttura retorica certamente molto utilizzata, eppure rac-
comandabile soltanto in parte al buon oratore. Più si addentra
nella questione dell’efficacia argomentativa, infatti, più Aristo-
tele sottolinea la necessità che il buon oratore sappia adattare il
discorso alle esigenze della circostanza; per questo motivo attri-
buisce molta importanza alle favole (1394a 2 ss.), dal momento
che esse si possono anche inventare ex novo, in maniera stru-
mentale alla conclusione che si intende dimostrare. Eppure la
favola (exemplum fictum) è meno efficace dell’esempio di un
76 Michele Curnis

fatto realmente accaduto, che a sua volta va introdotto soltanto


quando manchino entimemi più significativi; e questi ultimi so-
no costituiti della congiunzione di argomentazioni e massime.
Aristotele è dunque obbligato, in qualche modo, a trattare nel
dettaglio la massima, suddividendola in quattro specie e a for-
nirne una dozzina di esempi commentati tra 1394a 19 e 1395a
2. Ma la conclusione della sezione, come si è già osservato, è un
monito piuttosto severo in merito al loro uso: «Esprimersi con
massime si adatta all’età degli anziani e quando si tratta di ciò
di cui si è esperti, poiché esprimersi con massime quando non si
è così attempati è sconveniente, come anche raccontare favole,
e farlo riguardo a ciò di cui non si ha esperienza è sciocco e
ineducato. Eccone un segno sufficiente: soprattutto le persone
rozze coniano massime e le esprimono facilmente» (Rh.
2.21.1395a 2-7)45.
EN, in ogni caso, non è né un testo oratorio né un modello di
discorso, poiché rientra in un altro tipo di scrittura argomentati-
va, finalizzata alla ricerca analitica e alla spiegazione; in essa,
come nelle altre μέθοδοι o τέχναι di Aristotele, la presenza del
proverbio, ancorché inelegante e poco raccomandabile
all’oratore esperto, ricopre un ruolo importante (come dimostra
la sua assidua presenza nel corso dei ragionamenti). Il fatto che
all’interno della Retorica l’illustrazione della relazione parte /
tutto e quella delle massime siano consecutive suggerisce che
secondo Aristotele la massima è in grado di fare intendere quel-
la relazione appunto con una metafora da specie a specie46. La
medesima relazione, poi, è trattata anche all’interno di EN, in
particolare ad apertura del V libro, per far comprendere che la
giustizia rivolta verso l’altro (πρὸς ἕτερον) non rappresenta sol-
tanto una parte della virtù ma la virtù nella sua interezza: αὕτη
μὲν οὖν ἡ δικαιοσύνη οὐ μέρος ἀρετῆς ἀλλ᾿ ὅλη ἀρετή ἐστιν

45
Traduzione di GASTALDI 2014, 231. Corsivo nostro.
46
«D’altra parte l’autorizzazione a ricondurre il nesso tutto-parti al rapporto tra gene-
re e specie ci viene accordata dallo stesso Aristotele quando, sempre in Metafisica V,
passando in rassegna i vari significati della nozione di “parte”, afferma che “si dicono
parti anche quelle in cui la forma può essere divisa... Perciò si dice che le specie sono
parti del genere (τὰ εἴδη τοῦ γένος φασὶν εἶναι μόρια)”» (FERMANI 2012, 41).
La rondine di Aristotele 77

(5.1.1130a 9 s.). Il lettore si trova di fronte a un nuovo snodo


della ricerca, che il filosofo si premura di rimarcare e precisare,
avvertendo tra l’altro che nella discussione di giustizia e ingiu-
stizia seguirà il metodo già precedentemente utilizzato (1129a 5
s.). Ebbene, è particolarmente significativo che anche per defi-
nire la giustizia in relazione agli altri come virtù perfetta (ἀρετὴ
μέν ἐστι τελεία, 1129b 26) Aristotele ricorra alla letteratura sen-
tenziosa, al proverbio e alla poesia gnomica, esattamente come
in EN I:

Ed è per questo che spesso la giustizia è ritenuta essere la virtù più ec-
cellente, e che neppure la stella della sera né la stella del mattino sono
altrettanto degne di ammirazione. E col proverbio (παροιμιαζόμενοι)
diciamo che “nella giustizia è compresa ogni virtù.”. Ed è una virtù
massimamente perfetta perché consiste nell’esercizio della virtù per-
fetta, ed è perfetta poiché colui che la possiede è capace di esercitare
la virtù anche verso il prossimo e non solo verso se stesso.47

In questo résumé argomentativo le comparazioni con la lu-


minosità delle stelle della sera e del mattino o con quella della
letteratura sentenziosa svolgono la stessa funzione persuasiva
che la rondine della primavera aveva già svolto nel libro I. Il ri-
torno di una sola non è sufficiente per concludere che la prima-
vera sia tornata, come si è ripetuto più volte; ma che cosa signi-
fica questo in relazione all’esercizio della virtù umana? È dove-
roso registrare che tra il ragionamento di Aristotele sulla felicità
e il funzionamento autonomo della metafora proverbiale nasca
una lieve discrepanza. Deve infatti essere visibile una moltitu-
dine di rondini perché si possa concludere che la primavera è
giunta; non proprio allo stesso modo, è necessario che un singo-
lo uomo virtuoso pratichi la virtù in vista del fine più alto, e non
per poco tempo, ma per tutto quello richiesto dall’attuazione di
quel fine (il τέλειος βίος), perché egli possa raggiungere la feli-
cità; non basta un solo giorno (e qui la clausola recupera la coe-

47
EN 5.1.1129b 27-33 (traduzione di Fermani 2008, 631). Il proverbio evocato costi-
tuisce una precisa citazione poetica: Thgn. 147; poche righe più avanti Aristotele cita un
detto attribuito a Biante, uno dei Sette Sapienti (ἀρχὴ ἄνδρα δείξει, “il potere rivelerà
l’uomo”, 1130a 1 s.).
78 Michele Curnis

renza della metafora applicata al ragionamento filosofico) per


passare dall’inverno alla primavera, come non basta un giorno
di virtù ben praticata per dirsi o essere detti felici. Il singolo
uomo costruisce la propria εὐδαιμονία con una dimostrazione di
coerenza e fedeltà al fine ultimo e con la costante iterazione
dell’azione virtuosa. Egli infatti non può essere né incostante né
volubile (οὐδὲ δὴ ποικίλος γε καὶ εὐμετάβολος, EN 1.10.1101a
8 s.), esattamente come i cicli stagionali possono variare nei
giorni, ma sostanzialmente restano fedeli alle leggi della natura.
Una singola azione virtuosa è insignificante per il raggiungi-
mento della vera felicità, esattamente come l’apparizione di una
rondine sparuta non dimostra che l’inverno sia concluso.
Il secondo esempio di massima che Aristotele introduce do-
po la definizione della γνώμη stringe un nuovo legame tra Rh. II
ed EN I, questa volta inerente ai contenuti:

Rh. 2.21.1394b 1: οὐκ ἔστιν ὅστις πάντ᾿ ἀνὴρ εὐδαιμονεῖ.

“Non esiste uomo felice in tutto e per tutto” è un trimetro


giambico perfetto, destinato a grande fortuna nella letteratura
sentenziosa48, e molto probabilmente Aristotele lo seleziona tra
gli esempi di γνῶμαι per il suo carattere morale, relazionato con
la felicità. Se si potesse considerare come un proverbio, questa
massima sarebbe il corrispettivo più efficace della metafora del-
la rondine, perché anch’essa costruita in negativo, e giocata
sull’opposizione di parte e tutto; è evidente infatti che
l’accusativo di relazione πάντα significa la vita umana nel suo
complesso, dall’inizio alla fine. L’uomo può essere felice sol-
tanto in alcune parti della sua vita: di questa conclusione do-
vrebbero ricordarsi i commentatori di EN, perché se la metafora
della rondine segna il punto di partenza del ragionamento sulla
felicità, questo monostico è il punto di arrivo; non a caso il filo-
sofo lo inserisce tra gli esempi più importanti di γνῶμαι.

48
Stob. 4.41.48 = TGF E. 661 (cf. E. Med. 1228) = Men. Mon. 596 (Jaekel 1964, 67,
che peraltro non registra la citazione di Arist. Rh.).
La rondine di Aristotele 79

Non si può dire che la rondine sia di per sé la primavera,


come la giustizia costituisce già la virtù; tuttavia, esattamente
come la relazione della giustizia attuata verso l’altro può tra-
sformare la parte della virtù in virtù completa, si potrebbe ar-
gomentare che essendo la singola rondine il primo e insostitui-
bile σημεῖον per la percezione della primavera (secondo quel
capovolgimento del rapporto causa / effetto alla base del pro-
verbio e di cui si è già parlato) anch’essa significa in potenza il
sopraggiungere della nuova stagione. Soltanto con un tempo
adeguato (ancora una volta il τέλειος βίος)49, e quindi con la ve-
nuta delle altre rondini, la parte finirà per costituire il tutto.

6. La rondine, con il tempo, fa la primavera (e forse anche la


felicità)

Un altro problema derivante dalla considerazione della peculia-


re collocazione del proverbio in merito al raggiungimento della
felicità riguarda appunto il tipo di felicità cui Aristotele allude
nel I libro di EN, dal momento che non si tratta dell’unico. An-
zi, se la più conosciuta definizione della felicità è quella conte-
nuta nel X libro di EN (7.1177a 13-28)50, in accordo con la teo-
rizzazione di EE (2.1.1219a 38),

Nel libro I dell’Etica Nicomachea il contenuto dell’attività virtuosa


che deve sostanziare la felicità è invece accennato da Aristotele in
modo un po’ diverso, ma tale da lasciar pensare a un esito ben diffe-
rente da quello dell’Etica Eudemia: per esempio in I, 7, 1098a 16-18
si dice che la felicità è un’attività dell’anima secondo le virtù e – se le
virtù sono più di una – secondo la migliore e la più perfetta. Il signifi-
cato di questa riserva diventa pienamente chiaro, però, soltanto nella

49
Il tempo, come appare sempre più evidente, è l’elemento discriminante per il rag-
giungimento della felicità, ma in termini di sviluppo e di graduale accrescimento
dell’azione. Svolge la stessa funzione di progressivo avvicinamento alla verità anche
nell’indagine filosofica, come Aristotele scrive in EN 1.7.1098a 23 s., subito dopo il
proverbio della rondine: καὶ ὁ χρόνος τῶν τοιούτων εὑρετὴς ἢ συνεργὸς ἀγαθὸς εἶναι
(«sembrerebbe anche che il tempo si riveli utile come scopritore o come collaboratore»;
cf. FERMANI 2008, 455).
50
Sull’attività della felicità nel X libro di EN si veda in particolare GURTLER 2003.
80 Michele Curnis

conclusione dell’opera, quando (in X, 7, 1177a 12-18) Aristotele ripe-


te che è “ragionevole” che l’attività virtuosa in cui consisterebbe la fe-
licità sia quella della virtù “migliore” e che questa deve essere la virtù
della parte “più divina” dell’uomo... poco più avanti ricorda come una
felicità “di secondo grado” e tipicamente umana quella che consiste
nella pratica delle “rimanenti virtù”, cioè le virtù etiche che sono con-
giunte alla saggezza (X, 8, 1178a 9-22). Per questa concezione della
felicità, in cui la speculazione si distacca da e prevale su ogni altra at-
tività umana configurandosi come il fine supremo dell’esistenza e la
felicità “perfetta”, si è diffuso nella letteratura moderna il nome di
“dominante”.51

Si tratta della concezione della felicità che gli studiosi di


Aristotele oggi indicano come “dominante”, in contrapposizio-
ne a quella “inclusiva” che traspare da EE52. Ai fini della nostra
indagine sul valore argomentativo del proverbio, risulta molto
interessante rilevare come il filosofo abbia corroborato la prima
enunciazione della concezione “dominante” della felicità con la
specificazione diacronica (e quindi con il proverbio della rondi-
ne), che invece è assente nel libro X, ovvero nel punto in cui il
problema è ripreso e precisato.
Aristotele discute in più passi della perfetta felicità, a sug-
gello di una vita compiuta; è indubbio che in EN I il proverbio
della rondine sia riferito più al τέλειος βίος che all’εὐδαιμονία,
ma quest’ultima rimane il termine di riferimento di tutta la trat-
tazione, nonché il vero obbiettivo dell’azione umana. Possiamo
ritornare per un’ultima volta a quella pagina in cui il filosofo re-
cupera l’argomento, diffondendosi con più riferimenti, ma – co-
me si è già visto – senza corroborarlo con altri detti proverbiali.

51
DONINI 1999, XI s. Origine della dicotomia critica in HARDIE 1968, 6. Cf. Fermani
2012, 312-3125, anche per altra bibliografia. Va registrata la posizione di PAKALUK
2011, 25 s., il quale considera il I libro di EN non tanto come un trattato sulla felicità, da
integrarsi con il libro X, ma più semplicemente uno spazio definitorio della medesima
felicità; più in generale, EN I secondo Pakaluk sarebbe «a search or investigation – of-
ten tentative and halting, and frequently revisiting an already stated point – which looks
to uncover and identify something» (26).
52
Per una puntuale ricostruzione della controversia si veda soprattutto LISI 2004a; LI-
SI 2004b costituisce invece un superamento della divergenza esegetica tra felicità inclu-
siva e dominante, riferito soprattutto a ROWE 1990 e seguito da ROWE 2004.
La rondine di Aristotele 81

EN 1.8.1101a 14-16: Che cosa ci impedisce, dunque, di dire felice co-


lui che agisce sulla base di una virtù perfetta ed è sufficientemente
provvisto di beni esteriori, non in un periodo di tempo qualsiasi ma in
una vita intera?53

Dal momento che il proverbio della rondine è costruito nega-


tivamente (perché sarebbe ben diverso un detto che suonasse
“Solo molte rondini fanno primavera”), può essere utile conclu-
dere con la disamina di alcuni argomenti in negativo che Aristo-
tele consegna al lettore. Nel finale del passo riportato, per
esempio, il filosofo non costruisce la contrapposizione cronolo-
gica in termini quantitativi, bensì qualitativi: un periodo di tem-
po qualsiasi (τὸν τυχόντα χρόνον) è da intendersi non come un
tempo generico della propria esistenza (un anno o un lustro o un
decennio, a paragone dell’intera vita) bensì come un tempo in
cui l’esistenza non è caratterizzata da un τέλος superiore, e per-
tanto un tempo in cui l’uomo non attua quelle grandi azioni con
cui la pagina si apre, segno di una virtù esercitata in funzione di
un preciso obbiettivo. Questo, a patto di intendere il τέλειος
βίος come fase dell’esistenza che ha compiuto un obbiettivo,
cioè che ha raggiunto un τέλος (o addirittura il τέλος della vita
umana, già specificato poco prima dell’occorrenza del prover-
bio)54. Soltanto dall’avvicendarsi qualitativo e quantitativo in-
sieme delle azioni umane in esercizio della virtù si può stabilire
se un tempo della propria vita sia compiuto, abbia raggiunto il
τέλος per eccellenza, oppure se si sia trattato di un momento
parziale, che non ha ancora permesso il raggiungimento della
vera felicità.
Il tempo dell’uomo si può suddividere in stagioni, come ogni
anno solare? E dunque, la ‘realizzazione della primavera’ da
parte delle rondini può essere un parallelo della realizzazione
del tempo in cui fiorisce la felicità dell’uomo? Nell’opera di
Aristotele esiste almeno un passaggio ben preciso che pone in
53
Traduzione di FERMANI 2008, 471.
54
«If happiness can be lost and regained (1101a 8-16), the mēkos biou teleion requi-
red for happiness must be somewhat less than the span of life from birth to death – the
teleios bios required for happiness cannot be a complete life. It seems rather to be a span
of life that is sufficient to attain the telos of human life» (KEYT 1995, 185 n. 29).
82 Michele Curnis

relazione il cambio di stagione per piante e animali e il succe-


dersi delle stagioni della vita umana, ed è nel V libro de De ge-
neratione animalium (3.784a 16-21):

Αἱ ὧραι τροπαί εἰσι τοῦ σώματος μᾶλλον, ὥστ᾿ ἐπεὶ μεταβάλλουσιν


αὗται, μεταβάλλει καὶ τὸ φύειν καὶ τὸ ἀποβάλλειν τοὺς μὲν τὰ πτερὰ
καὶ τὰς τρίχας, τὰ δὲ φύλλα τὰ φυτά. τοῖς δ᾿ ἀνθρώποις κατὰ τὴν
ἡλικίαν γίνεται χειμὼν καὶ θέρος καὶ ἔαρ καὶ μετόπωρον, ὥστ᾿ ἐπειδὴ
αἱ ἡλικίαι οὐ μεταβάλλουσιν, οὐδὲ τὰ πάθη τὰ διὰ ταύτας μεταβάλλει,
καίπερ τῆς αἰτίας ὁμοίας οὔσης.55

Per le piante e per gli animali il ritmo delle stagioni si ripercuote


sull’organismo più di quanto accada per l’uomo, con il rispuntare o
cadere di piume e peli. Per gli uomini, al contrario, inverno estate
primavera autunno sopraggiungono a seconda della loro età, tanto che
quando le stagioni non variano, non cambia neppure il carattere che
queste determinano, seppure la causa sia la stessa.

Esiste dunque secondo Aristotele una primavera nell’età


dell’uomo, che determina un carattere stabile per tutto il tempo
di quella stagione; e poiché si tratta per antonomasia del tempo
della rigenerazione e della fioritura (ma non ancora del tempo
della pienezza, che sarebbe l’estate)56, la primavera realizzata
55
Testo di PECK 1979, 524-526. Cf. anche il cap. Life-cycles in KING 2001, 1-16 (do-
ve però non si cita il proverbio della rondine).
56
L’insistenza sulla contrapposizione tra primavera ed estate permette di richiamare
utilmente le confutazioni di Farwell alla tesi che identifica il τέλειος βίος come la sola
maturità della vita; a nostro avviso, però, queste confutazioni funzionano in modo cor-
retto se poste in dipendenza dal valore metaforico della primavera per come determinato
dal proverbio della rondine, e non in assoluto. «The important question is how much
time the cultivation of virtue requires. [...] If the complete life refers to the entire period
of time between birth and death (even though it is certainly not restricted to this mea-
ning) an implication of the maturity thesis is that maturity comes about only at the end
of a life. This is absurd of course» (FARWELL 1995, 248). Anche il seguito delle minu-
ziose argomentazioni potrebbe essere spiegato molto più semplicemente con l’aiuto del
proverbio della rondine; alla luce della metafora della primavera si intendono meglio le
sintesi conclusive sulla felicità aristotelica: «Aristotle might think happiness requires a
considerable length of time whithout it requiring the entirely of a life. [...] A person who
displays excellence while he is relatively young – that is, after is has reached maturity
but before passing through the prime of life – may demonstrate great potential to be cal-
led happy, but we schould not call him happy until we know the outcomes of his prime
years» (FARWELL 1995, 256). Il punto debole dell’analisi di Farwell coincide con la
scarsa considerazione dei contenuti proverbiali (e della letteratura gnomologica in gene-
rale cui Aristotele ricorre), che fa scartare allo studioso la possibilità di prendere sul se-
La rondine di Aristotele 83

dalla rondine è anche il corrispettivo del momento in cui inizia


per l’uomo la fase del τέλειος βίος: il tempo umano che trascor-
re mirando alla realizzazione di un fine.
Provenendo da un mondo di sapienza arcaica e ancestrale,
la rondine di EN I è anche il simbolo del proverbio stesso: essa
ritorna dal tempo e dal luogo del freddo, seguendo il tepore
della nuova stagione, come il proverbio ritorna alla riflessione
dell’uomo aristotelico dal tempo degli ἀρχαῖοι καὶ παμπάλαιοι
di Metaph. 12.8.1074b 1, gli uomini originari e antichissimi,
coloro che avrebbero forgiato i proverbi, secondo la testimo-
nianza di Sinesio. Come l’insieme dei progenitori potrebbe
apportare il livello massimo di verità raggiunto al loro tempo
(ma poi perduto), così le rondini riportano il tempo della fe-
condazione e della rinascita, il tempo adatto a diventare
τέλειος χρόνος57. Aristotele ha scelto, per concludere il suo ra-
gionamento sulla felicità, un proverbio in negativo, che nella
tradizione occidentale si trasforma in sistematico invito alla
cautela di fronte alle apparenze. Alla fine della nostra ricogni-
zione possiamo però riconoscere che le numerose implicazioni
filosofiche di cui il detto si riveste all’interno di EN I ne modi-
ficano la natura popolare e lo associano strettamente al pensie-
ro dello Stagirita. Il proverbio di Aristotele non solo invita alla
prudenza di fronte a sporadiche manifestazioni (di virtù o di
altri fenomeni) con l’immagine della rondine sola; nella sua

rio il detto della rondine quando si trova a un passo dalla soluzione esegetica: «There
are reasons why Aristotle seeks to link happiness and the length of a life, which are in
all likehood different from Solon’s. The problem is that Aristotle, aside from the me-
taphor of swallows and spring days, never explicitly spells out what these reasons are»
(FARWELL 1995, 260). L’ultima notazione non dovrebbe far riflettere che, forse, la
chiave della soluzione risieda proprio all’interno di quel proverbio?
57
Forse anche in funzione del proverbio si possono spiegare le frequenti allusioni alla
sapienza degli antichi che si leggono nel paragrafo successivo di EN 1.8,: 1098b 16-18
registra la «dottrina dei tre tipi di beni, che è antica (κατά γε ταύτην τὴν δόξαν παλαιὰν
οὖσαν) e riconosciuta unanimemente dai filosofi»; 1098b 27 è un accenno alle opinioni
di molti personaggi del passato sulla felicità (πολλοὶ καὶ παλαιοί); 1099a 24-28 è la tra-
scrizione dell’antica iscrizione di Delo, già riportata supra. Con l’avvio di 1.10, infine,
Aristotele recupera un’auctoritas recente nel tempo ma molto carismatica come quella
soloniana (1100a 10 ss.). Dal proverbio della rondine fino a Solone, il filosofo dunque
sembra organizzare la sua abituale rassegna di ἔνδοξα in ordine cronologico, selezio-
nando soltanto le conclusioni e i principi più utili al suo ragionamento.
84 Michele Curnis

doppia articolazione allude soprattutto al trascorrere del tempo


(a partire da una singola giornata), come alla sola dimensione
che permetta l’avvento di una realtà piena. Solo il tempo della
vita finalizzato al raggiungimento di un τέλος innesca la tra-
sformazione dal potenziale all’attuale: per la primavera (grazie
alle rondini) come per la felicità umana (grazie alla diuturna
pratica della virtù).

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