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Antropologia culturale

1. Il concetto di cultura
Vita Zoe:esprime il semplice fatto di vivere in comune a tutti gli essere viventi
Vita Bios:Il termine che esprime la vita propria di un singolo o un gruppo
Esempio:ripararci dal freddo è vita Zoe,farlo con abiti e ornamenti è vita Bios

La cultura opera sul livello di determinare il nostro gusto e il nostro


disgusto(mangiamo carne ma non insetti) e nel ritualizzare l’atto del mangiare (si
mangia per vivere,non è necessario mangiare insieme)
Con la parola cultura s’intende la formazione personale di un individuo. La cultura
può essere:appresa,condivisa e simbolica

 L’essere umano,a differenza degli animale che hanno comportamenti innati,


devono apprendere tutto ciò che fanno. Inoltre può essere trasmessa da
uomo in uomo sia per forma diretta che per via indiretta,mentre ciò non
avviene negli animali. L’antropologo non fa differenza tra bassa cultura e alta
cultura,è importante capire tutti i saperi.

 La cultura è condivisa tra gli uomini e sono in grado di imparare qualsiasi


sistema culturale come loro proprio.
INCULTURAZIONE:apprendimento della cultura madre
ACCULTURAZIONE:apprendimento di una cultura diversa,successivamente
all’inculturazione.
Gli elementi culturali che formano una cultura cambiano sempre nel tempo

 La cultura è simbolica e si spiega attraverso i simboli,linguistici o anche non


verbali. Nel rito cristiano l’acqua santa ,l ostia sono tutti simboli culturali che
sottostanno un preciso ordine.

La cultura è un sistema dei segni ove si distinguono SIGNIFICANTE e SIGNIFICATO:il


primo è la forma che assume il segno per essere veicolato, e il secondo è il vero
significato dell’elemento cui si riferisce. Il rapporto tra significante e significato è
arbitrario dato che ,per esempio,il significato cane può avere il significante /cane/
come anche un disegno a forma di cane. SI possono esprimere due teorie del
significato:

 TEORIA REFERENZIALE: Il significato della parola cane coincide con l’animale o


l’immagine mentale che abbiamo sull’animale
 TEORIA DELL’USO: Il significato cane è dato dall’insieme di norme pratiche e
consuetudini che possiamo raccontare del segno cane

Le culture associano arbitrariamente significanti e significati producendo segni


culturali che hanno senso solo se sono condivisi e quindi possiamo dire che i
significati sono pubblici e non nella testa degli individui.
Il concetto antropologico di cultura riassume tutte le pratiche umane che si
oppongono alla natura,intesa come apparato che precede l’uomo entro il quale
l’uomo deve agire

2. Etnocentrismo critico (Remotti)


Con tale termine s’intende che il proprio gruppo è considerato al centro di ogni
cosa,e tutti gli altri sono classificati in rapporto a esso. Con etnocentrismo
s’intende un atteggiamento pregiudiziale caratterizzato da a) differenzazione
qualitativa tra la cultura di appartenenza e quella degli altri b)rivendicazione
delle qualità umane della propria cultura c)classificazione di tutti gli altri in una
categoria. Con etnocentrismo si definisce anche la concezione di confine,e più
precisamente di interno caratterizzato da fratellanza e l’esterno che sono gli
altri;non solo gruppo interno e gruppo esterno ma anche noi-gruppo (noi
centrismo) e gruppo altri. L’etnocentrismo è rappresentato in cerchi concentrici
ove più si avvicina al centro e più si è al centro del “mondo” e dell’umanità,più ci
si allontana e più si ha minore umanità
3. Riti (Lewis)
Il termine rito è usato per designare le procedure formali, ma più generalmente
indica qualunque comportamento o attività formalizzata che si svolge secondo
regole o procedure specificate dalla società. Gli atti rituali possono essere
individuali e privati,oppure pubblici e sociali.

Nei testi liturgici rito designa l’ordinamento complessivo della liturgia mentre
cerimonia indica la prassi delle azioni liturgiche;quest’ultimo termine oggi è usato
per indicare qualunque azione formalizzata e codificata di tipo laico,spesso di
carattere pubblico. Nello studio del rituale si possono individuare due
orientamenti: il primo focalizza l'attenzione sulle funzioni e sugli effetti dei riti
analizzati nel contesto sociale; il secondo privilegia il contenuto simbolico del
rituale o la sua storia.

 Il rito come tipo speciale di azione o come aspetto speciale del


comportamento
La disciplina che ha affrontato nel modo più sistematico e approfondito lo
studio del rituale è stata l'antropologia. I primi antropologi si interessarono a
questo tema nell'ambito più generale degli studi di religione comparata e dei
relativi dibattiti sull'origine e sullo sviluppo delle forme religiose, sulla
rivelazione divina e sul rapporto di priorità tra credenza e azione. Secondo
Durkheim, "i riti sono regole di condotta che prescrivono come l'uomo debba
comportarsi con gli oggetti sacri" (v. Durkheim, 1912, p. 56). Il rituale riguarda
sostanzialmente la sfera dell'azione: esso "non si identifica con l'intero
sistema religioso o magico, ma è, per così dire, il braccio esecutivo di tale
sistema". Nel suo fondamentale studio Les rites de passage Arnold Van
Gennep (1909) identificò la forma comune di una classe generale di riti che
hanno la funzione di sancire pubblicamente le transizioni sociali. Tale
categoria comprende i riti che scandiscono le fasi del ciclo di vita (nascita,
morte, pubertà e iniziazione), le cerimonie di ospitalità e quelle di
insediamento, i riti legati al succedersi delle stagioni e al calendario. Pur nella
loro eterogeneità, tutti questi riti presentano una struttura o forma comune,
costituita dalla articolazione in tre fasi: la prima segna la separazione dal
precedente status sociale; la seconda è una fase liminare o di transizione; la
terza è quella della aggregazione o reintegrazione che segna l'ingresso nel
nuovo status o il completamento della transizione. I riti di passaggio
identificati da Van Gennep comprendevano sia pratiche religiose che usanze
sociali e cerimoniali. L'individuazione di questa struttura tripartita quale forma
comune delle sequenze cerimoniali ad opera di Van Gennep portò a
focalizzare l'attenzione sulle similitudini nella forma dei riti, sull'esistenza di
regole sociali standardizzate in una gamma estremamente diversificata di
situazioni sociali; le analisi incentrate sul significato simbolico, sulle funzioni e
sugli effetti dei riti vennero messe sempre più in discussione.
Se i comportamenti prescritti sono tipici del rito, ma la componente religiosa
non viene più considerata una sua caratteristica essenziale o necessaria, sorge
il problema di delimitare la categoria. I riti possono essere considerati un tipo
speciale di comportamento? Regole, routines, ripetizione e formalizzazione
sono presenti in molte attività sociali: dalle formule convenzionali di
convenienza a tutti i tipi di abilità pratiche, di giochi e di tecniche complesse di
produzione. Come osserva Goody (v., 1977), codificazione, regolarità e
ripetizione improntano ogni aspetto della vita sociale. L'esistenza di regole si
spiega facilmente nel caso dell'azione tecnica o strumentale, in cui esse
assolvono una funzione pratica, sono un mezzo efficace in rapporto a uno
scopo specifico. La distinzione tra atti strumentali e atti espressivi, tra 'fare' e
'dire' sembrava fornire un criterio per distinguere i comportamenti rituali da
altre forme di comportamento codificato e ripetitivo. In questa prospettiva
l'azione rituale si distingue da quella tecnico-strumentale per la presenza di
una componente simbolico-espressiva. "Il rito può essere definito come un
tipo di attività strutturata, orientata al controllo delle faccende umane, di
natura eminentemente simbolica e con un referente non empirico, come una
regola sancita socialmente" (v. Firth, 1951, p. 222). "La principale differenza
tra le modalità dell'azione di tipo tecnico-pratico e quelle 'magico-religiose'
risiede fondamentalmente nella presenza o nell'assenza di un elemento
simbolico istituzionalizzato [...] Ciò significa che l'intera procedura, o rito, ha
una componente essenzialmente espressiva, a prescindere dalla sua efficacia
strumentale.
 L'interpretazione del simbolismo rituale
La dimensione spettacolare, la rigidità, la presenza di norme che regolano lo
svolgimento dell'azione e che non sono giustificate dai suoi scopi dichiarati, il
coinvolgimento emotivo degli attori e degli spettatori: sono queste le
caratteristiche che hanno attirato l'attenzione degli antropologi sulla
peculiarità del rituale. Nei riti le forme di comportamento sono codificate, ma
il rapporto tra mezzi e fini non è 'intrinsecamente' evidente, appare arbitrario,
non razionale o irrazionale. Come osserva Goody (v., 1961, p. 156), siamo
portati ad attribuire una natura simbolica o espressiva a un comportamento
palesemente strano. Poiché non riusciamo a interpretarlo nei termini di un
rapporto intrinseco tra mezzi e fini, tendiamo ad assumere che esso
simboleggi o esprima qualcos'altro. Leach,noto antropologo, ritiene che
sebbene l'aspetto espressivo possa essere individuato in quasi ogni tipo di
azione, nel rito la dimensione simbolico-comunicativa risulta prevalente,
costituendone la caratteristica distintiva. Il rito, allora, non andrebbe
considerato come una categoria comportamentale, ma piuttosto come un
aspetto del comportamento. L'analisi degli elementi espressivi e simbolici del
rituale è al centro di numerosi, importanti studi antropologici sull'argomento.
Uno dei principali problemi che pone l'identificazione del rito con la sua
dimensione simbolica ed espressiva è quello di stabilire chi e in base a quale
autorità debba fornirne l'interpretazione. Spesso risulta difficile ottenere dagli
attori una spiegazione attendibile dei loro comportamenti rituali. Diversi
individui possono offrire spiegazioni differenti delle stesse azioni; alcuni
affermano di seguire semplicemente la tradizione, e non pensano che il rito
abbia un significato speciale. In certi casi un determinato individuo viene
ritenuto un'autorità in materia, mentre gli altri sono considerati troppo
giovani o inesperti; in altri, il rito ha un significato segreto o tenuto
accuratamente nascosto; in altri ancora, i soggetti affermano di aver
dimenticato o di non aver mai appreso ciò che i loro antenati intendevano
esprimere. In alcune società il significato dei riti non è fissato esplicitamente,
discusso di buon grado o oggetto di una riflessione consapevole, laddove in
altre i partecipanti, o le persone interessate, o le autorità si dimostrano più
disponibili a fornire esegesi e spiegazioni (v. Turner, 1967). Gli antropologi
possono attribuire determinati significati alle azioni osservate, e possono
trarre inferenze sul loro simbolismo, ma resta il problema di stabilire la
validità di tali interpretazioni e la corrispondenza tra le conclusioni degli
osservatori e le intenzioni e le idee dei partecipanti e degli attori. Al pari delle
usanze, i riti forniscono indicazioni esplicite su ciò che si deve e ciò che non si
deve fare. I riti di conseguenza sono stati presentati in termini contraddittori:
da un lato come privi di significato in quanto osservati in modo meccanico,
per pura obbedienza alle convenzioni; dall'altro come colmi di significati
simbolici ed espressivi, sebbene a volte questi siano oscuri o segreti.

In conclusione, è evidente che sulla natura e sulle caratteristiche distintive dei
riti non esiste unanimità di vedute. Rifiutando di circoscrivere il rito ai
comportamenti qualificati da finalità o natura religiosa, molti antropologi
hanno focalizzato l'attenzione sulla classe più generale dei comportamenti
standardizzati prescritti dalla tradizione, e hanno cercato di definire il rito
come un tipo speciale di azione distinto dall'azione strumentale. Ciò ha
indotto alcuni autori a identificare il suo carattere speciale con le valenze
simbolico-espressive, che nei riti sono spesso (sebbene non sempre)
predominanti. Altri autori hanno sostenuto invece che la dimensione
simbolico-espressiva è presente in misura maggiore o minore in pressoché
tutte le azioni sociali, e che pertanto il rituale va considerato non già come
una categoria comportamentale, ma come un aspetto del comportamento.

Il concetto di rito è stato applicato anche al comportamento animale, in


particolare in rapporto alla cosiddetta 'ritualizzazione'. Il termine suggerisce
l'idea di un processo attraverso il quale determinate azioni o sequenze di azioni
diventano fisse, distintive e riconoscibili, assumendo il carattere di atti rituali. Se
è vero che i comportamenti rituali degli animali e degli uomini presentano certe
affinità - come ad esempio la fissità o la standardizzazione, il requisito di
condizioni specifiche e l'ostentazione -, tra di essi esiste ovviamente una
differenza fondamentale: i primi sono specie-specifici, ossia parte della dotazione
evoluzionistica della specie, mentre i secondi sono un prodotto della cultura e
altamente variabili, e non già una caratteristica universale della specie. Il
concetto di 'ritualizzazione' è stato applicato dagli antropologi al comportamento
umano per indicare due processi distinti. Il primo può essere definito un processo
di formalizzazione attraverso il quale la funzione originaria del comportamento
viene modificata, alterata o annullata, sicché esso assume un peso o un
significato diverso. Ad esempio nei 'rituali di ribellione' descritti da Gluckman (v.,
1963) i rappresentanti dell'autorità o del potere possono essere oggetto di
scherno e di irriverenza, ma solo nei termini e nel contesto specifico del rituale:
non si tratta quindi di una ribellione reale, ma di una ribellione 'ritualizzata'.
Il secondo processo cui si fa riferimento con il concetto di ritualizzazione è un
processo di riconoscimento che assume un carattere speciale nell'azione rituale. I
riti umani comportano il riconoscimento. Molto spesso determinate azioni
eseguite nel rituale possono essere compiute anche in forma non rituale (ad
esempio lavarsi, mangiare, accendere fuochi, ecc.). Tuttavia, come osservano
Humphrey e Laidlaw (v., 1995), l'elemento essenziale che contraddistingue il
comportamento rituale è il fatto di essere formalmente prescritto e riconosciuto
come tale, è il processo attraverso il quale determinate azioni vengono eseguite
in un dato modo - quello che appunto viene definito 'ritualizzazione'. Tale
processo conferisce alle azioni rituali un particolare carattere 'distaccato' o
'esteriore' rispetto alle intenzioni o agli scopi reali dell'attore. La forma prescritta
stabilisce ciò che si deve fare; ad esempio, ci si attende che il pubblico batta le
mani alla fine di un concerto per dimostrare di aver gradito l'esecuzione, e si
assume che sia questo il significato espresso dal battimani, anche se si tratta di
un gesto puramente meccanico che non rispecchia minimamente i reali
sentimenti degli spettatori. Il significato del battimani è convenzionale, per così
dire prestabilito, 'esteriore' rispetto ai sentimenti personali dell'individuo. La
ritualizzazione recide il legame implicito, diretto che si suppone esista
normalmente tra le intenzioni e le azioni di un attore.
È attraverso il processo di ritualizzazione che il comportamento rituale acquista
un carattere speciale che lo distingue dal comportamento ordinario. Dal punto di
vista dell'attore, nel rito l'azione è eterodiretta: egli è e non è nello stesso tempo
l'autore delle proprie azioni, che sono prestabilite da regole costitutive e
vincolanti imposte dalla società. I partecipanti devono conoscere le regole per
decidere se applicarle in determinate circostanze. Da qui la preoccupazione per
la correttezza dell'esecuzione, il senso di compiere un dovere o di rispettare una
consuetudine. Queste sono caratteristiche comuni ai codici sociali di condotta in
generale, che consentono agli individui di prevedere in certa misura gli effetti del
proprio comportamento sugli altri. La codificazione dell'interazione ha la
funzione di standardizzare e di comunicare determinati significati (v. Skorupski,
1976, pp. 76-115), ma con il trascorrere del tempo questi possono andar perduti.
Le convenzioni infatti fissano i comportamenti, ma non i loro significati originari.
Le regole non sono autoevidenti, ma debbono essere insegnate, la loro validità si
fonda sulla tradizione o sulla consuetudine. È questo il motivo per cui appaiono
in certa misura arbitrarie.
La ritualizzazione nel comportamento umano tuttavia non va intesa in termini
assoluti: le usanze nascono e scompaiono, possono perdere o acquistare salienza
e significatività. La variabilità dell'attenzione per le usanze e i rituali è un fatto di
evidenza immediata, e trova riscontro nella diversità di spiegazioni e di
interpretazioni fornite dai soggetti, nonché nella circostanza in certo modo
paradossale che in una stessa società alcuni sono convinti che riti e usanze
abbiano un significato preciso, mentre altri li considerano vuoti formalismi. Può
essere utile a questo proposito operare una distinzione tra la risposta a uno
stimolo (le reazioni in questo caso variano e possono essere più o meno
spontanee, più o meno facili da esprimere verbalmente) e la comprensione
razionale e consapevole di un messaggio o di un significato simbolico. Gli
osservatori e i partecipanti possono percepire chiaramente come tali i segnali
che hanno lo scopo di richiamare l'attenzione - la rigidezza e il formalismo, la
presenza di regole e convenzioni -, senza peraltro essere in grado di
comprendere il significato che essi hanno o hanno avuto in passato.
Se la presenza di regole e di una forma strutturata implica l'intenzione di
comunicare un messaggio o un significato, il ruolo di autore di tale messaggio
può essere ascritto alla 'società' in un remoto passato, alla tradizione, agli
antenati, ai defunti o alla storia, a un dio o a uno spirito. A volte il messaggio
originario può andar perduto, e in questo caso si recide il legame tra azione e
significati. Come osserva Maurice Bloch (v., 1974), il formalismo tipico del rituale
richiede l'obbedienza a un'autorità tradizionale, ma comporta altresì una perdita
di significato, limitando la libertà di scegliere le parole e le azioni adeguate per
esprimere ciò che si vuole comunicare. Il formalismo può sostituirsi alla
riflessione autonoma e comportare una perdita di sincerità e di autenticità.
Quando l'azione perde i suoi significati originari, inevitabilmente il trascorrere del
tempo determinerà mutamenti e variazioni nelle interpretazioni che ne verranno
date.

Società storia e trasmissione del rituale

a) Teorie sulle funzioni sociali e politiche del rituale


La convenzione è una forza essenzialmente conservatrice, che promuove la
stabilità. La fissità fa sì che le azioni col passare del tempo acquistino un carattere
arcaico - e ciò può significare semplicemente antiquato, superato, oppure
tramandato, tradizionale, sacro.Il rito è spesso presente e ha un ruolo importante
nella sfera politica, dove assolve di volta in volta la funzione di conferire dignità,
di amplificare, fissare e giustificare l'azione, di promuovere la stabilità e la
solidarietà, di esibire pubblicamente il consenso e l'armonia sociale (v. Kertzer,
1988). L'importanza del rituale è pienamente riconosciuta nella filosofia
confuciana: nella teoria e nella prassi politica dell'antica Cina il rituale (li) aveva la
funzione di incarnare e realizzare l'armonia eterna. Durante la dinastia Tang, tra il
600 circa e il 900 d.C., notevoli energie, ricchezze e sforzi intellettuali venivano
profusi nei culti di Stato. I riti imperiali erano minuziosamente definiti e codificati,
e la loro esecuzione era affidata a una complessa e sofisticata burocrazia. La
riuscita esecuzione del programma rituale era considerata un successo del regno
in quanto realizzazione dell'ideale dell'imperatore esemplare incarnato dai 're
savi'. Attraverso il rituale si celebrava la continuità nel tempo della Cina e il suo
legame con il passato. L'importanza sociale dei culti di Stato, che ricevevano la
sanzione suprema da un'autorità eterna e immutabile, risiedeva nel loro valore
sia pratico che esemplare (v. McMullen, 1987). Nel concetto cinese di li - tradotto
usualmente con 'rituale' - è contenuta l'idea che il decoro, l'osservanza delle
norme sia la virtù suprema. "La teoria politica confuciana sembra basarsi sui
seguenti presupposti. La società è governata da un complesso codice di rituali (li)
che regola tutti gli aspetti della vita. Osservando il rituale prescritto per una data
situazione, gli uomini manifestano sul piano sia fattuale che simbolico il modo in
cui ci si deve comportare in quella situazione [...] I valori e le norme della società
aristocratica sono tutti contenuti nel li, e attraverso il rituale la società può
essere controllata in modo completo ed efficiente; l'osservanza del li consente di
risolvere i conflitti della società, di definirne e di fissarne norme e relazioni, di
realizzare i suoi obiettivi fondamentali attraverso la cooperazione di tutti.
L'adempimento del li equivale alla conservazione dell'ordine" (v. Pocock, 1973,
pp. 43-44).
Alcuni elementi della concezione confuciana ricompariranno assai più tardi nelle
teorie sociologiche sulle funzioni del rito. Durkheim (v., 1912), ad esempio,
riprende l'idea secondo cui la religione rafforza i legami di solidarietà tra i
membri della società. Secondo la sua teoria, nelle società preindustriali la
religione permea molti aspetti della vita sociale, offrendo spiegazioni sulla realtà
e riaffermando i valori sociali. La partecipazione alle cerimonie e ai riti, celebrati
con cadenza regolare, rafforzerebbe la solidarietà sociale. Attraverso essi,
l'individuo si sente in contatto con forze superiori; ma ciò che viene interpretato
come influenza divina, in realtà non sarebbe altro che l'esperienza dell'influenza
della collettività sull'individuo. Il carattere obbligatorio e vincolante delle norme
che regolano i rapporti col sacro pone le azioni rituali al di là di ogni dubbio o
contestazione umana: il rito è giustificato da un'autorità sacrale. Il sistema
sociale dipende dal consenso sui valori collettivi fondamentali, sugli interessi
comuni e su una rete di relazioni improntate alla cooperazione anziché al
conflitto.
Radcliffe-Brown (v., 1952) in una conferenza sul Tabù e in un saggio successivo su
Religione e società si richiamò sia al pensiero di Durkheim sia alle antiche
concezioni cinesi del rituale, sostenendo che i riti esistono e si tramandano in
quanto preservano la società stessa, riflettendone i valori essenziali e rafforzando
la solidarietà sociale. Il rituale può esplicare questi effetti sociali e psicologici in
virtù del suo carattere fisso e vincolante. Come osserva Forge (v., 1990), gli sforzi
richiesti per organizzare e celebrare i principali riti di una comunità possono
rafforzarne il potere politico, in quanto stimolano la produttività e l'agire
cooperativo, incentivano la creatività, suscitano l'entusiasmo collettivo e il
desiderio di eccellere, rafforzano la solidarietà sociale. Così, ad esempio, il culto
dell'igname e le grandi case cerimoniali riccamente decorate degli Abelam, una
popolazione del medio Sepik nella Nuova Guinea, sono ammirati e copiati dalle
popolazioni vicine, che considerano la loro magnificenza come un segno
dell'accesso privilegiato degli Abelam alla sfera sovrannaturale.
Un osservatore esterno potrebbe studiare i riti come fatti sociali e individuare
rapporti causali o correlazioni tra le regole rituali e determinate forme sociali
dominanti, riconoscendo altresì che le interpretazioni del rituale fornite dai
partecipanti non ne spiegano necessariamente tutti gli aspetti. La posizione di
osservatore esterno infatti consente di individuare connessioni e spiegare o
identificare effetti che non sempre sono riconosciuti dagli attori stessi.
Durkheim si proponeva di analizzare e di spiegare la funzione della religione nella
società assumendo che fenomeni universalmente diffusi come la religione e i riti
non potrebbero esistere e conservarsi nel tempo se fossero privi di una qualche
funzione. Roy Rappaport (v., 1968) adottò un approccio analogo nel suo studio
del ciclo rituale kaiko della tribù dei Tsembaga Maring della Nuova Guinea. Le
regole di questo ciclo rituale governavano i conflitti locali e stabilivano periodi di
pace che si alternavano alla guerra aperta, fissando le epoche in cui effettuare
l'uccisione dei maiali domestici, offerti in sacrificio agli antenati e usati per gli
scambi di doni con gli alleati. L'analisi di Rappaport illustra in che modo il ciclo
rituale possa essere interpretato come un complesso sistema di
regolamentazione mirato a controllare e a preservare i complessi equilibri di un
ecosistema basato sulla popolazione umana e sulla popolazione suina, sulla terra
e sulla sua capacità produttiva. Avanzando un'interpretazione che si richiama
all'idea della selezione naturale, Rappaport afferma che il ciclo rituale si è
conservato nel tempo in quanto funzionale alla preservazione di tale ecosistema.
Attraverso la regolamentazione della guerra, la redistribuzione della popolazione
su una quantità limitata di terra, il controllo delle dimensioni della popolazione
suina e lo sfruttamento efficiente delle risorse ambientali, il rituale contribuisce a
preservare la popolazione umana e l'equilibrio ecologico del suo ambiente. Per i
Tsembaga le regole rituali erano sancite da un'autorità sovrannaturale, e in
quanto norme vincolanti di carattere sacro non potevano essere cambiate né
messe in discussione. Tuttavia, quello che Rappaport definisce 'modello cognito'
degli attori, ossia i significati espliciti che essi attribuiscono alle azioni rituali (ad
esempio offerte sacrificali agli antenati, doni per gli alleati, ecc.), non corrisponde
sempre al 'modello operazionale', ossia alle spiegazioni proposte dagli
antropologi (ad esempio il rituale come regolatore ambientale). La spiegazione
dei riti non va ricercata soltanto negli scopi consapevoli e nelle interpretazioni
che ne danno gli attori; questi sono ovviamente importanti come dati di
partenza, ma necessitano di una interpretazione e di una spiegazione che vada
oltre il livello della semplice osservazione.
L'approccio funzionalistico/deterministico, che interpreta i riti in termini di
vantaggi adattativi, o vede in essi il prodotto di specifiche cause sociali, ha
attirato numerose critiche. Si è sostenuto ad esempio che è errato adottare un
approccio positivistico e i metodi delle scienze naturali o biologiche per studiare
la società e la cultura umana. Tale approccio sarebbe astorico e riduzionistico e
trascurerebbe le idee e i sentimenti associati ai riti, ignorando altresì le credenze
e le interpretazioni dei partecipanti. Le spiegazioni dei riti di tipo funzionalistico
avrebbero inoltre un carattere teleologico, in quanto deducono l'origine dei riti
dai loro effetti attuali. Esse assumono indebitamente che i riti si siano conservati
immutati nel tempo, e che pertanto debbano avere una qualche utilità o
funzione: ma ciò significa presupporre la stabilità sociale e ignorare la storia.

b) Le analisi dell'evoluzione storica dei riti


L'attenzione per la storia che aveva contraddistinto sia l'analisi dei riti
nell'antica Roma di Fustel de Coulanges (v., 1864), sia lo studio sul sacrificio dei
Semiti di W. Robertson Smith (v., 1889), è riemersa in alcuni autori
contemporanei (v. ad esempio Bloch, 1986; v. Burke, 1978; v. Comaroff, 1985),
secondo i quali il rito in quanto fenomeno sociale va studiato nella sua
evoluzione storica, osservando in che modo esso si trasformi sotto l'influenza di
processi ed eventi storici.
Un approccio che focalizzi l'attenzione sui determinanti sociali del rituale non
deve essere una speculazione sulle origini, bensì un'analisi dei principî di
trasformazione, uno studio del mutamento nel tempo. È proprio questo
l'orientamento che impronta l'opera di Fustel de Coulanges e di Robertson Smith.
Nei suoi studi sull'istituzione del sacrificio tra i popoli semitici, quest'ultimo
ricostruì le trasformazioni intercorse nel luogo e nell'organizzazione della
cerimonia sacrificale nelle varie fasi della storia degli Israeliti: dall'epoca delle
tribù nomadiche all'insediamento in Palestina, all'istituzione della monarchia, ai
periodi di prosperità e di espansione sino alla disfatta e all'esilio. Il sacrificio
originariamente avveniva nei boschi, in un luogo sacro rivelato da Dio, o nel sito
di macellazione degli animali durante la caccia, oppure nell'accampamento della
tribù quando veniva sacrificato un animale del gregge; successivamente la
cerimonia veniva celebrata davanti a un altare o presso il Tempio. Ad ognuna di
queste fasi corrispondevano forme di partecipazione e officianti differenti. Alle
trasformazioni nell'organizzazione sociale fece riscontro una trasformazione
dell'organizzazione e delle procedure del rito. Il linguaggio, il repertorio di simboli
e di metafore e il significato del sacrificio riflettevano l'esperienza sociale (ad
esempio, per indicare la relazione tra Dio e gli Israeliti vengono usate di volta in
volta le metafore del padre/figlio, del pastore/gregge, del signore/servo, del
sovrano/suddito, del giudice/peccatore). L'immolazione dell'animale rimase
l'atto chiave del rito, ma mutarono i significati e gli scopi a esso attribuiti
(ringraziamento, celebrazione, dono, tributo, atto propiziatorio, espiazione,
pentimento). Le esperienze politiche della sconfitta e dell'esilio modificarono le
modalità di esecuzione del rito e nello stesso tempo la percezione del suo senso
e del suo scopo.
Un analogo interesse per il modo in cui eventi storici e mutamenti politici hanno
influenzato l'organizzazione e il significato di un rito emerge nello studio di
Maurice Bloch (v., 1986) sul rito della circoncisione tra i Merina del Madagascar.
Basato sull'osservazione diretta, tale studio ricostruisce l'evoluzione storica del
rito attingendo ai resoconti che lo descrivono in diversi momenti dei due secoli
precedenti. Nonostante i rilevanti cambiamenti politici - le guerre intestine,
l'avvento del dominio coloniale, l'affermarsi del movimento indipendentista e la
politica post-coloniale - che hanno determinato significative trasformazioni nelle
proporzioni, nel fasto cerimoniale e nel livello di partecipazione, alcuni elementi
sono rimasti immutati nel tempo, e formano il nucleo stabile del rito di
circoncisione. Il suo significato politico è cambiato in modo considerevole, ma gli
elementi costanti, secondo Bloch, garantiscono la continuità del suo significato
simbolico. Il rito ha conservato dunque un complesso di significati e di valori che
hanno contribuito a preservare l'identità culturale dei Merina.

c) Espedienti mnemonici, continuità, creatività e variazione


Il problema della continuità è in larga misura un problema di ordine empirico; a
differenza degli storici dell'Europa e della Cina, gli antropologi che studiano
società in cui le testimonianze scritte sul passato mancano o sono assai scarse
non si trovano certo nelle condizioni migliori per cogliere gli elementi di
continuità e le trasformazioni nelle pratiche e nelle credenze rituali. I documenti
storici, quando sono disponibili, dimostrano sia una continuità nel tempo (è
questo il caso dei rituali legati alla figura del sovrano: v. Cannadine e Price, 1987;
v. Ebrey, 1991; v. Bloch, 1924), sia una discontinuità a seguito di rivoluzioni o di
conversioni (è il caso del rituale in Russia dopo la Rivoluzione d'ottobre: v. Lane,
1981). In tutte le società si riscontra comunque la tendenza a creare usanze e riti,
a proiettarne le origini nel passato e a considerarli o a renderli 'tradizionali' (su
questo tema v. Hobsbawm e Ranger, 1983).
Alcuni studi empirici sulla trasmissione del rituale nelle società preletterate
dimostrano come a significative variazioni nel tempo possa associarsi la credenza
(nutrita talvolta tanto dai membri della società quanto dagli antropologi che la
studiano) che la tradizione sia stata rigorosamente conservata nel passato, anche
se ora rischia di andar perduta.Jack Goody (v., 1972) ha osservato lo stesso rito di
iniziazione bagre tra i LoDagaa del Ghana settentrionale a intervalli regolari nel
corso di più di vent'anni, e ha potuto così confrontare le versioni del mito
recitato durante i riti individuando le variazioni nell'ordine, nei temi e nella
formulazione delle migliaia di versetti di cui si compone il mito. Nelle società non
letterate come quella dei LoDagaa, in cui la cultura è basata sulla trasmissione
orale diretta del sapere, si rendono necessari espedienti mnemonici - formule
verbali, sequenze di versi legate all'ordine delle azioni rituali nonché agli schemi
delle attività di sussistenza stagionali e quotidiane delle famiglie. Tali schemi
forniscono modelli o strutture che aiutano a ricordare l'ordine e il contenuto dei
versi, ma non possono evitare le variazioni apportate nelle differenti recitazioni,
né inibire l'apporto creativo di nuovo materiale. Come scrive Goody (ibid., p. 13),
"tutto l'esistente esiste sia nel mutamento che nella continuità". Così i neofiti
imitano i narratori esperti, questi acquistano prestigio grazie alla loro abilità, e
sebbene la struttura fondamentale resti inalterata, ogni recitazione è una ri-
creazione, e riflette in certa misura gli interessi dei narratori. Non esiste un testo
scritto cui far riferimento, o che stabilisca la forma originaria corretta; l'autorità
risiede nella consuetudine e nella comunicazione; per il neofita, la versione che
ascolta nella stanza del Bagre è quella corretta, la 'vera' versione. La trasmissione
orale del sapere comporta variazioni e perdite, ma può essere considerata anche
un fattore di flessibilità e di creatività.
Questo aspetto è stato studiato confrontando i modi in cui uno stesso rito o riti
analoghi vengono celebrati in diverse comunità (v. Barth, 1987), oppure le
trasformazioni che una stessa cerimonia subisce nel corso del tempo. Barth ha
analizzato i complessi riti di iniziazione articolati in fasi separate da lunghi
intervalli di tempo tra i Baktaman della Nuova Guinea centrale. Altri antropologi
che hanno condotto ricerche sul campo nella stessa regione hanno dimostrato
che società affini, che vivono in comunità separate e parlano lingue diverse,
celebrano riti analoghi, ma ne forniscono interpretazioni differenti. Come ha
messo in luce Barth (v., 1987) la diversità delle interpretazioni può essere
ricondotta a vari fattori empirici, come ad esempio la complessità della struttura
del rito e i lunghi intervalli di tempo che separano la celebrazione delle sue varie
fasi, nonché a un particolare stile culturale improntato alla segretezza, alla
metaforicità e all'allusività.Harvey Whitehouse (v., 1992) ha analizzato il modo in
cui gli stili culturali possono influire sulla trasmissione di idee ed esperienze
attraverso il rituale, sottolineando la differenza tra i processi di persuasione
religiosa basati su spiegazioni e giustificazioni di tipo logico-razionale, e quelli
basati sull'impatto emotivo, sullo shock e sulla mistificazione, sull'esposizione a
oggetti e azioni dotati di una potente carica simbolica. I riti spesso sfruttano
l'effetto della sorpresa, della segretezza, della paura, ecc. per fissare come in un
lampo di luce un'esperienza. La natura e l'intensità di tali effetti naturalmente
variano a seconda della società, del contesto e degli scopi del rituale.

Il simbolismo rituale e l'autorità dell'esperienza

a) Gli effetti dei riti collettivi sull'individuo: valori morali e simbolismo rituale
In quanto espressione di una collettività, i riti possono essere considerati un
veicolo per trasmettere idee ed esperienze ai membri di una comunità. Li si può
paragonare a un testo o a un'opera teatrale che viene rappresentata perché
possa comunicare il suo messaggio alle generazioni successive o esercitare su di
esse la propria influenza; l'autore del testo in questo caso è la società stessa.Il
rituale ha un ruolo importante nella conservazione e nella trasmissione della
cultura. Attraverso la partecipazione ai riti i membri di una società apprendono
valori e conoscenze importanti per la comunità e in questo senso i riti possono
essere considerati una forma di condizionamento sociale delle percezioni e dei
comportamenti individuali. Lo studio dei riti può gettare luce sull'ordine morale
di una società. Le celebrazioni rituali generano esperienza e nello stesso tempo
riaffermano le credenze e gli ideali collettivi fondamentali della comunità.
È questa la concezione, assai vicina a quella di Durkheim, che sta alla base degli
importanti studi sul rituale di Victor Turner, in particolare quelli dedicati al
simbolismo rituale dei Ndembu dello Zambia (v. Turner, 1957, 1967 e 1969).
Nella società Ndembu la cui sussistenza si basa sugli scarsi raccolti consentiti da
un ambiente desertico e sulla caccia, le condizioni di vita sono piuttosto dure.
All'instabilità dovuta ai continui cambiamenti di insediamento si aggiunge quella
derivante dal conflitto tra un modello di residenza patrilocale (per cui la coppia
va a vivere presso la famiglia del marito) e un sistema di discendenza
matrilineare (ossia calcolata per via femminile). Al centro dell'interpretazione di
Turner vi è l'idea che il simbolismo rituale dei Ndembu abbia la funzione di
richiamare e rendere tangibili i valori morali fondamentali della società. I valori
connessi ai legami e alle obbligazioni matrilineari, alla fertilità e all'abilità nella
caccia, che nella società ndembu hanno un'importanza centrale, vengono evocati
nel rituale attraverso una serie di oggetti e di qualità simbolici (ad esempio
arbusti e piante, il corpo e i suoi fluidi, i colori) che possono assumere un ampio
ventaglio di significati. Secondo Turner, una società costretta a vivere in un
ambiente che offre scarse opportunità di seguire un modello ecologico stabile
trova le proprie regolarità nei processi biologici e nella natura allo stato selvatico,
piuttosto che nei ritmi 'artificiali' del calendario agricolo o della vita stanziale.
Una particolare pianta dal cui gambo tagliato stilla un liquido bianco simile al
latte diventa un simbolo del seno, della maternità, dei vincoli matrilineari;
un'altra pianta dalla linfa rossa evoca il sangue, la caccia, il pericolo; un arbusto
che i cefalofi (una specie di antilopi) utilizzano come nascondiglio viene usato nei
riti della caccia e nelle tecniche di divinazione per scoprire le cose nascoste (v.
Turner, 1967). Un oggetto concreto come il ramo di un albero può essere dotato
di significati astratti e indicare per associazione di idee determinati attributi
umani o funzioni corporee; può essere mosso da una determinata persona, o
posto in relazione con qualcuno o con qualcosa per illustrare un'idea, per
suggerire un legame tra persone e concetti, o valori ed emozioni. Gli oggetti e le
azioni dei riti ndembu spesso sono piuttosto comuni, ma hanno significati ed
effetti alquanto complessi. Turner paragona gli oggetti concreti (i simboli) del
rituale alle note di una partitura musicale organizzate in schemi o strutture al fine
di evocare idee, atteggiamenti e sentimenti. La polisemia delle note (gli oggetti
simbolici) fa sì che i loro significati possano cambiare di volta in volta ed essere
associati in modo evocativo e creativo. Gli oggetti simbolici sono come i segnali
che un cacciatore incide sugli alberi per indicare il percorso, o come luci
nell'oscurità che connettono il noto e rivelano l'ignoto. Le metafore delle tracce
incise sul tronco degli alberi e dei segnali luminosi fanno parte del repertorio di
immagini usate dai Ndembu per spiegare i loro riti a Turner. In generale, egli non
ebbe alcuna difficoltà a ottenere dai membri di questa società spiegazioni
dettagliate sul complesso ventaglio di significati e sulle associazioni emotive e
cognitive delle loro azioni rituali.
I diversi tipi di riti possono essere classificati in molti modi, ma nessuno schema
classificatorio ha incontrato sinora un consenso unanime. Mentre i riti di
passaggio che segnano gli stadi e i mutamenti principali nel ciclo di vita (nascita,
matrimonio, morte, ecc.) sono identificati quasi universalmente, la classificazione
di altri tipi di rito è resa più difficile dal fatto che le motivazioni, gli scopi, gli
accenti e le tematiche variano da cultura a cultura. I riti di passaggio che segnano
i cambiamenti del ciclo di vita hanno un carattere diverso a seconda di come
vengono percepiti e segnalati i processi evolutivi. In alcuni casi le transizioni
possono essere considerate e celebrate come processi normali che hanno un
andamento ciclico e regolare, mentre in altri sono percepite come momenti di
crisi che la comunità cerca di controllare o di risolvere attraverso una risposta
rituale. Turner (v., 1957) contrappone così ai riti fissi e prestabiliti i riti 'riparatori',
con i quali una società tenta di fronteggiare le situazioni di incertezza e di stress.
È questo il caso dei culti di iniziazione dei Ndembu, che rispondono alle situazioni
di conflitto e di crisi richiamando e riaffermando i principî e i valori su cui si fonda
la società, al fine di suscitare un coinvolgimento emotivo e morale nei
partecipanti.

b) Il rito come dramma: le strutture simboliche e le procedure di un rito di


guarigione
Molti riti possono essere paragonati a una rappresentazione teatrale, alla messa
in scena di un'azione drammatica. Un'opera teatrale mira a influire sia
emotivamente che intellettualmente sugli spettatori, e lo stesso vale per il
rituale. In entrambi i casi, le reazioni degli spettatori variano a seconda degli
interessi, dei livelli di attenzione o di distrazione, del grado di istruzione,
dell'abitudine alla riflessione, ecc.Sia i riti di passaggio che i riti riparatori
richiedono l'allestimento di una scena o di un luogo della rappresentazione, la
preparazione di materiali, l'addestramento degli attori, una regia in base alla
quale si svolge l'azione. Nell'arena rituale, così come su un palcoscenico, relazioni
e rapporti possono essere mostrati o modificati mediante determinati movimenti
o contatti, e nuovi significati o associazioni possono essere suggeriti da uno
spostamento o da una congiunzione particolari. Un esempio particolarmente
interessante a questo riguardo è offerto da un rituale di guarigione dei Ndembu
descritto da Turner (v., 1969, cap. 1), il quale dimostra come la struttura
drammatica del rituale venga usata per comunicare un complesso di significati
attinenti alla sterilità femminile e alla sua guarigione. Il rito in questione,
chiamato isoma, viene celebrato quando una donna ha avuto un aborto o non è
in grado di concepire, e ha lo scopo di ripristinare l'armonia coniugale,
rappacificando in questo modo gli antenati matrilineari che hanno punito la
coppia rendendo sterile la donna. Per la rappresentazione del rituale viene scelto
un punto del terreno in cui un formichiere gigante ha iniziato a scavare una buca
per poi interrompere l'opera - in evidente analogia con la situazione della donna,
la cui fertilità ha subito anch'essa un'interruzione. Poco distante viene scavata
un'altra buca, che viene collegata a quella del formichiere con un tunnel
sufficientemente largo da consentire alla coppia di strisciare da un'apertura
all'altra. La buca del formichiere è 'calda' e associata alle forze che hanno causato
il male; la seconda buca, situata nei pressi della sorgente di un torrente, è
'fredda'. Successivamente l'arena rituale viene recintata con un bordo di frasche
che delimita lo spazio sacro. A questo punto gli anziani raccolgono certe piante
che serviranno per preparare medicine 'calde' e 'fredde'. Il marito costruisce per
la moglie una piccola capanna in cui verrà reclusa, analoga a quella in cui
vengono segregate le fanciulle nell'età puberale: la donna infatti - ed è questo il
significato simbolico di questa parte del rito - deve 'riacquistare' la fecondità
perduta, così come l'aveva 'acquistata' dopo la cerimonia della pubertà. Nella
fase iniziale del rito isoma i divinatori intercedono presso le ombre dei morti in
favore della donna, supplicando le forze ostili di restituirle la fertilità. Una zucca
contenente le medicine 'calde' è collocata accanto alla buca scavata dal
formichiere, mentre vicino alla seconda buca viene posta una zucca con le
medicine 'fredde'. Gli sposi sostano presso questa imboccatura 'fredda' del
tunnel - la 'fossa della vita' - dove vengono aspersi con i due tipi di medicine; poi
strisciano attraverso il tunnel sbucando dall'estremità 'calda' - la 'fossa della
morte' o della stregoneria - dove vengono nuovamente aspersi con i due tipi di
medicina. Nell'imboccatura 'calda' del tunnel vengono versati il sangue e le
piume di un gallo rosso decapitato, che simboleggia il maleficio o la sofferenza
della donna e deve essere quindi 'ucciso'. Prima che si cali nel tunnel attraverso
l'imboccatura 'fredda', alla donna viene data una pollastra viva di colore bianco
che simboleggia la fortuna, la forza, la purezza e i buoni auspici. Essa terrà
l'animale sempre stretto al petto, sia quando attraversa il tunnel passando dalla
'vita' alla 'morte', sia quando lo percorre in senso inverso per tornare alla 'vita',
emergendo dalla seconda imboccatura scavata nei pressi della sorgente che
simboleggia la fertilità, la vita, la freschezza e la salute. Anche senza soffermarci
su altri particolari del rito - le proprietà delle piante medicinali, le preghiere e i
canti intonati dagli adepti del culto, ecc. -, la struttura narrativa delle azioni
simboliche risulta abbastanza chiara: si tratta di un processo di supplica per la
guarigione, di purificazione e di rimozione del male, di rinascita e di liberazione
attraverso il passaggio dalla vita alla morte. È lecito supporre che i significati
simbolici e le esperienze sensoriali nettamente contrastanti della
rappresentazione rituale abbiano un forte impatto emotivo sulla coppia (il
percorso stretti l'uno contro l'altro attraverso il tunnel, l'aspersione con le
medicine 'fredde' e 'calde', il passaggio tra i due estremi della vita e della morte,
del basso e dell'alto, il sacrificio del gallo rosso, la pollastra bianca, viva e
palpitante che la donna tiene stretta al petto, ecc.). A sottolineare l'idea dei
passaggi e dei contrasti contribuisce in parte la stessa arena rituale, che
concentra rapporti spaziali e movimenti in un luogo limitato e in un arco di
tempo ristretto.

La sopravvivenza del rituale nella società industriale

L'importanza del rito nella vita dell'uomo è stata ribadita da alcuni autori
contemporanei (v. ad esempio Bell, 1992; v. Douglas, 1970; v. Luhrmann, 1989),
secondo i quali attraverso i drammatici rovesciamenti dell'esperienza quotidiana,
le prove ordaliche e gli eccessi che li caratterizzano, i riti possono avere effetti
significativi sugli atteggiamenti, sulla conoscenza, sui legami di fedeltà, sulla
percezione di sé, sull'identità e sulle credenze degli individui. L'impatto
psicologico di alcuni riti emerge chiaramente dai commenti degli attori e degli
spettatori. Le società che hanno subito radicali trasformazioni sociopolitiche e
hanno cercato di abolire i riti per eliminare i valori sorpassati che questi
rappresentano - come la Francia e la Russia dopo le rispettive rivoluzioni (v. Lane,
1981) - hanno dovuto constatare che questi continuano a ripresentarsi, o si sono
viste costrette a creare nuove forme rituali. Il tentativo di costruire una società
priva della dimensione rituale è naufragato di fronte al bisogno di offrire
un'istituzione in grado di esprimere e sacralizzare l'ordinamento sociale, di
ottenere il consenso sui suoi sistemi di valori e di segnare i passaggi fondamentali
del ciclo di vita. I riti continuano a esistere nella società industriale moderna, sia
come espressione di una 'religione civile' (v. Bellah, 1967), che associa valori
religiosi tradizionali e valori politici, sia nei riti legati alle religioni politiche, che
mirano in modo più esplicito ad assicurare il consenso sui fini e sui valori della
sfera macropolitica. Come osserva Geertz (v. 1968, p. 7) i riti rappresentano sia
un 'modello di' relazioni sociali, sia un 'modello per' tali relazioni. Nonostante le
controversie teoriche e i confini incerti del concetto di rito, esso continua a
sopravvivere ai suoi detrattori.

4. Le tre fasi della conoscenza simbolica


Tre sono gli elementi costitutivi di un processo
simbolico secondo Tullio - Altan: 1) la
destorificazione (vedi de Martino), attraverso la quale
un elemento di esperienza viene trasferito in una
dimensione di sovra-mondanità atemporale; 2) la
"trasmutazione in forma" (vedi Gadamer, ma con senso
diverso) o trasfigurazione simbolica, attraverso la
quale l'immagine destorificata e resa autonoma dalla
realtà acquista un significato mitico esemplare; 3)
l'identificazione, che il soggetto storico fa di se con
quell'immagine, che diventa cosa simbolo a pieno
titolo, in quanto principio di auto valorizzazione del
soggetto stesso.

5. Le cicatrici significative
In moltissime società si vedono le modificazioni praticate dagli altri popoli come
“mutilazioni” e le proprie come “perfezionamenti”,occultando così il carattere
culturale delle pratiche altrui nel primo caso e quello cruento delle proprie nel
secondo caso. Le mutilazioni genitali femminili sono considerate come pratiche
barbare e violente che ledono la dignità e il corpo della donna. Fermo restando la
netta presa di distanza ,è compito dell’antropologo osservare tali modelli
culturali sotto un’altra prospettiva

In vari contesti,specialmente nell’Africa sub-sahriana, si effettuano modificazioni


permanenti nel corpo,causate da modelli culturali ben definiti e da una visione
del corpo come ente non perfetto ma perfezionabile tramite operazioni.

Tutte le culture elaborano un sapere sul corpo e non può essere studiato
astraendolo dalla costruzione sociale della realtà. Vi è una difficoltà nel definire il
corpo, le sue parti e i suoi confini in modo univoco poiché ciò che per una società
è una mutilazione per un’altra si tratta di perfezionamento del corpo tramite
escissioni di parti ritenute superflue. La percezione stessa del corpo,in questo
caso i genitali,modificati viene interiorizzata come un qualcosa di normale.
Ogni società pensa al corpo a modo suo e cerca di renderlo sempre più conferme
all’idea proprio,come se il corpo ,dalla nascita, non fosse perfetto e avesse
bisogno di modificazione. Queste pratiche sono definite da Mauss cosmetica
permanente e rientrano in questa categoria operazioni quali
scarificazioni,deformazioni cicatrizzazioni e quant’altro. Le cicatrizzazioni hanno
un importante aspetto:dal punto di vista simbolico hanno una doppia
spiegazione riferita al particolare tipo di interazione tra corpo e mondo
esterno,in quanto le ferite sono viste come soglie di uscita di
sostanze(sangue,carne) e luoghi d’entrata di una materia esterna.
Il segno ha la funzione d’informare mentre il simbolo opera delle trasformazioni
sia ideali che materiali. L ‘aspetto materiale e corporeo del simbolo permette che
i valori culturali che vi sono associati possano essere percepiti come naturali. I
significati simbolici sono spesso legati da un rapporto d’interdipendenza con la
materia e la forma del significante. Nella medesima cultura, le diverse tecniche
con le quali si opera un corpo per modificarlo sono investite di significati precisi.
Il gesto del taglio con il quale si produce la ferita riveste spesso un significato
particolare nel contesto del sistema simbolico costituito dall’operazione e in base
alla cultura ove la si fa.
L’intervento sul corpo implica generalmente perdita di sangue e di parte del
corpo che spesso sono considerate parti integranti del processo tecnico; per
esempio per alcune culture il sangue perso durante l’operazione,come anche le
parti del corpo escisse, assumono connotati positivi e guaritori ,per altre culture
invece assume tratti impuri. Non solo ci si separa da parti del corpo
nell’operazione,ma in alcuni casi si ricevono anche sostanze dall’esterno che
rappresentano per lo più parte stessa del simbolismo.
Dopo l’operazione, oltre all’applicazione di sostanze cicatrizzanti, possono essere
applicate una serie di prescrizioni riguardanti l’alimentazione e le norme di
comportamento – ad esempio l’isolamento – il cui scopo sarebbe quello di
contribuire alla guarigione delle ferite e di ottenere dunque un risultato finale
perfetto. Presento qui di seguito qualche esempio del valore che possono
assumere tali prescrizioni. La creazione di aperture sul corpo e la loro chiusura,
nonché il trattamento delle sostanze corporee fuoriuscite costituiscono l’ampio
corollario delle modificazioni corporee. Queste operazioni tecniche implicano
perdite e acquisizioni di sostanze attraverso “passaggi” del corpo creati
artificialmente, e tali entrate e uscite sono investite di significati diversi a
seconda delle società. Tali aspetti possono contribuire a una comprensione del
senso che, in ogni società, viene attribuito a queste pratiche.
Un altro aspetto del processo tecnico suscettibile di chiarire il senso generale
della modifica corporea riguarda la postura degli operatori e dei pazienti. le
posture adottate nel corso delle differenti operazioni (rituali o estetiche)
indicano non solo una certa coerenza interna dell’insieme delle “tecniche del
corpo” (cfr. Mauss, 1950), ma anche le loro correlazioni simboliche. Siamo in
presenza di una “serie” di trasformazioni, incentrate sul corpo femminile, che
scandiscono e organizzano gli avvenimenti biologici che lo riguardano. Negli
esempi delle donne Mooese del Burkina Faso, la serie sembra convergere verso
l’avvenimento del parto.
Il dolore è il corollario inseparabile dei segni permanenti del corpo e svolge un
ruolo cruciale nella loro produzione. In effetti il dolore non è, in molti casi,
soltanto una conseguenza inevitabile, ma anche una necessità, a causa del suo
valore formativo di prova e della sua azione trasformatrice. Un tratto comune a
un gran numero di queste operazioni, se non vengono eseguite nei primi anni di
vita, è l’attitudine richiesta da parte di coloro che la subiscono: il dolore provato,
infatti, non deve essere manifestato in alcun modo. Se così fosse, l’operato/a e la
sua famiglia subirebbero una sanzione sociale, ovvero la vergogna. Si noti che
questa norma vige non solo durante le iniziazioni, dove il carattere di prova
costituito dal dolore è stato commentato ampiamente, ma anche in quelle
operazioni considerate semplicemente “estetiche”. Nel caso delle donne Moose
come anche nelle donne Peul il dolore è una scelta volontaria; le prime si
sottopongono a scarificazioni ventrali cosicché nel parto non avranno dolore,le
seconde sceglieranno di tatuarsi l l’interno del labbro in opposizione alla
famiglia,poiché se la donna dovesse dimostrare debolezza nel momento
dell’operazione l’intera famiglia sarebbe ricoperta di vergogna per generazioni
mentre in caso di resistenza al dolore la famiglia sarà fiera della donna. Il dolore
connesso alle operazioni sul corpo implica che il segno diventi testimonianza
della sofferenza affrontata. Il segno rende visibile il dolore, e in questo senso è
bidirezionale: da un lato agisce sull’individuo e lo trasforma, dall’altro testimonia
il dolore della prova agli occhi della collettività. La resistenza al dolore costituisce
una sorta di negazione del corpo attraverso la quale si afferma la volontà e
l’identità individuale. “Chiunque sia insensibile alla sofferenza è capace di
comandare alla propria bocca e a sé stesso”, dicono i Bambara a proposito delle
auto-flagellazioni iniziatiche” (Zahan, 1960: 99). Ancora, le ferite alla base di tutte
queste modificazioni permanenti del corpo ci colpiscono troppo per non portarci
a pensare che esse contengano in sé un valore fondamentale, quale che sia la
rappresentazione veicolata dalla grafia o dalla forma plastica. Di fronte a dei visi
solcati da lunghi tagli, c’è la tentazione di vedere il segno allo stato puro,
“primario”, nel suo significato essenziale: la ferita, dolorosa e irreversibile.
Gregory Bateson (1976) ha proposto di considerare lo stile come una fonte di
informazioni e come un significato fondamentale dell’opera d’arte. Assumendo
questa prospettiva, sembrerebbe possibile considerare che le operazioni di
modifica del corpo producano uno stile, uno stile “doloroso”, lo stile “ferita”. In
Occidente si può ritrovare un eco, seppure tenue, di questo valore essenziale del
segno. In Italia, i giovani cittadini che negli anni Ottanta si tatuavano spesso
dichiaravano che ciò che più li ha motivati è l’idea di “avere un tatuaggio”, e non
quello di essere decorati con una specifica immagine50. Se le connotazioni
mitologiche trasgressive tipicamente occidentali (evocazione di mondi
avventurosi, di personaggi quali marinai, prigionieri, gente della malavita,
motociclisti, ecc.) hanno un incidenza su questo desiderio, l’aspetto di prova o di
sfida è nondimeno presente. Si potrebbe dire, con uno slogan forse ormai un po'
datato, che “il mezzo è il messaggio” (McLuhan, 1964). Così, in fondo, le
polemiche sorte in Italia a seguito alla proposta di sostituzione simbolica
dell’infibulazione, da operare eventualmente nell’ambito di strutture sanitarie
pubbliche51, sembrano mostrare il valore estremamente im- 49. Per una
discussione degli effetti delle operazioni sulla sessualità femminile, cfr.
Gruenbaum, 2001; Bellas Cabane, 2001-2002 e Catania, Hussen, 2005. 50. Le
seguenti considerazioni sono basate sul lavoro di ricerca da me condotto nel
1987 nelle città di Milano e Bologna. 51. Riguardo tale proposta, cfr. Catania,
Abdulcadir (2004; 2005). Per un commento antropologico critico a tale proposta,
cfr. Busoni (2005). La proposta del medico somalo era quella di operare, per
evitare l’infibulazione, una puntura del prepuzio del clitoride con fuoriuscita di
qualche goccia di sangue (con uso locale di crema anestetica). 28 portante
dell’azione simbolica al di là della sua forma concreta. Aver o non aver praticato
tale azione simbolica sembrerebbe, sia per chi sostiene che una puntura è
sufficiente, sia per chi sostiene che non dovrebbe essere praticata, più
importante del tipo di operazione realizzata, ovvero puntura oppure
amputazione e cucitura. Quest’azione risulta essere un simbolo così potente che i
gruppi che si sono opposti, anche solo alla puntura, temono che l’ufficializzazione
di quest’ultima potrebbe avere ripercussioni sui movimenti contro le Mgf in
Africa. La sola presenza della pratica in Occidente, infatti, potrebbe indebolire la
forza della motivazione al cambiamento nell’Africa stessa dove si potrebbe
pensare: “se anche in Italia si eseguono operazioni sui genitali femminili, perché
noi dovremmo smettere?”52. Se avere o non aver subito un’operazione diventa
più importante della qualità (“mutilatoria” o meno, secondo i canoni stessi della
biomedicina) dell’operazione, allora è chiaro che nessuna mediazione è più
possibile, e che il cambiamento deve passare per un’interruzione brusca della
pratica. Si assiste oggi a un fenomeno paradossale: mentre movimenti giovanili
hanno portato alla ribalta, e poi alla moda, pratiche come tatuaggi, piercing,
branding53, si legifera in molti paesi europei e africani contro le Mgf (in Italia
quest’anno è stata approvata una legge specificamente dedicata ad affrontare il
problema). Così, le ostetriche di Milano54, possono trovarsi a fronteggiare al
momento del parto, non solo (rari) casi di donne africane infibulate, ma anche la
sorpresa di piercing e tatuaggi praticati sui genitali di donne italiane. Tuttavia il
tatuaggio dei genitali è percepito come un fatto “un po’ meno barbaro” rispetto
alle pratiche di escissione o infibulazione, in quanto si pensa sia stato fatto, per
libera scelta, in età adulta. Fra l’altro è bene notare, a questo proposito, come
ragazzi italiani minorenni esprimano oggigiorno il desiderio di tatuarsi, forarsi55
oppure di sottoporsi alla chirurgia estetica, e talvolta chiedono ai propri genitori
la firma di consenso per potersi presentare da un professionista. Se alcune di tali
pratiche occidentali di trasformazione del corpo sembrano andare nel senso di
una trasgressione, ed altre sembrano tradurre una spinta alla conformità,
bisogna tuttavia considerare come queste connotazioni mutino nel tempo. Un
movimento continuo di trasformazione del senso attribuito 52. Da una
conversazione con una donna somala avvenuta nel corso di questo lavoro. 53 .
Branding: marchio a fuoco; il disegno viene impresso tramite uno stampo di
acciaio rovente. 54. Interviste realizzate nel quadro di questa ricerca nel 2005.
55. Riguardo al piercing tra gli adolescenti dal punto di vista psicologico, cfr.
Pietropolli, Charmet, 2000. 29 al tatuaggio nella società occidentale, lo ha
portato a trasformarsi da gesto trasgressivo in pratica estetica. Ma la sua
estetica, in cui il carattere artificiale e la presenza del segno sono fondamentali, si
differenzia nettamente da quella della chirurgia estetica, che potremmo definire
come un’estetica “del naturale”56 . La chirurgia estetica e altre pratiche di
modellazione del corpo – come ad esempio, pratiche sportive quali il body-
building, oppure alimentari come le diete – infatti, rappresentano in maniera più
evidente la tendenza alla conformità. Ma forse il tatuaggio e le altre pratiche di
modifica del corpo appaiono complementari ed esprimono appieno come,
all’interno della stessa società, convivano non solo estetiche diverse, compatibili
tra loro, ma anche, attraverso di esse, la spinta alla conformità e l’affermazione
di un’identità individuale. Ed è proprio perché, per lungo tempo, il tatuaggio è
stato malvisto nella nostra cultura, che esso ha potuto assumere una funzione di
rivendicazione dell’unicità individuale e che è stato apprezzato dai giovani.
Attraverso questo gesto trasgressivo si è affermata una volontà personale che
forse, in altre culture, si è manifestata attraverso la prova dolorosa, come se la
negazione – della norma o del corpo – fosse il modo più adatto a consolidare
l’identità individuale. I segni sul corpo possono essere “letti” per identificare colei
o colui che li porta ma non è detto abbiano un senso identificativo poiché posso
coesistere molteplici significati all’interno di un segno.
La permanenza del segno indelebile riguarda l’individuo (sul piano della forma) e
dunque il tempo individuale, ma non il tempo della società. Forme e significati,
che variano diacronicamente, devono essere studiati in una prospettiva
dinamica, cercando di capire come l’interazione tra culture produca
cambiamenti. Se esistono alcuni segni “etnici” abbastanza caratteristici e
identificabili, esistono anche fenomeni di mode che portano all’adozione, da
parte di un certo gruppo, di segni indelebili di cui si fregiano altre popolazioni.
Così, ad esempio tra gli Azande, la circoncisione non era una pratica tradizionale,
ed è stata adottata imitando le popolazioni vicine verso la fine del
Diciannovesimo secolo (Evans-Pritchard, 1962); si diceva infatti, che le donne
mostrassero una netta preferenza per gli uomini circoncisi. In alcuni casi il
contatto tra gruppi produce varianti. Così, secondo l’interpretazione di Muller,
tra i Dìì del Camerun, che come abbiamo visto praticano una finta escissione,
“tutto avviene come se – in virtù della prossimità geografica o
dell’incorporazione delle donne gbaya nell’etnia Dìì, o per i 60. Gruenbaum arriva
a ipotizzare che l’infibulazione rappresenti, nella zona del Sudan in cui ha svolto
le sue ricerche, una sorta di “marker” di gruppi etnici privilegiati, emulato da
coloro che aspirano a uno status di classe più elevato (Gruenbaum, 2001). 61 .
Comunicazione personale di Rupert Hasterok, antropologo che ha svolto ricerche
in Sudan, raccolta nel 1990. 33 due fattori congiunti – le donne Dìì avessero
reinterpretato l’escissione gbaya e deciso che non conveniva loro.” (Muller,
1993). Ugualmente, tra le varianti nate recentemente, si annoverano in Sudan
nuove tecniche di sunna e di infibulazione praticate da levatrici, dove si lascia
intatto il clitoride (Gruenbaum, 2001). In altri casi si può assistere ad una
completa inversione del valore delle operazioni, quando il segno positivo del
gruppo diventa un segno che ha un valore negativo È il caso testimoniato a
Dasima (in Nigeria) dai marchi etnici, scomparsi perché ricordavano i marchi
imposti con la forza dai mercanti di schiavi (Armitage, 1924). Allo stesso modo, in
Sudan, alcuni Dinka scolarizzati portano protesi dentarie in sostituzione dei due
incisivi inferiori che gli erano stati estratti verso l’età dei sei-otto anni62 . Vi sono
anche riti di sostituzione simbolica come quello proposto di sostituire
l’infibulazione con una puntura;evitare il trauma e il dolore mantenendo
l’efficacia del simbolo,anche se nel caso proposto non si conservava intatto il
simbolismo dato che i significati di un’amputazione sono diversi da quelli di una
puntura . Come si è visto, il marchio indelebile non corrisponde necessariamente
ad una forma di controllo della società sull’individuo, e la volontà dell’individuo
di acquisire il segno sembra, in diversi casi, tutt’altro che secondaria. Diversi
studi sulle modificazioni genitali femminili hanno suggerito che interpretare tali
pratiche come una forma di dominazione maschile è una semplificazione
riduttiva (Gruenbaum, 2001; Couchard, 2003)67. Il marchio naturalmente può
corrispondere a forme di potere sul corpo femminile, ma esso può costituire, in
alcuni casi, anche una forma di potere per chi lo acquisisce (MacCormack, 1994;
Bellas Cabane, 2001-2002). Alcune donne somale intervistate, residenti in Italia,
hanno sottolineato con fierezza la loro autonomia evidenziando come possano
circolare liberamente senza dover essere accompagnate dai mariti, come invece
accade alle donne egiziane: “da noi uomo e donna sono uguali!» 68. Una di loro
così ha commentato la loro condizione “privilegiata”: “abbiamo barattato la
nostra libertà con... [l’infibulazione]”69 . Da diversi esempi sembra emergere
l’idea che il controllo corporeo possa, in alcuni casi, essere inversamente
proporzionale al controllo sociale sulla persona. Il controllo della fecondità
sarebbe all’origine della dominazione maschile: poiché gli uomini non possono
procreare, tenderebbero ad appropriarsi di tale potere esercitando un controllo
sulle donne. Tuttavia questa interpretazione non sembra applicabile per tutte le
società, specie in quelle dove la verginità non è oggetto di una valorizzazione. Il
tema delle fecondità sembra comunque costituire un nodo centrale nelle
pratiche di modificazione dei genitali femminili, anche se questo non permette
ancora di conferire un significato uniforme a tali pratiche. L’interpretazione che
vede una simmetria tra escissione e circoncisione maschile è stata criticata a più
riprese da diversi antropologi. La frontiera che stabilisce come situare una
pratica, tra le “mutilazioni” o tra i “perfezionamenti”, sembra essere mobile per
natura, variando in funzione del punto di vista. È dunque importante ricordare
che essa varia anche in funzione delle situazioni di potere, di egemonia culturale
o religiosa che si vengono a determinare73. È opportuno forse segnalare che i
movimenti internazionali contro le pratiche nocive alla salute della donna hanno
come riferimento il sapere biomedico, e che in alcuni paesi africani, nella
sostituzione delle pratiche di infibulazione con forme meno invasive, svolge un
ruolo attualmente l’influenza di alcune correnti dell’Islam contemporaneo74 . Al
termine di questo percorso antropologico risulta evidente la problematicità di
un’assegnazione unica di significato alle varie pratiche di modificazione (genitale
e non) del corpo. Emerge, inoltre, come i significati non siano mutabili e come
possano trasformarsi, assieme alle forme che li supportano. Vorrei infine
sottolineare, a conclusione di questo contributo, quali siano l’importanza e
l’utilità dell’antropologia nei progetti di intervento. Mi riferisco alla necessità di
applicare un’ottica decentrata che permetta una migliore comprensione dei
contesti in cui le modificazioni del corpo vengono effettuate. La comprensione e
l’ascolto infatti appaiono come il preliminare imprescindibile e indispensabile
strumento per un qualsiasi progetto di intervento.

6. Le lacrime degli eroi (Faranda)

Il dolore verrà trattato come momento elettivo di “esposizione al pericolo della


perdita di se” e la sofferenza come forma rielaborata e interiorizzata del dolore
stesso e quindi come “via dell’intelligenza,della comprensione del mondo sotto il
segno del patire”. Entro questi due complementari nodi del patire si colloca la
rappresentazione del pianto. Un pianto che da grido del soggetto esposto al
dolore si commuta gradualmente dapprima a lamento corale e poi in esperienza
di pudore, in armonica ricerca di un corpo impegnato a ridefinire come soggetto
la propria identità psichica.
Achille viene a conoscenza da Antiloco che l’amato cugino Patroclo è morto per
mano di Ettore; dopo esser caduto a terra lancia un urlo spaventoso che gli
deforma il viso,perde il suo mondo subendo una crisi della presenza. Il dolore di
Achille non da ancora alcuna forma di comunicazione,non riesce neanche a
convertire il dolore in un pianto armonico:l’unico desiderio è quello di
vendetta,sete di sangue e lacrime nemiche. Il dolore di Achille è ancora
sottomesso al linguaggio del sangue. Deve compiere il lutto secondo il rituale: la
prima fase per imboccare la via della sofferenza sarà l’attuazione della
vendetta;avrà sete di sangue fin quando non avrà ucciso Ettore. Una volta
raggiunta la sua vendetta, Achille potrà finalmente uniformare le sue grida di
dolore al ritmo corale del rito. Adesso l’eroe può parlare del proprio dolore,può
esplicitarlo come esperienza di perdita e allo stesso tempo configurarlo entro la
sofferenza. Nel frattempo Achille mangia e prende sonno,simboli questi del
recupero iniziatico della vita. Quando il corpo di Patroclo viene arso come
costume nel lutto,da questo momento Achille approda definitivamente nel
registro espressivo del linguaggio. Un linguaggio ancora mutuato dal pianto ma
ormai articolato da parole. Achille piange chiamando il nome di Patroclo,alla
conquista di un nome da evocare,da riplasmare attraverso il circuito della
sofferenza, e infine da ricomporre nel terreno della memoria,consegue per
Achille il recupero e la riconquista di una propria presenza,la rivendicazione di un
sé restituito alla vita e alla sapienza, e quindi l’adesione a un regime di sofferenza
contrassegnato dal pudore. Nell’accettare la morte del cugino amato l’eroe
rigenera se stesso oltre che il proprio estinto. Ora potrà temprare il dolore
consegnandolo al pudore. Ma il corpo di Ettore rimane vittima degli scempi di
Achille,avendo quest’ultimo perso ogni forma di pietà. Per recuperare la
dimensione della pietà Achille dovrà essere restituito alla vita tramite l’amore di
una donna. Successivamente Priamo si reca d’ Achille,tale incontro inaugurerà
per entrambi una nuova percezione del patire e quindi una diversa adesione del
pianto che gli consentirà di riplasmare la propria corporeità trasformandola in
identità. Il corpo due eroi omerici,(che dal grido primordiale passando al
lamento corale che rompeva il silenzio,al pianto individuale che il silenzio stesso
ricomponeva in un linguaggio) quel corpo ora può riappropriarsi di una totalità
affettiva del tutto ordinaria.
7. Antropologia strutturale (Levi-Strauss)
Tratta della visione della cura sciamanistica in America centrale. Lo sciamano
viene chiamato presso la dimora di una donna che ha difficoltà nel parto affinchè
l’aiuti tramite un canto. Il canto inizia con la rappresentazione della donna che si
reca dallo sciamano ,e successivamente la partenza di costui presso la capanna
della partoriente. Da qui inizio un canto rivolta a Muu la dea della fertilità
affinchè lasci l’anima del feto cui si è impadronita. Il canto termina con il parto
della donna. Lo sciamano è considerato con un talento innato che consiste in
una veggenza che scopre immediatamente le cause della malattia e quindi il
luogo dove risiedono le forze vitali. Il canto sembra seguire un percorso banale: il
malato soffre perche ha perduto il suo se spirituale e lo sciamano inizia un
viaggio per strappare il se del paziente al maligno e restituirlo al proprietario.
Tale metodo terapeutico è di difficile interpretazione in quanto consta in una
medicina puramente psicologica. Il canto costituisce una manipolazione
psicologica dell’organo del malato e proprio da tale manipolazione si attende la
guarigione. La rappresentazione del parto in un quadro mistico,popolato da
mostri fantastici e animali feroci che si danno battaglia. La donna tende a credere
reale la sensazione attutendo cosi il dolore del parto (efficacia simbolica).

8. I riti profani (Riviere)

Gli antropologi s’interessano al modo in cui gli uomini modellano il proprio


corpo,alle tecniche magiche,religiose,reali o simboliche che usano per curare e
migliorare le loro performance. La società obbedisce a regole e rituali
d’interazione,ha i suoi costumi di messa in scena della vita quotidiana,i suoi modi
di gestire il corpo a tal punto che le pratiche abituali sono identificabili come
ritualizzazioni. Tutto un insieme di regolamenti della prossimità può essere
interpretato come riti dello schivare:non toccare l’altro tranne in caso di
familiarità o in particolari circostanze codificate come la stretta di mano,non
mostrare il proprio corpo denudato se non in spiaggia. Quindi l’uomo occidentale
tenta di non sentire il proprio corpo di dimenticarlo il più possibile. Tale ritualità
fatti di allontanamenti ed eliminazioni appare come istituzione sociale di
negazione del corpo.
Tutti i riti di cortesia sottolineano che il rispetto del benessere altrui esige un
governo del proprio corpo e dei propri sentimenti. Talee controllo si definisce
generalmente ritegno. Si legge nella postura,nel contenimento,nella gestualità
ridotta e in tutta l’attitudine corporea. Possedersi e contenere le proprie passioni
significa essere il guardiano dei limiti e delle frontiere del proprio corpo. È il saper
vivere delineato nel contatto con gli altri o con oggetti come anche il modo di
relazionarsi faccia a faccia. Vi sono dei segni corporali osservabili per ogni
società: segni di riconoscimento (stretta di mano,sorriso),segni di deferenza e
considerazione (posizione in piedi,priorità dei posti),segni di sequenze relazionali
(sedersi,alzarsi,tendere la mano),segni di appartenenza a tale classe (usando un
linguaggio gestuale e verbale specifico).
Tra i tentativi di modificazione delle apparenze e tra le cure del corpo che vanno
dalla pulizia al massaggio, alla chirurgia estetica si riconoscono nelle cure di
bellezza. In tale ambito si riconosce il trucco come cura di bellezza per eccellenza.
La ritualizzazione relativa al corpo vestito si limita all’abitudine di vestirsi secondo
il sesso,l’età,la professione,la posizione,la stagione.
C’è un rituale del corpo anche attraverso la danza,che esprime simboli e valori
sociali portando l’immaginazione verso l’esaltazione del vivere.
Anche la body art definisce un rituale del corpo,ove si utilizza il corpo come
supporto vivente dell’opera. L’arte corporea intende ridare all’uomo
moderno,privato di trascendenza,una sacralità definita come universo di senso
riferendosi al mondo dell’inconoscibile,misterioso,insopportabile.
In definitiva il corpo è stato colto sotto l’aspetto dei riti,sottolineando così il suo
essere il centro dell’essere sociale in quanto manifesta l’individuo agli altri
secondo modalità definite come norme che incorpora le cose del mondo nella
nostra carne attraverso la percezione ,emozione,l’intellezione e l’azione.
Generalmente, l’evidenziazione dell’apparenza con abiti ,ornamenti,maschere a
anche controlli gestuali e apprendimenti posturali, è un prodotto di
ritualizzazione in seno a un tipo di società o di cultura che risponde a un
simbolismo e a una politica dell’apparenza corporea

9. L’etnocentrismo critico e l’etnologia di De martino (Saunders)

Il punto di Ernesto de Martino non è di questionare il grado di sviluppo della cultura


di cui è figlio. E’ anche piuttosto consapevole del fatto che la conoscenza non può
che avvenire attraverso le proprie categorie e modelli concettuali.Però de Martino
nota che l’etnologia – lo studio delle culture degli altri – offre una grande
opportunità: quella di farsi “un radicale esame di coscienza e di rendersi conto che
le categorie interpretative di ognuno hanno una storia che è loro propria”.De
Martino propone così di ritrovare un terreno comune a tutti gli uomini nel segno di
un “umanesimo etnografico”.Quindi, recuperata la dimensione critica sul proprio
sapere e sulla propria finitezza, la cultura occidentale è libera di incontrare gli altri su
un terreno costruttivo. Nelle parole di de Martino questo progetto si definisce “un
etnocentrismo critico che si configura come una continua ridiscussione delle
proprie categorie analitiche, in una discussione che più che a una loro modifica in
funzione dell’oggetto di conoscenza, mira a produrre nell’etnologo la
“consapevolezza” del fatto che egli sta osservando una cultura aliena attraverso
delle categorie “storicamente determinate” di cui tuttavia egli non può fare a
meno”.Una posizione che fa del punto di vista critico un incontro costruttivo e non
un giudizio polemico unilateralmente superiore.

10.Antropologia Culturale (Robbins)

Il concetto del Sé è variabile nelle diverse società. Nella visione egocentrica la


persona è considerata un individuo autonomo e separata;nella visione socio
centrica il Sé è considerato dipendente da una situazione o da uno scenario
sociale. La visione socio centrica viene sovente adottata dai sociologi,i quali
studiano i processi sociali in base ai quali vengono create e mantenute le identità
sociali. La società distinguono gli individui l’uno dall’altra in base a criteri come
età,genere,parentela ,etnia e lingua. Le differenze e le affinità nelle
caratteristiche individuali sono usate per costruire panorami sociali nei quali è
indicato il posto o l’identità di ciascuno. Le caratteristiche che determinano le
identità(per esempio il genere),sono considerate in modo diverso nelle varie
società. Gli individui apprendono chi sono tramite,ad esempio,riti di passaggio o
cerimonie d’iniziazione. I rituali d’iniziazione preparano gli individui ad accettare
nuovi modi di considerare se stessi e gli altri. Le persone devono inoltre essere in
grado di comunicare la propria identità agli altri. Uno dei modi per farlo è lo
scambio di doni e il principio di reciprocità. Il Kula, la circolazione di doni
scambiati tra partner commerciali nelle isole di Trobriand è un valido esempio.
Gli americani e altri popoli,nelle moderne società industriali,devono affrontare il
problema relativo al dono: la necessità di convertire in qualche modo una merce
anonima e acquistata in negozio in un dono personale e significativo. Gli individui
devono poter difendere la propria identità se si sentono minacciati. Un esempio
è quello della cerimonia del moka dei Big Men presso i Melpa della Nuova
Guinea, i quali in questo rito affermano e difendono la propria posizione nel
panorama sociale. Infine si è visto come una prospettiva antropologica
sull’identità e l’immagine corporea possa essere utilizzata nella stesura di
programmi rivolti alle adolescenti per affrontare le loro ansie circa l’immagine
corporea per adottare uno stile di vita più sano.

11. Interpretazioni antropologiche della violenza tra natura e cultura


(Dei )

La domanda che ci si chiede e quali strumenti interpretativi l’antropologia può


offrire per comprendere la massiccia presenza della violenza e della crudeltà
nella storia del Novecento. Il nostro secolo è stato caratterizzato da un lato dal
culmine del processo di civilizzazione, dall’altro da eventi terribili di stermini e
genocidi,come l’olocausto ebreo e il genocidio in Ruanda. Tali terribili opere
dell’uomo sembrano suggerire la presenza di determinanti profonde e nascoste
nell’atteggiamento dell’uomo; determinanti che non sono semplicemente
riconducibili a un contesto storico-sociale e ad una logica della situazione,
investendo invece dimensioni più generali di carattere psicologico, antropologico
o persino etologico. L’intreccio fra dimensione storica e antropologica è
certamente ineludibile, ma rischia anche di condurre verso soluzioni
semplicistiche e fuorvianti. Esso può spingerci a ricercare nelle scienze umane (o
nell’etologia, o persino nella biologia) delle leggi generali del comportamento, in
grado di fornire quelle spiegazioni che non riusciamo a trovare nella semplice
analisi del contesto storico. L’antropologia culturale, se può portare un
contributo alla comprensione di specifiche pratiche di violenza e crudeltà, può
farlo solo a patto di non sottrarsi alla irriducibile complessità del giudizio storico;
come ogni altra disciplina sociale, essa non può fare a meno di immergersi nei
contesti storici e di accettarne tutta la complessità e la specificità. La violenza che
si manifesta nella storia e nella vita sociale non è il contrario della cultura ma il
prodotto di un certo tipo di cultura. Non è uno sfondo naturale del
comportamento umano che si manifesta quando venga meno per un momento la
vernice sottile della civilizzazione. E’ invece un atteggiamento costruito, che si
apprende con l’educazione e la socializzazione, e che sta in stretto rapporto con
le forze che regolano la cosciente vita associata degli esseri umani: il desiderio, il
potere, persino la razionalità. Dopo alcune ulteriori osservazioni sui rapporti tra
determinanti naturali e determinanti culturali della violenza,si passeranno
schematicamente in rassegna due punti di vista che l’antropologia e le scienze
umane hanno sviluppato a proposito del comportamento violento. In primo
luogo, gli studi sulle istituzioni e le pratiche culturali volte al controllo sociale
della violenza; in secondo luogo, il tema della violenza come fondazione della
civiltà. Aggressività e violenza fanno parte della dotazione biologica e istintuale
del genere umano. Noi sentiamo il bisogno di «spiegare» il comportamento
violento perché lo vediamo come una contraddizione in relazione ai valori della
cultura - di quella cultura su cui si basa la nostra identità di esseri umani.
Sembrerebbe dunque di poter considerare la violenza e l’aggressività come limiti
della civiltà - retaggi di una costituzione naturale che la cultura non è riuscita
ancora a modificare o soffocare, e che riemerge, per così dire, negli interstizi
della civiltà. Ma questa sarebbe una concezione semplicistica: perché in realtà gli
aspetti naturali e quelli culturali dell’evoluzione non si sono semplicemente
contrapposti gli uni agli altri, ma si sono compenetrati. Possiamo forse capire
meglio questo punto pensando al concetto di paesaggio naturale. Noi
consideriamo come natura boschi o campagne che in realtà sono profondamente
modificati dall’intervento umano, spesso persino costruiti, e sono dunque in
senso stretto paesaggi culturali. Nondimeno, noi giustamente li contrapponiamo
oggi ai paesaggi urbani, cementificati, etc. - e usiamo le categorie di naturale e
artificiale per dar senso a questa contrapposizione, che è parte importante e
cardine della nostra visione del mondo. Si può criticare questo punto di vista in
quanto arbitrario, ma non avrebbe molto senso appellarsi a una natura più pura
e autentica, che per noi non può esistere. La violenza e l’aggressività si
manifestano nel comportamento umano, all’interno di determinate civiltà e
società, in modi culturalmente e storicamente plasmati. Noi oggi consideriamo
violenza è frutto di un processo storico molto preciso e anche molto recente, di
una ridefinizione continua della linea di demarcazione tra natura e cultura. Per
riflettere su questo punto è essenziale riferirsi ai lavori di Norbert Elias, che
ricostruiscono la storia dell’Occidente nei termini di un continuo processo di
spostamento della linea che demarca i comportamenti accettati da quelli non
accettati. Secondo Elias, attraverso le diverse epoche storiche si sono formate
barriere sia istituzionali che psicologiche ed è cambiato molto l’atteggiamento
nei confronti della violenza. Per il Medioevo, al contrario, Elias documenta il
piacere di uccidere e torturare come manifestazione di potere, e la presenza dei
valori della violenza nel codice cavalleresco, che noi associamo di solito a valori di
altro tipo. Questi mutamenti sono legati per Elias all’affermarsi di un potere
centrale (virtualmente assente nel Medioevo) che assume il monopolio della
violenza e della sopraffazione fisica, non consentendo più ai singoli individui di
esercitarla (salvo a poche persone delegate a tal scopo, come il boia, il
poliziotto,il soldato. Violenza è dunque di per sé una categoria astratta: vi sono
comportamenti violenti e concezioni di ciò che è violenza che mutano
socialmente e storicamente. Ciò che è normale oppure patologico e deviante, ciò
che ha bisogno o meno di una spiegazione, cambia a seconda dei concreti
contesti culturali. l’antropologia culturale è interessata per l’appunto al modo in
cui gli istinti, le pulsioni, la dotazione biologica dell’uomo è plasmata all’interno
di ogni singola cultura. Per la verità, come ho già detto, la violenza non è mai
stato un soggetto centrale e cruciale nei dibattiti antopologici: sia nel senso che
raramente si è trovata al centro di grandi elaborazioni teoriche (con almeno
un’eccezione importante, su cui tornerò), sia nel senso che pochi contributi
etnografici si sono soffermati a fondo sul problema delle diverse sensibilità alla
violenza e dei diversi codici di manifestazione dell’aggressività presenti in
specifiche culture (per delle recenti eccezioni si vedano i saggi raccolti in Riches
1986 ed Heritier 1997). Tuttavia, questi problemi sono spesso implicati nelle
discussioni sui sistemi sociali e politici, sulla struttura dell’ethos o dei valori, sui
rituali e sulla religione. In modo particolare, l’attenzione degli antropologi si è
appuntato sulle modalità del controllo sociale della violenza. L’antropologia
sociale e politica classica è partita spesso dal presupposto hobbesiano di un
originario homo homini lupus: la società e le sue istituzioni, per esistere, hanno
bisogno che sia ridotto e controllato il potenziale di aggressività e violenza che
ciascun individuo porta dentro di sé, in virtù della sua costituzione biologica. Gli
animali, come ci insegna l’etologia, possiedono meccanismi di controllo e
ritualizzazione degli istinti aggressivi verso i loro simili, senza i quali sarebbe
messa in pericolo forse la stessa sopravvivenza della specie, e in ogni caso la vita
sociale, l’unità del branco etc. L’uomo sembra non possedere in modo naturale
simili impulsi inibitori: dev’esser dunque la società, tramite le sue istituzioni, a
fornirli. Si deve trattare di istituzioni che consentono all’individuo di «scaricare»
le sue pulsioni aggressive, incanalandole però in direzioni che non danneggino
l’ordine e la stabilità della società stessa. Queste istituzioni potrebbero esser
classificate a seconda della loro prossimità alla violenza fisica vera e propria. Ad
esempio, all’estremo più violento sta probabilmente l’istituzione della cosiddetta
«faida di sangue», presente in modo più o meno formalizzato tra molti popoli di
agricoltori e allevatori, in particolare quelli con una struttura sociale segmentaria.
La faida consiste - almeno in apparenza - nel diritto-dovere di vendicare una
uccisione attraverso un’altra uccisione, secondo il principio della legge del
taglione. In realtà si tratta di una istituzione molto complessa, tipica di società in
cui manca un potere giudiziario centrale, e che stabilisce regole per la risoluzione
dei conflitti tra lignaggi che sono aperti da un omicidio. In sostanza, la tradizione
accetta che i membri di un lignaggio (gruppo di parentela) cerchino di vendicare
la morte di uno di loro uccidendo l’assassino o un membro del lignaggio
dell’assassino: la seconda uccisione ristabilirebbe un equilibrio sociale che era
stato infranto dalla prima. Ma, di fatto, la vendetta non ristabilisce mai
l’equilibrio: il gruppo che la subisce tende a interpretarla come un’offesa
ulteriormente squilibrante che deve a sua volta esser vendicata, e così via -
potenzialmente ad infinitum. L’istituzione della faida consiste allora nell’apertura
di una serie di trattative e contrattazioni tra i due lignaggi rivali, con lo scopo di
risolvere il «debito» possibilmente senza spargimento ulteriore di sangue, e
comunque evitando il dilagare a macchia d’olio del conflitto. La più classica
descrizione del sistema è quella contenuta in una famosa monografia etnografica
dell’inglese E.E.Evans-Pritchard, a proposito della popolazione nilotica dei Nuer
(1940 ). Tra di essi esiste una figura politica specifica, il cosiddetto «capo dalla
pelle di leopardo», che non ha un potere reale ma svolge il delicato compito di
mediare nelle faide, convincendo ad esempio la parte lesa ad accettare un
compenso di tipo economico, o comunque un qualche compromesso che ponga
fine definitivamente e senza strascichi alla disputa. A noi occidentali moderni
questa sembra una strana forma di giustizia. In realtà non si tratta affatto della
punizione di un crimine, come noi la intendiamo, ma di un riequilibrio tra due
segmenti sociali, che è stato rotto dal primo atto di violenza e che dev’essere in
qualche modo ripristinato. Se non si ripristina l’equilibrio, il principio della
vendetta potrebbe dilagare fino ad investire l’intera comunità. Questo ci sembra
strano, perché siamo abituati alla gestione delle sanzioni da parte del potere
centrale, e al fatto che un assassinio è un crimine eminentemente pubblico,
anche se lede interessi privati. Ma a molti popoli africani questi concezione della
giustizia è estranea: a loro è sembrato molto strano, al contrario, vedere gli
amministratori coloniali imprigionare ed eventualmente giustiziare un omicida,
senza preoccuparsi del compenso da dare al gruppo che ha perso un membro.
Questa è una punizione che non risolve il problema dell’equilibrio; laddove un
compenso o persino una vendetta omicida, che non colpisca però l’autore del
primo delitto, è considerata perfettamente soddisfacente. In alcune società,
come i Berberi del Nordafrica, un rigoroso principio di equivalenza stabiliva che la
faida dovesse colpire una persona dello stesso rango sociale di quella uccisa.
Cosicché, se un uomo di un gruppo uccide una donna di un altro gruppo, la
vendetta si appunterà su una donna del gruppo dell’assassino, non sull’uomo
colpevole (Beattie 1964: 246. In questa ricerca di equilibrio conta il danno subito
dal soggetto-gruppo, non dall’individuo come soggetto di diritti; inoltre, non si fa
nessuna distinzione tra omicidio volontario e involontario, premeditato o
colposo. La faida di sangue è solo un esempio. Vi sono molte altre istituzioni di
regolazione della violenza che non la vietano ma si limitano a circoscriverla.
Anche la storia occidentale ne conosce: basti pensare al duello. Fra le istituzioni
che più si allontanano dall’esercizio reale della violenza per proporne una
rappresentazione ritualizzata, che può però produrre effetti catartici, si può
citare lo sport. Lo stesso Elias considera lo sport moderno come una sorta di
sublimazione degli istinti aggressivi e conflittuali, che si afferma con il procedere
del processo di civilizzazione - e dunque con l’aumento dell’autocontrollo e delle
inibizioni alla diretta manifestazione degli impulsi violenti. Questo processo di
controllo della violenza è sicuramente centrale nella genesi dello sport moderno;
ma riconoscere questo non vuol dire accreditare la tesi che lo sport è
semplicemente una valvola di sfogo per la «belva che è in noi». Le cose sono
molto più complesse. Come chiave di comprensione del tifo calcistico, la tesi
della scarica pulsionale è assai semplicistica e banale. Il calcio è un universo
simbolico nei cui termini i tifosi possono esprimere aspetti della loro identità e
relazionarsi agli altri in modi non consentiti nella normale vita quotidiana - modi
che implicano e legittimano anche una certa dose di aggressività e violenza. Ma
non c’è motivo di dire che il calcio è socialmente utile perché scarica violenza e
incanala i conflitti in direzioni sostanzialmente innocue: potremmo altrettanto
bene affermare che crea nuovi conflitti e nuove occasioni di violenza (si vedano
in proposito Dal Lago 1990, Roversi 1992 e, per una sintesi del dibattito, Dei
1992). Tornando alla tradizione classica degli studi antropologici, l’istituzione di
controllo della conflittualità che più ha attratto il loro interesse è probabilmente
la stregoneria. La stregoneria è un insieme di credenze e pratiche sociali
largamente diffuso in molte culture tradizionali di tutto il mondo, e che come ben
sappiamo ha svolto un ruolo di primo piano nella stessa storia della civiltà
occidentale. Possiamo definirla, sul piano delle rappresentazioni, come la
credenza nel potere di alcuni individui di nuocere ad altri per mezzo di poteri
magici. Questi poteri, posseduti come dote naturale o appresi attraverso un
apprendistato magico, risultano in attacchi violenti di tipo personale in grado di
produrre fallimenti nella vita economica e sociale, disgrazie, malattie, morte. Sul
piano delle pratiche sociali, la stregoneria consiste in un sistema di accuse: in
altre parole, essa si manifesta socialmente quando qualcuno viene accusato di
praticarla e di aver provocato tramite essa danni particolari a particolari persone.
Queste accuse seguono invariabilmente i canali dell’invidia e della conflittualità
sociale, manifestandosi ad esempio nei rapporti di vicinato, in quelli di
concorrenza economica, e così via. In apparenza, l’insorgere delle accuse di
stregoneria provoca liti e conflitti che non avrebbero di per sé ragione di essere:
a uno sguardo superficiale, ci troviamo di fronte a credenze superstiziose che
minacciano arbitrariamente rapporti sociali i quali, senza di esse, si
manterrebbero tranquilli e pacifici. In realtà, l’opinione prevalente tra gli studiosi
è che la stregoneria rappresenti proprio un sistema di risoluzione della
conflittualità interna a un gruppo sociale, che ne consente l’espressione ma
permette al tempo stesso di “scaricarla” e neutralizzarne gli effetti disgreganti
attraverso comportamenti socialmente riconosciuti e legittimati. E’ ancora una
volta all’opera di EvansPritchard che possiamo rivolgerci in cerca di esempi: il suo
studio pionieristico sulla popolazione africana degli Azande (1937) costituisce la
più classica formulazione di questa tesi, oltre che una insuperata
rappresentazione etnografica delle credenze nella stregoneria e delle relative
pratiche divinatorie. La tesi di Evans-Pritchard è che tali credenze siano al
contempo un modo intellettualmente soddisfacente di spiegare la sfortuna e di
dare un senso all’insorgere del male, da un lato, e dall’altro un modo di
esprimere i sentimenti più negativi e distruttivi legati alla vita sociale (i timori e le
ansie, così come l’odio e le tendenze aggressive). Il linguaggio della stregoneria
consentirebbe di dare un ordine e un significato a esperienze oscure e a pulsioni
disgreganti, per le quali non vi sarebbe altrimenti alcun orizzonte di risoluzione.
Non sono le rappresentazioni magiche, di per sé, a creare conflitti: esse vanno
per così dire a riempire canali conflittuali già presenti, almeno potenzialmente,
plasmandoli in modo da esser socialmente riconosciuti e, se possibile, risolti e
superati. Le pratiche divinatorie che gli Azande seguono per scoprire la presenza
della stregoneria, e per accusare qualcuno di averla esercitata (volontariamente
o anche solo involontariamente), permettono che il conflitto si manifesti
apertamente senza sfociare nella violenza aperta e diretta, e lasciano sempre
aperte modalità di risoluzione contrattata e pacifica. Su un piano un po’ diverso,
si potrebbero citare molte altre istituzioni che hanno, almeno in apparenza, una
funzione catartica o di «valvola di sfogo». Tra di esse: - le feste annuali, di cui il
caso più noto è forse quello dei Saturnali romani, nelle quali si sprigiona la carica
di aggressività e di furore distruttivo che è stata repressa nel corso di un intero
anno - secondo il principio semel in anno licet insanire. Il Carnevale e il
Capodanno moderni conservano qualcosa di queste feste antiche o tradizionali -
con la caduta dei freni inibitori, delle regole di convenienza sociale, degli stutus
socialmente acquisiti, e con i rituali di inversione sociale e sessuale, etc. - Il
cordoglio in occasione del lutto. In molte culture i rituali funerari implicano
manifestazioni di violenza e furore, fino a giungere al cannibalismo rituale, alla
licenziosità sessuale, a manifestazioni agonistiche (si pensi ai funerali di Patroclo
nell’Iliade, o all’istituzione del pianto rituale in molte culture popolari dell’Europa
meridionale; v. De Martino 1958 per uno studio classico di questi fenomeni); - i
riti di iniziazione, attraverso i quali in molte società arcaiche si media ritualmente
l’ingresso di un giovane nel mondo adulto. Essi implicano spesso una
decostruzione della personalità sociale del giovane, che per così dire deve
rinselvatichire prima di diventare uomo a tutti gli effetti: per cui, durante i riti
iniziatici, si incoraggia l’esplosione del furore distruttivo, con comportamenti da
animale da preda, attacchi indiscriminati rivolti contro tutti e così via (per
un’analisi recente v. Bloch 1997). Questi sono tutti esempi di comportamenti
violenti accettati e persino incoraggiati e codificati dalla società e dalla cultura.
Possiamo pensare a tali istituzioni come a recinti protetti in cui la naturale
aggressività degli individui può manifestarsi liberamente, senza mettere in
pericolo il tessuto delle relazioni sociali. O forse, più produttivamente, possiamo
pensarle come modi di plasmazione culturale dell’aggressività, in cui la violenza
funziona da materiale significante nell’espressione di codici, valori, status sociali.
Ora, possiamo chiederci, questi esempi tipici di società tradizionali ci dicono
qualcosa sulle manifestazioni della violenza nella società occidentale
contemporanea? Già all’inizio degli anni ’60 Ernesto De Martino, uno dei padri
fondatori degli studi antropologici italiani, esplorava l’accostamento tra
fenomeni come i riti di iniziazione o le feste di rovesciamento simbolico e le
pratiche violente eminentemente moderne che cominciavano allora a
intravedersi nella subcultura giovanile - l’azione delle bande di teppisti, le
esplosioni di furore di gruppo etc. Egli notava però come in tutti i fenomeni
tradizionali l’esplosione del furore sia seguita, in modo rigidamente codificato, da
un superamento, da quella che lui chiamava una reintegrazione dell’ordine
culturale. L’apparente infrazione delle regole serviva in definitiva a ripristinarle
con maggior forza; laddove nei fenomeni del teppismo giovanile contemporaneo
questo momento di reintegrazione sembra mancare, e le manifestazioni di
violenza sembrano seguire semplicemente la direttrice anti-sociale e anti-
culturale per eccellenza del freudiano istinto di morte. L'accostamento proposto
da De Martino (1962) fra riti di iniziazione, Saturnali e teppismo giovanile è molto
interessante e meriterebbe di esser ripreso, anche a proposito degli innumerevoli
episodi che la cronaca non manca quotidianamente di segnalarci: è un approccio
interessante e correttivo rispetto a certe semplificazioni e letture psicologiche
che di questi fatti ci vengono proposte. Si pensi a quanto ha circolato lo slogan
delle «teste vuote» a proposito dei lanciatori di sassi sulle autostrade, o degli
incidenti in auto dopo la discoteca e così via. Nella prospettiva che ci propone De
Martino quelle teste sono piene, fin troppo piene, per così dire, perché
riproducono valori e schemi comportamentali che sono profondamente radicati
nella cultura tradizionale (naturalmente, una tale osservazione non mira in alcun
modo a giustificare quei comportamenti, bensì a comprenderli sulla base di un
codice culturale piuttosto che su un presupposto di imbecillità). Mi pare semmai
dubbio attribuire un carattere totalmente asociale alla violenza delle bande
giovanili, dei frequentatori delle discoteche o dei tifosi del calcio. Forse il
problema è che non riusciamo a capire i nuovi codici attraverso cui la cultura
giovanile si esprime, e le particolari modalità di reintegrazione che in essi
operano; non vi è reintegrazione possibile solo in quei casi in cui il furore
distruttivo o autodistruttivo assume forme irreversibili, come nella
tossicodipendenza.

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