Un albergo per la salute

12 Prologo
Introduzione
16 Appunti su una metodologia
di progettazione 
22 Iconografia metodologica
di progetto
38 Pensare la città significa attingere
alla memoria collettiva
Alberghi, Terme & Bagni
50 Iconografia tematica
70 Passaggi letterari di W. Morris, A.
Loos, B. Reichlin, J. Gubler, B. Taut
& E. Faroldi
106 Alcuni progetti esemplari
Particolari del progetto
174 Domande
176 Storia e descrizione del paese
186 Pianta & foto dei cinque siti
194 Programma

Appendice
198 Testi supplementari
222 Bibliografia 
224 Materiale per le critiche
225 Calendario
12 Prologo 13 Der Architekt, der da baut, ist Statthalter aller bauenden Wirklichkeit, und er gibt
dem, was in den Menschen sich heimlich errichtet, die sichtbare Form.  Rudolf
Schwarz, Vom Bau der Kirche, Heidelberg 1947

Il mestiere dell’architetto si occupa di creare per l’uomo lo spazio vitale costruito,

teatro di una vita socialmente e politicamente adeguata. Affinchè una società si svi-
luppi con successo sono necessarie un certo numero di convenzioni, che garantisca-
no una crescita opportuna. Tale processo genera sinergie che consentono sviluppi
positivi nell’arco di più generazioni: è così che si sono formate svariate culture di-
stribuite su tutta la terra, le quali hanno costituito precise condizioni per la società
civile.
È attraverso l’urbanistica e l’architettura che tali condizioni si
manifestano nella cultura del costruito. Così dunque ogni modello urbanistico, ogni
stampo tipologico, ogni linguaggio architettonico e ogni soluzione costruttiva si
sviluppano in funzione di un preciso momento culturale. La forma architettonica
con il suo contenuto è la risposta costruita al bisogno della società in un determina-
to momento.
L’uomo utilizza i suoi sensi per entrare in relazione con l’am-
biente circostante; percepisce il proprio intorno e su quello interviene, in un conti-
nuo scambio con i propri simili e gli altri esseri viventi.
In ogni sua espressione, l’arte è la forma intellettuale che più di
tutte ci permette di affinare la nostra percezione sull’ambiente circostante e su noi
stessi, concentrandosi sull’essenziale produce chiarezza. Essa ha la capacità di scan-
dagliare le zone d’ombra e di rivelarci i limiti della nostra percezione, in relazione
alle convenzioni sociali. Grazie allo stimolo dell’arte anche i nostri pensieri si fanno
più precisi e in grado di dare risposte appropriate.
È nell’architettura che tutte le forme d’arte si incontrano: lo
spazio si lascia vedere, ascoltare e con tutti i sensi percepire, restituendo l’immagine
completa di una precisa dichiarazione culturale del proprio tempo.
Che mestiere meraviglioso il nostro!

Quintus Miller,
Basilea, febbraio 2016

Der Architekt, der da baut, ist Statthalter aller bauenden Wirklichkeit, und er gibt dem, was in den Menschen sich heimlich errichtet, die sichtbare Form. 
Rudolf Schwarz, Vom Bau der Kirche, Heidelberg 1947  The profession of an architect is concerned with creating the built living spaces of man, scenes
for socially and politically appropriate life. In order for a society to successfully develop, a number of conventions are necessary to ensure viable growth.
This process generates synergies that enable positive developments over several generations: it is in this manner that different cultures were formed and
spread across the earth, establishing precise conditions for civil societies.  Through urbanism and architecture, such conditions are manifested in the
built culture. Therefore each urban model, typological mold, constructive solution, and/or architectural language is developed on the basis of a specific
cultural moment. An architectural form with its respective content is the built answer in response to the need of a society at a given time.  Man uses his
senses to enter into a relationship with the surrounding environment; perceiving and subsquently intervening, in a continuous exchange with other hu-
man beings and all life.  In each instance, art is an intellectual act, which more than any other, allows us to sharpen our perception of the surrounding
environment and ourselves – focusing on essentials produces clarity. Art has the ability to examine the shadows and reveal the limits of our perception
in relation to social conventions. Thanks to the stimulus of art, our thoughts become accurate and we are more apt to conceive works relevant to our
situation.  It is in architecture that all the forms of art meet: the space one sees, hears and perceives with all the senses, reconstituting a complete image
of a precise, cultural statement of the time.  What a wonderful métier we have!  Quintus Miller, Basel, February 2016
 Introduzione

Like a spider to its thread, I yearn to tie my-

self to tradition - and from it - away from it,
to weave my own web.  Jože Plečnik, 1901
Like a spider to its thread, I yearn to tie myself to tradition - and from it - away from it, to weave my own web.  Jože Plečnik, 1901
 17 Immagine della vita
Per avvicinarci idealmente ai contenuti di un
progetto architettonico, è bene interpretare
questa disciplina come un complesso processo
16 Appunti su una metodologia mentale volto ad attribuire alla cultura umana
una forma architettonica. È un processo che,
di progettazione
attraverso la costruzione, dà forma alle con-
dizioni necessarie a soddisfare i nostri bisogni
primari. In questo modo, si crea all’interno del-
lo spazio vitale una proiezione della vita stessa:
l’urbanistica e l’architettura sono immagine co-
struita del nostro modo di vivere. L’origine di
questa disciplina va ricercata nell’esigenza ele-
mentare di proteggere con un tetto il proprio
giaciglio dalle intemperie della natura. Il suc-
cessivo consolidamento di questa prima abita-
zione umana attraverso pavimenti e pareti por-
ta poi alla creazione di stanze e, gradualmente,
della casa. Quest’ultima è l’immagine di tutti i
bisogni vitali di una comunità domestica. Pos-
siamo sviluppare questo pensiero ulteriormen-
te: l’insieme delle costruzioni costituisce un in-
sediamento che sfrutta, attraverso l’interazione
dei vari edifici, le sinergie della prossimità e per
questo si rivela specchio della società. La rete di
collegamento tra un insediamento e l’altro, re-
alizzata sotto forma di strade, canalizzazioni o
fortificazioni, testimonia lo sfruttamento dello
spazio vitale nel suo complesso.
Percezione quale
referenza per la progettazione
Il nostro spazio vitale equivale all’ambiente in
cui ci muoviamo quotidianamente. I nostri sen-
si sono costantemente a contatto con questo
ambiente vitale. L’interpretazione delle nostre
percezioni avviene sulla base delle esperienze
che accumuliamo di continuo nel corso del-
la nostra vita. L’esperienza ci fornisce quindi i
mezzi per decifrare le nostre sensazioni e in-
serirle in un contesto più ampio. Questa presa
di coscienza di quanto percepiamo è, in primo
luogo, un processo di confronto con noi stessi:
possiamo ricollegare le nostre sensazioni alla
realtà solo a condizione che esse ci ricordino
qualcosa. Confrontandole con la memoria, ci
facciamo un’idea della realtà. In questo proces-
so, si rivela fon-damentale la capacità umana
di analizzare in breve tempo le caratteristiche
essenziali di quanto percepiamo. Nel confronto
con l’esperienza, non solo distinguiamo l’ugua-
le dal diverso, ma cogliamo anche le affinità di
determinate caratteristiche, riscontriamo simi-
litudini formali o analogie di contenuto. Perciò,
non solo siamo in grado di riconoscere il noto,
ma possiamo altresì interpretare il nuovo attra-
verso il confronto con caratteristiche affini già
conosciute. Grazie a questa capacità, la perce-
zione si allontana da una visione esclusivamen-
te retrospettiva; la capacità di associare apre lo
sguardo sul nuovo.Se si osserva la progettazio-
ne sotto questo punto di vista, essa può essere
intesa come un processo inverso a quello della
percezione. Quando progettiamo, siamo solle-
citati a prevedere le percezioni e sensazioni dei
futuri fruitori dei nostri spazi. Dobbiamo po-
terci immaginare gli spazi e intuire quali emo-
zioni susciteremo attraverso essi. Scegliendo
proporzioni, forme, materiali e conduzione
della luce definiamo le emozioni del pubblico.
In questo risiede una parte importante della
responsabilità culturale che ci assumiamo nel
lavoro di architetti.
Memoria collettiva
e personale
La percezione dell’ambiente circostante è quin-
di un processo autodidatta che perfezioniamo
costantemente nel corso della vita, adattando-
lo ad ogni situazione che si presenta. Ha il suo
principio nella memoria personale, coinvolge
tuttavia anche la memoria collettiva, che dipen-
de dal nostro ambiente sociale. A questo punto,
ci ricolleghiamo alla citazione di Adolf Loos ri-
portata all’inizio: solo attingendo a questa co-
scienza collettiva siamo in grado di comunicare,
attraverso il nostro lavoro, con l’ambiente che ci
circonda.In fase di ideazione, viviamo un pro-
cesso di continuo ricordo volto a definire con
chia-rezza sempre maggiore il nostro progetto.
I ricordi, tuttavia, sono per lo più trasfigurati e
tendenziosi. La memoria muta con noi in rela-
zione alla nostra biografia e all’esperienza accu-
mulata. La memoria non è identica all’originale,
bensì analoga. Viene modificata e alterata dalle
proiezioni dell’Io. Nel ricordo la forma si svi-
luppata ulteriormente, si rinnova e riceve nuovi
significati. Non è propriamente riproduzione
dell’originale ma, attraverso il ricordo, si con-
serva in lei un legame complesso con la forma
originaria. La forma rimanda all’origine, si trat-
ta di un ricordo selettivo.
Originale o plagio?
Se partiamo dal presupposto che l’architettu-
ra è necessariamente impregnata di rimandi,
siamo sempre in relazione con qualcosa di già
pensato e già costruito. Questa relazione non
è tuttavia concorrenziale, bensì dialogo critico
con ciò che già esiste. Allora la domanda sopra
formulata non si pone. Così come una consi-
derazione critica delle opere esistenti esclude il
plagio, anche l’originalità autentica di un’ope-
ra architettonica impedisce una referenzialità
problematica al contesto. Fare riferimento alla
cultura architettonica è espressione di respon-
sabilità nei confronti del nostro spazio vitale,
ma presuppone anche una conoscenza profon-
da delle basi culturali della nostra architettura.
18 Lo sguardo contestuale
C’è prima l’idea e poi la scelta del materiale
architettonico? O si raccolgono dapprima dei
riferimenti seguendo criteri puramente asso-
ciativi, scomposti, per unirli infine in un’unica
idea?
Questo “come” è poco rilevante, è invece
più importante che dall’analisi della consegna
da eseguire si formuli un’idea progettuale con
un suo tema architettonico. A questo scopo può
essere molto utile prendere spunto da immagini
e motivi. Queste immagini devono sovrapporsi,
completarsi e influenzarsi a vicenda. Si tratta di
un processo di reciprocità che, con ogni nuo-
vo strato relazionale, si rafforza e intensifica.
Tutto inizia dal luogo, che analizzeremo nella
sua essenza. Cercheremo di comprenderne lo
specifico sviluppo e di trarne conoscenze fon-
damentali per il suo futuro.Il compito, di per sé,
implica delle regolarità derivanti da presuppo-
sti cultula sua idea risulta comunicabile. Strut-
tura e spazio. La struttura e gli spazi di un’opera
architettonica sono in stretta relazione l’una
con gli altri. Lo spazio fa riferimento ad una de-
terminata situazione che nasce da proporzione,
materiale e luce. La struttura regola il rapporto
tra gli spazi e rappresenta, ad un livello superio-
re, la rete relazionale. Quale tipologia dello spa-
zio, essa riveste un significato generale e agevola
la lettura di un edificio. Lo spazio fa riferimento
ad una situazione precisa, che nasce da propor-
zione, materiale e luce. Strutture portanti e ca-
richi. Quando si costruisce, si plasmano degli
spazi; per far questo sono necessari elementi
portanti e si creano dei carichi che vanno a gra-
vare su questi. Il senso di una struttura portante
concepita in modo intelligente consiste proprio
nel sostenere l’intenzione spaziale e tipologica
della costruzione. Quanto più l’essenza della
struttura portante e l’intenzione architettonica
si fondono in un’unità indissolubile, tanto più
robusto risulterà il progetto nel suo insieme.
Tipologia ed espressione. La tipologia ha carat-
tere generale ed è in misura minore soggetta al
momento. Definisce ciò che è sempre valido e
conferisce leggibilità al progetto. L’espressione
e la forma si muovono in maniera più marcata
seguendo lo spirla sua idea risulta comunicabi-
le. Struttura e spazio. La struttura e gli spazi di
un’opera architettonica sono in stretta relazio-
ne l’una con gli altri. Lo spazio fa riferimento
ad una determinata situazione che nasce da
proporzione, materiale e luce. La struttura re-
gola il rapporto tra gli spazi e rappresenta, ad
un livello superiore, la rete relazionale. Quale
tipologia dello spazio, essa riveste un signifi-
cato generale e agevola la lettura di un edifi-
cio. Lo spazio fa riferimento ad una situazione
precisa, che nasce da proporzione, materiale e
luce. Strutture portanti e carichi. Quando si co-
struisce, si plasmano degli spazi; per far questo
sono necessari elementi portanti e si creano dei
carichi che vanno a gravare su questi. Il senso
di una struttura portante concepita in modo
intelligente consiste proprio nel sostenere l’in-
19
tenzione spaziale e tipologica della costruzione.
Quanto più l’essenza della struttura portante e
l’intenzione architettonica si fondono in un’u-
nità indissolubile, tanto più robusto risulterà il
progetto nel suo insieme. Tipologia ed espres-
sione. La tipologia ha carattere generale ed è in
misura minore soggetta al momento. Definisce
ciò che è sempre valido e conferisce leggibilità
al progetto. L’espressione e la forma si muovo-
no in maniera più marcata seguendo lo spirrali
e sociali. Queste tipologie sono il risultato di
una consuetudine tramandata che segue pian
piano gli sviluppi della società e alla quale non
ci si può sottrarre. Siamo necessariamente par-
te di un contesto sociale. Indipendentemente
dalle inclinazioni personali che ci guidano nella
progettazione, ci muoviamo sempre in un con-
creto contesto urbano e culturale all’interno del
quale il progetto deve posizionarsi e imporsi. Il
grado di vicinanza al contesto – fino alla totale
familiarità del nuovo – o il più estremo strania-
mento sono, in fase di progettazione, una scelta
consapevole. Questa scelta è comunque sempre
da vedersi in relazione al contesto – per questo,
qui succede quello che capita anche nei rappor-
ti interpersonali: quanto ci si vuole sottomet-
tere alle norme sociali? Quanto bistrattarle di
proposito? In fase di progettazione si può ten-
tare di limitare questa libertà di scelta metten-
do sempre in questione l’adeguatezza di ogni
intervento –. L’architettura è un artefatto com-
plesso: è al contempo merce, oggetto d’uso, si-
gnificante e struttura estetica. Sotto ciascuno di
questi punti di vista, essa segue un insieme di
regole. Proprio come abbiamo dovuto imparare
la nostra lingua, composta di parole, per riusci-
re a parlare, così dobbiamo analizzare a fondo
i sistemi dell’architettura per poterla produrre
e riuscire a comunicare attraverso essa. Per di
più, l’architettura parla contemporaneamente
in tonalità e lingue diverse. Va tenuto conto che
il messaggio può essere trasmesso con succes-
so solo se la comprensione è resa possibile da
una fondata conoscenza del maggior numero
di sistemi. Proprio per questo risulta evidente
che il progetto dovrà presentare una densità di
contenuti su diversi livelli. Così si arricchirà di
significati e potrà difendere questi significati
anche in condizioni mutate. Per poter dare una
struttura alla complessità della progettazione è
utile suddividere le questioni legate al progetto
in diversi gruppi concettuali. Questi ci aiutano a
filtrare le domande essenziali e trovare risposte
pertinenti. La scelta non è esaustiva né univoca.
Urbanistica e architettura. Decisioni sul
piano urbanistico hanno ripercussioni diret-
te sulla tipologia e sulla forma architettonica.
Questi due modi di vedere l’ambiente costruito,
divergenti l’uno dall’altro nella scala, formano
un’unità e non possono essere scissi.
Carattere e atmosfera. Questi concetti aiutano
a descrivere in modo preciso i luoghi. Così, il
tipo di sensazione ricercata diventa evidente
e la sua idea risulta comunicabile. Struttura e
spazio. La struttura e gli spazi di un’opera archi-
tettonica sono in stretta relazione l’una con gli
altri. Lo spazio fa riferimento ad una determi-
nata situazione che nasce da proporzione, ma-
teriale e luce. La struttura regola il rapporto tra
gli spazi e rappresenta, ad un livello superiore,
la rete relazionale. Quale tipologia dello spazio,
essa riveste un significato generale e agevola la
lettura di un edificio. Lo spazio fa riferimento
ad una situazione precisa, che nasce da propor-
zione, materiale e luce. Strutture portanti e ca-
richi. Quando si costruisce, si plasmano degli
spazi; per far questo sono necessari elementi
portanti e si creano dei carichi che vanno a gra-
vare su questi. Il senso di una struttura portante
concepita in modo intelligente consiste proprio
nel sostenere l’intenzione spaziale e tipologica
della costruzione. Quanto più l’essenza della
struttura portante e l’intenzione architettonica
si fondono in un’unità indissolubile, tanto più
robusto risulterà il progetto nel suo insieme.
Tipologia ed espressione. La tipologia ha carat-
tere generale ed è in misura minore soggetta al
momento. Definisce ciò che è sempre valido e
conferisce leggibilità al progetto. L’espressione
e la forma si muovono in maniera più marcata
seguendo lo spirito del tempo e sono pertanto
soggette a cambiamenti ciclici. Tempo e denaro.
Il tempo e i mezzi a disposizione devono con-
tribuire fin dall’inizio a delineare il progetto. Se
parametri e progetto non collimano, bisogna
provvedere a cambiare i presupposti o il pro-
getto stesso, se questo deve essere realizzato.
Materialità e costruzione. Una materiali-
tà indispensabile per ottenere un certo caratte-
re ha un effetto preciso sulla nostra percezione.
Questo effetto non è unicamente di portata in-
tellettuale, ma presenta pure una componente
fisica e aptica. Il modo di costruire non è quindi
separabile dalla materialità, esso è conseguen-
za dell’espressione architettonica. L’insieme di
questi aspetti dà vita al progetto. È il nostro
compito di architetti metterli in relazione in
modo adeguato. Dobbiamo soppesare i diversi
aspetti in funzione della consegna ricevuta e del
luogo e farli confluire in un unico progetto.
La base di ogni buon progetto è la cono-
scenza di una soluzione di principio, sia in que-
stioni urbanistiche che architettoniche o legate
alla costruzione. Si devono conoscere tipologie
o principi per poter fare scelte di progettazio-
ne opportune. Se in questo processo si rimane
tuttavia ancorati al principio, il progetto resterà
imprigionato in una struttura già nota. Se so-
vrapponiamo a ciò che è ovvio ad altri aspetti
ricollegabili ad esso, siamo in grado di ampliare
lo spettro semantico del progetto. Una maggio-
re densità di significato assicura al progetto la
sua solidità anche in tempi di cambiamento –
la persistenza culturale del progetto aumenta. Il
progetto sarà maggiormente in grado di offrire,
anche in condizioni mutate, una risposta vali-
da. In questo si può intravedere una similitdine
con il genoma umano, che contiene molte più
informazioni di quelle che necessiteremmo per
vivere. L’informazione genetica oggi superflua
può diventare con il tempo una caratteristi-
ca indispensabile per la sopravvivenza. Se essa
mancasse non saremmo più capaci di vivere.
Sovrapporre al conosciuto aspetti inattesi non
ha come unico obiettivo l’appena descritta po-
lisemia di contenuti. Questa sovrapposizione
ricca di interrogativi ci aiuta, provocando uno
straniamento, ad affinare lo sguardo su ciò che
è familiare. Relativizzando il familiare, la sua
entità diventa visibile e possiamo riflettere sulla
sua essenza. In questo vi è al contempo una fra-
gilità latente che si manifesta in un’indecisione
oscillante. Non si tratta tuttavia di un’incapaci-
tà a fare delle scelte, bensì di un’accondiscen-
denza consapevole all’ “e/o” oppure al “sia/sia”,
nel baluginare della quale si specchiano le sfac-
cettature culturali del progetto.
Pietre di paragone
del progetto
In fase di progettazione può capitare che si crei
una tensione tra le tante idee contraddittorie
che si hanno; per non perdere di vista il filo ros-
so del progetto può allora essere utile assumere
di tanto in tanto un atteggiamento volutamente
critico nei suoi confronti. Pregnanza dell’idea.
Forza ed effetto saranno assicurati se il proget-
to sarà in grado di fornire una risposta preci-
sa, che risulti al contempo semplice e convin-
cente, ad una problematica iniziale complessa.
Unità di forma e contenuto. L’espressione ed il
suo contenuto sono inscindibili. L’intensità di
questa relazione reciproca deriva da una stra-
tificazione in atto da più generazioni e genera
un’unità culturale. Se separassimo la forma dal
suo contenuto, allontaneremmo il progetto dal
suo contesto culturale, quindi anche da noi
stessi. Cura del dettaglio. La costruzione deriva
direttamente dall’intenzione architettonica. La
riproduce attraverso una certa modalità del fare
e una determinata materialità. Se la costruzio-
ne nascerà coerente al tema architettonico e se
le verrà dedicata la cura che merita, il progetto
risulterà più pregnante. Se questa cura verrà a
mancare, l’essenza progettuale si perderà.
Ambiguità. Un progetto caratterizzato
da un’ambivalenza di contenuti potrà inserir-
si in modo versatile nell’ambiente al quale è
destinato. In tal modo sarà culturalmente più
durevole, e questo aumenterà notevolmente le
sue probabilità di sopravvivenza. L’ambiguità
come strumento progettuale non va sottovalu-
tata perché proprio essa permetterà di catturare
l’attenzione di chi osserva: il passante irritato
tornerà a volgere lo sguardo alla costruzione
20 per sincerarsi della sua percezione e per giunge-
re eventualmente ad un’altra conclusione. Sarà
obbligato ad un confronto più approfondito.
Contemporaneità. Ogni progetto è
espressione della sula sua idea risulta comu-
nicabile. Struttura e spazio. La struttura e gli
spazi di un’opera architettonica sono in stretta
relazione l’una con gli altri. Lo spazio fa riferi-
mento ad una determinata situazione che nasce
da proporzione, materiale e luce. La struttura
regola il rapporto tra gli spazi e rappresenta, ad
un livello superiore, la rete relazionale. Quale
tipologia dello spazio, essa riveste un signifi-
cato generale e agevola la lettura di un edifi-
cio. Lo spazio fa riferimento ad una situazione
precisa, che nasce da proporzione, materiale e
luce. Strutture portanti e carichi. Quando si co-
struisce, si plasmano degli spazi; per far questo
sono necessari elementi portanti e si creano dei
carichi che vanno a gravare su questi. Il senso
di una struttura portante concepita in modo
intelligente consiste proprio nel sostenere l’in-
tenzione spaziale e tipologica della costruzione.
Quanto più l’essenza della struttura portante e
l’intenzione architettonica si fondono in un’u-
nità indissolubile, tanto più robusto risulterà il
progetto nel suo insieme. Tipologia ed espres-
sione. La tipologia ha carattere generale ed è in
misura minore soggetta al momento. Definisce
ciò che è sempre valido e conferisce leggibilità
al progetto. L’espressione e la forma si muovo-
no in maniera più marcata seguendo lo spirla
sua idea risulta comunicabile. Struttura e spa-
zio. La struttura e gli spazi di un’opera archi-
tettonica sono in stretta relazione l’una con gli
altri. Lo spazio fa riferimento ad una determi-
nata situazione che nasce da proporzione, ma-
teriale e luce. La struttura regola il rapporto tra
gli spazi e rappresenta, ad un livello superiore,
la rete relazionale. Quale tipologia dello spazio,
essa riveste un significato generale e agevola la
lettura di un edificio. Lo spazio fa riferimento
ad una situazione precisa, che nasce da propor-
zione, materiale e luce. Strutture portanti e ca-
richi. Quando si costruisce, si plasmano degli
spazi; per far questo sono necessari elementi
portanti e si creano dei carichi che vanno a gra-
vare su questi. Il senso di una struttura portante
concepita in modo intelligente consiste proprio
nel sostenere l’intenzione spaziale e tipologica
della costruzione. Quanto più l’essenza della
struttura portante e l’intenzione architettonica
si fondono in un’unità indissolubile, tanto più
robusto risulterà il progetto nel suo insieme.
Tipologia ed espressione. La tipologia ha carat-
tere generale ed è in misura minore soggetta al
momento. Definisce ciò che è sempre valido e
conferisce leggibilità al progetto. L’espressione
e la forma si muovono in maniera più marcata
seguendo lo spirla sua idea risulta comunicabi-
le. Struttura e spazio. La struttura e gli spazi di
un’opera architettonica sono in stretta relazio-
ne l’una con gli altri. Lo spazio fa riferimento
ad una determinata situazione che nasce da
proporzione, materiale e luce. La struttura re-
gola il rapporto tra gli spazi e rappresenta, ad
21 plificazione affinché possano favorire il pensie-
ro associativo e non restringano, nella discus-
sione, l’osservazione da diversi punti di vista.
un livello superiore, la rete relazionale. Quale Quest’idea si trasformerà nel corso di
tipologia dello spazio, essa riveste un signifi- questo processo in un tema che accompagnerà
cato generale e agevola la lettura di un edifi- il nostro progetto. Il tema delimiterà la corsia
cio. Lo spazio fa riferimento ad una situazione su cui lavoreremo come una barriera spartitraf-
precisa, che nasce da proporzione, materiale e fico, ci indicherà la direzione e ci condurrà al
luce. Strutture portanti e carichi. Quando si co- traguardo. Se dovessimo accorgerci di dirigerci
struisce, si plasmano degli spazi; per far questo verso una meta sbagliata, dovremo evitare di ol-
sono necessari elementi portanti e si creano dei trepassare la diramazione che ci consentirà nel
carichi che vanno a gravare su questi. Il senso giusto momento di modificare la nostra rotta.
di una struttura portante concepita in modo Il processo continuativo della progetta-
intelligente consiste proprio nel sostenere l’in- zione necessita di un’attenzione per quella es-
tenzione spaziale e tipologica della costruzione. senza che è in grado di trasmette l’idea. Tentia-
Quanto più l’essenza della struttura portante e mo di far questo con i mezzi di cui disponiamo:
l’intenzione architettonica si fondono in un’u- linguaggio, schizzo, disegno, modello, foto,
nità indissolubile, tanto più robusto risulterà il film o simulazione. Se un metodo di lavoro
progetto nel suo insieme. Tipologia ed espres- non ci fa avanzare, può essere d’aiuto un cam-
sione. La tipologia ha carattere generale ed è in biamento dello strumento di progettazione. È
misura minore soggetta al momento. Definisce più efficace e, allo stesso tempo, più appagante
ciò che è sempre valido e conferisce leggibilità considerare una questione da posizioni diverse,
al progetto. L’espressione e la forma si muovo- invece di elaborare sempre solo lo stesso aspet-
no in maniera più marcata seguendo lo spira to. Progettare è un concorrere parallelo di più
epoca e ne riproduce il rispettivo contesto so- metodi volti a rappresentare un’idea architetto-
ciale. La forma costruita, il risultato delle nostre nica, nel loro punto di intersezione si troverà la
aspettative nei confronti di un edificio, rappre- soluzione.
senta lo stato attuale della società: attraverso La presentazione del lavoro è il corona-
essa quest’ultimo viene letteralmente impresso mento finale di un confronto con le innumere-
nel territorio. Urbanistica ed architettura sono voli sfaccettature dell’arte architettonica e con
di per sé un continuo sovrapporsi di strati cul- se stessi. È paragonabile ad un megafono con
turali. Ogni strato è collegato ad un tutto e, al il quale comunichiamo e cerchiamo di rendere
contempo, a sé stante. comprensibili le nostre prerogative – costitui-
Garbo ed adeguatezza. Non da ultimo sce quindi una parte importante della proget-
dobbiamo tenere presenti nel nostro fare il ri- tazione.
spetto ed il garbo. Non si tratta affatto di un
invito al ritegno inteso moralmente. La città è Quintus Miller,
una struttura collettiva che produce un effetto Basilea, agosto 2013
nel suo insieme e per questo richiede il rispet-
to reciproco. Proprio in questo va vista la forza
dell’urbanità: la potenza dell’anonimato e della
generalità supera quell’individualità sì efficace a
breve termine che, tuttavia, si risolve da sé con
l’evolvere dei tempi.
Strumenti di
progettazione
La progettazione architettonica non è un pro-
cesso lineare. E una ricerca di verità, un avvi-
cinarsi ad un’adeguata soluzione per un luogo,
una consegna da eseguire e un committente. La
progettazione architettonica è un processo me-
diatorio, comunicativo. Dobbiamo imparare a
parlare dei nostri progetti trovando parole per
le nostre idee e dominando i mezzi per accom-
pagnarle e sostenerle.
Iniziamo il progetto da un’idea, da una
rappresentazione concettuale, che può avere
una funzione regolatrice dall’alto. In questo
siamo sostenuti da mezzi semplici come gesti,
schizzi, immagini o raffigurazioni corporee.
Questi mezzi dovranno costituire una sem-
 23 Le texte ne “commente” pas les images. Les images n’“illustrent” pas le texte: cha-
cun a été seulement pour moi le départ d’une sorte de vacillement visuel, analogue
peut-être à cette perte de sens que le Zen appelle un satori; texte et images, dans
leur entrelacs, veulent assurer la circulation, l’échange de ces signifiants: le corps, le
visage, l’écriture, et y lire le recul des signes.  Roland Barthes, L’Empire des signes,
1970, Albert Skira Éditeur

22 Iconografia metodologica
di progetto

Il testo non “commenta” le immagini. Le immagini non “illustrano” il testo: ognuna è stata per me soltanto l’inizio di un vacillamento visivo, analogo
probabilmente alla perdita di sensi che lo Zen chiama un satori, testo e immagini, nel loro intreccio, vogliono assicurare la circolazione, lo scambio di
questi significanti: il corpo, il viso, la scrittura, e leggervi il distacco dei segni.  Roland Barthes, L’impero dei Segni, 1970
The text does not “gloss” the images, which do not “illustrate” the text. For me, each has been no more than the onset of a kind of visual uncertainty,
analogous perhaps to that loss of meaning Zen calls a satori. Text and image, interlacing, seek to ensure the circulation and exchange of these signifiers:
body, face, writing; and in them to read the retreat of signs.  Roland Barthes, The Empire of Signs, 1970
24 Igor Strawinsky à propos du procès de création dans:
Gespräche mit Robert Craft, Zürich, 1961 25 Thomas Struth, Pergamon
Museum VI, Berlin, 2001

Quando l’idea di fondo di un’opera è

definitiva, so approssimativamente quale
materiale musicale è necessario.
Allora mi metto alla ricerca di questo
materiale suonando i grandi maestri
(per attivarmi) o iniziando immediatamente
a improvvisare unità ritmiche su una
sequenza di note ancora provvisoria
(che potrà diventare definitiva). Così do
forma al materiale compositivo.

When the basic idea of a work is defined, I know approximately what musical material is necessary. I proceed to search for this material while playing the great masters (to
activate myself), or I start immediately to improvise rhythmic units, based on provisional sequences of notes (which could become definitive). In this way, I give substance
to the material composition.  Igor Strawinsky à propos du procès de création dans: Gespräche mit Robert Craft, Zürich, 1961
26 László Krasznahorkai,
Seiobo There Below, 2008 27 Gerhard Richter,
Eisberg, 1982

Only the land remained, the silent order of

the mountains, the ground covered in fallen
dead leaves in the enormous space, a bound-
less expanse—disguising, concealing, hiding,
covering all that lies below the burning earth.

Soltanto la terra rimaneva, l'ordine silenzioso delle montagne, il terreno coperto di foglie morti cadute nell'enorme spazio, illimitato distesa che maschera, cela, nasconde,
copre tutto che si trova sotto la terra bruciante.  László Krasznahorkai, Seiobo There Below, 2008
28 Sigrid Hauser, Idee, Skizze, ... Foto: Zu Werk und
Arbeitsweise Lois Welzenbachers, Wien, 1990 29 Robert Altman, Film Still
from The Long Goodbye, 1973

Ein Raumbild oder eine Raumsituation übt

somit eine Wirkung aus, die eine Wahrneh-
mung oder auch eine Empfindung zur Folge
hat. Die Reaktion ist dann nicht willkürlich.
Die Wirkung geht oft von einem Detail aus,
das an sich unbedeutend erscheint, in diesem
Fall zum Beispiel Vordach, Stiegengeländer,
Tür, Balkon... Dadurch erhält die Raumfolge
Merkpunkte, sozusagen Zeichen, die in der
Erinnerung bleiben und Raumwahrnehmung
zu einem Erlebnis machen.

Un’immagine o una situazione nello spazio esercitano così un effetto che ha come conseguenza una percezione o una sensazione. Questa reazione non è arbitraria. L’ef-
fetto scaturisce da un dettaglio che di per sé sembrerebbe insignificante… ad esempio una pensilina, un parapetto, una porta, un balcone… La sequenza degli spazi è per
questo segnata da punti memorabili, si potrebbe dire simboli, che restano impressi e fanno della percezione dello spazio un avvenimento.  Sigrid Hauser, Idee, Skizze...
Foto: Zu Werk und Arbeitsweise Lois Welzenbachers, Wien, 1990
An image or situation in space thus exerts an effect that results in perception or feeling. This reaction is not arbitrary. The effect comes from a detail that in itself would
seem insignificant ... for example an overhang, a parapet, a door, a balcony... The sequence of spaces is thereby marked by memorable points (we could say symbols),
which remain imprinted on us and through the perception of a space, create an event.  Sigrid Hauser, Idee, Skizze... Foto: Zu Werk und Arbeitsweise Lois Welzenbachers,
Wien, 1990
30 Mies van der Rohe, Interview
with Peter Carter, 1961 31 Jürg Conzett, Flimser Wasserweg,
Graubünden, Switzerland, 2013

Berlage was a man of great seriousness who

would not accept anything that was fake and
it was he who had said that nothing should
be built that is not clearly constructed... The
Beurs has a medieval character without being
medieval. He used brick in the way the medi-
eval people did. The idea of a clear construc-
tion came to me there, as one of the funda-
mentals we should accept... It is very difficult
to stick to this fundamental construction,
and then to elevate it to a structure... I must
make it clear that in the English language you
call everything structure. In Europe we don't.
We call a shack a shack and not a structure.
By structure we have a philosophical idea.
The structure is the whole from top to bot-
tom to the last detail—with the same ideas.
That is what we call structure.

Berlage era un uomo di una serietà ferrea. Lavorava. E pretendeva un buon lavoro. Non accettava nulla che fosse falso. E questo mi chiarì che un buon lavoro, in effetti, sta
alla base dell’architettura, che non si doveva realizzare nulla che non fosse costruito con chiarezza... La Borsa, ha un carattere medievale senza essere medievale. Infatti usò i
mattoni allo stesso modo in cui li usavano nel Medioevo. L’idea di una costruzione chiara mi venne da lì come uno dei fondamenti del nostro operare... Ma è molto difficile
fissarsi su questa costruzione fondamentale ed elevarla a struttura. Devo spiegare che in inglese ogni cosa si chiama “struttura”. In Europa no. Una baracca la chiamiamo
una baracca, e non una struttura. Della struttura abbiamo una concezione filosofica. La struttura è tutt’uno, dalla testa ai piedi, fino al più piccolo dettaglio, e tutto con la
medesima idea. Questo è ciò che chiamiamo struttura.  Mies van der Rohe, Interview with Peter Carter, 1961
32 Michelangelo Antonioni, Quel Bowling sul
Tevere, Torino, Giulio Einaudi 1983 33 Catherine Opie,
Untitled #11, 2013

Una mattina di novembre di qualche anno fa

ero in volo sul’Asia centrale sovietica.
Guardavo il deserto sconfinato che delimita
a est il mare di Aral, biancastro e inerte,
e pensavo a l’aquilone, il film che avrei dovuto
girare in primavera da quelle parti. Una
favola, un mondo che non è mai
stato il mio, per questo mi piaceva. Ed ecco
che mentre sono su questa favola e la vedo
aderire docilmente al paesaggio sottostante,
mi sento scivolare verso pensieri lontani.
È sempre così. Tutte le volte che sto per
incominciare un film me ne viene in mente
un altro.

One November morning a few years back I was flying over Soviet Central Asia. I was looking out over the endless desert bounding the Aral sea to the east, white and sluggish,
and thinking of the film, The Kite, I’d be shooting in these parts next spring. A story, a world that’s never been mine, that’s why I like it. And while thinking of this story,
watching it obediently attach itself to the landscape, I felt my thoughts sliding far away. It’s always the same. Every time I start working on one film, another one comes to
mind.  Michelangelo Antonioni, That Bowling Alley on the Tiber, Oxford University Press (English Translation), 1986
34 Steen Eiler Rasmussen, Die Gegenwärtigkeit überlieferter Kunst, Festvortrag zur öffentlichen
Jahressitzung der Bayerischen Akademie der Schönen Künste, München, 15 Juli 1974 35 Hans Döllgast, Wiederaufbau des Alten
südlichen Friedhofs, München, 1954–1955

Überhaupt glaube ich, dass man mit den

überlieferten Werken sehr vorsichtig umge-
hen muss. Man soll reparieren und so wenig
wie möglich restaurieren. Denn wenn man
einmal in das historisch überlieferte Werk
eingegriffen hat, kann man es nie wiederher-
stellen... So müssen wir immer die überliefer-
ten Kunstwerke respektieren und aus ihnen
die Inspiration holen, die uns instand setzt,
aus ihrer Asche neue echte Werke aufsteigen
zu lassen.

In generale, credo che bisogna essere molto attenti con impianti tradizionali. Uno dovrebbe riparare e ripristinare il più possibile. Perché se si è intervenuto una volta nel
lavoro storicamente sopravvissuti, non si può mai ripristinarlo ... Quindi bisogna sempre rispettare l'arte tradizionale e trarre ispirazione da loro che ci rende riparato per
inviare nuove opere originali dalle sue ceneri.  Steen Eiler Rasmussen, Die Gegenwärtigkeit überlieferter Kunst, Festvortrag zur öffentlichen Jahressitzung der Bayeri-
schen Akademie der Schönen Künste, München, 15 Juli 1974
Basically, I believe that one must be very careful with traditional plants. One should repair and restore as little as possible. For once you have invaded the historically handed
down work, you can never restore it... So we always have to respect the traditions handed down and to draw inspiration from them that will help us to get new ashes from
their ashes.  Steen Eiler Rasmussen, Die Gegenwärtigkeit überlieferter Kunst, Festvortrag zur öffentlichen Jahressitzung der Bayerischen Akademie der Schönen Künste,
München, 15 Juli 1974
36 Louis I. Kahn, Tape 3, Side 1, Conversation with John W. Cook
and Heinrich Klotz, New Haven, USA, November 6, 1969 37 Akira Kurosawa, Film Still
from Dersu Uzala, 1975

When you saw the mountain or you saw the

firm ground, you knew that something was
possible. And this is a very good feeling be-
cause when you have to make something, and
you never have the tools, you only have the
nails, you have whatever it is, and you sense
a stream, or you sense a rock, or whatever it
is, or you see it, you have the feeling of the
possible, that is to say, once you think that
you live to express, you immediately see the
possible.

Quando si vede una montagna o un terreno solido, si percepisce che qualcosa è possibile. E questo è proprio un buon sentimento perché quando si deve fare qualcosa e
non si hanno tutti gli strumenti ma solo chiodi ad esempio, o qualunque altra cosa, e se si percepisce una corrente, una roccia o qualunque cosa sia, oppure se la si vede, si
ha l’impressione che sia possibile, sarebbe a dire che quando si vive per esprimere qualcosa, si vede immediatamente la possibilità di farlo.  Louis I. Kahn, Nastro 3, Lato
1, Conversazione con John W. Cook e Heinrich Klotz, New Haven, USA, 6 novembre 1969
 39 L’architettura suscita stati d’animo. Il compito degli architetti è dunque quello di puntualizzare
questi stati d’animo. Una stanza dev’essere confortevole, una casa accogliente. Un tribunale deve
apparire come un monito. Una banca deve dire: qui il tuo denaro è nelle mani di persone oneste e
ben custodito. L’architetto può raggiungere questo obiettivo soltanto rifacendosi a quegli edifici
che hanno già suscitato gli stessi stati d’animo. Per i cinesi, il colore della tristezza è il bianco,
per noi è il nero. Per i nostri architetti sarebbe dunque impossibile suscitare stati d’animo gioiosi
con il nero.  Adolf Loos, Trotzdem (1909), in Gesammelte Schriften 1900–1930, a cura di A.
Opel, Vienna 1982 (Innsbruck 1931), pp. 78–88

Il fenomeno “città” ha portato alla luce la strategia di vita adottata con grande successo dall’uo-
mo per generazioni e generazioni: quella di trarre grande beneficio dalla confluenza in struttu-
re ravvicinate. La prossimità spaziale consente di sfruttare le sinergie reciproche nei modi più


disparati, incrementando notevolmente il successo del singolo e della comunità. L’obiettivo è
utilizzare i punti di forza degli altri per i propri interessi, superare le proprie debolezze facendo
ricorso agli altri. In questo modo la produttività aumenta in modo esponenziale: la ripartizione

38 Pensare la città significa attingere del lavoro nella comunità consente di aumentare il rendimento. Il vantaggio della convivenza
ravvicinata non si limita tuttavia agli aspetti funzionali. Grazie al successo delle sinergie la cit-

alla memoria collettiva

tà acquista di per sé significato, che all’esterno si manifesta attraverso la sua forma. Per i suoi
abitanti si trasforma in identità, diventa l’oggetto della propria identificazione all’interno della
collettività sociale.
La città è l’espressione di una struttura collettiva, le cui fondamenta risiedono
nella cooperazione della comunità, che ne aumenta la qualità della vita. La città si è sviluppata in
questa direzione nell’arco di generazioni, in questo modo veniva e viene vissuta ed è il risultato
di una costante trasformazione: partendo da ciò che già esiste si adatta alle circostanze che cam-
biano nel corso del tempo. Le sue forme si manifestano sotto forma di tipologie in senso lato.
Hanno necessariamente qualcosa di universale e appartengono alla coscienza collettiva. Grazie
al suo carattere universale o comunitario, la città conserva quella polivalenza indispensabile per
poter dare sempre la risposta più adatta al nuovo che avanza.
Edifici e progetti di carattere sempre più individuale oscurano la struttura della
città, sono orientati soltanto verso se stessi e mirano a effetti individuali prestabiliti. In questo
modo trascurano il contesto, o meglio impediscono alla città di essere quel modello comunitario
che funziona da generazioni. Questa forte individualità fa mostra di sé stessa, soverchia la strut-
tura dei significati, trasforma la città in un ammasso di edifici autoreferenziali. La città diventa
così un accumulo di oggetti, che non deve però essere confuso con la poetica dell’Everyday: è
solo un accumulo di vanità.
Il progetto opposto è quello di concepire la città come un continuum, una strut-
tura urbana che con tutta la sua varietà si combina in un’entità sociale: convergenza anziché
divergenza. Centrale è l’idea di città come un ensemble, un complesso musicale in cui tutti gli
strumentisti si raccolgono. La partitura è incentrata su una concezione di lungo periodo della
cultura, della società, dell’urbanistica e dell’architettura, una concezione caratterizzata da una
relativa continuità e solidità. Soltanto così l’ambiente edificato può offrire alla società quel con-
testo vitale che contribuisce alla formazione di un’identità sostanziale e formale. Questo modo
di pensare in dimensioni culturali non può essere spiegato con un paio di semplici ricette, né
ridotto a una manciata di strategie formali, ma richiede piuttosto un profondo confronto con
noi stessi: dobbiamo capire in che modo percepiamo, in che modo pensiamo, in che modo co-
munichiamo. Tale comprensione ci aiuta ad anticipare e a progettare la città del futuro.
Per avvicinarci a questa concezione tratteremo soltanto alcuni aspetti della pro-
gettazione. E poiché i momenti di rottura sono spesso rappresentativi di particolari circostanze,
per prima cosa ci concentreremo sulla fase di rottura più radicale del secolo passato.Dopo la
catastrofe culturale della prima guerra mondiale, la società borghese salita al potere voleva libe-
rarsi delle vecchie strutture e creare un mondo conforme ai tempi, moderno, che si rispecchiasse
anche nella nuova architettura. Questa doveva affrancarsi dal linguaggio della vecchia società ed
essere espressione di un’arte con forme e tipologie nuove, adeguate alle conquiste della tecnica.
Nel 1923, nel suo scritto programmatico Vers une architecture, Le Corbusier accenna ai valori di
questa nuova società e invita a progettare gli edifici secondo i principi costruttivi degli avanguar-
distici transatlantici, dei nuovi aeromobili, delle autovetture. Anche la forma degli edifici deve
essere espressione delle nuove conquiste della tecnica. I progetti di Le Corbusier si schieravano
a favore di questo mondo nuovo, dominato dalla società industriale: la tecnica era in grado di
offrire una soluzione a qualsiasi problema, la fattibilità tecnologica diventava il requisito più im-
portante. Anche nelle illustrazioni che accompagnavano lo scritto veniva rappresentato questo
scenario ottimistico del futuro: in alcune fotografie del quartiere di Weissenhof appare davanti
agli edifici un’auto moderna, oltretutto guidata da una donna. Allora queste fotografie davano la
visione di una società all’avanguardia, che nel frattempo, per molti aspetti, è divenuta realtà. Gli
40
Bagni, Samedan, 2006–2009 Il bagno nel centro storico di Samedan cerca di inserirsi rispettosamente nel delicato contesto
della piazza del paese e nonostante una posizione prominente a diretto contatto con la chiesa, esso lascia il ruolo di attore principale alla chiesa stessa, senza rinunciare però
a mostare il significato culturale di un bagno pubblico nel contesto storico del villaggio. La scala dell’edificio così come la scelta accurata dei materiali integra perfettamente
la struttura nella situazione esistente, pur mantenendo un carattere autonomo e indipendente. Da una sala centrale si diramano scale quasi labirintiche, che conducono alle
diverse attrazioni, le quali ricordano l’avvolgente voluttà delle terme romane. Le stanze adibite al bagno si organizzano in verticale ad altezze diverse in una successione di
camere, ognuna con dimensione e allestimento proprio. Al primo piano si trova la vasca tiepida illuminata dall’alto con luce naturale e le stanze per i massaggi; al secondo
il percorso del bagno turco si racchiude sulla vasca sottostante a mo’ di patio. L’idromassaggio e la stanza per il relax offrono una vista panoramica sulle montagne dell’En-
gadina, grazie alle grandi finestre a tutt’altezza. All’ultimo piano è situata una vasca calda esterna e una terrazza attrezzata con sedie a sdraio permette di godere del sole
estivo.
41 edifici descritti rappresentavano il coraggio di “rompere” proprio della generazione tra le due
guerre. La caratteristica riduzione del linguaggio architettonico a un’estetica “tecnologica” esclu-
de completamente l’individualità locale: il funzionalismo è generalizzante e del tutto interscam-
biabile. Oggi si direbbe “globale”. Henry-Russell Hitchcock all’inizio degli anni Trenta del secolo
scorso coniò, con l’omonima esposizione newyorkese, il concetto di International Style, che però
non rende del tutto giustizia ai messaggi dei singoli protagonisti, soprattutto di quelli che vollero
lasciare un’impronta personale e ne misero pertanto in dubbio il carattere internazionale.
A questo proposito è interessante analizzare le costruzioni dell’architetto tiro-
lese Lois Welzenbacher. Casa Treichl a Innsbruck, realizzata nello stesso anno degli edifici di Le
Corbusier per il complesso di Weissenhof a Stoccarda, utilizza pienamente il vocabolario moder-
no. L’abitazione presenta una facciata sottile, una sorta di pelle, che incornicia formalmente il
salotto dal taglio curvo e con questa forma arrotondata si affaccia sul giardino. Gruppi di finestre
allineati suddividono come nastri la facciata in tre piani. La terrazza sul tetto e i balconi con i loro
parapetto simili a quelli delle navi caratterizzano il corpo modernista dell’edificio, il cui effetto è
ulteriormente accentuato dal colore bianco. Pur tuttavia la costruzione ha in sé qualcosa di scon-
certante, non vuole rientrare del tutto nel coro dei modernisti. Le file di finestre sono continua-
mente interrotte da linee verticali intonacate, e gli alti frontoni intervallati da finestre quadrate
rendono straniante il linguaggio architettonico. La chiave di questa contaminazione risiede nelle
tradizionali costruzioni delle città affacciate sull’Inn, in una regione in cui Lois Welzenbacher
è cresciuto. Nelle immagini del centro storico di Hall in Tirol, dove Welzenbacher ha iniziato
presto a costruire, si riconoscono edifici imponenti, le cui facciate, per ragioni di prevenzione
antincendio, nascondono i tetti spioventi e sono chiuse in alto da una cornice orizzontale.
Finestre circolari ripartiscono gli alti frontoni che vengono così a formarsi, e il-
luminano i locali retrostanti con il tetto a falde, nascosto ai passanti. Per Casa Treichl, Welzenba-
cher adotta sì il moderno linguaggio formale, rappresentativo del radicale cambiamento cultu-
rale, dell’architettura orientata al futuro e di una vita moderna, ma allo stesso tempo localizza
il suo progetto nel contesto con riferimenti mirati. Lega il progetto al suo ambiente culturale e
soprattutto ne garantisce la leggibilità attenendosi al linguaggio locale. La casa sembra estranea
e familiare allo stesso tempo. Oscilla tra questi poli, è sia questo sia quello. La familiarità invita
l’osservatore a entrare, lo straniamento mette in dubbio ciò che è totalmente consueto e contem-
poraneamente erige un nuovo riferimento culturale. Questo edificio fu l’unico esempio austriaco
pubblicato nel libro The International Style di Henry-Russell Hitchcock, che tuttavia aggiunse
nella didascalia un commento critico, dettato dalla sua ottica funzionalista: “The curved corner
cannot be justified by function nor does it appear necessary to the design” (l’angolo curvo non
può essere giustificato dalla funzione né appare necessario al progetto). Il critico internazionale
non conosceva i riferimenti locali di Welzenbacher.
L’osservazione è estremamente utile ai fini della discussione sull’adeguatezza di
una scelta formale in fase di progettazione. Ma prima concentriamoci su alcuni aspetti cruciali
del nostro mestiere. Le origini dell’edilizia derivano dal bisogno elementare dell’uomo di pro-
teggersi dalle inclemenze della natura. In primo luogo, si tratta di reagire alle condizioni clima-
tiche, affinché l’uomo possa condurre la sua vita anche nelle circostanze più avverse. In secondo
luogo, si tratta di proteggere il giaciglio per la notte. L’attribuzione di un posto fisso al giaciglio
notturno come conseguenza della sedentarizzazione portò alla nascita della dimora, costituita da
pavimento, pareti e tetto: si sviluppò così quella struttura che oggi chiamiamo “casa”. Essa sod-
disfa tutte le esigenze vitali di un nucleo famigliare. Possiamo sviluppare ulteriormente questo
pensiero: nel gruppo, l’edificio diventa insediamento, le costruzioni sfruttano reciprocamente la
sinergia derivante dalla prossimità. Le reti esistenti tra gli insediamenti, come le vie di comuni-
cazione, le condutture elettriche o i flussi di dati, li collegano formando un unico sistema di spazi
vitali. Gli interventi sul paesaggio rendono fisicamente visibile l’impiego del territorio come spa-
zio di vita dell’uomo. Esso diventa paesaggio antropizzato, che si sviluppa secondo lo specifico
modus vivendi dei suoi abitanti. Potremmo considerare gli interventi umani come le impronte
della vita sul paesaggio. La questione riguarda quindi il carattere del paesaggio, la forma specifica
della città e la tipologia degli edifici. E ancora: nella configurazione delle piante e delle sezioni
si riflette la vita nelle sue numerose forme. Si può dedurre il modo in cui si cucina o si lavano i
piatti, come si lavora e come si convive. Con la cultura architettonica il modo di vivere si cristal-
lizza nella materia. Mentre la vita è per natura fugace, e permane soltanto nel ricordo, l’edificio
in quanto materia perdura nel tempo. Insieme all’edificio resta visibile la forma del vivere, anche
quando le persone coinvolte non esistono più. In questo senso l’edilizia è uno dei modi per ri-
cordare la cultura umana.
Sulla base dei nostri ricordi interpretiamo le nostre percezioni sensoriali. Le
esperienze accumulate nel corso di una vita ci forniscono i mezzi per decodificare ciò che vie-
ne percepito e inserirlo in un sistema di correlazioni più ampio. Questo processo, che consiste
nel trasformare la percezione in consapevolezza, è anzitutto individuale: possiamo mettere in
42
Residenza per anziani Spirgarten, Zurigo, 2004–2006 La residenza per anziani Spirgarten a Zurigo-Altestetten ricerca attraverso la sua espressione
architettonica, da un lato, una indipendenza di carattere che diventa identità stessa dell’istituzione; dall’altro gioca con le reminiscenze architettoniche dell’ampliamento
della città durante la metà del secolo scorso, integrandosi in questo modo nel centro di Zurigo-Altestetten. La volumetria dell’edificio risponde attraverso la propria ar-
ticolazione alla scala urbana della città. Dal lato della Spirgartenstrasse le facciate strette con i loro cinque piani definiscono l’accesso alla corte; al contrario il lato della
Badenerstrasse è sottolineato dal lungo prospetto che vi si affaccia. I piani superiori sono organizzati con appartamenti da entrambi i lati del corridoio, il quale si apre in
corrispondenza delle scale offrendo uno spazio di riposo con la possibilità di sedersi e, grazie alle grandi finestre, di lanciare uno sguardo alla corte. Agli appartamenti si
accede attraverso un ingresso che collega i servizi, quali il bagno e la cucina e conduce poi nella stanza principale. L’ultimo piano accoglie la terapia intensive, organizzando
gli spazi a ferro di cavallo e racchiudendo in questo modo la sala da pranzo comune e la terrazza.
43 relazione le sensazioni con la realtà soltanto se la nostra percezione è legata a un ricordo. Noi
confrontiamo la percezione con il ricordo e ne ricaviamo un quadro della realtà. Così facendo
sfruttiamo la capacità umana di analizzare rapidamente le caratteristiche essenziali di ciò che è
percepito. Confrontandolo con l’esperienza non rileviamo soltanto ciò che è uguale e ciò che è
diverso, ma individuiamo anche l’affinità delle caratteristiche, le somiglianze formali e le analogie
sostanziali. In questo modo non riusciamo soltanto a riconoscere, ma siamo anche in grado di
interpretare il nuovo confrontandolo con caratteristiche affini. Mediante questo processo intel-
lettuale la percezione si discosta da una prospettiva volta al solo passato: la capacità di associa-
zione ci apre una finestra sul nuovo.
Durante la progettazione, è sempre l’idea architettonica a essere in primo piano,
ed è in base a questa che si sceglie il materiale adatto? Oppure si raccoglie prima il materiale,
secondo criteri puramente associativi, per poi metterlo in relazione a posteriori, in modo da
rendere visibile un’idea coerente? Che cosa avvenga, in quale forma e in quale sequenza durante
il processo di progettazione non è tanto rilevante; molto più importante è che venga formulata
un’idea di ordine più generale: il tema del progetto, che guida l’intero processo. Io considero
l’idea alla base del progetto come l’anima che nutre di contenuti l’edificio ed è sempre presente.
Il progetto inizia sul posto: rivolgiamo uno sguardo contestuale al territorio.
Cerchiamo di comprendere la sua storia specifica, di coglierne la presenza e di ricavarne infor-
mazioni. Si tratta quindi di afferrare l’essenziale del luogo, estrapolarlo e costruirvi la base del
progetto. Anche la finalità di un edificio impone norme vincolanti, che derivano dall’ambiente
culturale e seguono sempre gli sviluppi sociali. Nascono così tipologie a cui ci si può opporre sol-
tanto con una giusta motivazione. Noi, con il nostro mestiere di progettisti, siamo infatti inseriti
in un ambiente sociale e su questa base operiamo. Indipendentemente da quali nostre preferenze
influenzino il progetto, ci muoviamo comunque in un contesto urbano e culturale concreto, in
cui il progetto deve trovare il suo posto e perdurare. In fase progettuale, il grado di avvicina-
mento al contesto, dalla totale familiarità del nuovo nel contesto del vecchio fino al massimo
effetto di straniamento, è il risultato di scelte consapevoli. Tali scelte devono però essere sempre
viste in relazione al contesto, e in questo la dinamica non è dissimile da quella riscontrabile
nei rapporti interpersonali: vogliamo attenerci alle regole sociali oppure infrangerle in maniera
consapevole? Per noi il criterio decisivo è l’adeguatezza dell’intervento. Da essa derivano precise
norme, che nel caso dell’architettura portano a una rispettosa vicinanza e convivenza degli edi-
fici. L’interazione tra progetti architettonici di diversa paternità e di diversa epoca viene da noi
definita ensemble architettonico. L’architettura è un artefatto a più strati: è al contempo merce,
bene di consumo, portatrice di significato e struttura estetica. In ognuno di questi ambiti segue
una grammatica propria. Così come da piccoli dobbiamo apprendere la nostra lingua per poter
comunicare, allo stesso modo dobbiamo studiare a fondo i sistemi dell’architettura per poter co-
struire e “parlare”. Tuttavia parliamo contemporaneamente con tonalità e dialetti differenti. E di
conseguenza il parlato può essere compreso soltanto conoscendo numerosi sistemi. Per questa
ragione il progetto deve presentare una densità contenutistica distribuita su numerosi livelli di-
versi. In questo modo acquista in significato, e può conservarlo anche qualora cambino le circo-
stanze. La percezione dell’ambiente è un processo autodidattico che dura una vita, raffinandosi
costantemente e adattandosi a ciascuna situazione. Si basa sul ricordo personale, ma prende in
considerazione anche la memoria collettiva, che dipende dal nostro contesto sociale. Questo si
riallaccia alla citazione iniziale di Adolf Loos: per poter trasmettere al contesto il messaggio del
nostro lavoro di progettazione, dobbiamo attingere a questa coscienza collettiva. Soltanto così i
nostri messaggi possono essere recepiti.
Per poter raggiungere una concretezza sempre maggiore, durante la progetta-
zione compiamo un continuo processo di richiamo alla memoria. In gran parte, però, i ricordi
sono trasfigurati e tendenziosi, cambiano di pari passo con la nostra biografia e con le nostre
esperienze. Il ricordo non è identico all’originale, diciamo piuttosto che è analogo. Modificato o
straniato dalle proiezioni dell’Io, dà vita a una nuova realtà virtuale. Nel ricordo la forma viene
ampliata, rimodernata e interpretata diversamente. Non viene riprodotta in sé e per sé: nel ricor-
do, la forma nuova conserva un legame composito con la forma originale. L’uso di immagini ci
aiuta a comunicare le nostre idee. A tale scopo possiamo sia usare immagini nel senso di paragoni
linguistici sia descrivere per mezzo di immagini concrete – nel senso di esempi – gli aspetti della
nostra idea e puntualizzare ciò che ci interessa, ciò che è essenziale. Se per esempio parliamo di
un Biergarten, la maggior parte delle persone si immagina la seguente situazione: un luogo albe-
rato con pavimento ghiaioso, tavoli di metallo e sedie pieghevoli a listelli in legno, birre fredde
e Brezel salati. Questa “immagine” si alimenta di esperienze personali impresse nella memoria:
ognuno ha le sue, ma per la maggior parte delle persone l’essenziale più o meno corrisponde.
La percezione dell’architettura è quindi sempre impregnata di ricordi. Quando progettiamo, fac-
ciamo sempre riferimento a cose già pensate e costruite. Non si tratta di una competizione, ma
piuttosto di un dialogo critico con ciò che già esiste. La questione tra originalità e plagio non si
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Hotel Waldhaus, Sils-Maria, 1998– Costruito nel 1908 da Karl Koller, l’Hotel Waldhaus di Sils-Maria è un importante testimo-
nianza dei Grandhotel engadinesi del secolo scorso. L’edificio, nonostante le numerose modifiche, è riuscito a mantenere il suo forte carattere. Compito di questa ristruttu-
razione è stato introdurre nell’antico Salone un bar, una nuova sala, ripristinare l’originaria sala di lettura e le stanze di servizio con i relativi impianti tecnici. Al pianterreno,
sotto la roccia esistente, sono state costruite nuove sale conferenze, installazioni sanitarie ed altre stanze di servizio. Scopo del progetto è mantenere ed integrare il carattere
forte dell’hotel. I nuovi spazi sono stati cautamente inseriti nella struttura esistente al fine di sfumarne le tracce. Dal punto di vista formale il lavoro rimane pero’ leggibile,
evitando falsi camoufflage. Il nuovo bar si inserisce in una sala esistente, i cui elementi spaziali sono stati rinnovati e liberati da orpelli e superfetazioni. Adiacenti si trovano
il servizio di sala ed il Foyer, la cui espressione architettonica si esprime come una continuazione contemporanea del tema. L’antica sala di lettura riprende il suo significato
in un nuovo luogo, attraverso tre finestre che si aprono verso sud e mostrando nient’altro che roccia; culmina cosi la messa in scena tematica dell’hotel.
45 pone. L’osservazione critica di ciò che esiste esclude il plagio, così come anche la totale origina-
lità di un edificio preclude una seria relazione con il contesto. Occuparsi di architettura significa
assumersi una responsabilità nei confronti del nostro spazio vitale e richiede una profonda co-
noscenza dei fondamenti della nostra cultura architettonica.
Un edificio che serva a uno scopo preciso, oltre alle sue caratteristiche funzio-
nali ha anche una forma. Tale forma è in relazione alla destinazione d’uso della costruzione, ma
è anche espressione di significati che rimandano ai contenuti culturali. Pertanto la forma ci dice
anche qualcosa sull’effetto, sull’utilità pubblica e molto altro. Sono soprattutto i significati defi-
niti in modo univoco dalla società a essere immediatamente deducibili. Spesso però i contenuti
sono organizzati in più livelli, dietro a un significato se ne nasconde un altro, che a seconda
del contesto può essere più o meno rilevante. Sovente non riusciamo a risalire all’origine della
forma, eppure se non ci fosse ci accorgeremmo della sua mancanza. È come la stretta di mano
quando ci si saluta: ormai è difficile dire perché ci stringiamo la mano, ma sappiamo che lo fac-
ciamo perché lo richiede una convenzione sociale. Se ci rifiutassimo, infrangeremmo un costume
sociale, scatenando una qualche reazione di rimando. Quando ci confrontiamo con la moda, la
gastronomia, la musica o appunto l’architettura, scambiamo significati. Possiamo procedere in
modo integrativo, ma anche infrangere provocatoriamente il common sense – approccio che è
comunque da intendersi come una presa di posizione.
Quando gli edifici sono in grado di creare una relazione con il contesto topogra-
fico, urbano e culturale grazie alla loro forma e al loro aspetto, si inseriscono in una struttura di
significati già esistente. Questo inserimento nella coscienza collettiva aumenta la leggibilità delle
costruzioni, che in questo modo si spiegano da sé, almeno in parte, e guadagnano in immedia-
tezza. Se dovessimo immaginarci l’aspetto di una casa sulla luna, forse ci verrebbero alla mente
immagini di costruzioni rigonfie, con forme circolari e indipendenti, che si stagliano su un pae-
saggio inospitale e comunicano autonomia. Questa forma potrebbe trovarci tutti d’accordo. Ma
potrebbe essere anche diversa? Certo: quella descritta corrisponde a un’immagine che si è ormai
impressa nella nostra coscienza collettiva grazie alle descrizioni o alle illustrazioni di fantascien-
za. Riconosciamo il linguaggio delle forme e siamo in grado di attribuirgli un significato. È come
con la lingua: quando sappiamo attribuire un significato alle parole e usare una grammatica con-
divisa, allora sappiamo parlare. Se capiamo i significati di una forma, attraverso di essa possiamo
trasmettere i suoi contenuti, a condizione che appartengano a un sistema di valori collettivo.
Un edificio non è bello o brutto a priori, la ricerca di una valenza estetica as-
soluta è fuorviante in questa complessa relazione tra i significati. Tuttavia, tale valenza non è
neanche una questione di gusto, affidata al singolo individuo. L’estetica deve essere intesa come
funzione della percezione collettiva e può cambiare in base al contesto sociale nel corso del tem-
po. Lo stesso succede nel mondo della moda con l’abbinamento dei colori: fino a pochi anni fa
l’abbinamento di marrone e blu era considerato di cattivo gusto, oggi è ampiamente accettato e
rientra in una sensibilità estetica collettiva. In passato la combinazione di questi colori non era
familiare e non si inseriva nella grammatica della moda. Essendo cambiata la sensibilità, questo
abbinamento ricorre più di frequente, si integra nella coscienza collettiva e così diventa più fa-
miliare, cioè possibile.
Opposto a quello appena descritto è il fenomeno per cui spesso, in una certa
misura, smettiamo di percepire ciò che ci è familiare, che incontriamo ogni giorno e non met-
tiamo più in dubbio. Succede per esempio con la sequenza dei negozi sulla strada per andare al
lavoro, che soltanto in parte siamo in grado di ricapitolare: ci vengono in mente soltanto i negozi
più particolari. Se però un negozio che ci è familiare chiude o una casa viene demolita, ce ne
accorgiamo subito. Tra ciò che è familiare e l’osservazione contingente sorge una differenza, che
si insinua nella nostra consapevolezza e richiama la nostra attenzione. Qualcosa di simile accade
con le arti figurative: nell’intenzionale straniamento da una situazione, nell’esclusione o nell’in-
serimento, nella sovrapposizione o nell’astrazione la realtà viene inserita in un contesto diverso,
facendo nascere una differenza che per la prima volta ci rende consapevoli della nostra perce-
zione della realtà. L’entità della differenza è variabile; più è grande, più ci appare evidente. Meno
è appariscente, più il suo effetto è sconcertante. Bisogna notare che la prima strategia viene sì
percepita in modo univoco, ma rischia con la sua evidenza di essere d’intralcio. La seconda invece
può passare inosservata e rilevata soltanto alla seconda o terza volta. La finezza del cambiamento
nasconde una polivalenza di significati e di conseguenza può essere veicolo di poesia.
Alla base di un progetto durevole c’è una soluzione di principio a bisogni di
natura urbanistica, architettonica o costruttiva. Le tipologie architettoniche costituiscono le
fondamenta su cui si sviluppa il progetto. Se tuttavia si mantiene soltanto a livello di principio,
il progetto non si smuove dalle strutture già note. Non si allontana dalla consuetudine. Sovrap-
poniamo alle cose che diamo per scontate altri aspetti, che noi vi associamo, e in questo modo
ampliamo la gamma dei significati del progetto, che acquisisce così una polivalenza di significati.
Incrementando gli strati di significato conferiamo solidità al progetto, anche di fronte a cam-
46 47 biamenti dettati dal tempo. I rapporti potranno mutare, ma il progetto continuerà a dare una
risposta valida alle domande che via via sorgeranno. Funziona come con il genoma umano, che
nell’insieme contiene molte più informazioni di quelle davvero necessarie per la nostra sopravvi-
venza. Con il passare del tempo però alcune parti dell’informazione genetica in eccesso possono
dare origine a una caratteristica fondamentale per la sopravvivenza. Se queste parti non esistes-
sero, l’uomo sarebbe meno equipaggiato per la vita. Queste informazioni consentono la soprav-
vivenza degli esseri viventi sul lungo periodo. Sovrapporre a ciò che è familiare aspetti associati
non serve solo a creare una molteplicità di contenuti, come abbiamo appena spiegato. Nel caso
dello straniamento, la sovrapposizione contribuisce ad acuire lo sguardo su ciò che è familiare
attraverso la differenza. Relativizzare le cose che diamo per scontate ne rende visibile l’essenza:
possiamo prendere coscienza di ciò che è fondamentale.
Quanto detto racchiude tuttavia una latente fragilità, che consiste in un’oscilla-
zione di significati, interpretabile come una deplorevole indecisione. Non si tratta però di un’in-
capacità di decisione, quanto piuttosto di una consapevole indulgenza verso l’“o ... oppure ...” e
il “sia ... sia ...”, nel cui cangiantismo si riflettono le sfaccettature culturali del progetto e si rivela
l’essenziale. Tale cangiantismo riflette anche la natura aperta tipica della concezione collettiva di
“città” descritta all’inizio. Essa ammette una polivalenza di significati oscillanti e in questo modo
acquista in rilevanza. Non si tratta di ricercare l’univocità dell’artefatto individuale: l’urbanistica
richiede piuttosto una riscoperta della forza dell’urbanità mediante ensemble di progetti ambi-
valenti.

Les abeilles pilotent de ça de là les fleurs, mais elles font après le miel qui est tout leur,
ce n’est plus ni thym ni marjolaine.
Le api saccheggiano i fiori qua e là, ma poi fanno il miele, che è tutto loro,
non è più timo né maggiorana.

Michel de Montaigne, Essais, libro 1, cap. 26, De l’institution des enfants

Quintus Miller,
Basilea, agosto 2012

Estratto dal libro “And Now the Ensemble!!!”, Edited by Miroslav Sik and the Swiss Arts Council Pro
Helvetia, Lars Müller Publishers, 2012

Vecchio ospizio, San Gottardo, 2008–2010 La presenza dell’antico edificio alberghiero nel territorio viene elevata tramite un’addizione
che consapevolmente aumenta il volume in altezza: al significato del vecchio ospizio situato nell’alto del passo viene data una forma architettonica. Consapevolmente ven-
gono lasciati leggibili tutti gli strati della sua storia: le finestre raccontano del passato ricco di cambiamenti, e pure anche l’intonaco fa vedere i segni del tempo. Sui vecchi
muri dei piani più bassi si trovano superfici diverse di epoche diverse, e sopra di loro, l’addizione viene trattata con un intonaco il più fedele possibile all’originale composto
da una miscela di calce e sabbia. Questa sorta di patchwork risulta però nell’edificio come un insieme, e lo porta ad un’espressione naturale e complessa. Il grande tetto in
metallo rinforza ancora di più questa forte identità. All’interno, le tracce del tempo causate da incendi e demolizioni sono molto meno visibili. Lì s’inserisce una costruzione
massiva in legno, il quale carattere e tecnica di costruzione si riferisce alle architetture alpine. La rinnovazione del vecchio ospizio oscilla tra la storia e la sua interpretazione
contemporanea, avanti e indietro, essendo però comunque sempre dedicato all’effetto d’insieme, dove lo storico e il contemporaneo si sciolgono in un’unica ed identifica-
bile cosa.
 Alberghi, Terme & Bagni

The bath and its purposes have held different

meanings for different ages. The manner in
which a civilization integrates bathing within
its life, as well as the type of bathing it
prefers, yields searching insight into the inner
nature of the period... The role that bathing
plays within a culture, reveals the culture's
attitude toward human relaxation. It is a
measure of how far individual well-being is
regarded as an indispensable part of
community life.  The Mechanisation of the
Bath, Sigfried Giedion, 1948
Il bagno e le sue finalità hanno avuto significati diversi per diverse età. Il modo in cui una civiltà integra il bagnarsi nella sua vita, così come il tipo di bagno che preferisce,
produce una ricerca intuitiva sulla natura interiore del periodo (...). Il ruolo che la balneazione gioca in una cultura rivela l'atteggiamento della cultura verso il rilassamento
umano. Si tratta di una misura di quanto il benessere individuale sia considerato come una parte indispensabile della vita della comunità.  Meccanizzazione del bagno,
Sigfried Giedion, 1948
 51

50 Iconografia tematica

Edoardo Gellner, Corte di Cadore, Belluno, Italy, 1954-1963  Sir Lawrence Alma-Tadema, 'A Favourite Custom', 1909  Geoffrey Bawa, de Soysa House, Colombo, Sri
Lanka, 1985-1991

Csete György, Fountain, Orfű, Baranya, Hungary, 1974  Frank Lloyd Wright, Huntington Hartford Resort, Hollywood, California, 1947
52 53

Bruno Morassutti, Unità residenziali "Le Fontanelle", San Martino di Castrozza, Trento, Italia, 1964  Josef Wiedemann, Heilige Dreifaltigkeit Church & Monastery, Karoly Kos, Varjúvár ("Crow Castle"), Stana, Salaj, Romania, 1910  Franz Baumann, Bergstation-Hafelekar, Nordkettenbahn, Innsbruck, Österreich, 1930  J. S. Siren,
Nymphenburg, Munich, Germany, 1960-1964 La Maison Bleue, Borgholm, Finland, 1938-1939

Johann Georg Gsteu, Bildhauerunterkunft für das Bildhauersymposion, Sankt Margarethen im Burgenland, Österreich, 1962–1968  Kozma Lajos, Bath House, Lupaszi- Henry Jacques Le Même, Le chalet de la princesse Angèle de Bourbon, Mont d’Arbois, France, 1928-1929  Raymond Depardon, 'Big Sur, California, Nov. 1982', 1982 
get, Budakalász, Hungary, 1934  Togo Murano, New Takanawa Prince Hotel, Tokyo, Japan, 1982 'Yu no ka' (Il Profumo del Bagno), Giappone, 1930
54 55

Andrej Tarkowskij, Bagno Vignoni, 1979-1982  Franz Baumann, Adambräu, Innsbruck, Österreich, 1935  Rudolf Olgiati, Mehrfamilienhaus 'Casa Radulff', Flims-Wal-
dhaus, Switzerland, 1971-1972
Clemens Holzmeister, Alpenhotel für Tirol, 1913  Vittorio Giorgini, Hexagon, Baratti, Italy, 1957  Particolare di una cupola in un bagno turco
Kiyoshi Seike, Prince Hotel, Nojiriko, Nagano, Japan, 1984  Hans Leuzinger, Ferienhaus 'Uf dr Höchi', Blick aus dem Wohnzimmer, Braunwald, 1927  Alvar Aalto,
Color Scheme for Sanatorium, Paimio, Finland, 1929-1933
Gustav Ammann, Park des Arbeiter-Ferienheims SMUV Vitznau, Hotel und Bocciabahn, Vitznau, Luzern, CH, 1938-1940  Leonard Koran, Pagine di “Undesigning the
Bath”, Stone Bridge Press, 1996
56 57

Felix Vallotton, The Turkish Bath, Paris, 1907  A. James Speyer & David Haid, Rose House, Highland Park, Illinois, USA, 1953  Antike Welt 1977, Pianta del Bagno di Robert Abegg, Casa Vitelleschi, Moscia-Ascona, Ticino, Switzerland  Rikard Marasović, Children’s Maritime Health Resort, Krvavica, Croatia, 1961
Gortys, Arcadia, Grecia
Otto Senn, Bartningallee 12, Hansaviertel, Berlin, Germany, 1957  Jean-François Zevaco, Piscine Circulaire, Sidi Harazen, Maroc, 1975  Vittorio Bonadè Bottino,
Lois Welzenbacher, Haus Rosenbauer, Blick von Balkon nach Süden, Pöstlingberg in Linz, Österreich, 1929–1930  Yoshiro Taniguchi, Hotel Okura, Tokyo, Japan, 1962 Colonia Fiat, Torre Balilla, Sauze d’Oulx, Val di Susa, Italy, 1937
58 59

Álvaro Siza Vieira, Llobregat Sports Centre, Barcelona, Spain, 2005  "We Will Remake This", Reconstruction of a bedroom from the Vienna apartment of Adolf & Lina
Loos, Vienna, Austria, 1913 Adrien Fainsilber, Unknown  Luigi Moretti & Oscar Ferrari, Thermae Bonifacio, Fiuggi, Lazio, Italia, 1964-1965  Kelly Klein, 'Pools', Alfred A. Knopf, NYC, 1992

Gustav Ammann, Wohlfahrtsgarten der Firma Bührle, Pergola und Mauerwerk, Zürich, 1941-1942  Tadao Ando, Benesse House Hotel, Naoshima, Setouchi, Japan, Luigi Caccia Dominioni con Francesco Somaini, Villa Somaini, Corso Italia 22, Milano, Italia, 1961-1962  Kiyonori Kikutake, Pacific Hotel (Plan), Chigasaki, Kanagawa,
1992-1995  Rudolf Gaberel, Liegehalle der Chirurgischen Klinik der Zürcher Heilstätte in Davos-Clavadel, Schweiz, 1927-1928 Japan, 1966  Alvar Aalto, Entrance, Hansaviertel Housing, Berlin, 1955-1957
60 61

Clinique "Les Frênes", H. & C. Chaudet Frères, Leysin, 1907-1909  Kelly Klein, 'Pools', Alfred A. Knopf, NYC, 1992
Hotel Mont-Parnes, Athens, Greece  Werner Düttmann, Bibliothek, Hansaviertel, Berlin, 1957  Fonti termali di Pamukkale, Turchia
Pipilotti Rist, Film still from 'Sip My Ocean', New York, 1996  Marwan Al-Sayed, Wendell Burnette & Rick Joy, Amangiri Resort, Utah, USA, 2009  Kiyoshi Seike,
Unknown  George Nakashima, Pool House, New Hope, Pennsylvania, USA, 1960  John Portman, Renaissance Center, Detroit, Michigan, USA, 1977 Prince Hotel, Nojiriko, Nagano, Japan, 1984
62 63

Bruno Morassutti, Unità residenziali "Le Fontanelle", San Martino di Castrozza, Trento, Italia, 1964  John Lautner, Arango House, Acapulco, Mexico, 1971-1972 
Félix Vallotton, 'Bain au soir d'été', 1892  Kevin Roche & John Dinkeloo, Richardson-Vicks Headquarters, Wilton, Connecticut, USA, 1975 James Turrell, Stone Sky, Calistoga, California, USA, 2005

Chand Baori, India  Martin Parr, Lauttasaari: Sauna Society, Helsinki, 2011  William Turnbull, Jr., Unknown Luigi Ghirri, Pensare per Immagini, Tellaro, 1985  Rác Turkish Bath, 16th century, Extension and alterations by Ybl Miklós in 1864-1865, Budapest, Hungary
64 65

Togo Murano, Grand Prince Hotel, Kyoto, Japan, 1986  N. Tchmutina & V. Shtolko, Resort Hotel "Tarasova Gora", Kaniv, Ukraine, 1961
Jože Plečnik, Kraljevi (Karadžordžev) Lovski Dvorec, 1933  Kelly Klein, 'Pools', Alfred A. Knopf, NYC, 1992  Guy Le Querrec, XIV Allatkerti ut 11, Budapest, 1980
Gottfried Böhm, Elderly Housing, Düsseldorf-Garath, Germany, 1966-1968  Peter Zumthor, Renovated Room at Hotel Therme, Vals, Graubünden, Switzerland, 2006-
Hermann Czech, Palais Schwarzenberg, Vienna, Austria, 1982–1984  Kevin Roche & John Dinkeloo, Union Carbide Headquarters, Danbury, CT, USA, 1982 2010  Eero Saarinen, Dining Hall at Morse and Ezra Stiles Colleges, Yale, New Haven, Connecticut, USA, 1962
66 67

Lois Welzenbacher, Siedlung Reichenau, Innsbruck, Österreich, 1922-1923  Peter Zumthor, Changing Rooms, Thermal Baths, Vals, Graubünden, Switzerland, 1996 
Gio Ponti, Hotel Parco Dei Principi, Sorrento, Italy, 1960-1961
Wassili Luckhardt, Formphantasie, 1920  Verner Panton, Spiegel Publishing House, Hamburg, 1969  Martin Parr, Kilcullen’s Hot Sea Water Baths, Ireland, 1983
Terunobu Fujimori, Student Dormitory for Kumamoto Agricultural College, Kumamoto, Japan, 2000  André Farde, Solarium Tournant, Aix-les-Bains, Savoie, France,
1928  Kiyonori Kikutake, Pacific Hotel, Chigasaki, Kanagawa, Japan, 1966 Kelly Klein, 'Pools', Alfred A. Knopf, NYC, 1992  Ralph Erskine, Aula Magna, Stockholms Universitet, Akademiska hus, Sweden, 1997
68 69

Alvaro Siza Vieira, Termas de Pedras Salgadas, Chaves, Portugal, 2012  Leo Wehrli, Gafsa, Antikes Thermalbad-Bassin, Zurigo, 1935  Donne nella piscina dell’ospedale Arne Jacobsen, SAS Royal Hotel, Copenhagen, Denmark, 1956–1960  Martine Franck , Swimming Pool, Le Brusc, France, 1976
dei poveri, Leukerbad, 1976
Franz Baumann, Sporthotel Monte Pana, St. Christina/Gröden, Österreich, 1930  Mike Nichols, Film still from 'The Graduate', 1967  Mosaici, Terme di Caracalla,
Kaija & Heikki Siren, Villa Siren, Lingonso, Barösund, Finland, 1966–1969  Luis Barragán, Casa Gilardi, Ciudad de México, 1976 Roma, Italia, 211-217
 71 'Gothic Architecture'
William Morris, 1889
By the word Architecture is, I suppose, com-
monly understood the art of ornamental build-
ing, and in this sense I shall often have to use
it here. Yet I would not like you to think of its
productions merely as well constructed and
well proportioned buildings, each one of which
is handed over by the architect to other artists
to finish, after his designs have been carried out
(as we say) by a number of mechanical work-
ers, who are not artists. A true architectural
work rather is a building duly provided with
all necessary furniture, decorated with all due
ornament, according to the use, quality, and
dignity of the building, from mere mouldings
or abstract lines, to the great epical works of
sculpture and painting, which, except as dec-
as the present state of society lasts; but as I am
sure that great changes which will bring about a
new state of society are rapidly advancing upon
us, I think it is a matter of much importance
that these two revolts should join hands, or at
least should learn to understand one another. If
the New society when it comes (itself the result
of the ceaseless evolution of countless years of
tradition) should find the world cut off from all
tradition of art, all aspiration towards the beau-
ty which man has proved that he can create,
much time will be lost in running hither and
thither after the new thread of art; many lives
will be barren of a manly pleasure which the
world can ill afford to lose even for a short time.
I ask you, therefore, to accept what follows as a
contribution toward the revolt against utilitar-
ianism, toward the attempt at catching-up the
slender thread of tradition before it be too late.
Now, that Harmonious Architectural
unit, inclusive of the arts in general, is no mere
dream. I have said that it is only in these later


orations of the nobler form of such buildings, times that it has become extinct: until the rise
cannot be produced at all. So looked on, a work of modern society, no Civilisation, no Barba-
of architecture is a harmonious co-operative rism has been without it in some form; but it

70 Passaggi letterari di W. Morris, A. work of art, inclusive of all the serious arts, all
those which are not engaged in the production
reached its fullest development in the Middle
Ages, an epoch really more remote from our

Loos, B. Reichlin, J. Gubler, B. Taut

of mere toys, or of ephemeral prettinesses. modern habits of life and thought than the old-
Now, these works of art are man's ex- er civilisations were, though an important part
pression of the value of life, and also the pro- of its life was carried on in our own country by

& E. Faroldi duction of them makes his life of value: and

since they can only be produced by the general
good-will and help of the public, their contin-
men of our own blood. Nevertheless, remote as
those times are from ours, if we are ever to have
architecture at all, we must take up the thread
uous production, or the existence of the true of tradition there and nowhere else, because
Art of Architecture, betokens a society which, that Gothic Architecture is the most complete-
whatever elements of change it may bear within ly organic form of the Art which the world has
it, may be called stable, since it is founded on seen; the break in the thread of tradition could
the happy exercise of the energies of the most only occur there: all the former developments
useful part of its population. tended thitherward, and to ignore this fact and
What the absence of this Art of Archi- attempt to catch up the thread before that point
tecture may betoken in the long run it is not was reached, would be a mere piece of artificial-
easy for us to say: because that lack belongs ity, betokening, not new birth, but a corruption
only to these later times of the world's histo- into mere whim of the ancient traditions.
ry, which as yet we cannot fairly see, because
they are too near to us; but clearly in the pres-
ent it indicates a transference of the interest
of civilised men from the development of the
human and intellectual energies of the race to
the development of its mechanical energies. If
this tendency is to go along the logical road of
development, it must be said that it will destroy
the arts of design and all that is analogous to
them in literature; but the logical outcome of
obvious tendencies is often thwarted by the
historical development; that is, by what I can
call by no better name than the collective will
of mankind; and unless my hopes deceive me,
I should say that this process has already be-
gun, that there is a revolt on foot against the
utilitarianism which threatens to destroy the
Arts; and that it is deeper rooted than a mere
passing fashion. For myself I do not indeed be-
lieve that this revolt can effect much, so long
72 'Regole per chi costruisce in montagna'
Adolf Loos, 1913 73
Non costruire in modo pittoresco. Lascia questo effetto ai muri, ai monti e al sole.
L'uomo che si veste in modo pittoresco non è pittoresco, è un pagliaccio. Il conta-
dino non si veste in modo pittoresco. Semplicemente lo è.

Costruisci meglio che puoi. Ma non al di sopra delle tue pos-
sibilità. Non darti arie. Ma non abbassarti neppure. Non porti intenzionalmente a
un livello inferiore di quello tuo per nascita e per educazione. Anche quando vai in
montagna. Con i contadini parla nella tua lingua. L'avvocato viennese che parla con
i contadini usando il più stretto dialetto da spaccapietre deve essere eliminato.

Fa' attenzione alle forme con cui costruisce il contadino. Per-
ché sono patrimonio tramandato dalla saggezza dei padri. Cerca però di scoprire le
ragioni che hanno portato a quella forma. Se i progressi della tecnica consentono di
migliorare la forma, bisogna sempre adottare questo miglioramento...

La pianura richiede elementi architettonici verticali; la mon-
tagna orizzontali. L'opera dell'uomo non deve competere con l'opera di Dio. L'Hab-
sburgwarte disturba l'orizzonte dei boschi viennesi, ma la Husarentempel si armo-
nizza bene in esso.

Non pensare al tetto, ma alla pioggia e alla neve. In questo
modo pensa il contadino e di conseguenza costruisce in montagna il tetto più piatto
che le sue cognizioni tecniche gli consentono. In montagna la neve non deve scivo-
lare giù quanto vuole, ma quando vuole il contadino. Il contadino deve quindi poter
salire sul tetto per spalar via la neve senza mettere in pericolo la sua vita...

Sii vero! La natura sopporta soltanto la verità. Va d'accordo con
i ponti a travi reticolari in ferro, ma rifiuta i ponti ad archi gotici con torri e feritoie.

Non temere di essere giudicato non moderno. Le modifiche al
modo di costruire tradizionale sono consentite soltanto se rappresentano un mi-
glioramento, in caso contrario attieniti alla tradizione. Perché la verità, anche se
vecchia di secoli, ha con noi un legame più stretto della menzogna che ci cammina
al fianco.

Do not build in a picturesque manner. Leave such effects to the walls, the mountains and the sun. A person who dresses to be picturesque is not picturesque but looks
like a buffoon. The farmer does not dress to be picturesque, but he is picturesque.  Build as well as you can. No better. Do not outstretch yourself. And no worse. Do not
deliberately express yourself on a more base level than the one with which you were brought up and educated. This also applies when you go into the mountains. Speak
with the locals in your own language. The Viennese lawyer that speaks to the locals in a roadmender's dialect must be eradicated.  Pay attention to the forms in which the
locals build. For they are the fruits of wisdom gleaned from the past. But look for the origin of the form. If technological advances made it possible to improve the form,
then always use this improvement. The flail is being replaced by the threshing machine.  Flatlands demand a vertical structural articulation; mountains, a horizontal one.
The work of man must not attempt to compete with the hand of God. The Hapsburgwarte disturbs the skyline of the Viennese Woods, but the Husarentempel harmonises
well within it.  Do not think about the roof, think about rain and snow. That's how the locals think, and so they build the flattest roofs they can using the know-how they
have. In the mountains the snow must not slide when it wants to but when the locals want it to. The roof should be safely accessible for shovelling away the snow. We also
have to create the flattest roof possible using the know-how and experience at our disposal.  Be true. Nature only tolerates truth. It copes well with iron truss bridges, but
rejects Gothic arched bridges with turrets and defensive slits.  Have no fear of being chastised as outdated. Changes in the old building techniques are only allowed when
they mean an improvement on them, otherwise remain with the old. For even if it is hundreds of years old, the truth has more connection with our innermost feelings than Husarentempel, Mödling, Austria  The first war memorial to the unknown soldier in Austria, erected in 1813 to the hussars who fell in the Napoleonic Wars. Designed
untruth marching along beside us.  Adolf Loos, Rules for Building in the Mountains, 1913 by Josef Kornhäusel, it is in the style of a Doric temple and stands on the edge of the Vienna Woods between Hinterbrühl and Mödling.
74
'Quando gli architetti moderni
costruiscono in montagna'
Bruno Reichlin, 1995
Un progetto o un’opera architettonica guadagnano in
«visibilità» quando portano i segni riconoscibili di un
genere o di un movimento, che suggeriscono l'appar-
tenenza a una tendenza, a una famiglia. È sullo sfon-
do già ben selezionato del gruppo che finalmente si
danno a conoscere le peculiarità dell'opera nella loro
inconfondibile individualità. La coerenza dell'insie-
me garantisce l'emergenza di ogni singolo membro.
Nel gran circo dell'architettura contemporanea il fe-
nomeno è talmente noto che in anni recenti si è visto
il moltiplicarsi di movimenti, tendenze, tematiche,
gruppi e gruppuscoli, tutti in cerca di un posto al sole.
Philip Johnson, che già aveva collaudato con «scan-
daloso» successo la formula «International Style» più
di sessantanni or sono, riproverà con i «Fives». Come
spiega nella prefazione al catalogo, se anche Eisenman,
Meier, Hejduk, Gwathmey e Siegel a ben guardare
hanno poco in comune, designandoli come gruppo si
imporranno con ben altra efficacia sul mercato delle
notorietà. La mistificazione di Johnson sta già in quel
«fives»; cinque, che non vuol dir nulla fuor del nume-
ro dei presunti esponenti del gruppo, ma che suona
perentorio come la marca di un prodotto. Raggruppa-
menti tematici come «architetture in ferro» o «ponti
in legno» designano un denominatore comune incon-
futabile, basato su un dato oggettivo, ma di per sé non
promette grandi sorprese. «Architettura analoga», in-
vece, in quanto movimento e «scuola» con affermate
scelte ideologiche, poetiche e di metodo, designava
un chiaro orientamento. Ma cosa vuol dire, che senso
ha mai la formula «40 architetti sotto i '40 anni»? E
sotto il manto di una apparente plausibilità circolano
formule tanto fortunate quanto ambigue. Per fare un
esempio, la famosa «Scuola Ticinese». In un mondo
sempre più piccolo, di cui si lamenta l'eclettismo di-
lagante e l’uniformazione, l'ibridazione e il «turismo»
ideologico, le mode, è difficile credere che una popo-
lazione curiosa, estroversa, ambiziosa, individualista e
pungolata dalla molla dell'autoaffermazione come gli
architetti, si possa concepire come un allevamento o
produzione «du terroir», come un Medoc, o il peco-
rino dei Pirenei, uniti in comunione mistica grazie al
genio del luogo. Come ognuno sa, all'Interno di un
bacino socioeconomico regionale, la lotta per la so-
pravvivenza impone agli architetti cosiddetti «locali» il
sottile gioco della «distinzione» e, quindi, l'affinamen-
to a tendenze, gruppi e manifesti esterni, la perfusione
culturale, il cordone ombelicale con i luoghi di forma-
zione ecc. - per far crepar d'invidia e di sorpresa quel-
l’altro provinciale di un vicino di studio.
Ma che ne è allora della sedicente «architet-
tura di montagna»? Si tratta di una nozione priva di
fondamento? E sennò, quali sono i tratti distintivi e
a quando i corsi serali o per corrispondenza che la in-
segnano? Ebbene, spiacentissimo, ma se davvero un
metodo esiste, io non lo conosco, perché l'architettura
«montana», o «alpina», dei Moderni o dei Contempo-
ranei poco importa, è anzitutto una ipotesi di lavoro
della critica architettonica e un incentivo culturale al
progetto. La nozione o l'idea di un'«Architettura di
Montagna» è un costrutto culturale nel senso che è
stato formulato a posteriori, osservando un insieme
disparato di oggetti di cui si è ipotizzato che avessero
a che fare sia con la montagna in quanto fenomeno, sia
con le rappresentazioni che sa suscitare: salita, peri-
colo, condizioni estreme, natura allo stato puro, pace,
ecc. ... In altre parole, quando abbiamo posto un'opera
architettonica dentro, o fuori, il mucchio «architettu-
ra di montagna», non vuol dire che il nostro occhio
esercitato ha verificato la sua quintessenziale «natura
montana», ma semplicemente, che l'abbiamo posizio-
nata rispetto a un insieme provvisorio, ancorché strut-
turato, di conoscenze relativamente oggettive, che si
possono partecipare, che sono deducibili ed autoespli-
cative. Quindi non si tratta di categorie preesistenti
rispetto alle quali va collocata ogni nuova opera presa
in esame - quelle che hanno partecipato alla selezione
di quest’anno, ad esempio - come farebbe un giovane
studente con le tavole di Linneo. Al vaglio delle nuove
opere, la «mappa» stessa dell'architettura di montagna
è soggetta a costanti revisioni. Come nel diritto anglo-
sassone, ogni nuovo verdetto fa giurisprudenza. Il che
vuol anche dire che si è rinunciato a criteri oggettivi
ma «stupidi» del tipo; «l'architettura di montagna co-
mincia dai 1 500 metri in su» (che, sia detto per inciso,
non è comunque più stupido del criterio selettivo «40
architetti sotto i 40 anni»). Queste considerazioni ne
sottendono altre; non fa architettura di montagna chi
solo vuole e, al di fuori di una convenzione culturale,
ci son ben poche ragioni oggettive perché qualcosa si
debba imporre come costruzione «adeguata» al con-
testo montano.
Può dispiacere ai mitomani in cerca di au-
tenticità, ma l'architettura montana, cosi come la
cosiddetta architettura regionale, non è una secrezio-
ne naturale dei paesaggio e delle genti e nemmeno il
contesto montano - morale o ideologico - promette
un afflato federatore, una naturale convergenza d'in-
tenti. Tutto questo sia detto per spiegare e legittima-
re, fin dove è possibile, il carattere propositivo e, sarei
quasi tentato di dire, progettuale di talune scelte della
nostra giuria. Al cospetto dei tanti e disparati oggetti
proposti all'esame da autori o committenti o critici,
nuovi criteri, nuove categorie si impongono alla no-
stra immaginazione di giudici, di critici, di architetti.
E forse i nuovi oggetti e i nuovi discorsi a loro volta
susciteranno emulazione, convergenze o dissensi nel
pubblico, poco importa se profano o degli addetti ai
lavori. Purché questo pubblico sia disposto a parte-
cipare all’invenzione dell'architettura montana, e non
riduca la propria libido alla sensazione di sollievo che
provano i pavidi quando tutto è rimasto «più o meno
come ha da essere». L'opportunità, se non la definitiva
legittimazione di un punto di vista pluralistico e aper-
to, risulta dalle vicende stesse che sono state a batte-
simo della nozione moderna di architettura montana.
Difficile immaginare una più grande disparità d'ap-
procci tecnici e materiali, formali, poetici e ideologici,
di quel laboratorio della modernità architettonica che
è stata l’edilizia costruita in montagna nel ventesimo
secolo. Ancora non esiste una mappa dei diversi aspet-
ti, temi, programmi e correnti che dipartiscono, da
punti di vista culturali, ideologici e artistici differenti e
amplificati fino alla caricatura, la scena architettonica
della prima metà del secolo ventesimo, ma vale la pena
di caratterizzare per sommi capi le posizioni e le arti-
colazioni che costituiscono la tela di fondo sulla quale
si inscrivono le nostre scelte.
Obbedire alle cose
Una posizione che, rispetto ai Moderni, definirei «con-
servatrice», propugna l’adeguamento mimetico a una
immagine paesaggistica codificata culturalmente; vale
a dire un incrocio fra iconografia (fotografica e prefe-
ribilmente pittorica), evocazione letteraria, etnografica
e memoria collettiva. Questa posizione, negli anni '30,
nonché avversa ai «Moderni», si accompagna a ideo-
logie nazionalpopolari e, peggio, a mitologie razziali.
Ma alle origini essa è una parte costitutiva del paradig-
ma moderno e alla sua formazione hanno concorso le
menti più perspicaci, così come l'investigazione scien-
tifica del XIX secolo. Il territorio montano è investito
da innumerevoli approcci: la cartografia, l'osservazione
geologica, la minuziosa inventarizzazione della fauna e
della flora da parte dei naturalisti; l’investigazione et-
nologica. Nel montanaro si riconosce un tipo fisico, un
caso sociologico, con pratiche e costumi che gli sono
riconosciuti come caratteristici. Un’antropologia pren-
de avvio ne11«ot- tocento che tende a identificare l’uo-
mo al suo territorio, al suo habitat, ai suoi luoghi e il
clima al suo temperamento. Anche per questo racconti
e romanzi avranno come protagonisti, come eroi, tan-
to gli uomini che i luoghi. Siegfried Krakauer, sul finire
degli anni '30, non mancherà di cogliere il profondo
significato ideologico di queste ipostasi, quando ana-
lizza i film di montagna tedeschi come «L'inferno bian-
co del Piz Palü», che prende il nome della montagna.
Descrizione scientifica, letteratura e pittura di genere
si completano a vicenda quando non si confondono,
nel grandioso, e minuzioso, inventario che investe il
mondo alpino nella sua totalità; e dove la valorizza-
zione morale ingloba, senza distinzioni, uomini e cose,
cime immacolate, laghi cristallini, aria pura, umili ca-
panni, costumi semplici, abitudini ancestrali, boschi
sacri e verdi prati.
Al volgere del secolo, questa posizione «cul-
turalista» concepisce un grande progetto: la creazio-
ne dello «Heimat-schütz», che nel suo programma di
tutela spazia dall’architettura monumentale all'edilizia
minore e rurale, dal monumento naturale alla «Pittura
del paesaggio», dall'arte popolare agli usi e costumi,
alle feste, dalla flora alla fauna, ai corsi d'acqua, alla
vita sana.
Fra gli strumenti di quel vasto programma,
una menzione speciale meritano i celebri «Kulturar-
beiten» in 9 volumi di Paul Schultze-Naumburg. Co-
ronati da un successo editoriale senza pari, presenti
in ogni biblioteca privata che si rispetti,i «Kulturar-
beiten» istillarono un'attenzione capillare per le più
infime manifestazioni dello spazio antropico sin nei
più giovani, che certamente li preferivano alle lettu-
re edificanti dei pomeriggi domenicali. Rocce, prati,
sentieri e strade, recinzioni, plantumazioni, torrenti
e canali sono minuziosamente fotografati e inventa-
riati con l'attenzione dell'entomologo; e commentati,
con chiaro intento pedagogico, opponendo esempio a
controesempio. Vien da chiedersi se i «Kulturarbeiten»
non siano un prodotto tardivo della cultura e dell’at-
titudine verso le cose e il creato che aveva incontrato
i momenti più alti nell’opera letteraria e pittorica di
Adalbert Stifter. La stessa fissazione a voler comu-
nicare il valore pedagogico delle «degne e stimabili
cose», la maniacale ricerca del «decoroso» e dell’«one-
sto» nelle cose degli uomini e della natura. E si può
estendere a Schultze- Naumburg e a maggior ragione
a Schmitthenner, che dell'autore biedermeier austriaco
era un ammiratore incondizionato, quanto scrive Emil
Staiger a proposito di Stifter: «Per Stifter, che si rivolge
a noi a partire da uno spunto morale e in nome della
morale stessa, anche le cose, sassi, legni, fiori, alberi,
animali, non sono lì soltanto come scena dove si com-
pie un destino, ma perché nella cura rivolta a queste
cose si manifesta l'anima bella, che esse ricambiano
con la loro forza chiarificatrice.»
C'è nelle stupende e in gran parte autografe
fotografie dei « Kulturarbeiten » quell'«elogio delle
cose», l'amorevole sguardo e la «devozione» («An-
dacht»), che i personaggi di «Nachsommer» rivolgo-
no alle cose. Come i due giovani sposi del romanzo,
i vari Schultze-Naumburg, Schmitthenner e seguaci,
«hanno riposto la loro anima nelle stesse cose, che poi
gliela restituiranno più pura». Questa «comprensione
dell'assetto naturale», dove per natura si intende anche
il mondo delle cose, dei manufatti artigianali, significa
però anche alienazione di sé nelle cose. Questa è forse
una o la ragione, perché questo ramo della cultura te-
desca ha reagito con tanta virulenza, come scosso nei
suoi fondamenti antropologici, tutte le volte che ha
ravvisato un oltraggio a quel mondo di cui ha intessuto
l’elogio. «Obbedire alle cose», era il motto degli ospiti
eletti del «Rosenhaus» - «tutelare la patria tedesca nel-
le sue caratteristiche naturali e storiche» è la missione
che gli statuti assegnano all'associazione dello «Hei-
matschutz». A questo vasto e moderno programma di
tutela, dà un contributo decisivo l'inventarizzazione
dell’architettura rurale, che in Germania segna una
data importante nel 1892, quando viene messa in can-
tiere la collana «La casa rurale nell’impero tedesco ed i
suoi territori di frontiera» («Das Bauernhaus im Deu-
tschen Reich und in seinen Grenzgebieten»). Quando
i restauratori tedeschi e austriaci decidono di unire i
propri sforzi a quelli del «Bund für Heimatschutz nel
75
Da Paul Schultze-Naumburg «Kulturarbeiten»: «Scale
di accesso alla casa. Una si adegua fedelmente all'an-
damento naturale del terreno in modo che percorrerla
diventa facile e piacevole. Dell'altra si potrebbe dire
che sembra di rompersi il collo solo vedendola. »
Da Paul Schmitthenner «Das deutsche Wohnhaus»:
«Non nel contrasto con la natura si basa la forza
dell'architettura, ma in un superiore senso di adegua-
mento ad essa.» Theodor Fischer
Da Paul Schultze-Naumburg «Kulturarbeiten»: Sopra:
Abile sfruttamento del terreno esistente tramite ter-
razzamenti. Sotto: Carente utilizzo del terreno.
La raccolta, 1846
Ferdinand Georg Waldmüller (1793-1865)
1911, il concetto di monumento si è oramai arricchito
di significato e di valenze che nulla hanno da invidiare
alle più recenti formulazioni.
Tuttavia questa modernità concettuale ma-
schera una profonda inquietudine, un bisogno di
certezze che di li a poco sfocerà su posizioni vieppiù
conservatrici. Per gli architetti che nel primo decen-
nio del secolo si riconoscevano nelle movenze »Neo-
biedermeier« del movimento »Um 1800», il periodo
compreso fra la fine del XVIII secolo e il declino della
santa alleanza rappresenta ad un tempo un profondo
rinnovamento e l’«ultimo periodo di certezze, «quan-
do architetti e artigiani ancora sapevano» - così scrive
ad esempio Friedrich Ostendorf nella introduzione
ai «Sechs Bücher vom Bauen» - «che le cose stanno
in quel determinato modo e non altrimenti». Proprio
la volontà di scongiurare la perdita di queste certez-
ze spiega forse l'attenzione maniacale di un Roderick
Fick per ogni dettaglio eseguito nel modo giusto, per
le finiture della pietra e degli intonaci eseguite prefe-
ribilmente da ... lui stesso; e, più in generale, spiega
la volontà di riunire in se stesso tutte le competenze
artigianali. Fick era architetto, ma pure carpentiere,
falegname, muratore e fabbro, ricorda il suo allievo e
giovane collaboratore Josef Wiedemann e, persino nel
rituale insegnamento del maestro che dà l'esempio
all'apprendista, intendeva perpetuare la trasmissione
del sapere secondo le pratiche consacrate di una cultu-
ra «organica». Pratiche che in pieno XX secolo paiono
ormai formule di una liturgia di- sueta, come la magi-
ca padronanza delle cose attraverso i nomi con i quali
Fick, infallibilmente, designava utensili, tecniche, usi,
gesti e materiali.
Pure nell’opera di Schmitthenner la cura del
dettaglio ben fatto era proverbiale; ce lo ricorda Paul
Bonatz, che gli fu amico e collega; «Il modo in cui dà
forma ai particolari, ravviva le superfici, colloca una
grondaia o dispone un pluviale, come egli inserisce
una finestra nella parete e ne disegna il profilo, come
padroneggia l'uso del rilievo, tutto ciò è artigianalmen-
te perfetto, magistrale. Per questa qualità dell'elabora-
zione, spinta fino al particolare ultimo e infimo egli ha
aperto per primo gli occhi alla sua generazione e anche
noi più anziani abbiamo avuto modo di imparare da
lui.»
Proprio con Schmitthenner il riferimento
all'opera di Stifter assume contorni precisi e su più pia-
ni. Il «Rosenhaus», figura centrale nel romanzo «Tarda
estate» («Nachsommer», 1857), è un tema di progetto
ricorrente e prediletto che Paul Schmitthenner asse-
gna agli studenti dopo le esercitazioni più scolastiche
di «espressione architettonica» e «disegno esecutivo».
La conferenza «La dolce legge dell'architettura« («Das
sanfte Gesetz in der Baukunst»), pronunciata in oc-
casione del conferimento dello Erwin-SteinbachPreis
per conto della Wolfgang Goethe-Stiftung, nel '41,
che amici dell'architetto hanno interpretato come una
presa di distanze dal pacchiano monumentalismo del
regime, trova lo spunto nella prefazione a «Pietre co-
lorate» («Bunte Steine») di Stifter stesso. Improntata a
Stifter, o quanto meno al suo modo di allestire minu-
ziosi inventari delle cose e degli usi quotidiani, l'esat-
tezza nel descrivere il rituale domestico, il rilevamento
dei luoghi dell'abitare è, vien da pensare, l'intera ope-
ra architettonica e letteraria di Schmitthenner. Basta
consultare le tre edizioni di «Das deutsche Wohnhaus»
(1932, 1940, 1950) per sincerarsene, prestando atten-
zione ai testi che tessono l'elogio del «Gartenhaus» di
Goethe a Weimar, elevato a prototipo dell'architettura
borghese tedesca; alle fotografie di edifici, paesaggi e
luoghi, che sono vere e proprie nature morte, al titolo
«Del- l'inappariscente nell'arte del costruire» («Vom
Unscheinbaren in der Baukunst») dato a un nuovo ca-
pitolo della seconda edizione; all'omaggio rivolto alle
opere «minori» di Schinkel, quando ne sottolinea «de-
coro e dignità».
Già Stifter, quando delinea il ritratto dell’epo-
ca «Biedermeier», sa di compiere un dovere di pietà
filiale. All’inizio del XX secolo i fautori di questo ritor-
no allo spirito Biedermeier, a dispetto della modernità
delle loro concezioni di salvaguardia territoriale, acca-
rezzano un'utopia conservatrice e cedono a una misti-
ficazione. Walter Curt Behrendt, che pure ha accettato
di prefare la terza edizione del testo manifesto «Um
1800» di Paul Mebes, propone una diagnosi che sor-
prende per la lucidità: «Attraverso il generale rinnova-
mento della tradizione classicista l’architettura attuale
ha ricavato almeno la parvenza di una intima necessità
e legittimità e ora, al posto dell’Iniziale arbitrarietà,
incertezza e frammentarietà, nelle scelte formali è su-
bentrata almeno la finzione di una volontà comune e
unitaria. L'opera compiuta appare oggi di nuovo come
la congiunzione logica di una catena evolutiva ben
nota; essa viene intesa quasi come il prodotto naturale
di una cultura architettonica organicamente legata ai
luoghi» («Um 1800», p. 123). E nella stessa prefazione
W. C. Behrendt riconosce pienamente il carattere con-
solatorio di quella pretesa rifondazione della cultura
architettonica. All'ora dei bilanci, dopo una guerra per-
sa che, al di là dell'umiliazione e dei momentanei disa-
gi, significava una profonda crisi di identità, la cultura
«Um 1800» diveniva «quasi una fonte di consolazione
nella nostra sventura».
Questa congiuntura morale spiega in parte il
coesistere di istanze di progresso e di conservazione
negli stessi personaggi e le difficoltà che i protagonisti
culturali hanno a discernere le differenze ideologiche
che li separano. Così gli inventari dell'architettura ru-
rale, allestiti secondo un programma prioritariamente
scientifico, forniranno nel tempo materiale al mito dei
«tipi fondamentali» o «originari», «più antichi della
nostra storia, antichi come il popolo stesso»; vale a
dire quando - sottintende il mito - patria, popolo e
costruzione formavano un tutto; o serviranno da mo-
dello alle patetiche «aspirazioni a ridar vita a una archi-
tettura rurale tedesca».
Proprio la nozione del tipo è al centro di
tutte le ambiguità. Schmitthenner, in un senso del
tutto moderno, privilegia nel tipo il fondamento an-
tropologico: «Haustyp» è il prodotto di una selezione
«del collaudato e del certo»; «esso è l'espressione più
compiuta di condizioni di vita analoghe in uno stesso
ambiente vitale». Ma in altre pagine di «Das deutsche
Wohnhaus», l'approccio antropologico cede il pas-
so all'antropomorfismo animistico, alle affabulazioni
metaforiche di una «empatia» oramai lanciata a bri-
glie sciolte: quando l'edificio raggiunge la pregnanza
quintessenziale del tipo, l'espressione architettonica
s'incarna in un viso - «Gesicht» - ove «l'ordine interiore
si rispecchia negli occhi chiari con cui esso guarda al
mondo». Infine, per Schmitthenner si tratta di fornire
una controdefinizione del tipo proposto dai Moderni,
funzionale alla standardizzazione e alla industrializza-
zione dell'edilizia e di quella abitativa in particolare.
Il fondamentalismo di Schmitthenner e soci non può
ammettere un approccio puramente strumentale,
pragmatico e meccanicistico, come è proprio degli ef-
fetti della « civilizzazione ».
Ma torniamo al rapporto fra costruito e pa-
esaggio e, in particolare, all'architettura montana. In
poche righe, due immagini suggestive e un diagram-
ma, Schmitthenner compendia egregiamente la po-
sizione «conservatrice» nel succinto capitolo di «Das
deutsche Wohnhaus» consacrato al tema. Nel mezzo
della natura vige il criterio dell'anteriorità: sempre la
costruzione deve cedere il passo alla natura, non fosse
che un albero. Proprio su queste «concessioni» si fonda
il «radicamento al suolo» e al luogo dell’edificio. Come
spiegavano i «Kulturarbeiten», come raccomandava
Theodor Fischer citato in didascalia a un’immagine
agreste del libro «Das deutsche Wohnhaus»: «Non
nel contrasto con la natura si basa la forza dell'archi-
tettura, ma in un superiore senso di adeguamento ad
essa.» Tuttavia, sempre secondo l'autorevole parere del
Fischer, «tutto ciò che la natura mette a nostra dispo-
sizione non deve essere cancellato, bensì sviluppato e
valorizzato». Vale a dire, come spiegano i diagrammi
di Schmitthenner: il profilo del terreno (la «Geländel-
inie») deve restar leggibile; l’edificio può occupare un
pro montorio e accentuarlo assumendo nelle proprie
76
forme il movimento in elevazione; ma l'inserimento
nel contesto si deve conseguire soltanto «con i mezzi
dell’architettura e non ricorrendo a una innaturale imi-
tazione della natura». Schmitthenner esclude dunque
l'inserimento «mimetico» tentato da alcuni architetti
moderni, come ad esempio Franz Baumann nella Sta-
zione di cima della Nordkettenbahn sopra Innsbruck,
e di cui scriverò nel seguito.
Un «fienile da signori»
di Paul Schmitthenner
Schmitthenner ha costruito per la sua famiglia nel
Tirolo, all'inizio degli anni '30, nei vasti prati sopra
Imst. Si tratta di una semplice costruzione su pianta
rettangolare, dentro e fuori in legno, del tipo «a pila-
stri» («Ständerbau»), con tetto a due falde coperte da
scandole in larice, a un sol piano e sottotetto, staccata
dal suolo da massicci pilastri costruiti con pietre ricu-
perate in situ e affogate nella malta.
Un capanno (eine «Hütte»), «un fienile da si-
gnori» («ein herrschaftlicher Stadel») concede Schmit-
thenner con umore, ma non la «villa» che si attendeva-
no i villici certamente delusi, soggiunge l'architetto. Il
larice e l'abete brillano ancora sulle macchie scure del
bosco, ma in due o tre anni i prospetti a solatio saran-
no cotti dal sole, mentre quelli a tramontana prende-
ranno il bel grigio argento del tetto - larice e abete che
furono buoni compagni degli alberi che stanno ancora
dietro il capanno, precisa Schmitthenner. Ogni anno
più bello e più discreto, il capanno «diverrà un pezzo
di paesaggio come un albero o una roccia».
Per la costruzione nel paesaggio montano
vale la regola della sottomissione, del non dar nell’oc-
chio «una vera e propria regola di buona educazione».
I tempi nuovi non hanno una legittimità propositiva
e, par suggerire Schmitthenner, devono trovare un
posticino irrilevante alLinterno di un quadro già de-
finitivamente prefigurato. Quadro pare la definizione
adeguata, anche in senso proprio, se si considera la
sapiente scelta delle vedute fotografiche proposta da
Schmitthenner nelle pagine di «Moderne Bauformen».
Una grande panoramica mostra l'immenso sviluppo
paesaggistico sopra Imst, i boschi d'abeti e larici in pri-
mo piano, la corona di montagne con le cime innevate
sullo sfondo, il correre su e giù, zigzagante, della recin-
zione che attornia l’estesa proprietà del «Lärchenhof»;
tuttavia della «Hütte», seminascosta da alberi e, data
la distanza, ridotta a una porzione infinitesimale della
fotografia, si riconosce poco o nulla. Ma qui sta la forza
retorica del dispositivo fotografico: la «Hütte» si con-
fonde col paesaggio, è diventata un pezzo di «natura».
E la ratifica passa per una immagine che obbedisce alle
convenzioni della veduta paesaggistica. Questa ipotesi
trova conferma nella veduta verso i Miemin- ger Berge,
che par mimetizzarsi con un ipotetico modello pittori-
co di paesaggio Biedermeier. Quasi non si trattasse del
soggetto effettivo in una rivista d’architettura, pure qui
il-capanno occupa solo una frazione del lato sinistro
della immagine, in funzione di repoussoir destinato
ad accentuare la profondità della veduta e mettere in
valore il magnifico paesaggio. Funzione repoussoir
egregiamente assolta dalla fuga di linee che definisco-
no il volume, la gronda e gli allineamenti orizzontali
delle scandole, nonché il fatto che il primo piano della
casa e degli alberi si trova sul lato sinistro dell’immagi-
ne - come ben sa chi ha letto le illuminanti pagine del
Wölfflin al proposito.
A rinforzare l'isotopia pittorica concorre un
dispositivo compositivo del tutto insolito nella foto-
grafia d'architettura: la ripresa in primo piano di una
figura umana vista di schiena, al modo ormai celebre
di tanti dipinti di Caspar David Friedrich e che, a quel
che se ne è detto, favoriva l'identificazione e il coin-
volgimento dello spettatore. Quasi che Schmitthenner
- e il fotografo per lui - avessero convocato a disegno
gli stereotipi, le icone, della pittura di paesaggio otto-
centesca, dal Friedrich a un noto ritrattista di paesaggi
Casa Schmitthenner, 1930 montani austriaci come Ferdinand Georg Waldmüller
(1793-1865), del quale ricordiamo, perché capitano
77
Una visita, intorno al 1850
Carl Spitzweg (1808-1885)
molto a proposito quanto al soggetto, «Die Alpenhütte
auf der Hoisenradalm bei Ischl» (1834) e «Die Hütten-
eckalm bei Ischi» (1838). Certo è che a quella veduta
l'architetto riconosceva uno statuto particolare, se lo
stesso prospetto su- dovest, preso quasi sotto lo stesso
angolo ma questa volta a piena foto, è riproposto sulla
pagina a fronte della rivista. Altre riproduzioni della
«Hütte» rimandano alle icone della Biedermeierzeit,
rifacendo l’inventario dei luoghi dell'abitare in mon-
tagna, della convivialità antica e paesana, di un mondo
pieno, dove ogni cosa è al suo posto. Si veda l'imma-
gine con la signora sulla soglia di casa, piacevolmente
rustica perché siamo in un «capanno montano»: alcune
pietre affogate nel verde, una scaletta in legno di appe-
na tre alzate e ridotta alla sua espressione più elemen-
tare; infine, la porta aperta sul focolare domestico il
«Herd», con tutto quel che di ancestrale significa que-
sto elemento dalla teoria dei quattro elementi di Got-
tfried Semper in poi. E si noti ancora il leggero arco ri-
bassato della porta, la veniale incongruenza costruttiva
che - in un capanno in legno - si vede compensata dalla
cerimoniosità del gesto, che proprio per questo segna-
la che ben si tratta della porta di casa. Altre immagini
suggestive sono la «Stube» tutta foderata in abete e con
la bella pigna, e la «grosse Giebelstube», vale a dire il
sottotetto con abbaino, per le ore solitarie e studiose,
composta come un interno di Kersting o di Spitzweg.
In conclusione, la relazione con il sito montano passa
per un montaggio di luoghi e di ambienti e si nego-
zia per mimesi con icone e quadri supposti far parte
dell’Immaginario collettivo. Per questa ragione la casa
in montagna dei «conservatori» non può diventare la
moderna macchina per amministrare le viste sul pae-
saggio e abbarbicata al territorio, come la proporrà ad
esempio Welzenbacher. Le finestre rimangono quelle
dello chalet, della baita o del capanno, in quanto fine-
stre ritenute conformi all'abitare montano, a una «at-
mosfera», a una «convivialità» che non hanno bisogno
di viste panoramiche.
L'architettura fa un gesto.
Variazioni sul tema della mimesi
nelle stazioni della «Nordketten-
bahn» di Franz Baumann
Se, come raccomandava Schmitthenner, l’adeguamen-
to al sito si dovrebbe limitare all'impiego dei «mezzi»
costruttivi («baulichen Mitteln»), le diverse stazioni
della funivia «Nordkettenbahn» sopra Innsbruck, pro-
gettate e costruite da Franz Baumann (vincitore di un
concorso), tra il 1927 e il 1928, si possono interpreta-
re come un gioco sottile di variazioni attorno al tema
della mimesi e cioè fino a quella «imitazione innaturale
della natura» detestata fortemente da Schmitthenner.
Una preziosa chiave di lettura ci è fornita dal-
la descrizione e interpretazione di un contemporaneo
avvertito, secondo il quale l'efficacia espressiva del
riuscito inserimento nel sito delle stazioni va cercata
«nell'espressione della sua semplice forma.»
«Innanzitutto la stazione a valle: essa accoglie
il pubblico con una grande terrazza piana per condur-
lo, attraverso un'ampia porta a tutto sesto e una corta,
imponente scala., nella sala d'attesa che già solo per la
sua comodità di distingue da altri simili spazi: da ri-
guardare come una grande stube dalle pareti bianche
e un gran soffitto dalle travi massicce, l'ampia terrazza
antistante appare come un grande basamente su cui
poggia, come un arco sulla propria stabile e solida
imposta, non solo la stazione a valle, bensì l’intero
impianto che sale lungo il monte; i tetti al contrario
salgono tutti verso monte, come altrettanti segnavia
rivolti in direzione del punto d'arrivo.
Del tutto diversa, invece, la stazione di mez-
zo: qui i profili delle coperture cercano un appoggio
nel terreno a monte, mentre la pendenza in senso op-
posto al versante della valle per dare spazio a un largo
fronte su tre piani cattura tanta luce e calore attraverso
le larghe finestre dei locali del ristorante consentendo
una splendida vista sull’ampia cerchia dei monti. Solo
l'ala destra, e sporgente, dell'impianto, dove è l'appro-
78
do dei passeggeri, protende un padiglione incontro
alle cabine di salita con la copertura china verso valle e
appoggiata ai muri laterali come a puntelli.
La soluzione più originale viene offerta infine
dalla stazione di cima: come per difenderla dalle bu-
fere d'altitudine, essa prende le forme di una calotta,
le sue pareti di muro massiccio assecondano il profilo
arrotondato del monte e il tetto sembra fondersi con
la vetta: la costruzione è diventata una parte architet-
tonica della montagna.» Questa lettura è interessante a
più di un titolo. Da un lato essa compendia le intenzio-
ni presumibili dell'autore, di caratterizzare le diverse
stazioni sia in rapporto al paesaggio, sia in funzione di
requisiti di volta in volta diversi come la topografia, la
vista, l'esposizione al sole, la protezione dai venti e dal-
la neve, la distribuzione delle teleferiche, ecc. Se per la
stazione a valle, ancora in mezzo al bosco, e per quella
intermedia, al limite superiore della vegetazione, l'in-
serimento transita ancora per le forme, pur moder-
nizzate, dello chalet e della baita, la stazione di cima,
quasi a sottolineare la sua posizione in zona franca, al
di là dal territorio antropizzato, sembra aver liberato
l’architetto da ogni riferimento obbligato, finalmente
permettendogli «forme del tutto libere nelle quali il
manufatto cerca di adattarsi all'aspro ambiente roc-
cioso circostante.» Notiamo all'occasione che questo
nuovo tipo di mimesi, che prende a modello le forme
del mondo minerale - seppure in nome di una attitu-
dine che si pretende «organica» , - trova degli emuli, o
quanto meno dei compagni di strada: la Planurahütte
ad esempio, ai piedi del Tödi e quasi a 3000 metri di
quota, costruita da Hans Leuzinger nel 1930. Nel nu-
mero della rivista «Werk» (febbraio 1931, pp. 40-43)
che la farà conoscere ai non alpinisti, ben sette foto-
grafie, stupende e in doppia pagina, prese da punti di
vista impervi, sono lì a dimostrare la mimesi riuscita di
una capanna alpina in uno sperone roccioso.
Ma le stazioni della «Nordkettenbahn» attrag-
gono la nostra attenzione per un altro aspetto. Tetti
che cercano «un ancoraggio al suolo» o che «puntano
come indicatori verso la montagna», ali d'edificio che
«si protendono incontro alle navicelle della teleferica»,
«mura che si piegano, avvolgendo lo sperone roccioso»
... tutte queste immagini che prestano azioni e mo-
vimento alle cose, si obietterà, appartengono ai ferri
Nordkettenbahn, 1927-28 vecchi della critica artistica ancora alle prese con tic
Arch. Franz Baumann dell'empatia.
Eppure, c’è da scommettere che Baumann
stesso nelle sue stazioni vedeva non solo la ripetizione
di forme consacrate da una tradizione iconografica, e
pertanto «legittime», ma pure un messaggio più im-
mediato, che non cerca il simbolo, ma il gesto; che non
parla a un colto intelletto ma cerca la complicità del
corpo, l'immediatezza della sensazione motoria, l'ef-
fetto sinestetico. Più ancora che nella semplificazione,
deformazione o astrazione di forme, volumi, motivi
decorativi o icone dell'edilizia rurale, la modernità di
Baumann si rivela proprio in questa adesione a forme
ed effetti che sono masse plastiche, forze, vettori spa-
ziali, equilibri dinamici.
In consonanza con le ricerche dei vari Klee e
Kandinsky attorno alla nuova figurazione, al «bildneri-
sches Denken», nel tentativo di fondare un linguaggio
espressivo, figurativo universale, perché pretende di
accedere, senza mediazioni culturali, alle profondità
della psiche; perché si vuole trascrizione diretta del-
la sensazione, onomatopea del gesto - e non scrittura
(per usare un termine caro a Kahnweiler quando scrive
del cubismo4’) destinata all’Intelletto acculturato del
connaisseur.
La teoria della «empatia», la «psicologia della
Gestalt», ma pure la «Raumgestaltung» di August Sch-
marsow - che si concentra sulla pura e semplice forma
spaziale dell’architettura e mette tra parentesi le agget-
tivazioni stilistiche quando non concernono lo spazio
-, avevano preparato il terreno a una architettura non
più di figure e simboli inscritti nella pietra, ma di gesti
Planurahütte, 1930 nello spazio.
Arch. Hans Leuzinger
La costruzione del paesaggio
secondo criteri spaziali - il con-
tributo di Lois Welzenbacher
Dagli esordi con la casa Settari fino ai progetti più
maturi di ville isolate sopra Zell am See e Linz, l’opera
di Lois Welzenbacher rappresenta l'investigazione più
ricca di spunti, di invenzioni che la ricerca spaziale
sortita dalla modernità ha elargito alla relazione ar-
chitettura-paesaggio-sito montano. Tondeggiante e
compatta, sotto un gran tetto a punta, casa Settari a
Tre Chiese (Dreikirchen), Alto Adige (1922-23), da lon-
tano si potrebbe confondere con una cappella barocca,
come se ne trovano tante nel Tirolo. Mano a mano che
ci si avvicina e cambiando pertanto l'angolo di visione,
l'andamento spezzettato, ora convesso e tondeggian-
te, ora formante un diedro concavo, ora rettangolo
dell'involucro; la linea di gronda sinuosa, che scende
e che sale e che si impenna; le aperture poste qua e là,
apparentemente senza regola, tutto: volume, superfici
e linee paiono congiurare a che l'osservatore giri torno
torno, senza potersi dar conto di quante facciate ha
la casa; e se c'è una facciata principale, oppure se la
casa detiene una sola facciata, che si srotola davanti
agli occhi dell’osservatore mano a mano che gira at-
torno. Finché non si riconosce la figura geometrica
che regola il piano e il volume della fabbrica. Stesso
disorientamento all’interno, se non fosse che lo spazio
interno organizza per sequenze, da locale a locale, da
piano a piano, viste sempre diverse sul paesaggio: verso
il Grödental, verso l'Eisacktal, o il bosco vicino, verso
il sole del mattino o l'ombra della sera. Guido Harbers,
che nel '31 pubblica il primo libro su Welzenbacher,
molto opportunamente e certamente su incitamento
dell'architetto, a proposito della organizzazione dello
spazio interno in sequenze percettive, come si trat-
tasse di un dispositivo messo a punto per ammirare il
paesaggio, propone la nozione di «Verkehrsführung»,
di circolazione guidata: «All’interno della casa, la di-
stribuzione segue costantemente una linea a spirale
in continua ascesa: a partire dalla spianata antistante
la casa, attraverso il soggiorno, in lieve curvatura pas-
sando accanto a una vista panoramica e ripiegandone
subito per proseguire, superati due gradini, verso il
bagno, di nuovo piegando leggermente verso sinistra,
salendo la scala bene illuminata da una finestra alta
sul pianerottolo che, con una ulteriore curva a sinistra
conduce nella grande stanza da letto. Il letto determi-
na l'orientamento di questo spazio. La vista sull'ampia
valle dell'lsarco e verso il sole nascente sono le prime
immagini che salutano al risveglio; la vista del cielo ve-
spertino e verso sud-ovest sono l'ultima immagine che
accoglie colui che penetra la stanza di sera, in cerca di
riposo. »
Nei suoi scritti teorici, Welzenbacher torna ri-
petutamente sull'importanza primordiale del sito per
l'impostazione del progetto. Il particolare interesse
del suo punto di vista, rispetto ad altri più scontati,
consiste nel fatto che il postulato del «radicamento or-
ganico» dell'edificio al sito non passa per l'immagine o
la scelta stilistica e nemmeno per i materiali o i basa-
menti, ma per lo spazio. Agli architetti del XIX secolo
Welzenbacher rimprovera, più che la «mancanza di
stile» («Stillosigkeit»), la mancanza di sensibilità per il
«Raumbild» (quadro-spaziale): «L'incapacità di avverti-
re quanto l'edificio debba essere organicamente lega-
to allo spazio nel quale si trova, e all'intero ambiente
circostante, rese incerto l'architetto di quell’epoca che
cominciò così a tastare, provare e recuperare in modo
eclettico, l'esperienza del passato. Si ripescarono così
dettagli certamente corretti sotto il profilo storico, ma
per lo più senza uno scopo o un significato, e incapaci
di pervenire a un'immagine armonica d'assieme.» In-
somma, la fuga nelle citazioni e nella mimesi stilistica
è quanto resta quando si è incapaci di pensare spazial-
mente l'inserimento dell’edificio nel sito - nel paesag-
gio. Per scriverne, Welzenbacher si serve di nozioni che
meritano di essere evocate: scrive dei «caratteri che gli
sono propri a dar forma a uno spazio» di un muro; sug-
gerisce che la destinazione d'uso di un edificio (chiesa
79
Dom-Hütte, Zermattertal, 1957
Arch. Jacob Eschenmoser
Casa Settari, 1922-23
Arch. Lois Welzenbacher
o casa) dovrebbe già risultare dal «Raumbild» - dove
con questo termine si intendono le proprietà spaziali
che predestinano un sito ad accogliere ad esempio la
chiesa del villaggio. È questione del «Landschaftsbild»,
del «Platzbild»; dell'uso accorto di promontori e avval-
lamenti, di tracciamenti stradali, di curve con un buon
«effetto visivo» («gute Bildwirkung»). «Il suo profilo
deve accentuare, sottolineare la bellezza del paesag-
gio», esige Welzenbacher, che riprende la lezione del
suo maestro Theodor Fischer e propone er la costru-
zione un «ritmico accordarsi al terreno».
Sempre Harbers, a proposito della casa Setta-
ri, scrive: «tema principale del progetto, negli esterni
cosi come negli spazi interni dell'edificio, è il motivo
del paesaggio sudtirolese circostante: il ritmo del suo
movimento.» L'idea di forme e spazi in risonanza con
il paesaggio è certamente dell'architetto, che racco-
mandava di «accordare il ritmo dell'edificio a quello
dell’ambiente circostante». L' architettura della casa
è un dispositivo spaziale dinamico - un «Bewegun-
gsraum» - che struttura la percezione del paesaggio
assecondando il «ritmo» che gli è proprio. Le figure, i
dispositivi architettonici di questo «Bewegungsraum»
son presto detti: «la dissoluzione delle soglie spaziali»
(«das Auflösen räumlicher Grenzen») tanto all'interno
che all'esterno, mediante le compenetrazioni spaziali,
le transizioni per gradi verso l'esterno («spazi che con-
ducono gradualmente dalla dimensione dell'uomo a
quella maestosa della natura», scrive a proposito di una
parete-schermo che partecipa all'«effetto scenografi-
co» del paesaggio percepito dal soggiorno della casa
Schulz a Recklinghausen). Mai forse come a proposito
della casa Heyrovsky a Thumersbach (1932), Welzenba-
cher è stato esplicito su cosa intendeva per «spazio di
movimento»:
«La casa sta su un dolce declivio prospi-
ciente il lago. Pertanto, prendendo cura di impiegare
aperture facili da aprire e chiudere, e il combinare
abilmente tra di loro gi spazi, si trattava di creare ve-
dute e aprire scorci capaci di suscitare il sentimento
di un diretto contatto con il grande spazio naturale.
Ho aperto la casa verso est, sud e ovest per stabilire
al contempo l'onnipresenza di un paesaggio profuso
di bellezza. Luce e sole filtrano dai lucernari inseriti
nello spazio d'ingresso e della scala.» Il risultato è pa-
tente: <<Nell’attraversare gli spazi, il paesaggio si offre
in squarci sempre mutevoli,» (messo in evidenza da
B. R.). La differenza con l'approccio «culturalista» di
Schmitthenner e compagni salta agli occhi. Semplifi-
cando si può dire che per i «culturalisti» il paesaggio
è un tutto, finito come un quadro, con forme, colori,
una «Stimmung» e una storia con le quali si deve com-
porre, accettandone le regole, per ritrovare infine quel
tutto tale e qual era. Il progetto parte da quel quadro
paesaggistico, e nel suo farsi visita con «raccoglimen-
to», riscopre la natura dei luoghi, della materia e del
sentimento, e in qualche modo fa l'appello, ricondu-
cendo ogni presenza, ogni aneddoto al tipo e all'origi-
ne. Come è stato detto di Stifter, si può suggerire che
il pubblico, di fronte a questa ripetizione - ricreazione
del paesaggio «nella raffigurazione deve ritrovare l'o-
pera culturale da cui è scaturito l'ordine del mondo.
Questo (pubblico) assiste a una genesi - se non quella
voluta da dio, almeno una scaturita dalla mente degli
uomini».
Tutt'altro è l'approccio di un moderno come
Welzenbacher, che ingaggia un corpo a corpo con il
terreno, con la natura: «In ogni circostanza è la natura
del luogo, è il terreno, il fattore infinitamente vario ma
decisivo che innesca il tema architettonico. »
La tendenza a sostituire la nozione «paesag-
gio» con «natura» e «terreno» è tutto fuorché casuale.
Welzenbacher non parte da un quadro, dal paesaggio
tela di fondo del progetto, ma dal progetto stesso e
dagli elementi fisici del sito. L’oggetto è concepito
a partire da un fulcro spaziale - come per de Stjil e i
veri moderni - e dall'ancoraggio al suolo; e non da un
punto d'osservazione prefissato e privilegiato come nei
progetti degli accademici o secondo la frontalità di-
stanziata del quadro-finestra naturalista. Ma «natura»
e «terreno» sfuggono pure alle connotazioni culturali
e quindi convenzioni iconografiche che sono implici-
te alla nozione di «paesaggio». E questo va incontro
alle particolare «iconoclastia» dei Moderni. Questi
analizzano e selezionano, scorporano, astraggono e
riformulano la materia del progetto secondo modali-
tà che sono proprie di un programma derivato dall'e-
strazione: nella composizione dell'edificio privilegia la
spazialità e del terreno il modellato plastico; nel pae-
saggio seleziona i segmenti e le sequenze utili alla con-
formazione (Gestaltung) dello «spazio di movimento».
Se il paesaggio rimane «tela di fondo» riservata alla
contemplazione, la «natura» è paesaggio promosso a
nuovo materiale di progetto; nella natura, conferma
Welzenbacher, «anche l'architetto ha saputo ricavare
un nuovo elemento e lo ha applicato con consapevo-
lezza nel progetto della casa d'abitazione».
Rivelatore e decisivo è poi il capovolgimento
della relazione fra interno ed esterno. Numero, dimen-
sione e disposizione delle aperture non solo fondono
lo spazio interno con il paesaggio, come annotava Wel-
zenbacher a proposito del locale di soggiorno dell'o-
spizio per bambini nelle montagne bavaresi, a Hin-
delang nell 'AlIgäu (1931-33), («Lo spazio si apre verso
i monti dell'Allgäu attraverso porte in vetro che sor-
montano l'angolo e fa quasi tutt'uno con la terrazza an-
tistante»; ma queste aperture addirittura proiettano la
natura circostante all'Interno degli spazi: «... attraverso
la sequenza delle finestre a nastro la natura circostante
(può) essere proiettata nello spazio interno secondo
scorci sempre cangianti»59. Scrivendo della finestra a
banda della «Petite maison», Le Corbusier non aveva
forse affermato che «la fenètre de 11 mètres introduit
l'immensité du dehors, l'infalsifiable unità d'un paysa-
ge lacustre avec tempètes et calme radieux.»?
E come per Le Corbusier, questo nuovo rap-
porto fra interno ed esterno è il corollario di un muta-
mento prodottosi nella rappresentazione di sé dell'uo-
mo moderno. La conchiglia protettrice dove l'uomo
moderno ritorna a sé, il luogo della interiorità, non è
più I'«intérieur» che la pittura di genere ha consegnato
alla storia del costume. La natura ha preso il suo posto
e questa è la convinzione di Welzenbacher che, spiri-
to pratico, propone ai suoi clienti di vivere e abitare
«im geöffneten Raum» (nello spazio aperto): «Il nostro
tempo, che si ristora a tutte le fonti della natura, riposa
su di essa con tutta la sua spiritualità. Non da ultimo
nello sport si è individuato ciò che manca all'uomo
moderno per completare e controbilanciare il suo di-
spendio spirituale e fisico: la natura. »
Il confronto fra le precise immagini che illu-
strano dentro e fuori la «capanna» di Schmitthenner e
le fotografie, altrettanto eloquenti, di quel cesellatore
di fotografie d'architettura che fu Lois Welzenbacher
quando riprende le proprie ville da dentro, da fuori e
d'attorno, permette di apprezzare in tutta l’estensione
le conseguenze del supposto dislocamento dell'inte-
riorità. Pure l'uomo di Schmitthenner abita la natura e
la montagna - come potrebbe essere altrimenti per un
ammiratore di «Pietre colorate»? - ma le finestre non
cambiano forma e statuto perché al di là dal muro sta il
paesaggio dei Mieminger Berge. E le fotografie sotto-
lineano l’architettura delle soglie, l'intimità dei mobili
- veri e propri lari della casa. L’immagine della ragazza
colta nell’intimità della scrittura, protetta dal sottotet-
to a capanna tutto di legno è una litote riuscita: l’ico-
nografia è scontata, e cent’anni di Biedermeier fanno
un po' kitsch, ma rimane intatta la sensazione deH'im-
mensità del paesaggio che preme tutt'intorno alla casa
nell'alone di luce che illumina l'abbaino e spiove sui
riccioli della giovane donna, senza mostrare nemmeno
un quarto di cielo. Tutt'altro è il messaggio delle fo-
tografie proposte da Welzenbacher. Soprattutto quelle
di tipo «ravvicinato», prese sulle tangenti fra interno
ed esterno, a filo del parapetto di balcone o di fine-
stra o a ridosso del basamento, paiono suggerire, per il
modo come architettura e paesaggio sono composti, o
ritagliati, ad incastro Luna nell’altro, fino a confondere
figura e fondo, che architettura e natura non sono più
due luoghi che la cultura mantiene separate nel vissuto
80
e nel sentimento. Mentre è vero che nella «riduzione»
linguistica operata dai moderni, topografia, natura,
paesaggio sono materiali della composizione architet-
tonica come i piani verticali e orizzontali che stanno
per pavimenti, pareti e soffitti, una volta «ridotti» alla
loro pura operatività spaziale.
Sicché ci si può chiedere, con un poco di im-
pertinenza, quanta cultura i moderni hanno dovuto
rimuovere per arrivare là, dove noi li ammiriamo tanto!
Riguardo alla «gestualità architettonica» che
un po' avventurosamente avevo tentato di circoscri-
vere, se non proprio definire, a proposito di Franz
Baumann, essa mi pare una componente ancor più
esplicita nell'opera del Welzenbacher. Poiché il suo
linguaggio è più «moderno», vale a dire più astratto
e, pertanto, iconograficamente immotivato, le grandi
forme rivelano inconfodibilmente la loro funzione di
indicatori spaziali e plastici - indicatori che paiono la
traduzione architettonica della gestualità reale, della
grafia fluente e delle impennate che sono proprie dei
magnifici schizzi di Welzenbacher. Qui mi limiterò
al solo esempio dell'avan- tetto che, da improbabile
protezione dell'Ingresso, percorre d'un sol gesto im-
perioso l'intera lunghezza di casa Buch- roithner sopra
Zell am See (1928-30) e termina a modo di visiera sol-
levata alla verticale quando raggiunge il prospetto sud
affacciato sul lago. Le funzioni plastiche e spaziali di
questo elemento, a prima vista e da un punto di vista
strettamente utilitario del tutto inutile, sono moltepli-
ci: l'avan- tetto sporgente alle estremità allunga l'edifi-
cio e lo abbassa in quanto stacca e nega visivamente il
secondo piano; il no; il forte aggetto e conseguente-
mente la forte ombra portata sul prospetto a levante,
accentua la visibilità della costruzione da lontano, così
come la leggera convessità dell'edificio; al visitatore
che raggiunge dal basso e da dietro l’ingresso, per poi
lasciarsi guidare dagli spazi di disimpegno interni, l’ala
tesa della visiera, che all'estremità opposta si impenna
verticalmente, quando «incrocia» lo sbalzo del balcone
sul front sud, condensa in una sinossi plastica e spa-
ziale il concetto spaziale dell'edificio: un percorso ad
arco che prende le mosse sin dal giardino e percorre
per il lungo la casa con scale e ballatoi, distribuendo a
ventaglio le camere e termina nell’episodio conclusivo
del soggiorno aperto sulla bisettrice di due movimenti:
quello dell’avantetto e ortogonale ad essa, quello del
balcone.
«Linee essenziali e una solenne quieta».
La «promenade architecturale» di
Eduard Krüger sullo Schliffkopf nella
foresta nera
Questa sommaria incursione panoramica nell’archi-
tettura montana moderna sarebbe ancor più parziale
e ingiusta senza un omaggio a quel che considero il
capolavoro assoluto dell'architettura alpina del primo
dopoguerra, e cioè l'ospizio commemorativo costruito
tra il 1931 e il 1932 dal giovane architetto Eduard Krüg-
er sullo Schliffkopf, a 1200 metri di quota, nella foresta
Nera, per incarico dello Schwäbische Schneelaufbund,
associazione che chiedeva un ospizio per sciatori ed
escursionisti dedicato ai camerati caduti in guerra, e
che pertanto aveva indetto un concorso nel '26, con
una giuria di tutto rispetto: fra gli architetti, il prof.
Paul Bonatz, e il prof. Felix Schuster in rappresentanza
della sezione regionale dello Heimatschutz. Giovane
architetto appena laureato, Krüger fornisce una prova
di grande maturità, realizzando un'accorta sintesi dei
diversi approcci sin qui esposti. E forse per questo ap-
proda a risultati di sconcertante modernità, che nulla
hanno a invidiare alle raffinate speculazioni spaziali del
«minimalismo» e della «Landart» contemporanee.
L'edifico è di una grande semplicità: si tratta
di un corpo di fabbrica molto allungato, piegato a L se-
condo un angolo leggermente più divaricato di quello
Casa Buchroithner, 1928-30 retto e caratterizzato da una sezione a cuneo; un solo
Arch. Lois Welzenbacher piano contro la montagna, tre piani verso la terrazza a
valle e a sud, sotto un gran tetto a falda unica, punteg-
giato dagli abbaini che danno luce al corridoio da cui si
pùò accedere alle camere del primo piano.
Diversi fattori concorrono alla eccezionale
impresa sul sito dell'edificio: la disposizione rispetto
alla topografia; l'insorgere repentino di visuali sempre
diverse nel paesaggio; l'astuta organizzazione delle
sequenze d’approccio fino sulla soglia della terrazza
panoramica; l'effetto spaziale di questa stessa terraz-
za protetta su due lati dal grande schermo piegato ad
angolo della facciata in scandole di legno dorate dal
sole e contenuta sugli altri due lati da uno sviluppo
paesaggistico immenso che spazia dallo Schwäbische
Alb ai picchi del Säntis; infine, la distribuzione inter-
na che guida l’escursionista dall'Ingresso fino alla sala
commemorativa puntata verso il Säntis, dopo averlo
privato per un tratto di ogni vista verso l'esterno.
Dalla sommità dello Schliffkopf, le piante dei
piedi a 40 metri appena sopra il livello della terrazza, la
presenza dell’ostello si riduce al grande piano del tetto
a scandole, più basso dell'orizzonte. L’edificio è accuc-
ciato e a ridosso del terreno, senza offrire alcuna presa
ai venti dominanti e alle tempeste di neve.
Chi sale lungo la pista della Tränkenteichs-
chlucht scorge invece tra gli alberi l'imponente svilup-
po delle facciate, che l'ombra del tetto stacca nette sul
cielo; a seconda dello scorcio offerto alla vista, l'escur-
sionista apprezza la propria posizione. Lo stupendo
servizio fotografico che illustra l'ostello su «Moderne
Bauformen» del 1933, ritrae uno per uno, come le sta-
zioni di un calvario barocco, l'architettura in azione; e
le didascalie soccorrono gli «occhi che non vedono».
Esempio: «Vista dalla valle. L'ala maggiore corre contro
il lato breve che trafigge l'aria acuminato come un abe-
te e poi scivola sofficemente verso terra»; altro esem-
pio, quando siamo quasi arrivati: «Il percorso d'arrivo.
L'edificio si adagia dolcemente al terreno verso monta-
gna. Voluto stacco verso la valle.»
La breve tratta che da «Steinmäuerle» porta
all'ostello è un magistrale esempio di percorso basato
essenzialmente sulla composizione spaziale di alcuni
pochi elementi architettonici con la topografia e il pa-
esaggio.
L’approccio all’edificio è insolito. Lo si rag-
giunge da dietro e verso il lato breve, che si oltrepassa
procedendo radenti al lato verso valle, senza ancora
scorgere dove si va, perché la leggera salita nasconde il
grande piazzale panoramico.
Ma intanto, sul lato destro del sentiero, verso
valle, due cippi e poi undici pennoni con bandiere, di-
sposti in ritmo serrato, accompagnano l'escursionista
fin sulla soglia del piazzale, dove lo sguardo finalmen-
te spazia sull'immenso sviluppo paesaggistico, che va
dalla catena montagnosa della Schwäbische Alb alla
foresta nera meridionale, al Säntis fino a comprendere
l’Oberland Bernese.
L'autore che presenta l’ostello ai lettori di
«Moderne Bau formen» riassume come meglio non
si potrebbe l'effetto sorpresa: «L’escursionista che sale
lungo il sentiero verso il rifugio dello Schliffkopf pro-
cede verso quella che gli pare una baita bassa e adagiata
al suolo. Come aggira il lato breve si trova sorprenden-
temente di fronte alla parete alta dell'ala lunga; e dalla
terrazza, protetto da quest’edificio comunitario, spa-
zia con lo sguardo su vaste regioni, fino alle lontane
catene dei monti.»
Qui io vorrei ancora insistere sulla moderni-
tà pre-minimali- sta dello spazio della terrazza. Per-
via dell’accesso tangente all'edificio, lungo il muretto
di sponda fra piazzale e natura, il piazzale stesso pare
dilatarsi dietro e a lato del visitatore, verso montagna,
accentuando l'impressione di uno spazio protetto e
definito, reso ulteriormente domestico dai toni «caldi»
delle scandole e dalla immensa panchina che corre lun-
go tutta la facciata. Occorreva una sensibilità spaziale
ben moderna per comprendere che un edificio piegato
ad angolo, date certe condizioni, bastava a definire uno
spazio esterno.
Riferisce il critico di «Moderne Bauformen»
che le finestre al piano terreno sono tenute alte per
via dell'accumulo di neve dietro la casa soprattutto, e
sul piazzale; ad eccezione delle grandi finestre pano-
81
ramiche del salone aperte in testa al corpo avanzato a
fil di pendio e orientato in pieno sud, perché il vento
che lambisce costantemente questa facciata spazza la
neve; infine, l'ingresso è stato allontanato dall'angolo
dell'edificio dove il turbinare del vento accumula neve.
Di queste preveggenti disposizioni, che mettono una
certa distanza fra l'ingresso e il salone, l'architetto
profitta per combinare l'episodio conclusivo del suo
«Bewegungsraum». Al piano terreno, fra ingresso e
salone, lungo il fronte sud, sono intercalate la cucina
e le dipendenze. Il visitatore che si avvia verso il salo-
ne è pertanto costretto a un percorso aggirante, che
passa per l'atrio d'ingresso, uno spazio-deambulatorio
disposto contro montagna, lunghissimo e con tanti
tavoli disposti in fila indiana sotto le alte finestre che
guardano verso nord, a raso del breve pendio che rag-
giunge lo Schliffkopf. Tanto maggiore è l'effetto quan-
do, accedendo al salone dal fondo, si scopre sul lato
opposto la stupenda vista panoramica.
La breve dedica incisa su vetro è quanto
rammenta la destinazione commemorativa della sala.
Difficile far meno e più efficacemente. Gli «eroi» si in-
scrivono su un fondo di cielo (loro dimora, tanto più
se si tratta di eroi germanici), alti sopra un paesaggio
intatto di boschi e di prati, di nevi eterne e candide
cime; quattro linee in tutta semplicità e luminose
senza artificio, con il sole di giorno e la notte stellata.
Questa è retorica monumentale moderna e forse non
a torto qualcuno ravviserà nel dispositivo un derivato
della copertina di un famoso manifesto moderno: «Be-
freites Wohnen» di Sigfried Giedion, con «Licht, Luft,
Sonne» che si staccano luminose nel riquadro di una
grande porta-finestra moderna - per i conoscitori, la
porta finestra delle case alla Wasserwerkstrasse di Zu-
rigo, costruite da Max Ernst Haefeli nel '27.
La campionatura delle attitudini assunte da-
gli architetti moderni in contesto montano potrebbe
naturalmente continuare. Ho appena accennato ai
costruttori che nelle condizioni climatiche estreme
dell'alta montagna hanno trovato un incentivo all'in-
venzione tecnologica, funzionale o plastica. E un capi-
tolo a parte meriterebbero gli studi e le proposte degli
architetti moderni italiani che Adriano Olivetti aveva
unito attorno al piano per la Valle d'Aosta. Proposte
all'Insegna del più rigoroso razionalismo, con prismi
puri, pilotis «tutti i terreni» e aeree strade. Ma in un
testo per forza di cose esplorativo ho preferito, a co-
sto di sacrifici sul fronte della esaustività, selezionare
aspetti, casi e progetti imperniati sulle nozioni di pae-
saggio montano.
Ospizio commemorativo sullo Schliffkopf, 1931-32
Arch. Eduard Krüger
82 83
Sanatorium Martel de Janville, Bedroom interior; Al-
ternating bedrooms and solar-balconies; Dining Hall;
Exit leading to park facing Mont-Blanc
Henry Jacques Le Même & Pol Abraham, Sanatorium Martel de Janville, Plateau d'Assy, Passy, Haute-Savoie, France, 1933-1937
‘Henry Jacques Le Même: Architecte à Megève’
Jacques Gubler, 1988
Preamble
In 1987, Henry Jacques Le Même’s output and sheer tenacity defy all criticism.
The architect seems to stand beyond controversy, in the shadow of Mont Blanc,
as if the artist could escape history, build up a lasting catalogue of works, create a
style which transcends seasons and fashions, and continue to innocently espouse
moral values which are no longer the fashion of the day. Perhaps this is a lesson
learned from Jean-Louis Pascal: fair-minded emulation, modesty based on pride
in craftsmanship, a respect for merit and the hierarchy it implies. What kind of
questions should one raise, however? Right from the start we can dismiss any split
personality interpretation whereby we have a modern architect by day and a back-
ward-looking practitioner by night - an avant-garde Dr. Jekyll at the sanatoria,
and a primeval Mr. Hyde at the alpine chalets. The whole issue has nothing to do
with anachronism or some supposedly twin-headed approach. Everything can be
centered around three interlinked questions:
- does mountain architecture constitute a category of its own, with its own rules
and techniques?
- is it possible to renew a picturesque aesthetic in the 20th century?
- is the classical notion of propriety still admissable?
Mountain Architecture
Vitruvius himself («Our Father», as he was jokingly referred to in the Pascal atelier)
established a relationship of cause and effect between topography and architec-
ture, a relationship translated thus by Claude Perrault in his 1684 edition: A well
laid-out house has to take into consideration the region and the climate in which it is
to be built. For Vitruvius, the geographical explanation covered both the origin of
the architectural orders, and the varieties of dwelling to be seen in the provinces
colonized by Rome.
In the 19th century, with the explosive encounter of romanticism and ma-
terialism, and the emergence of ethnography and linguistics, the debate was to be
taken up again, this time in contradictory terms. On the one hand, Semper reflect-
ed on the etymology of materials which governed building and building economy
- «tectonics» becoming the rational discipline of style; on the other hand, Ruskin,
in his travels, observed the effects of climate and geology on the combined image
of landscape and monument.
In some ways, Semper's materialist approach and Ruskin's picturesque ap-
proach were both subsumed by E.E. Viollet-le-Duc under the expression «patient
research». If the entry under house in the Dictionary of French Architecture tried to
sketch a history of «town houses», and an ethnography of «country houses» - an
invariably medieval typology - although the geographical hypothesis of regional
«schools» is just as verifiable in Romanesque churches as in rural architecture, and
even if the building of chalets is most interesting to study, and is, in Europe, the clos-
est one comes to the wooden structures of primitive ages, the doctrine of mountain
architecture, however, only appears in Viollet-le-Duc's later writings: Histoire de
l'habitation humaine (1875), Le massif du Mont Blanc (1876), Habitations modernes
(1877).
This «alpine doctrine» postulates that the protohistorical, material and con-
ceptual origins of architecture are to be found in the Mountain from which it has
descended (as Zarathustra was to do); and that the Aryan chalet (Viollet-le-Duc
employs Gobineau's racial categories) is the prototype of the rational house.
For Viollet-le-Duc, the crystal and its polyhedral geometry subtend stone
and snow in their material intimacy. Mont Blanc is taken as a metaphorical build-
ing. Down through geological time, its peaks and glaciers have borne out the
principles of modern construction for which «La Vedette», the house designed for
himself and built in Lausanne between 1874 and 1876, was to provide a demon-
stration. Offering an archetypal image of the coexistence of masonry (rocky mas-
sif) and roof framework (triangular summit), «La Vedette» formed a solid block
with a break containing (comprising and maintaining) the elements: it was cut into
the south slope; the logic of the plan was built into the foundations; the house
was designed to withstand erosion (and even avalanches), with a steep roof for the
rain and inversed guttering. In his literary argumentation Viollet-le-Due shuttles
84 85
back and forth from the technical to the functional, from the functional to the or-
ganic, from the organic to the material. This wandering approach might recall the
transformist physics of Ionian philosophers, even if, from an architectural point of
view, the material and its application amounted to a statement of immutable prin-
ciples. «La Vedette» represents a gesture of reaching out towards the anonymity of
the archetype. It is both an acknowledgement and a greeting. Finally, the house is
taken to be an «individual/edifice» to be read either as emblem of the social group,
or as a shelter meeting the private requirements of its owner.
In the final analysis, for Viollet-le-Duc, the modern dwelling in the Alps cor-
responded to the twentieth century notion of the «country cottage». He adver-
tised his «Chalet de la Côte», built in Chamonix between 1872 and 1873, calling
it a «house for rent». The architect occupied the stone-built ground floor - a vast
block consisting of six independent rooms including a huge kitchen and a bath-
room with twin baths. It is to be noted that there was no bath on the three floors
rented out by the owner; perhaps the summer visitors preferred to bathe in Aix
and St-Gervais, perhaps they did without. Furthermore, the «Chalet de la Côte»
was a chalet: the architect employed local contractors to saw, prefabricate and
put up the «trimmed pine trunks which were assembled at the angles and laid
close-fitted».
All in all, it can be considered that Viollet-le-Duc's experiment in the Alps
provided a useful lesson for Henry Jacques Le Même to the extent that it estab-
lished direct connections between monumental architecture and the touristic ap-
proach to «country cottages». The attempt to discover and illustrate the innate
logical principles in rural architecture comes down to establishing an all purpose
rationality which can then be altered to fit local climactic and geographical condi-
tions. However, the architectural construction of the landscape raises the question
of the picturesque, as soon as the builder seeks to employ local manufacturing and
vernacular techniques.

The Picturesque

Le chalet du peintre Gimel, South west view; Plans
It will be recalled that the picturesque constitutes one of the striking contribu-
tions made by British aesthetics and that discussion of the contrasting aesthetic
categories represented by the beautiful, the sublime and the picturesque arose in
the latter decades of the 18th century. As its etymology makes clear, the term «pic-
turesque» refers to the relationship between painting and architecture. We merely
intend here to deal with a few aspects of this long and often complex debate, and
to refer to Ovedale Price's replies to his predecessors published in his Essays on the
Picturesque (1810).
Price asserted the pre-eminence of painting as a technique of training in
architecture, landscape gardening and civil engineering. He liked to quote Cicero
who believed that painters could see many truths in light and shade: Quam multa
vident pictores in umbris et in eminentia quae nos non videmus. It little mattered
that this implied a three-fold confusion: that Nature was an abstract, independent
and sacred object, cut off from human agency or the mechanisms of perception;
that the painter painted in order to imitate nature; that the architect, in his turn,
should strive to imitate the painter.
Price employs two different terms to refer to landscape: scenery and land-
scape. The first term applies to the scene and to the urban artifices through which
architecture supposedly achieves its «independence»: for this reason it is appar-
ently of little interest. Henry Jacques Le Même reminds us that some of the con-
vertibles and limousines in the thirties and forties were equipped with a twin horn
- a muted klaxon for use in town and a stridently blaring version for the country.
It is precisely in the country - and following on from Price's argument - that ar-
chitecture ought to submit to the landscape - a term of agricultural derivation,
originally denoting area cleared in the forest and which, metaphorically, could
be accurately represented in painting. The painting would provide the outline
for the architectural project, couching it in the aesthetic categories of roughness,
abruptness and intricacy. It appears that the moral doctrine of the picturesque is
to pursue richness and variety by discovering the rules governing the beautiful, the
smooth and the well modelled, in order to then refute them within the limits of a
certain familiar virtuosity.
The British vogue for the picturesque saw the publication of pattern books
offering the client a free choice. Whether the brief was to be for a caretaker's lodge
or a country retreat, the client could choose his own «image» - a variation on a
standard plan. Contrasting images suited to individual taste were developed from
the postulate of variety. The influence of the picturesque aesthetic then spread
throughout industrial society and a number of channels helped vulgarize architec-
Henry Jacques Le Même, Le chalet du peintre Gimel, North west view, Rochebrune, Hautes-Alpes, France, 1934
86 87
«Le Perchoir», chalet de Monsieur Castel à Rochebrune,
1939
«La Cordée», chalet de Monsieur Pasquio (50m2 au sol),
1943
Chalet Isatis de Monsieur Vindry à Rochebrune, 1941
Chalet Hurlevent de Monsieur Jean Sage (façade nord-
est), à Rochebrune, 1934
Maison de Henry Jacques Le Même, Megève, Haute-Savoie, France, 1928
tural images: the stock picturesque of the illustrated popular magazine, the devel-
opment of tourism, the lavish consumption of images, the Universal Exhibitions
which, as early as 1920, Giedion was analysing in terms of the learned transmission
of constructional systems on an international scale - a phenomenon difficult to
explore from the standpoint of the picturesque and its history, no doubt due to
the sheer growth in the number of images available. The presentation of architec-
ture in such a cliché and commonplace way meant that the aristocratic code of the
picturesque yielded to the emergence of more broadly based canons of taste which
developed hand in hand with mass education.
Finally, the models conveyed by painting, engraving, photography and
comic books influenced the architect just as effectively as they did his client. All
that differed were the concerted groups of images, ephemeral constellations, a
sprinkling of examples - in short, the referential framework. And even the images
of modernity were able to take on a picturesque guise in the latter 1920's.
Propriety
The public recognition of «new architecture» around 1925 was largely the result of
a critical selection of iconography which, at first, appeared in professional reviews.
When Albert Morancé and Jean Badovici brought out L'Architecture vivante en Al-
lemagne, in France, although their aim was to demonstrate the polymorphous di-
versity of this architecture by publishing plans, the graphic quality of their albums
in fact cloaked the new phenomenon in an extrinsic homogeneity. This homoge-
neity which they ascribed to the «new building» was then magnified, culminating,
in the 1930's, in manuals and catalogues which, by their constant use of adjectives
such as functional, international, real, and objective sought to demonstrate that the
construction of a new world was already underway.
Among the manuals which suggested that architectural progress was irre-
versible and that its proclamation of a unifying principle in turn generated social
progress, Richard Döcker's Terrassentyp played a seminal role. Döcker was the site
architect at the Weissenhof housing estate in Stuttgart. Expressed in section, the
terrace type - or system of galleries in front of all the floors on the south elevation
of the Weissenhof buildings could be applied not only in hospital briefs, but also
to housing, schools, office buildings, in short to the whole sloping town: helio-
therapy and fresh air combined to give the new architecture its elegant, hygienic
configuration. The demand for clarity and transparence was suggestive of clinical
asepsis (dermatological treatment is carried out in daylight), of a poetry of crys-
talline light where there was neither reflection nor half-tone, and where volumes
were starkly defined.
In his novel Der Zauberberg (The Magic Mountain, 1924), Thomas Mann
contrasted the dazzling brightness of the spaces in the TB sanatorium with the
polychromy of the feelings. Modern taste prevailed in the patient's bedroom where
the furniture was «practical» and white, the chrome bedframe gleamed under the
electric light, and the disinfected linoleum gave off a pungent smell. The dining
room was portrayed in all its highly objective simplicity, the adjective echoing the
«New Objectivity» movement which Mann depicted as bordering on the weird.
And even in the large basement dug into the steep hillside, the laboratories are
flooded with white, clinically bright light. The novelistic portrayal of the sanatori-
um took on a tragic dimension when the author isolated his character in an aware-
ness of approaching death. On the other hand, the sanatorium offered a heliother-
apeutic model which could be extended to housing and schools (with a mandatory
2.5 meter wide balcony) and which conformed to the basic rule of the building as
an instrument of social progress. It symbolized international exchange in diag-
nostic research, sanitary engineering and social medecine - all stimuli which had
prompted the early international Architectural Congresses in the years leading up
to the Great War. In France, Henri Sauvage and Tony Garnier waxed poetic over
the sanitary virtues of reinforced concrete, while celebrating the «classical» theme
of hanging balsamic gardens. Two hypotheses may be advanced in the light of the
preceding remarks:
1) When removed from its social and theoretical context, the «new architec-
ture» could apparently be transmitted and received via the iconographic network
of photography and the reductive filter of architectural literature: this explains
Hitchcock's reference to an «international style» in 1932.
2) Technical efficiency, economic rationalism and advertising are the rea-
sons why certain types of architectural brief - the garage, the factory or the san-
atorium - «necessarily» take on a modernistic tone. If both these hypotheses are
correct then this would confirm the rule of conformity which, in the 19th century,
governed the logical relationship between the brief and its stylistic expression. In
88 89
this way, architecture in industrial society would seem to oscillate between two
contrasting attitudes: on the one hand, the promotion of a type of expression
which is unitary, individual, collective and syncretic (Viollet-le-Duc), or «without
precedent» (Bruno Taut); and on the other hand, a pluralistic practice in which
project supply and demand create an empirical type of relationship of an abritrary
nature and dependent on the client's taste. Here, the example which springs to
mind is that of the thousands of projects carried out between 1892 and 1910 by the
François Hennebique company and its network of agents, dealers and architects.

Envoi

A skier in a bathing suit, a sportsman in a pullover, a fireside chat... Henry Jacques

«Le Louve», vieille ferme réaménagée pur Mme Labour-
dette, 1950
Le Même's alpine work affords a demonstration of the architect's know-how com-
ing to terms with the lifestyle of his clientele. How can the demands of durability
and exclusivity be equated with fashion and picturesque clichés? No doubt by re-
ferring to the classic notions of arbitrary beauty and propriety.
In his analysis of Vitruvius, Claude Perrault isolates the prime requirements
of solidity, salubrity and convenience in the topic of beauty being discussed: one
first of all refers to the judgement and approval of those held to be enlightened and
knowledgable in this matter. What Vitruvius called decor, Perrault translated as
propriety: in other words the rule of conformity between the brief and its public
expression. Decor here means the presence of decorum and etiquette. A triangular
relationship is thus built up between the architect, the client, and a third party
who acts as custodian of custom, common practice and fashion. Although pro-
priety admits of worldly savoir-faire, and even initially favours this, the very same
prejudice can, however, serve to further the project. Not, of course, to exceed the
budget, but to bring about a shift towards novelty within a conventional frame-
work - in other words, a subtle interplay which can push the picturesque right to
the very limits of Dali's «critical paranoia». The romantic sanatorium gargoyle, the
corner window in the chalet with its single circular mullion, the Pompei red paint-
work against the snow - these are all extraneous references which can be likened to
Dali's «limp watches». By approaching modernity from the classical tradition and
the picturesque aesthetic, the irreducible intricacy of Henry Jacques Le Même's
«alpine work» invites our inquiry in 1987. We hope that this... will provide a new
stimulus for debate on «mountain architecture» - a technical and controversial
issue in all its Olympic and Olympian topicality.

(Extract from the book of the same title, edited by Françoise Very & Pierre Saddy,
translated into English by Murray Wyllie)

Henry Jacques Le Même & Pol Abraham, Sanatorium du Roc-des-Fiz, Plateau d'Assy, Passy, Haute-Savoie, France, 1929
90 Selected Writings and Paintings by Bruno Taut
1917-1918
Alpine Architecture
Preface by the Editor
This work which I have edited in fulfilment of a cherished duty to the legacy of my
friend, was conceived in the year 1917 and executed in 1918. The deepest reason for
its emergence lay in the heart of its creator - a heart that shed its blood under all the
pain of war in the world. Like Winkelried, it received all of the bristling lances and
pressed them into itself. If it is nothing more, said my friend of his work, then it is
at least a paean to the glory of the world. Yet he also mentioned his absolute faith in
the idea itself: his most sacred conviction. And though this idea may initially seem
strange enough - no matter how much one ponders and ruminates, there is likely
no other way out of the great universal misery. And if there is this way out, then it at
least has something wonderfully gratifying, making this work the greatest consola-
tion and the purest hope in these lamentable times.
We spoke often about the possibility of execution. The enormous funds, labor and
sacrifices required were to him nothing but a confirmation of his idea. And when
serious doubts arose, for instance, regarding the building up of Monte Rosa in its
nearly Eiffel Tower heights, he knew, being a conscientious, practical architect and
good constructor in life, to dispel these with detailed construction explanations,
so that nothing remained for us but to marvel and believe. Why did he not provide
more precise plans with construction details? First, the pure idea must be allowed to
speak for itself (he said), nor should the engineer dominate later, during construc-
tion, no matter how important and necessary his efforts will then be. We calculated
that the scaffolding for a mountain would cost many millions - "that is quite all
right. And it is a confirmation of the value of the project when it in fact requires no
less in the way of monies and masses of men than the World War is swallowing up."
At any rate, in the war Europe has proven one thing: the degree of mental stamina
and energy of which it is capable. And if these forces can successfully be channeled
in a different, finer direction, then the Earth will in truth be a "good dwelling". And
the Yello Peril? It is the same delusion as the hate among Europeans. The Chinese
Ku-Hung-Ming, in his book The Spirit of the Chinese Language, denies the existence
of this peril in the name of his people. And that the motive behind the war is not
race hatred has been proven by the war itself, which has drawn many different races
for, against and pell-mell into its maelstrom.
Yet beyond all politics, the value of this work lies in itself, its
purifying and resolving effect in the fundamental questions of architecture, and
thus in its being culture itself become form. This the author wished to convey by
means of the symphonic five-part division and circularity. The fourth and fifth parts
give the roots of a new, meaningful ornament, which is entirely lacking today. It was
his desire to have the work published by a religious community. Sadly there is none
that is broad and free enough in extent, so this wish could not be fulfilled. Yet the
other all the more, which concerned the anonymity of publication, since he, already
intrinsically nameless, loved in all works of architecture, to declare anonymity to be
91 a fundamental element. And in the case of the present work, he said he was not the
architect at all - the architect was our poet Paul Scheerbart, and ultimately not even
he was that. In it the idea alone, untrammeled by human things, was to shine out.
Bruno Taut
Bergisch Gladbach
Letter to his Wife, Hedwig
2 Nov. 1917
My dear, dear Hedwig, I have had nothing from you. These days I am somewhat
frazzled by the move and everything, on the whole in a happy, hopeful mood, but in
the background always the anxious question: what is the state of my soul? But I do
think I will receive something from you this evening, or tomorrow morning at the
latest. So I keep asking from post to post whether anything has come – "nothing"...
My new apartment compares favourably to the former one in
every respect. The Ritters are a truly well-bred family, one feels more like a guest
among them than a tenant. Pleasant, real people - compared to the vulture who
used to work me over. She showed her fundamental character traits to the very end.
I woke up happy in the new room yesterday on All Saints'. The sun turned it com-
pletely golden brown. It has its two windows in the corner, with large, old trees out-
side, and in this corner I have flowers and green plants and a bench. I was absolutely
in an All Saints' mood yesterday. My Alpine idea was continually on my mind, and
I lectured everyone that the nations of Europe were waging war out of sheer bore-
dom since their heads contained nothing worth mentioning. I'm going to give them
an assignment, etc. Back then, day-before-yesterday evening, I also gave Fräulein
Wittich one of these lectures, and yesterday morning an engineer here in the office
- I no longer much bother to ask whether they understand me. Yesterday morning
it became entirely clear to me: the city crown is obsolete, building beautiful cities
and crowning them does not take people much farther - you have to show them the
great lonely heights and yoke them to tasks so gigantic that everything is subordi-
nated to these tasks alone. Beauty first and foremost. And if the slavery does not
abate - no matter, as long as people have a single task and can longer think of stupid
wars and quarrelling. Boredom is the source of all evil. Aren't we basically all bored
nowadays? What is it about which all the fuss in the world is being made nowadays?
Eating, drinking, knives, forks, appliances, railways, bridges, etc. And what comes
of it all? The "good" life? Isn't that ridiculous? Everything revolves around feeding,
flags, comfort. Then the great expenditures for factories and slavery. Childish! Less
than an animal, that at least innocently enjoys the moment. People must have a task
that involves them so deeply that they subordinate everything, their entire industry,
to it. They may moan about slavery even then - but they will see that their works
accumulate, their Earth become more beautiful. Just imagine, we - our children will
surely use the aeroplane as a matter of course, as we today use trains or cabs. And
then, below them, the radiant, continually growing splendour! Lonely great beauty
as the work of men - can't this be piety as well? - I know, for you the quiet beauty of
nature is enough. For me, too - as long as I am alone or quietly with another per-
son. But we human beings are herd animals, too, and this herd must be prodded to
92 greatness - roughly, if need be! - to prevent its becoming dangerous. If people can
then create this greatness, which has begun in rudiments in ancient India, China,
Egypt, then their works will appear like a piece of nature which will later speak as
profoundly as a tree in the forest.
So, dear heart, now you too have had to put up with all of this.
Yet - actually I am infused by a profound happiness. All I have to do is search for it.
Seek and ye shall find, knock and the door will be opened to thee. And: he who has
- I feel as if I had first to endure a great wrestling, a wrestling with the Holy Spirit.
I want to be entirely, entirely filled by the thoughts of the universe, of - God. Oh
how much I yearn for this. This yearning of mine must be fulfilled, because after all
I myself am becoming more and more like God. And if it were only when I die. But
it must be the most inconceivable thing to be so close to the boundless One that
not even the slightest urge to say a prayer arises, because everything is only peace in
Him. What should one pray for at that point! And whom should one serve? Being in
Him, being the universe oneself, feeling it inside oneself. - All of my yearning is for
the Pentecost. - These are ancient thoughts, and ever new wisdom. - Maybe they are
more a man's thoughts. Woman in the true sense of the word bears all of this within
her, when she has a reverential heart. The stars of your eyes, those violets, stand as
the brightest stars in my sky. So be patient with my eternal wrestling and take a little
pleasure in my incessant search for beauty. In my thoughts I kiss your dear hands,
bowing. Who would dare go bolt upright.
Yesterday afternoon, on the holiday, I was at Erich's in Cologne,
and then we met with the Göttels. Actually we wanted to go to Mass in the cathedral
at five, but it wasn't being held. But in that twilight the space appeared enormous.
And it is so marvellous not merely to carry the great sensations alone and silently
into the woods, but to let them become art.
Love and reverence for everything serious
Holy. All Saints'!
----
Otherwise it was not so nice in Cologne yesterday. Everything overcrowded, hoi-pol-
loi in uniform and without; finally, after much trudging around in the cold streets
we managed to slip into a restaurant and a coffee. - So, now you know what I've been
up to again.
I am so strangely happy and content now. Is this a good sign,
or is a change coming? The way through the woods in the mornings almost compen-
sates for all the Stella torment the whole day long. So I shall be content, if only you
are doing well. Dear - dear - heart. You don't need to write much. It's enough that
we two are here. So I hope this story doesn't bore you too much. And don't worry
about me entirely losing touch. I can still discern the "practical" quite clearly. You
know I have garnered another commendation as a 'constructor', and in the evenings
I intend to do some more practical work for Hohenlohe. Never lose hope. What can
happen to us. Kiss the children and my regards to everyone.
Always, your faithful Trauter
93 Bruno Taut
Bergisch Gladbach
Letter to his Brother, Max
15 Apr. 1918
My dear Max. Cordial thanks for your cards. Excuse my laziness in writing. So much
is pressing on me from every imaginable side that I continually wait and wait until I
finally have something positive to report. Concerning your matter, I wrote to Weiss
immediately back then, that is, I don't think it necessary any more. But I am going to
Berlin on Saturday. Perhaps I will give him a call to find out more. Before that I will
be in Dresden, because the college inquired whether I wanted to be put on the list of
candidates for a professorship. I don't know if anything will come of it. Pölzig thinks
it not improbable, but I would certainly not like to give up my Berlin office, and if
I cannot combine it smoothly with the professorship, I wouldn't want to accept.
Naturally being a professor has a lot to say for it. For the time being I will definitely
pursue the matter. Who recommended me, I don't know. Not Pölzig.
Then, Everding submitted a petition on my behalf. This, too,
makes me nervous. Keep your fingers crossed, dear Max - I will do the same. Maybe
we two will soon be relatively free in our old Berlin. This dog's life just has to end
someday. I can no longer stand it in this stall, and even Mutzenbecher wrote that I
had it worse than he did. Whatever, we are all suffering. I found a little relief before
Easter in a new project. For three weeks on end I worked every night until 12 or 1
o'clock on drawings for Alpine Architecture, and fininished parts one and two. I in-
tend to publish them anonymously later. The nucleus is a pacifist idea, with which
I want to fight against the war. It is to have five parts, i.e. Part 1: Crystal Building
in the Mountains; Part 2: Views of the Mountains; Part 3: Alpine Building; Part 4:
Transforming the Earth's Crust; Part 5: Astral Architecture. - The first part contains:
fol. 1: Ascent to the Crystal Building; fol. 2: Path to the Crystal Building in Wild-
brook Canyon; fol. 3: Crystal Building; fol. 4: Inside the Crystal Building. - The
second part: fol. 5: Snowcap with Glass Skeleton Architecture over a Sea of Clouds;
fol. 6: Valley as Blossom; fol. 7: The Crystal Mountain; fol. 8: Grotesque Region; fol.
9: Valley with Elaborate Architecture (Water); fol. 10: Firns in the Eternal Ice, Gla-
ciers Snow Glass; fol. 11: The Cathedral in the Rocks. - This is finished. It's bound to
disappoint you. Behne thinks it very beautiful, I sent it to him. If it only contains an
iota of what I intended. The third part will of course be considerably more difficult.
I want to be released simply in order to finish this work. But - wait and see, wait and
see. We're all waiting machines.
Farewell.
Always cordially, your Bruno
94 Valley with
elaborate architecture 95
Colonnades over and
between the cascades
with ruby red glass
columns. Many
balconies, terraces
and colonnades ex-
tending high into the
mountains - for the
study of [the play of ] Much glass for
water, water vapour, columns, roofs
cloud formation, and and parapets
the multiple illumi- amidst polished
nations by night. rock.
96 Valley
as 97
Blossom

Walls are placed

leading up
the slopes, of
coloured glass
in solid frames -
The light shining
through creates
multifarious
changing effects,
both for those
[walking] in the
valley and be-
tween them and
for the aviators.
In the depths a The view from
lake with flower- the air will [pro-
like ornament of foundly trans-
glass in the water. form] architec-
This and the walls ture... architects
are illuminated as well.
at night - As are
the mountain-
tops. They are
(set) with smooth
crystal points.
Floodlights on
the mountains
make these
points sparkle
brightly at night.
98 Crystal Building in the Mountains
99
Erected entirely of
crystal glass coloured
in the snow and glacier
region. Devout unut-
terable - silence.

Temple
of
Silence

Leading out of
the valley, crystal
masts accompa-
ny the way - They
glitter in the sun
and especially
the tallest which
rotate in the
light - Crystal
standards.

Plateaus for
Air Landings

This Crystal Building should not be a “crown”.

Who would dare to put a crown on the uni-
verse! - And no "city crown." Bruno Taut would
never place the most supreme, a void, over a
city. Architecture and the urban miasma re-
main insuperable opposites. Architecture does
not permit itself to be "applied." Not even to
ideals. Every human thought should grow si-
lent where the highest love of building, where
art, speaks - far from hovels and barracks.

SURFACES, EDGES, VAULTS, SPACE

100 Path to the
Crystal Building 101
in
Wildbrook Canyon

The canyon is
spanned by arches
of thick coloured
glass - These
grow narrower
in the narrowing
canyon above
the increasingly
raging stream and
take on increas-
ingly glowing
and deeper col-
ours - up to the
narrowest part
of the canyon far
above [which is
closed] by a glass
arch-lattice in all
colours.

INTO THIS LATTICE

ARE (SET) HARMONI-
OUSLY TUNED AEO-
LIAN HARPS.
102
'Terme e Architettura'
Emilio Faroldi
L’attrazione dell’acqua è alla base dell’organizzazione
dello spazio e delle regole di movimentazione e rela-
zione delle persone al suo interno. l processi di appro-
priazione dei luoghi, all’origine delle forme architetto-
niche, indirizzano le pratiche urbanistiche e turistiche,
introducendo, in ogni epoca, nuovi usi delle risorse
naturali.
“Di tutti i liquidi conosciuti, l’acqua è proba-
bilmente il più studiato e il meno conosciuto” scrive-
va anni fa il chimico-fisico inglese Felix Franks. Ep-
pure l’acqua fa parte della cultura del benessere sin
da quando si credeva che il sangue fosse immobile e
l’uomo provenisse dal fango: la sua appartenenza si-
multanea al mondo delle acque e a quello delle terre
emerse, ha definito un rapporto simbolico originario
della relazione acqua-terra-uomo che si estende al di
fuori dei confini della scienza. E se”il viaggio è l’ani-
ma della civiltà”, rappresentando la metafora della vita
o addirittura “il possesso presente della propria vita”,
non va dimenticato che all’origine delle prime forme di
impiego del tempo libero e di turismo stanziate, tro-
viamo, congiuntamente alle ragioni militari e religiose,
i soggiorni curativi e la ricerca della salute attraverso
l’acqua. Il termalismo, come architettura dell’acqua,
si nutre dei rimandi impliciti ed espliciti di tale ele-
mento, ampliandosi in una prospettiva di equilibrio e
ricongiungimento con una parte di sé che coinvolge
non solo i sensi ma anche la psiche. Risultato di una
tensione alla totalità e al simbolo, le terme e i comp-
lessi balneari affondano le proprie radici nella storia
dell’umanità rappresentando un filo comune che lega
costumi e tradizioni differenti in aree geografiche sp-
esso lontane.
L’arcano delle sue origini, i differenti moti e
passaggi di stato, il suo scorrere purificatore e por-
tatore di vita, fece sì che l’acqua, in particolar modo
quella delle fonti, si connotasse come elemento sacro
presso la maggior parte dei popoli, fin dall’antichità.
Presso gli assiri il medico era definito come “colui che
conosce l’acqua” e già gli ebrei avevano sperimentato
un sistema di riscaldamento dell’acqua attraverso tu-
bature per consentire ai malati di compiere abluzioni.
La costruzione di appositi spazi idonei all’ef-
fettuazione di bagni caldi ebbe la sua diffusione ini-
zialmente in Grecia. Inizialmente le località termali
coincisero con le sedi di importanti luoghi sacri: ad
esempio nel tempio di Apollo, a Delfi, venivano prati-
cati bagni in acque calde e vapori per ottenere la guar-
igione, inquanto elementi ritenuti di origine sovran-
naturale. Nel bacino del Mediterraneo si insediarono
diversi santuari, costituiti da una fonte o da un pozzo
e circondati da un bosco sacro, che ospitavano ricov-
eri posti sotto la protezione del dio Asclepio, patrono
della medicina, nei quali si accoglievano gli ammalati
per apprestare cure e medicamenti. Il suo culto, car-
atterizzato dal recupero della salute attraverso le ac-
que, ebbe rapida diffusione tanto che, in pochissimo
tempo, si estese da Tricca fino alla città di Epidauro
e, da questa, sino ad Atene e nelle colonie. La storia
della medicina termale nacque congiuntamente alla
storia della medicina stessa: nel passaggio alla cultura
romana, perse lentamente la sua connotazione prin-
cipalmente curativa, allorquando si arricchì di valenze
sociali ed educative. In Grecia, ad esclusione del circu-
ito medico e religioso, che comunque non promosse
la costruzione di luoghi dedicati specificatamente alla
pratica termale, nacquero i primi bagni pubblici. Dal
termine balàneion, cioè il bagno caldo, a cui si asso-
ciava il bagno freddo per immersione, detto loutron,
i bagni si diffusero in periodo ellenistico, quando
vennero incorporati al gymnasion. Fu infatti il ginna-
sio che, includendo il bagno integrale e la pratica na-
tatoria nei suoi regolari programmi, creò il contesto
architettonico e sociale per una definizione formale
di quelli che sarebbero divenuti i bagni pubblici, in-
fluenzando, nella sua traduzione romana, lo sviluppo
del modello termale. Le aree dove inizialmente furono
costruiti i ginnasi, erano collocate al di fuori della città:
pianeggianti e caratterizzate dalla presenza di radure
boschive e sorgenti, permettevano agli utenti di rin-
frescarsi e nuotare.
Durante il IV secolo a.C.. Il ginnasio assunse
una posizione centrale nell’assetto urbanistico del-
la polis, tanto da essere spesso costruito nei pressi
dell’agorà. Lentamente la tipologia si trasformò, assu-
mendo una forma più compatta tramite la sua dispo-
sizione lungo un quadriportico: gli elementi dispersi
del vecchio modello furono organizzati attorno ad
una corte rettangolare e composti modularmente. La
costruzione dei bagni greci non decretò un criterio
morfologico universale, anche se la struttura più fre-
quentemente utilizzata si rifaceva ad una sala circolare,
chiamata tholos, arricchita da vasche disposte a rag-
giera con piccolo ripostiglio nella parte superiore. Il
bagno, introdotto tramite il ginnasio come elemento
caratteristico della vita cittadina, si diffuse nelle città
greche e, successivamente, nelle colonie.
La massima espressione del termalismo anti-
co si raggiunse con l’Impero Romano che, garantendo
unità linguistica e un significativo sviluppo della rete
viaria e della sicurezza, favorirà la nascita dei primi
fenomeni di turismo termale, e con essi, la nascita di
strutture specializzate, integrate da luoghi di ritrovo
e di intrattenimento quali giardini, impianti sportivi,
teatri, musei, biblioteche. Galeno, Plinio, Vitruvio,
hanno lasciato testimonianza di un ampio fenom-
eno sociale e culturale incentrato sul rapporto e sulla
conoscenza del sé, documentando i metodi di cura
del periodo: l’alternarsi di digiuno e bagni, l’utilizzo
dell’acqua come farmaco, il ritmo della cura, scandito
da precisi momenti e dai relativi spazi quali lo spoglia-
toio (apodyterium), dove venivano effettuati i massag-
gi, il tepidarium, caldo e balsamico, il sudatorium per
una intensa traspirazione, il calidarium o bagno caldo,
il frigidarium o bagno freddo.
In epoca romana le terme rappresentarono
anche un’occasione di innovazione e avanzamento
dei sistemi tecnologici di riscaldamento, ventilazione
e climatizzazione, nonché dell’approvvigionamento e
smaltimento delle acque. I sistemi di riscaldamento
dei bagni greci risultano estremamente semplici sino
al l secolo a.C.: nella maggioranza dei casi non esisteva
un metodo meccanico di climatizzazione e il vapore
dell’acqua calda o il calore di un braciere di carbone,
erano sufficienti per riscaldare gli spazi piccoli, bassi e
privi di aperture, dedicati ai bagni. Più ingegnoso era,
invece, il sistema utilizzato per ottenere prestazioni
più articolate, permettendo di avere sia acqua calda,
sia di riscaldare le stanze adiacenti tramite la convezi-
one o circolazione dei vapori dietro le pareti. A metà
del lV secolo i bagni di Olimpia furono studiati per ot-
tenere una combinazione di “fornace-boiler”, alimen-
tata dall’esterno, e collocata in un’area di servizio rica-
vata tra le due stanze rettangolari dedicate ai bagni, in
modo da immettere acqua calda direttamente nel bag-
no: questo poteva vantare ventuno vasche. Trapiantato
in Occidente dai coloni, il principio impiantistico del
bagno, ormai divenuto Terme, mantenne due carat-
teristiche principali: l’ utilizzo di un sistema di riscal-
damento pensato sia per le vasche sia per i locali, e la
forma circolare dei calidari, con gli ambienti riscaldati
tramite la tecnica dell’ipocausto, come a Siracusa. Tale
metodo si evolverà dopo il l secolo d.C. attraverso l’uti-
lizzo dell’ipocausto continuo o della sale supensurae.
L’ ipocausto comparve per la prima volta in
Grecia sul finire del II secolo a.C. e si diffuse solo suc-
cessivamente in Italia, in seguito all’influenza orientale
che spinse la classe dirigente romana a ricercare piaceri
e agi.
Nel ll secolo a. C. vennero predisposte due
sezioni, quella maschile e quella femminile, dislocate
secondo la successione di spogliatoi, bagni tiepidi
e bagni caldi che utilizzavano un sistema di riscal-
damento comune. “Il sistema di riscaldamento dei
Gymnasyum, Cirene (Libia) II sec d. C.
Tholos di Epidauro (Grecia) II sec d. C.
Terme di Augusta Praetoria, I sec d. C.
Terme centrali, Pompei, 62 d. C.
103
pavimenti, in un primo tempo chiamato balneare
pensiles o balnea pensilia, che comportava uno spazio
circostante (ipocausto) e un piano di circolazione (sus-
pensura), poggiante su un reticolo di pilastrini alti dai
40 ai 75 centimetri e formato da mattoncini, ha senza
dubbio trovato le sue prime applicazioni occidentali
nell’ambiente campano.
In particolare, a Roma l’uso dei bagni venne
introdotto dopo la pestilenza del 293 a.C. e coincise
con la diffusione del culto del dio Esculapio. Presum-
ibilmente risale a questa epoca la costruzione dei primi
stabilimenti ad opera di alcuni imprenditori che assun-
sero gli edifici greci a modello. All’inizio si trattava di
impianti di modesta consistenza, ma poiché offrivano
la possibilità di fare un bagno caldo con una spesa irri-
soria, in poco tempo si moltiplicarono, diventando più
comodi e attrezzati. Da un vero e proprio riferimen-
to tipologico che prevedeva la disposizione in fila di
stanze rettangolari coperte a volta, pian piano si passò
all’abbandono delle singole vasche a favore di bagni
comuni, grazie anche al riscaldamento a ipocausto
che, appunto, permetteva di portare a temperatura
grandi masse d’aria che riscaldavano estese superfici.
Ne derivò il balneum romano, inteso come successione
di spazi a diverse temperature, da cui derivano i relativi
nomi (calidarium, tepidarium, frigidarium ).
Con il termine “terme” si usa indicare, in-
vece, una realtà prettamente romana, caratterizzata da
un sistema più ampio di servizi rispetto al balneae. ln
sostanza, le terme rappresentano la fusione, avvenuta
in Campania, di due tipologie di matrice greca: il bag-
no pubblico e il ginnasio.
L’archeologo tedesco Daniel Krencker pro-
pose, nel 1929, la loro suddivisione in tre tipologie:
ad allineamento, ad anello e imperiale. La sequenza
ad allineamento costringeva i visitatori a seguire una
successione di spazi da percorrere in due sensi; nella
struttura ad anello venne eliminato il doppio passag-
gio grazie alla presenza di due tepidaria; nell’ultima
tipologia, la disposizione degli ambienti era tale che
quelli centrali fossero in comune mentre le due ali
laterali potevano essere utilizzate come bagni indip-
endenti. Conseguentemente, l’accesso iniziava dalle ali
dei due gruppi distinti per poi convergere nello spazio
comune.
Le prime terme, indicate da Plinio il Vecchio
come tali in sostituzione del concetto di balnea, si
devono ad Agrippa, genero dell’imperatore Augusto,
che fece costruire, non lontano dal Pantheon, il primo
edificio termale. Le Terme di Agrippa rappresentarono
il primo massiccio inserimento, ali’interno dell’urbs,
della funzione termale. La disposizione planimetrica,
che prevedeva la presenza di ampi giardini e di una pis-
cina, distribuita su oltre cento metri di sviluppo sec-
ondo un asse orientato a nord, rappresentò la massima
evoluzione della tipologia in linea.
Nell’ambito della trattatistica, nel I sec. a.C.
Vitruvio Pollione, architetto ed ingegnere, consulente
di Agrippa quando questi ricoprì l’incarico di curator
aquarum (responsabile delle acque), nel Libro V del
suo De Architectura codificò la tipologia dell’edilizia
termale accostando ancora la palestra al nucleo delle
terme, avviando, al contempo, il processo di lenta sep-
arazione tra le due funzioni, definendo la prima come
edificio derivato dagli usi greci, semplificandone i
contenuti. Vitruvio espose anche i metodi per scoprire
le fonti e le specifiche proprietà di ciascuna acqua. In
particolare, precisava che “bisogna cercare e scegliere
le fonti con grande zelo”, invitando chi andasse alla
ricerca dell’acqua a “rivolgere la propria attenzione ai
diversi tipi di terreno”, distinguendo le acque a secon-
da che si trovassero nell’argilla, nella sabbia di grana
grossa, nella terra nera, nella ghiaia, nel sabbione ar-
gilloso, nella sabbia, nella terra rossastra e nella roccia
rossa.
Pur contemplando alla propria origine ragioni
di carattere igienico-terapeutiche, il bagno progressi-
vamente divenne per la società romana, un raffinato
piacere: le terme rappresentarono un luogo di incon-
tro al pari del foro e accanto agli stabilimenti vennero
creati spazi per passeggiate, parchi, giardini, musei e
biblioteche. Roma, in quanto cuore del territorio ro-
mano, per espressa volontà degli stessi imperatori di
costruire terme sempre più imponenti a cui legare il
proprio nome, divenne luogo di sperimentazione for-
male della tipologia termale, centro propulsore delle
nuove fastose tendenze. Fu solo con Nerone e gli
imperatori Flavi che incominciarono a svilupparsi le
terme imperiali vere e proprie. A Roma sono noti gli
impianti planimetrici di tre grandi complessi: le Terme
di Diocleziano (iniziate nel 298 d.C. da Massimiano e
ultimate nel 305-306 d.C.), le Terme di Traiano e quelle
di Caracalla (iniziate nel 206 d.C. da Septimio Severo
e ultimate da Caracalla nel 216). Le Thermae Neroni-
anae vantavano un’estensione di 16.000 metri quadri
e si sviluppavano secondo un sistema assiale simmet-
rico teso a sottolineare la monumentalità complessiva
dell’edificio, anche grazie al gigantesco frigidarium
Iwanoff, Terme a Carcalla, 1898 (disegno)
che si ergeva al centro dell’asse mediano e distribuiva
gli spazi laterali. La nuova importanza rivestita da tale
ambiente, che accolse il ruolo di momento centrale del
sistema terme, inciderà sullo sviluppo della tipologia
anche nei secoli successivi, con significativi risvolti in
ambito sociale. il calidarium e il tepidarium, affianca-
ti da due praefurnia che alimentavano gli ipocausti,
erano invece collocati nell’estremità meridionale del
complesso. La tecnica dell’opus caementicium segnò
un’importante svolta nell’uso plastico degli elementi
costruttivi, permettendo l’apertura di notevoli luci e
garantendo, per le condizioni statiche che ne deriva-
vano, un migliore equilibrio tra i volumi. Le necessità
funzionali e tecniche vennero tradotte in un linguaggio
quasi “palaziale” che interpretò gli spazi creati come
luoghi per il popolo, trasformando la consuetudine in
cultura, superando gli stessi modelli da cui derivava.
L’ultima tappa dello sviluppo delle terme ro-
mane è rappresentata dalle terme di Traiano. Lo sche-
ma simmetrico con il quale calidarium, tepidarium,
frigidarium costituiscono la spina dorsale dell’edificio,
che si conclude con la natatio e con gli apodyteria dis-
Olympia: Palestra 350 a. C.
posti ai lati della piscina, conferisce al sistema un as-
petto cruciforme che riprende una successione di am-
bienti di neroniana memoria. La novità dell’organismo
risiede, tuttavia, nella concezione unitaria dell’edificio
che non si articola in spazi frammentari bensì organi-
ci, di cui il monumentale recinto di accesso al sistema
sottolinea l’idea di unitarietà.
Mentre i “grandi bagni” si sviluppano in uno
schema angolare in linea, che ruota di 90° nel pas-
saggio dal tepidarium a frigidarium, i “piccoli bagni”
sono, per effetto della loro disposizione simmetrica,
maggiormente influenzati dallo schema imperiale.
L’organismo è concluso da sistemi di coperture portati
al massimo grado di raffinatezza, concepiti con strut- Olympia: Bagno a hipocausto II sec a. C.
ture di volte a crociera e cupole, in linea con il gusto
per le forme curvilinee sviluppatosi durante il II secolo
d.C. in Italia.
Le terme di Caracalla riproposero il sistema
aggregativo di quelle traiane, sebbene sviluppato me-
diante una configurazione ancora più compatta, otte-
nuta tramite una maggiore integrazione tra gli spazi
funzionali e quelli di fruizione. La coesione del comp-
lesso è dovuta anche alla simmetria della disposizione
degli ambienti, dai quali sporge esclusivamente il cali-
darium circolare. Il complesso rappresenta un capolav-
oro di tecnica e maestria realizzativa: i lavori vennero
organizzati in grandi terrazze con riporto di terra e
muri in opus caementicium, colmati sino all’imposta
delle volte, procedendo alla fase di rifinitura in modo
sequenziale, andando di pari passo con il progressivo
abbassamento del terreno di riporto. La cupola del
calidarium utilizzava una travatura metallica annegata Villa Adriana, 118-134 d.C. (Piranesi)
nella muratura: da qui la leggerezza delle murature lat-
erali e la mancanza di tamburo.
La costruzione di impianti termali nelle prov-
ince romane fu un elemento fondante del processo di
colonizzazione, poiché in tutte le città furono edificati
Bagni e nelle grandi realtà le Terme, soprattutto nel Il
secolo d.C., il periodo di maggiore fastosità dell’Impe-
ro. Nel bacino africano queste vennero costruite sulla
104
base del modello romano per volontà dei ricchi propri-
etari locali, mentre nelle province occidentali sorsero
principalmente nelle capitali imperiali.
La caduta dell’Impero Romano siglò un mo-
mento di declino del termalismo. La precarietà delle
strade e, più in generale, le condizioni di scarsa si-
curezza, ostacolavano viaggi e spostamenti. Mentre
la tradizione dei bagni si consolidò nei territori con-
quistati dagli arabi, le terme furono, invece, abbando-
nate a causa di una serie di ragioni di carattere pratico
e culturale-sociale. Vennero a mancare le somme el-
argite dai privati per la costruzione e il mantenimen-
to delle strutture e, con le invasioni delle popolazioni
barbare in Italia, furono danneggiati i sistemi di ap-
provvigionamento idrico con il conseguente decadi-
mento, inutilizzo e incuria degli edifici termali.
Il profondo cambiamento delle condizioni
di vita e delle abitudini delle popolazioni, in seguito
all’impoverimento dovuto alle continue guerre e sac-
cheggi, unitamente alle nuove consuetudini religi-
ose, comportò un progressivo allontanamento dalla
fruizione termale. Benché all’inizio i Padri della Chiesa
non vietassero l’utilizzo delle terme e, anzi, preti e ves-
covi fossero tra i più assidui frequentatori dei bagni,
la mentalità cristiana prese in seguito il sopravvento,
soprattutto con l’emergere di correnti ascetiche che
espressero una forte condanna generalizzata della ses-
sualità e della cura del corpo, additandolo a piacere
personale.
Nonostante la censura che l’idroterapia subì
da parte del Cristianesimo, si continuò a considerare
con attenzione i benefici delle acque sulfuree per la
salute, avviando la pratica delle inalazioni di vapori e
dei fanghi. Lo studioso medioevale Le Goff sottolinea
come esistesse una presenza moralistica già nella pri-
ma età imperiale che, in un certo senso, trovò nel cris-
tianesimo un supporto, in quanto la nuova religione
fornì la giustificazione trascendente ad un atteggia-
mento, allora minoritario, interno alla cultura romana.
La condanna morale della filosofia termale
romana risultò processo lento e graduale, tanto che
nel periodo tardo-antico e medievale le terme rima-
sero ancora per lungo tempo un luogo privilegiato di
svago e divertimento: nel carme De thermis, riportato
nell‘Anthologia Latina di Shackleton Bailey, viene de-
scritta la scena di frequentatori delle terme che si spos-
tano da una vasca all’altra per evitare la noia.
La religione cristiana non fu la sola responsa-
bile della connotazione negativa delle terme: già Sene-
ca ed altri autori latini ne disprezzarono gli aspetti
più lussuriosi, ma fu sicuramente la morale religiosa
la principale causa del declino del fenomeno cultur-
ale e sociale che queste costituivano. Durante il Me-
dio Evo l’uso del bagno, come pratica igienica, andò
lentamente scomparendo e con esso il suo antico va-
lore sociale ed edonistico, mentre nacque l’idrologia,
disciplina dalla più solida fisionomia terapeutica. Il
sentimento comune nei confronti dell’acqua e delle
azioni ad essa collegate non furono aprioristicamente
negative: la Chiesa cercò infatti di tradurre le tradizio-
ni, anche estranee alla propria vocazione, in un lin-
guaggio cristiano, sottolineando l’aspetto spirituale
dell’uso deli’acqua intesa come elemento purificatore.
Tale aspetto motiva la presenza, nelle basiliche paleoc-
ristiane, dei bagni per i pellegrini e di terme liturgiche
per i battesimi. Nel Medioevo, perciò, non si perdette
del tutto la consuetudine di bagnarsi: si costruirono
luoghi idonei di carattere privato, riservati però alle
classi più elevate ed agiate. Dal concetto di bagno pub-
blico si tornò a quello privato, ossia di corte.
Col risorgere della vita cittadina, a partire dal
XI secolo, si costruirono edifici balneari nelle città.“A
partire dal ‘200 l’igiene compie notevoli progressi
nelle città europee; i bagni pubblici, compresi quel-
li in stile islamico o ‘hámmamát’, si moltiplicano in
Spagna, in Germania, in Francia, dove nella sola Parigi
si contano nel 1292 non meno di 36 stabilimenti. Una
fonte del Xlll sec. descrive in maniera molto significa-
tiva i Bagni di Erfurt, consigliandoli calorosamente,
poiché essi “( ... ) saranno per voi molto piacevoli. Se
avete bisogno di lavarvi e amate le comodità, potere
entrarvi con fiducia. Sarete ricevuti gentilmente. Una
graziosa ragazza vi massaggerà onestamente con la sua
dolce mano. Un barbiere esperto vi raderà senza lasciar
cadere la minima goccia di sudore sul viso. Stanco del
bagno, troverete un letto per riposarvi. Poi una don-
na graziosa, che non vi dispiacerà, con aria virginale
vi accomoderà i capelli con abile pettine. Chi non le
carpirebbe dei baci, se lui. ne ha voglia e lei non rifiuta?
Vi si chiede pure un compenso, un semplice denaro
basterà ... “.
Nel XIII secolo la fortuna dell‘idrologia com-
portò la valorizzazione degli impianti termali esisten-
ti, con la conseguente riapertura e messa in funzione
delle strutture. Le miniature illustrate costituiscono
un documento rilevante dell’epoca poiché mostrano,
con estrema chiarezza e veridicità, gli interni degli sta-
bilimenti e le azioni che venivano prescritte ai malati.
Le figure di convalescenti distesi nei propri letti fareb-
be supporre l’esistenza di strutture modico-ricettive.
Era prevista la presenza di personale medico prepos-
to ali ‘assistenza dei malati, e altro dato importante è
l’elencazione delle malattie presenti all’epoca e delle
sorgenti termali da lui censite, accompagnate dai ris-
pettivi specifici benefici.
L’interesse sempre maggiore sul tema, anche
in seguito alla diffusione della pratica curativa, permise
uno sviluppo degli studi idrologici che, comunque, nel
Rinascimento non progredirono significativamente
rispetto al tardo Medioevo, volti per lo più alla divul-
gazione delle conoscenze acquisite nel tempo. L’acqua
in questo periodo, in linea con il passato, rappresentò
un elemento idoneo a prevenire malattie e infezioni,
e a ristabilire l’equilibrio psichico e fisico dell’organ-
ismo. Quando la grande stagione dei pellegrinaggi
si avviava a conclusione, nel corso del XIV secolo, il
viaggio penitenziale fu sostituito nuovamente dal
viaggio culturale e di piacere. Il fermento culturale del
Rinascimento generò un cambiamento nell’accezione
di viaggio, coinvolgendo categorie di persone sempre
più vaste, di età e condizione sociale diversificata: il
viaggio nel Cinquecento, come testimonia Montaigne,
non costituiva solo uno strumento pedagogico, ma il
desiderio di conoscenza o semplicemente di viaggiare.
La riscoperta delle cure termali si manifestò
in un atteggiamento ambivalente: da un lato il riconos-
cimento della scienza medica che le promosse come
efficace terapia all’interno di numerosi trattati di me-
dicina e, dall’altro, l’ interpretazione delle terme come
luoghi di svago e occasioni di socializzazione.
Le cure termali non costituirono più un mo-
mento riservato alle terapie ed al riposo: le terme
divennero sinonimo di luoghi di delizie, in cui il tema
letterario iconografico della “Fontana della Giovinez-
za”, spogliato di ogni connotazione mistica o religiosa,
poteva tradursi in affascinante realtà. Qui potevano
concentrarsi gli influssi di Venere e liberamente man-
ifestarsi. “Quivi non mai senza festa e somma alle-
grezza la maggior parte del tempo ozioso trapassata,
e qualora più è messo in esercizio, si è in amorosi ra-
gionamenti, o le donne per sé o mescolate cò giovani;
quivi non si usano vivande se non dedicate e vini per
antichità nobilissimi, possenti nonché ad eccitare la
dormente Venere”. Non è corretto credere che il cli-
ma festaiolo coinvolgesse solo i giovani rampolli delle
famiglie più ricche e nobili; anche gli alti prelati, che
accompagnarono il Papa Pio Il ai Bagni di Petriolo nel
1460, si lasciarono conquistare dall’atmosfera dolce e
gaudente del sito.
Nel XVII secolo i bagni sono considerati
luoghi di vanità dove “i stufaruoli attendono a lavare,
a far sudare, a mettere cornetti, a cacciare i peli”, ma
soprattutto sono “ricetto di mille vergognose, e dis-
honeste libidini carnali”. Prescindendo dalla condanna
moralistica, si può ritenere che le non molte riprese
seicentesche delle ragioni del bagno termale, ruotino
attorno alla tematica erotica svolta con accenti in-
tensamente sensuali e attraverso un linguaggio forte-
mente metaforico ed allusivo.
Solo nel Settecento si assiste ad una svolta
Terme di Carcalla (ricostruzione di Viollet-le-Duc)
Les Thermes de Dioclètien (Paulin, 1890)
Bagno turco, miniatura del XV secolo
105
scientifica e decisa dell’idrologia, dovuta all’introduz-
ione dell’approccio fenomenologico, allo sviluppo del
metodo sperimentale e al conseguente progresso sci-
entifico della medicina e della chimica, che rese pos-
sibile le prime indagini sulla composizione delle acque
minerali. Da allora le cure termali divennero oggetto
dell’interesse di studiosi nel quadro della grande fior-
itura scientifica dell’età dell’Illuminismo: in questo
periodo Lavoisier consegna il termalismo alla scienza.
In età moderna, l’idrologia ritorna alla su-
perficie, si riscoprono le virtù dimenticate della bal-
neoterapia. Nell’Ottocento, con gli sviluppi positivisti
della chimica e della farmacologia, l’idrologia ottiene
finalmente una più consapevole dignità scientifica a
cui si affianca una cultura della diversificazione della
cura in funzione delle diverse tipologie di acque ter-
mali: le indagini sulla composizione delle acque min-
erali contribuiscono alla affermazione dell’idrologia.
AIl’interesse scientifico delle località dei ba-
gni si unisce quello economico: è in questo periodo
che le città d’acqua, da luoghi di svago, vennero con-
siderate vere e proprie industrie, aziende in grado di
produrre ricchezza, introducendo la valorizzazione
delle fonti nella razionale gestione del territorio e dello
sfruttamento delle sue risorse. L’incremento di studi e
gli interessi relativi agli stabilimenti termali portò alla
nascita, nel XIX secolo, di numerose località termali,
alcune di queste fino ad allora sconosciute, altre invece
già sedi di stazioni termali romane che, per tornare alla
originaria funzionalità, promossero importanti cam-
pagne di ristrutturazione. La stazione termale si evolve
da luogo puramente di svago quale era nel Settecento,
dotandosi di strutture imponenti e fastose: parchi, gi-
ardini, luoghi di incontro e lussuosi alberghi.
Nell’Ottocento, anche i ceti medi iniziarono
a frequentare le terme, grazie al miglioramento delle
condizioni economiche e sociali e alla creazione di un
sistema di infrastrutture ferroviarie, che resero tali lo-
calità accessibili ad una maggiore quantità di utenti. I
progressi della tecnologia nella sua “seconda rivoluzi-
one” portarono, all’introduzione dell’elettricità, con il
conseguente affermarsi di nuovi strumenti terapeutici
quali l’inalatore meccanico.
Tra la fine del XVIIJ secolo e i primi decen-
ni del XIX, grazie allo sviluppo dei mezzi di traspor-
to cominciò a diffondersi fra la borghesia agiata, e fra
artisti e letterati, la moda del Gran Tour, alla ricerca
di bellezze naturali e paesaggistiche di cui, l’Italia in
particolare, poteva offrire ampie opzioni. Cambiò il
significato del soggiorno termale, per cui le finalità cu-
rative si trovarono a convivere con la ricerca di svago
e mondanità: i nuovi simboli delle terme diventarono,
in alternativa o complementarietà all’acqua, le case da
gioco, i saloni per le feste e le passeggiate. L’avvento
della rivoluzione industriale accompagna un periodo
di grandi cambiamenti che portarono alla trasformazi-
one delle città, in cui si manifestarono da subito gli ef-
fetti negativi della produzione meccanizzata: da qui il
sempre più forte desiderio di ritrovare benessere nella
natura, fuori dall’ambiente malsano della città.
Il turismo moderno era già nato in Inghilterra
nel XVII secolo, proprio come “turismo termale”, inau-
gurando il sodalizio con i fenomeni di natura econom-
ica. Non più praticato nelle città, come nel periodo ro-
mano, ma in aree esterne ai grandi centri urbani dove
lo sviluppo scientifico e tecnologico aveva permesso
di riconoscere le proprietà terapeutiche delle acque
minerali, il turismo termale, favorì la costruzione di
strutture dedicate alla cura del corpo e alle attività ad
essa complementari.
Come naturale conseguenza della rivoluzi-
one industriale, in Germania e in Inghilterra nacque la
moda della villeggiatura tematica. Si pensi alla cittadi-
na inglese di Bath, un healthy place già frequentato in
epoca romana, divenuta centro di grande richiamo già
nel Settecento, nonchè scenario di alcuni dei più noti
romanzi della letteratura inglese coeva; o alla località
belga di Spa, il cui nome si ritiene possa rappresentare
l’origine della terminologia anglosassone di “terme”:
promossa dagli inglesi per la qualità delle sue acque,
costituirà la prima città del continente a imitare il
modello di Bath.
Caratteristiche ricorrenti dei luoghi ter-
mali sono l’ubicazione in posizione scenografica e il
verde, portatore di salubrità e di godimento estetico,
tema primario dell’Illuminismo e del Romanticismo:
parchi e viali alberati costituiscono le invarianti della
programmazione e progettazione urbana. Il rito della
passeggiata corrisponde a una precisa necessità ter-
apeutica, e il modello urbano termale, che si andava
diffondendo in Europa, vedeva la propria ossatura nel
parco: la commistione tra natura e architettura, in al-
cuni casi tramite il ricorso alla tipologia del giardino
inglese, come nel caso di Marienbad, in altri a quella Domenico Morelli, Bagno turco, 1874-76
del giardino rinascimentale o barocco, ha il compito di
mettere in relazione gli edifici di cura, i tempietti delle
fonti, i padiglioni per la musica, le passeggiate coperte
che garantivano la possibilità di moto anche nei perio-
di di clima avverso, come a Karlsbad e a Baden Baden.
Per tutto l’Ottocento le cure termali conob-
bero una crescente fortuna, grazie anche alla promozi-
one sviluppata da aristocratici, letterati, musicisti,
uomini di politica e cultura che ne diffondevano le
qualità. Le città termali assunsero connotazioni par-
ticolari e richiesero la stesura di piani regolatori che,
basati sull’assunto di specificità, vennero sviluppati a
partire dal concetto di città giardino, all’ interno del
quale la componente “acqua” pretendeva un ruolo di
primo piano.
Le stazioni termali di tale generazione risul-
tano anticipatrici del successivo sviluppo del turismo,
che lentamente passò dali’essere elitario a costituirsi
come turismo di massa, precursore di un modello poi
adottato dalle località marittime.
Il periodo contrassegnato dalla prima gen-
erazione di attività termale, è perciò fondato sulla Stampa di 1519, Lübeck
concezione di trattamento, su un’ipotesi allargata di
soggiorno e su un approccio aristocratico ed elitar-
io. A partire dai primi decenni del Novecento, quan-
do la vacanza risultò di pertinenza non più solo della
classe aristocratica ma anche della borghesia, delle
classi medie e successivamente dei ceti popolari e
lavoratori, il turismo diventa un fattore economico
rilevante, promuovendo le prime strutture specifiche,
inizialmente di lusso, successivamente destinate ai ceti
popolari.Dal secondo dopoguerra in Europa, come era
già avvenuto negli USA a partire dagli anni Venti, prese
avvio la terza fase evolutiva del turismo, individuabile
nel «turismo di massa». La stabilizzazione politica, lo
sviluppo economico e dei trasporti, la nuova organiz-
zazione del lavoro, l’avanzare del processo d’industri-
alizzazione, il riconoscimento de lle ferie pagate, portò
nuovi gruppi sociali alla conquista del tempo libero e
alle vacanze diffuse, coinvolgendo un numero sempre
crescente di utenti e generando una spinta verso la
standardizzazione della domanda.
Macchina idraulica, XIX secolo
 107 Hotel Schatzalp, Davos, Graubünden, Switzerland, 1898-1900
Otto Pfleghard & Max Haefeli

106 Alcuni progetti esemplari

109 Park Hotel "Haus Rechen", Bochum, Germany, 1924-1927
Emil Fahrenkamp
111 Red Cross Hospital, Berlin-Wilmersdorf, Germany, 1925
Otto Bartning
112 Hotel Post, St. Anton am Arlberg, Austria, 1927-1929
Clemens Holzmeister 113 Hotel Monte Verità, Ascona, Ticino, Switzerland, 1926-1929
Emil Fahrenkamp
114 Hotel Edelweiss & Alpina, Mürren, Bernese Oberland, Switzerland, 1927
Arnold Itten 115 Lovell Health House, Los Angeles, California, USA, 1927-1929
Richard Neutra
116 German Sanatorium, Davos-Wolfgang, Graubünden, Switzerland, 1899-1901 & 1927
Carl Wetzel / Rudolf Gabarel (Alterations & Extension) 117 Sanatorium "Bella Lui", Montana, Valais, Switzerland, 1929-1930
Flora Steiger-Crawford, Rudolf Steiger & Arnold Itten
120 Lory Hospital, Bern, Switzerland, 1926-1930
Otto Rudolf Salvisberg & Otto Brechbühl 121 Sporthaus Ortstock, Braunwald-Alp, Glarus, Switzerland, 1931
Hans Leuzinger
122 Neumünster Hospital, Zollikerberg, Switzerland, 1931–1933
Otto Pfister & Werner Pfister 123 Sanatorium Martel de Janville, Plateau d'Assy, Passy, Haute-Savoie, France, 1933-1937
Pol Abraham & Henry Jacques Le Même
124 Tuberculosis Sanatorium, Paimio, Finland, 1929-1933
Alvar Aalto
126 Sanatorium Guébriant, Plateau d'Assy, Passy, Haute-Savoie, France, 1932-1933
Henry Jacques Le Même & Pol Abraham
128 City Hospital, Basel, Switzerland, 1936
Hermann Baur 129 Cantonal Hospital, Zurich, Switzerland, 1938-1953
Max Ernst Haefeli, Werner Max Moser & Rudolf Steiger
130 131 Desert Hot Springs Motel, California, USA, 1947
John Lautner
132 Welfare Pension Hospital, Tokyo, Japan, 1952
Mamoru Yamada 133 Albergo-Rifugio Pirovano, Cervinia, Valle d’Aosta, Italy, 1948-1952
Franco Albini
134 Casa del Sole, Cervinia, Valle d’Aosta, Italy, 1947-1954
Carlo Mollino 135 Casa Giavi, Cortina d'Ampezzo, Belluno, Italy, 1954-1955
Edoardo Gellner
136 Mountain Hotel & Restaurant, New York, USA, 1956
Junzo Yoshimura 137 Olivetti Holiday Village, Brusson, Valle d'Aosta, Italy, 1955-1961
Leonardo Fiori & Claudio Conte
138 Akakura Mountain Lodge, Niigata, Japan, 1958
Kiyoshi Seike 139 SAS Royal Hotel, Copenhagen, Denmark, 1956-1960
Arne Jacobsen
140 Motel Xenía, Kalambáka, Tessaglia, Greece, 1958-1962
Aris Konstantinidis
142 Miyako Hotel, Main Wings & “Kasui-en” Annex, Kyoto, Japan, 1939 & 1959-1960
Togo Murano
144 Hotel Okaso, Yokohama, Japan, 1961
Junzo Sakakura 145 Hotel-Restaurant Bellevue, Pilatus-Kulm, Switzerland, 1961
Anton Mozzatti
146 Student Housing, Urbino, Italy, 1962-1966
Giancarlo De Carlo
148 Hotel de Mar, Palma de Mallorca, Spain, 1962
José Antonio Coderch 149 Hotel Tōkōen, Tottori, Japan, 1964
Kiyonori Kikutake
150 Student Residence Hall, University of St Andrews, Fife, Scotland, 1964-1967
James Stirling
152 Baiyunshanzhuang Hotel, Baiyun Mountain, Guangzhou, China, 1965
Mo Bozhi 153 Resort Town, Flaine, Haute-Savoie, France, 1960-1969
Marcel Breuer
155 Tawaraya Inn, Kyoto, Japan, 1965
Junzo Yoshimura (Alterations & Extension)
156 Holiday Apartment House "Casa Radulff", Flims-Waldhaus, Graubünden, Switzerland, 1971-1972
Rudolf Olgiati 157
158 Lakeside Hotel Ambach, Kaltern, South Tyrol, Italy, 1970-1973
Othmar Barth 159 Prince Hotel, Hakone, Kanagawa, Japan, 1978
Togo Murano
162 Prince Hotel, Karuizawa, Nagano, Japan, 1979-1982
Kiyoshi Seike
164 165 Pousada de Santa Marinha da Costa, Guimarães, Portugal, 1975-1984
Fernando Távora (Alterations & Extension)
166 Kandalama Hotel, Dambulla, Sri Lanka, 1992-1995
Geoffrey Bawa 167
169 Rehabilitation Centre for Spinal Cord and Brain Injuries, Basel, Switzerland, 1998-2002
Jacques Herzog & Pierre de Meuron
171 Hotel Alpina, Vals, Graubünden, Switzerland, 2001
Gion Caminada
Ora a Gerusalemme, vicino alla porta delle
pecore, c'è una piscina detta in ebraico Bete-
sda, che ha cinque portici. Sotto questi giace- Particolari del progetto
va un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e
paralitici, i quali aspettavano l'agitarsi dell’ac-
qua. Perché un angelo, in determinati mo-
menti, scendeva nella piscina e agitava l'ac-
qua; e il primo che vi entrava, dopo che
l'acqua era agitata, era guarito da qualsiasi
malattia fosse affetto.  Vangelo di Giovanni
(Gv. 5:1-15)
Now there is in Jerusalem by the Sheep Gate a pool, which is called in Hebrew, Bethesda, [as] having five porches. In these lay a great multitude of sick people, blind,
lame, paralyzed, waiting for the moving of the water. For an angel went down at a certain time into the pool and stirred up the water; then whoever stepped in first, after
the stirring of the water, was made well of whatever disease he had.  Gospel of John (John 5:1-15)
 175 From the baths of Ancient Greece and Rome to the Islamic hamam or European
spa towns, from the Japanese onsen (hot springs) to the Russian banya or Finnish
sauna, historically bathing was central to community life, and the bathhouse was
an institution for both health and pleasure; as well as providing essential sanitation,
it was a place of social, cultural and political exchange as well as of relaxation and
rejuvenation. But with the spread of the private bathroom and a more technological
and clinical approach to sanitation, the pendulum has swung from rejuvenation to
hygiene. We have largely broken with this rich cultural legacy and lost the role of the
bathhouse as a community space along with the sensorial dimension of an architec-
ture of stillness and reflection designed to be seen while floating or through a veil
of steam.
A long term o-furoholic (the Japanese description for a person
addicted to hot water) and squarely on the rejuvenation side, I have spent years
bathing in the shadows of the great water cultures: a former Roman Bath off the
grid in rural Tunisia now functioning as a hamam; a Japanese onsen where sulphur-
ous hot springs bubble into the cold river water; and Moscow’s great Sandunovsky
baths where the banya stove bellows flames like a dragon and bathers wear clogs to
avoid touching the scorching tiles. Renewed interest in this rich historical panorama
is helping to reimagine the bathhouse as a community space and reconnecting us to
water in an increasingly water-stressed era. Unlike the contemporary spa – almost
invariably a place of privilege and luxury – the bathhouse has more inclusive roots.
New models are emerging in response to changing social and urban conditions and
shifting boundaries between public and private life, and between personal and com-
munal space. There is also now a need for wellness spaces built on different princi-
ples from the rabid consumerism of the beauty and leisure industries.

(From: A New Sauna Culture: Reimagining the Bathhouse as a Community Space,

174 Domande Jane Withers, 2016)

Dai bagni della Grecia Antica e di Roma all’ Hamam islamico o ai centri termali europei, dagli onsen giapponesi (terme) alle banya russe o alla sauna
finlandese, la balneazione storica era fondamentale per la vita comunitaria e il bagno era un'istituzione per la salute e piacere, oltre a fornire servizi
igienici essenziali, è stato un luogo di scambio sociale, culturale e politico, nonché di rilassamento e ringiovanimento. Ma con la diffusione del bagno
privato e un approccio più tecnologico e clinico alla sanità, il pendolo si è mosso dal ringiovanimento all'igiene. Abbiamo in gran parte rotto con questa
ricca eredità culturale e abbiamo perso il ruolo del bagno come spazio della comunità insieme alla dimensione sensoriale di un'architettura di quiete e
riflessione progettata per essere visto mentre galleggiare o attraversare un velo di vapore.  Io pesantemente o-furoolico (la descrizione giapponese per
una persona dipendente all'acqua calda) e proprio al lato di ringiovanimento, ho trascorso anni a balneazione nelle ombre delle grandi culture d'acqua:
un antico bagno romano fuori dalla griglia in Tunisia rurale ora funzionando come hamam; un onsen giapponese dove le sorgenti termali sulfuree schiu-
mano nell'acqua fredda del fiume; e nei grandi bagni di Sandunovsky di Mosca dove la stufa del banya soffia come un drago e la gente indossa gli zoccoli
per evitare di toccare le piastrelle scottanti. Il rinnovato interesse di questo ricco panorama storico sta contribuendo a riformulare il bagno come spazio
comunitario e ricollegarci all'acqua in un'era sempre più stressante. A differenza della spa contemporanea - quasi invariabilmente un luogo di privilegio
e di lusso - il bagno ha radici più inclusive. Nuovi modelli stanno emergendo in risposta alle mutevoli condizioni socio-urbane spostando i confini tra
vita pubblica e privata, e tra spazio personale e comunitario. Vi è pur ora la necessità di spazi di benessere costruiti su principi diversi dal consumismo
rabbioso delle industrie di bellezza e di svago.  (da: A New Sauna Culture: Reimagining the Bathhouse as a Community Space, Jane Withers, 2016)
 177 Mémoires de la Société géologique de France, 1833

De Czekefalva ou de Tusnad on peut visiter commodément les sommités boisées et

trachytiques de Heramteto, qui peuvent s'élever à 2000 pieds sur la vallée, et renfer-
ment au sud de Lazarfalva le cratère-lac de Sainte-Anne. Le pied de cette extrémité
de la grande chaine de trachyte de la Transylvanie orientale n'est pas encroûté d'ag-
glomérats, mais est couvert de sable feldspathique à blocs de trachyte semi-ponceux,
déjections dues probablement au cratère dont la description va suivre.
Depuis Lazarfalva ou Tusnad on arrive très promptement à des
rochers en place de beau trachyte rouge et gris à amphibole et mica.
Le cratère-lac est entouré d'assez hauts cônes tronqués de trachyte, et
il faut descendre pendant un bon quart d'heure par une pente très rapide, et sur un
sol à odeur de soufre, avant d'arriver au bord de ce lac tout rond et offrant du côté
de l'est une très petite étendue d'un sol marécageux. Sa profondeur va, dit-on, jusqu'à
20 toises et son diamètre peut bien avoir 400 toises. On lui donne une demi-lieue de
tour, tandis que le pourtour supérieur de tout le cratère aurait une lieue et demie de
circonférence.
Ce qui rend ce lac encore fort remarquable, c'est que ses eaux n'ont en
apparence aucun canal d'écoulement et qu'elles offrent des degrés de température fort
différens, suivant l'endroit où l'on fait les expériences, ce qui y indiquerait la présence
d'eaux ou au moins de vapeurs chaudes, probablement sulfureuses. Le manque total
de scories de rapillis ou de basalte vient achever la singularité de ce lieu peut-ètre
unique en Europe, car tous les autres cratères-lacs, connus dans ce continent, sont
entourés de roches plutôt basaltoïdes ou du moins de tufas associés au trachyte.
Au-dessus du bord de ce vaste entonnoir il y a au sud-est une espèce
de petit plateau qui est occupé par un sol si marécageux que le bétail même n'ose s'y
hasarder; c'est évidemment une ancienne bouché cratériforme ou une mare qui s'est
comblée petit à petit, et qui a une demi-lieue de circonférence.
En se dirigeant du lac Sainte- Anne à l'est, on arrive à la solfatare
du mont Budos-Hegy (montagne puante), dont l'odeur frappe l'odorat à une grande
distance, et qui est sur la même ligne que le lac et la mare. Chemin faisant, on revoit
du grès carpathique.
Le mont trachytique de Budos-lIegy n'a pas de formes bien pronon-
cées; couvert de bois de bouleau et d'orme , il offre sur sa face méridionale des roches
dénudées et crevassées; elles paraissent surtout traversées par une fente courant du
nord-ouest au sud-est, dont s'échappe la plus grande masse des vapeurs hydro-sulfu-
reuses chaudes, et extrêmement suffocantes, ce qui y produit des érosions et par suite
des cavernes plus ou moins grandes. Le trachyte rouge ou gris, çà et là un peu ponceux,
à mica et amphibole, en est décoloré; son mica ou son amphibole en sont attaqués et

174 Storia e descrizione del paese blanchis, ou rougis, ou désagrégés; des taches y marquent simplement la place des cris-
taux d'amphibole, et la pâte de la roche devient une masse d'alunite. Les roches sont


même couvertes d'efflorescences d'alun. Une chandelle ne peut pas brûler dans la plus
grande caverne, qui a 2 toises de hauteur et 20 pas de long. Des incrustations et des
cristallisations de soufre les couvrent presque toutes, et la température du sol est assez
élevée pour que la chaussure en soit attaquée.
Il est probable que dans cette fente volcanique l'hydrogène sulfuré est
accompagné du dégagement d'acide carbonique; aussi voit-on au pied de la sommité
de la montagne, sur un petit plateau, sourdre une quantité de sources très acidules,
hydrosulfureuses et ferrugineuses. Elles ont couvert une partie de ce lieu d'épaisses
incrustations de tuf calcaire ferrugineux, plus ou moins compacte, et renfermant des
feuilles, d'autres productions végétales, ainsi que des hélices, des physes, etc. Le sel
marin se trouve dans l'une de ces sources, qui , à cause de cela, est recherchée par
le bétail, et entourée de plantes salines. Ces eaux minérales précieuses sont presque
perdues pour le pays, parce que personne n'a encore pensé à bâtir une maison dans ce
lieu sauvage. Néanmoins, des malades viennent de temps en temps camper sous des
cabanes de feuillages, soit pour boire les eaux, soit pour s'exposer aux vapeurs sulfu-
reuses des cavernes.
178 179 Tusnad Spa is one of the most beautiful mountain spas in Harghita Country. On
the road no. 12, it is 32 km from Miercurea Ciuc, 37 km from Saint George Town,
35 km from Baraolt and 67 km from Braşov. Today it is the only town in the Lower
Ciuc Basin, for which status was received in 1968 due to it’s mineral waters and
spas. The population in 2011 was 1641 inhabitants. In the recent years Tusnad Spa
holds important international conferences. The climatic resort with an internatio-
nal character is at the base of the volcanic Ciomad mountain, in the Tusnad Defile
of the Olt river (606 m). The foothills climate and clean air, rich in negative ions,
are important tourism factors. The average height of the spa is 656 m and it’s main
watercourse is the Olt river. In the depths of the defile sparkles the water of the
artificial Lake Ciucas. The volcanic origin of the area played a major role in the for-
mation and development of the spa. The gases which come to the surface (carbon
dioxide, hydrogen sulfide) and the mineral waters made possible the therapeutic
treatments and created the conditions for the town to become a prestigious spa.
The most probable date for the founding of the bathing station is
1842. It was an alleged miraculous healing of the son of a shepherd from his rash-
es that first attracted widespread attention to the therapeutic properties of local
mineral waters, after which a company was founded to develop the springs in 1845.
The bathing station was destroyed in the skirmishes of 1849, but Austrian Emper-
or Franz Joseph, on visiting the town in 1852, ordered the reconstruction of the
baths. The rapid development of the town began after 1860. The Mikes-source was
named in honour of count Benedek Mikes, chairman of the spa committee, who
appointed a chemist at his own expense to analyse the water of the spring bearing
his name. This marked the start of the scientific evaluation and utilisation of local
mineral waters. The Stefánia Medical Center was opened in 1890 and remained the
treatment center of the spa until 1975. Lake Csukás (now: Ciucaș) was artificially
created in 1900, and the big hotels of the town were built in the 1970s.
In total there can be found 44 springs, which are used for internal
and external cures. Internal cures are recommended for: the cardio-vascular sys-
tem, chronical gastrithis (hipoacidic/normoacidic), and chronical hepatho-cole-
cistites, the digestive system. External cures are recommended for: the metabolic
system, rheumatism, the cardio-vascular system, neurasthenia, diseases of the lo-
comotor system.
The health-resort has complete medical facilities, including mas-
sage, baths, hydrotherapy, physiotherapy, electrotherapy, with a total capacity of
800 patients/day.
The beautiful environment is represented by the Stone of Soimului
and its surroundings, the Lovers' clearing, the artificial Lake Ciucas, the mineral
bath, the pass of the Olt and the crater lake of Saint Ann above the city.

Tusnád, 1899
180 Cartoline storiche della città balneare Tusnád
1900-1984 181

La fontana principale, 1912

Salone di Trattamento, 1909

Il bastione Apor, 1912

Krivány villa, 1902

L'albergo Tre Ussari, 1910

L'albergo Tre Ussari, 1908

Salone di Trattamento, 1911

Via Posta, 1913

La strada principale, 1902

Stazione, 1903

Stazione, 1909

Villa Práger, 1908

182 183

Via Posta, 1904

L'albergo Schweitz, 1908

La fontana Mikes, 1909

Villa Elza, 1900

La pasticceria della Foresta, 1908

L'albergo Schweitz, 1907

Salone di Trattamento, 1904 La strada principale, 1958

Il bagno Rezső, 1903

Villa Bánffy, 1908

Lago Csukás, 1901

La strada principale, 1908
184 185

Il lago Csukás, 1983 L' albergo Ciucas, 1978

L'albergo Olt, 1984

Il lago Csukás, 1984

Il lago Csukás, 1967

L' albergo Ciucas, 1980

L' albergo Ciucas, 1979

L' albergo Tusnad, circa 1979

Centro di trattamento dell' albergo Tusnad, 1984

Il bastione Apor, data sconosciuta

L' albergo Ciucas, 1973

 G
F

E
A


186 Pianta & foto dei cinque siti
B
C
A B

A A
C D
E 193
 195 La città balneare Tusnádfürdő (Tuşnad băi) ritiene un potenziale di sviluppo grazie alla
specificità dei sorgenti d’acque minerale che si trovano su una linea immaginaria ai piedi
del volcano Csomád. All’inizio della urbanizzazione della città lungo questa linea si è for-
mata la strada pedonale principale. Il largo con le sue ville ottocentesche esotiche sotto
le lunghe ombre dei pini secolari accoglieva le persone che sono venute per trovare una
rimedia contro una grande varietà di malattie. Oggigiorno questa strada è diventata se-
condaria grazie a due cambiamenti pesanti per il tessuto delicato di questa città balneare.
Il primo è il posizionamento del grande albergo Tusnad che dando le spalle al punto chia-
ve ossia l’ingresso alla via, blocca per la percezione pedonale la porta d’entrata alla città.
Il secondo intervento poco gentile era stato l’inserimento della strada regionale che passa
parallelamente a quella vecchia cosi togliendo l’accento da un punto storicamente impor-
tante per enfatizzare una strada altamente trafficata come il lungo centro non veramente
pedonale della città.
Una delle attrazioni principale ai tempi era il lago artificiale Csukás che a
fondo valle é stato creato per offrire la possibilità di bagno al aperto accanto un sorgente
di fango calcareo. Oggigiorno tutta questa zona e trascurata in modo incredibile per il
potenziale del luogo che potrebbe offrire un’alternativa e grande paletta di servizi sia ai
turisti che alle persone del posto stesso.
Il primo scopo dello studio sarebbe di ristabilire la definizione dell’in-
gresso alla via pedonale, una volta così importante, attraverso il riutilizzo e ridefinizione
della infrastruttura dell’albergo Tusnad e il vecchio complesso di bagno ottocentesco.
Il secondo scopo potrebbe essere di trovare un modo intelligente per l’at-
tivazione del lago Csukás che potrebbe funzionare come un fonte di nuovi servizi; come
un bagno naturale oppure a dirittura pensare di urbanizzare la zona abbassando il lago
artificiale, visto che la città manca il posto per costruire grazie al vieto di tagliare il bosco
circostante.
E finalmente l’ultimo scopo potrebbe essere la definizione di una connes-
sione diretta tra questi punti sovra menzionati, ridefinendo il movimento e l’asse princi-
pale della città che potrebbe cambiare da una asse del traffico nord-sud ad un asse pedo-
nale ovest-est.

A) Riqualificazione della zona ‘porta’ della città. Albergo, sala di acque minerale, sala gran-
de per eventi pubblici, ristorante.

B) Trasformazione del centro di trattamento del albergo Tusnad. Bagni, albergo, uffici
medicali, centro benessere.

 C) Collegamento tra il lago e il centro. Ristorante, grotta di moffetta, negozi, centro in-


formazione, parcheggio, etc.i

194 Programma D) Riabilitazione del lago Csukás. Bagno naturale al aperto, albergo, ristorante, centro
benessere, piscine al aperto con fango calcareo, spogliatogli, chioschi.

E) Riuso ed estensione della Villa Práger. Piccolo albergo, bagno termale.

Ulteriori dettagli e chiarimenti si aggiungeranno in seguito alla visita al sito di progetto e

all’incontro con i rappresentanti dell’amministrazione della città e degli albergi.
"Was, ihr liegt noch bei Nacht und Nebel
auf dem Balkon?" fragte Hans Castorp mit
wankender Stimme... "Ja, das ist Vorschrift.
Von acht bis zehn. Aber komm nun, sieh dir
dein Zimmer an und wasch dir die Hände." 
Thomas Mann, Der Zauberberg, 1924 Appendice
"Che cosa, voi si trova ancora sotto la copertura delle tenebre sul balcone?" Hans Castorp chiese, incerta voce... "Sì, questa è la regola. Da otto a dieci. Ma andiamo ora,
guardate la vostra camera e lavarsi le mani."  Thomas Mann, La montagna incantata, 1924
"What, are you still out on the balcony even at night and in fog?" asked Hans Castorp, with a faltering voice, "Yes, it is a rule, from eight to ten, but come now, look at your
room and wash your hands."  Thomas Mann, The Magic Mountain, 1924
198 Testi supplementari 199 Anders ausgedrückt was beispielsweise bei der Poesie die Übernah-
Die Paraphrase als entwerferische Strategie me des Versmasses bedeutet. Diese komplexe
Quintus Miller, 2015 Strategie des Entwerfens kann man beispiels-
weise an Haefeli, Moser, Steiger’s Poliklinik des
Universitätsspitals beobachten: typologisch ge-
sehen, handelt es sich um einen Spitalbau der
Das Bauen kann man als physisches Abbild ge- Moderne und zeigt die enge Verknüpfung von
sellschaftlicher Strukturen verstehen. An dessen moderner Hygiene, neuesten medizinischen
Ursprung steht das Erfüllen von räumlichen Erkenntnissen und industrieller Dimension.
Bedürfnissen, um der Natur dem Menschen an- Das architektonische Vokabular beschränkt
gemessenere Lebensbedingungen abzutrotzen. sich jedoch nicht auf den Maschinenkanon aus
Die getroffene Wahl der Mittel interpretiert Le Corbusiers Vers une architecture, es ist von
und kommentiert zugleich den Ort, den Nut- zahlreichen Japonismen überlagert und mit
zen des Bauwerkes und deren Bewohner. Die handwerklicher Eloquenz umgesetzt, die in
spezifische Lebensform der Menschengemein- der Gesamtwirkung dem Bauwerk einen stark
schaft kristallisiert sich als gebaute Umwelt im menschlichen Charakter verleihen, der in sei-
Territorium und wird dabei zu Architektur. ner Zeit und für die Aufgabe angemessener er-
Auch wenn das Bauen eine Momentauf- schien.
nahme einer spezifischen Situation ist, für wel-
che der Typus und die Gestalt eines Bauwerks
bestimmt werden, steht das Gebaute immer
in enger Beziehung zum kulturellen Kontext.
Dabei geht es nicht nur darum, dass das Bau-
werk innerhalb eines handwerklichen Umfel-
des entsteht, welches die konstruktive Ausfor-
mung mitprägt. Die Gestalt birgt immer auch
eine inhaltliche Aussage, die den Gebrauch von
kollektiv gültigen Zeichen verlangt. Bauen hat
dadurch eine stark sprachliche Facette. Es ist
daher interessant, Prozesse der Formulierung
von Architektur mit sprachwissenschaftlichen
Begriffen in Verbindung zu bringen. So kann
man die Typologie als Grammatik des Bauwer-
kes sehen. Sie ist gegenüber dem Wandel der
Zeit äusserst resistent, sie ist eine grundlegende
Struktur der Architektur. Die Formensprache
der Architektur hingegen, also das Vokabular,
reagiert sensibler auf das gesellschaftliche Um-
feld und die mit ihm einhergehenden Bedeu-
tungsveränderungen. Sie ergeben sich aus dem
kontinuierlichen Wandel des gesellschaftlichen
Rahmens.
Beim Entwerfen steht die Typologie
der Konvention meist nahe, weil sie mit dem
eigentlichen Gebrauch zusammenhängt und
damit eher die Konstante bleibt. Das Vokabu-
lar reagiert viel sensibler: die Vermittlung von
inhaltlichen Bezügen ist komplex und abhängig
vom gesellschaftlichen Rahmen. Es geht um die
Frage der angemessenen Einpassung des Neuen
in den Kontext. Einmal ist es angemessen, sich
wie unbemerkt einzuweben oder nur ein klei-
nes Detail zu verändern, mal ist es angemessen,
an bestimmten Stellen das Vokabular neu fest-
zulegen und Brüche einzuführen. Wir brauchen
die Baukunst, wie unsere Sprache, nicht stets
neu zu erfinden, aber der Lauf der Zeit verlangt
für bestimmte Inhalte neue Formulierungen,
wofür die Sprachwissenschaft den Begriff der
Paraphrase verwendet. Es handelt sich um die
sinngemässe Neuformulierung eines literari-
schen Inhaltes mit neuen Begriffen, wobei die
Treppenhaus Poliklinik Universitätsspital Zürich (Foto: Heinrich Töws, 2015) grundlegende Struktur beibehalten werden soll,
200
Translator's note: The German noun "Gewerbe" and its
adjectival form "gewerblich", which have been trans-
lated here as "industry" and "industrial" respective-
ly, refer to a wide spectrum of human production.
They are not reducible to the more exclusive term of
"crafts". In this sense, the "industrial" encompasses
trade, business, manufacture, the professions, cer-
tainly the crafts, but also the more mechanical modes
of production. The translator would like to submit to
the reader the wider meaning of the word "industry"
and would like to caution against its singular inter-
pretation of production relating to factories and such
things. (Translated from the German by Wilfried Wang)
Housebuilding and Such Things 201
Heinrich Tessenow, 1916
Nowadays, if we build ourselves a house or refurbish an apartment, indeed if
we make a serious effort at anything at all that is to have lasting value, we find it
strangely difficult; we prevaricate, nothing seems quite right; we know and love
almost everything; the very old as well as the very new; the thick as well as the thin,
and so we vacillate.
To judge the vast inventory of contemporary life and work with
some accuracy in order to improve it, especially in the area of our crafts, such as
house-building, we need to be able to distinguish between three large periods of
time, always occurring in the same order. First of all there is the period of the man-
ifold, of to-ing and fro-ing, of ups and downs, of confusion: tin soldiers, a Lanter-
na Magica, a slice of buttered bread, a young dog, the full moon, a piece of white
paper or some such thing; the lyric, the comic, the heroic, the Swiss chalet, English
comfort, Greek columns, or whatever else first crosses our minds. Everything has
the same meaning or is equally unimportant, just as it strikes us. Everything comes
to life quickly, but it dies at the same rate. We lack the ability to bring one thing
into a lasting relationship with another. It is not that we are completely uncreative
at this stage, on the contrary, a child is very creative, it is just that its creations have
only a momentary value. It might seem pretentious to say "only a momentary val-
ue", but it is not meant maliciously; perhaps childish qualities really are superior,
and brief moments preferable. If that were really the case we would at least have
the consolation of knowing, despite our oft held opinions to the contrary, that
the last decades of our work have been very important. During this time we have
taken a childish interest in everything, without scruples we have picked things up
and dropped them again; nothing has appeared sacred to us: even the greatest
child could not have done better. Those were the days; but it is certainly true that
no child wants to remain a child forever. When children play families the most
difficult thing to agree on is who is actually going to play the child. Thus we will
always be inclined to resist having our work labelled as childish. We will always be
eager to do something different, something more mature than that which a child
can produce.
We would probably like to believe that the last few decades were
in no way childish. When we think of certain subtle influences which imbued this
period we might even come to describe them as senile. However we should not
forget that the senile often resembles the puerile in many ways. A variety of wishes
is indicative of a childish character; a small creative ability pitted against ever new
desires, of which the last two decades have seen a remarkable number. And if we
have developed a few things in an orderly and serious fashion it still does not prove
that we were not childish; a child can occasionally behave in a very grown-up man-
ner and nevertheless remain childish.
We have a high regard for childish qualities and so we have a high
regard for the period which has just gone. But we cannot stop ourselves from grow-
ing older. If nothing else, our current patriotic struggle vividly shows us that we are
stepping out of a period of childishness. We are filled with high ideals, with great
courage, and with genuine youthful power. To a greater extent than ever before we
seek out and recognise leaders (not only in the military domain), and cheer them
on energetically. In many other ways too, we are seeing constant reminders that a
manly period has begun. In our lives, and in our work, we are very much at a begin-
ning: the beginning of a period in which the limitations of our abilities will become
palpably evident, in which our desires will no longer be so simply all-embracing,
in which we will no longer believe that we can do everything. A period in which,
to a certain extent, orthodox robust activities will have a high value; a period of
strong solidarity, powerful uniforms; and with all this, we are entering a period
of strong and healthy craftsmanship, or altogether industrial work. Increasingly
we will say to ourselves that we will never produce anything mature, and our lives
and work cannot be beautiful, without vigorous involvement in craft and industry.
In fact we have been telling ourselves this for a long time, but usually only as an
aside, and very quietly. We have been frightened of the moment we recognised the Candida Höfer, Festspielhaus, Hellerau, III, 2000, C-print, 85 cm x 85 cm
202 demands of vigorous industrial work, in which, amongst other things, order, dili-
gence, straightforward thinking, a simple way of life and basic proficiency, are all
indispensable. Until now, we have respected the industrial both too highly and not
enough - too highly with our all too frequent demands that it should takeover our
lives completely, and not enough with our all too frequent overlooking of the fact
that for all mature life and work, industry and the crafts are a necessary and prac-
tical foundation. We need more than a foundation, but we need a foundation first.
If hitherto we have ever been concerned with the advancement of
crafts, then in ninety out of a hundred cases it has been an issue of refinements
or particularities. Innocently, we have preferred to believe that all the necessary
elementary and basic things have already been dealt with, very thoroughly and very
beautifully; yet it is precisely those things which have been lacking. We have had
small foundations everywhere, and everywhere we have built something small; it
is as if everyone of us had his own private foundation. Today we need to form a
broad, strong foundation, to bear our common work so that it can develop into
something great and tall. Thus, a second period of popular work can begin for us,
and only after we have become accustomed to this can the third, or artistic, period
that we have always sought, come about. Our moments of longing for such an era
will only be fulfilled gradually. It will not come about without a prior period of
craftsmanship and industrial ability. We must, first, have been not only quite child-
ish, but also quite manly.
We will come to realise that the signs which have recently prom-
ised us so much in the field of art, or the grand arts, are deceptive. It is a familiar
deception, because all art is, amongst other things, very childish. And having seen
so much childishness in art we have come to believe in much of it; it is even easier
to believe when we are so fond of it. But even if art is always childish, it is not nec-
essarily the case that childish things are always artistic; on the contrary, it is, like
everything else, only a part of art. For us it is more or less a case of not wanting
any art at all, only craftsmanship and industry. Up until now we have sought out all
that is childish, much that is artistic and wherever possible avoided craftsmanship.
However, this intense desire for art has provided unwelcome proof of the fact that,
however good our relationship with art, this relationship is always unproductive.
We may entice art or encourage it with kindness; but basically it will either devel-
op by itself or it will not develop at all. Only craftsmanship, the form of creation
which deserves to be called upon first, without which art cannot exist for us, does
not develop by itself but must be very strongly desired and very well learnt, for it
challenges our comprehension, and particularly our minds. Wherever we seek to
communicate, we can only really be thinking of craftsmanship, and as today we are
searching for a tremendous number of things, so we can communicate with each
other, we also want a tremendous amount of craftsmanship. Whether great art will
follow after all this craftsmanship is uncertain; just as it is uncertain that a brash
and brave youth will turn into a great man. This cannot be proven and here only
hope can give us solace. This hope is, however, quite justified; moreover we should
be ashamed of the assumption that the pain from intensive industrial work could
one day crush us entirely. When required, our physical and psychic resolve can be
much stronger than we ever believed possible during the last decades; a fact that
has been very convincingly proven by the war.
It cannot be proven whether strong industrial work will be a bless-
ing to us, or whether it will destroy us. We are either a race that has been divinely
inspired by God or one that deserves much pity. All that matters is that we do
not believe either in destruction or in pity. We know that much pain awaits us in
strong industry; but we also know that we cannot plan our route to the heights by
sitting next to the fire. We know that something always precedes that high point;
that something does not just look into our eyes in an enticing manner. The highest
achievements are always preceded by effort.
We can look at our lives and our work in anyway we like. In the end
we will always find that craftsmanship and the altogether industrial are closest to
us, that they suit us best, and in our struggle with them we find more than we do in
any other struggle: that which we call a strong and healthy life's work.
The best and the most authoritative works of today will, of neces-
sity, have something primitive about them; that is to say, primitive in the manly,
rather than in the childish sense. For example, the best we could do with a house,
would be to make a rather careful box. In a childish sense, today's house would
203 necessarily have to be colourful; a child uses practically anything it can get hold
of, and these days much can be obtained. But a manly craftsman-like ability and
understanding will tell us that we will need all our abilities to accomplish even the
most urgent of our demands conscientiously, and to a certain standard. It will re-
ject all colourfulness as being superficial, dilettante or inappropriate.
We more or less want it neither straight nor crooked; neither clever
nor stupid; neither coarse nor refined: it should all come together for us. Out of
all this we can only just afford the bare essentials, or the most important things. In
order to be sure of finding them we must be completely thorough. Anything su-
perficial must be anathema. We must say to ourselves over and over again: do that
which is necessary, in moderation, but do everything thoroughly.
The following written discourse is intended to answer a number of
questions which are always foremost in our minds, and are especially important in
our industrial work. We hope that both the text, and the products of our labour
published subsequently, will throw additional light on each other.
Again and again we are concerned with tasks relating to the con-
struction of a house and the furnishing of a dwelling. If such tasks are here treated
very generally as industrial, then many of them will continue to point to a larger
whole which determines the tasks under special consideration here in an essential
manner. The expression "architecture", which is to some extent obvious, has been
here avoided as far as possible. We understand it to be essentially a final thing,
which, for the time being, is still of relatively little concern to us. Architecture has a
thorough, motherly attitude towards all tasks and as a consequence it suffers when
there is a lack of unity in our work. Thus architecture can only become mature
for us when we become strongly united in our entire work. To sponsor this union
should be the most important task here, and so our concern is less for architecture
itself, than for the preconditions necessary for its growth.
Added to the plans and perspective drawings are a few so-called
working drawing. I consider such drawings to be of special importance here, so I
would have liked to have shown more of them. However, in general, we are prob-
ably very little disposed to consider such working drawings as noteworthy, so the
few that I have included may be sufficient. But we can rest assured: for the growth
of the larger whole it is of primary importance that first we really love everything
and save our greatest respect for all that fundamentally concerns the place of work.
The workshop is more important than the studio.
Industrial Work and the
Middle Class Quality
Industrial prosperity demands strong, healthy middle-class attitudes. To the casual
observer it often seems that for great and important works of industry or archi-
tecture we owe our debt of gratitude to profane rulers. But at best, they can only
protect or sponsor industrial work. This might sometimes be worth a lot but it fails
to reach the heart of the matter; that involves middle-class qualities alone. That
is to say, it is the man from the middle-class who undertakes the execution. To a
greater or lesser extent, the non-middle-class has only ever had a side-interest in
industrial matters. Thus the middle-class way of life, and industrial work, are both
of the utmost importance. Today we recognise the importance of the middle-class
in a special way. Qualities such as diligence, seriousness, straightforward persever-
ance, the love of order and the practice of cleanliness are all very middle-class, yet
they have begun to gain the assent of society as a whole.
Today, when we look at the average, newly-built house we believe
that throughout, the master-builder ["Baumeister" in Tessenow's original] has
thought of all the best options, has wanted all the best options and has been able
to carry out all the best options. But we only begin to understand all this once it
has been explained to us at great length, and after that we still do not really un-
derstand it. As far as we are concerned, it could just as well have been completely
different. The bricklayers and carpenters, the joiners and the metal-workers, and
all those working on it, do not understand it either. They only notice that one ar-
chitect is very concerned to get everything straight, and another architect is equal-
ly concerned to have everything crooked. Otherwise none of them are bothered;
they know that at work their own thoughts and intentions are worth very little or
nothing at all, and they work in good faith, willingly and with great ability so that
204 everything is as crooked or as straight as has been demanded of them and they can
receive their money at the end of each Saturday.
All this incomprehension which we keep coming across in our dai-
ly lives signifies that our manner of living and working is particularly unhappy or
dangerous. Today, more than ever, we need that which can communicate with, and
gain the assent of, the man in the street. We have too little of it, and too much that
is special. Today, our premier obligation lies in the constant search for that which
can unite us with a larger whole, or in the constant search to recognise and hold
onto that which is simply essential or necessary to us. Of course, this will only be
possible at the expense of thousands of incidentals, but there is nothing for it. A
healthy or strong middle-class, and equally strong individual work,will always lead
to the loss of certain incidentals in practical terms, or a lack of regard for certain
secondary sounds which might be heard within the whole. Instead, we will search
for simple, full sounds, like the march or the anthem.
Only a healthy middle-class can combine social depths with social
heights. It alone manages to maintain, at all times, and in all areas, a lively relation-
ship with both; perhaps not always a profound one, but one which is always mani-
festly practical. Likewise, it is the essential quality of industrial work that it always
deals equally with the lowest and highest forms of current work in a manifestly
practical way. It always stands right in between them, it is always the resultant of
popular work, even today; but today it operates in a field of undefined confusion.
The average industrial work of today, for instance, our average in-
terior furnishing, is marked by a certain pitiful plurality. We find it hard to take an
independent stance to withstand the plurality that confronts us everywhere. We
do not so much have what we want as that which is forcibly thrust upon us. Con-
sequently, our homes and our industries are depressingly alien and we are quite
indifferent to them. Their emptiness and lack of actual value is all the worse as we
have had to expend such large efforts on getting them. In industrial terms our abil-
ities are unprecedented; but we are unable to do more than fill every dwelling with
a living version of "the world and its wife". Today every normal dwelling contains
an almost unbelievably large number of unimportant things, both on the inside
and on the outside. All of us invariably, with a clear conscience, consider them
quite unimportant, whether they concern us directly or not. The more we succeed
in doing without them (which is certainly not easy; there is a certain amount of
charm in anything), the more space we will leave for the really important and the
necessary.We seem to have lost the ability to see what we love most and we must
be perpetually on our guard to rediscover it. We need to be more faithful than
unfaithful to ourselves if we are not to lose ourselves in incidentals immediately
afterwards as we usually do. We have a dangerous excess of destructive qualities,
and we seem to have great trouble finding and holding onto things which have,
at least to some extent, the quality of calmness or clarity. But it is increasingly
necessary to find this and hold onto it. Perhaps there has never been a people so
dependent for their existence on the nurture of middle-class virtues as we are to-
day. Thus even the largest communities will today assert that the ends and means
of our buildings, our gardens, and our dwellings are particularly important, and the
expression of middle-class qualities especially desirable. In the end industrial work
is always inadequate. When it is very good, it consists of fifty per cent stupidity and
fifty per cent intelligence. The best industrial work considers both equally valid and
knows perfectly well how absolute things elude us, and says to itself: that which is
intelligent is as stupid as that which is stupid is intelligent. We have to be certain,
and at the same time doubtful about our certainty, in order to produce the best
industrial work.
In our occasional efforts to gain complete, or almost complete,
satisfaction through industrial work, we considerably underestimate the scale of
our volition and considerably overestimate the potential that industrial work has
in our daily lives.
Industrial work is very important; our daily lives are full of it. But
it is also very unimportant because we always want something higher and better
than that which our daily lives can give us. Our Sundays are not there so that we
can relax our demands on industry, or gain a rest from it altogether, but so that our
industry can rest.
In the end we will always want to be more than middle-class or
commonplace. But we will always be superior to the middle-class as well as to
205 industrial work. Therefore, we need not be afraid; if we are encouraged to be sensi-
ble, diligent and so forth, if we are middle-class, then it cannot do us any intrinsic
harm. We should strive for it confidently; for we will always be greater than it.
Technical Form
Supposing we were shown an electricity generator. We would consider it strangely
suspicious looking. We are told of its power, which to us is totally, incomprehen-
sibly large. Suddenly we have the greatest respect for this machine and we auto-
matically think of all the greatest possibilities for human achievement. But while
we take another look at the machine it is noticeable that we maintain our distance
from it. To us it seems uncaring. Our admiration contains a strange, fearful insecu-
rity; actually we would love to leave this machine room and be far away, away from
the factory. Suddenly we become aware of just how much courage is needed in
order to work in a factory. Just now we were thinking of all the highest possibilities
of human achievement. For instance; we could imagine Michelangelo's Moses, or
some such sculpture, set up next to the generator. It would suddenly look com-
pletely insane. We wouldn't know why it was like that and not some other way. We
wouldn't be surprised to see a large, black sphere with a diamond on the left hand
side (or anything else inconceivable coming out of it) hovering above the generator
at a distance of 35 1/4 mm. Perhaps we should ask whether anyone has ever seen a
cat or a dog running around in a space with an electricity generator - not possess-
ing technical or organising interests.
As long as we lack these, the machine has no intrinsic value. What
we see and feel about it is actually completely incidental. For instance, imagine a
technician demonstrating that he does not need the generator at all, but can re-
place it with a small cheap sphere which is connected to a piece of wire, so that by
placing this sphere on a small cheap white plate, he has exactly the same voltage
we need for the generator. On this assumption, all of us would much prefer the
small cheap sphere with the small cheap white plate to the expensive generator.
Its formal value is almost nil, but not quite. For as humans we have something of
the technician in all of us, and so have a general technical relationship to every
technical form; we can value, or understand and love the generator to a certain
extent strictly as form, leaving aside all the technical aspects. We certainly sense
something of the machine's power, so we also believe the engineer's mathemati-
cal account; but most of it remains pure belief. In this case what the form tells us
of the power is infinitely little. Apart from anything else we can hardly have the
slightest idea about the possible effects of this force. For instance, it would not
come as a great surprise to us if the generator were to take off suddenly, aiming in
our direction, and passing all too near to our valuable heads before shooting out
of the window.
Technology always searches for the smallest effort for the largest
power. Form is only affirmed as something unavoidable, otherwise technology de-
cries all form. For instance, the most favourable form would certainly be a sphere
or at most a cube, not too large and with wires from there going everywhere - the
simplest and cheapest thin wires, and above all a small button, and next to this a
small white sign saying "Please Press"; that would be all. Technical work is funda-
mentally hostile to form, irrespective of the fact that we also have a sensual interest
in all work, which makes us strive for beauty in everything, even in the production
of a machine, irrespective of the fact that the machine, or technology, has nothing
to with beauty. The actual beauty of technology is not a fact, it cannot be sensed,
but is intellectual. Above all, it lies in economic or social necessity. As far as pos-
sible, we should be one sided and matter-of-fact in order to gain a strong sense
of the beauty of technology. Apart from that we should gain a strong sense of the
beauty of the machine or the actual work of the machine. The so-called complete
man is of little help to us in these cases. It is in the nature of technical or ma-
chine-like work to take little account of the issue of sensation.
I know of a large factory where pictures have been ubiquitously
hung on all the walls next to the machines - a reproduction of a print by Hans
Thomas, or a Durer wood-cut, and so on. It is full of them. One might just as well
place a string-quartet next to a circular saw, or prepare glue with Eau de Cologne.
Such paintings on the wall have nothing to do with the actual power of the ma-
chine or technology. On the contrary, they are in opposition to its spirit, and will
206 inevitably damage it at some time or another. Geographical wall-maps, statisti-
cal charts, charts in general, mathematical formulae, optical instruments and so
forth; all that is eminently rational and exact; that is the last will and testament of
technology and of the machine, and sponsors its work most immediately. In col-
laboration with the machine we should affirm its essential qualities (the rational,
organisational, etc.) and not add anything else beside or above them which would
be hostile.
If we think of a rich, but particularly empty ornament and place
next to it a copper cable carrying a high voltage, then we have two opposed forms
of human work: in the first case a lot of form without there being really anything
behind it, in the second case almost no form, yet an enormous amount being con-
tained. In the end we deny both equally, what we are looking for is a form which is
alive in all its parts, but also allows all living things to express themselves fully. We
negate the ornament as much as we negate the copper cable with the high voltage
which is not expressed. Both forms are, as such, inferior, but nowadays we general-
ly have a greater respect for the copper cable. It interests us more, we have a greater
affinity towards it. It bears greater hope, for it has more to do with the rational
than the ornament, and our world today, so topsy-turvy and full of colour, com-
pels us strongly to respect the rational. Surely it is not irrelevant that we should ask
"why" so often, even when we know that it is stupid to keep on asking. But in the
search for primary, simple or necessary things we become hostile to form. Hence,
we have largely the same aspirations for technology as we have for the machine. It
is certainly not the technical or machine-like form itself we love, though there are
numerous truly naked technical forms which immediately appeal to our hearts: the
form of a yacht, or a bicycle, for instance. We certainly value the simple technical
form overwhelmingly for the economic values it nurtures in us. We can value the
technical form very highly, yet still not want to have water pipes mounted visibly
on the walls of our rooms, and we feel similarly on thousands of issues. The form of
the electricity generator is not a matter of total indifference to us, but that is not
saying much. After all, we are never completely indifferent to anything.
On the one hand, in technical or machine-like work today we place
exceptional value on the search for concise form. On the other hand, we value the
quality of repetition in the machine-like form because our largest and most im-
portant task is to orient ourselves. If we always see familiar things, or if we see very
little, then our orientation may remain crude; but here we are dealing with some-
thing basic - industrial work suffers from nothing so much as the fear of the funda-
mental crudeness on which its refinements are always based. To take an example,
the precise church tower is based on raw boulders, and the fine medieval masonry
is based on a simple knowledge of the crafts, and the fine mature medieval work
of the craftsman is itself based on a hard social order. The high esteem in which we
hold a simple school - like form of knowledge as a fundamental quality will help
bring out the best in our industrial work. This is also the result of the high esteem
in which we hold simple technical and mechanical work.
The simple technical form has little charm, and so, more often than
not, we stay out of its way but today particularly we should hold it in high esteem.
An appreciation of technical form will help us greatly to find a firm ground for our
industrial work. A technical form has no such thing as a destination in the ordinary
terms of industry; its rational aspect is altogether overwhelming. Unlike the best
industrial work, it is not fifty percent stupidity, it relies too strongly on what we
know; or too little on that which we cannot know, but feel, believing too little in
form as such.
Objectivity or Truth
in Industrial Work
Know what you say, but do not say everything that you know. (Matthias Claudius)
In industrial work, truth has about the same meaning for us as the simple technical
form, but something more should be said about truth here, since in a way it is at
this point that the concept comes most readily to mind.
When we admit to someone that he is most uncongenial to us, it
may be very honest, but it is probably also rude and offensive. After all, it is a mat-
ter of uniting ourselves with the world by our expressions.
207 Just as we unquestioningly appreciate the external objective truth
in didactic terms for our industrial work, so we have unquestioningly constructed
a mass of terms to work in society which we would never accept in our social lives.
For example, the doctrine that "one should build a house from the inside out" is
widely held, by which we mean that one should size and dispose and otherwise
shape the rooms and other parts of the house according to their various uses, with-
out worrying about the external appearance of the house; the latter being so much
the better the more it discloses of the interior. But such doctrines have very basic
drawbacks; if not we would be able to say that our behaviour would improve the
more we told every passing stranger on the street all our joys and woes. It seems
totally self-evident that this should not readily occur, and that the individual in the
community in general should take his place within the whole. Therefore we must
also call for such an arrangement for the individual in the case of industrial work,
and similarly for the industrial works themselves.
An old experienced master builder, whose influence amongst us
has been very strong, was to have taught that: "if, for example, two boards are
nailed together to make a front door, then the nailing together should be shown
in an honest way, and, if possible, one should also show where the nails have come
through on the rear side of the door and so on. Should a splinter of wood come
off, which could very easily happen, then the splinter should just be ripped off and
things left at that". Assuming that this story is meant literally, then in this case
the nailing together is at least consequential and demonstrates very well where it
would lead. It produces, so to speak, an honesty with fanfares. In this case, it is
the exaggeration we are afraid of. Just as we recognise and call for the general as
the determining factor in daily or industrial work, so too we call for the quality of
the general in relation to truth. For instance, we affirm or demand that a person in
mourning should also profess this within the overall whole of his behaviour; but we
do not require him to tell us the particulars of his grief; similarly, we demand that
a piece of industrial work should generally be truthful in simple terms; but we do
not really want to see every glue joint and every nail.
It would be nicer if we were able to unite ourselves more at a hu-
man level, if we were able to show more openly our troubles and joys, or the pipe-
work of our houses and streets; in short, everything that concerns us as humans.
But we lack the ability to show everything in such a way that the frankness will not
embarrass us or insult others, and so we have much to hide.
Those who may confess a lot, are highly blessed.
Order
Friedrich Nietzsche said it so beautifully: "there must be chaos so that a star can be
born." According to this we would be right to expect the largest, most beautiful star
from our lives and work, for here the requisite chaos is very well developed indeed.
Order is always something of a miserable thing. It cannot help
but fail in the face of inevitably ensuing novelties; the alternative being a crudely
conceived world where we can ensure that every new thing resembles something
earlier.
In our attempt to order the world we admit we lack the power to
conceive of the world in its entirety, and that we are prepared to content ourselves
with a certain crudeness.
Industrial work - the building of our streets, bridges, houses, fur-
niture and so forth, is always, to some extent crude work, so order is particularly
applicable or necessary to it.
Order is most effectively shaped through uniformity, and just as
industrial work requires order to prosper, so it also requires uniformity.
A deliberately uniform work brings our more refined formative
forces into operation. In the case of something completely new these forces fail;
therein lies the blessing which the recognition of order or uniformity has for all
simple abilities.
In order to cope with the world, or in order to recognise it when
dealing with uniformity, it is necessary to concentrate our senses on the finer de-
tails. For example, a shepherd who seeks to differentiate between the sheep in his
large grey flock, will find it necessary to note minute differences which vary the
appearance of the individual sheep, and he is able to do so. Because we are not
208 shepherds all sheep look the same to us - our eyes are blunted to any refinements.
However, uniformity partially shapes the senses; we have to feel a
lot of similar things if we are to recognise fine differences between them and there-
in lies a limitation corresponding to that which is contained in order.
The more we recognise the uniformity of our work and the less
we require our work to be entirely new, the more refined will it become in its for-
mation. In the same way the similarity of men's clothing allows us to be aware of
their refinements - this is true of men's clothing to a far greater extent than it is of
women's, where refinements in terms of the cut, the tailoring, the choice of colour
and so forth are extremely rare. The rapidly changing differences of the overall
work means a rare ability is required for refinements beyond the necessary whole
to be attained.
In addition to considering the great economic potential for in-
dustrial work, we would also like to point out the greater potential entailed by a
recognition of uniformity. Imagine setting apart the essential recurrent aspects
of the design of a house and doing without any of the individual specialities that
characterise our various dwellings and different domestic layouts so as to make just
a few types of house. The material benefits that this procedure would create would
be immense. How much would a box of matches cost if each box was shaped in
accordance with some new architectural design? In our collective consciousness we
have already gone a long way towards creating such things.
The idea of extensive uniformity in industrial work is not as ex-
treme as it might at first seem in the midst of today's prevailing disorder. Earlier
works are a good testament to equality and prove that it is possible on practical
terms.
Uniformity does exist in our works today, for instance; the stand-
ard dimensions of I-beams for carpenter's and joiner's timber; the uniform meas-
urements of screws and nails and other small pieces ofequipment. We find it in
tools, soap dishes, cutlery, door and window frames, electric light bulbs, in trains
and railway coaches and particularly in all our military equipment. We could not
say that such uniformity was a source of great concern.
In strong healthy work, refinements are never of immediate signif-
icance, equally they are not important in devising a means of production, though
uniformity necessarily develops our sense of refinements. We recognise uniformity
first and foremost for its simplicity and usefulness, as in tram carriages, which are
uniform because if they were produced differently they would cost more. A re-
ceived uniform stunts development; once we have a uniform it is not easy to shrug
it off. It stands witness to its own right of existence and rarely provokes criticism.
For example, tram carriages do not inspire us to find fault with them; they seem
to be self-evidently correct even in their appearance, although they are quite con-
spicuous within a street. This is the effect that uniforms have on our sensibilities,
and probably ensures their continued existence even more than their economic
advantages, being the original reason for their development. So we often find that
seemingly insurmountable difficulties stand in the way of desire and ability, per-
haps rendering the latter totally unproductive. But there is no alternative,we can-
not determine one form of living and working in which all productive and form-
ative energies are totally effective; even the best means we can devise will reach a
self-limiting point. In the end we always have the means "in spite of it."
The rich and powerful do not like to repeat; that is the way of com-
mon people. Now we are frequently of the opinion that strong repetition creates
a paucity of expression, but it is not necessarily the case. Expressions produced by
repetition can be very rich and strong in certain circumstances. For example:
'tis all dark, 'tis all gloomy,
while my Love is not with me,
I had thought she loved me,
but no,
but no,
but no,
but no,
she hates me.
209 The strong effect which this "but no" brings about could possibly
be attained using some other words, in an equally strong or even stronger manner;
but here it should be noted that the repetition of the simplest form of negation
touches not only very strong, but also very rich and complicated sensations. The
phrase "but no" becomes something of a lament, something despairing, through
the simple use of repetition .
As far as we are concerned with the means of expressing our sen-
timents, industrial work offers the best or the most comfortable means. But it is
also very brittle and simple, so we will always need to call on repetition as a means
of expressing strong or rich sentiments within it, perhaps like the singer, who had
only the simple "but no" to relate his lamentation and despair.
There are no sentiments which we cannot express through indus-
trial work: a house or a chair, for instance, can definitely express the happy, the
sad, or the very happy, or the very sad, or the distinguished, or the thick-skinned;
but as far as the means of expression are concerned, an individual brick or the leg
of a chair is perhaps not so convenient. To this extent, we could go so far as to say
that practically or effectively, we do not value the products of industry as a means
of expression at all. To a proficient master craftsman the appearance of his work
must be very important. But were we to ask him to produce a chair which gave the
impression of being thick-skinned, then a dedicated cabinet-maker would simply
laugh at us. That is not only the case today; it has always been like this, even in
the days when industrial products went far beyond the simply useful. The special
expression that characterises every industrial product has always arisen uncon-
sciously; amongst strong industrial products it is only general sensations which
find conscious expression in the products. This makes particular sense when we
consider that in times of the most powerful industrial products, like the Middle
Ages, the same forms, and so the same overall expressions, kept recurring. Power-
ful industrial products have never placed a high value on specialisation, and today
neither do we. But we are not in the least afraid of it, so our front doors always
have something heavy about them, our reception room doors something light, and
so on, with one expression always balancing and cancelling the next, so if possible
nothing remains which is to any extent pleasing or convincing.
Even if we were to say "but no" ten times, it might have a lot of
power, but it would not automatically have richness as well. The repetition will
only have a richness if we strike something that is essentially correct with the first
"but no", as in the case of the song above.
Hence a strong uniform quality in our houses and our pieces of
furniture is not just a good thing in itself, it is a question of repeating what is an
essentially correct quality. Indeed, to achieve such a thing today is probably very
difficult. What is important here is that we lose the fear we often have of order and
repetition and the uniform per se, when used in the domain of industrial products.
There is no doubt that they belong to today's healthy and strong means of produc-
tion. We fear the idiosyncratic amongst healthy industrial products, but not the
familiar or the repetitive; in such cases that is always obvious.
Regularity and
Especially Symmetry
It may, perhaps, seem ludicrous to talk about the necessity for laws in the context
of day-to-day industrial production. It is something we recognise practically with-
out reservation. That makes all the more curious the sudden fear which we some-
times experience in our endeavour to develop practical laws for industrial produc-
tion. All this proves that a law may not be all that good. However, we do not strive
for absolute good. In every case what we are looking for is something better, and in
general or day-to-day circumstances, in industrial production laws and regularity
are better than irregularity. (In the end, everything is lawful or regular, therefore it
can only ever be a case of simple or crude regularity or irregularity.)
Things which lack a simple or crude regularity, which fail to be
determinable or understandable, may have been profoundly conceived or experi-
enced, and may be very beautiful, yet to the man on the street or the community as
a whole, which is the destination of nearly all our industrial products, they become
void and sink to the level of mere form with no more value than a piece of timber
lying in our path. Besides, all that which is strongly industrial, especially that which
210 is strongly related to building, contains a powerful communal quality and there-
fore a high regard for simple lawfulness. In the same way, the high formal value
exhibited by all elementary laws and regularities with regard to industrial work and
production, is determined (this particularly refers to building work, which is the
most communal within industry). Examples are the straight line, the rectangle, the
circle, the right angle, the vertical and the horizontal.
Symmetry also belongs to simple formal regularity, and without
cherishing symmetry we will lack strength in our industrial work.
Should we wish to draw up a plan for a house in all its parts, ac-
cording to simple practical factors, arranging and determining individual rooms
according to such factors, situating windows where they will provide us with the
best light and so on, then this house will almost certainly have an irregular, or
asymmetrical, appearance throughout. The same applies in any number of other
cases, and, in the end, it probably applies to all works or products. Whenever we
find ourselves suffering in the search for practical and sensible solutions, it will
result in everything being crooked or lop-sided. Symmetry is, in every respect, a
matter of the centre line or the axis of symmetry and, so to speak, it knows it. At
any rate it always ensures that we take a special interest in it, just as, amongst other
things, a circle is always eager to have us search for its centre. If we manipulate a
plane symmetrically and we are not paying proper attention, then afterwards we
will always find that actually our drawing, or whatever, has not moved away from
the axis. This is the reason why symmetry so often has an unpleasant rigidity about
it.
If we unintentionally follow the demands of the axis of symmetry,
it will result in our drawing the axis as a line onto the symmetric plane, such as in
figure 1. The quality of symmetry has subsequently become completely rigid, as in
figure 2. It has become dead, and has been decomposed by dividing a plane that
was originally symmetrical into two symmetrical shapes.
If we side-step the demands of the axis slightly, and propose new
images to the side of the axis, as in figure 3, then our interest in the axis remains
alive, but it is divided into interest in the axis, and interest in the new elements of
the image, with the effect that our eyes will oscillate, so to speak, between the axis
and the new elements, so that the overall plane is set in motion and becomes alive.
In many cases this could be nicely developed by setting the new elements as far
away from the axis as possible, or even emphasising them, as in figure 4.
The accumulation of individual forms around the axis of symme-
try, as in the example sketched out in figure 5, always results in a strong submission
to the demands of the axis, with a tendency towards rigidity. This immediately
gives rise to a somewhat dead quality, a certain emptiness, despite multiplicity
of form, whilst a symmetrical drawing of a plane, as in figure 6, which gives some
of the adjacent elements special interest, will always produce an impression of
strangely suppressed movement. The strong interest demanded by the axis of sym-
metry in the facade of the house, where the axis always runs vertically, can still be
equalised most effectively by means of horizontal lines. Where the satisfaction of
certain requirements calls for a plurality of individual forms within the vertical
axis, the symmetrical rigidity may often be dissolved by using or emphasising hori-
zontal lines; for an explanation ofthis see figures 7 and 8. Yet the horizontal lines
can be seen as something of a useless undertaking, their effect can be so strong as
to dissolve the actual refined impression of the axis of symmetry almost complete-
ly, such that there is hardly any interest remaining in it; this is the case in figure 9,
which is opposed to figure 10.
It is also quite possible, should we wish to characterise the axis of
symmetry for some reason or another, as has been done in figures 5 and 11, to com-
bine the first image with a second equally symmetrical image, as in figure 12. We
then look from one axis which strongly attracts our eyes, to another axis, with the
possibility of a resulting overall image that is very lively, while nevertheless being
held together very strongly through the main axis. Actually a new symmetric image
has then been created from the composition of the two images, somewhat simi-
lar to figure 6, where the axis remains invisible. Because of the way in which such
duplicated house configurations carry so large and practical a weight, the whole
carries a slightly strange charge; very calm, without being at all lazy. For instance,
we can see such effects particularly well in many examples of old double-towered
churches, especially in Gothic towers with their strong emphasis on the vertical.
211 Probably the only way to avoid an unpleasant coerciveness or rigidity is achieved
by adding a second identical and closely adjacent tower. The rigid quality so easily
attained by the single Gothic tower is often a lot more comfortable when there is
a sudden horizontal break in the upper part, as we often find in old incomplete
towers. Symmetry is the better the greater the difficulty in finding its axis.
Cleanliness or Purity
in Industrial Products
If today we were looking for qualities generally regarded as good or desirable, then
cleanliness might well come high on our list. We are pretty undecided as to what
extent we want our surroundings to be happy or sad, crooked or straight, etc. But,
on the whole, we always want them as clean as possible. From many points of view
cleanliness can hardly claim to be a magnificent virtue, on the other hand we rarely,
if ever, permit the unclean to be valued as an aim.
We will dearly love products which meet the demands of cleanli-
ness halfway, be they road surfaces, furniture, clothes, crockery or anything else.
And wherever we ask for cleanliness in the communal life and work with other
people, we are mutually agreeing that this demand is for something self-evidently
good. For this reason cleanliness is a specially good means to come by an under-
standing about the how and why of our everyday industrial products.
When we have considered the question of cleanliness in industrial
products we have occasionally talked about hygiene, or not as the case may be,
depending on what suited us better; in this case it is not, perhaps, of particular
importance. If, for instance, a piece of furniture were made in such a way that it
was easy to dust in use, and we could argue that it was healthier not to have any
dust in a room, then such reasoning might be useful at the moment, but it is more
likely that the feelings we have against dust have little to do with its healthiness or
otherwise. Hygiene is only a side issue in this case. When we clean our windows
we want them to be as shiny at the top as they are at the bottom; it may be that
the act ofcleaning windows is in itself unhealthy, but at any rate we all consider it
a good thing to do.
If the attitude we are today adopting towards cleanliness were to
be observed and embraced in a more principled manner in the formation of our
industrial products, then they would readily and quite naturally attain, to a great
extent, something generally correct or obviously good.
Our endeavours to bring our industrial products to fruition and
our search for mutual understanding in those areas suggests that we should neces-
sarily have to have a high respect for cleanliness today, and we certainly do respect
it highly. However, if something is more comfortable to us at this moment then
we respect that something else more highly; for example, our furniture upholstery.
According to the relationship which we have with cleanliness, we should be able to
make the assumption that anyone who is in any way seriously concerned with up-
holstery would try to manufacture it in such a way that it could be easily stripped
off, washed and cleaned. While in the course of thinking about that one arrives at
a well-known uncomfortable point which always occurs and it makes it difficult to
continue, for it does not take us very long to remember that apart from cleanliness
there are many other things to consider. In the end we have long ceased to think of
the removable and washable cover at all, and when everything has been completed
we have a beautiful and comfortable old German oak chair with ox hide surround-
ed by brass buttons. As our intentions are so divided, it is not so much a case of
which is of the greater importance to us, but of what can be more easily achieved.
Just as material cleanliness is important to us in very general terms,
so too is the cleanliness or purity of our thoughts and emotions. It would be fitting
if we demanded that "our everyday products, or our industrial products should
not only be clean in material terms, but also clean in their entire manner, or even
in their form." Perhaps the formal cleanliness of an industrial product is a diffi-
cult concept to grasp, it may be extremely difficult to pin down, just as purity of
thought and emotion leaves us a lot of elbow-room, but ultimately we know only
too well how to differentiate, to a large extent, between the pure and the impure.
Shaping the purer form might not always be very easy; but our
industrial products would be a lot purer in formal terms if we were only more
conscious of the great respect we have for pure form. For example, in the eleva-
212 tion of an unfinished house (one whose masonry and mortar joints are still visible),
the upper termination of the opening for a window or a door almost invariably
shows the version seen in figure 13. It must be first said that here we have a case
of utilising a manner of construction which as such is reliable and good. But the
pattern of mortar joints that this manner of construction makes on the surface of
the wall is very impure, and it is not likely that anyone, insofar as he or she notices
such things, does not sense this clear formal impurity as such. It is however just as
possible to terminate the opening in the wall at the top according to the method
shown in figure 14, or some similar horizontal pattern. Today we could solve the
technical task in question without any problems. It should be assumed that here
we would wish to value the technical aspect very highly. It would be difficult to
prove which of the two methods of construction was technically the better given
the specific case; despite that, all of us would prefer the pattern of joints in figure
14 as the purer image, given the choice, and still we would find it relatively rarely.
This is not a bad example - we can look at any part of our streets,
bridges, or furniture, and only rarely find that great care has been taken in their
formation to produce pure form. In the case of formal cleanliness the overlapping
of different solids should be specially noted (that is, today, the secondary forms
which are produced in this way, where multiple figures stand behind one another,
where the anterior figures partially obscure the ulterior in such away as to only
permit a few, so to speak, cut-off formal parts).
To shape individual and composite bodies in such a way that over-
lapping figures are very pure, or so that they always present an image of the delib-
erate from all points of view (contrary to the undesirable or the wilful) is, however,
one of the most difficult tasks of all formal design. Thus also, to a large extent, the
high standard of a sculpture is determined by the way in which it "looks good from
all angles". To form industrial products well, with respect to possible overlaps, is
especially difficult, as the environment of the individual bodies is only partially
or vaguely controlled by the designer. For example, if we build a detached house,
then, after a while a new house might appear in the vicinity, over whose formation
we have no control, but which is very important in terms of its appearance due to
its having been superimposed on our house. Alternatively, individual bodies might
frequently change the positions from which the overlaps are determined. For ex-
ample, the forms made by the various overlaps when a chair stands in front of a
table will change when we move the chair.
The strange and inevitable, and as such especially indeterminate
overlaps which should be observed with regard to the shaping of industrial prod-
ucts form a special base, to the extent that we keep an eye out for the most neutral
familiar forms. For example, while curved and straight lines create impure or no-
ticeably dominant secondary forms when they overlap (see figure 15), the ones (to
which the overall perimeter invariably belongs) in figure 16 have the quality of be-
ing unobtrusive and natural. Individually, the overlapping forms in this figure are
also not pure, but the affinity of the shapes of the table and the chair do not easily
permit the impurity of the overlapping figures to stand out. In this respect very
vivid or broken up individual forms, such as those in figure 17, can be especially ad-
vantageous, because, to put it one way, whenever there is already plenty going on, a
little more is not going to make any difference; it is the purer and more determined
things that are always more vulnerable. This is especially true for the shape of roofs,
which after all are more or less always distinct in their primary lines. For example,
in the two houses in figure 18, whilst they are certainly related by basic form, the
overlap of the secondary figures F and H produces very impure or unintention-
al forms. Freestanding roofs are a different chapter altogether, and an especially
difficult one; they require quite extraordinarily careful formal development and
disposition if the overlaps are to result in some obvious or convincing form.
When we place a chair in front of a table then the resulting over-
laps are undoubtedly not of primary importance. As far as this goes we are quite
used to coarseness and will have to always accept it in large measures in our indus-
trial products. But even if we do not criticise the very impure as such, we can still
note that we are always amenable to the formally pure whenever we come across
it. Greater purity of form has always something salutary for us. We find it, for in-
stance, in a room which contains relatively few items of furniture, which have been
placed as far as possible against the wall leaving the middle of the room free, and
this is due to the fact that these items of furniture do not stand behind each other,
213 or only do so in a few cases, so the number of possible overlaps has been reduced
from the outset and, as a rule, individual images of great formal purity are created.
There may be some concern that in pursuit of continual purity we
will end up getting rid of everything altogether, so that everything will be certain
to be quite pure. It is true that one demand for the formal purity of our industrial
product is the demand for formal reduction or simplicity; but in so far as we are
thinking of such a thing as an ideal way of life we will always find that greater sim-
plicity plays quite an important part. One could say: the simple is not always the
best, but the best is always simple, but apart from anything we will be less able to
come to an agreement on simplicity than on cleanliness. Reflecting on the extent
to which our environment should be clean, we should answer almost without hes-
itation that it should be always as clean as is at all possible; contrary to that we
would soon have a host of fundamental reservations against a demand for sim-
plicity. That which we commonly call pure does not necessarily have to be simple;
only the simple favours the pure (that which is pure from all points of view), and
therefore a high respect for the latter will probably always result in the simple (that
which is simple from all points of view). Conversely, the rich or the manifold is
always actually disadvantageous to the pure and has little in common with it. We
have a particularly good example of this in the Rococo period, which was very rich
in forms. There were the many curlicues everywhere and with them the numerous
powdered wigs and tails and everywhere make-up and hooped dresses and volants,
a profusion of lace; and in every portrait can be seen a little long-haired dog in a
lady's lap, the wash basins were also said to have been very small, and not even the
king is said to have owned a bath. The charms of this world need no special men-
tion, they are quite evident; but, just as we are what we happen to be today, we no
longer have anything to do with it other than occasionally enjoying thinking about
it from a distance; our ideals are taking us on a completely different path.
Occasionally it seems that simplicity is related to poverty, in prac-
tical terms these do not yet have anything in common with each other; our sim-
plicity can certainly be just as much a greater richness as our diversity can be the
greatest poverty.
Sensitive Issues on the Subject
of Separations and Connections
Separating and connecting, or articulating and combining is, in the end, an in-
finite chapter; hence in this instance it can only be a matter of dealing with a few
essentials, or a few things closely related to industrial work. In the end there are
no parts, jusht as every whole forms only a part. Therefore we can only use both
concepts in a simple, everyday sense.
Parts of a whole, for instance the legs, the seat and the backrest of a
chair, always have an individual form of expression which need to be considered on
their own. Were we to combine (as in figure 20), the backrest with the rear legs of
a chair, taking them up above the seat in one swoop, then this might be very good
in technical terms; but the technology would have created a dead form at the place
where the legs become the backrest, that is to say, approximately at the level of the
seat. Point "a" is void of expression, because at that point the individual expression
of the backrest and the individual expression of the legs are mutually cancelled out.
Or one might say: were the piece of timber capable of being shaped, then it would
be able to express a special sensation at this point, where the seat suddenly crosses
its path. Instead, it continues here in a very thick-skinned way.
For the sake ofcomparison, let us considerthe two drawings of
chairs in figures 21 and 22, in which the units are largely separate.
The more we are able to separate and to combine, the better; in
that respect nature must always be our model.
Everywhere it articulates things right up to the finest detail; it con-
nects everything; but nature is not a craftsman. One could aim to produce items
of furniture for a room in such a way that they might be very different in terms of
materials as well as in terms of the dominant form, colour etc. That is an aim. But
it is an aim too far; we will not be able to reach it. If we were to observe a wardrobe
very carefully, we would find that it required a different timber and another colour,
etc., from the chair, just as, for instance, the willow has different leaves from the
reed which stands next to it in the water. But we have to be careful: wherever we
214 separate we should also connect and we need to connect more, otherwise things
will indeed look like before the first day of creation. Between impossible refine-
ment and unnecessary coarseness a line always needs to be drawn. For example,
in the case of the chair in figures 21 and 22, the legs, the backrest, the seat, and
within the seat the frame and the upholstered part are separated. As well as this all
the parts are connected by being curved in the same manner. In addition a special
fillet is placed at the lower edge of the seat's frame to form an apparent connection
between the legs and also to form a connection between the legs and the seat's
frame, but where the upper part of the backrest meets the vertical supports (junc-
tion "b"), these once again reveal an insensitivity, so too does the frame of the seat
at those points where the legs connect to the vertical supports. Hence, sooner or
later we always reach a limit at which, for whatever reason, we have to come to a
halt. But surely, what is important is that we do not just accept any limit. We want
to observe the boundary line that is drawn, we want to accept that which is closest
to us; but we also want to make full use of our arm's length, so to speak.
The pavement leading up to a house is manifestly of a different
nature to the wall of the house; accordingly, we observe their individual wills and
treat the pavement and the wall of the house separately. For instance, the two are
carried out differently as to material, colour etc., while apart from that, a quality
which relates them may exist in the fact that both colours harmonise with the same
hue and the division of the planes form related figures within the lines. There are
a large number of very good pieces of work which lack such articulation, for in-
stance, old tower constructions whose roofs and walls and surrounding pavements
are executed in the same materials. Occasionally we praise the degree of vigour
or even a certain pathos inherent in such works; we certainly make an effort to
achieve this. But vigour and awkwardness, pathos and stupidity, are uncomfortably
close to each other.
In the case of the elevation of a house, the separation of the plinth
from the doorsteps and the latter from the door frame, which are of very different
kinds, can easily be achieved by realigning all enclosing lines with respect to each
other. This has has been done in figure 23, as opposed to figure 24 and in such a
case the different planes can attain similar (dimensional) linear relationships as a
common element.
In figure 24 the upper enclosing lines of the windows and the door
lie at the same level, similar, for instance, to the way in which we frequently arrange
or connect the upper edge of paintings in a room directly with the door, or another
given level; but it is questionable as to whether such connections are not unnec-
essarily miserable or coarse. At any rate, they pay scant regard to the very diverse
expressions of the individual planes. They are very one-sided, even in the simple
sense of the word. Here we are dealing with a means of connection which in the
end we come across often, in every possible version. For instance, even in the fol-
lowing: we might site houses of a totally different kind on exactly the same build-
ing line, or vice versa; we might have a straight, continuous building line, and seek
to shape the houses as differently as possible. If the same building line is important
to us - and this is the case for very manifest reasons - then there is also a strong
demand to develop all the houses as similarly as possible; but then the differentia-
tion is missing, thus there is a continuous oscillation. As has been said before, it is
a colourful story; we cannot come to the end of it; but if we do all we can, then it
is always better than what we first thought. The differentiation of the houses may
already be given by the rain water pipes, whose effect might be further amplified
by some accentuation of the outline, or even to strong effect, by having individ-
ual house elevations, just a little different in their colour and so forth. Assuming
that we were always able to develop the elements of our work very thoroughly, we
would scarcely need to worry much about the connections, similarly about the
differentiation. A mature piece of individual work almost always connects itself to
"the other"; without further ado. It holds all essential things together in a simple
way, or has a vital relationship with all other essential things without however,
giving up independence or losing itself in the other. But our everyday practical life
only rarely permits such individuality so it will always be a strong requirement that
we should treat or, in a certain sense roughly carry out the subject of separating
and connecting as a special task. In this context, the subject of connecting will
require more effort than that of separating; connecting things probably has always
been a trickier task. Probably it has always been more difficult to, for instance,
215 make a pot from broken pieces than make broken pieces from a pot; but today we
are in special need of the subject of making connections. Today we find it much
easier, in general, to form something very idiosyncratic or difficult than something
that really connects. We assemble many things that are essentially antagonistic,
we form much that is not harmonic. That may be alright, the very antagonistic can
be quite appropriate or useful. It is just questionable whether we do not strongly
form it against our will or against better abilities. For example: very often we divide
a given form of an arch with straight lines, as in figure 25, or similarly, but we all
feel such a combination of lines unnecessarily loud or unbalanced. If we were to
choose it all the same, then it would only be because straight lines are cheaper from
the carpenter than curved ones; perhaps then the question arises as to whether we
would not have been better off in the first instance, avoiding curved lines, in this
case the basic form of the arch, altogether. At any rate, according to our general
feelings, the dividing lines adopted here stand in strongest contradiction to the ba-
sic form, so that such a combination of lines actually has nothing in common with
our formal intention. Individual forms have come into being as a result of a purely
mechanical division of the basic outline and height of the arch, but not according
to our actual will. For example, the partial figure in figure 25 surely must be totally
unintentional; the entire set of dividing lines is mutilated, the line of the arch has
cut those parts indicated by a dotted line in figure 26.
As far as our concern for the determination of particular correla-
tion or harmony goes, the dividing lines first accepted in figure 25 belong not to
that figure, but to figure 27. The form of the arch once again wants the form of the
arch for its subdivision, even more so in the case of forms which are very closely
related, as, for instance, in figures 28 and 29.
Thus our industrial work has much of the unnecessary spectacle
of the insignificant. For instance, we all too frequently and without much trouble
find the joint lines of our floor surfaces as shown in figure 30. This may not be all
that bad, but what it demonstrates is typical. According to simple common sense,
we might ask why such insignificant dividing lines have to be as independent, in-
stead of quietly joining and connecting - as in figure 31 - simply and obviously to
the lines of the given, basic form in an altogether quiet association. First of all we
stand a life-sized Venus on top of a cornice, then the post office comes along and
sets up one of their large telegraphic instruments next to it, or something like that.
After all, it is true that large things which work are no better than small things, and
equally that we improve the large things necessarily or directly through the small
ones.
Ornament
Ornament, or ornamental qualities are everywhere; but the less we demand of it
the better it is; the more indifferently we treat it the 'friendlier. It has about the
same relationship to our work as do dialects to our speech - they are inevitable;
they will necessarily develop in our communal life, but we must not take them se-
riously or they will become unpleasant.
We will necessarily further the development of ornament, as we
satisfy more the prerequisites which the best communal life and the best industrial
work demands. For example, when we carry out the construction of a brick wall
in terms of order, simple diligence, a high regard for simplicity and the neces-
sary, then it will necessarily bear strong witness to the ornamental quality; but we
have developed it without having wished to; as if to say, even at best, an ornament
eclipses a piece of work unintentionally.
(In figure 32 the individual surfaces have been specially empha-
sised, although being unimportant in essential terms, which might better explain
the ornamental quality of such a surface.)
On our path through life and labour, ornament expresses the tired
or resigned quality which is always in us. Thus we fight ornament with the same
necessity with which we fight everything else half done, or tired, resigned or con-
tented.
The best quality of ornament is the abstract, the stupid, or the in-
comprehensible.1 Ornament has, and this is said with some apprehension, a la-
dy-like quality; it can express complete views of the world, but it is always very
timid about it, or it is always very vague in its expression, or it requires vigorous
216
1 In times of very mature work, motives from nature
as used ornamentally will either not be found at all,
or only in very strong translations, so that anything
conceptual is, if possible, eliminated.
translation. Ornament lacks the determination to act, and this distinguishes it 217 Ornament is always more aesthetic than artistic. To a large extent
from that which we usually call great. Whenever we work at something considered it is satisfied by the form as such, unlike the form of something lively. It has sen-
important, we are required to concentrate strongly on our work. Ornament, how- sitive qualities in common with art, but it is not concerned with the value of a
ever, is against frowning; it wants to play at work. Thus we would have to be gods sensation, or the kind of sensation. While art always strikes, or seeks to strike,
were we to achieve something suitable with ornament itself. at very particular sensations, ornament lacks the ability to distinguish sensations;
In the preceding discussion, ornament has already been compared the sensations it arouses are always indeterminable and fortuitous. As has already
to technical form. Something which is to be repeated here: the technical form also been suggested, the actual value of ornament can be found in the same place as the
recognises strong translations (for it to be something to us). In the case of technical actual values of lady-like qualities. They work particularly well as quiet laughter (a
form the necessary translation occurs particularly through our knowledge, in the lady may not laugh aloud), ridicule (she is always superior, but unable to name that
case of ornament, through our perception. We hold both kinds of translations in which is better in concrete terms), in dream-like qualities (she is always dreaming
equal esteem, or we appreciate the technical form as such, as much or as little as and is afraid of the real), etc. Today real lady-like qualities - distinctly opposed to
we do the ornament, but roughly speaking, if we subtract from the technical form feminine ones - are rare; we lack the necessary appreciation for them. They are
the technical aspect remains. of very little consequence, and so we very rarely find them convincing. The same
Once there was a man who had rummaged about for a whole day in applies to ornament; though we have a lot of it we have no use for it. We only con-
the world's history, and then called it a day. He had just eaten and drunk very well, tinue to produce it because, perhaps, it was produced in former times. As it is so
and was now sitting there, just like that, very happy and talking about many things very intentional and it wants to be taken seriously. For that reason it is suffering. It
with his wife. She had afterwards to take the children to bed, and meanwhile daddy lacks a healthy or obvious quality.
carved round an arrow, half diligently and half lazily. Intentional ornamentation The love of industrial work always contains the love of the orna-
would have started roughly like this; it was half game and half work. If this man mental. It certainly cannot reject it; it is inherent in healthy work, like our whistling
had not already been slightly tired that evening, we might assume that he would or singing at work, or the pattern of a brick wall, which we do not strive for but
have tried to improve the arrow according to its essential qualities such as its flying which covers our sober work giving it such a noteworthy appearance; or like a pop-
power and so on, instead of ornamenting it. py in a cornfield, a laughing accessory in a large expanse of utility, not something
Ornament is always proof of a lack of the necessary intellectual vi- we wanted, but something we could not avoid. So let it be as quiet as possible, very
tality or power to be able to see or improve the actual essential or primary aspects incidental, and very timid.
of our work, it is, so to speak, always only half a job done before going to sleep.
Often we are tempted to believe that ornament is a beginning, or
that it is something like the seed that leads to a more highly developed piece of-
work, so we had great intentions about teaching drawings; but ornament is not a
beginning. For instance, we would hardly imagine that the next morning this man
sat down, freshly washed and ready to go, in order to continue carving, very quietly
and thoughtfully. On the contrary, in the morning the man would be sure to be
interested in other things.
It is expressly the secondary forces which create ornament. In
everyday life it is always something quite secondary, something residual, which is
why, despite all our efforts, we cannot improve on the ornaments that ancient and
wild people have already made.
Our thinking and feeling which deliberately allow us ornamenta-
tion are, it has been said, tired. They are not serious. Thus ornamentation is not
for children; it is altogether unchildish. A child always takes its work very seriously
indeed. When it is tired, it will, if possible, stop working and go to sleep. The child
wants the sensual, and thus ornament can be pleasant for a child; but equally a
child desires the factual, it will draw a house with a very red roof, or a tree with
very green leaves, or a lady who very clearly has five fingers on each hand. But a
child never wants ornament out of some original impulse, or it will never - unless
badly educated - love ornament as such, quite the reverse. Old established people
of high rank love ornament. People who are half done with the world, old cultures,
all those who altogether lack progress, or do not believe in progress but still work.
Today we have more of our intentions rooted in the childish and beginnings than
we want to think. We believe strongly in an improvement, and for this reason de-
liberate ornamentation is particularly offensive to us.
Ornament is the more obstructive the deeper our sorrow, or the
greater our joy, or the more vital our desire for progress. Deep emotions do not
want incidentals. A very lively or strong ability takes that which is coarsely mate-
rial, or the objective world, and seeks to form it in such a way that it not only no
longer bothers us, but, on the contrary, becomes very pleasant. Ornament seeks to
disguise that which is coarsely objective, or to laugh it away. For instance, when
we look at a richly ornamented front door we forget the front door, as such. On
the other hand a strong ability will take a front door and make it according to
its disposition, its dimensions, technology, etc. It will affirm with its entire being
even the coarser requirements, and with such a happy heart that it will become a
pleasure to use or to make such a front door, and we will be happy that front doors
are a necessary thing in this world. The ornamental will surely also be there on this
occasion, but it will be there without us having invited it or taken an interest in it.
218
Adolf Loos, Landhaus Spanner, Mödling, Austria, 1924
219
Excerpt from ‘Architecture’
Adolf Loos, 1910
May I take you to the shores of a mountain lake? The
sky is blue, the water green and everywhere is pro-
found tranquillity. The clouds and mountains are mir-
rored in the lake, the houses, farms and chapels as well.
They do not look as if they were fashioned by man, it is
as if they came straight from God’s workshop, like the
mountains and trees, the clouds and the blue sky. And
everything exudes an air of beauty and peace...
But what is this? A discordant note in the
tranquillity. Like an unnecessary screech. Among the
locals’ houses, that were not built by them, but by God,
stands a villa. The creation of an architect. Whether a
good or bad architect, I don’t know. All I know is that
the tranquillity, peace and beauty have vanished.
Before God there are no good or bad archi-
tects, in His presence all architects are equal. In the
cities, in the presence of Belial, there are subtle nuanc-
es, as is the nature of vice. And therefore I ask, why is
it that any architect, good or bad, desecrates the lake.
The farmer doesn’t. Nor does the engineer
who builds a railway along the shore or scores deep
furrows in its clear surface with his ship. They go about
things in a different way. The farmer marks out the site
for his new house in the green meadow and digs out
the trenches for the foundations. Then the mason ap-
pears. If there is clay in the area there will be a brick-
works delivering bricks. If not, then he can use the
stone from the shores of the lake. And while the ma-
son is laying brick upon brick, stone upon stone, the
carpenter arrives and sets up his tools. His ax rings out
merrily. He is making the roof. What kind of roof? A
beautiful or an ugly one? He has no idea. It’s just a roof.
And then the joiner measures up the doors
and windows, and all the other craftsmen come and
measure up and go back to their workshops and work.
Finally the farmer mixes up a large tub of whitewash
and makes the house nice and white. He cleans the
brush and puts it away. He’ll need it again next Easter.
His intention was to erect a house for himself
and his family, or for his animals, and that is what he
has done. Just as his neighbor or his great-greatgrand-
father did. Just as every animal does when it is guided
by instinct. Is the house beautiful? Yes, just as beautiful
as a rose or a thistle, as a horse or a cow.
And I repeat my question: why is it that the
architect, no matter whether good or bad, desecrates
the lake? Like almost all city dwellers, the architect
lacks culture. He lacks the sure touch of the farmer,
who does possess culture. The city dweller is rootless.
What I call culture is that balance between
our physical, mental and spiritual being which alone
can guarantee sensible thought and action.
I intend to give a lecture soon entitled, “Why
do the Papuans have a culture and the Germans not?”
Until now there has been no period of
non-culture in the history of mankind. This was re-
served for the urban society of the second half of the
nineteenth century. Until then culture developed in a
steady flow. People responded to the demands of the
moment and looked neither forward nor back.
Then the false prophets appeared, saying,
“How ugly and joyless are our lives!” And they gath-
ered together everything from all cultures, set it up in
museums and said, “See, that is Beauty. You, however,
were wallowing in ugliness.”
So then there came household goods decorat-
ed with columns and cornices, like houses, there came
silks and satins. Then, above all, there came ornamen-
tation. And since the craftsman, as a man of modern
culture, was incapable of designing ornamentation,
schools were set up in which healthy young people
were gradually warped until they were capable of it.
Just as in China children are put into a vase and fed
for years until they burst out in all their monstrous
deformity. Like their Chinese counterparts, these de-
formed mental monstrosities were duly marveled at
and had no difficulty earning a living, thanks to their
deformity.
At that time there was no one to call out,
“Stop and think. The path of culture leads away from
ornamentation to unadorned plainness.” The evolution
of culture is synonymous with the removal of orna-
mentation from objects of everyday use. The Papuan
covers everything he can lay his hands on with orna-
ment, from his face and body to his bow and canoe.
But today tattoos are a sign of degeneracy and
only seen on criminals and degenerate aristocrats. For
people of culture, in contrast to the Papuans, a face
without tattoos is more beautiful than one with tat-
toos, even if they had been designed by Michelangelo
or Kolo Moser. The nineteenth-century person wants
not only his face but also his suitcase, his clothes, his
household goods and his house protected from these
artificially generated Papuans. Gothic art? We are more
advanced than the people of that period. The Renais-
sance? We are more advanced. We have become more
sensitive, more refined. We lack the robust nerves nec-
essary to drink out of an ivory tankard with a battle of
the Amazons carved on it. Old techniques have van-
ished? The Lord be praised. We have been given Bee-
thoven’s music of the spheres in exchange. Our tem-
ples are no longer painted blue, red, green and white
like the Parthenon, we have learned to appreciate the
beauty of bare stone.
But, as I said, at that time there was no one
around to remind people of this, and the enemies
of our culture, those who sang the praises of foreign
cultures, had it all their own way. They were, moreo-
ver, wrong. They had misunderstood earlier epochs.
Since only those objects were kept which, thanks to
their pointless ornamentation, were of less practical
use and therefore did not wear out, only objects with
ornamentation have come down to us. Consequently
people assumed that in the past all objects had orna-
mentation. Also, it was easy to use ornamentation to
classify objects by age and origin and cataloguing was
– amongst other things – one of the most edifying
pastimes of those goddamned times.
All this was beyond the honest craftsman.
On one and the same day he was supposed to make
everything that had been made throughout history in
all nations and produce new inventions as well. But
these things were the expressions of their culture and
were produced by the craftsmen in the same way as the
farmer builds his house. The craftsman of the present
worked in the same way as the craftsman of the past.
A contemporary of Goethe was no longer capable of
making ornament. Therefore the warped product of
the schools was brought in and the craftsman placed
under his tutelage.
The mason and the master builder were also
placed under tutelage. The master builder just built
houses and that was called building in the style of his
own times. The one who took control was the man who
could build in the style of every past age, the man who
had lost contact with his own times, the rootless man,
the warped man, in a word, the architect.
Books meant little to the craftsman. The ar-
chitect took everything from books. An abundance of
works of reference provided everything and anything
worth knowing. People have no idea of the way this
mass of slick publishing ventures has poisoned our ur-
ban culture, the way it has prevented us from remem-
bering who and what we are. It made no difference
whether the architect had internalized the forms so
that he could draw them from memory or whether he
had to have the sourcebook open before him on the
table while producing his “artistic creations,” the effect
was always the same: an abomination. And there was
no end to the abomination. Everyone was desperate to
see their things perpetuated in new publications and a
large number of architectural periodicals appeared to
satisfy the vanity of architects. And so it has remained
to the present day.
There is another reason why the architect has oust-
ed the craftsman. He has learned draftsmanship, and
since that is all he has learnt, he is good at it. The
craftsman is not. He has a heavy hand. The plans of the
old master builders are clumsy, any student of building
can do that better, not to mention the so-called “fluent
hand” so keenly sought and handsomely paid by every
firm of architects...
...It is a well-known fact that any work of art
obeys such powerful inner laws that it can only be car-
ried out in that one form.
A novel that can be made into a good dra-
ma is poor both as a novel and a drama. How much
more starkly, then, does this come out when we take
two different arts, even if there are points of contact
between them. A painting that can be represented as
a waxworks group is a bad painting. A presentable
Tyrolean can be seen at Kastan’s waxworks, but not a
sunrise by Monet or an engraving by Whistler. What
is really terrible, however, is to see an architectural
drawing, which, given the medium, one has to accept
as an example of graphic art – and there are genuine
graphic artists among the architects – carried out in
stone, iron and glass. The sign that a building arises
from a genuine feel for architecture is that it makes no
impression as a two-dimensional representation.
If I could erase the most powerful ar-
chitectural statement, the Pitti Palace, from
people's memory and enter it for a competi-
tion, drawn by the best draftsman, the adjudica-
tors would have me put away in a lunatic asylum.
As things are then, the "fluent hand" holds sway. Archi-
tectural forms are no longer created by the craftsman's
tools, but by the pencil. From the elevation of a build-
ing, from the manner of a piece of ornamentation, one
can tell whether the architect was using a no. 1 or a
no. 5 pencil. And what terrible havoc the compass has
wreaked on our taste! Since architects have taken up
the ruling pen, architectural drawings have come out
in a rash of little squares and no window embrasure, no
marble slab is uninfected. The tiniest details are drawn
in on a scale of 1:100 and the bricklayer and stonema-
son have to chip out or build up the graphic nonsense
by the sweat of their brow. If the draftsman happens
to have colored ink in his pen, then the gilder has to
be called in.
But I repeat: a true building makes no im-
pression as a picture, reduced to two dimensions. It
is my greatest pride that the interiors I have created
are completely lacking in effect when photographed;
that the people who live in them do not recognize their
own apartments from the photographs, just as the
owners of a Monet would not recognize it at Kastan’s
waxworks. The honor of seeing my works published in
the various architectural journals is something I have
had to do without. I am denied the satisfaction of my
vanity.
Does this perhaps mean I am working in a
vacuum? Nothing of mine is known. But this is where
the power of my ideas and the rightness of my teach-
ings become apparent. I, the unpublished architect, I,
the man working in a vacuum, am the only one among
thousands who has real influence. I can give an exam-
ple. When I finally had the chance to create an interior
– it was hard enough since, as I have said, my kind of
work cannot be represented graphically – the response
was very hostile. That was twelve years ago when I did
the Cafe Museum in Vienna. The architects called it
“Cafe Anarchism.” But my Cafe Museum still stands
today while all the modern joinery of the thousands
of others has long since been consigned to the junk
room. Or they are ashamed of it. That the Cafe Muse-
um has had more influence on modern joinery work
than all previous projects put together can be proved
by a quick glance at the 1899 volume of the Munich
journal, Dekorative Kunst, where this interior was re-
produced, presumably due to a mistake by the editor.
But these two photographic illustrations had no influ-
ence; at the time they were completely ignored. Thus,
as you can see, it is only the power of the example that
220
has influence. It was by this power that the influence of
the old craftsmen spread more rapidly to the most dis-
tant corners of the earth despite or, rather, because of
the fact that there was no postal service, no telegraph
or newspapers.
The second half of the nineteenth century was
filled with the sound of the false prophets, men with-
out culture, crying, “We have no architectural style!”
How wrong, how incorrect. That was the very time
that had a more distinct style, one that differed more
distinctly from the preceding period, a change unpar-
alleled in cultural history. Since, however, these false
prophets could only recognize a product by the vary-
ing ornamentation, this ornamentation became a fet-
ish for them and they substituted it for the real thing,
calling it “style.” Style we already had, but no orna-
mentation. If I were to chip off all the ornamentation
from our old and new buildings, leaving only the bare
walls, I would certainly find it difficult to distinguish
fifteenth-century from seventeenth-century buildings.
But even the man in the street would recognize those
of the nineteenth century at a glance. We had no orna-
mentation and they moaned that we had no style. So
they kept on copying ornaments from the past until
even they found it ridiculous, so when they had gone
as far as they could go in that direction, they started
inventing new ornaments. That is, they had sunk to
such a low cultural level that they were able to do that.
And now they congratulate themselves on having cre-
ated the style of the twentieth century.
But that is not the style of the twentieth cen-
tury. There are many objects which show the style of
the twentieth century in its pure form, and these are
objects produced by craftsmen who were not working
under the tutelage of one of the warped graduates
of the schools. First and foremost they are the tai-
lors, they are the shoemakers, the makers of bags and
saddles, carriages and instruments and all those who
avoided the fate of being up-rooted from our cultu-
re because their craft seemed too ordinary to the false
prophets to be worth reforming. What good fortune!
From such scraps as the architects left me I was able,
twelve years ago, to reconstruct modern joinery work,
the joinery we would have if the architects had never
stuck their noses in a joiner’s workshop. I did not ap-
proach the task like an artist, giving free rein to his
creative imagination (as they doubtless put it in artistic
circles). No. I went to the workshops, as timid as an
apprentice, looked up respectfully to the man in the
blue apron, and asked him to share his secrets with me.
For many a piece of workshop tradition still lay there,
bashfully hidden from the eyes of the architects. And
when they realized what I wanted, when they saw I was
not one of those who would deface their beloved wood
with his drawing-board fantasies, when they saw I had
no intention of defiling the noble color of their revered
material with green or violet stains, they glowed with
craftsman’s pride, revealed their carefully concealed
tradition and gave vent to their hatred of their oppres-
sors. I found modern paneling in the cladding of the
old lavatory water tanks, I found a modern solution for
the problem of corners in the chests for silver cutlery, I
found locks and metal fittings on suitcases and pianos.
And I found out the most important thing, namely
that the style of 1900 only differs from the style of
1800 to the same extent as the tail coat of 1900 differs
from that of 1800.
By not very much, that is. The one was made
of blue cloth and had gold buttons, the other is of
black cloth and has black buttons. The black coat is in
the style of our times, that no one can deny. In their
arrogance the warped graduates of the schools had
not bothered to reform our clothing. They were all se-
rious-minded and felt it beneath their dignity to waste
their time on such things. That is why our clothing has
remained in the style of our times. The invention of
ornament was the only activity deemed worthy of such
dignified, serious-minded men.
When I finally received a commission for a
building, I said to myself, “In its external appearance
a building can at most have changed as much as a tail
coat. By not very much, that is.” And I saw how our an-
cestors built and I saw how, century by century, year by
year, they had freed themselves from ornamentation.
So I had to go back to the point where the chain had
broken. One thing I did know: in order to continue the
line of this development I had to be appreciably sim-
pler. I had to replace the gold buttons with black ones.
The building had to look unobtrusive. Had I not once
said, modern dress is that which draws least attention
to itself. It sounded paradoxical, but there were good
honest people who carefully collected it, like so many
of my paradoxical ideas, and put it into print again.
It happened so often people eventually accepted it as
true.
But as far as inconspicuousness was concer-
ned, there was one thing I had not taken into account.
What was true of clothing was not true of architecture.
If our warped graduates had left architecture in peace
and reformed our clothing along the lines of old the-
ater costumes or the Sezession, then presumably the
reverse would have been the case.
Just try to visualize it. Everyone is wearing
clothes from some past age or other, or from some
distant, imaginary future. You see men from the mi-
sts of antiquity, women with piled-up hair-styles and
farthingales, exquisite gentlemen in Burgundian hose.
And among them will be a few roguish moderns in
purple pumps and apple-green silk jerkins with appli-
que work by Professor Walter Scherbel. And now a man
in a plain overcoat appears among them. Would he not
arouse attention? Even more, would he not cause of-
fense? And would not the police come, whose job it is
to remove anything and anyone that causes a public
nuisance?
It is the reverse that is the case, however. Our
clothes are right, the fancy-dress ball is in architecture.
My building (the so-called “Loos Building” on Micha-
elerplatz in Vienna, which was built in the same year as
this article was written) really caused offense and the
authorities were on the spot in no time at all. That kind
of thing was all right in the privacy of someone’s home,
but not out in the street.
Some doubts will have crept in during these
last remarks, doubts about the validity of comparing
tailoring and architecture. Architecture is an art, after
all. I grant you that, for the moment anyway. But have
you never noticed the remarkable correspondence
between people’s appearance and that of buildings?
Does not the Gothic style go with the extravagantly
tagged and scalloped dress of the times? The Baroque
with the full-bottomed wig? But do our modern buil-
dings go with our dress? People are afraid of unifor-
mity? Were not the old buildings of the same period
and the same country uniform? So uniform we can
sort them out according to styles and countries, na-
tions and cities. This neurotic vanity, this vain neurosis
of having to do things differently from one’s fellow
craftsmen at all costs was unknown to the old arti-
sans. Tradition determined the forms. And it was not
forms that changed it, but the craftsmen, who found
conditions arose under which they could not remain
true to the fixed, hallowed, traditional form. New tasks
changed the forms and thus the rules were broken,
new forms arose. But the people of those times were in
harmony with the architecture of their times. The new
building that had gone up pleased everyone. Today,
however, most buildings only please two people: the
architect and his client.
A building should please everyone, unlike a
work of art, which does not have to please anyone. A
work of art is a private matter for the artist, a building
is not. A work of art is brought into the world without
there being a need for it, a building meets a need. A
work of art has no responsibility to anyone, a building
to everyone. The aim of a work of art is to make us feel
uncomfortable, a building is there for our comfort. A
work of art is revolutionary, a building conservative.
A work of art is concerned with the future and directs
us along new paths, a building is concerned with the
221
present. We love anything that adds to our comfort, we
hate anything that tries to pester us into abandoning
our established and secure position. We love buildings
and hate art.
So the building has nothing to do with art and
architecture is not one of the arts! That is so...
...Mankind no longer knows what art is. “Art
in the service of commerce” was the title of a recent
exhibition in Munich and there was no one to score
out the offending words. And no one laughs at that
splendid expression “applied art.”
But to anyone who knows that art is there to
lead mankind on and on, higher and higher, to make
us more and more like gods, combining art with a ma-
terial function is a profanation of the great goddess.
People do not leave the artist free to do as he thinks
fit because they are not in awe of him, and craftwork
cannot develop freely because of the weight of aesthe-
tic expectations we place on it. It is not the business of
the artist to have the majority of his contemporaries
behind him, his realm is the future...
Since there are buildings in good and bad
taste, people assume the former are designed by ar-
tists, the latter by non-artists. But building in good
taste should be just as much a matter of course as not
putting your knife in your mouth or cleaning your te-
eth in the morning. People are here confusing art and
culture. Can you show me one piece of bad taste from
past times, that is from a cultured age? The buildings
of the least master mason in a provincial town were
in good taste. Of course there were great masters and
lesser masters. Thanks to their profound knowledge,
the great masters were in closer contact with the world
spirit than the others.
Architecture arouses moods in people, so the
task of the architect is to give these moods concrete
expression. A room must look cozy, a house comfor-
table to live in. To secret vice the law courts must seem
to make a threatening gesture. A bank must say, “Here
your money is safe in the hands of honest people.”
An architect can only achieve this by going
back to those buildings of the past which aroused the-
se moods in people. For the Chinese, white is the co-
lor of mourning, for us black. Therefore our architects
would find it impossible to create cheerful moods with
black paint.
If we were to come across a mound in the wo-
ods, six foot long by three foot wide, with the soil piled
up in a pyramid, a somber mood would come over us
and a voice inside us would say, “There is someone bu-
ried here.” That is architecture.
Our culture is founded on the recognition of
the all-transcending greatness of classical antiquity.
Our manner of thinking and feeling we have adopted
from the Romans, who taught us to think socially and
discipline our emotions.
It is not mere chance that the Romans were
incapable of inventing a new order of columns, a new
ornament. The Greeks, who invented the moldings,
were individualists, scarcely able to govern their own
cities. The Romans invented social organization and
governed the whole world. The Greeks applied their
imagination to the elevation, which is individual, the
Romans to the ground plan, which is general. The
Romans were more advanced than the Greeks, we are
more advanced than the Romans. The great masters of
architecture believed they built like the Romans. They
were mistaken. Period, place, climate frustrated their
plans. But whenever lesser architects tried to ignore
tradition, whenever ornamentation became rampant,
a master would appear to remind us of the Roman ori-
gins of our architecture and pick up the thread again.
The last great master arose at the beginning
of the nineteenth century: Schinkel. We have forgotten
him. But the light of this great figure will fall on future
generations of architects.
Adolf Loos, Landhaus Khuner, Kreuzberg, Austria, 1929
222 Bibliografia
Generale
Alexander, Christopher  A Pattern Language: Towns, Buildings, Construction  Oxford University Press 1977
Antonioni, Michelangelo  Quel bowling sul Tevere  Torino, Einaudi 1995
Architektur Zentrum Wien  Lessons from Bernard Rudofsky: Life as a Voyage  Birkhäuser 2007
Bachelard, Gaston  The Poetics of Space  Boston, Beacon Press 1994
Benedikt, Michael  For an Architecture of Reality  NYC, Lumen Books 1987
Benevolo, Leonardo  Storia della città  Roma–Bari, Laterza 1975
Berger, John  About Looking  London, Writers and Readers 1980
Burdett, Richard & Wang, Wilfried  9H: On Rigor  MIT Press 1990
Cage, John  Silence: Lectures and Writings  Wesleyan 2011
Calvino, ltalo  Lezione americane: Sei proposte per il prossimo millenia  Milano, Garzanti 1988
Diamond, Rosamund & Wang, Wilfried  9H: On Continuity  Princeton Architectural Press 1996
Giedion, Siegfried  Spazio, tempo ed architettura  Milano, Hoepli 1984
Kahn, Louis  Writings, Lectures, Interviews  New York, Rizzoli 1991
Lampungnani, Vittorio Mangnano  Die Architektur, die Tradition und der Ort, Regionalismen in der europäischen Stadt  München 2000
Leatherbarrow, David  Uncommon Ground: Architecture, Technology, and Topography  MIT Press 2002
Loos, Adolf  Parole nel vuoto  Adelphi Editore 1992
Nagel, Anne & Spechtenhauser Klaus  Riehen Taschenbuch  Gesellschaft f. Schweiz, Kunstgesch 2014
Rasmussen, Steen Eiler  Experiencing Architecture  MIT Press 1995
Rossi, Aldo  L’Architettura della città  Padova, Marsilio 1966
Rossi, Aldo  Autobiografia scientifica  Parma, Pratiche Editrice 1990
Rudofsky, Bernard  The Prodigious Builders  New York, Harvest HBJ 1977
Schuster, Franz  Treppen: Entwurf, Konstruktion und Gestaltung...  Stuttgart, Julius Hoffmann 1964
Smithson, Alison & Smithson, Peter  Without Rhetoric: An Architectural Aesthetic 1955–1972  MIT Press 1974
Snozzi, Luigi  25 Aphorismen zur Architektur  Edition Bibliothek Werner Oechslin 2013
Spellman, Catherine  Peter Smithson: Conversations with Students  Princeton Architectural Press 2005
Stravinsky, Igor  Poetica della musica  Napoli, Edizioni Curci 1942
Tanizaki, Junichiro  Libro D’ombra  Milano, Bompiani 2011
Tessenow, Heinrich  Osservazioni elementari sul costruire  Franco Angeli Editore 2003
Venturi, Robert  Complexity and Contradiction in Architecture  New York, Museum of Modern Art 1966
Statica & Costruzione
Anderson, Stanford  Eladio Dieste: Innovation in Structural Art  Princeton Architectural Press 2004
Bill, Max  Robert Maillart  Zürich, Verlag für Architektur 1949
Billington, David  Félix Candela: Engineer, Builder, Structural Artist  Princeton University 2008
Deplazes, Andrea  Constructing Architecture: Materials, Processes, Structures  Birkhäuser 2008
Frampton, Kenneth  Tettonica e Architettura: Poetica della Forma Architettonica nel XIX e XX Secolo  Milano, Skira Editore 2005
Hossdorf, H., Dietz, P., & Torroja, J.A.  Heinz Hossdorf: Das Erlebnis Ingenieur zu sein von  Birkhäuser 2003
Joedicke, Jürgen  Shell Architecture (Documents of Modern Architecture Series)  Karl Kramer Verlag 1963
Komendant, August E.  18 Years with Architect Louis I. Kahn  Englewood, Alory 1975
Mostafavi, Mohsen  Structure as Space: Engineering and Architecture in the Works of Jürg Conzett  London, AA Publications 2006
Muttoni, Aurelio  The Art of Structures: Introduction to the Functioning of Structures in Architecture  EPFL Press 2011
Nervi, Pier Luigi  Costruire correttamente  Milano, Hoepli 1955
Torroja, Eduardo  Philosophy of Structures  University of California Press 1962
Paesaggio
Andersson, Sven-Ingvar  C. Th. Sørensen, Landscape Modernist  Copenhagen, Arkitektensforlag 2001
Bawa, Geoffrey (Author) Bon, Christoph and Sansoni, Dominic (Photographers)  Lunuganga  Singapore, Times Editions 1990
Binet, Hélène  Dimitris Pikionis 1887–1968: A Sentimental Topography  London, AA Publications 2004
Cavalcanti, Lauro  Roberto Burle Marx: The Modernity of Landscape  Actar 2011
Constant, Caroline  The Modern Architectural Landscape  University of Minnesota Press 2012
Itoh, Teiji  Space and Illusion in the Japanese Garden  Weatherhill 1980
Jellicoe, G. & Jellicoe, S.  The Landscape of Man, Shaping the Environment from Prehistory to the Present Day  Thames & Hudson 1975
Stoffler, Johannes  Gustav Ammann: Landschaften der Moderne  Zürich, gta Verlag 2008
Weilacher, Udo  Visionäre Gärten: Die modernen Landschaften von Ernst Cramer  Basel, Birkhäuser 2001
Monografie Architetti
Ahlin, Janne  Sigurd Lewerentz, Architect  MIT Press 1987
Almannai, Reem  Josef Wiedemann: Die Wirkung der Dinge  Wasmuth Verlag 2014
Angelillo, António  Vilanova Artigas  Editorial Blau 1997
Arques, F., Fisac, M., & Lampreave R.  Miguel Fisac: Premio Nacional de Arquitectura  Ministerio de Vivienda 2010
Binet, Hélène  Peter Zumthor, Häuser: 1979–1997  Basel, Birkhäuser Verlag 1999
Bo Jensen, Thomas  P.V. Jensen–Klint: The Headstrong Master Builder  Routledge 2009
Bock, Ralf  Adolf Loos: Leben und Werke 1870–1933  München, DVA 2009
Boesiger, Willy  Le Corbusier: Das Gesamtwerk, Band 1–8  Basel, Birkhäuser Verlag 1995
Bognar, Botond & Maki, Fumihiko  Togo Murano: Master Architect of Japan  Rizzoli 1996
Cadeo, Francesca  Asnago e Vender: Architetture e Progetti 1925–1970  Skira 1999
Casamonti, Marco  Ignazio Gardella Architetto 1905–1999: Costruire le modernità  Electa 2006
Cofano, Paola  Aris Konstantinidis 1913–1993  Electa 2010
De Carlo, G., Eriksson, A. & Ronnefalk, W.  Bengt Edman: Samlade Verk  Stockholm, Eriksson & Ronnefalk 1998
Ferlenga, Alberto & Verde, Paola  Dom Hans Van Der Laan  Architectura & Natura Press 2011
Ferrari, F., Guerrero, C., & Ponti, L.  Carlo Mollino: Arabesques  Mondadori Electa 2009
Fleig, K. & Aalto, E.  Alvar Aalto: Das Gesamtwerk, Band 1–3  Basel, Birkhäuser Verlag 1990
Fochs, Carlos & Onato, Emilio  J.A. Coderch De Sentmenat 1913–1984  Editorial Gustavo Gili 1993
Frampton, Kenneth & Trigueiros, Luiz  Álvaro Siza: 1954–1976  Editorial Blau 1997
Gaenssler, Michael  Hans Döllgast: 1891–1974  München, Callwey 1987
223 Hall, Matt  The Work of Bernt Nyberg 1927–1978  Lund, Skissernas Museum 2014
Hambrusch, H., Moroder, J. & Schlorhaufer, B  Franz Baumann: Architekt der Moderne in Tirol  Wien, Folio Verlag 1998
Hildebrand, Sonja & Oechslin, Werner  Karl Moser: Architektur für eine neue Zeit : 1880 bis 1936  Zürich, gta Verlag 2010
Hildebrand, S., Maurer, B. & Oechslin, W.  Haefeli Moser Steiger: Die Architekten der Schweizer Moderne  Zürich, gta Verlag 2007
Hoff, August  Dominikus Böhm  München, Schnell & Steiner 1962
Holmdahl, Gustav  Gunnar Asplund Architect 1885–1940  Tidskriften Byggmästaren 1950
Hülsmann, Gisberth  Emil Steffann  Düsseldorf, Akademie der Architektenkammer Nordrhein–Westfalen 1981
Irace, Fulvio & Marini, Paola  Stile di Caccia: Luigi Caccia Dominioni, Case e cose da abitare  Marsilio 2003
Langkilde, Hans Erling  Arkitekten Kay Fisker  Copenhagen, Arkitektensforlag 1960
Lopez Reus, Eugenia  E.N. Rogers. Continuità e contemporaneità  Marinotti, Milano 2009
Luchsinger Christoph  Hans Hofmann: Vom neuen Bauen zur neuen Baukunst  Zürich, gta Verlag 1985
Mack, Gerhard  Herzog & de Meuron: Das Gesamtwerk, Band 1–4  Berlin, Birkhäuser 1997–2008
Maffioletti, Serena  BBPR  Zanichelli, Bologna 1998
Maurer, Bruno & Oechslin, Werner  Ernst Gisel Architekt  Zürich, gta Verlag 2010
Meier, Philippe  Marc–Joseph Saugey, Architecte  Genève, Editions Infolio 2012
Nerdinger, Winfried  Theodor Fischer: Architetto e urbanista 1862–1938  Mondadori Electa 1997
Nerdinger, Winfried  Sep Ruf, 1908–1982: Moderne mit Tradition  Prestel, München 2008
Neumeyer, Fritz  Mies van der Rohe: Le architetture e gli scritti  Skira Editore Milano 1997
Norberg–Schulz, Christian  Sverre Fehn: Works, Projects, Writings 1949–1996  Monacelli Press 1997
Oliveira, Olivia de  The Architecture of Lina Bo Bardi: Subtle Substances  Editorial Gustavo Gili 2006
Pisani, Daniele & Dal Co, Francesco  Paulo Mendes Da Rocha: Complete Works  Rizzoli 2015
Ponti, Lisa Licitra  Gio Ponti: The Complete Work, 1923–1978  MIT Press 1990
Portugal, Armando Salas  Photographs of the Architecture of Luis Barragán  Rizzoli 1992
Prelovsek, Damjan  Jože Plečnik 1872–1957  Electa 2005
Raèv, Svetlozar  Gottfried Böhm: Vorträge, Bauten und Projekte  Stuttgart, Karl Krämer Verlag 1988
Raymond, Antonin  Antonin Raymond: An Autobiography  Charles E. Tuttle Company 1973
Rossi, Lamberto  Giancarlo De Carlo: Architetture  Milano, Arnoldo Mondadori Editore 1988
Sarnitz August  Lois Welzenbacher: Architekt, 1889–1955  Salzburg, Residenz Verlag 1989
Schirmer, Wulf  Egon Eiermann 1904–1970: Bauten und Projekte  Deutsche Verlags–Anstalt 1984
Smithson, Alison Margaret & Smithson, Peter  The Charged Void: Architecture  Monacelli Press 2001
Sota, Alejandro de la  Alejandro de la Sota Arquitecto  Ediciones Pronaos 2003
Steinmann, Martin & Strathaus, Ulrike Jehle–Schulte  Diener & Diener: Projects 1978–1990  Rizzoli 1991
Svedberg, Olle  The Architecture of Klas Anshelm  Stockholm, Arkitektur Förlag 2004
Thau, Carsten & Vindum, Kjeld  Arne Jacobsen  Copenhagen, Arkitektensforlag 2002
Trigueiros, Luiz & Costa, Alexandre Alves  Fernando Távora  Editorial Blau 1993
Voigt, Wolfgang  Heinz Bienefeld, 1926–1995  Wasmuth Verlag 1999
Wang, Wilfried  The Architecture of Peter Celsing  Stockholm, Arkitektur Förlag 1997
Wangerin, Gerda & Weiss, Gerhard  Heinrich Tessenow, Ein Baumeister 1876–1950: Leben, Lehre, Werk  Bacht 1976
Weston, Richard  Utzon: Inspiration, Vision, Architecture  Edition Bløndal 2002
Sanatori, Cliniche & Ospedali
Badovici, Jean  Hopitaux: Sanatoria, Cliniques, Maisons de Aanté, Maisons de Retraite  Paris, Éditions Albert Morancé 1933
Kübler, Kristof  Wider den hermetischen Zauber: Rudolf Gaberel und Davos  Chur, Verlag Bündner Monatsblatt 1997
Migayrou, Frederic  Pol Abraham : Architecte  Paris, Centre Georges Pompidou 2008
Moretti, B. Franco  Ospedali  Milano, Hoepli 1951
Poulain, Roger  Hopitaux Sanatoria  Paris, Éditions Vincent Fréal et Cie 1932
Very, Françoise & Saddy, Pierre  Henry Jacques Le Même: Architecte à Megève  Liège, Pierre Mardaga 1988
Alberghi
Aloi, Giampiero  Hotel Motel  Milano, Hoepli 1970
Koch, Alexander & Fengler, Max  Hotelbauten  Stuttgart, Verlagsanstalt Alexander Koch 1969
Kunz, Fritz  Der Hotelbau von Heute im Inland und Ausland  Stuttgart, Julius Hoffmann Verlag 1930
Shibata, Yozo  Shinkenchiku Detail Drawings Collection: Hotels  Tokyo, Shinkenchiku-sha 1973
Terme & Bagni
Ahmet Aru, Kemal  Türk Hamamlari Etüdü  Istanbul Matbaacilik, 1949
Brödner, Erika  Die Römische Thermen und das Antike Badewesen  Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1983
Fabian, Dietrich  Bäder: Handbuch für Bäderbau und Badewesen  München, Verlag George D. W. Callwey 1960
Giedion, Siegfried  Geschichte des Bades  Hamburg, EVA 1998
Grötz, Suzanne  Balnea - Architekturgeschichte des Bades  Marburg, Jonas Verlag 2006
Hauser, Sigrid  Peter Zumthor, Therme Vals  Scheidegger and Spiess 2007
Kibiy, Ulrika  Bäder und Badekultur in Orient und Okzident  Köln, DuMont Buchverlag 1995
Klinghardt, Karl  Turkische Bäder  Stuttgart, Felix Krais 1927
Martin, Alfred  Deutsches Badewesen in Vergangenen Tagen  Jena, Eugen Diederichs 1906
Altro, relevante alla tema
Feiersinger, Martin & Werner  Italomodern 1 + 2: Architektur in Oberitalien 1946–1976  Wien, New York, Verlag Springer 2012
Keller, Eduard  Ascona Bau-Buch  Zürich, Orpecht & Helbing Verlag 1934
Schirren, Matthias  Bruno Taut: Alpine Architecture, A Utopia  Prestel 2004
224 Materiale per le presentazioni 225 Calendario

0. esercizio preliminare ‘immagine’ 1. GIO 21.09.17 10:00 presentazioni temi atelier

VE 22.09.17 09:00 presentazione dossier
Presentazione con beamer & esposizione su pannelli 14:00 seminario (modelli) / presentazione Anna Staudt
— Due immagini prese da modello: ‘esterno’ e ‘interno’. SA 23.09.17 seminario (modelli)
Immagini stampate a colori inscritte nel formato 89 cm × 89 cm SA 24.09.17 seminario (modelli)
(lasciare bordo bianco di almeno 10 cm attorno a immagine)
Si chiede di progettare lo spazio di entrata del proprio progetto 2. GIO 28.09.17 viaggio di studio
per l’edificio gia esistente su ciascun sito. Da ogni studente deve VE 29.09.17 viaggio di studio
essere definita una parola chiave che rappresenta il tema del ca SA 30.09.17 viaggio di studio
rattere che l’immagini trasmettono. Questo processo analitico SO 01.10.17 viaggio di studio
servirà come base di partenza per il progetto durante il semestre.
3. GIO 05.10.17 atelier / presentazione Quintus Miller
1. presentazione ‘modello’ VE 06.10.17 09:00 0. esercizio preliminare ‘immagine’

Presentazione su cavalletti 4. GIO 12.10.17 atelier

— modelli scenografici di una situazione caratteristica per VE 13.10.17 atelier
l'intenzione del progetto: ‘un esterno’ e ‘un interno’
— Disegni significative in scala a tecnica libera, Situazione, Piante, 5. GIO 19.10.17 09:00 1. presentazione ‘modello’
Sezioni, Prospetti ecc. VE 20.10.17 09:00 1. presentazione ‘modello’
— Modello 1:200 da inserire nel modello di situazione
— Quaderno del semestre contenete schizzi, rifferimenti, appunti, 6. GIO 26.10.17 09:00 colloquio (intenzione)
indagini, ecc. VE 27.10.17 atelier / presentazione Quintus Miller

2. presentazione 'tema' 7. GIO 02.11.17 atelier

VE 03.11.17 atelier
Presentazione su pannelli
— Un immagine presa da modello: ‘un esterno’ o ‘un interno’ 8. GIO 09.11.17 09:00 2. presentazione 'tema'
Immagine stampata a colori inscritta nel formato 89 cm × 89 cm VE 10.11.17 09:00 2. presentazione 'tema'
(lasciare un bordo bianco di almeno 10 cm attorno l' immagine)
— Disegni significative in scala a tecnica libera, Situazione, Piante, 9. GIO 16.11.17 atelier / presentazione Quintus Miller
Sezioni, Prospetti ecc. VE 17.11.17 atelier
— Modello 1:200 da inserire nel modello di situazione
— Modelli di studio 1:50 – 1:20 10. GIO 23.11.17 atelier
— Campioni materiali VE 24.11.17 atelier
— Quaderno del semestre contenete schizzi, rifferimenti, appunti,
indagini, ecc. 11. GIO 30.11.17 atelier
VE 01.12.17 atelier
3. presentazione ‘progetto’
12. GIO 07.12.17 09:00 3. presentazione ‘progetto’
Presentazione su pannelli VE 08.12.17 09:00 3. presentazione ‘progetto’
— Due disegni di prospettiva a mano, tecnica libera: ‘un esterno’ e SA 09.12.17 09:00 colloquio (immagini / modelli)
‘un interno’ SO 10.12.17 09:00 atelier / critiche al tavolo con Logan Allen
Immagini inscritte nel formato massimo di 89 cm × 89 cm
— Piante significative con arredo, Sezioni, Prospetti 1:100 13. LU 11.12.17 14:00 atelier / critiche al tavolo con Előd Golicza
— Estratto di facciata 1:20 con rispettiva pianta e sezione MA 12.12.17 14:00 atelier / critiche al tavolo con Előd Golicza
— Modello 1:200 da inserire nel modello di situazione
— Modelli di studio 1:50 – 1:20 14. LU 18.12.17 17:00 allestimento
— Campioni materiali MA 19.12.17 09:00 4. rappresentazione finale
— Quaderno del semestre contenete schizzi, rifferimenti, appunti, ME 20.12.17 09:00 4. rappresentazione finale
indagini, ecc. 16:00 sgombero
18:00 consegna di tutto il materiale in formato digitale
4. rappresentazione finale GIO 21.12.17 09:30 sintesi e voti

Presentazione su pannelli
— Due immagini prese da modello: ‘un esterno’ e ‘un interno’
Immagini stampate a colori inscritte nel formato 89 cm × 89 cm
(lasciare un bordo bianco di almeno 10 cm attorno ad ogni
immagine)
— Piante significative con arredo, Sezioni, Prospetti 1:100
— Estratto di facciata 1:20 con rispettiva pianta e sezione
— Modello 1:200 da inserire nel modello di situazione
— Modello finale (scale di rappresentazione da discutere)
— Campioni materiali
— Quaderno del semestre contenete schizzi, rifferimenti, appunti,
indagini, ecc.
— Documentazione in A4 da sfogliare contenete schizzi, appunti,
indagini, ecc. (facoltativo)

Tutte le tavole: dimensione formato 89 cm × 89 cm

o molteplice di questi valori
Colophon Università della Svizzera italiana  Accademia di Architettura di Mendrisio  Semestre autunnale 2017
 Atelier di progettazione Miller  Professore Arch. Quintus Miller, Assistente Arch. Logan Allen, Assistente Arch. Előd Golicza  Coordinazione al dossier: Logan Allen
& Előd Golicza  Progetto grafico: Samuel Bänziger, Bänziger Hug  Carta: Munken Lynx Rough 120 g/m² & Sirio Color 000000, 290 g/m²  Carattere tipografico:
Practice, Book  Stampa e rilegatura: Niedermann Druck, St. Gallen  Regesto delle immagini: (copertina) 000000000000000000000000000000000000000000000
 (p. 2) Room at SAS Royal Hotel, Copenhagen, Denmark, 1956-1960, Arne Jacobsen  (p. 3) Salle des Fêtes du Grand Hôtel de Tours, France, 1927, Pierre Chareau  (p.
4) Miyako Hotel, Tokyo, Japan, 1979, Togo Murano  (p. 5) Rooftop Clubhouse for Employees of Riksbank, Stockholm, Sweden, 1970-1976, Peter Celsing  (p. 6) Villaggio
turistico Eni, Corte di Cadore, Italia, 1954-1963, Edoardo Gellner  (p. 7) Kandalama Hotel, Dambulla, Sri Lanka, 1992-1995, Geoffrey Bawa  (p. 8) Rihga Royal Hotel,
Osaka, Japan, 1965-1973, Isoya Yoshida  (p. 9) Prince Hotel, Nojiriko, Nagano, Japan, 1984, Kiyoshi Seike  Ringraziamenti: Anna Staudt (Neuss, DE), Martina Baratta
(Basilea, CH), Camilla Minini (Basilea, CH), Nicolas Polli (Mendrisio, CH), Felipe Fankhauser Bergental (Zurigo, CH), Liaohui Guo (Beijing, CN), Samuel Bänziger & Olivier
Hug (San Gallo, CH)