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Consumismo
Paolo Capuzzo

30 Novembre 2012

Nell’uso comune il termine “consumismo” indica una tendenza, propria delle società
capitalistiche avanzate, ad allargare indefinitamente la sfera dei consumi e a farne il motore della
crescita economica. A tal fine vengono utilizzate tecniche pubblicitarie sempre più sofisticate per
indurre i consumatori a spendere tutte le risorse che hanno a disposizione, talvolta anche
indebitandosi, in modo da intensificare la dinamica acquisitiva. Il termine è entrato nel lessico
della lingua italiana nel secondo dopoguerra,

quando si sono concretizzate le condizioni storiche perché esso potesse acquisire un significato.

Fino alla prima metà del Novecento, i consumi di gran parte della popolazione italiana si
limitavano a una spesso scarsa alimentazione, al vestiario essenziale e a qualche suppellettile
domestica. Si inizia a parlare di consumismo quando gli standard di consumo delle masse si
elevano significativamente da questo misero livello plurisecolare. È una condizione che in Italia si
verifica tra gli anni Cinquanta e Sessanta, negli Stati Uniti qualche decennio prima, ma si tratta,
comunque, di un fenomeno prettamente novecentesco.

Sebbene il consumismo abbia tra i suoi presupposti queste trasformazioni quantitative del
consumo, esso designa precipuamente un cambiamento che investe i valori fondanti della
società. Perché vi sia consumismo, infatti, occorre che vengano abbandonati i valori della
parsimonia e della vita austera che hanno costituito un elemento centrale della pedagogia
sociale della tradizione cristiana in Europa. Max Weber ha posto alle origini dello spirito del
capitalismo un’etica di vita operosa e comportamenti austeri che sarebbero propri del mondo
protestante; tuttavia l’austerità nei comportamenti può rappresentare un intralcio per la
dinamica del capitalismo. Nel dibattito settecentesco sul lusso già emerge la chiara
consapevolezza che il consumo privato vistoso e smodato, quantunque moralmente deprecabile,
può essere di giovamento alla società o, in altri termini, che i vizi privati possono contribuire alla
prosperità collettiva in quanto attivano produzione e commerci.
Sebbene il consumismo appaia necessario al funzionamento di un’avanzata economia
capitalistica, il termine è connotato con un significato negativo, schematicamente riportabile a
tre matrici: l’etica tradizionale, con uno sfondo cristiano, che considera parsimonia e sobrietà
come valori; la teoria critica della società capitalistica avanzata; l’apprensione per le nefaste
conseguenze ambientali del consumismo. Secondo l’etica cristiana, il consumismo è deprecabile
perché attribuisce un alto valore simbolico ai beni materiali, che conquistano il centro
dell’investimento affettivo degli individui, sostituendosi all’amore per Dio o per il prossimo, e che
divengono il fine dell’attività umana in una dimensione interamente secolare.

La teorica critica, invece, riporta il consumismo alla dimensione dell’alienazione propria della
società capitalistica. Il consumismo costituirebbe una sorta di perfezionamento dell’alienazione
già presente nella scissione sociale che presiede al processo produttivo e risponderebbe
unicamente alla necessità di crescita del capitalismo. Dato che la durata strumentale di un bene
può essere troppo lunga per le esigenze di veloce circolazione del capitale, l’industria
capitalistica mette all’opera sofisticate risorse simboliche per catturare l’immaginazione del
consumatore, in modo da alimentare una dinamica del consumo indipendente dalla durata
materiale dei beni. Il meccanismo della moda si fonda proprio sulla rapidità del consumo
simbolico delle merci, indipendentemente dalla loro funzione pratica o strumentale. Sta alla
pubblicità, e più in generale al sistema dei media, costruire la forza semiotica dei beni di
consumo in un modo che sia al contempo efficace, tale da far presa sul mercato, ed effimero, per
lasciare presto il posto a nuovi beni che veicolano nuovi significati. Il consumatore si troverebbe
perciò in balia di un immaginario costruito con l’unico fine di dispiegare la crescita del
capitalismo e assisterebbe passivo e quasi narcotizzato alla fantasmagoria delle merci, tra le
quali si trova immerso senza la capacità di esprimere i suoi desideri più autentici.

Negli ultimi decenni il consumismo è stato messo sotto accusa anche per le sue conseguenze
ambientali. Si ritiene che le società avanzate siano caratterizzate da eccessivi e inutili consumi e
che questo eccesso sia fondato sulla disuguaglianza nella distribuzione delle risorse a livello
globale e abbia come conseguenza un irreversibile deterioramento dell’ambiente in cui l’uomo
vive. Al consumismo vengono perciò contrapposte le nozioni di “consumo sostenibile”, vale a
dire rispettoso della natura e attento all’equità sociale nell’appropriazione delle risorse del
pianeta, e di “consumo critico”, vale a dire consapevole delle implicazioni ambientali, sociali e
politiche dei processi di consumo.

Oggi l’accezione negativa del termine consumismo ha lasciato il posto a un atteggiamento più
aperto alla considerazione della dimensione soggettiva e affermativa del consumo. La dinamica
del consumo appare fondata più su desideri che su bisogni, ossia su una proiezione soggettiva
mediata da costruzioni culturali piuttosto che su necessità naturali. E, nel momento in cui si
ammette che il consumo non discende da bisogni uguali per tutti ma da variegati desideri,
diventa difficile tracciare un confine normativo oltre il quale il consumo degenera in
consumismo.

Gravato com’è da ipoteche moralistiche fondate su una visione normativa del comportamento
sociale, è inevitabile che oggi il termine ci appaia inadeguato, sebbene la sua intonazione critica
sia ancora capace di evidenziare contraddizioni ben visibili nelle nostre società. È, infatti,
innegabile che il modello di vita occidentale, consumistico, sia del tutto inadeguato per una
popolazione mondiale che negli ultimi cinquant’anni si è moltiplicata per tre volte, con una
riduzione di quasi la metà della quota degli “occidentali”. Non può essere un modello, perché è
basato su una distribuzione fortemente diseguale delle risorse e perché ha conseguenze
ambientali troppo gravose. Al contempo, sebbene sia ormai socialmente accettata una certa
liberalità riguardo ai comportamenti di consumo, appare assai debole la posizione liberale che
vede la piena libertà del consumatore come architrave della società e dell’economia, perché i
processi di consumo coinvolgono istituzioni politiche e normative che regolano il mercato,
funzionano sulla base di configurazioni semiotiche che frammentano e ridefiniscono la sfera
sociale e sono implicati in un sistema politico-economico mondiale che regola scambi e
allocazione di risorse. Come insegna la psicoanalisi, finanche il desiderio, che parrebbe essere la
genuina origine della proiezione soggettiva al consumo, è tutt’altro che trasparente e appare,
invece, subordinato a potenti condizionamenti mai del tutto consapevoli al soggetto.

Il termine consumismo ha un corrispondente nella lingua spagnola, mentre non troviamo una
parola analoga né in tedesco, né in francese. In inglese, invece, l’italiano “consumismo” viene
talvolta tradotto con la parola “consumerism” anche se quest’ultimo termine designa un
fenomeno molto diverso. Con “consumerismo” si intende infatti l’azione sociale e politica dei
consumatori, che si tutelano come fruitori di beni e di servizi. L’azione consumerista può
indirizzarsi verso i più svariati aspetti del processo di consumo: dall’impatto ambientale alla
salute, dai processi sociali implicati nella produzione dei beni al prezzo e alle modalità di
distribuzione. È un termine in uso da molto tempo nel mondo anglosassone, meno in Italia,
dove, tuttavia, è auspicabile che lo divenga maggiormente in futuro per designare la presa di
consapevolezza della dimensione politica del consumo e della possibilità di intervenire
collettivamente in essa.

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