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Apogeo e declino della “transizione” (e della sinistra)

euronomade.info/

By Redazione February 19, 2018

di LUCA NIVARRA.

1. «Una delle differenze fondamentali tra la rivoluzione borghese e la rivoluzione socialista


consiste nel fatto che per la rivoluzione borghese, che nasce dal feudalesimo, in seno al
vecchio regime si creano progressivamente delle nuove organizzazioni economiche, le
quali trasformano gradualmente tutti i lati della società feudale. La rivoluzione borghese
aveva avanti a sé un compito solo: spezzare, gettare via, distruggere tutte le catene della
vecchia società. Assolvendo questo compito, ogni rivoluzione borghese fa tutto quel che le
è richiesto: essa stimola lo sviluppo del capitalismo. La rivoluzione si trova in una
situazione del tutto diversa. Quanto più è arretrato il paese nel quale, in virtù degli zig-zag
della storia, ha dovuto incominciare la rivoluzione socialista, tanto più per essa è difficile
passare dai vecchi rapporti capitalistici ai rapporti socialisti. Ai compiti della distruzione si
aggiungono qui nuovi compiti, di difficoltà inaudita, i compiti di organizzazione»1. Questo
passo di Lenin, tratto da un rapporto tenuto il 7 marzo del 1918 al VII Congresso del PC(b),
rappresenta, a mio avviso, un buon punto di partenza per alcune riflessioni su un tema,
quello della “transizione”, tanto “inattuale” quanto, in realtà, istruttivo.

Seppur racchiusa in poche righe (ma, in realtà, si tratta di un tema che, o sotto la specie
dell’alternativa “collettivizzazione/NEP” o sotto la specie dell’alternativa “socialismo in un
solo paese/rivoluzione permanente” accompagnerà tutto il dibattito all’interno del partito
russo fino alla svolta del ’28 e alla definitiva presa del potere da parte di Stalin), l’analisi di
Lenin, in cui è possibile avvertire l’eco della drammaticità e dell’urgenza dei compiti che il
gruppo dirigente bolscevico si trovò a fronteggiare all’indomani della Rivoluzione, presenta,
infatti, i tratti di una specifica idea di “transizione” il confronto con la quale porta alla luce
una pluralità di significati del termine, apparentati per alcuni aspetti, ma distinti sotto altri
profili. L’idea di “transizione” proposta da Lenin, in realtà, è duplice e non è espressamente

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tematizzata ricavandosi essa, piuttosto, da quella di “rivoluzione”. Quest’ultima si è
presentata, appunto, in una duplice veste: “borghese” e “socialista”. Si tratta di nomi che
generalizzano, sulla base dell’esperienza storica, due diversi processi di acquisizione del
potere politico (“rivoluzione” qui sta ad indicare, sostanzialmente, la conquista del
monopolio della forza) da parte delle due classi sociali – la borghesia e il proletariato – che,
nel corso dell’epoca moderna, hanno condotto una rivoluzione vittoriosa. Nel primo caso, la
“rivoluzione” è l’atto conclusivo di un lungo processo segnato da una lenta, graduale ma
inesorabile trasformazione dei rapporti economici; nel secondo caso la “rivoluzione” è l’atto
iniziale di un processo che, se tutto andrà per il verso giusto, culminerà nella istaurazione
di una società comunista. Si può anche dire che mentre nel primo caso, la trasformazione
della struttura precede quella della sovrastruttura, nel secondo accade esattamente il
contrario, ovvero il sovvertimento della sovrastruttura politico-giuridica precede quello della
base economica. O, ancora, nel primo caso la “transizione” precede la “rivoluzione”, là
dove, nel secondo caso, la “rivoluzione” precede la “transizione”.

Come è agevole constatare, questo ultimo schema si discosta abbastanza nettamente dal
modello marxiano. Marx, infatti, sembra coltivare un’idea della “transizione” dal capitalismo
al socialismo molto più vicina a quella che Lenin propone del passaggio dal feudalesimo al
capitalismo che non a quella che lo stesso Lenin immaginava dovesse essere la
“rivoluzione” del proletariato. Certamente è estranea a Marx una prospettiva di tipo
gradualistico (avvicinabile alla concezione della presa del potere destinata ad affermarsi in
seno alla II Internazionale), nel senso che per Marx la “rivoluzione”, con annesso corredo di
violenza e coercizione, è inevitabile. Tuttavia, la “dittatura del proletariato”, in definitiva, per
quel che poco che Marx ebbe a dire sull’argomento, si presenta più come una misura di
polizia, di salute civica, che non come una prolungata guerra di posizione da ingaggiare nei
confronti delle ingombranti scorie di un ordine borghese sconfitto ma non debellato. In altre
parole, secondo Marx, il proletariato, proprio come la borghesia, conquisterà il potere con
una “rivoluzione”, ma questo accadrà solo quando la contraddizione tra privatezza dei
mezzi di produzione e socializzazione del lavoro avrà raggiunto un’intensità tale da rendere
lo sbocco rivoluzionario, e la sostituzione della vecchia classe dirigente (ormai solo
dominante) con la nuova, un passaggio quasi naturale. Dunque, si può dire che per Marx, a
differenza di Lenin, anche nel caso del proletariato, come già in quello della borghesia, la
“transizione” precede la “rivoluzione”, e le trasformazioni della struttura quelle della
sovrastruttura 2.

Probabilmente, l’ottimismo di Marx rispecchia, dal punto di vista ideologico, il sotterraneo


operare, all’interno del suo pensiero, di un residuo di filosofia della storia; mentre, dal punto
di vista storico-sociologico, esso risente di una rappresentazione dualistica del corpo
sociale all’interno del quale, anche a seguito delle crisi di crescente intensità che il
capitalismo era destinato ad attraversare, la classe operaia sarebbe presto diventata netta
maggioranza. Date queste premesse, dovrebbe risultare abbastanza evidente la ragione
per la quale la politica, nell’accezione che poi ci sarà resa familiare proprio dalla parabola
tardo-ottocentesca e novecentesca dei partiti di massa, occupi qui uno spazio nell’insieme
piuttosto marginale, almeno fino alla prima grande “stabilizzazione capitalistica” (quella che
fa seguito al fallimento delle rivoluzioni del ’48 nelle quali Marx ed Engels, viceversa,
avevano riposto grandi speranze). Il partito marxiano (la “Lega dei comunisti”) è
fondamentalmente uno strumento di propaganda e di agitazione, il cui compito principale è
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quello di fungere da moltiplicatore della forza d’urto della classe. Siamo dunque
lontanissimi dai picchi della riflessione leniniana (e gramsciana) sul partito come costruttore
di egemonia attraverso il consenso, e chiamato ad operare in contesti sociali resi più
complessi – rispetto allo schema semplificato caro a Marx – dalla loro arretratezza (si pensi
al problema dei rapporti tra la classe operaia ed i contadini, in Russia ma anche in Italia,
dove la questione agraria si intreccia con quella meridionale), o dalla loro tumultuosa
evoluzione e stratificazione (si pensi alle tante pagine gramsciane dedicate all’esame del
ruolo degli intellettuali, della burocrazia, dei ceti medi).

2. Volendo riassumere, si può dire che mentre in Marx, grazie al lavoro svolto ex ante dalla
“transizione”, condizioni per la presa del potere da parte della classe operaia e condizioni
per l’instaurazione del socialismo (in primo luogo, la collettivizzazione dei mezzi di
produzione) tendono ad identificarsi, in Lenin, il quale propone un modello a “transizione”
postuma, le due serie tendono a divaricarsi, lasciando un enorme spazio alla politica, nella
triplice, distinta veste di costruzione dell’egemonia, di tattica rivoluzionaria e di governo
della trasformazione. Un terzo modello è quello ricavabile dai Quaderni dal carcere dove la
“transizione” è sì anticipata, come in Marx, individuando, però, in pari tempo, l’oggetto
privilegiato della politica, anzi la specifica ragion d’essere di quel “moderno Principe” a cui
Gramsci affida il compito di ingaggiare, e vincere, la lunga guerra di posizione che ormai
attende la classe operaia in Occidente all’indomani della seconda stabilizzazione
capitalistica.

Per quanto diversi, i primi due modelli (non sono sicuro che questo sia altrettanto vero per il
modello gramsciano) condividono un elemento fondamentale rappresentato da una
concezione chiusa della temporalità, dove la sequenza “transizione”/”rivoluzione” (o
viceversa) individua i due momenti decisivi di un processo storico predeterminato non
nell’esito, quanto nelle forme del suo svolgersi (in altri termini: non è detto che le cose
vadano in un certo modo, ma se andranno in un certo modo, quest’ultimo si lascerà
descrivere secondo lo schema “transizione”/”rivoluzione”). Ora, l’adozione di questa
prospettiva permette di istituire una semantica della storia sulla base della quale è possibile
stabilire il significato di un fatto, di un evento, di una decisione, a seconda della fase in cui
essi si collocano. Ad es., il dibattito sviluppatosi negli anni ’20 in URSS a proposito della
ammissibilità di un diritto della transizione ricava il suo senso proprio dalla dislocazione
temporale assicuratagli da quella semantica: si potrà poi discutere se il tempo della
transizione, e del correlativo diritto, sia un tempo storico, come pensavano Lenin e Stuĉka o
un tempo puramente cronologico, come pensava Pašukanis e come, verosimilmente,
avrebbe pensato Marx, almeno con riguardo a quella che abbiamo chiamato la “piccola
transizione”, ovvero al periodo della dittatura del proletariato: ma in ogni caso la
discussione verterà su un oggetto reso attingibile dal pensiero proprio attraverso
l’articolazione della temporalità in sezioni connesse le une alle altre in modo non
occasionale.

3. Per queste ragioni non credo che sia possibile iscrivere entro l’orizzonte della
“transizione” le conquiste ottenute dalla classe operaia e, più in generale, dai ceti subalterni
durante i “gloriosi Trenta”3. Una lettura di questo genere, per quanto suggestiva, nasce
proprio dalla dissoluzione di quel potente dispositivo di governo della temporalità
consegnatoci dalla tradizione marx-leninista e dal conseguente refluire della “transizione”
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dentro la longue durée delle Annales. Quello che voglio dire è che il discorso di Marx e di
Lenin sulla “transizione” è sempre un discorso che assegna all’istaurazione di una società
socialista lo statuto di un evento possibile (anche se non necessario) e storicamente
attuale. Sconnesso da questo codice, il discorso sulla “transizione” muta completamente di
senso e trasforma gli enunciati di cui esso si compone in strani ibridi epistemologici, per
metà ascrivibili alla lingua dei giudizi storici e per l’altra metà a quella degli auspici politici
(mentre in Marx e in Lenin, proprio a cagione della possibilità e dell’attualità del socialismo,
diagnosi storica e prospettiva politica, intrecciandosi e non sovrapponendosi, mettevano
capo a costrutti di senso caratterizzati da un inedito, anche se fragile, equilibrio di
“descrittivo” e “prescrittivo”).

Della crisi della sinistra sono state fornite innumerevoli spiegazioni. Un’altra possibile
spiegazione rinvia proprio alla perdita del governo della temporalità, alla scomparsa
dall’orizzonte del pensabile della “transizione” (da intendersi come preparazione, secondo
la lectio marxiana, come costruzione, secondo la lectio leniniana) ad un ordine socio-
economico radicalmente diverso da quello capitalistico. Smarrito questo architrave,
all’ombra del quale, è bene non dimenticarlo, lo stesso ciclo welfarista si è consumato, la
“sinistra”, quando non ad una mera oscillazione cromatica della destra (come nel caso dei
vari socialismi europei), degrada a spazio del discorso pubblico convenzionalmente
occupato da una generica denuncia della crescente diseguaglianza economica e dei suoi
costi. Una gigantesca regressione che, in un certo modo, rappresenta l’altra faccia della
straripante egemonia neoliberista per sfidare la quale, viceversa, sarebbe necessario
ripristinare la pensabilità e l’attualità del binomio “transizione/rivoluzione”. Si può dire, in
altri termini, che ad essere venuta meno, insieme a molte altre cose, tra cui lo stato
nazionale, è la “prospettiva” della rivoluzione, schiacciata dall’azione congiunta del tempo
unico del pensiero unico e dal (giusto) ripudio di un’idea della storia come sviluppo lineare
e progressivo. Il “progresso” neoliberale, infatti, è un progresso statico, in cui le variazioni si
danno solo all’interno di un paradigma ossificato e immutabile il quale, nella sostanza,
ripete sempre sé stesso, non contemplandosi neppure la possibilità di una rottura; mentre,
dal canto suo, chi all’ordine costituito si oppone, stenta a riconoscersi come un (almeno
potenziale) soggetto unitario anche (non solo, ma anche) perché non riesce a dislocare la
propria prassi dentro uno spazio storico in cui il tempo non si esaurisca in una successione
puramente cronologica. Restituire un senso al tempo senza ricadere nella trappola della
Geschichtsphilosophie rappresenta uno dei presupposti richiesti affinché il discorso sulla
rivoluzione non resti prigioniero del solo vocabolario dell’utopia.

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