Il processo è retto dai seguenti principi: nessuno può essere giudice se non è sufficientemente
distaccato dall’affare che deve trattare; non è possibile che il giudice inizi egli stesso il processo;
deve essere garantita alle parti del processo la possibilità di difendersi; il giudice, nel risolvere la
controversia, non si rifà a canoni di valutazione che egli crei arbitrariamente in relazione al caso da
decidere, ma si riferisce a canoni precostituiti. Il nostro sistema processuale si caratterizza perché è
molto sensibile al tema delle garanzie: infatti, oltre alle garanzie previste dalla costituzione, sono
state aggiunte ulteriori garanzie quali l’obbligo della motivazione dei provvedimenti giudiziari, la
possibilità del ricorso per cassazione, il divieto di istituzione di giudici speciali.
Inoltre, le garanzie già previste dalla costituzione sono state ampliate dalla riforma dell’art. 111
Cost. realizzato attraverso la legge costituzionale 23/1999. Con questa legge sono stati elevati al
rango di precetti costituzionali talune norme che introducono o consolidano determinate garanzie
processuali. La riforma ha previsto che la legge, che è l’unico strumento utilizzabile per regolare il
processo, deve essere formulata in maniera da assicurarne la ragionevole durata. Questa riforma non
ci ha entusiasmato soprattutto perché ha impedito la possibilità di realizzare dei processi duttili ed
elastici, così come vengono organizzati negli altri paesi europei, e perché ha inserito all’interno
della costituzione alcune norme di dettaglio che avrebbero certamente trovato la loro giusta
collocazione all’interno della legislazione ordinaria. Ovviamente, dall’elevazione di tali precetti al
rango costituzionale deriva la necessità che le leggi processuali ordinarie siano in armonia con tali
precetti, in quanto se così non fosse si verificherebbe una situazione di illegittimità delle leggi.
LA GIURISDIZIONE
Art 1 c.p.c. “la giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici
ordinari secondo le norme del presente codice”.
Art 102 Cost. comma 1: “la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e
regolati dalle norme e sull’ordinamento giudiziario”
Da queste norme possono derivare alcune deduzioni, sulle quali è importante riflettere.
La funzione giurisdizionale è un servizio? Se ci basassimo soltanto sull’art. 104 Cost. che stabilisce
che la magistratura costituisce un ordine, penseremo certamente che la funzione giurisdizionale
costituisca un servizio. L’evoluzione del nostro ordinamento, però, ha fatto sì che la magistratura si
qualifichi sempre più come un potere neutro, perché esercitato in maniera imparziale, ma pur
sempre un potere.
Esiste un monopolio statale della giurisdizione? Anche qui l’evoluzione ha avuto una enorme
influenza. Infatti man mano che è venuta meno la sovranità degli Stati, si è affievolita l’idea che il
giudice possa essere soltanto chi riceve l’investitura autoritaria. Basti pensare alla rilevanza che
viene attribuita all’interno del nostro ordinamento alle decisioni dei giudici stranieri, o alla
possibilità di ricorrere all’arbitrato.
La terza questione sulla quale è giusto porre l’attenzione è quella relativa all’attribuzione della
giurisdizione alla magistratura ordinaria. L’idea del costituente era certamente quella di assegnare
alla magistratura ordinaria una funzione di rilievo, nonostante avesse ammesso talune eccezioni
disciplinate all’interno della stessa costituzione. Ma anche in questo campo si è verificata una
evoluzione che ha rotto l’equilibrio del sistema originario, relativamente alle funzioni attribuite ai
giudici ordinari e giudici speciali. Per fare un esempio si può prendere in considerazione la
giurisdizione amministrativa in merito alle quali vi sono state non poche problematiche.
Inizialmente, infatti, si riteneva fosse sufficiente in ambito amministrativo una mera tutela di
annullamento, alla quale conseguiva una tutela risarcitoria dinanzi al giudice ordinario. Le
problematiche principali sono sorte, anche sotto la spinta comunitaria, quando si è ritenuta
insufficiente una tutela di mero annullamento, potendo essere prevista una tutela risarcitoria.
Pertanto, per risolvere la problematica relativa all’attribuzione di questi casi al giudice
amministrativo o al giudice ordinario si è deciso di rimandare tali casi al giudice amministrativo,
ampliandone dunque le competenze, poiché adesso il giudice amministrativo potrà provvedere non
solo alla tutela di annullamento ma anche alla tutela risarcitoria.
Risulta essere particolarmente difficile attribuire una corretta definizione alla giurisdizione, in
quanto si viene spesso influenzati dalle altre funzioni dello Stato. Pertanto risulta essere difficile
demarcarne i confini. In maniera molto generica, si può definire come giurisdizione l’attività
esercitata dai giudici, i quali si caratterizzano per la propria terzietà, indipendenza, e imparzialità.
Arbitrato
Il fondamento dell’arbitrato è da rinvenire nell’art. 24 Cost. Infatti, la corte costituzionale ha messo
in evidenza come tale articolo, nel garantire il diritto di azione, ammette sia che esso sia esercitato
dinanzi al giudice statale, sia che sia esercitato dinanzi al giudice privato, sia che non sia affatto
esercitato.
Il legislatore ha regolato questo tradizionale istituto negli articoli 806 ss. c.p.c.
Tale disciplina stabilisce che: Le parti hanno la possibilità di fare ricorso all’arbitrato mediante un
contratto, da redigere per iscritto, con il quale convengono di far decidere dagli arbitri una
controversia già insorta e bene individuata che abbia ad oggetto diritti disponibili. Tale contratto
prende il nome di compromesso: questo costituisce il contratto con il quale le parti decidono di
sottrarre la controversia già insorta alla cognizione del giudice ordinario e di deferirne la decisione
ad uno o più soggetti privati, ovvero agli arbitri. Le parti, inoltre, possono stabilire con una clausola
(compromissoria) di un più complesso contratto che stipulano o con un atto successivo che si
collega ad esso, di far decidere agli arbitri le controversie future scaturenti dal contratto stesso. Una
volta investiti della controversia gli arbitri emettono la decisione. La pronuncia prende il nome di
lodo, al quale è attribuito lo stesso effetto scaturente dalla sentenza pronunciata dall’autorità
giudiziaria.
Le questioni di giurisdizione
Il legislatore del 1942 riteneva che la giurisdizione ha per oggetto la sfera di potere giurisdizionale
attribuito ai giudici nei rapporti con giudici di ordine diverso, mentre che per competenza si
intendeva la misura del potere giurisdizionale attribuita ai giudici nei rapporti con altri giudici
appartenenti allo stesso ordine. Da ciò deriva un regime giuridico della giurisdizione molto rigido
secondo il quale non erano consentiti accordi in deroga alla giurisdizione fissata per legge, che il
difetto di giurisdizione era rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, che la
mancanza di giurisdizione portava ad una pronuncia di rito tale che alla parte non rimaneva che
proporre una nuova domanda se fosse stato ancora nei termini per agire in giudizio.
Oggi questa impostazione non è più valida, in quanto il legislatore ha abrogato l’art. 2 c.p.c. che era
l’unica disposizione dalla quale si desumeva il divieto di patti in deroga alla giurisdizione. In realtà,
però, alcuni ancora non sono del tutto consapevoli di questo cambiamento e continuano a ritenere
che il difetto di giurisdizione comporti l’effetto caducatorio del processo. L’unica disposizione,
dalla quale si può dedurre ciò, è l’art. 37 secondo cui il difetto di giurisdizione può essere rilevato
anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo. La portata di tale norma, però, è stata
notevolmente ridimensionata e ricondotta al suo tenore letterale, che è quello di norma destinata
regolare il fenomeno all’interno del processo.
L’art. 50 c.p.c. era stato formulato dal legislatore del 1942 in considerazione di un sistema che
distingueva nettamente la giurisdizione dalla competenza. Pertanto, si riteneva che, qualora un
giudice fosse stato dichiarato incompetente in ordine alla domanda a lui proposta, le parti avrebbero
potuto trasferire il processo dinanzi al giudice competente in modo tale che la porzione celebrata
dinanzi al primo giudice si saldasse con quella proseguita dinanzi al secondo giudice senza che si
producessero effetti sfavorevoli di alcun tipo ai danni delle parti. Se invece era stato dichiarato il
difetto di giurisdizione in favore di un giudice speciale, le parti avrebbero dovuto cominciare il
processo daccapo, subendo il rischio di preclusioni, decadenze o prescrizioni nel frattempo
verificatesi. L’unica eccezione era costituita dall’art. 332, il quale ammetteva la possibilità di
trasferire il processo dal giudice speciale al giudice ordinario, qualora fosse stata affermata la
giurisdizione di quest’ultimo.
Questa sistemazione è apparsa contrastante con un sistema di tutela effettiva, pertanto a riguardo si
sono espressi sia la corte costituzionale sia la S.C. La prima aveva ritenuto che una semplice
riformulazione dell’art. 50 non sarebbe stata sufficiente, in quanto a questa si sarebbe dovuto
accompagnare un reticolo di disposizioni attuative che non rientra nei poteri della corte stessa. La
S.C., invece, aveva stabilito il principio secondo cui è possibile la traslatio tra ordini giurisdizionali
diversi. Su queste basi, è intervenuto il legislatore inserendo nel sistema il principio della
trasmigrazione da un giudice appartenente a una diversa giurisdizione ad un altro giudice e
costruendo il necessario compendio di norme attuative. Tale novità è stata introdotta con l’art. 59, l
69/2009. L’art. 59 dà per scontato che contro le decisioni declinatorie della giurisdizione sia
possibile proporre l’impugnazione ordinaria e non il regolamento preventivo. In base a questo
presupposto individua tre ipotesi: il giudice originariamente adito dichiara il suo difetto di
giurisdizione, ma la decisione è ancora impugnabile; in pendenza del processo originario la S.C.,
investita della questione, ha regolato la giurisdizione; la pronuncia sulla giurisdizione è passata in
giudicato. Nella seconda e nella terza ipotesi il legislatore ritiene che il processo dinanzi al primo
giudice si sia chiuso. Di conseguenza, non potendosi parlare di riassunzione, la parte potrà soltanto
riproporre la domanda. Se lo fa nei tre mesi dalla decisione della S.C. o dal passaggio in giudicato
della declinatoria del primo giudice, salva gli effetti sostanziali e processuali della prima domanda.
Dal fatto che inizia il nuovo processo deriva che: restano ferme le preclusioni e decadenze
intervenute nel corso del processo chiuso; le prove raccolte dinanzi al primo giudice possono essere
valutate come argomenti di prova; il secondo giudice può a sua volta declinare la sua giurisdizione,
ma non può proporre regolamento preventivo. Il caso della riassunzione, invece, comporta che il
processo continua dinanzi al nuovo giudice, pertanto: le prove raccolte restano valide; le parti
possono essere rimesse in termini; perdurando un conflitto con il primo giudice, il secondo può
proporre regolamento preventivo.
Restano da analizzare altre due possibili situazioni: la situazione non è affatto tutelabile in sede
giurisdizionale, la situazione può rientrare nella sfera giurisdizionale di un giudice straniero. La
prima ipotesi può verificarsi soltanto in relazione ai rapporti tra cittadini e pubblica
amministrazione e bisogna sottolineare che situazioni del genere sono destinate sempre più a
ridursi. Quanto ai rapporti con il giudice straniero, il problema si pone soltanto nei casi in cui il
soggetto residente all’estero sia convenuto e non attore. In queste ipotesi il giudice deve controllare
se sussista un criterio di collegamento tra la giurisdizione italiana e la controversia. Per stabilire la
giurisdizione italiana nella controversia in cui sia parte convenuta uno straniero basta che: il
convenuto sia domiciliato o residente in Italia; o abbia in Italia un rappresentante che sia autorizzato
a stare in giudizio; o vi sia un’espressa disposizione di legge; o ricorrano i criteri stabiliti nelle
sezioni 2,3 e 4 del titolo II della convenzione di Bruxelles; o sussistano, per le controversie non
ricadenti nell’ambito di applicazione della convenzione, i criteri stabiliti per la competenza del
territorio.
Il regolamento di giurisdizione
Art. 41 c.p.c. “Finchè la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere
alle sezioni unite della corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione..”
Il regolamento di giurisdizione costituisce un rimedio al quale possono ricorrere le parti del
processo per far decidere la questione di giurisdizione, in modo che non possano essere influenzate
le sorti dell’intero processo. Lo scopo è quello di evitare che il processo si svolga inutilmente
davanti ad un giudice privo di giurisdizione, facendo pronunciare direttamente le sezioni unite della
cassazione in modo definitivo e vincolante. Si tratta di un rimedio preventivo, alla cui proposizione
sono legittimate tutte le parti in causa, compreso il p.m. Con questo strumento si evita il rischio di
pronunce sulla giurisdizione dei giudici di primo e secondo grado, successivamente vanificabile con
impugnazioni ordinarie. Dunque, la cassazione decide con ordinanza e in camera di consiglio
regolando la giurisdizione.
Tale istituto ha dato luogo a vari problemi applicativi:
- esso non è un mezzo di impugnazione e quindi può essere proposto anche da quelle parti che
non sono legittimate a proporre impugnazione in via autonoma;
- il controllo della S.C. riguarda i limiti esterni della giurisdizione, così che resta escluso ogni
sindacato sui limiti interni;
- Il regolamento può essere proposto fino a quando il giudice non abbia deciso nel merito in
primo grado. Tale formula adoperata dal legislatore ha dato luogo a svariate incertezze. Nel
merito, le sezioni unite hanno stabilito la possibilità di proporre il regolamento anche dopo
l’emanazione di sentenze processuali e, quindi, anche sulla giurisdizione.
Un’altra problematica non meno importante è quella relativa alla necessaria sospensione del
processo che conseguiva alla proposizione del regolamento. La sospensione necessaria dei
procedimenti aveva, infatti, indotto i soggetti a fare uso dell’istituto per finalità opposte a quelle per
le quali era stato creato: spesso il regolamento era proposto per allungare i tempi del processo. La
legge 353/1990 ha posto un rimedio all’abuso che dell’istituto veniva fatto mediante una modifica
dell’art. 367 1 co. prevedendo che il giudice davanti al quale pende la causa sospende il processo
solamente se non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della
giurisdizione manifestamente infondato. Con tale modifica, viene dunque attribuito al giudice il
potere discrezionale di non sospendere il processo evitando che tale istituto possa essere utilizzato
in maniera distorta.
LA COMPETENZA
Il giudice, al quale sia presentata la domanda giudiziale, dopo aver stabilito se abbia giurisdizione,
deve stabilire se è competente. La competenza è la quantità di potere giurisdizionale riconosciuta a
ciascun ufficio giudiziario nei confronti degli altri uffici giudiziari appartenenti allo stesso ordine.
Il legislatore ha previsto tre criteri di collegamento tra le controversie e gli uffici giudiziari: quello
fondato sulla natura della causa che dà vita alla competenza per materia, quello fondato sul valore
della stessa che dà vita alla competenza per valore, quello fondato su elementi di collegamento
spaziale tra la controversia e l’ufficio giudiziario che dà vita alla competenza per territorio.
Tali criteri di collegamento previsti dal legislatore risultano essere fondamentali per
l’individuazione del giudice competente: infatti, prima si dovrà individuare se la controversia
rientra nell’attribuzione di un determinato giudice per ragioni di materia, qualora la controversia
non rientri in alcuno dei criteri di ripartizione per materia, si deve individuare il giudice competente
per valore; dopo aver individuato il giudice competente per materia o per valore si passerà ad
individuare il giudice di pace o tribunale competente per ragioni di territorio. E’ chiaro che, mentre
la ripartizione della competenza secondo criteri territoriali risponde a ragioni prevalentemente
organizzative, quella per i criteri di valore o di materie risponde a valutazioni che attengono
all’importanza delle caratteristiche intrinseche della lite in virtù delle quali il legislatore stabilisce
che determinate controversie siano decise meglio da alcuni giudici che da altri. La conseguenza di
questa diversa giustificazione si rinviene nell'art. 38, secondo il quale l'incompetenza per materia e
quella per valore danno luogo a vizi più gravi, mentre l'incompetenza per territorio derogabile dà
luogo ad un vizio meno grave. Il testo dell’art. 38 è stato modificato dalla legge 69/2009 con
l’intento di semplificare la materia e di ridurre le occasioni per discutere sulla competenza. È così
scomparsa la competenza assolutamente inderogabile.
Prima della recente riforma il giudice decideva sulla competenza con sentenza. Ciò per due buoni
ragioni: per evitare ripensamenti da parte del giudice; perché oggetto di impugnazione sono di
regola le sentenze. Il legislatore del 2009 ha voluto depotenziare le questioni di competenza
stabilendo che il giudice debba decidere con ordinanza. Il legislatore non dice che queste ordinanze
non sono revocabili o modificabili. Ce lo dobbiamo ricavare per implicito da ciò che esse
continuano ad essere impugnabili con i regolamenti di competenza.
Regolamento di competenza
Contro le ordinanze sulla competenza le parti hanno a disposizione una specifica impugnazione che
prende il nome di regolamento di competenza a istanza di parte. Esso è diverso secondo che sia
diretto contro una ordinanza che ha deciso soltanto sulla competenza ovvero contro una sentenza
che ha deciso anche sul merito: nel primo caso, infatti, la parte non può che fare ricorso al
regolamento, che sarà necessario; nel secondo caso, avendo la parte la possibilità di scegliere fra
l’impugnazione ordinaria e il regolamento, quest’ultimo si dice facoltativo. Il regolamento, che non
è utilizzabile nei giudizi davanti ai giudici di pace, si propone con ricorso alla corte di cassazione da
notificare alle parti che non vi hanno aderito. Il termine per la notificazione è di 30 giorni dalla
comunicazione dell’ordinanza o dalla notificazione dell’impugnazione ordinaria. Il legislatore ha
preso in considerazione anche una diversa possibilità: che le parti, di fronte alla sentenza con la
quale il primo giudice sia stato dichiarato incompetente, indicando il giudice da lui ritenuto
competente, si acquietino riassumendo il processo davanti a questo secondo giudice. In questo caso,
il secondo giudice è oppure no vincolato alla decisione del primo giudice e alla riassunzione delle
parti? Sarà vincolato quando il primo giudice abbia dichiarato la propria incompetenza territoriale
derogabile in quanto il meccanismo descritto dall’articolo 38 è inteso a provocare un accordo sulla
competenza. L’articolo 45 continua però a riconoscere al secondo giudice il potere non di
dichiararsi incompetente, ma di chiedere alla S.C. una decisione con un’istanza, e cioè con
un’ordinanza con la quale è chiesto un regolamento d’ufficio ed è disposta la rimessioni del
fascicolo alla cancelleria della cassazione. La decisione dei regolamenti avviene con ordinanza
pronunciata in camera di consiglio con la quale la cassazione statuisce sulla competenza, da i
provvedimenti necessari per la prosecuzione del processo davanti al giudice che dichiara
competente e rimette, quando occorre, le parti in termini affinché provvedano alla loro difesa.
Da queste disposizioni possiamo ricavare due conclusioni: la competenza non è considerata dalla
legge come un presupposto processuale la cui esistenza determina il venir meno del processo, infatti
dopo la decisione sulla competenza il processo può continuare davanti al nuovo giudice; la
competenza sembra essere costruita dal legislatore come requisito di validità degli atti del giudice,
mentre gli atti processuali delle parti sono efficaci anche se compiuti davanti al giudice
incompetente.
Le ipotesi di cause connesse, eguali o continenti si possono verificare anche quando i diversi
procedimenti pendono dinanzi allo stesso ufficio giudiziario o addirittura dinanzi allo stesso
giudice. In quest'ultimo caso il giudice, anche d'ufficio, riunisce le cause identiche e può riunire le
cause connesse.
Cosa succede se il giudice non rispetta il vincolo che gli deriva dai principi della domanda e della
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato? Possono verificarsi due possibilità: il giudice
provvede senza tener conto di tutte le richieste delle parti, in questo caso si avrà difetto di
pronuncia; il giudice modifica le richieste delle parti o pronuncia senza che siano state formulate
apposite istanze, in tal caso si avrà eccesso di pronuncia. In entrambe le ipotesi il provvedimento è
contrario alla legge e quindi viziato. La parte se vuol far valere il vizio deve proporre
impugnazione. Particolarmente delicato è il caso relativo all’omessa pronuncia. Alcuni associano
questo caso all’ipotesi di ultrapetizione per cui ritengono che la mancata impugnazione comporta il
passaggio in giudicato della sentenza. Altri ritengono che non può passare in giudicato ciò che non
c'è per cui ritengono che in tal caso è fatta salva la possibilità di riproporre la richiesta in un
successivo giudizio.
È stato obiettato da alcuni che la razionalità del ragionamento giuridico non è dimostrabile, che i
giudici decidono sulla base di impulsi istintivi, di intuizioni, sensazioni non oggettivabili. Se questo
fosse vero, dovremmo dire che l’attività del giudice è arbitraria, soggettiva e incontrollabile. Il
legislatore non è concorde e ciò è ravvisabile nell’art. 111 co. 6 Cost. che impone l’obbligo della
motivazione. Sia o no quest’ultima la riproduzione fedele del ragionamento che il giudice ha seguito
per decidere, è ad essa che parti, giudici sovraordinati e collettività devono e possono fare
riferimento per stabilire se il giudice ha deciso secondo il suo prudente apprezzamento.
Art. 116 comma 2: Argomenti di prova. Il legislatore è partito dalla considerazione che esistono
alcuni fatti che di per sé non avrebbero alcun rilievo come indici della situazione da ricostruire ai
fini della decisione e che tuttavia devono essere tenuti in conto. Lo stesso articolo 116 elenca, tra i
fatti che possono dar luogo ad argomenti di prova, le risposte delle parti in sede di interrogatorio
non formale, il loro rifiuto ingiustificato a consentire l’ispezione e il loro contegno. Tali fatti,
possono servire ad interpretare le prove altrimenti acquisite. Questi elementi non sono
autosufficienti, nel senso che il giudice non può soltanto su di essi fondare il proprio
convincimento; ma non per questo sono irrilevanti perché, utilizzandoli, egli può pervenire
all’esatta valutazione critica delle prove vere e proprie.
Nei sistemi di civil law fioriscono le teorie intermedie sull’azione, le quali, partendo dal
presupposto che diritto sostanziale e diritto processuale sono fenomeni giuridici distinti e di pari
livello, che vanno raccordati tra loro, sembrano più congeniali alle ideologie attualmente diffuse.
Un’espressione di quanto appena detto è ravvisabile nell’articolo 24 della costituzione che non solo
riconosce l’autonomia del diritto d’azione, ma esprime anche l’esigenza della normale correlazione
tra diritto di azione e posizione giuridica sostanziale riconosciuta dall’ordinamento ai soggetti. Ciò
si verifica riconoscendo la giuridicità del potere d’azione e allo stesso tempo l’autonomia di tale
potere rispetto alla situazione giuridica sostanziale alla quale comunque deve essere raccordato. Per
queste ragioni le teorie moniste non trovano spazio all’interno del nostro ordinamento.
Le azioni di cognizione
Tre forme di tutela di cognizione:
Azione di accertamento: ha per funzione quella di dare certezza. Il cittadino che si rivolge ai giudici
con tale azione vuole conseguire attraverso il provvedimento giurisdizionale la certezza in ordine al
diritto o alla situazione giuridica dedotti nel processo. In merito a tale tipologia di azione ci si
chiede se basta il bisogno di certezza perché si possa dare vita al processo, e che tipo di certezza si
può perseguire attraverso il processo. La dottrina a queste domande ha risposto in maniera
differente, a seconda che si ritenga l’azione di mero accertamento un mezzo di tutela di carattere
generale ovvero un’azione tipica e, quindi, esercitabile soltanto nei casi previsti dalla legge. Se si
accogliesse la teoria secondo cui nel nostro ordinamento ha cittadinanza l’azione generale di
accertamento, si dovrebbe ritenere l’azione sempre esercitabile, salve le ipotesi di giudizi
palesemente inutili; se si accogliesse la seconda opinione, dovremmo pervenire alla conclusione che
l’azione può essere esercitata solo nei casi tipici in cui la legge espressamente lo consente. Alcuni
hanno sostenuto l’esistenza di un’azione di accertamento di carattere generale sulla base di quanto
previsto dall’art. 100, secondo il quale per proporre una domanda è necessario avervi interesse.
Questi sono pervenuti ad una arbitraria interpretazione di tale articolo ritenendo che l’interesse
fosse sufficiente per poter avanzare una domanda di accertamento; ma l’art. 100 c.p.c. prevede
soltanto che l’interesse sia necessario, non che questo sia sufficiente.
Non ci sono disposizioni legislative che prevedono l'accertamento come un'azione generale o come
un'azione tipica. Pertanto si ritiene ammissibile l'ipotesi di azione generale. Dove, invece, la
visibilità dell'azione di accertamento di carattere generale sembra mancare di un solido appoggio è
nel campo dei diritti di credito. La tutela giurisdizionale sembra evocabile solamente al fine di
realizzare coattivamente ciò che l’obbligato non ha voluto adempiere spontaneamente. Di
conseguenza solo la legge potrebbe ammettere, in questo settore, l’azione di accertamento. Contro
questo ragionamento si è obiettato: che la deduzione è tutt’altro che sicura perché, se è vero che non
esiste una disposizione che ammette l’azione generale d’accertamento, è ugualmente vero che non
ne esiste una che la confina in ipotesi tipiche; che esistono disposizioni che, anche nel settore dei
diritti relativi, possono essere interpretate nel senso dell’ammissibilità. Dunque, possiamo dire che
l’azione generale di accertamento è compatibile con il nostro sistema; ammetterla poi dipende da
una scelta ideologica di fondo. Il problema vero dell’azione in esame è quello dei requisiti che deve
possedere la situazione di incertezza perché possa dare vita ad un processo. Si deve trattare di
un’incertezza che riguarda diritti o situazioni giuridiche; l’incertezza deve essere non meramente
ipotetica e subiettiva.
Azione esecutiva: è disciplinata dalla legge. L’art. 2908 c.c., infatti, dispone che nei casi previsti
dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici. La
legge non si è limitata a definire l’azione costitutiva, indicandone la funzione, ma ha inserito una
salvezza (nei casi previsti dalla legge) che costituisce l’autentico contenuto precettivo della
disposizione. Il significato di questa espressione sta nel fatto che le azioni costitutive, a differenza
delle azioni di accertamento e di condanna, sono azioni tipiche; azioni, cioè, che possono essere
esercitate solo in quanto esista una disposizione sostanziale che le preveda.
La ragione della limitazione sta nel fatto che, in questi casi, l’ordinamento non esaurisce con le sue
disposizioni la tutela, ma rinvia al soggetto privato, riconoscendogli il potere di completare la
fattispecie produttiva di effetti in capo a terze persone. Ma ciò, quando manchi il consenso dei terzi
coinvolti nella vicenda, richiede l’intervento del giudice per la stessa ragione per la quale non è
possibile farsi ragione da sé. Si spiega in questo modo anche perché il legislatore abbia voluto
riservare a una sua preventiva valutazione di ammissibilità il ricorso a una forma di tutela così
incisiva.
Con l’azione costitutiva, infatti, si fa valere un potere o un diritto potestativo in virtù del quale un
soggetto è in grado di provocare effetti sulla situazione giuridica di altro soggetto a prescindere
dalla collaborazione di quest’ultimo. Di fronte a tale situazione è evidente che il legislatore non ha
voluto lasciare a una valutazione discrezionale del giudice l’ammissibilità dell’azione, ma ha
ritenuto che l’individuazione dei tipi d’azione spetti a se stesso. Dunque, la tutela costitutiva si ha
solamente quando la costituzione, modificazione o estinzione sia opera dell’autorità giudiziaria.
Il legislatore ha ancorato la tutela costitutiva a tutte le ipotesi in cui un effetto nella sfera giuridica
di un soggetto si può realizzare a prescindere dalla sua accettazione o adesione.
Ciò che l’art. 2098 vuol cogliere, insomma, è il carattere tassativo delle ipotesi in cui la
modificazione di una sfera giuridica altrui avviene per effetto dell’iniziativa di un soggetto e senza
il necessario concorso dell’altro o degli altri soggetti.
Tra i casi di azione costitutiva si è soliti segnalare quello previsto dall’articolo 2932 c.c.
sull’esecuzione dell’obbligo di contrarre assunto con un contratto preliminare. Il caso riguarda i
contraenti che con un contratto preliminare si siano obbligati a concludere un contratto definitivo
tutte le volte in cui uno dei contraenti non voglia poi spontaneamente addivenire alla stipulazione
del contratto definitivo. Sotto il codice del 1865, la giurisprudenza aveva ritenuto che, contro la
parte inadempiente, l'altra parte non avesse che da proporre azione di risarcimento conseguente a
una risoluzione per inadempimento. Si escludeva l'azione per ottenere l'adempimento, dandosi per
scontato che la prestazione del consenso della controparte fosse un facere infungibile. Parte della
dottrina, però, ipotizzò che questo potesse essere un campo di utile applicazione dell’azione
costitutiva. Ciò è stato recepito dal legislatore del 1942. Di conseguenza il giudice, oggi, quando gli
sia proposta domanda ex articolo 2932, deve emanare una sentenza che faccia le veci del contratto
definitivo non concluso. Egli, pertanto, non condannerà la parte inadempiente a concludere il
contratto, ma disporrà direttamente gli effetti del contratto definitivo. L’introduzione dell’articolo
614 bis, che, prevede forme di esecuzione indiretta anche in relazione a prestazioni di fare
infungibili, potrebbe mutare i termini del problema. Si potrebbe dire che la parte interessata
all’adempimento, oggi possa scegliere tra la tutela costitutiva e quella di condanna o che, ottenuta
una sentenza costitutiva, possa azionare anche la condanna sottesa all’effetto costitutivo. (Siamo
orientati a dare risposta negativa a tale quesito).
Le condizioni dell’azione
Nel trattare dell’azione in generale, la dottrina ha cercato di individuarne i presupposti.
L’interesse ad agire: l'articolo 100 prevede che per proporre una domanda o per contraddire alla
stessa è necessario avervi interesse. Con questa disposizione il legislatore sembra dire che non basta
affermarsi titolari di una situazione giuridica sostanziale, perché si possa agire davanti al giudice; è
necessario anche che vi sia un interesse. Analizzando le singole tipologie di azioni, ci accorgiamo
che il ruolo dell’interesse non è sempre uguale. Le azioni costitutive sono tipiche: esse, cioè, sono
ammesse nei casi previsti dalla legge e sempre che sia perfettamente realizzata l’ipotesi legislativa.
Una volta che si sia realizzata queste ipotesi non sembra necessario altro. Per quanto riguarda le
azioni di condanna, si potrebbe dire che l’interesse ha spazio per svolgere una propria funzione, dal
momento che tale azione ha carattere generale. Però, i modi in cui si realizza l’azione di condanna è
sempre lo stesso, per cui si costituiscono degli esempi standard (credito insoddisfatto/obbligo
inadempiuto) in cui diviene irrilevante il ruolo dell’interesse. Nel campo delle azioni di
accertamento, l’interesse gioca un ruolo di enorme importanza, concorrendo a definire quando il
ricorso al giudice non è una inutile provocazione.
La legittimazione ad agire: il giudice deve chiedersi se il provvedimento richiesto, ammesso che sia
fondata la domanda giudiziale, possa essere concesso a favore dell'attore e contro il convenuto. Se
al quesito il giudice dà risposta positiva, possiamo dire che la domanda è stata proposta da persona
legittimata e contro la persona legittimata. Di solito, la distinzione tra legittimazione ed esistenza
del diritto è irrilevante perché chi propone la domanda assume di essere titolare del diritto ed
assume anche colui contro il quale è proposta la domanda è titolare della posizione giuridica
passiva. E poiché vige il principio della normale correlazione fra titolarità del diritto e titolarità
dell’azione, ciò basta perché l’attore sia il legittimato attivo e il convenuto il legittimato passivo. Il
problema viene in rilievo quando la legge ammetta all’azione un soggetto che non sia titolare del
diritto sostanziale ovvero quando, dovendosi svolgere il processo fra più persone, prima ancora di
decidere se la domanda meriti accoglimento, si deve stabilire se sono presenti nel processo tutti i
soggetti legittimati. Queste ipotesi sono state disciplinate dall’articolo 81 e dall’articolo 102. Dalla
prima delle disposizioni si ricava che normalmente può agire in giudizio chi assume di essere
titolare della situazione sostanziale che si vuole tutelare nel processo e che le ipotesi in cui l’azione
può essere proposta da chi non assume di essere titolare del diritto azionato sono eccezionali
(sostituzione processuale). Dalla seconda disposizione si ricava il processo non può pervenire a un
provvedimento sul merito della pretesa se non sia stato convenuto in giudizio il destinatario del
provvedimento giurisdizionale. Il problema della legittimazione, quindi, coincide con il problema
dei destinatari del provvedimento giudiziale.
La possibilità del provvedimento richiesto e l’esistenza del diritto: secondo la teoria dell'azione
come diritto a un provvedimento di merito qualsiasi, intanto è possibile agire in giudizio in quanto il
provvedimento rientri in uno dei tipi previsti dall'ordinamento. In caso contrario il giudice deve
dichiarare l'improponibilità assoluta della domanda. Secondo la teoria dell’azione come diritto a un
provvedimento favorevole, è evidente che il giudice rigettando la domanda nel merito finisce anche
con il dichiarare inesistente l’azione.
L’azione esecutiva
L’ordinamento ha dovuto prevedere un meccanismo utilizzando il quale il creditore, in mancanza di
spontaneo adempimento del debitore, può tradurre in atto la potenzialità contenuta nella sentenza
ossia adeguare la situazione di fatto al comando giuridico. Questo meccanismo è costituito
dall’azione esecutiva, che si impone come necessario completamento della tutela concessa con
l’azione di condanna. La quale non è autosufficiente, poiché non consente da sola al soggetto, che
ha proposto la domanda, di conseguire il bene che egli voleva conseguire attraverso il processo.
L'azione esecutiva, peraltro, è completamento necessario, ma non necessariamente vincolato al
processo di condanna. Il nostro ordinamento infatti prevede altre possibilità di ricorso al processo di
esecuzione senza il necessario, preventivo passaggio attraverso il processo di cognizione. L’articolo
474 regola l’istituto del titolo esecutivo, presupposto indispensabile perché si possa procedere
all’esecuzione forzata. Questa norma elenca, fra i titoli esecutivi, oltre alle sentenze: I
provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva; le
scritture private autenticate, relativamente alle somme di denaro in esse contenute, le cambiali, gli
altri titoli di credito e gli atti ai quali la legge espressamente attribuisce la stessa efficacia; gli atti
ricevuti dal notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli.
L’esigenza di potenziare taluni strumenti giuridici hanno determinato il legislatore a riconoscere
efficacia esecutiva a provvedimenti giudiziali particolari, ad atti privati o a quelli ricevuti da
pubblico ufficiale. Inoltre, bisogna escludere che i provvedimenti cautelari possano essere
considerati titoli esecutivi. Una previsione del genere non sarebbe stata coerente, dato che questi
provvedimenti, emessi in base a una cognizione sommaria, per definizione non riguardano diritti
certi.
Le azioni cautelari
L’azione cautelare è subordinata essenzialmente a due condizioni: è necessario dimostrare il diritto
sostanziale che si vuole cautelare molto probabilmente esiste; bisogna provare che nel tempo
necessario per ottenere un provvedimento di carattere definitivo si possono verificare pregiudizi alla
situazione giuridica o di fatto del soggetto interessato al provvedimento stesso. Queste due
condizioni si coordinano con la funzione dell’azione, che pertanto tende all’emanazione di
provvedimenti che hanno per scopo quello di assicurare la situazione di fatto e quella di diritto.
L’azione cautelare mira a far emanare dei provvedimenti che impediscano eventuali modificazioni
circa il bene controverso. Appare chiaro, sulla base di queste osservazioni, che l’azione cautelare
non è collegata alla prova piena dell’esistenza del diritto. La legge 353/1990 ha integralmente
modificato il sistema previgente ed ha abrogato tutte le norme procedimentali dedicate alle misure
cautelare, lasciando immutata la sola disciplina dei provvedimenti sull’istruzione preventiva.
I provvedimenti d’urgenza possono essere concessi alle seguenti condizioni: quando non sia
possibile il ricorso a un’altra azione cautelare, quindi hanno carattere sussidiario; quando si ha
fondato motivo di temere che, durante il tempo occorrente per far valere i diritti in via ordinaria,
questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile. Il carattere sussidiario dei
provvedimenti di urgenza mostra chiaramente che il legislatore ha pensato ad essi come ad una
specie di valvola di sicurezza del sistema: ne consegue che essi hanno per definizione carattere
atipico e che, nelle originarie intenzioni del legislatore, dovevano essere eccezionali, ossia
utilizzabili raramente. Ciò risulta chiaramente dal fatto che essi sono collegati a una condizione
assai rigorosa, ossia al pregiudizio imminente e irreparabile.
LE PARTI
Chi è parte nel processo?
Per acquistare la qualità di parte basta compiere l’atto iniziale previsto dalle disposizioni normative
e di conseguenza si diventerà a seconda dei casi: attore, appellante, ricorrente. Di solito poi con il
compimento dell’atto iniziale del processo acquista la qualità di parte anche il controinteressato,
convenuto, resistente. Ciò avviene quando l’atto è recettizio, ma non mancano i casi in cui non c’è
questa coincidenza: ad esempio nei processi che iniziano con ricorso il ricorrente acquista la qualità
di parte con la presentazione del ricorso al giudice, mentre il convenuto acquista tale qualità in un
momento successivo che di solito coincide con la notificazione del ricorso che ha luogo con la
notificazione del provvedimento del giudice di accoglimento dell’istanza.
La capacità di essere parte: È capace di essere parte chi è soggetto di diritto. La capacità di essere
parte finisce con l’essere la trasposizione nell’ambito del diritto processuale della nozione di
capacità giuridica. Particolare importanza assume l’articolo 75 che prevede che le associazioni e i
comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate negli
articoli 36 ss. c.c.. Tale norma assume rilevanza perché permette a quegli enti cui l’ordinamento non
ha riconosciuto una personalità giuridica, quali associazioni e comitati, di essere parte nel processo
e, quindi, sono trattate nel processo come autonomi soggetti di diritto. La norma dice che parte del
processo è l’associazione o il comitato e che le persone fisiche abilitate a stare in giudizio in nome e
per conto degli stessi non sono parti, agendo come se fossero dei rappresentanti.
La capacità processuale: il problema della capacità processuale nasce perché non è detto che ogni
soggetto capace di essere parte sia anche capace di stare in giudizio. Anche questa situazione trova
un esatto riscontro nel campo del diritto sostanziale, dove si distingue la capacità giuridica dalla
capacità di agire, che è appunto la capacità del soggetto di compiere atti giuridicamente validi e che
di norma si acquista con il raggiungimento della maggiore età. Posto che non hanno assolutamente
capacità di agire i minori degli anni 18 e gli interdetti, i quali sono anche processualmente incapaci,
dobbiamo dire che in nome e per conto loro stanno in giudizio le persone che hanno la legale
rappresentanza: i genitori. Hanno, invece, una limitata capacità di agire gli emancipati e inabilitati, i
quali possono stare in giudizio con l’assistenza del curatore. Poi abbiamo le ipotesi in cui venga
nominato un amministratore cui il giudice indichi quali atti possa compiere in nome e per conto
della persona rappresentata (amministrazione di sostegno). Non bisogna poi dimenticare l’ipotesi
del fallito che perde l’amministrazione e la disponibilità dei suoi beni che passano al curatore; e
l’ipotesi dello scomparso, per cui viene nominato un curatore.
Il pericolo che si annida in ogni lite è quello che il processo sia iniziato da un soggetto che non è
processualmente capace ovvero da chi non abbia la rappresentanza, l’assistenza o non sia munito
delle prescritte autorizzazioni. Il legislatore se ne è giustamente preoccupato e ha stabilito che il
giudice fin dalla prima udienza deve esaminare i problemi inerenti alla capacità processuale delle
parti.
Il legislatore ha infatti stabilito che: “quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di
autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice
assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la
rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio
della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L’osservanza del termine sana e vizi e gli
effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima
notificazione”. Questa riformulazione, intervenuta nel 2009, risolve alcune problematiche sorte in
passato. In primo luogo, è ormai chiaro che il giudice non può, ma deve disporre la sanatoria. Ne
consegue che il mancato esercizio di tale potere si traduce in un vizio del provvedimento
conclusivo, che poi giustifica l’impugnazione. Se la parte interessata rispetta il termine concesso dal
giudice, la sanatoria ha effetto retroattivo pieno. Inoltre, la legge espressamente prevede che il
termine concesso dal giudice è perentorio, così superando le anteriori perplessità, provocate dalla
mancanza di un’espressa previsione a riguardo. Infine si è estesa la possibilità della sanatoria anche
nel caso in cui la procura al difensore sia nulla.
LA RAPPRESENTANZA PROCESSUALE
Di solito la parte sta nel processo personalmente. Può avvenire, tuttavia, che essa debba servirsi
della intermediazione di un altro soggetto o che ritenga opportuno servirsene. La prima ipotesi si
verifica in relazione ai soggetti capaci di essere parti ma sforniti di capacità processuale. Ben
diversa è la seconda ipotesi, la quale si verifica quando un soggetto senza alcuna giuridica necessità,
ma solo per sopperire alle esigenze personali o per ragioni di comodo, da incarico a un altro
soggetto di stare in giudizio in suo nome e per suo conto. In questo modo, egli viene ad utilizzare
nel processo un istituto assai adoperato nel campo del diritto sostanziale, la rappresentanza
volontaria.
L’art. 83 stabilisce che la procura alle liti può essere anche apposta in calce o a margine di taluni atti
ivi indicati e che, in tali casi, l’autografia della sottoscrizione deve essere certificata dal difensore.
Va ribadito che la funzione di rappresentanza di cui di scorriamo è di carattere tecnico e si collega
alla necessità o all’opportunità che la parte abbia nel processo una specie di intermediario, il quale
parli lo stesso linguaggio del giudice. Essa, quindi, nulla ha a che vedere con la rappresentanza
volontaria, Che non esclude e non risolve il problema della rappresentanza tecnica. Infatti, se una
persona conferisce la procura a un altro soggetto, quest’ultimo avrà il problema di farsi
rappresentare da un avvocato salvo che abbia la possibilità di esercitare l’ufficio di difensore.
Vi è una tendenza diretta a favorire che nel processo vi sia la parte realmente interessata e non un
soggetto in sua vece, che trova un ragionevole fondamento nella preoccupazione che, nei casi in cui
nel processo vi è un soggetto diverso dal destinatario degli effetti del provvedimento giudiziale, si
abbiano complicazioni, errori o equivoci. Per questo motivo il legislatore ha cercato di ridurre
l’ambito nel quale l’istituto è destinato ad operare. Ha, infatti, previsto un onere formale: la procura
deve essere conferita espressamente per iscritto. Questa imposizione non è un inutile formalismo,
poiché tende a prevenire la nascita di questioni circa l’esistenza, e limiti e la validità della procura.
Inoltre, il legislatore ha ridotto l'ambito, dentro il quale può aversi rappresentanza processuale,
collegando quest'ultima alla rappresentanza sostanziale: infatti, il preposto può stare in giudizio in
nome e per conto del preponente solo quando sia procuratore generale di quest’ultimo o quando sia
stato preposto a determinati affari. L’articolo 77 co. 1 contiene una salvezza: il rappresentante
sostanziale, che non sia anche rappresentante processuale, può senza procura stare in giudizio per
gli atti urgenti e per le misure cautelari. L’urgenza deve essere connessa a ragioni oggettive e
comunque non dipendenti dal comportamento negligente del rappresentante. In mancanza
dell’urgenza, l’azione è proposta da chi è sfornito di potere rappresentativo e quindi sfocia in un
provvedimento processuale che non può toccare il merito della controversia.
Inoltre, non si può ritenere ammissibile la negotiorum gestio proprio in relazione all’urgenza che
deve caratterizzare l’ipotesi in cui il rappresentante sostanziale possa agire nel processo senza
procura. Per lo stesso motivo si deve ritenere inammissibile anche il mandato senza rappresentanza,
secondo il quale un soggetto possa agire in giudizio per conto di un altro e in base a un rapporto
interno concluso tra loro per cui il mandatario si obbliga a trasferire in capo al mandante gli effetti
del processo.
LA SOSTITUZIONE PROCESSUALE
Rappresentanza processuale: il rappresentante agisce in nome e per conto del rappresentato.
Sostituzione processuale: il sostituto agisce in nome proprio ma per conto di altri (sostituito).
Le ipotesi di sostituzione processuale non possono che essere eccezionali visto che l’articolo 81
costituisce una deroga al principio della normale correlazione tra la titolarità dell’azione e la
titolarità della situazione sostanziale nel processo riconosciuto anche dalla costituzione nell’articolo
24 co. 1. Tale deroga è possibile soltanto in base a una ragionevole valutazione degli interessi in
gioco che solo il legislatore è abilitato a compiere. Pertanto, le ipotesi di sostituzione processuale
devono necessariamente essere previste dalla legge, e infatti l’art. c.p.c. 81 afferma che fuori dei
casi espressamente previsti dalla legge nessuno può far valere nel processo in nome proprio un
diritto altrui.
Si ritiene che possa verificarsi la sostituzione processuale solo per l’attore: un far valere il diritto
altrui può immaginarsi soltanto dalla parte di chi afferma o pretende, non da chi resiste o si difende.
Inoltre, avviene che non di rado, nei casi di legittimazione straordinaria chi agisce si sostituisce al
titolare del diritto nel proporre la domanda giudiziale, ma che successivamente il processo deve
proseguire anche nei confronti del secondo. Si potrebbe qui parlare di una forma debole di
sostituzione da contrapporre a una forma pura o forte, che si ha quando il sostituto è legittimato a
proporre la domanda e a gestire in via autonoma tutto il processo.
La posizione processuale del sostituto: la posizione del sostituto crea delle problematiche perché
questi è parte nel processo per una situazione giuridica sostanziale che non gli appartiene e di
conseguenza non può compiere quegli atti che comportino disposizione del diritto. La prima
problematica che viene in risalto è quella relativa alle prove. (sappiamo che le prove si suddividono
in: prova testimoniale che è liberamente apprezzabile dal giudice e prova legale: confessione e
giuramento di cui il giudice può soltanto prendere atto). Certamente il sostituto non può rendere
confessione in quanto non è titolare del diritto: uno dei presupposti per l’efficacia della confessione
è che essa provenga da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscano. In
merito al giuramento la situazione diventa ancor più problematica: il sostituto può giurare, ma non
può deferire o riferire il giuramento.
Non potendo il sostituto compiere quegli atti processuali per cui si ritiene necessaria la disponibilità
del diritto, altre problematiche sorgono in merito alla rinuncia agli atti del giudizio. Il sostituto può
rinunciare agli atti di giudizio in primo grado, poiché il titolare del diritto può riproporre l’azione
che non si estingue insieme all’estinzione del processo. Il sostituto non può rinunciare agli atti di
giudizio in appello, in quanto in questa ipotesi il titolare del diritto non potrebbe più riproporre
domanda (si tratterebbe di impugnazione).
Inoltre bisogna specificare che tendenzialmente il sostituto processuale può rinunciare agli atti del
giudizio in primo grado ma non può rinunciare se sono trascorsi i termini di prescrizione in quanto
ciò renderebbe impossibile una riproposizione dell'azione da parte del titolare del diritto.
Questo ci aiuta a comprendere che la sentenza produce effetti principalmente nei confronti del
sostituito, anche se questi non ha partecipato al processo.
IL PUBBLICO MINISTERO
Nel quadro della sostituzione processuale va inserita l'attività del pubblico ministero nel processo
civile. Questi, secondo il disegno del legislatore del 1942, doveva assolvere a una duplice funzione:
non lasciare al monopolio esclusivo dei privati la possibilità di agire in giudizio soprattutto quando
le questioni interessavano anche la collettività; evitare che l’iniziativa processuale possa essere
affidata al giudice, il quale deve rimanere terzo. Dunque, già il legislatore del 1942, aveva preso in
considerazione l'ipotesi in cui un processo potesse costituire uno strumento di protezione anche per
la collettività, ed aveva pensato che il mezzo idoneo per provvedere a questa esigenza fosse quella
di affidare ad un organo pubblico la possibilità di assumere l’iniziativa processuale ovvero di
intervenire nel processo già da altri iniziato. Poiché si ha intromissione nel processo di una parte
alla quale il legislatore riconosce la legittimazione straordinaria è ovvio che valga lo stesso
principio di tassatività e tipicità che è a base della sostituzione processuale. Pertanto è la legge a
disciplinare le ipotesi in cui il p.m. può assumere l’iniziativa processuale (Art. 69 il pubblico
ministero esercita l’azione civile nei casi stabiliti dalla legge). La quale iniziativa rientra nell’ambito
dell’esercizio di una pubblica funzione. Ciò vuol dire che quando il p.m. venga a conoscenza di fatti
che integrino una delle ipotesi in cui può porre domande giudiziale, egli deve tendenzialmente
proporla (anche se l’obbligatorietà dell’azione non é costituzionalmente imposta). Allo stesso modo,
quando sia messo a conoscenza di un processo nel quale è obbligatorio il suo intervento, egli viene
meno al suo dovere funzionale se non partecipa al processo. Dunque abbiamo due categorie di
situazioni: quella in cui il p.m. può proporre la domanda giudiziale dando vita al processo; quelle in
cui il pm deve prendere parte a un processo già da altri iniziato. È ovvio che nella prima ipotesi egli
ha una funzione propulsiva, mentre nella seconda esercita una funzione di controllo. Anche la
valutazione relativa al tipo di attività che il pm è chiamato a svolgere è riservata al legislatore, che
stabilisce in quali casi l’interesse della collettività sia così alta da giustificare un’iniziativa
processuale autonoma dell’organo pubblico e quando, invece, sia sufficiente la sua presenza in veste
di controllore. Il legislatore, però, quasi come se volesse prevedere una valvola di sicurezza, ha
disciplinato l’ipotesi in cui il p.m. possa valutare autonomamente l’opportunità di intervenire anche
fuori dei casi previsti dalla legge. Dunque emergono tre diverse posizioni del p.m.: quella in cui egli
può agire in veste di attore; quella in cui deve partecipare al processo come interventore; quella in
cui può decidere di intervenire.
I singoli casi in cui è previsto il potere di azione del p.m.: il settore nel quale è più facile rinvenire
ipotesi di azione del p.m. è quello della disciplina della famiglia, dello Stato e della capacità delle
persone. Dunque, il pm può proporre azione in merito alla dichiarazione di interdizione o di
inabilitazione del soggetto; può chiedere la nomina del curatore dello scomparso; può chiedere la
dichiarazione di morte presunta; cause matrimoniali; querela di falso.
Posizione processuale del p.m.: p.m. agente (quando il p.m. ha il potere di azione); p.m.
interveniente (quando egli può solo intervenire). Nel primo caso egli ha tutti i poteri della parte, sia
quando abbia assunto l’iniziativa sia quando sia intervenuto a processo già iniziato. Nel secondo
caso il p.m. può produrre documenti, dedurre prove (ha facoltà in merito alla ricostruzione del
fatto).
IL LITISCONSORZIO NECESSARIO
Prima di stabilire chi ha ragione e chi torto il giudice deve chiedersi se il processo penda fra le parti
giuste e cioè tra le persone che si pongono come destinatarie degli effetti dei provvedimenti
giurisdizionali. Esistono situazioni giuridiche sostanziali nelle quali più di due soggetti sono
direttamente coinvolti. Il processo che riguardi tali situazioni deve avere luogo tra questi soggetti.
Alla base della disciplina del litisconsorzio necessario vi è, dunque, l’idea che esistono situazioni
giuridiche sostanziali inscindibili con pluralità soggetti e che questa inscindibilità deve essere
trasportata anche nel processo. In questo modo viene anche soddisfatta l’esigenza della difesa e
quella del contraddittorio. (esempio: comproprietà)
Art. 102 “se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire
o essere convenute nello stesso processo. Se questo è promosso da alcune o contro alcune soltanto
di esse, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui
stabilito”.
Particolari problematiche sorgono in merito all’individuazione delle situazioni inscindibili. Non
esiste, infatti, nella disciplina sostanziale alcun criterio che consente di stabilire quand’è che la
situazione soggettivamente plurima è unica e inscindibile e quando è che essa è la risultante di una
combinazione di situazioni a vario titolo tra loro collegate. Diverse sono le teorie che cercano di
individuare le situazioni inscindibili: una di queste ritiene che la necessità del litisconsorzio non va
collegata alla causa petendi, ma al petitum ossia al risultato giuridico perseguito in giudizio. Perciò
fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, la necessità del litisconsorzio sarebbe da ricavare
non dalla legge, bensì nella maniera con cui è stato delimitato l’oggetto del processo. Pur
apprezzando l’obiettivo di semplificazione perseguito da questa teoria, sembra che la tesi
tradizionale meriti di essere confermata: l'articolo 102 rende il giudice responsabile del fatto che la
sentenza produca effetti nei confronti di tutte le parti della situazione sostanziale dedotta nel
processo, così che a quest’ultima il giudice deve riferirsi per individuare chi è legittimato.
La dottrina ha avuto modo di osservare come in qualche caso la disciplina positiva abbia riferito la
necessità del litisconsorzio a situazioni che rispondono a requisiti quali esigenze pratiche. Si sono
evidenziate, nel corso di quest’analisi, due situazioni: quelle in cui si riconosca la legittimazione
straordinaria ad agire a un soggetto che non è parte della situazione o del rapporto controverso;
quelle in cui siano mere considerazioni di opportunità a consigliare un processo a più parti, che
senza la previsione espressa del legislatore si sarebbe voluto svolgere anche senza litisconsorzio.
Questa seconda ipotesi è stata prevista soprattutto per evitare la possibilità di giudicati
contraddittori.
Come deve comportarsi il giudice? Al potere e alla responsabilità del giudice si accompagna un suo
dovere funzionale. Egli fin dalle prime battute deve controllare se nel processo vi sono le giuste
parti e, se ravvisa un difetto del contraddittorio, deve ordinarne l’integrazione. L’ordine è rivolto a
tutte le parti costituite e deve essere adempiuto in un termine perentorio, pena l’estinzione del
processo. Ed è giusto che sia così perché a contraddittorio non integro mai potrebbe essere emanata
una pronuncia di merito. Quando l’ordine di integrazione è puntualmente eseguito, il processo
prosegue normalmente come se la domanda fosse stata notificata fin dall’origine a tutti i
litisconsorti; si attua, dunque, una sanatoria della domanda giudiziale con effetto retroattivo. Nulla
esclude che il litisconsorte intervenga spontaneamente nel processo. Se il giudice ha ordinato
l'integrazione e il terzo, non avendo le parti osservato l'ordine, interviene dopo la scadenza del
termine perentorio stabilito dal giudice, è dubbio se il giudice debba egualmente dichiarare
l'estinzione. La risposta dovrebbe essere affermativa perché l’effetto estintivo si verifica a
prescindere dal formale provvedimento in lamenti in cui se ne verifica il presupposto. Ma è una
soluzione dispendiosa e inutilmente formalistica.
IL LITISCONSORZIO FACOLTATIVO
Il fenomeno della pluralità di parti nel processo può trovare varie giustificazioni: quando la causa è
unica con più di due parti si ha litisconsorzio necessario; quando le cause sono molteplici, ovvero
quando nel processo originario già regolarmente instaurato si inserisce un soggetto che vi abbia
sufficiente interesse, si ha litisconsorzio facoltativo. Quest’ultimo può essere originario o
successivo. Quello originario è previsto e disciplinato espressamente dall’articolo 103; quello
successivo invece non è regolato da una norma apposita ma trova la sua normativa negli articoli 105
seguenti dedicati agli interventi, e quindi alla possibilità di partecipare al processo di nuovi soggetti
oltre le parti originarie. Il litisconsorzio facoltativo originario, pertanto, si ha quando il processo
nasce fin dall’inizio con più di due parti, senza che questa partecipazione plurima sia imposta da
esigenze di necessità logica o giuridica. In altri termini, mentre nel caso del litisconsorzio
necessario, se non sono chiamati a partecipare al giudizio tutti litisconsorti, non si può procedere
verso una valida decisione finale; nel caso di litisconsorzio facoltativo si può pervenire alla valida
decisione anche senza la partecipazione delle parti aggiunte e sempre che nel giudizio siano stati
chiamati i soggetti legittimati. Si spiega, in questo modo, che il litisconsorzio facoltativo originario
trova la sua ragion d’essere in un legame che collega più cause connesse e che consiglia o rende
possibile raccoglierle insieme. L’articolo 103, nel determinare quale possa essere un legame
sufficiente, fa riferimento all’oggetto o al titolo dal quale le cause dipendono ovvero al fatto che la
decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni.
Art. 103 “più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che
si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando
la decisione dipende totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni. Il giudice
può disporre, nel corso dell'istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi è istanza
di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più
gravoso il processo, e poi rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza”.
Litisconsorzio proprio: la causa petendi è uguale.
Litisconsorzio improprio: il petitum è uguale, la causa petendi è parzialmente diversa.
Considerazioni di economia processuale e l’esigenza di pervenire a soluzioni armoniche fanno sì
che il codice prende in considerazione la possibilità della trattazione unitaria di più cause.
Il co.2 art. 103 afferma il principio della separazione. Ciò vuol dire che, essendoci un processo
formalmente unico, nel quale convivono cause sostanzialmente autonome, al giudice è consentito di
disporre, sulla base di valutazioni di opportunità, che le cause o alcune di esse procedano
distintamente. Pertanto se si dovessero verificare delle ipotesi in cui sarebbe preferibile o necessario
che il processo prosegue in via unitaria, il giudice ne dispone la separazione.
Qualche problema crea la disciplina delle prove, perché in questo settore la sostanziale autonomia
delle cause non può non risentire l’influenza della formale unità del processo. A tal proposito, ha
importanza stabilire se i fatti da accertare sono comuni a tutti i litisconsorzi o se riguardano soltanto
alcune delle cause cumulate. Se il fatto di accertare riguarda soltanto alcune delle cause cumulate, la
prova potrà essere chiesta dalla sola parte interessata ed essa avrà effetto nei soli suoi confronti. Se
il fatto da accertare è comune a tutti litisconsorti, è ovvio che, acquisita la prova al processo di tale
fatto, essa valga allo stesso modo per tutti. In merito alle prove che implicano il potere di
disposizione del rapporto controverso (confessioni o giuramento) si possono analizzare alcune
disposizioni per ricavare una possibile disciplina. Gli articoli 2733 e 2738 codice civile stabiliscono
che la confessione resa e il giuramento prestato da alcuni soltanto dei litisconsorti sono liberamente
apprezzati dal giudice; l’articolo 1305 codice civile dispone che il giuramento prestato da un
coobbligato solidale si estende agli altri soltanto in utilibus. Esclusa la possibilità di applicare al
litisconsorzio facoltativo le prime due norme, si è sostenuto che l’articolo 1305 può avere il valore
di regola base. Parte della dottrina ha però osservato che: le prove, se possono essere presi in
considerazione nella causa connessa, hanno il valore di argomenti di prova liberamente utilizzabile
dal giudice; che è comunque necessario collegare la prova alla fattispecie nel suo complesso per
valutarne l’operatività.
Ipotesi di litisconsorzio intermedio: litisconsorzio unitario. (ipotesi a metà strada tra litisconsorzio
facoltativo e quello necessario)
Il caso paradigmatico è quello dell’impugnazione delle delibere assembleari. Secondo l’articolo
2378 c. 5 c.c. ciascuno dei soci assenti o dissenzienti può impugnare per suo conto la
deliberazione, ma l’impugnazione della medesima deliberazione devono essere istruite
congiuntamente e decise con unica sentenza. Ciò vuol dire che: le azioni sono originariamente
autonome e indipendenti, che il giudice non deve ordinare l'integrazione del contraddittorio, che
qualora vi sia una pluralità di impugnazioni queste devono essere trattate in un unico processo, che
non è consentita la separazione e che è necessaria una decisione unica.
L’intervento avviene mediante una comparsa formata ai sensi dell’articolo 167 e depositata in
udienza o in cancelleria. L’intervento può avere luogo sino a che non vengano precisate le
conclusioni. E’ evidente, però, che questa vicenda non può né deve compromettere il regolare
svolgimento del processo, perciò l’articolo 268 secondo comma fissa il principio secondo il quale il
terzo accetta la lite in statu et terminis e quindi non può compiere atti che non siano più consentiti
ad alcuna altra parte.
La prassi ha fatto applicazione dell'istituto in un caso particolare, che si presenta sempre più spesso.
È il caso in cui il convenuto originario non contesta la domanda nella sua interezza ma si limita ad
eccepire di non essere il titolare della situazione giuridica passiva. Il caso più ricorrente è quello
delle cause di risarcimento per danni causati dalla circolazione, quando il convenuto neghi la
propria responsabilità indicando un terzo come unico responsabile del fatto.
All’ipotesi della contestazione della legittimazione passiva deve essere avvicinata quella che si
desume dall’articolo 109 (chiamata in causa del terzo pretendente). In questo caso non è
controverso il debito ne chi sia il debitore, ma chi sia il creditore. Il convenuto, in questo caso, non
oppone che altri è il debitore, ma che un terzo vanta lo stesso diritto preteso dell’attore. Non può,
pertanto, disconoscersi l’interesse del debitore alla chiamata per sapere a chi debba effettuare il
pagamento. In ogni caso in cui si contende a quale di più parti spetta una prestazione e l’obbligato si
dichiara pronto ad eseguire la favore di chi ne ha diritto, il giudice può ordinare il deposito della
cosa o della somma dovuta e, dopo il deposito può estromettere l’obbligato dal processo.
In queste ipotesi, viene anche in evidenza una problematica relativa all’esigenza secondo cui non si
può imporre al terzo di partecipare a un processo nel quale egli non possa esercitare tutte le sue
facoltà processuali. E per questa ragione che le parti originarie hanno l’onere di citare il terzo a
comparire per l’udienza all’uopo fissata dal giudice istruttore, osservati i termini previsti
nell’articolo 163 bis. L’esigenza di chiamare il terzo può essere avvertita dal convenuto, pertanto
egli deve farne richiesta nella comparsa di risposta e deve chiedere al giudice istruttore lo
spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo. Anche l’attore può
aver bisogno di chiamare il terzo, ma se tale bisogno era presente già al tempo dell’atto introduttivo,
egli non può farne richiesta in corso di causa poiché ciò sarebbe un motivo di un non giustificabile
rallentamento del processo. Può farne richiesta nella prima udienza solamente se la necessità della
chiamata assurga dalle difese del convenuto ed è chiaro che, in questo caso, il giudice dovrà
valutare, nel contraddittorio delle parti, se la richiesta sia ammissibile per tale ragione, così che non
si limiterà a fissare una nuova udienza ma dovrà preventivamente autorizzare la chiamata.
La chiamata in garanzia: l’articolo 106 prevede anche che la parte possa chiamare nel processo il
terzo dal quale pretende di essere garantita. Ci sono varie forme di garanzia: l’obbligo può nascere
dalla legge; può nascere per effetto di un contratto tra debitore e garante; l’obbligo del terzo può
nascere dal legame economico tra due distinti e separati rapporti contrattuali. I primi due casi sono
inquadrati nella garanzia propria, mentre il terzo caso, che è frutto dell’elaborazione
giurisprudenziale, è un caso di garanzia impropria. Inoltre, mentre il primo è un caso di garanzia
formale o reale, perché l’obbligo di garanzia discende dalla legge; il secondo è un caso di garanzia
personale essendo frutto di apposito accordo contrattuale.
La differenza ha particolare rilievo in relazione all’estromissione. Quando il convenuto chiama in
giudizio il terzo per un rapporto di garanzia propria, può farlo in due modi: per ottenere soltanto la
sua partecipazione al processo in modo che l’accertamento relativo al rapporto che ha dato
occasione alla causa originaria si estenda anche al lui; ovvero per ottenere la condanna in via di
regresso del terzo. Soltanto nel primo caso sarà possibile, dopo la costituzione in giudizio del terzo
garante, che l'originario convenuto sia estromesso. Infatti, soltanto in questo caso la causa pendente
resta una e unica. Nell’ipotesi di garanzia impropria non sembra possibile l’estromissione del
convenuto originario, perché è difficile immaginare la chiamata del terzo senza contemporaneo
esercizio di un’azione di condanna nei suoi confronti. Nell’ipotesi in cui l’estromissione è ammessa,
il garante ha pienezza di poteri processuali, proprio perché riceve l’investitura non della legge, ma
dalle parti originarie, così che fa sua la posizione e l’attività processuale del garantito.
L’intervento iussu judicis:
L’articolo 107 prevede che il giudice quando ritiene opportuno che il processo si svolga in
confronto di un terzo al quale la causa è comune, ne ordina l’intervento. Tale norma si presenta
come una valvola di sicurezza del sistema, perché concede al giudice un potere che egli può
esercitare per porre rimedio alle imprevedibili situazioni del processo, che sfuggono a ogni precisa
disciplina. Se questo è lo scopo ultimo della norma, è anche chiara l’estrema difficoltà di definirne
con precisione il campo di applicazione. La difficoltà è ancora maggiore perché lo strumento creato
dal legislatore è in contrasto con il principio della domanda, che è uno dei principi fondamentali del
processo.
Il punto chiave di tale norma sta nell’espressione causa comune. Sappiamo già del dibattito che vi è
stato in merito a tale espressione. Nei tempi recenti prevale l’idea che l’intervento iussu judicis sia
idoneo ad operare come veicolo di allargamento dell’assetto soltanto soggettivo del giudizio. Si
sono così individuati tre settori nel cui ambito è possibile trovare spazio applicativo all’istituto:
rapporti alternativi, pregiudiziali e dipendenti.
I rapporti alternativi possono costituire un luogo di applicazione dell’articolo 107. È il caso in cui il
convenuto dichiara che altri è il reale destinatario degli effetti del provvedimento richiesto.
Rapporti pregiudiziali: esempio: controversie tra datore di lavoro ed ente previdenziale aventi ad
oggetto il versamento dei contributi. Alcuni giudici, in tale ambito, hanno fatto uso del
litisconsorzio necessario, cui non si fa riferimento in queste occasioni. In virtù delle nuove esigenze
del processo (effettività della tutela e ragionevole durata del processo) è possibile trovare ambito
applicativo all’articolo 107 anche nei rapporti pregiudiziali. C’è solamente da augurarsi, trattandosi
di un potere che deve essere deliberato alla luce delle esigenze di opportunità, che i giudici sappiano
farne uso appropriato.
Rapporto giuridico dipendente: taluno ritiene che questo sarebbe l'unico campo di applicazione
della norma, perché soltanto in questo caso il terzo sarebbe chiamato non per iniziare nei suoi
confronti una causa, ma per estendere nei suoi confronti gli effetti della sentenza. In tal modo
verrebbe fatto salvo il principio della domanda. Questa impostazione non può essere condivisa.
Disciplina processuale della chiamata: i punti essenziali sono i seguenti: mentre nell’ipotesi prevista
dall’articolo 106 la valutazione dell’opportunità che il processo si svolga nei confronti anche del
terzo è successiva, in quella prevista dal 107 essa è preventiva; la chiamata è sempre un atto di
parte, in forma di citazione; la chiamata per ordine del giudice può essere disposta in ogni momento
dal giudice istruttore; se nessuna delle parti originarie chiama il terzo nel termine fissato dal
giudice, si ha cancellazione della causa dal ruolo e non l’estinzione, poiché la prima consente la
riassunzione del processo entro tre mesi purché si citi anche il terzo. È evidente che il giudice
ordina di chiamare il terzo, ma spetta alla parte di dare un contenuto alla chiamata. Il terzo non
subisce preclusione dalla fase processuale già svolta, infatti l’udienza per la quale è chiamato e per
lui di prima comparizione. Pertanto non viene meno perché chiamato il potere di disporre dei propri
diritti.
Le preclusioni
Come sappiamo, il processo si caratterizza per l’esistenza di determinati collegamenti tra un atto e
un altro nella serie. L’elemento di collegamento di più immediata evidenza è il termine. Ma la
sequenza degli atti può derivare oltre che dall’essere cronologicamente fissata secondo linee di
sviluppo, anche dall’essere logicamente coordinata. A questa seconda possibilità si fa riferimento
quando si parla delle preclusioni. Si ha preclusione tutte le volte in cui un determinato
comportamento non può essere più tenuto da un soggetto, perché è incompatibile con un suo
comportamento precedente o perché egli ha già validamente esercitato la relativa facoltà. In
particolare, nel campo del processo, tutte le volte che un soggetto processuale ha l’onere di
compiere più atti, entro un arco di tempo determinato e nell'ambito di una sequenza disciplinata
unitariamente, il legislatore si preoccupa che questi comportamenti siano coerenti tra loro. Di
conseguenza, quando manchi la coerenza o quando fra due o più atti della serie ci sia
incompatibilità, l’atto successivo non può essere compiuto e, qualora sia compiuto, non può essere
preso in considerazione. Nell’ampio genere della preclusione sono individuabili due specie: le
preclusioni in senso stretto e l’inutile decorso dei termini, che dà luogo alla decadenza. Le
preclusioni e i termini consentono di collegare tra loro gli atti del processo, in maniera tale da
permettere che fra un atto e l’altro vi siano la sufficiente elasticità temporale e la logica congruenza.
Secondo l’articolo 324 si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a
regolamento di competenza, né ad appello, ricorso per cassazione, né a revocazione per motivo di
cui ai numeri 4 e 5 dell’articolo 395.(Nonostante ciò il codice disciplina mezzi di impugnazione
straordinari che possono essere proposti anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza). È
indubbio, però, che il giudicato presuppone una certezza stabile, non immutabile. Pertanto possiamo
dire che l’efficacia delle decisioni giudiziali acquista una particolare stabilità, quando non siano più
esperibili o quando siano stati sperimentati i mezzi di impugnazione ordinaria. Questa stabilità
finisce con l’essere una qualità degli effetti della sentenza. Il passare in giudicato esprime come e
quando l’efficacia della sentenza acquista il grado di stabilità che è il massimo consentito in un
ordinamento in un determinato momento storico. Il prodotto o il risultato di questo meccanismo si
proietta in due direzioni, perché da un lato scolpisce una legge del processo secondo la quale sulla
questione non solo non è più possibile l’intervento ulteriore del giudice che ha deciso ma non è
consentito l’intervento di alcun altro giudice; dall’altro lato individua la legge del rapporto
controverso che da quel momento è costituita dalla decisione giudiziale. Questo secondo aspetto è
previsto dall’articolo 2909 codice civile secondo il quale l’accertamento contenuto nella sentenza
passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.
Sta di fatto che non sempre il processo o una sua fase si conclude con una pronuncia sul merito.
Abbiamo visto la possibilità che il giudice emani sentenze sulla validità della domanda o sulla
capacità delle parti. Anche queste sentenze processuali, ove non siano più impugnabili, passano in
giudicato. Ma come va inteso questo giudicato: come giudicato formale o come giudicato anche
sostanziale? La risposta è condizionata dalle premesse: chi vede come qualità necessaria e costante
delle sentenze il loro carattere innovativo rispetto all’ordinamento giuridico è portato ad escludere
che tali decisioni abbiano valore di giudicato sostanziale; chi, al contrario, identifica il giudicato con
la preclusione insita nell’accertamento giudiziale, svaluta il problema, giacché l’effetto preclusivo e
presente anche nelle sentenze a contenuto processuale.
Non sempre, poi, il processo o la fase processuale si chiude con la sentenza. I procedimenti
monitori, quelli di convalida, i procedimenti cautelari e di volontaria giurisdizione, il procedimento
sommario di cognizione e gli stessi processi esecutivi si chiudono con provvedimenti formalmente
diversi, decreti e ordinanze, ai quali si applicano regimi processuali diversificati.
Resta il problema della rilevabilità o no d’ufficio dell’esistenza di un precedente giudicato.
Purtroppo anche su questo. La legge nulla dispone. Un chiarimento ci è stato dato dalla suprema
corte, sezioni unite, secondo la quale il giudicato può essere rilevato d’ufficio in ogni caso.
I TERMINI
L’altro mezzo, che il legislatore ha a disposizione per dare ordine al procedimento, è il termine. La
funzione del termine è duplice: mantenere le attività processuali sufficientemente concentrate;
offrire ai soggetti processuali uno spatium temporis sufficiente per poter adeguatamente compiere
gli atti di loro pertinenza. Quando prevale la prima funzione, il termine è congegnato in modo che
l’attività processuale non può compiersi dopo un determinato momento. Quando prevale la seconda
funzione, il termine è disciplinato in modo che l’attività processuale non può compiersi prima di un
determinato momento. Nel primo caso, il termine si dice acceleratorio o finale, nel secondo si dice
dilatorio. Nel primo caso, l’inutile decorso del termine comporta decadenza; nel secondo,
l’intempestivo compimento dell’atto comporta irricevibilità dello stesso. I termini finali si
distinguono in termini perentori e ordinatori. I primi sono stabiliti a pena di decadenza, per cui
l’attività processuale non può essere compiuta dopo che essi siano scaduti e, se è compiuta, è
assolutamente nulla; in considerazione della gravità della sanzione, la legge vuole che il termine sia
perentorio soltanto se ciò è espressamente prevista dalla legge. I secondi sono, invece, prorogabili
per una durata non superiore al termine originario e, per motivi particolari, anche una seconda volta
purché il provvedimento di proroga sia anteriore alla scadenza del termine. Si ritiene che il
compimento dell'atto dopo la scadenza o dopo la proroga del termine dà luogo a una nullità relativa,
rilevabile su eccezione della parte. La legge prevede altri termini alla cui osservanza non sono
collegate decadenze, ma effetti minori: prendono il nome di termini comminatori (maggiore carico
di spese).
Il legislatore avrebbe potuto affidare al giudice il compito di stabilire, in relazione alle specifiche
esigenze del singolo processo, la natura dei termini e la loro concreta durata. Non è la scelta del
nostro codice che non ha fiducia nel corretto esercizio del potere discrezionale da parte del giudice e
teme che tale discrezionalità si possa tradurre in una disparità di trattamento.
La remissione in termini
Il buon governo dei termini processuali è uno strumento indispensabile per la corretta conduzione
del processo e, in definitiva, per una razionale erogazione della giustizia. In questa prospettiva, le
decadenze collegate all’inutile decorso del termine fissato dalla legge o dal giudice sono una dura
lex, della quale però non è possibile fare a meno. Nell’epoca attuale, tuttavia, ci si è chiesti se il
concreto esercizio del diritto di difesa possa venire meno quando la decadenza sia l’effetto del
mancato rispetto di un termine dovuto a cause non imputabili alla parte. Il legislatore è venuto
incontro a tali esigenze prevedendo nell’articolo 45, 19º comma, della legge 69/2009 che: la parte
incorsa in decadenze per mancato rispetto di un qualsiasi termine perentorio può chiedere di essere
rimessa in termini, dimostrando la causa non imputabile. In questo modo, ovviamente, non è detto
che si sia sicuri dell’avvenuta formazione del giudicato, perché vi è sempre la possibilità che
l’interessato rimetta tutto in discussione dimostrando di non aver potuto proporre l’impugnazione
tempestiva per causa non imputabile. Ovviamente, l'introduzione di questa normativa ha creato
delle problematiche. Innanzitutto bisogna stabilire qual è il giudice competente quando l'istanza non
è proposta durante l'istruzione: bisogna stabilire se l'istanza debba essere presentata al giudice che
ha emesso il provvedimento o al giudice destinatario dell’impugnazione. Tale dubbio si risolve a
favore del giudice destinatario dell’impugnazione. Quanto alla forma dell’istanza: si ritiene che la
stessa si debba proporre con ricorso e che il giudice debba disporre l’udienza per la comparizione
delle parti, dando all’istante il termine per la notificazione. Nulla è previsto in merito ai termini e al
regime del procedimento. Quanto ai primi, non essendo possibile che la remissione possa essere
richiesta sempre, bisogna cercare un termine ragionevole. Il legislatore, infine, non fornisce alcuna
indicazione su ciò che costituisce causa non imputabile alla parte. L’individuazione va fatta caso per
caso ed è inevitabilmente è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.
I provvedimenti
Secondo l’articolo 131 la legge prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o
decreto. In mancanza di tali prescrizioni, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea
raggiungimento dello scopo. Tale norma ci dice che: normalmente il giudice provvede in forme
tipiche; eccezionalmente possono verificarsi ipotesi in cui non è prevista la forma del
provvedimento, in relazione alle quali il giudice sceglie liberamente la stessa adeguandola allo
scopo dell’atto. La dottrina assoggetta l’articolo 131 secondo comma ad interpretatio abrogans. La
legge, infatti, fissa i modelli o gli schemi dei provvedimenti con cura e precisione maggiori di
quanto non faccia per i modelli o gli schemi degli atti di parte. Il modello della sentenza è descritto
nell’art. 132, quello dell’ordinanza nell’art. 134, e quella del decreto nell’art. 135. Si tratta anche
qui di requisiti di contenuto forma che poi vanno riempiti in relazione alle concrete vicende del
processo. Il legislatore, inoltre, stabilisce in quali casi il giudice emette sentenza, ordinanza o
decreto. Il legislatore, poi, ha anche stabilito qual è il regime giuridico di ogni tipologia di
provvedimento: la sentenza è impugnabile ed è idonea a divenire immutabile passando in giudicato;
l’ordinanza, che deve essere motivata, è essenzialmente revocabile e modificabile; il decreto, che
non sembra dover essere munito necessariamente di motivazione, è assoggettato a un regime non
unitario che la legge di volta in volta si preoccupa di fissare. La linearità del disegno originario è
tuttavia stata compromessa dalle recenti riforme: così, le ordinanze in tema di competenza sono
impugnabili con il regolamento di competenza e quelle emesse a conclusione del procedimento
sommario sono appellabili. Se si tengono presenti questi dati appare chiaro che lasciare al giudice la
possibilità di creare un diverso tipo di provvedimento avrebbe comportato la necessità di prevedere
quale regime giuridico fosse ad esso applicabile, così come lasciargli la possibilità di scegliere tra
un tipo e l’altro avrebbe significato lasciare al giudice il potere di stabilire di volta in volta quale
fosse il regime dell’atto con rischio di mettere in forse la tutela delle parti e di alterare il principio
del trattamento paritario.
Comunicazioni e Notificazioni
Gli atti processuali sono normalmente recettizi e, quindi, la loro comunicazione ai destinatari è
essenziale al perfezionarsi dei medesimi. Gli atti compiuti in contraddittorio in udienza si intendono
conosciuti dalle parti. Per gli atti scritti la legge prevede, talvolta, la comunicazione mediante
consegna diretta di copia o a mezzo degli uffici giudiziari. Altre volte la legge prescrive la necessità
della notificazione.
La comunicazione è l’atto con il quale il cancelliere dà notizia di atti o di fatti processuali al p.m.,
alle parti, al consulente, agli altri ausiliari del giudice e ai testimoni, e cioè di quei provvedimenti
per i quali è disposta dalla legge tale forma abbreviata di comunicazione. Le comunicazioni sono
stabilite dalla legge o dal giudice. Il biglietto di cancelleria viene portato a conoscenza del
destinatario o con consegna effettuata dalla cancelleria al destinatario stesso, o mediante l’utilizzo
della posta elettronica certificata, o mediante telefax. Le caratteristiche della comunicazione sono:
che proviene sempre dal cancelliere; che il suo contenuto si concreti una notizia abbreviata
dell’atto, anche se deve sempre risultare il testo integrale del provvedimento comunicato.
La notificazione si distingue dalla comunicazione perché può provenire anche dalle parti e dal
pubblico ministero e perché ha per oggetto la copia conforme dell’atto.
Bisogna distinguere la notificazione degli atti di parte, che è imposta dalla natura recettizia dell’atto
per cui non produce effetti prima di essa, da quella di atti non provenienti dalla parte, i quali, non
essendo recettizi, sono notificati non per essere portati a conoscenza dell’altra parte ma per fini
diversi. inoltre il legislatore ha distinto il momento della consegna dell’atto, rilevante per tenere
indenne da decadenza il soggetto notificante, da quello della ricezione rilevante per il destinatario.
La forma di notificazione che realizza senza possibilità di equivoci o di dubbi lo scopo è quella a
mani proprie: l’ufficiale giudiziario deve ricercare la residenza, dimora e domicilio. Alle persone
giuridiche, la notificazione viene eseguita a mano di persona addetta nella sede della persona
ovvero al portiere dello stabile. Quando il destinatario non risieda ne dimori ne domicili nel
territorio della Repubblica ovvero quando si tratti di persona che ha residenza, dimora o domicilio
sconosciuti si ha un procedimento complesso descritto negli articoli 142 e 143 e la legge dispone
che la notificazione sia perseguita nel 20º giorno successivo a quello in cui sono compiute le
formalità prescritte. L’articolo 144 disciplina le notificazioni alle amministrazioni dello Stato che
vanno fatte presso l’ufficio dell’avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria
adita. Per la notificazione a militari in servizi è previsto che questa possa verificarsi per mezzo del
servizio postale. L’articolo 160 prevede che la notificazione è nulla se non sono osservate le
disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia o se vi è incertezza assoluta
sulla persona cui è fatta o sulla data. A queste cause di nullità va sommata la carenza di
legittimazione dell’ufficiale giudiziario.
LA NULLITA’ DEGLI ATTI PROCESSUALI
La disciplina dell’invalidità degli atti processuali ha caratteri del tutto specifici e peculiari. Le
esigenze di certezza hanno imposto che si sia data importanza al requisito della forma, intesa in
senso molto più ampio di quanto avviene nel campo del diritto sostanziale. L'esigenza di stabilità
poi ha avuto decisiva influenza sul regime degli atti. C’è innanzitutto il bisogno che l’atto
processuale sia immediatamente produttivo degli effetti tipici e che qualora presenti qualche vizio la
vicenda relativa alla sua invalidazione si chiude in tempi assai brevi. Ciò comporta che nel processo
non può avere ingresso una disciplina ritagliata su quella della nullità dei negozi che è basata sul
principio di inidoneità degli atti nulli a produrre effetti e sulla deducibilità del vizio in ogni tempo.
Il modello base è perciò quello dell’annullabilità che si coordina a quello di un atto che pur se
viziato è idoneo a produrre effetti. La concatenazione degli atti nel processo impone, poi, di stabilire
quale sia il regime dell'atto posto in essere fuori dalla sequenza logica o temporale fissata dalla
legge. Si dice, infatti, che nel concetto di forma deve includersi anche il rispetto di detta sequenza.
Il fatto è che non sempre l’atto processuale è un atto ben individuato. Se prendiamo in
considerazione un atto complesso, cioè un atto costituito da una sintesi di vari atti, avremo che: se
non viene seguito l'ordine logico o temporale all'interno del processo di formazione dell'atto
complesso o dello svolgimento del subprocedimento, il vizio dell’atto conclusivo è un vizio di
forma. Diversamente avviene se la sequenza non è rispettata tra atti dotati di piena autonomia: qui,
infatti, lo sviluppo procedimentale fa sì che l'atto precedente si ponga come presupposto dell'atto o
degli atti successivi, cosicché il mancato rispetto dell'ordine legale si ripercuote in una invalidità di
tipo extraformale, Che spesso ha una sua specifica disciplina e che, in mancanza di disciplina trova
negli articoli 156 e seguenti un criterio di valutazione utilizzabile per via di procedimento estensivo.
Quando, infine, la legge dispone che l’atto processuale deve rispettare un termine prefissato, finisce
con l’imporre un ulteriore modalità formale per il compimento dell’atto. Anche in questo caso si
parla dell’atto, che non ha rispettato il termine, come di un atto nullo.
Atto processuale: È da ritenere atto processuale non solo quello compiuto nel corso del processo,
ma pure quello che contribuisce al suo concreto svolgimento, qualunque sia la sede in cui è
compiuto. Il delicato compito del legislatore è perciò stato quello di individuare le forme veramente
essenziali e di collegare a queste le sanzioni dell’invalidità.
Art. 156 co 1 prevede il principio della tassatività delle nullità: non può essere pronunciata la
nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo se la nullità non è comminata dalla
legge. Ciò vuol dire che non tutte le deviazioni dell'atto dal suo modello legale comportano nullità,
vi sono anche vizi che determinano semplice irregolarità priva di significative conseguenze. Nelle
sue enunciazioni il legislatore mostra di avere ben presente la differenza tra forma indispensabile e
formalismo inutile e dannoso, quando sancisce: che nonostante la mancanza di un’esplicita
previsione di nullità, questa può essere ugualmente pronunciata se l’atto manca di requisiti
indispensabili per il raggiungimento dello scopo; che, anche in mancanza di requisiti formali
indispensabili, essa non può essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato (art.
156 co. 2 e 3). Lo scopo diviene, in questo modo, il parametro cui occorre fare riferimento per
saggiare la validità dell’atto: ciò vuol dire che un elemento sostanziale prende il sopravvento sul
dato meramente formale.
La legge distingue la nullità rilevabile d’ufficio dalla nullità rilevabile su eccezione di parte fissando
la regola fondamentale secondo la quale le nullità rilevabili d’ufficio sono tassative e tipiche, ossia
devono essere espressamente previste dalla legge, mentre le altre nullità sono rilevabili soltanto su
eccezioni di parte (art. 157). I commi 2 e 3 dell’articolo 157 fissano quattro condizioni perché possa
essere dichiarata la nullità rilevabile ad istanza di parte: che l’eccezione sia proposta dalla parte nel
cui interesse è stabilito il requisito mancante; che l’eccezione sia proposta nella prima istanza o
difesa successiva all’atto o alla notizia di esso; che la parte interessata al rilievo della nullità non vi
abbia dato causa; che la stessa non abbia rinunciato anche tacitamente a proporla.
L’articolo 159 completa la disciplina sulla rilevabilità della nullità, applicando il principio utile per
inutile non vitiatur. in tal modo: la nullità di un atto non comporta quella degli atti precedenti né di
quelli successivi che ne sono indipendenti; se il vizio impedisce un determinato effetto, l’atto può
tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è idoneo.
Un discorso a parte meritano gli articoli 158 e 161. Il primo, infatti, disciplina una nullità
extraformale, quale è quella che deriva da vizi relativi alla costituzione del giudice o all'intervento
del pm. Il secondo disciplina le nullità della sentenza, dettando la regola fondamentale secondo cui
ogni nullità, che si sia verificata nel corso del processo e che non si sia sanata attraverso i
meccanismi endoprocessuali disposti dal codice, si trasforma in motivo di impugnazione. Ciò vuol
dire che qualsiasi nullità, anche quella che l’articolo 158 dichiara insanabile e rilevabile d’ufficio,
non resiste al fenomeno del passaggio in giudicato che si ha quando non è proposta tempestiva
impugnazione. L’unica eccezione è quella dell’articolo 161 co. 2 dove si legge che il principio della
trasformazione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione non si applica quando la sentenza
manca della sottoscrizione del giudice.
Si verifica irregolarità nelle ipotesi in cui il vizio riguardi un elemento o un requisito dell'atto, che
non sia previsto a pena di nullità. In questi casi l'atto è invalido, ma la parte deve sollecitare il
giudice a fare uso dei suoi poteri di regolarizzazione per evitare che la situazione possa degenerare e
portare a conseguenze processuali dannose.