La lunga stagione della conquiste romane prese avvio dall’Italia centrale, attraverso l’annessione
dei territori dei popoli italici confinanti (Latini, Equi, Volsci, Sabini); proseguì con la sconfitta degli
Etruschi che occupavano l’Italia centro-settentrionale (fondamentale fu la vittoria nella battaglia di
Veio nel 397, che assicurò a Roma il controllo della via del sale); mentre in Italia meridionale
decisive furono la vittoria al termine delle tre Guerre Sannitiche e la presa di Taranto in seguito
alla sconfitta dell’esercito di Pirro, re dell’Epiro.
Ai territori conquistati Roma diede un’organizzazione molto diversificata, assegnando a
ciascuno di essi uno stato giuridico diverso, a seconda della loro importanza in chiave politica ed
economica. Si distinguevano gli alleati latini (i popoli confinanti con Roma), gli alleati italici e i
municipi. Gli alleati (socii, dal sostantivo della II declinazione socius) dovevano a garantire a
Roma sia un contributo militare (navi e soldati) che economico (tributi). Agli alleati latini, tuttavia,
era riconosciuto il diritto di poter avere degli scambi commerciali e in seguito e potersi unire in
matrimonio con cittadini romani. I municipi erano comunità fondate in varie parti della penisola,
che avevano maggiori o minori diritti. Questa organizzazione, che si fondava diritti e doveri,
privilegi e restrizioni diversi a seconda del contesto, aveva lo scopo di integrare i popoli conquistati
in un dominio unitario.
LE GUERRE PUNICHE (264-146 a. C.)
I successi militari avevano portato alla Repubblica una grande quantità di ricchezze, dovute in
buona parte allo sfruttamento economico delle province e all’apertura di nuove rotte commerciali
nel Mediterraneo. A trarre vantaggio da questo nuovo scenario fu sia la classe dei senatori (a cui
bisognava appartenere per essere eletti proconsoli e governatori), sia quella, in forte ascesa, dei
cavalieri (equites), che si erano arricchiti grazie ai commerci con le province. Al contrario, la plebe
aveva subito le conseguenze di una lunga stagione di conflitti: molti piccoli proprietari erano infatti
rimasti senza terra, contraendo dei debiti che non erano in grado di estinguere.
Questo portò a una situazione di forte malcontento sociale, in cui si vennero a creare due fazioni
politiche che muovevano da idee e obiettivi contrapposti. Da un lato, gli optimates miravano a
difendere i privilegi della nobilitas e a impedire agli equites l’accesso al Senato; mentre dall’altro i
populares intendevano porre fine alla diseguaglianza sociale. Il punto cardine del loro
“programma” era una riforma agraria che avrebbe assegnato ai più poveri i territori di proprietà
della Repubblica.
Si schierarono con i populares i fratelli Tiberio Gracco e Caio Gracco, due giovani nobili che
si fecero eleggere a distanza di pochi anni tribuni della plebe. Entrambi cercarono di farsi promotori
di una serie di iniziative (tra cui, oltre alla riforma agraria, c’era anche la legge che avrebbe
permesso ai cavalieri di accedere al Senato), ottenendo un vasto consenso popolare. Si trovarono
però di fronte alla violenta reazione degli optimates: lo scontro tra le due parti portò Roma sull’orlo
della guerra civile. L’esperienza dei due Gracchi si concluse in modo tragico, con la morte per
assassinio politico del primo (nel 133 a. C.) e per suicidio del secondo (121 a. C.).
Félix Auvray, Morte di Gaio Gracco
CRISI E FINE DELLA REPUBBLICA (120-31 d. C.)
Nel I secolo a. C si apre dunque una fase di crisi delle istituzioni repubblicane che porterà alla fine
della Repubblica e alla nascita dell’Impero. La crisi fu dovuta principalmente dovuta al conflitto
sociale tra optimates e populares e al problema della concessione della cittadinanza (civitas) agli
italici (vedi sopra: le popolazioni italiane sotto il dominio di Roma): questi, infatti, fornivano
uomini, navi e risorse economiche e avevano avuto una parte fondamentale nei successi militari dei
Romani. Chiedevano pertanto di ottenere la civitas cum suffragio (cittadinanza con diritto di voto)
nonché altri privilegi che avrebbero reso più equo il rapporto con Roma.
Mario vs Silla
Un altro fattore decisivo nel determinare la crisi fu la riforma dell’esercito voluta da Mario, un
grande generale che si era affermato anche come leader dei populares. Per togliere dalla miseria la
plebe romana Mario cambiò la composizione delle legioni, che per la prima volta furono composte
anche dai nullatenenti. Allo stesso tempo l’arruolamento nell’esercito non fu più obbligatorio ma
volontario; mentre il servizio militare fu regolato da un compenso e da un numero di anni di
permanenza: diventò, insomma, una carriera professionale a tutti gli effetti. Le conseguenze
furono immediate, e portarono dei grandi cambiamenti: i soldati videro infatti la guerra unicamente
come un mezzo per arricchirsi e si legarono con un rapporto di fedeltà al loro generale, facendo
dell’esercito repubblicano un insieme di milizie private. Questo accrebbe di molto l’autorità e il
prestigio dei generali, a scapito del Senato e della nobilitas.
Mario fu il primo ad approfittarne, ponendosi alla guida dell’esercito in vittoriose spedizioni,
dentro e fuori d’Italia (su tutte: la guerra contro Giugurta, re della Numidia; la guerra sociale che
oppose Roma agli alleati italici che rivendicavano l’autonomia). Il grande consenso di cui godeva
spostò il potere politico nelle mani dei populares. A Mario, però, si oppose Silla, uno dei suoi
luogotenenti nonché il leader del partito aristocratico, che aveva avuto un ruolo decisivo nella
guerra contro gli italici. Ne scaturì un conflitto civile (88-82 a. C.), che vide il successo di Silla
(anche grazie alla morte di Mario nell’86 a. VC), il quale nell’82 si fece nominare dittatore a
tempo indeterminato e approvò una serie di leggi per limitare il potere dell’esercito e restituire
autorità al Senato.
Dal triumvirato alla guerra civile tra Pompeo e Cesare (58-45 a. C.)
Pompeo e Cesare ambivano entrambi ad avere il controllo della politica romana: era dunque
inevitabile che fra entrambi nascesse una forte rivalità.
La strategia di Cesare fu quella di farsi assegnare il comando delle legioni stanziate in Gallia, un
territorio abitato in buona parte da popolazioni di origine celtica che fino ad allora avevano resistito
alle mire espansionistiche di Roma. Seppure non autorizzato dal Senato, Cesare seppe sfruttare a
suo vantaggio il pretesto della “guerra difensiva” (gli Elvezi avevano aggredito le altre popolazioni
galliche, che avevano richiesto l’aiuto dei Romani) per avviare nel 58 a. C. una spedizione militare
che si concluse nel 49 a. C., assicurando a Roma il dominio su tutta la Gallia e su parte della
Britannia.
L’eco dell’impresa arrivò fino in patria, procurando a Cesare una grande popolarità. Intimoriti
dai suoi successi, Pompeo e il Senato decisero di richiamare Cesare a Roma, intimandogli di
scegliere tra il comando delle legioni in Gallia e la candidatura al consolato, che gli avrebbe
imposto di tornare a Roma come semplice cittadino e non come generale vittorioso (secondo il
diritto romano, i militari erano tenuti a dimettersi dall’esercito per essere eletti nelle magistrature).
Cesare decise così di lasciare la Gallia, varcando con l’esercito il confine del Rubicone (un
fiume che segnava il confine tra le province italiche e la Gallia Cisalpina) e marciando fino a Roma.
A Pompeo non restò che fuggire in Grecia, organizzando un proprio esercito personale.
Dal 49 al 45 a. C., Roma fu sconvolta dalla guerra civile tra pompeiani e cesariani. La
situazione si volse fin da subito a favore di Cesare: l’esercito pompeiano fu sconfitto nella storica
battaglia di Farsalo. Pompeo si diede alla fuga raggiungendo l’Egitto, dove fu fatto uccidere a
tradimento.
Padrone incontrastato della scena, Ottaviano si fece proclamare princeps senatus (cioè “primo tra i
senatori”) e Cesare Augusto (Augustus ovvero “venerabile”, “colui che aumenta il benessere dei
suoi cittadini” dal verbo latino augeo, “aumento, accresco” ). Era una svolta che in realtà
proseguiva la linea politica di Cesare, con l’accentramento di tutti i poteri nelle mani di un solo
uomo: questa volta, però, il Senato appoggiò l’operato di Augusto, che si poneva come garante della
pax, di una nuova stagione di pace che avrebbe messo fine a un secolo di guerre civili. La
Repubblica era ormai diventata una monarchia, il cui dominio si estendeva su tutto il Mediterraneo
e su una parte dell’Oriente.
Dal 23 al 12 a. C., Augusto fu proclamato comandante supremo dell’esercito, tribuno della plebe
e pontefice massimo. Per evitare tuttavia di suscitare nuove tensioni, Augusto governò con
prudenza, attuando una politica di equilibrio tra i poteri che privilegiò in eguale misura sia i senatori
che i cavalieri.
Per amministrare un Impero tanto vasto, Augusto approvò una nuova organizzazione delle
province, che furono divise in due tipi, senatorie e imperiali; rafforzò inoltre i confini sul Reno e
sul Danubio, senza impegnarsi in guerre di conquista; promosse una importante riforma
dell’esercito, concedendo ai veterani delle terre e una ricompensa in denaro alla fine del servizio
militare. Per limitare il potere dei generali, spostò frequentemente gli ufficiali da un reparto
all’altro, in modo che tra loro e le milizie non si creasse nessun rapporto di fedeltà.
La pax Augustea fu il punto di avvio della “romanizzazione” della civiltà mediterranea, con la
diffusione internazionale della lingua e della cultura latina che per il momento si affiancò a quella
greca. Decisiva fu, in tal senso, l’opera di propaganda culturale che Augusto compì grazie alla
mediazione di Mecenate (uno dei suoi più stretti collaboratori), il quale promosse l’attività di
grandi poeti come Virgilio, Orazio e Ovidio. L’Eneide di Virgilio fu il grande poema che, fondendo
i due modelli greci dell’Iliade e dell’Odissea, celebrò le origini della grandezza di Roma.