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Metodo e linguaggio

Obiettivi
Questa riflessione intende esplorare il ruolo del linguaggio nel
metodo delle scienze sociali. La tesi che si cercherà di esporre è
che

1. L’AGIRE SOCIALE È ESSENZIALMENTE LINGUAGGIO,

e poiché

2. LA RICERCA SOCIALE È UNA FORMA DI AZIONE SOCIALE,

ne consegue che

3. IL LINGUAGGIO CONNOTA IN GRANDE PROFONDITÀ IL METODO.

Ciò che si intende discutere qui è l’insieme di conseguenze


operative che segue al sillogismo 1-3. In particolare

4. L’OGGETTO DELLA RICERCA SOCIALE E IL SUO METODO SONO LO STESSO LINGUAGGIO,

ma a causa delle sue proprietà (vaghezza, indicalità…)

5. NON SOLO È OPACO L’OGGETTO, MA LO È ANCHE IL METODO, RENDENDO PROBLEMATICO


QUALUNQUE APPROCCIO CONOSCITIVO ALLA REALTÀ SOCIALE.

Il linguaggio, in questa prospettiva, è sia l’oggetto di studio che lo


strumento col quale indagarlo. Questa unicità è speculare a quella
che vede lo scienziato sociale membro della comunità che studia (a
differenza del biologo o dell’astronomo), ma è assai più cogente; se
infatti è possibile immaginare un distacco, una separazione - per
quanto artificiosa e fragile - fra l’individuo osservante e la sua
comunità osservata, ciò è assolutamente impossibile
nell’equivalenza 4. da noi proposta. Nel secondo caso, il fatto
stesso di poter immaginare tale distacco rivela un elemento anti-
ontologico (come vedremo assai in linea col pensiero di Weber e di
altri dai quali inizieremo la nostra riflessione) che, anche depurato
dalle ingenuità positiviste1, rende possibile ipotizzare l’esistenza di
ciò che chiamiamo “metodo”, col suo apparato di tecniche e
procedure, in qualche modo separato e distaccato dalla realtà
indagata. Nella tesi qui esposta tutto questo non è più possibile.
Cosa resta del metodo, se esso è fatto della stessa sostanza dei
sogni?

Tutto ciò ha retroazioni rilevanti a livello epistemologico, sui modi, i


termini e i limiti del conoscere, sulle prospettive interazionali e
sociali che interessano gli scienziati sociali come sui metodi
realmente disponibili per approfondire tali prospettive, ciò che
interessa più i metodologi.

Per discutere la nostra tesi abbiamo bisogno di fare alcune


digressioni. Per esempio, se

3. IL LINGUAGGIO CONNOTA IN GRANDE PROFONDITÀ IL METODO,

1 Tale depurazione è possibile solo a patto di una scelta “scolastica” preliminare. Al di là delle etichette
(quella di “positivismo” non è più attuale neppure nella forma “neo-positivismo”) l’idea di un’oggettività
dell’agire sociale, di una sua “misurazione”, di un pensiero facilmente condivisibile da attori sociali diversi
solo perché - con qualche magia operativa - li si fa confluire su una dichiarazione artificiale, di una
controfattualità realmente disponibile alla conoscenza e molto altro, tutto questo è vivo e vegeto oggi,
mentre cerchiamo di ragionare su qualunque altra prospettiva gnoseologica. Per un’ampia discussione si
veda Alberto Marradi, Oltre il complesso d’inferiorità. Un'epistemologia per le scienze sociali, Franco Angeli,
Milano 2016.
dobbiamo soffermarci sul linguaggio matematico per verificare
come

3.1. IL LINGUAGGIO MATEMATICO È TOTALMENTE ANALOGO AL LINGUAGGIO ORDINARIO.

Se così non fosse, resterebbe uno spazio distinto e autonomo alle


procedure matematiche rendendo fragile e limitata la tesi 4.

Cercheremo di mostrare queste cinque tesi anche attraverso


esempi pratici. In questo procedere incontreremo anche gli
indicatori che saranno discussi in maniera approfondita fino a una
proposta specifica:

3.2. GLI INDICATORI SONO SEGNI LINGUISTICI CHE COSTITUISCONO L’ESSENZA OSSERVABILE
DELL’AGIRE SOCIALE.

La conclusione ci porterà a una proposta di natura epistemologica


e metodologica generale:

6. GLI APPROCCI DEDUTTIVI (SUL PIANO DELLE INFERENZE) E SINTATTICI (SUL PIANO
DELL’ANALISI LINGUISTICA) SONO INSUFFICIENTI PER L’ANALISI DELL’AZIONE SOCIALE.
L’ANALISI PRAGMATICA SEMBRA INVECE PERMETTERE ANALISI PIÙ FEDELI 2 E, SPECIALMENTE,
UTILI ALLA COMPRENSIONE DEI FENOMENI.

E’ bene chiarire che, malgrado l’approccio necessariamente


multidisciplinare di questa riflessione, essa non è una riflessione
filosofica, o linguistica, e neppure genericamente sociologica ma
eminentemente epistemologica e metodologica. La finalità esplicita
è il metodo, al quale gettare lo sguardo da una prospettiva nuova. I
riferimenti filosofici, linguistici e sociologici saranno pertanto limitati

2 Il concetto di ‘fedeltà’ è applicabile in questo contesto? Sì, crediamo, alla luce di osservazioni che si
faranno più avanti.
a quelli necessari per far comprendere al lettore le strade entro le
quali intendiamo muoverci.

1. Tutto è linguaggio
Tutto, assolutamente tutto quanto compone l’oggetto di studio
dello scienziato sociale è solamente linguaggio3. E’ così banale che
una volta detto sembra inutile, ma la verità è che siamo come i
pesci che non conoscono l’acqua, non ne hanno il concetto,
essendo l’acqua l’intero loro ovvio mondo.

Anche gli scienziati sociali, con poche e marginali eccezioni, non


concepiscono metodologicamente il ruolo del linguaggio4; non già
della comunicazione ma proprio del sistema di simboli, codici e
infine lingue con le quali esprimiamo l’intera possibile gamma di
esperienze umane.

Senza linguaggio non esisterebbe società umana5 ; il linguaggio


rappresenta il codice entro il quale e tramite il quale possiamo

3 L’idea che tutto sia linguaggio richiama alla mente il primo Wittgenstein del Tractatus, dal quale in realtà
più avanti ci discostiamo; altri riferimenti - anche pensando ai prossimi paragrafi - possono essere
l’Heidegger di Essere e tempo e il Gadamer di Verità e metodo. Probabilmente i riferimenti più importanti
non sono filosofici ma antropologici; Alessandro Duranti, con Antropologia del linguaggio, è certamente una
guida fondamentale. Poi Lacan. Worfh. La scuola di Oxford… In realtà questi e altri studiosi di discipline
differenti sono arrivati a conclusioni più o meno simili per ragioni differenti, all’interno di percorsi diversi. Il
richiamo in questa nota serve solo a ricordare la presenza di questa riflessione nel ‘900, indipendentemente
dagli obiettivi che aveva.
4 L’indifferenza degli scienziati sociali verso il linguaggio, e in particolare delle sue ripercussioni sul metodo,
mi pare un dato di fatto incontestabile. Sotto un profilo limitato - anche se rilevante - troviamo in realtà
importanti riflessioni sulla costruzione dei concetti che - dopo ovviamente Lazarsfeld e Boudon - ha visto in
Italia un lavoro importante e molteplice di Alberto Marradi (da Referenti, pensiero e linguaggio a Sai dire
cos’è una sedia? passando ovviamente per numerosi altri contributi) e altri. Ma queste riflessioni appaiono
sostanzialmente slegate dalle successive conseguenze operative tipiche del lavoro di ricerca; i questionari
si continuano a fare allo stesso modo, le elaborazioni dei dati con la stessa logica, i focus group con le
medesime aspettative…

5 Questo è ampiamente dimostrato sia a livello sociale che individuale. A livello sociale le tesi dello sviluppo
del linguaggio come fattore di sviluppo umano sono controverse (p.es. fra la teoria del “salto” di Chomsky e
quella di Bickerton sul protolinguaggio) si veda, per un compendio e una proposta ispirata alla linguistica di
Peirce, Terrence William Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di cervello e capacità linguistiche,
Giovanni Fioriti ed., 2001; Sul secondo piano si vedano soprattutto gli studi di Piaget, Vygotskij, Lurija. In
realtà i due piani si intersecano, come mostrano in particolare i lavori di Vygotskij e Lurija. Come è noto il
problema non riguarda la comunicazione (è noto che le società animali comunicano, anche in modo
complesso), ma un linguaggio evoluto capace di rappresentare concetti complessi e astratti.
rappresentarci come individui in una comunità, possiamo evolvere
come comunità, possiamo organizzarci socialmente.

Nulla esiste - di “sociale” - senza il linguaggio, intendendo ‘sociale’


in un senso più ampio dei comportamenti meramente animali (che
comunicano, certo, ma non “parlano”) entrando nel regno della
produzione culturale, artistica, normativa, economica e - in breve -
organizzativa, degli esseri umani.

L’attenzione alla dimensione linguistica è stata solitamente limitata


al suo essere una produzione umana fra le altre: gli individui,
emancipatisi dallo stato animale, hanno scoperto il fuoco, inventata
la ruota e costruito un primo codice linguistico per organizzare le
battute di caccia. Il linguaggio è quindi un oggetto di studio (come
l’arte, come il commercio, come l’agricoltura) e uno strumento di
lavoro (come l’arte, come il commercio, come l’agricoltura) e
raramente si percepisce la peculiarità del linguaggio che - a
differenza di qualunque altra invenzione umana - è l’elemento
basico, distintivo, di qualunque attività umana. Non possiamo
produrre oggetti artistici senza linguaggio, commerciare senza
linguaggio o coltivare i campi senza linguaggio, perché il linguaggio
è lo strumento tramite il quale individuiamo e formuliamo e
costruiamo i concetti alla base della nostra vita6; anche l’artista
solitario che dipinge nella sua stanzetta, deve elaborare dei concetti
trasformabili in linguaggio, senza il quale non potrebbe operare.

Nulla si compie se non s’apre bocca (Euripide, Supplici).

6La relazione fra concetti e linguaggio è fondamentale. Molte delle tesi qui sostenute sono come “sospese”
a una teoria dei concetti: come nascono, come si sviluppano, come sono legati al linguaggio. Com’è noto ci
sono varie tesi, ciascuna delle quali incompleta e criticabile da qualche punto di vista; una rassegna
particolarmente completa in Paolo Piccari, Pensare il mondo. Saggio sui concetti empirici, Franco Angeli,
Milano 2010.
Il quadro astratto, la poesia ermetica, ma in generale tutte le forme
d’arte, “comunicano” molto di più di quanto il linguaggio sappia
esprimere ma quel di più è la sensazione inesprimibile che rimane al
fruitore dell’opera d’arte7; così nella relazione amorosa, dove i “Ti
amo / Mi ami?” sono così inadeguati a esprimere sentimenti che
percepiamo essere di una profondità o addirittura di una natura così
“altra”8… ma appunto ci servono i poeti per esprimere tali
sentimenti. Il linguaggio ordinario fatica a connotare ma riesce
discretamente bene a denotare, e quindi ci è indispensabile per
collaborare come individui sociali.

Pensiamo ora agli scienziati sociali. Nella loro vita quotidiana come
nella loro pratica scientifica e professionale parlano. Il linguaggio è
l’unica fonte di conoscenza e l’unico strumento per conoscere.
Entrambe le cose, con una simmetria sulla quale torneremo. Noi
siamo quello che diciamo. Quello che non diciamo (perché non lo
sappiamo dire, perché non lo possiamo dire…) non esiste ai fini
sociali ma solo come più o meno vago sentimento inesprimibile.
Noi, conseguentemente, studiamo quello che si può esprimere e
niente altro. Ma per studiarlo dobbiamo utilizzare lo stesso codice
delle informazioni ricercate, a loro volta elaborate attraverso lo
stesso codice.

2. Il linguaggio matematico
I numeri sono linguaggio. Non già un linguaggio, ma quello stesso,
ordinario, col quale costruiamo il nostro agire sociale. Se riusciamo
ad argomentare questo elemento non avremo più una distinzione
radicale fra linguaggio ordinario (quello delle parole che utilizziamo
tutti i giorni) e linguaggio matematico, e potremo fare una proposta

7 Ciò che Benjamin chiamò aura (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica).

8Ronald Laing ha avuto una chiara visione di questo problema di incomunicabilità in molteplici opere. Se in
questo specifico caso il riferimento più ovvio è l’esilarante Mi ami? non posso non rammentare anche La
politica dell’esperienza.
sul metodo come linguaggio. Ora: che in generale quello
matematico sia “un linguaggio” è conoscenza comune, ma perché
lo sia e, soprattutto, perché lo sia non già come analogia ma
proprio in senso ristretto, questo non viene quasi mai esplicitato.
Per potere accostare in senso proprio il linguaggio ordinario e
quello matematico, occorre che i due linguaggi possiedano alcune
caratteristiche in comune, tali da poterli unire come classe,
mantenendo diversità di livello inferiore che li differenzino
eventualmente come sottoclassi (uso qui ‘classe’ e ‘sottoclasse’
non in senso specifico).

Le prime proprietà ad accumunare linguaggio ordinario e


matematico sono l’estensione e l’intensione. Anche i numeri, le
funzioni, i calcoli e ogni utilizzo della matematica hanno ovviamente
un’estensione e un’intensione, ma di natura particolare (che è
l’unica cosa che li differenzi realmente dal linguaggio ordinario).
L’intensione è sempre minima (le proprietà di ‘3’ o di ‘x=y2’ sono
legate alla funzione d’uso, e non a proprietà intrinseche) ma anche
l’estensione è sempre minima – diversamente da quanto accade nel
linguaggio ordinario – perché ‘3’ non significa “tutti i ‘3’ del mondo,
da ‘3 mele sulla mia tavola’ fino a ‘i 3 Re Magi’” ma solo e
semplicemente quel numero 3 che sto utilizzando in quel momento,
in quel contesto, in senso indicale (come stiamo per vedere). I
numeri hanno le proprietà dell’intensione e dell’estensione che si
comportano diversamente dal linguaggio ordinario dove, di regola,
maggiore è l’intensione e minore è l’estensione, e viceversa. E
perché in matematica queste estensioni sono entrambe minime?
Perché quello matematico è un linguaggio altamente formalizzato,
costruito appunto per superare i “qualche, un po’, abbastanza,
molti”, etc. Linguaggio formalizzato = minima estensione e
intensione.

Un’altra proprietà comune ai due linguaggi è l’indicalità9. Con


questo termine si segnala il fatto che il linguaggio ordinario,
notoriamente vago (concetto fondamentale introdotto da Russell nel
192310), si rende comprensibile ai parlanti grazie al fatto che fa
riferimenti a circostanze e oggetti noti e contestuali; alcune parole
sono marcatamente indicali. “io, tu, questo, quello, così…” ma a
livelli diversi tutto il discorso umano (tutto il linguaggio) è indicale in
quanto vago. Ebbene anche i numeri sono vaghi e perciò indicali. E
dal discorso precedente già si è capito: ‘3’ non significa
assolutamente nulla, esattamente come se io dicessi “G”. Ma
neppure ‘3 mele’ significa nulla, esattamente come se io dicessi
“Groenlandia”. Invece ‘Quelle 3 mele sul tavolo hanno un bel colore’
ha indubbiamente un significato, esattamente come “Mi piacerebbe
fare un viaggio in Groenlandia”, ma solo se siamo interessati a
quelle 3 mele e siamo in procinto di fare un viaggio in Groenlandia.

I numeri hanno la stessa vaghezza delle parole che si traduce con


una ugualmente forte indicalità, malgrado il discorso su intensione
ed estensione. Vediamo quindi che i numeri sono meri segni che –
al pari delle lettere – si combinano per formulare concetti. I numeri
sono concetti – quando non restano a mero livello segnico delle
cifre – esattamente come le parole, e possono formare concetti
matematici complessi esattamente come le parole possono

9 Nel campo delle scienze sociali l’indicalità è nota soprattutto per opera di Garfinkel e
dell’etnometodologia. Cfr. Harold Garfinkel, Studies in ethnomethodology, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-
Hall, 1967, e opere successive. Una buona presentazione generale in Barbara Sena, Etnometodologia e
sociologia in Garfinkel. L'indicalità inevitabile, Franco Angeli, Milano 2011. Qui noi intendiamo il termine in
senso originario come proposto da Peirce nella sezione semiotica delle “Opere”, Bompiani, Milano 2003.
Va segnalato che in Peirce l’indicalità riguarda gli indici, che sono uno dei tre segni linguistici assieme a
icone e simboli; ciò che Peirce chiama ‘indici’ i sociologi chiamano generalmente indicatori. Il lettore che ci
seguirà nel percorso qui proposto vedrà che anche questa nostra riflessione approderà agli indicatori, letti
ovviamente in una luce differente. Cfr. anche Paola Sozzi, L’indice in Peirce: alcune riflessioni tra spazio ed
enunciazione, “Rivista Italiana di Filosofia del linguaggio”, 2014, pp. 90-101.

10 Bertrand Russell, Vagueness, Australasian Journal of Philosophy and Psychology, 1, 1923, 84–92; il testo
è facilmente reperibile in rete, per esempio qui: http://astrofrelat.fcaglp.unlp.edu.ar/filosofia_cientifica/
media/papers/Russell-Vagueness.pdf. Una discussione completa sulla vaghezza del linguaggio in Sabrina
Machetti, Uscire dal vago. Analisi linguistica della vaghezza nel linguaggio, Editori Laterza, Roma-Bari 2006.
formulare concetti più elaborati attraverso frasi complesse. In
entrambi i casi abbiamo le regole combinatorie, grammaticali, per
elaborare, accostare, far aumentare di senso i segni letterari e quelli
matematici.

lettere (a, b, c, … z) parole o frasi frasi complesse o argomentazione


nucleari periodi (attori e contesto)
cifre (1, 2, 3, …0) numeri (p. es. operazioni e uso pratico
naturali) relazioni;
indicatori
segni (speci>icat.: concetti concetti complessi uso pratico
simboli) o asserti
sintattica semantica pragmatica

Ci sono altre proprietà che mostrano come i due linguaggi


appartengano alla medesima classe. Per esempio il paradosso del
Sorite che potremmo formulare così: se – col linguaggio ordinario –
dico che “la piazza era gremita di manifestanti”, se ne togliessi uno
la piazza sarebbe ancora definibile ‘gremita’? Indubbiamente sì; e
se ne tolgo un altro, e un altro ancora? Di questo passo la piazza
resterebbe con un solo manifestante, e in nessun caso potrei
definirla ‘gremita’. A che punto, esattamente, la piazza da ‘gremita’
è diventata ‘non più gremita’? Vi sono diverse proposte di soluzione
e nessuna esente da critiche. Si può vedere comunque, in questo
paradosso, un effetto della vaghezza del linguaggio ordinario. Il
paradosso del Sorite si può osservare anche al linguaggio
matematico; esistono numeri vaghi (i decimali periodici, i numeri
irrazionali…) che devono essere arrotondati; ci sono limiti agli
strumenti di misura (tolleranza); esiste un uso empirico
estremamente approssimativo dei numeri in un certo tipo di
indicatori di realizzazione utilizzati in valutazione… In tutti questi e
altri casi fa capolino il paradosso del Sorite.

In conclusione vediamo come il linguaggio matematico si differenzi


da quello ordinario solo per una maggiore formalizzazione, ma che
condivida con questo le medesime caratteristiche e proprietà.
Perché ci siamo soffermati su questo punto? Perché così facendo
abbiamo sgomberato il campo da concetti errati: il linguaggio
matematico non è più preciso, è più formalizzato; il linguaggio
matematico non è un’altra cosa, è sempre linguaggio e soggetto
alla stessa vaghezza; il linguaggio matematico quindi non è
fondativo di una categoria del pensiero, di un metodo o – peggio
detto – di una “scienza”; è appunto solo un linguaggio, e il metodo
e le tecniche dei ricercatori sociali presentano solo differenze di
formato informativo (un concetto sul quale torneremo).

3. L’agire comunicativo
La centralità del linguaggio nella riflessione sociologica e filosofica è
nota da tempo, e si può concordare nel considerare Weber e
Wittgenstein i due autori imprescindibili per iniziare un’analisi seria.

Partiremo da Sormano11 (126-127):

In queste note mi occuperò del particolare tipo di «sintonia» stabilitasi fra Weber e la filosofia
novecentesca, argomentando l’ipotesi che tra la «fine dell’ontologia» praticata da Weber in sociologia
e la «svolta linguistica» praticata da Wittgenstein in filosofia ci sia qualcosa di più circostanziato e
prospetticamente promettente, per l’indagine sociologica almeno, di un’«aria di famiglia» soltanto
vaga o genericamente suggestiva. L’ipotesi è che vi sia un comune oggetto d’osservazione, costituito
dal senso grammaticale che il testo di ogni decisione o presa di posizione – ma ogni azione può
essere considerata tale, sia essa linguisticamente espressa o linguisticamente comprensibile –
presenta al suo interno a chi, ed è il caso di Weber prima ancora che di Wittgenstein, lo sappia
leggere anti-ontologicamente. A chi cioè sappia identificare e descrivere, restando all’interno di
quello stesso testo, le regole grammaticali che lo strutturano, in alternativa all’usarlo come semplice
pre-testo di una qualche realtà privata, quale essa sia, da ricercarsi procedendo inferenzialmente «al
di là» di quello.

E’ esattamente in questo interstizio che vorrei appuntare la nostra


attenzione: l’interstizio riguarda il processo di significazione della
realtà come azione sociale e, al contempo, come oggetto di

11Andrea Sormano, Weber, Wittgenstein e la grammatica del senso, “Quaderni di Sociologia”, 17, 1998, pp.
124-146.
indagine; ma essendo l’indagare un particolare tipo di azione
sociale, ecco che costituiamo un’unico senso, uguale per l’uomo
della strada come per il sociologo che lo osserva. L’osservazione
del sociologo è solo più esplicita, intenzionata, istituzionalizzata.

Il «significato», dunque e innanzitutto; il significato «che ha per noi» la «realtà», in secondo luogo,
costituisce la realtà oggetto di quella scienza della cultura che può essere, con la storia, la sociologia.
Ma questo oggetto, così definito, altro non è che il senso, nell’accezione connessionistica che ne dà
Weber, ossia la connessione di senso (Sinnzusammenhang) quale comparirà nelle prime pagine di
Economia e società: «[…] per la sociologia, nell’accezione che abbiamo qui assunto – al pari che per
la storia – l’oggetto di comprensione è proprio costituito dalla connessione di senso dell’agire».
(Weber, 1974, 12) Usando la terminologia wittgensteiniana ciò vuol dire che il significato della realtà
(non la realtà), oggetto della nostra osservazione, non ha alcun senso sociologico (è una «mitologia
filosofica» o una «rappresentazione primitiva» del significato o l’oggetto di un «altro gioco»
osservativo) se non è innanzitutto identificato all’interno di quei «processi» che sono i «giochi
linguistici» che lo producono. Ma il significato prodotto all’interno di tali «giochi» non ha altro senso
se non quello ancora soltanto «grammaticale» (in senso stretto) se tali giochi non sono a loro volta
localizzati all’interno dell’«attività» o «forma di vita» di cui «sono parte». Se cioè non sono collocati
all’interno, diremo, della «grammatica istituzionale» delle «regole del gioco» che strutturano ogni
«forma di vita» organizzata, così come son state identificate, anche se non in questi termini o
all’interno di questa prospettiva, in sociologia (Sormano, cit.)

Al fine della nostra argomentazione importa la seconda parte della


citazione: il significato dei giochi linguistici wittgensteiniani si
colloca all’interno delle forme di vita di cui sono parte. Questo è un
elemento cruciale per noi e ci dovremo tornare più avanti.

Quello che vorrei sottolineare, qui, è che il percorso sociologico che


con Weber (e poi Habermas) ha avvicinato il ruolo del linguaggio
all’agire sociale si è dato un limite anti-ontologico (come lo chiama
Sormano): il potere come gioco linguistico in Weber si contrappone
a “un co-esistente ordine normativo di tipo impersonale” (Sormano,
cit.) dividendo i giochi linguistici in “tipi” in qualche modo
contrapposti sotto il profilo delle grammatiche.

In questo modo si perde di vista l’unicità del linguaggio come


azione e come strumento di conoscenza di quella stessa azione,
come invece indicato, fra gli altri, da Ernst Cassirer12:

È infatti la funzione del conoscere che ora costruisce e costituisce l’oggetto, non come assoluto, ma
come condizionato da questa stessa funzione, come “oggetto nel fenomeno.

E ci pare che il secondo Wittgenstein non si discosti molto da questo


medesimo pensiero.

Ci sembra che la sociologia (e non solo) anche nelle sue visioni individualiste
(da Weber a Boudon), interazioniste (Mead, Goffman…) etc. intenda il
linguaggio come uno strumento per comprendere l’agire (il mondo vitale, la
natura delle relazioni…), separato da quello stesso agire che si cerca di

comprendere.

Ai fini della tesi che qui si cerca pian piano di argomentare


vorremmo quindi suggerire - almeno a fini argomentativi - che

L’AGIRE SOCIALE COINCIDE COL LINGUAGGIO NELLE SUE FUNZIONI D’USO.

Intendiamo: l’interpretazione che si frappone fra linguaggio e


azione, che troviamo da Weber in poi, non ha ragione d’esistere
(non può esistere) in quanto l’interprete costruisce semplicemente
una nuova azione, o gioco linguistico, o provincia di significato, o
fenomeno tendente alla riduzione in senso semantico. Quella che
l’osservatore weberiano chiama “interpretazione” è in realtà parte
dell’azione osservata, è la riproduzione (necessariamente distorta,
diremo fra un momento il perché) di quell’azione che deve a sua
volta essere interpretata. Ma poiché questa serie potenzialmente

12Filosofia delle forme simboliche, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 8. Il ruolo del linguaggio in
Cassirer, nell’ambito di una prospettiva costruttivista, è trattato da Hans Jörg Sandkühler, Linguaggio,
segno, simbolo. L’anti-ontologia di Ernst Cassirer, “Rivista internazionale di filosofia e psicologia”, n. 1,
2010, pp. 1-13.
infinita di interpretazioni ha come strumento e come oggetto il
linguaggio, accade necessariamente questo:

• la nuova “interpretazione” è identica alla precedente e/o


all’oggetto, e quindi non significa alcunché di diverso;

oppure

• se ne distanzia (la sintetizza, la riduce, la interpreta, la


commenta…) è quindi è un’altra cosa.

Questo, ovviamente, se gli attori della comunicazione condividono


pienamente i codici. Ma poiché è molti improbabile che ci sia tale
condivisione (anche senza riferirsi a cinesi e lapponi basti ricordare
le innumerevoli differenze interindividuali di sesso, età, cultura,
esperienza…13 ), più probabilmente la situazione corrente è la
seconda.

Riassumendo:

13 Sociologi, antropologi, psicologi e pedagogisti, oltre ovviamente ai linguisti, si sono occupati delle
differenze di uso dei codici in differenti condizioni sociali, a latitudini differenti, fra generi, età etc. Una
rassegna esemplificativa: persone diverse possiedono competenze linguistiche diverse (Bloomfield 1984;
Labov 1972); noi pensiamo (e quindi concepiamo) solo ciò che le parole che possediamo sono in grado di
farci esprimere (Luria 1976; Vygotskij 1934-1992); ciò che pensiamo è orientato e organizzato nell’ambito
della cultura dominante e dei suoi valori (Denzin 2001); le parole e le regole sintattiche di una determinata
società influenzano direttamente la sua cultura, e quindi i valori espressi (Whorf 1956); vi è una
corrispondenza imperfetta fra struttura del linguaggio e significato e fra oggetto percepito, significato che
gli viene attribuito, descrizione del referente (Cicourel 1964); Il linguaggio – e in generale la comunicazione –
ha profondi significati simbolici e sociali spesso prevalenti rispetto ai contenuti veicolati (Goffman 1961,
1967, 1981; Garfinkel 1967); I significati e sensi locali sono utilizzati per spiegazioni e “teorie” generali
(Geertz 1983; Denzin 2001). Riferimenti specifici:

•Bloomfield L., 1984 [1935/1st], Language, The University of Chicago Press, Chicago.

•Cicourel A. V., 1964, Method and Measurement in Sociology, The Free Press, New York.

•Denzin N. K., 2001, Interpretive Interactionism, 2nd ed., Sage, Thousand Oaks, CA.

•Eco U., 1976, A Theory of Semiotics, Indiana University Press, Blooming-ton.

•Garfinkel H., 1967, Studies in Ethnomethodology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs.

•Geertz C., 1983, Local Knowledge. Further Essays in Interpretative Anthropology, Basic Books, Inc, New
York.

•Goffman E., 1961, Encounters: Two studies in the sociology of interaction, Bobbs-Merrill, Indianapolis.

•Goffman E.,1967, Interaction ritual: Essays on face-to-face behaviour, Anchor, Garden City, NY.

•Goffman E., 1981, Forms of talk, University of Pennsylvania Press, Philadelphia.

•Labov W., 1972, Sociolinguistic Patterns, University of Pennsylvania Press, Philadelphia.

•Luria A. R., 1976, La storia sociale dei processi cognitivi, Giunti Barbèra, Firenze.

•Russell B., 1923, “Vagueness”, Australasian Journal of Philosophy and Psychology, n. 1, pp. 84-92 (anche
in Rosanna Keefe and Peter Smith –eds. – Vagueness. A Reader, M.I.T. Press, Cambridge, Mass., 1996, pp.
61-68).

•Vygotskij L. S., 1965, Pensiero e linguaggio, Laterza, Roma-Bari.

•Whorf B. L., 1970, Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri ed., Torino.


agiamo → l’azione è
linguaggio ⇣
interpretiamo l’interpretazion
→ e è linguaggio

agiamo → l’azione è
linguaggio ⇣
ad infinitum

Saranno ora più chiare alcune affermazioni precedenti; siamo in


pieno solipsismo linguistico in cui la teoria del linguaggio e
l’ontologia sono la stessa cosa.

4. Il linguaggio tremulo
Dove ci porta tutto questo? Al linguaggio come centro
imprescindibile (e anche come limite) del nostro agire e del nostro
conoscere, ma il linguaggio, come detto, non è un codice
convenzionale univoco. Il linguaggio dipende dal contesto degli
individui, loro educazione, esperienze, latitudine e moltissimi altri
fattori ben noti e studiati che includono elementi personologici,
affettivi, contingenti e soprattutto cangianti. Non bisogna incontrare
cinesi o lapponi per testimoniare questa estrema variabilità alla
quale aggiungere la vaghezza imprescindibile di ogni linguaggio. La
vaghezza del linguaggio e la sua variabilità intersoggettiva
retroagiscono sui concetti che costituiscono i nostri schemi mentali
(Neisser14 ). Sul rapporto fra concetti e linguaggi occorrerebbe
spendere molte parole ma preferiamo andare diritti al punto.

14 Il concetto di “schema mentale” fa riferimento a Ulric Neisser, Conoscenza e realtà.


Il punto è che la figura precedente deve essere modificata in questo
modo:

io agisco,
l’azione è la

tu agisci,
sintesi
OPERATIVA di
ciascuno
linguaggi simili
agisce

ma diversi ⇣
…→
io interpreto,
l’interpretazion

tu interpreti,
e è la sintesi
OPERATIVA dei
ciascuno
diversi
interpreta … →
linguaggi ⇣
io agisco,
l’azione è la

tu agisci,
sintesi
OPERATIVA di
ciascuno
linguaggi simili
agisce

ma diversi ⇣
…→
ad infinitum

Nella figura si è evidenziata la parola ‘operativa’, il che ci porta a


chiudere l’ultima questione rinviata sopra: la sintesi non può essere
l’azione condivisa, oppure l’interpretazione condivisa, perché non
possono esistere in forma univoca. Ciò che sopravvive al
solipsismo linguistico è il risultato operativo dell’agire sociale. Non
importa a nessuno cosa tu “capisca”, nel labirinto del circolo
ermeneutico, quando a pranzo ti chiedo “Mi passi il sale per
favore?” Ciò che importa è che tu mi passi il sale. Questo piccolo
esempio mostra, fra l’altro, l’estrema facilità della relazione
linguistica quando i concetti utilizzati sono comuni e di basso livello
di generalità; meglio detto: quando hanno bassa intensione e alta
intensione. Ma se ti chiedo “Quanto mi ami, cuore mio?” la cose si
complicano a livello esponenziale, perché il concetto implicato ha
grandissima intensione e ridottissima estensione (perché
percepiamo l’amore in infiniti modi, intensità e forme). In questo
secondo caso quale sintesi operativa otteniamo? Solo una incerta,
insoddisfacente e provvisoria - a meno di non parlare fra poeti - e il
risultato è quello esilarante visto nel primo paragrafo.

I due esempi - ai due antipodi di una ipotetica scala di vaghezza


linguistica - sono stati utili per iniziare a parlare di metodo. Quando
chiediamo a un intervistato “Quanti anni ha?” la sua risposta riflette
una semantica pressoché identica alla mia. Già quando inizio a
chiedere “Quale lavoro fa?” potrei osservare delle difficoltà. Ma se
arrivo a porre questioni astratte (“Cosa pensa dell’introduzione della
pena di morte in Italia?”) non si tratta neppure solo di semantiche
differenti (che resterebbe un problema risolvibile) ma di giochi
linguistici giocati differentemente, e quindi di grammatiche
differenti, e quindi di “accordi operativi” probabilmente scadenti.

Indubbiamente potremmo decidere che vogliamo risolvere questo


problema, fissiamo una settimana intensiva con l’intervistato in un
bell’agriturismo e iniziamo un gioco linguistico che potremmo
chiamare “gioco della disambiguazione semantica”. Il gioco si può
giocare all’incirca così:

• cosa intendi con ‘sono d’accordo con la pena di morte’? Per


esempio nel caso X saresti d’accordo?

• [risposta]

• ma quando dici [ciò che hai detto] cosa intendi? Puoi fare un
esempio?

• [esempio]

• ma se in questo esempio cambiamo questo fattore, la


penseresti allo stesso modo?

• avanti l’intera settimana…

Ciò che in realtà si fa in situazioni di questo genere è operare con


un artificio che ha nome “come se”. Ignoriamo cioè le differenze di
competenze linguistiche, la vaghezza implicita, i diversi giochi
linguistici e operiamo come se gli attori implicati intendessero tutti
la stessa cosa, possedessero cioè concetti identici per intensione
ed estensione. Meglio detto: operiamo come se il livello sintattico
fosse di per sé sufficiente alla comunicazione.

Con riferimento alla figura proposta poco sopra è sufficientemente


chiaro che il livello sintattico dell’analisi si presta solo ad apparenti
equivalenze, genericamente valide sotto un profilo formale,
dichiaratorio, lessicale:

• Cosa pensa dell’introduzione della pena di morte?

• [risponde d’impulso] Sì, sono d’accordo [intende: sempre, con


spirito vendicativo e giustizialista, con riferimenti profondi a torti
da lui medesimo subiti in passato]

• [codifica successiva]: favorevole.

• Cosa pensa dell’introduzione della pena di morte?

• [riflette] Mah… sono sempre stato contrario… ma certo, di


fronte a certe malvagità mi verrebbe quasi da approvarla…

• [codifica successiva]: favorevole.

La modestia dell’analisi sintattica è chiarissima nei gruppi di lavoro.


In un tipico gruppo focus non è difficile arrivare a un “consenso”
lessicale15 (importanza di un programma, qualità di un intervento,
suggerimenti per un’azione) quando è facile comprendere come
l’espansione dialogica verso il livello semantico proporrebbe enormi
differenze.

Un caso di studio concreto aiuterà a comprendere questo


fondamentale passaggio

5. Il problema della definizione di ‘efficacia’ di un


programma
5.1 Presentazione del caso di studio

Il caso presentato riguarda l’analisi dell’efficacia del servizio per


minori stranieri non accompagnati (MSNA) promosso da
un’importante ONG. Prima di qualunque riflessione sulle tecniche
utili per la rilevazione dell’efficacia, occorre naturalmente definire
cosa sia ‘efficacia’ in questo particolare contesto dove, dopo ampie
verifiche e accertamenti, si è potuto riscontrare che:

1. la dirigenza dell’ONG ha ben chiaro cosa il servizio debba fare,


in quanto servizio a bassa soglia, ma è in grado di esprimere
cosa debba intendersi con ‘efficacia’ solo con esemplificazione
di casi o con astrazioni (capiremo man mano perché, non

15 L’idea di un gruppo facilmente riconducibile a un’unità di pensiero, a un consenso su un determinato


giudizio, è molto cartesiana e facilmente falsificabile; un sostenitore del consenso è Giovanni Bertin, Con-
sensus method. Ricerca sociale e costruzione di senso, Franco Angeli, Milano 2011. Una recensione critica
in Claudio Bezzi, Capire i gruppi di lavoro che utilizziamo nella ricerca, “Valutazione.blog”, 27 Febbraio 2018,
https://valutazione.blog/2018/02/27/capire-i-gruppi-di-lavoro-che-utilizziamo-nella-ricerca/
trattandosi affatto di un limite superabile con interviste più
insistenti);

2. il concetto di ‘protezione’ - implicito nella descrizione del


servizio - non aiuta a suggerire definizioni, in quanto varia dalla
mera cura fisica (cibo, salute…) all’integrazione intesa come una
modalità specifica dell’essere protetti;

3. i flussi migratori (e di richiedenti asilo) mutano rapidamente e


con caratteristiche sempre differenti;

4. le diverse nazionalità - in relazione alla problematica del flusso e


delle sue ragioni - hanno caratteristiche diverse e non riducibili a
caratteristiche minime. Per esempio gli eritrei vanno al servizio
ma non intendono partecipare a nulla, perché in attesa della
relocation; come “valutare” la risposta apparentemente apatica
degli eritrei a fronte, per esempio della dinamicità degli egiziani?

5. singoli individui, di stessa nazionalità e storia simile, hanno


storie molto differenti: da un subitaneo desiderio di formazione
all’interno di quella che appare una strategia emancipativa, alla
vita vissuta giorno per giorno alla ricerca di espedienti;

6. a seconda del momento gli stessi ragazzi possono dire cose


molte diverse. Non crediamo che ciò dipenda da altro che da un
problema di comunicazione; il linguaggio di questi minori -
come stiamo per precisare meglio - non può essere oggetto di
mera interpretazione sintattica perché ha strettamente a che
fare col vissuto, anche immediato. Quelle che possono apparire
“contraddizioni” sono quindi reazioni al contesto, con
espressioni linguistiche non necessariamente da intendere “alla
lettera”.

Questi sei punti esemplificano in maniera abbastanza


approssimativa una congerie di storie di vita dove si trovano casi di
ragazze (semmai incinte e divise - causa relocation - dal compagno,
e ricordo che si tratta di minori); episodi psichiatrici; fortunati
incontri iniziali col giusto operatore oppure devastanti abbandoni;
vita di strada; abusi; profondi sensi di colpa per il debito contratto
dalla famiglia per farlo migrare; storie di percorsi migratori durati
mesi e anni attraverso paesi in guerra (e stiamo sempre parlando di
minori, semmai fuggiti quando i nostri coetanei iniziano ad andare
alle scuole medie) e così via.

Occorre aggiungere che nessuna lingua è perfettamente traducibile.


Per esempio l’uso di metafore e altre figure retoriche, molto
utilizzate in italiano, risulta di difficile comprensione per molti minori
stranieri; è noto che le modalità di astrazione, di generalizzazione,
di classificazione sono differenti in ambiti culturali e linguistici
differenti rendendo più improbabile ogni tentativo di definire -
assieme ai minori - cosa sia per loro ‘successo’ e ‘insuccesso’,
‘strategia’ e ‘progetto’ e, in definitiva, cosa sia efficacia16.

Quindi: come definire l’efficacia? Ecco alcuni possibili modi che


risultano fortemente inadeguati:

• stimare i partecipanti a un qualche corso o laboratorio rispetto al


totale dei MSNA presenti in città: non è possibile perché il
continuo cambiare dei flussi renderebbe troppo vaga la stima dei
presenti; per i partecipanti, comunque, vale la prossima
indicazione;

• contare quanti tornano al servizio dopo una prima esperienza,


considerandolo un indicatore positivo; a parte che sarebbe un
indicatore discutibile non avendo valori soglia al quale
rapportarlo, i minori potrebbero non tornare per ragioni non
dipendenti dalla loro volontà (per esempio il trasferimento in un

16 Qui il richiamo a Whorf intende essere esplicito.


centro di accoglienza più distante che rende complicato
muoversi) senza che gli operatori ne siano informati;

• chiedere ai minori cosa pensano della struttura, se soddisfa i loro


bisogni e via discorrendo. Sarebbe la peggiore delle soluzioni.
Oltre a ogni critica già nota a ogni forma di valutazione basata sul
giudizio degli utenti (cosiddetta customer satisfaction17), questi
ragazzi scappano dalla miseria quando va bene, e dalla guerra
nei casi peggiori; interrogati in merito solitamente si dicono
soddisfattissimi dell’Italia e del lavoro di Civico perché la distanza
con gli orrori sperimentati è abissale; e, in ogni caso, si tratta di
dichiarazioni sotto l’egida del punto 6 visto sopra;

• sono in teoria possibili approcci etnografici o micro-sociologici,


osservazione partecipante etc. che - oltre a non risolvere parte
dei problemi già visti e ad avere costi altissimi - resterebbe
meramente descrittiva e inadatta a una prospettiva valutativa18;

• l’unico approccio potenzialmente realizzabile è un’analisi


longitudinale che segua un gran numero di minori negli anni; un
approccio chiaramente inimmaginabile per i costi e con risultati,
per quanto interessanti, che non escluderebbero alcuni dei
problemi che stiamo per affrontare.

5.2 Perché non riusciamo a dare una definizione

La difficoltà definitoria non è nell’oggetto di studio ma nello


strumento linguistico utilizzato per la sua definizione. Il problema
della definizione (qualunque) riguarda il livello sintattico del discorso

17 Un’ottima critica metodologica all’analisi di customer satisfaction in Guido Giarelli, Oltre la ‘customer
satisfaction’: il problema di cogliere la complessità di un punto di vista, in Costantino Cipolla, Guido Giarelli
e Leonardo Altieri, “Valutare la qualità in sanità”, Franco Angeli, Milano 2002.

18 Domenico Lipari è, in Italia, un antesignano degli approcci etnografici nella valutazione delle
organizzazioni; cfr. Dinamiche di vertice. Frammenti di un discorso organizzativo, Guerini e Associati, Milano
2007 e Formatori. Etnografia di un arcipelago professionale, Franco Angeli, Milano 2012. Il limite, se così
vogliamo chiamarlo, di tale approccio è che il dato è costruito in forma di narrazione, esattamente come i
resoconti etnologici del ‘900 e, per quanto suggestivi e profondi, “narrano” esperienze differenti a lettori
differenti lasciandoli nelle medesime prospettive antecedenti la ricerca. In molteplici casi di ricerca
l’ambizione è indubbiamente il chiarimento, il disambiguamento, la convergenza.
che viene generalmente dato per condiviso da tutti i parlanti
consimili per educazione, competenze, esperienze e così via. Se
per esempio dicessimo:

I bambini sono da considerare idonei a mangiare il cibo da soli quando sanno arrotolare gli spaghetti
con la forchetta

ci rivolgeremmo a parlanti occidentali (probabilmente italiani ma


questo può non essere chiaro) di classe media (perché c’è un
riferimento implicito a una “buona maniera”) escludendo molti altri
popoli (in Cina l’analogo riferimento potrebbe riguardare il saper
mangiare il riso con le bacchette) e così via. In realtà poi la frase ha
diversi livelli di ambiguità: il termine ‘idonei’ a cosa si riferisce?
Idonei per mangiare a casa, per andare al ristorante, per non
sfigurare con gli amici? E comunque gli spaghetti si possono
mangiare anche in altri modi, sia pure considerabili “scorretti” solo a
partire da uno schema mentale assai ben definito e stereotipato.

Il livello lessicale crea facile condivisione solo a patto di lasciare


ampi margini oscuri e non argomentati. Ma anche il livello
semantico può essere ingannevole e inadatto. Anche se tale
inadeguatezza è universale, per ragioni che qui al momento non
affrontiamo, i nostri MSNA provengono da culture così differenti che
diventa impossibile pensare alla condivisione di una qualsiasi
semantica. E’ facile constatare dalle loro testimonianze lo “stupore”
(in positivo o in negativo, anche se prevalentemente in positivo) per
la vita in Occidente, declinata in maniera assai diversa da ciascuno
di loro. Ma anche gli operatori hanno culture diverse, anche se in
questo caso si tratta di culture professionali, di conoscenze tacite e
lessici condivisi, e agende distinte fra gli operatori del servizio e,
ovviamente, distinte da quelle del vertice dell’ONG. Le culture
professionali piegano la visione del servizio, dell’utente, etc.
“laminandole” in un determinato modo, come un imprinting
particolare e potente. Anche se il livello semantico è enormemente
più approfondito e utile di quello lessicale, è in ogni modo
complesso e sfuggente e difficilmente analizzabile (se non ancora a
un livello semantico, ma ciò genera una ricorsività infinita).

Quel che si intende affermare qui è che non esiste la possibilità di


una definizione di ‘efficacia’ del servizio, se con definizione si
intende

L’atto, il fatto, il modo di definire, di determinare cioè il significato di una parola o comunque di una
espressione verbale mediante una frase (il più possibile concisa, e comunque completa) costituita da
termini il cui significato si presume già noto, così da individuare di quella parola o espressione le
qualità peculiari e distintive, sia con l’indicarne l’appartenenza a determinate specie, generi, classi,
ecc., sia col rilevarne funzioni, relazioni, usi, ecc. (Vocabolario Treccani).

Ciò che intende il vocabolario noi chiamiamo intensione ed


estensione del concetto che, nel caso dei bambini che mangiano
con la forchetta, possiamo esprimere così:

La definizione sintattica sarebbe quindi:

Bambini che sanno arrotolare gli spaghetti = bambini occidentali, presumibilmente italiani, di classe
media e senza particolari problemi dietetici e di manualità, che a partire dai 4 anni circa sanno
mangiare gli spaghetti con la forchetta secondo gli standard tipici della classe media.

Una definizione di questo genere per ‘efficacia del servizio’, come si


è visto, non è possibile, la qual cosa ci riporta al problema iniziale.

Nel caso del servizio, l’estensione e l’intensione del concetto


‘MSNA’ possono essere definite a patto di riconoscere la continua
variabilità e approssimazione di entrambe mentre, nel concetto di
‘efficacia’ (dell’intervento del servizio sui MSNA) l’estensione può
essere definita solo in termini osservativi (sono MSNA tutti quelli
conosciuti dal servizio più quelli ragionevolmente ipotizzati), come
l’intensione (sono caratteristiche dei MSNA tutte quelle realmente
verificate), e quindi il concetto - come già detto cangiante - è
definibile ex post, basato sul risultato di un’osservazione. Il
contrario di una definizione ex ante, stabilita per consentire
l’osservazione.

6. Introduzione a una pragmatica del metodo


6.1 La pragmatica del metodo

Stabilito che il problema è nel discorso e non nell’oggetto, e che la


sintattica non produce risultati utili, occorre cercare un altro livello
linguistico che permetta una comprensione migliore e una possibile
definizione di ‘efficacia’. Per ragioni in parte già rammentate, la
semantica in gruppi multiculturali riesce più facilmente a
confondere ulteriormente i concetti anziché chiarirli. ‘Benessere’,
per esempio, è inteso diversamente fra operatori con culture
professionali differenti e ancor più diversamente da nativi
subsahariani, asiatici, eccetera. Così qualunque altro: ‘protezione’,
‘fiducia’, ‘progetto di vita’ e, evidentemente, ‘efficacia’. Ci rendiamo
conto che la semantica è uno strumento assai evocato ma
ugualmente inefficace. Cerchiamo di capire il perché con una serie
di immagini a carattere simbolico ed evocativo.

Primo gruppo di immagini: la realtà non è interpretata (e quindi


vissuta) ugualmente da ciascuno.

La sintattica, come detto, è eccessivamente limitata ma la


semantica, pur esplorando più a fondo le differenze entro la
percezione del concetto, può condurre i diversi attori a convergere
verso una dichiarazione di identità di senso falsa (secondo gruppo
di immagini).

“Falsa”, in effetti, non è termine corretto. Diciamo che, trovandosi i


vari attori in un gruppo di lavoro col mandato di cercare una
definizione condivisa, questa viene soventemente trovata
semplicemente allargando lo spazio semantico del concetto
medesimo (ciò significa una risalita lungo la scala di generalità), in
modo che includa la maggior parte del senso prodotto da ciascuno
(o, detto in altri termini, che copra semanticamente i diversi
indicatori espliciti o non espliciti che costituiscono, diversamente, il
concetto di ciascuno). L’area rossa in basso della terza figura qui
sopra mostra, pittoricamente, l’ampliamento della medesima area
disegnata subito sopra.

Questa modalità di “condivisione” è molto praticata nella ricerca


valutativa per stabilire una convergenza utilizzabile come concetto
definito dagli attori, e quindi di per sé “valido”. Sotto un certo
profilo le motivazioni non sono errate, ma non si tiene conto del
fatto che l’ampliamento del campo semantico significa minore
intensionalità (e conseguentemente maggiore estensionalità)
mutando così, di fatto, la natura del concetto originariamente posto
al centro dell’indagine.

Non può restare che un terzo livello di analisi del concetto, quello
pragmatico. L’analisi pragmatica prescinde da qualunque obbligo di
condivisione e tiene conto dell’uso reale delle parole da parte degli
attori sociali. Tale uso può riflettere concetti che sono in parte
semanticamente “coperti” ugualmente dai parlanti, in parte coperti
solo in certi settori (vale a dire che alcune dimensioni e indicatori
sono coestesi, altri no), e in parte completamente differenti, come
mostra la prossima figura.

Se, come argomentato fin qui, in una situazione complessa quale


quella qui presentata, non riusciamo a definire il concetto di
‘efficacia’ per un limite del nostro approccio linguistico, cerchiamo
di trovare un approccio diverso, un diverso strumento. La
pragmatica del linguaggio:

• non impone convergenze e condivisioni e accetta le diverse


espressioni linguistiche per quello che sono;

• comprende e accetta che culture locali (macro come quelle


etniche e micro come quelle professionali) permangano separate
nel senso espresso, perché originate da contesti differenti e
irriducibili;

• osserva l’uso dei concetti e ne inferisce delle “teorie di medio


raggio” per azioni locali;

• non insiste sulla “definizione” dei concetti ma li esperimenta per


come si rivelano.

Portare questo approccio pragmatico nell’indagine ci costringe a


pensare in modo nuovo.

6.2 Ritorno al caso di studio

Il ricercatore non può rinunciare al concetto di efficacia e non può


adagiarsi sull’inutile e fuorviante efficacia lorda. Ma, come visto,
l’efficacia netta è inafferrabile per la magmaticità e opacità del
contesto, i mille percorsi dei MSNA, la mancanza di dati,
registrazioni e documenti che possano certificare le storie
individuali.

Occorre fare un passo laterale.

DEFINIAMO EFFICACIA SITUAZIONALE QUELLA DESUMIBILE DALLA PRESENZA DI UN AGIRE


COMUNICATIVO FONDATO SULL’ASCOLTO E LA RELAZIONE, IL CUI SENSO È RISCONTRABILE
DALLA RETROAZIONE DEI SOGGETTI DESTINATARI, IN UN CONTESTO IN CUI LA COMPLESSITÀ
SOCIALE NON CONSENTE UNA RILEVAZIONE O UNA STIMA DELL’EFFICACIA NETTA AL DI FUORI
DEL RAPPORTO ZERO-1, DOVE “ZERO” SIGNIFICA MANCANZA DI RELAZIONE E “1” SIGNIFICA
QUALUNQUE RELAZIONE NON CONTESTATA.
LA NON CONTESTABILITÀ DELLA RELAZIONE SIGNIFICA CHE LA RETROAZIONE DEI BENEFICIARI
È, NEL SUO INSIEME, COMPLESSIVAMENTE POSITIVA, CONTINUA, INCREMENTALE.

Nell’efficacia situazionale sono possibili tre condizioni:

• zero = il servizio non esiste, o non esiste in merito alla


prestazione osservata (nel caso del servizio di cui stiamo
parlando, per esempio: non si fa protezione ma solo
informazione);

• 1 contestato = esiste la prestazione ma si può osservare che i


beneficiari non partecipano, non gradiscono, non ritornano…

• 1 non contestato = esiste la prestazione e non si può osservare


che i beneficiari non partecipino etc.

Le componenti di un’indagine situazionale includono i partecipanti e


l’ambiente, l’intento comunicativo e il suo effetto.

L’efficacia situazionale è innanzitutto constatazione di una


complessità non riducibile, in modo soddisfacente, con l’approccio
deduttivo tipico della ricerca sociale per variabili (il cosiddetto
paradigma lazarsfeldiano); vale a dire: non è possibile dedurre gli
indicatori sui quali costruire l’analisi.

In secondo luogo non appare perseguibile l’approccio inferenziale


induttivo partendo dai casi, sempre eterogenei e scarsamente
generalizzabili.

L’efficacia situazionale si può affrontare solo con un approccio


abduttivo in cui il “testo” (il servizio, gli operatori e quello che fanno,
i minori e quello che dicono…) ha valore in quanto pragmatica: i
minori hanno bisogni, disagi, aspettative etc.; gli operatori hanno
competenze, strumenti ed empatia19 .

19Un caso di studio differente, e per certi aspetti ancora acerbo, riguarda la valutazione del servizio
pubblico per le dipendenze; cfr. Claudio Bezzi e Gianni Morandi, “Si può valutare il trattamento delle
dipendenze? Un approccio pragmatico a contesti controversi”, Rassegna italiana di Valutazione, a. XI, n. 37,
2007, pp. 23-45.
La relazione pragmatica genera un’azione sociale zero →1, con “1”
continuamente cangiante e in costante adattamento secondo il
procedere della relazione.

Ogni minore esprime, diversamente nel tempo, bisogni diversi; ogni


operatore reagisce, diversamente nel tempo, per dare la migliore
risposta; il minore ha quindi una nuova reazione, e così via secondo
lo schema triadico proposto da Watzlawick, detta
“punteggiatura” (dove il ruolo della patologia relazionale è preso
dalla complessità sociale)20.

6.3 La punteggiatura

Il meccanismo21 che andiamo cercando è pragmaticamente da


trovare nella triade implicata nella relazione, dove al classico


schema stimolo-risposta (per esempio: il minore chiede e
l’operatore dà) si succede con una iterazione continuamente
sottoposta a fattori esterni (variabili intervenienti, non
necessariamente note), tali da rendere non facilmente prevedibile
l’esito della relazione (o, più complessivamente, l’efficacia del
servizio)

20Ci riferiamo a Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione
umana. Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma 1971. Watzlawick (e
colleghi) è in genere piuttosto sottovalutato a causa di una massiccia divulgazione, sovente banalizzata,
delle sue riflessioni.

21Il concetto di “meccanismo” è divenuto attuale dopo il fortunato testo di Ray Pawson e Nick Tilley,
Realistic Evaluation, Sage, London, 1997; una sintesi in Ray Pawson e Nick Tilley, “Un’introduzione alla
valutazione scientifica realistica”, in Nicoletta Stame (a cura di), Classici della valutazione, Franco Angeli,
2007, Milano, pp. 371-385.
I fattori intervenienti agiscono modificando il discorso, quindi la
relazione e la sua interpretazione, che abbandona i precedenti
binari per adattarsi su un nuovo piano (prima figura qui sotto). Il
succedersi di innumerevoli (e spesso non conosciuti) fattori
intervenienti non rende mai chiaro l’esito dell’intervento (l’efficacia
del servizio) seconda figura qui sotto.

A titolo di esempio fra i fattori intervenienti possiamo indicare:

• dal lato dei minori:

‣ nazionalità;

‣ religione;

‣ cause razionalizzate della migrazione;

‣ livello scolastico;

‣ quadro personologico;

‣ livello della SPTS;

• dal lato degli operatori:

‣ competenza;

‣ preparazione;

‣ empatia e distacco;

‣ burn out;

• dal lato organizzativo della ONG:

‣ progettualità;

‣ budget;

‣ supervisione e formazione degli operatori;

‣ ruolo nella Rete;

• dal lato ambientale:

‣ “momento storico”;

‣ qualità e rete dei servizi;

‣ stereotipi locali;

• …
Tornando quindi alla definizione di efficacia situazionale, si
comprende ora come ciò che definiamo “servizio”, “operatore”,
“bisogno” e così via, sono tutte componenti variabili che esistono in
quanto agiscono, e agiscono come la situazione rende possibile,
non di più né di meno, non meglio né peggio.

7. Una digressione necessaria sugli indicatori


Accostando i tre livelli di analisi linguistica (sintattica, semantica e
pragmatica) alle tre classiche inferenze (deduzione, induzione e
abduzione); possiamo osservare anche una analoga
corrispondenza con tipi di indicatori.

Queste corrispondenze possono essere così riassunte (la tabella


amplia quella presentata al par. 3):

lettere (a, b, c, … parole o frasi frasi complesse o argomentazione


z) nucleari periodi (attori e contesto)
cifre (1, 2, 3, …0) numeri (p. es. operazioni relazioni; indicatori
naturali)
segni (specificat.: concetti concetti complessi uso pratico
simboli) o asserti
analisi linguistica sintassi semantica pragmatica
inferenze deduzione induzione abduzione
indicatori tipo 1 tipo 2 tipo 3

Il termine /indicatore/ è per sua natura ambiguo, perché senza


specificazioni può far comprendere cose che potrebbero essere
molto vicine, ma anche molto diverse; sono tre le principali
accezioni riscontrate nelle scienze sociali:

[1] /indicatore/ : ‘il livello osservabile di un concetto indagato’22 ;

[2] /indicatore/ : ‘la quantità di qualcosa che ha il potere di


descrivere [misurare] un elemento dell’insieme’23 ;

22 Cfr. Alberto Marradi, Concetti e metodi per la ricerca sociale, La Giuntina, Firenze 1987;

23 [CERCARE PIÙ RECENTI] Cfr. fra gli altri: Davide Pettenella, La valutazione degli investimenti forestali,
Irres - Regione dell’Umbria, Perugia, 1995, p. 34; Aviana Bulgarelli (a cura di) (1997), L’integrazione fra
sistemi di formazione e istruzione nel primo triennio di gestione del Fondo Sociale Europeo, Isfol – Struttura
di valutazione del FSE, [Roma], pp. 1-2; Ennio Galante, Cesare Sala, Luca Lanini, Valutazione della ricerca
agricola, Franco Angeli, Milano, 1998, p. 65; Mauro Palazzi e Paolo Ugolini, “La valutazione della qualità
negli interventi di prevenzione dei servizi socio-sanitari”, in Paolo Ugolini e Franco C. Giannotti (a cura di),
Valutazione e prevenzione delle tossicodipendenze. Teoria, metodi e strumenti valutativi, Franco Angeli,
Milano, 1998, p. 80
[3] /indicatore/ : ‘un elemento negoziato, e perciò stesso
disambiguo entro un contesto locale, di denotazione di senso’24.

Nel caso [1], quello che possiamo definire classico, ci riferiamo a un


concetto situato in basso lungo la scala di generalità, tale che sia
possibile immaginare delle definizioni operative che consentano
l’avanzamento della ricerca, che non potrebbe essere condotta
mantenendosi sui concetti ampi ed astratti che sono solitamente al
centro del nostro lavoro.

Il caso [2] è invece in assoluto il più diffuso nella ricerca valutativa, e


lo si può immaginare come una corruzione del precedente; con
varianti e sensibilità diverse è quello che appare più prossimo alla
pratica e alla necessità di una misurazione che in realtà, in
valutazione, è piuttosto rara.

Il caso [3] è sostanzialmente nuovo nel panorama della ricerca


sociale (almeno nella pratica, meno nella sua teorizzazione), e
intende porsi come reazione forte all’oggettivismo del [2], ma anche
come presa di distanza dal razionalismo deduttivo espresso in [1], a
favore di approcci sostanzialmente etnologici e pragmatici.

Queste tre declinazioni di indicatore possono essere considerate


alla luce delle inferenze già viste e ai livelli di analisi linguistica
proposti, dando luogo alla mappa concettuale che segue.
Guardiamo alla funzione indicante sotto tre profili principali:

• semantico: ovvero i significati degli “oggetti” che valutiamo e


quindi, in un rapporto di indicazione, i significati degli indicatori
che costruiamo: si tratta dell’indicatore [1]; ha a che fare con

24 Cleto Corposanto, “La valutazione e lo sviluppo della ricerca valutativa”, in Cleto Corposanto (a cura di),
Sulla valutazione della qualità nei servizi sociali e sanitari, “Salute e società”, a. VI, n. 2, FrancoAngeli,
Milano, 2007, p. 20; Eleonora Venneri, “Indicatori sociali: scenari, acquisizioni, prospettive”, in Cleto
Corposanto (a cura di), Sulla valutazione della qualità nei servizi sociali e sanitari, “Salute e società”, a. VI, n.
2, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 47; si leggano Venneri e Vardanega anche in Claudio Bezzi, Leonardo
Cannavò e Mauro Palumbo (a cura di), Costruire e usare indicatori nella ricerca sociale e nella valutazione,
Franco Angeli, Milano 2010.
costrutti logici, e si ritrova nel paradigma lazarsfeldiano come in
quegli approcci valutativi inclini a indagare lo spazio semantico
del programma, semmai con approcci partecipati volti a
conseguire un consenso attorno alle dimensioni e agli indicatori
del programma in valutazione; ha a che fare con le logiche del
programma, con le teorie mertoniane di medio raggio25, con la
valutazione realista26 e alla teoria del programma27 e con altre
interessanti proposte più o meno recenti nel campo valutativo;

• sintattico: ovvero procedurale, formale se non addirittura


posizionale e quindi, in un rapporto di indicazione, gli indicatori
come esito di (presunti) calcoli, misurazioni e conteggi, che ha a
che fare con l’indicatore [2], e quindi più facilmente col
monitoraggio quando viene correttamente interpretato;

• pragmatico: ovvero le relazioni di significato che si instaurano fra


gli attori rilevanti attorno e al suo “uso” (ci torneremo) e quindi, in
un rapporto di indicazione, gli indicatori che si pattuiscono come
pertinenti il contesto locale; ha più a che fare con l’indicatore [3],
sia pure senza esclusività, e ha una connotazione
sostanzialmente antropologico-linguistica.

8. Una prima sintesi


Coniugando quanto detto negli ultimi paragrafi in un tentativo di
lettura unitaria proponiamo la seguente tabella, da intendere
ovviamente come strumento di dialogo e non come proposta
definitiva e men che meno esaustiva:

25 Robert K. Merton, Teoria e struttura sociale, il Mulino, Bologna, 1966, p. 13.


26 Ray Pawson e Nick Tilley Nick, Realistic Evaluation, Sage, London 1997.

27 Fra gli antesignani: Huey T. Chen, Theory driven evaluation, Thousand Oaks, CA, Sage Publications, 1990
e Carol H. Weiss, Theory-based evaluation: Past, present and future, “New Directions for Evaluation”, 76,
1997, 41-55; per rassegne utili: S. Funnell, e P. Rogers, Purposeful program theory. Effective use of theories
of change and logic models. San Francisco, CA: John Wiley & Sons, 2011; Glynn Sharpe, A Review of
Program Theory and Theory-Based Evaluations, American International Journal of Contemporary Research
Vol. 1 No. 3; November 2011, 72-75. Sulla teoria del programma torneremo a breve.
In questo momento il significato principale che si intende dare a
questa tabella è quello della possibilità. E’ “possibile” pensare al
metodo come linguaggio e come inferenze. “Ha un senso”
ipotizzare livelli di analisi differenti, che producono formati
informativi differenti (intensione ed estensione) da scegliere in
relazione al mandato valutativo (in caso di ricerca valutativa) o alle
ipotesi (in caso di ricerca classica).

Questa tabella:

• Afferma l’unicità del linguaggio come “materia” di analisi; la


differenziazione fra approcci sintattico, semantico e pragmatico
riguarda semplicemente l’angolo visuale dello stesso oggetto,
angolo visuale che si differenzia per la nostra incapacità di una
visione olistica;

• l’unicità del metodo; ogni tecnica, strumento, procedura altra


non è che una declinazione operativa alla quale appoggiare il
nostro limite euristico. Qui si coglie appieno la necessità di
comprendere il formato informativo dei dati costruiti e di
coniugare la consapevolezza di di tale formato agli specifici
bisogni conoscitivi della nostra indagine; senza questa
consapevolezza il metodo è solo simulacro;

• stabilisce delle gerarchie: sintassi-deduzione è il livello primitivo


della comunicazione e del linguaggio; riguarda l’aspetto formale
del discorso e il suo significato superficiale; questo è il livello del
linguaggio ordinario parlato dagli individui in circostanze
comuni. All’altro capo, pragmatica-abduzione è una mappa
inesplorata di distacco dalle formalizzazioni lessicale e dalle
basilari inferenze deduttive; un’area di rischi abduttivi dove
ricercare le ragioni dei comportamenti collettivi e sociali. Se
dovesse esistere il Vero, questo è il quadrante dove avrebbe
ragione di collocarsi.

La prossima tabella riguarda le diverse logiche soggiacenti tecniche


diverse, con natura eminentemente sintattica, semantica o
pragmatica:

Anche questa tabella mostra aspetti di ciò che ho definito formato


informativo dei dati, mentre la prossima cerca di sintetizzare tutto il
discorso proposto in questa prima parte.

9. Teoria del Programma e formato informativo dei dati


Nel precedente caso di studio abbiamo proposto un “oggetto” e un
contesto; ora proporremo una teoria e un’epistemologia.

Poco sopra abbiamo segnalato, en passant, alla “teoria del


programma”, molto popolare nella ricerca valutativa, che possiamo
sintetizzare in questo modo:

A program theory consists of a set of statements that describe a particular program, explain why,
how, and under what conditions the program effects occur, predict the outcomes of the program, and
specify the requirements necessary to bring about the desired program effects. […] The program
theory is vital in the theory-based evaluation; furthermore, the evaluation methodology requires
careful consideration to determine whether the program, and which aspects of the program, are
central in affecting change and for whom.28

Nella pratica, la teoria (del cambiamento) del programma si è


sviluppata in correnti diverse anche sotto il profilo operativo.
Evitando qui una rassegna di approcci che ci allontanerebbe
dall’oggetto principale della nostra analisi, segnaliamo solo come
gli approcci costruttivisti insistono per un’analisi partecipata, vale a
dire: la teoria del programma non è semplicemente deducibile
logicamente (anche se questo è uno degli approcci presenti in

28 Cfr. Sharpe, cit., p. 72 e 73.


letteratura29 ) ma partecipativamente assieme ai principali attori
sociali implicati nel programma oggetto di studio perché la realtà
effettiva del programma è ciò che gli attori immaginano essere30.

Questa premessa era necessaria per fornire una sia pur breve
cornice empirica a questo classico problema della ricerca valutativa
(piuttosto simile a quello presentato al par. 5). Il Programma che
devo valutare (per i non valutatori: l’oggetto di studio che devo
indagare), come posso concettualizzarlo in maniera
sufficientemente univoca per poter definire le operazioni di
costruzione dei dati? L’approccio deduttivo classico della ricerca
sociale ci porta ai già visti indicatori [1]. Ma il ricercatore non può
che dedurre a partire da una sua rappresentazione dei concetti; il
valutatore è solitamente abituato, dall’esperienza, a considerare
eccessivamente povera questa strada osservando che
generalmente ogni attore implicato nel programma (che è ciò che
costituisce, per il valutatore, l’oggetto di indagine) ha una sua
propria teoria del cambiamento (e quindi del programma); salvo
decidere per approcci fondati rigidamente sulla logica fattuale
(dichiarazioni formali su cosa debba realizzare il programma; analisi
formale di cosa abbia realmente prodotto…) il ricercatore deve
quindi ricostruire i significati attribuiti dagli attori alle azioni
realizzate, alle relazioni, ai contesti, ai meccanismi sociali e così via.
A differenza degli approcci logici (sintattici), qui siamo in piena
semantica che, come abbiamo visto precedentemente, aiuta
moltissimo (ed è la strada prevalentemente impiegata, anche dallo

29Per esempio Astrid, Brousselle e François Champagne, Program theory evaluation: Logic analysis,
“Evaluation and Program Planning”,n. 34, 2011, pp 69-78.

30Cfr. Claudio Torrigiani, Valutare per apprendere. Capitale sociale e teoria del programma, Franco Angeli,
Milano 2010.
Scrivente31 ), ma le molteplici considerazioni già proposte fanno
comprendere che una risposta più concreta deve essere trovata
altrove.

Una considerazione preliminare: il mondo funziona! Con tutta la


vaghezza del linguaggio, malgrado l’indicalità, superando di slancio
estensione ed intensione e in barba al Sorite, i programmi
producono qualcosa. È esperienza comune, prima ancora degli
studiosi, che sì, funzionano in qualche modo, ma sempre assai
differentemente dal progetto o programma iniziale, tant’è vero che
scolastica valutativa pone molta enfasi sulla differenza fra
programmato e realizzato. Non c’è forse dimostrazione migliore del
fatto che la comunicazione, tutta, che dalla progettazione ha
condotto fino alla realizzazione di un intervento è realmente vaga,
sottoposta a mille incidenti di percorso chiamati “variabili inattese”
proprio per sottolineare, con una sorta di umorismo inconsapevole,
che niente può funzionare in senso causale, meccanico,
determinato. Certo che il mondo funziona, ma funziona benissimo
al livello di “Passami il sale, per favore”, non già a quello di “Quanto
mi ami, cuore mio?”. Le organizzazioni sociali, i grandi programmi
finanziati coi Fondi strutturali (oggetto di attenzione dei valutatori)
come il disagio giovanile e le teorie della secolarizzazione (per
esemplificare oggetti di attenzione dei sociologi) stanno a metà fra il
sale e l’amore, sufficientemente pratici per essere compresi
all’ingrosso e sufficientemente astratti per produrre continue
sbavature, rallentamenti, equivoci, errori (solitamente piccoli,
marginali, ma bastevoli, in quantità, a produrre slittamenti di senso
e cambiamenti di azione).

31Sin dalla prima edizione 2001 del mio Disegno della ricerca valutativa (ora: Il nuovo disegno della ricerca
valutativa, Franco Angeli, Milano 2010) ho sempre insisto su quella che ho chiamato “analisi dello spazio
semantico” del programma degli attori rilevanti, da realizzare ovviamente con approcci partecipati.
La Teoria del Programma può farsi carico di questa diversità solo
con un approccio pragmatico, l’unico che non rischia di entrare nel
contesto vago del linguaggio producendo altro linguaggio vago. La
pragmatica evita di sovrapporre semantiche per cercare nuclei di
senso condivisi (illusori), e si propone di accostare l’un l’altra le
pragmatiche per verificare in cosa collidano e in cosa producano
meccanismi funzionali.

Entriamo così finalmente sul terreno più pratico, operativo, della


ricerca pragmatica. Come porsi di fronte al problema operativo
della costruzione dei dati in questo confuso contesto?

10. Orizzonti operativi


Come si è risolto il caso di studio sopra presentato? In un paio di
contesti in cui ha operato l’autore di questa memoria, cercando
appunto di vedere il mutamento di comportamenti in sé. Abbiamo
cioè rinunciato a indagare la inafferrabile qualità comunicativa,
riservandoci di riceverne informazioni tramite i comportamenti del
target. Ci sono stati mutamenti positivi? Evidentemente
l’informazione è arrivata, è stata capita ed è stata in grado di
rendere proattivi i destinatari.

[DA FARE DA FARE DA FARE !!!]

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