Obiettivi
Questa riflessione intende esplorare il ruolo del linguaggio nel
metodo delle scienze sociali. La tesi che si cercherà di esporre è
che
e poiché
ne consegue che
1 Tale depurazione è possibile solo a patto di una scelta “scolastica” preliminare. Al di là delle etichette
(quella di “positivismo” non è più attuale neppure nella forma “neo-positivismo”) l’idea di un’oggettività
dell’agire sociale, di una sua “misurazione”, di un pensiero facilmente condivisibile da attori sociali diversi
solo perché - con qualche magia operativa - li si fa confluire su una dichiarazione artificiale, di una
controfattualità realmente disponibile alla conoscenza e molto altro, tutto questo è vivo e vegeto oggi,
mentre cerchiamo di ragionare su qualunque altra prospettiva gnoseologica. Per un’ampia discussione si
veda Alberto Marradi, Oltre il complesso d’inferiorità. Un'epistemologia per le scienze sociali, Franco Angeli,
Milano 2016.
dobbiamo soffermarci sul linguaggio matematico per verificare
come
3.2. GLI INDICATORI SONO SEGNI LINGUISTICI CHE COSTITUISCONO L’ESSENZA OSSERVABILE
DELL’AGIRE SOCIALE.
6. GLI APPROCCI DEDUTTIVI (SUL PIANO DELLE INFERENZE) E SINTATTICI (SUL PIANO
DELL’ANALISI LINGUISTICA) SONO INSUFFICIENTI PER L’ANALISI DELL’AZIONE SOCIALE.
L’ANALISI PRAGMATICA SEMBRA INVECE PERMETTERE ANALISI PIÙ FEDELI 2 E, SPECIALMENTE,
UTILI ALLA COMPRENSIONE DEI FENOMENI.
2 Il concetto di ‘fedeltà’ è applicabile in questo contesto? Sì, crediamo, alla luce di osservazioni che si
faranno più avanti.
a quelli necessari per far comprendere al lettore le strade entro le
quali intendiamo muoverci.
1. Tutto è linguaggio
Tutto, assolutamente tutto quanto compone l’oggetto di studio
dello scienziato sociale è solamente linguaggio3. E’ così banale che
una volta detto sembra inutile, ma la verità è che siamo come i
pesci che non conoscono l’acqua, non ne hanno il concetto,
essendo l’acqua l’intero loro ovvio mondo.
3 L’idea che tutto sia linguaggio richiama alla mente il primo Wittgenstein del Tractatus, dal quale in realtà
più avanti ci discostiamo; altri riferimenti - anche pensando ai prossimi paragrafi - possono essere
l’Heidegger di Essere e tempo e il Gadamer di Verità e metodo. Probabilmente i riferimenti più importanti
non sono filosofici ma antropologici; Alessandro Duranti, con Antropologia del linguaggio, è certamente una
guida fondamentale. Poi Lacan. Worfh. La scuola di Oxford… In realtà questi e altri studiosi di discipline
differenti sono arrivati a conclusioni più o meno simili per ragioni differenti, all’interno di percorsi diversi. Il
richiamo in questa nota serve solo a ricordare la presenza di questa riflessione nel ‘900, indipendentemente
dagli obiettivi che aveva.
4 L’indifferenza degli scienziati sociali verso il linguaggio, e in particolare delle sue ripercussioni sul metodo,
mi pare un dato di fatto incontestabile. Sotto un profilo limitato - anche se rilevante - troviamo in realtà
importanti riflessioni sulla costruzione dei concetti che - dopo ovviamente Lazarsfeld e Boudon - ha visto in
Italia un lavoro importante e molteplice di Alberto Marradi (da Referenti, pensiero e linguaggio a Sai dire
cos’è una sedia? passando ovviamente per numerosi altri contributi) e altri. Ma queste riflessioni appaiono
sostanzialmente slegate dalle successive conseguenze operative tipiche del lavoro di ricerca; i questionari
si continuano a fare allo stesso modo, le elaborazioni dei dati con la stessa logica, i focus group con le
medesime aspettative…
5 Questo è ampiamente dimostrato sia a livello sociale che individuale. A livello sociale le tesi dello sviluppo
del linguaggio come fattore di sviluppo umano sono controverse (p.es. fra la teoria del “salto” di Chomsky e
quella di Bickerton sul protolinguaggio) si veda, per un compendio e una proposta ispirata alla linguistica di
Peirce, Terrence William Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di cervello e capacità linguistiche,
Giovanni Fioriti ed., 2001; Sul secondo piano si vedano soprattutto gli studi di Piaget, Vygotskij, Lurija. In
realtà i due piani si intersecano, come mostrano in particolare i lavori di Vygotskij e Lurija. Come è noto il
problema non riguarda la comunicazione (è noto che le società animali comunicano, anche in modo
complesso), ma un linguaggio evoluto capace di rappresentare concetti complessi e astratti.
rappresentarci come individui in una comunità, possiamo evolvere
come comunità, possiamo organizzarci socialmente.
6La relazione fra concetti e linguaggio è fondamentale. Molte delle tesi qui sostenute sono come “sospese”
a una teoria dei concetti: come nascono, come si sviluppano, come sono legati al linguaggio. Com’è noto ci
sono varie tesi, ciascuna delle quali incompleta e criticabile da qualche punto di vista; una rassegna
particolarmente completa in Paolo Piccari, Pensare il mondo. Saggio sui concetti empirici, Franco Angeli,
Milano 2010.
Il quadro astratto, la poesia ermetica, ma in generale tutte le forme
d’arte, “comunicano” molto di più di quanto il linguaggio sappia
esprimere ma quel di più è la sensazione inesprimibile che rimane al
fruitore dell’opera d’arte7; così nella relazione amorosa, dove i “Ti
amo / Mi ami?” sono così inadeguati a esprimere sentimenti che
percepiamo essere di una profondità o addirittura di una natura così
“altra”8… ma appunto ci servono i poeti per esprimere tali
sentimenti. Il linguaggio ordinario fatica a connotare ma riesce
discretamente bene a denotare, e quindi ci è indispensabile per
collaborare come individui sociali.
Pensiamo ora agli scienziati sociali. Nella loro vita quotidiana come
nella loro pratica scientifica e professionale parlano. Il linguaggio è
l’unica fonte di conoscenza e l’unico strumento per conoscere.
Entrambe le cose, con una simmetria sulla quale torneremo. Noi
siamo quello che diciamo. Quello che non diciamo (perché non lo
sappiamo dire, perché non lo possiamo dire…) non esiste ai fini
sociali ma solo come più o meno vago sentimento inesprimibile.
Noi, conseguentemente, studiamo quello che si può esprimere e
niente altro. Ma per studiarlo dobbiamo utilizzare lo stesso codice
delle informazioni ricercate, a loro volta elaborate attraverso lo
stesso codice.
2. Il linguaggio matematico
I numeri sono linguaggio. Non già un linguaggio, ma quello stesso,
ordinario, col quale costruiamo il nostro agire sociale. Se riusciamo
ad argomentare questo elemento non avremo più una distinzione
radicale fra linguaggio ordinario (quello delle parole che utilizziamo
tutti i giorni) e linguaggio matematico, e potremo fare una proposta
7 Ciò che Benjamin chiamò aura (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica).
8Ronald Laing ha avuto una chiara visione di questo problema di incomunicabilità in molteplici opere. Se in
questo specifico caso il riferimento più ovvio è l’esilarante Mi ami? non posso non rammentare anche La
politica dell’esperienza.
sul metodo come linguaggio. Ora: che in generale quello
matematico sia “un linguaggio” è conoscenza comune, ma perché
lo sia e, soprattutto, perché lo sia non già come analogia ma
proprio in senso ristretto, questo non viene quasi mai esplicitato.
Per potere accostare in senso proprio il linguaggio ordinario e
quello matematico, occorre che i due linguaggi possiedano alcune
caratteristiche in comune, tali da poterli unire come classe,
mantenendo diversità di livello inferiore che li differenzino
eventualmente come sottoclassi (uso qui ‘classe’ e ‘sottoclasse’
non in senso specifico).
9 Nel campo delle scienze sociali l’indicalità è nota soprattutto per opera di Garfinkel e
dell’etnometodologia. Cfr. Harold Garfinkel, Studies in ethnomethodology, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-
Hall, 1967, e opere successive. Una buona presentazione generale in Barbara Sena, Etnometodologia e
sociologia in Garfinkel. L'indicalità inevitabile, Franco Angeli, Milano 2011. Qui noi intendiamo il termine in
senso originario come proposto da Peirce nella sezione semiotica delle “Opere”, Bompiani, Milano 2003.
Va segnalato che in Peirce l’indicalità riguarda gli indici, che sono uno dei tre segni linguistici assieme a
icone e simboli; ciò che Peirce chiama ‘indici’ i sociologi chiamano generalmente indicatori. Il lettore che ci
seguirà nel percorso qui proposto vedrà che anche questa nostra riflessione approderà agli indicatori, letti
ovviamente in una luce differente. Cfr. anche Paola Sozzi, L’indice in Peirce: alcune riflessioni tra spazio ed
enunciazione, “Rivista Italiana di Filosofia del linguaggio”, 2014, pp. 90-101.
10 Bertrand Russell, Vagueness, Australasian Journal of Philosophy and Psychology, 1, 1923, 84–92; il testo
è facilmente reperibile in rete, per esempio qui: http://astrofrelat.fcaglp.unlp.edu.ar/filosofia_cientifica/
media/papers/Russell-Vagueness.pdf. Una discussione completa sulla vaghezza del linguaggio in Sabrina
Machetti, Uscire dal vago. Analisi linguistica della vaghezza nel linguaggio, Editori Laterza, Roma-Bari 2006.
formulare concetti più elaborati attraverso frasi complesse. In
entrambi i casi abbiamo le regole combinatorie, grammaticali, per
elaborare, accostare, far aumentare di senso i segni letterari e quelli
matematici.
3. L’agire comunicativo
La centralità del linguaggio nella riflessione sociologica e filosofica è
nota da tempo, e si può concordare nel considerare Weber e
Wittgenstein i due autori imprescindibili per iniziare un’analisi seria.
In queste note mi occuperò del particolare tipo di «sintonia» stabilitasi fra Weber e la filosofia
novecentesca, argomentando l’ipotesi che tra la «fine dell’ontologia» praticata da Weber in sociologia
e la «svolta linguistica» praticata da Wittgenstein in filosofia ci sia qualcosa di più circostanziato e
prospetticamente promettente, per l’indagine sociologica almeno, di un’«aria di famiglia» soltanto
vaga o genericamente suggestiva. L’ipotesi è che vi sia un comune oggetto d’osservazione, costituito
dal senso grammaticale che il testo di ogni decisione o presa di posizione – ma ogni azione può
essere considerata tale, sia essa linguisticamente espressa o linguisticamente comprensibile –
presenta al suo interno a chi, ed è il caso di Weber prima ancora che di Wittgenstein, lo sappia
leggere anti-ontologicamente. A chi cioè sappia identificare e descrivere, restando all’interno di
quello stesso testo, le regole grammaticali che lo strutturano, in alternativa all’usarlo come semplice
pre-testo di una qualche realtà privata, quale essa sia, da ricercarsi procedendo inferenzialmente «al
di là» di quello.
11Andrea Sormano, Weber, Wittgenstein e la grammatica del senso, “Quaderni di Sociologia”, 17, 1998, pp.
124-146.
indagine; ma essendo l’indagare un particolare tipo di azione
sociale, ecco che costituiamo un’unico senso, uguale per l’uomo
della strada come per il sociologo che lo osserva. L’osservazione
del sociologo è solo più esplicita, intenzionata, istituzionalizzata.
Il «significato», dunque e innanzitutto; il significato «che ha per noi» la «realtà», in secondo luogo,
costituisce la realtà oggetto di quella scienza della cultura che può essere, con la storia, la sociologia.
Ma questo oggetto, così definito, altro non è che il senso, nell’accezione connessionistica che ne dà
Weber, ossia la connessione di senso (Sinnzusammenhang) quale comparirà nelle prime pagine di
Economia e società: «[…] per la sociologia, nell’accezione che abbiamo qui assunto – al pari che per
la storia – l’oggetto di comprensione è proprio costituito dalla connessione di senso dell’agire».
(Weber, 1974, 12) Usando la terminologia wittgensteiniana ciò vuol dire che il significato della realtà
(non la realtà), oggetto della nostra osservazione, non ha alcun senso sociologico (è una «mitologia
filosofica» o una «rappresentazione primitiva» del significato o l’oggetto di un «altro gioco»
osservativo) se non è innanzitutto identificato all’interno di quei «processi» che sono i «giochi
linguistici» che lo producono. Ma il significato prodotto all’interno di tali «giochi» non ha altro senso
se non quello ancora soltanto «grammaticale» (in senso stretto) se tali giochi non sono a loro volta
localizzati all’interno dell’«attività» o «forma di vita» di cui «sono parte». Se cioè non sono collocati
all’interno, diremo, della «grammatica istituzionale» delle «regole del gioco» che strutturano ogni
«forma di vita» organizzata, così come son state identificate, anche se non in questi termini o
all’interno di questa prospettiva, in sociologia (Sormano, cit.)
È infatti la funzione del conoscere che ora costruisce e costituisce l’oggetto, non come assoluto, ma
come condizionato da questa stessa funzione, come “oggetto nel fenomeno.
Ci sembra che la sociologia (e non solo) anche nelle sue visioni individualiste
(da Weber a Boudon), interazioniste (Mead, Goffman…) etc. intenda il
linguaggio come uno strumento per comprendere l’agire (il mondo vitale, la
natura delle relazioni…), separato da quello stesso agire che si cerca di
comprendere.
12Filosofia delle forme simboliche, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 8. Il ruolo del linguaggio in
Cassirer, nell’ambito di una prospettiva costruttivista, è trattato da Hans Jörg Sandkühler, Linguaggio,
segno, simbolo. L’anti-ontologia di Ernst Cassirer, “Rivista internazionale di filosofia e psicologia”, n. 1,
2010, pp. 1-13.
infinita di interpretazioni ha come strumento e come oggetto il
linguaggio, accade necessariamente questo:
oppure
Riassumendo:
13 Sociologi, antropologi, psicologi e pedagogisti, oltre ovviamente ai linguisti, si sono occupati delle
differenze di uso dei codici in differenti condizioni sociali, a latitudini differenti, fra generi, età etc. Una
rassegna esemplificativa: persone diverse possiedono competenze linguistiche diverse (Bloomfield 1984;
Labov 1972); noi pensiamo (e quindi concepiamo) solo ciò che le parole che possediamo sono in grado di
farci esprimere (Luria 1976; Vygotskij 1934-1992); ciò che pensiamo è orientato e organizzato nell’ambito
della cultura dominante e dei suoi valori (Denzin 2001); le parole e le regole sintattiche di una determinata
società influenzano direttamente la sua cultura, e quindi i valori espressi (Whorf 1956); vi è una
corrispondenza imperfetta fra struttura del linguaggio e significato e fra oggetto percepito, significato che
gli viene attribuito, descrizione del referente (Cicourel 1964); Il linguaggio – e in generale la comunicazione –
ha profondi significati simbolici e sociali spesso prevalenti rispetto ai contenuti veicolati (Goffman 1961,
1967, 1981; Garfinkel 1967); I significati e sensi locali sono utilizzati per spiegazioni e “teorie” generali
(Geertz 1983; Denzin 2001). Riferimenti specifici:
•Bloomfield L., 1984 [1935/1st], Language, The University of Chicago Press, Chicago.
•Cicourel A. V., 1964, Method and Measurement in Sociology, The Free Press, New York.
•Denzin N. K., 2001, Interpretive Interactionism, 2nd ed., Sage, Thousand Oaks, CA.
•Geertz C., 1983, Local Knowledge. Further Essays in Interpretative Anthropology, Basic Books, Inc, New
York.
•Goffman E., 1961, Encounters: Two studies in the sociology of interaction, Bobbs-Merrill, Indianapolis.
•Goffman E.,1967, Interaction ritual: Essays on face-to-face behaviour, Anchor, Garden City, NY.
•Luria A. R., 1976, La storia sociale dei processi cognitivi, Giunti Barbèra, Firenze.
•Russell B., 1923, “Vagueness”, Australasian Journal of Philosophy and Psychology, n. 1, pp. 84-92 (anche
in Rosanna Keefe and Peter Smith –eds. – Vagueness. A Reader, M.I.T. Press, Cambridge, Mass., 1996, pp.
61-68).
4. Il linguaggio tremulo
Dove ci porta tutto questo? Al linguaggio come centro
imprescindibile (e anche come limite) del nostro agire e del nostro
conoscere, ma il linguaggio, come detto, non è un codice
convenzionale univoco. Il linguaggio dipende dal contesto degli
individui, loro educazione, esperienze, latitudine e moltissimi altri
fattori ben noti e studiati che includono elementi personologici,
affettivi, contingenti e soprattutto cangianti. Non bisogna incontrare
cinesi o lapponi per testimoniare questa estrema variabilità alla
quale aggiungere la vaghezza imprescindibile di ogni linguaggio. La
vaghezza del linguaggio e la sua variabilità intersoggettiva
retroagiscono sui concetti che costituiscono i nostri schemi mentali
(Neisser14 ). Sul rapporto fra concetti e linguaggi occorrerebbe
spendere molte parole ma preferiamo andare diritti al punto.
io agisco,
l’azione è la
tu agisci,
sintesi
OPERATIVA di
ciascuno
linguaggi simili
agisce
ma diversi ⇣
…→
io interpreto,
l’interpretazion
tu interpreti,
e è la sintesi
OPERATIVA dei
ciascuno
diversi
interpreta … →
linguaggi ⇣
io agisco,
l’azione è la
tu agisci,
sintesi
OPERATIVA di
ciascuno
linguaggi simili
agisce
ma diversi ⇣
…→
ad infinitum
• [risposta]
• ma quando dici [ciò che hai detto] cosa intendi? Puoi fare un
esempio?
• [esempio]
17 Un’ottima critica metodologica all’analisi di customer satisfaction in Guido Giarelli, Oltre la ‘customer
satisfaction’: il problema di cogliere la complessità di un punto di vista, in Costantino Cipolla, Guido Giarelli
e Leonardo Altieri, “Valutare la qualità in sanità”, Franco Angeli, Milano 2002.
18 Domenico Lipari è, in Italia, un antesignano degli approcci etnografici nella valutazione delle
organizzazioni; cfr. Dinamiche di vertice. Frammenti di un discorso organizzativo, Guerini e Associati, Milano
2007 e Formatori. Etnografia di un arcipelago professionale, Franco Angeli, Milano 2012. Il limite, se così
vogliamo chiamarlo, di tale approccio è che il dato è costruito in forma di narrazione, esattamente come i
resoconti etnologici del ‘900 e, per quanto suggestivi e profondi, “narrano” esperienze differenti a lettori
differenti lasciandoli nelle medesime prospettive antecedenti la ricerca. In molteplici casi di ricerca
l’ambizione è indubbiamente il chiarimento, il disambiguamento, la convergenza.
che viene generalmente dato per condiviso da tutti i parlanti
consimili per educazione, competenze, esperienze e così via. Se
per esempio dicessimo:
I bambini sono da considerare idonei a mangiare il cibo da soli quando sanno arrotolare gli spaghetti
con la forchetta
L’atto, il fatto, il modo di definire, di determinare cioè il significato di una parola o comunque di una
espressione verbale mediante una frase (il più possibile concisa, e comunque completa) costituita da
termini il cui significato si presume già noto, così da individuare di quella parola o espressione le
qualità peculiari e distintive, sia con l’indicarne l’appartenenza a determinate specie, generi, classi,
ecc., sia col rilevarne funzioni, relazioni, usi, ecc. (Vocabolario Treccani).
Bambini che sanno arrotolare gli spaghetti = bambini occidentali, presumibilmente italiani, di classe
media e senza particolari problemi dietetici e di manualità, che a partire dai 4 anni circa sanno
mangiare gli spaghetti con la forchetta secondo gli standard tipici della classe media.
Non può restare che un terzo livello di analisi del concetto, quello
pragmatico. L’analisi pragmatica prescinde da qualunque obbligo di
condivisione e tiene conto dell’uso reale delle parole da parte degli
attori sociali. Tale uso può riflettere concetti che sono in parte
semanticamente “coperti” ugualmente dai parlanti, in parte coperti
solo in certi settori (vale a dire che alcune dimensioni e indicatori
sono coestesi, altri no), e in parte completamente differenti, come
mostra la prossima figura.
19Un caso di studio differente, e per certi aspetti ancora acerbo, riguarda la valutazione del servizio
pubblico per le dipendenze; cfr. Claudio Bezzi e Gianni Morandi, “Si può valutare il trattamento delle
dipendenze? Un approccio pragmatico a contesti controversi”, Rassegna italiana di Valutazione, a. XI, n. 37,
2007, pp. 23-45.
La relazione pragmatica genera un’azione sociale zero →1, con “1”
continuamente cangiante e in costante adattamento secondo il
procedere della relazione.
6.3 La punteggiatura
20Ci riferiamo a Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione
umana. Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma 1971. Watzlawick (e
colleghi) è in genere piuttosto sottovalutato a causa di una massiccia divulgazione, sovente banalizzata,
delle sue riflessioni.
21Il concetto di “meccanismo” è divenuto attuale dopo il fortunato testo di Ray Pawson e Nick Tilley,
Realistic Evaluation, Sage, London, 1997; una sintesi in Ray Pawson e Nick Tilley, “Un’introduzione alla
valutazione scientifica realistica”, in Nicoletta Stame (a cura di), Classici della valutazione, Franco Angeli,
2007, Milano, pp. 371-385.
I fattori intervenienti agiscono modificando il discorso, quindi la
relazione e la sua interpretazione, che abbandona i precedenti
binari per adattarsi su un nuovo piano (prima figura qui sotto). Il
succedersi di innumerevoli (e spesso non conosciuti) fattori
intervenienti non rende mai chiaro l’esito dell’intervento (l’efficacia
del servizio) seconda figura qui sotto.
‣ nazionalità;
‣ religione;
‣ livello scolastico;
‣ quadro personologico;
‣ competenza;
‣ preparazione;
‣ empatia e distacco;
‣ burn out;
‣ progettualità;
‣ budget;
‣ “momento storico”;
‣ stereotipi locali;
• …
Tornando quindi alla definizione di efficacia situazionale, si
comprende ora come ciò che definiamo “servizio”, “operatore”,
“bisogno” e così via, sono tutte componenti variabili che esistono in
quanto agiscono, e agiscono come la situazione rende possibile,
non di più né di meno, non meglio né peggio.
22 Cfr. Alberto Marradi, Concetti e metodi per la ricerca sociale, La Giuntina, Firenze 1987;
23 [CERCARE PIÙ RECENTI] Cfr. fra gli altri: Davide Pettenella, La valutazione degli investimenti forestali,
Irres - Regione dell’Umbria, Perugia, 1995, p. 34; Aviana Bulgarelli (a cura di) (1997), L’integrazione fra
sistemi di formazione e istruzione nel primo triennio di gestione del Fondo Sociale Europeo, Isfol – Struttura
di valutazione del FSE, [Roma], pp. 1-2; Ennio Galante, Cesare Sala, Luca Lanini, Valutazione della ricerca
agricola, Franco Angeli, Milano, 1998, p. 65; Mauro Palazzi e Paolo Ugolini, “La valutazione della qualità
negli interventi di prevenzione dei servizi socio-sanitari”, in Paolo Ugolini e Franco C. Giannotti (a cura di),
Valutazione e prevenzione delle tossicodipendenze. Teoria, metodi e strumenti valutativi, Franco Angeli,
Milano, 1998, p. 80
[3] /indicatore/ : ‘un elemento negoziato, e perciò stesso
disambiguo entro un contesto locale, di denotazione di senso’24.
24 Cleto Corposanto, “La valutazione e lo sviluppo della ricerca valutativa”, in Cleto Corposanto (a cura di),
Sulla valutazione della qualità nei servizi sociali e sanitari, “Salute e società”, a. VI, n. 2, FrancoAngeli,
Milano, 2007, p. 20; Eleonora Venneri, “Indicatori sociali: scenari, acquisizioni, prospettive”, in Cleto
Corposanto (a cura di), Sulla valutazione della qualità nei servizi sociali e sanitari, “Salute e società”, a. VI, n.
2, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 47; si leggano Venneri e Vardanega anche in Claudio Bezzi, Leonardo
Cannavò e Mauro Palumbo (a cura di), Costruire e usare indicatori nella ricerca sociale e nella valutazione,
Franco Angeli, Milano 2010.
costrutti logici, e si ritrova nel paradigma lazarsfeldiano come in
quegli approcci valutativi inclini a indagare lo spazio semantico
del programma, semmai con approcci partecipati volti a
conseguire un consenso attorno alle dimensioni e agli indicatori
del programma in valutazione; ha a che fare con le logiche del
programma, con le teorie mertoniane di medio raggio25, con la
valutazione realista26 e alla teoria del programma27 e con altre
interessanti proposte più o meno recenti nel campo valutativo;
27 Fra gli antesignani: Huey T. Chen, Theory driven evaluation, Thousand Oaks, CA, Sage Publications, 1990
e Carol H. Weiss, Theory-based evaluation: Past, present and future, “New Directions for Evaluation”, 76,
1997, 41-55; per rassegne utili: S. Funnell, e P. Rogers, Purposeful program theory. Effective use of theories
of change and logic models. San Francisco, CA: John Wiley & Sons, 2011; Glynn Sharpe, A Review of
Program Theory and Theory-Based Evaluations, American International Journal of Contemporary Research
Vol. 1 No. 3; November 2011, 72-75. Sulla teoria del programma torneremo a breve.
In questo momento il significato principale che si intende dare a
questa tabella è quello della possibilità. E’ “possibile” pensare al
metodo come linguaggio e come inferenze. “Ha un senso”
ipotizzare livelli di analisi differenti, che producono formati
informativi differenti (intensione ed estensione) da scegliere in
relazione al mandato valutativo (in caso di ricerca valutativa) o alle
ipotesi (in caso di ricerca classica).
Questa tabella:
A program theory consists of a set of statements that describe a particular program, explain why,
how, and under what conditions the program effects occur, predict the outcomes of the program, and
specify the requirements necessary to bring about the desired program effects. […] The program
theory is vital in the theory-based evaluation; furthermore, the evaluation methodology requires
careful consideration to determine whether the program, and which aspects of the program, are
central in affecting change and for whom.28
Questa premessa era necessaria per fornire una sia pur breve
cornice empirica a questo classico problema della ricerca valutativa
(piuttosto simile a quello presentato al par. 5). Il Programma che
devo valutare (per i non valutatori: l’oggetto di studio che devo
indagare), come posso concettualizzarlo in maniera
sufficientemente univoca per poter definire le operazioni di
costruzione dei dati? L’approccio deduttivo classico della ricerca
sociale ci porta ai già visti indicatori [1]. Ma il ricercatore non può
che dedurre a partire da una sua rappresentazione dei concetti; il
valutatore è solitamente abituato, dall’esperienza, a considerare
eccessivamente povera questa strada osservando che
generalmente ogni attore implicato nel programma (che è ciò che
costituisce, per il valutatore, l’oggetto di indagine) ha una sua
propria teoria del cambiamento (e quindi del programma); salvo
decidere per approcci fondati rigidamente sulla logica fattuale
(dichiarazioni formali su cosa debba realizzare il programma; analisi
formale di cosa abbia realmente prodotto…) il ricercatore deve
quindi ricostruire i significati attribuiti dagli attori alle azioni
realizzate, alle relazioni, ai contesti, ai meccanismi sociali e così via.
A differenza degli approcci logici (sintattici), qui siamo in piena
semantica che, come abbiamo visto precedentemente, aiuta
moltissimo (ed è la strada prevalentemente impiegata, anche dallo
29Per esempio Astrid, Brousselle e François Champagne, Program theory evaluation: Logic analysis,
“Evaluation and Program Planning”,n. 34, 2011, pp 69-78.
30Cfr. Claudio Torrigiani, Valutare per apprendere. Capitale sociale e teoria del programma, Franco Angeli,
Milano 2010.
Scrivente31 ), ma le molteplici considerazioni già proposte fanno
comprendere che una risposta più concreta deve essere trovata
altrove.
31Sin dalla prima edizione 2001 del mio Disegno della ricerca valutativa (ora: Il nuovo disegno della ricerca
valutativa, Franco Angeli, Milano 2010) ho sempre insisto su quella che ho chiamato “analisi dello spazio
semantico” del programma degli attori rilevanti, da realizzare ovviamente con approcci partecipati.
La Teoria del Programma può farsi carico di questa diversità solo
con un approccio pragmatico, l’unico che non rischia di entrare nel
contesto vago del linguaggio producendo altro linguaggio vago. La
pragmatica evita di sovrapporre semantiche per cercare nuclei di
senso condivisi (illusori), e si propone di accostare l’un l’altra le
pragmatiche per verificare in cosa collidano e in cosa producano
meccanismi funzionali.