Marxismo e femminismo a
confronto
Categoria: donne e rivoluzione
Sabato, 10 Ottobre 2015 11:00
di Sonia Previato
Fourier nel 1808 nella sua "Teoria del quattro movimenti" spiegò che "i progressi sociali si
misurano in ragione del progresso della donna verso la libertà". Marx ed Engels successivamente
analizzarono profondamente lo sviluppo della società umana non solo sul piano economico, ma
anche quello culturale e del rapporto fra i sessi.
Il marxismo ha analizzato l’origine dell’oppressione femminile e ha posto le basi teoriche per il suo
superamento.
In particolare Engels ne L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), a
partire dalle conoscenze scientifiche e antropologiche di allora mostra il carattere dinamico delle
strutture sociali e come queste strutture siano legate al livello di sviluppo delle forze produttive.
"L’aumento della produzione in tutti i campi - allevamento del bestiame, agricoltura, artigianato
domestico - rese la forza-lavoro umana capace di creare un prodotto che eccedeva la quantità
necessaria al suo mantenimento. (...) Non sappiamo ancora come e quando gli armenti, da
proprietà comune della tribù o della gens, entrarono in possesso dei singoli capifamiglia. Nella sua
sostanza, però, ciò deve aver avuto luogo in questo stadio (lo stadio medio dello stato selvaggio -
NdR). La famiglia venne ora rivoluzionata dagli armenti e dalle altre nuove ricchezze. Era sempre
stato l’uomo ad occuparsi della produzione, dei mezzi di produzione da lui costruiti e della loro
proprietà. Essendo gli armenti il nuovo mezzo di produzione, l’addomesticamento iniziale e, dopo,
la loro custodia, erano lavori che toccavano all’uomo. Il bestiame, perciò era sua proprietà, e così
le merci e gli schiavi che ne aveva ottenuti in cambio. Ogni sovrappiù che venisse ora prodotto
spettava all’uomo: la donna ne partecipava al consumo, ma non alla proprietà. Il guerriero e il
cacciatore "selvaggi" erano stati soddisfatti di essere secondi, in casa, alla donna; il "più mite"
pastore, forte della sua ricchezza, conquistò il primo posto, respingendo la moglie al secondo. Ed
essa non poteva lamentarsi. (...)
Con il dominio effettivo dell’uomo nella casa era venuto meno l’ultimo ostacolo al suo potere
assoluto. Questo venne ribadito e reso eterno con la caduta del diritto matriarcale, l’avvento di
quello patriarcale, la graduale transizione dal matrimonio di coppia alla monogamia. Questo fatto
comportò una lacerazione nell’antica costituzione gentilizia: la famiglia singola diventò una
potenza e si eresse di fronte alla gens con fare minaccioso."1
Da questa genesi antica le donne sono state e sono considerate esseri inferiori. Contemporaneo a
Marx, in Italia, l’abate Rosmini ispirava l’educazione di tante "fanciulle" di buona famiglia e si
appellava alla natura per ribadirne l’antica soggezione all’uomo:
"Compete al marito secondo convenienza della natura essere capo e signore; compete alla moglie,
e sta bene, l’esser quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo
nome dominata"2.
Su queste teorie che forse possono far sorridere e parere antiquate, si basava il Diritto di famiglia in
Italia, riformato solo nel 1975 dopo lotte durissime.
E le lotte e i dibattiti infatti si accesero su questo tema in tanti momenti della storia, ma l’ascesa del
capitalismo segna un passaggio decisivo che muta radicalmente i rapporti fra gli individui.
Lo sviluppo del modo di produzione capitalista ebbe infatti ripercussioni importanti su tutte le
donne, da quelle delle classi elevate, fino alle proletarie. Sono precisamente quei processi descritti
da Engels che spingono le donne borghesi, e anche qualche nobildonna a rivendicare più diritti e
come tenteremo di chiarire qui, descrivendo alcune di quelle battaglie a cavallo fra il XIX e il XX
secolo, a scuotere le coscienze e il sistema sociale.
Le borghesi "rivoluzionarie"
Già nel ’700 in America come in Europa si svilupparono circoli di discussione sull’uguaglianza dei
sessi, ma dal carattere estremamente moderato, il tema centrale era il diritto all’educazione. Persino
in Italia le nobildonne disputarono sull’utilità dello studio e sulla sua superiorità rispetto ai bei
vestiti.
La rivoluzione francese è il primo caso in cui questi circoli ristretti vengono letteralmente "allagati"
dalle masse, dalle popolane, che vedono nel processo rivoluzionario la possibilità di riscatto dalla
propria miseria e di mettere in pratica l’uguaglianza dei sessi. Olimpya de Gouges, una borghese
girondina, si fa paladina di queste aspirazioni e nel 1791 presenta la sua Dichiarazione dei diritti
della donna e della cittadina. Qui tuttavia vediamo chiaramente quanto il marxismo ha
successivamente analizzato ovvero la superiorità degli interessi di classe su quelli di genere.
Quando infatti il processo rivoluzionario entra nella fase critica in cui la reazione si organizza per
affossare la rivoluzione, la de Gouges non capisce che per difendere quegli stessi diritti per cui
diceva di battersi era necessario sconfiggere i sostenitori della monarchia, pena il tradimento e la
sconfitta delle masse in rivolta. Nel 1793 si schiera contro la messa a morte del re e contro la
politica del terrore di Robespierre e per questa ragione viene a sua volta ghigliottinata nel 1793.
Tuttavia le battaglie che ebbero un carattere di massa furono successive e con un chiaro contenuto
politico: il diritto di voto.
Negli Usa a partire dalla guerra tra Nord e Sud per l’abolizione della schiavitù si sviluppò un
movimento femminile. Alle donne non fu concesso di firmare la dichiarazione abolizionista degli
Stati del Nord e per questa ragione fondarono una Società antischiavista femminile nel 1830.
Questa società iniziò una campagna in cui metteva sullo stesso piano la condizione dei neri con
quella delle donne e avviò una lungo percorso di dibattiti pubblici (allora praticamente vietati per le
donne) e di pubblicazioni in cui si rivendicava il diritto di voto, il diritto a disporre della proprietà e
dei guadagni, l’affidamento dei figli in caso di divorzio e una diversa educazione per le donne. Nel
1850, anno in cui si tenne il primo congresso nazionale per i diritti femminili, su un milione di
lavoratori circa un quarto erano donne. Nonostante quindi ci fosse una presenza importante di
donne fra il proletariato, gli interessi delle associazioni femminili erano orientati, a parte la
questione del voto, alla tutela dei loro diritti nell’ambito della classe borghese.
Le suffragette inglesi
Il movimento che più scosse le coscienze per la radicalità dei metodi di lotta fu quello delle
suffragette inglesi, che rivendicavano appunto il suffragio universale. Il partito laburista fin dalla
sua nascita (1900) rivendicava il diritto di voto alle donne e le dirigenti sindacali e del partito
laburista indipendente erano attive nella campagna per il diritto di voto alle donne lavoratrici. Nel
1903 nasce l’Unione sociale e politica delle donne, fondata da Emmeline Pankhurst. Questa
associazione definisce superati i metodi dei convegni e delle petizioni, inizia una campagna di
boicottaggio dei candidati liberali e di azioni simboliche. Le suffragette interrompono i comizi dei
liberali, si aggrappano ai lampioni, in ogni iniziativa politica sono presenti con i loro cartelli a
rivendicare il diritto di voto. Il governo passa alla repressione dura. Ci sono arresti di massa e molte
suffragette vengono condannate ai lavori forzati. Nelle carceri entrano in sciopero della fame, della
sete e del sonno e per non farle morire il governo ordina l’alimentazione forzata. Il partito laburista
che appoggia il movimento denuncia le torture in prigione, ma il governo non cambia strategia.
Anzi, nel novembre del 1909 due suffragette vengono uccise dalla polizia nel corso di una
manifestazione. Da qui inizia una spirale sempre più violenta: le femministe reagirono incendiando
edifici e vagoni ferroviari, furono distrutte vetrine e caselle postali. Le carceri si riempiono di donne
che iniziano subito lo sciopero della fame e la polizia, per non torturarle, le libera per riarrestarle
poco dopo, inaugurando la famosa strategia del "gatto e il topo". Nel 1913 la polizia invade la sede
delle femministe, sopprime il giornale e scioglie l’associazione.
Lo stesso anno, manifestando la disperazione per il vicolo cieco in cui era entrato il movimento, una
suffragetta, Emily Davidson, nel corso di una corsa ippica al cospetto del re e della regina e di
migliaia di spettatori, si getta fra i cavalli in corsa, restandone mortalmente schiacciata.
Di lì a poco sarebbe scoppiata la prima guerra mondiale e una buona parte delle dirigenti del
movimento femminista abbracciò la propaganda patriottica; Emmeline Punkhurst tornò in libertà e
venne incaricata dal governo di organizzare le donne per sostituire gli uomini richiamati alle armi.
Il movimento delle suffragette era prevalentemente formato da giovani donne della piccola
borghesia, che si rivoltavano contro l’ipocrisia della società e della loro classe che le voleva solo
brave mogli al servizio dei loro bravi mariti. Non c’è alcun dubbio però che suscitarono, per la loro
abnegazione e perseveranza, la simpatia e l’appoggio fra la classe lavoratrice, particolarmente nei
primi anni. Successivamente infatti, proprio quando la strategia delle azioni eclatanti mostrava il
fiato corto, si aprì una spaccatura nel movimento. Una parte di esso, guidato dalla figlia di
Emmeline, Sylvia Punkhurst entrò in contatto con le donne del movimento operaio dell’East End di
Londra e comprese che, per difendere veramente le donne, il voto era solo un mezzo attraverso il
quale estendere una lotta più generale contro l’oppressione della donna e del capitalismo. Sylvia fu
fra le fondatrici del Partito comunista inglese.
Ciononostante, le condizioni drammatiche in cui lavoravano le donne spinsero queste "schiave delle
convenienze" a lotte durissime e ad entrare nelle organizzazioni del movimento operaio. Fra il 1880
e il 1890 assistiamo in Italia ad un’ondata di lotte che danno vita alle prime associazioni e
organizzazioni operaie: leghe, casse di mutuo soccorso, sindacati, camere del lavoro, il partito
socialista stesso nacque nel 1892. Particolarmente nelle campagne il movimento fu molto attivo e
vide un’alta partecipazione femminile. Il primo sciopero delle mondine fu quello a Molinella nel
1883 per ottenere un piccolo aumento salariale. Tre anni dopo fu la volta delle mondariso di
Medicina, con rivendicazioni analoghe. A Monselice lo sciopero venne represso nel sangue: tre
mondine furono uccise e altre 11 gravemente ferite. Nella bassa padana le mobilitazioni costrinsero
i padroni delle risaie a ricorrere al crumiraggio organizzato. Chiamarono dal ferrarese e dalla
Romagna altre mondine a sostituire le scioperanti, ma tale era il livello della lotta che anche le
crumire si unirono allo sciopero e il padrone fu costretto alla ritirata. In seguito a questa lotta
durissima 42 lavoratrici vennero processate e accusate di "attentato alla libertà del lavoro, per
resistenza e oltraggio a pubblici ufficiali".
Il coraggio straordinario di queste donne, che nella lotta collettiva erano riuscite a prendere fiducia
nelle loro capacità e sul loro reale potere, non poteva non avere una ripercussione anche entro le
quattro mura di casa. Il ridicolo di cui le si copriva per voler interessarsi di sindacato e "di cose da
uomini" doveva necessariamente cedere il passo al rispetto e ad una emancipazione del modo di
pensare di quei padri, mariti e fratelli altrettanto sfruttati. Il segnale più importante di questi
mutamenti lo vediamo nell’affermarsi di forme di organizzazione del lavoro femminile, nonostante
prevalga lo scetticismo dei lavoratori maschi e molte delle loro organizzazioni siano precluse alle
lavoratrici.
E qui vediamo come l’oppressione della donna lavoratrice da parte degli uomini della sua stessa
classe sociale abbia un carattere diverso rispetto alla classe borghese. I pregiudizi contro le donne
dell’abate Rosmini e della classe dominante sono determinati dalla volontà di perpetuare il dominio
borghese sulle donne e sulla classe lavoratrice; i pregiudizi degli operai e dei contadini, che spesso
vengono espressi con grande brutalità, sono determinati dall’ignoranza in cui volutamente la classe
dominante deve mantenere tutti i suoi sottoposti. I pregiudizi dei borghesi non possono essere
superati perché sono la condizione, sul piano culturale, del loro dominio. I pregiudizi degli sfruttati
invece, nonostante siano profondamente radicati, entrano in contraddizione con il loro bisogno di
emancipazione sociale e possono essere superati nell’azione collettiva. La classe operaia ha un
interesse comune nella liberazione dal giogo capitalista: nella lotta di classe impara a conoscere la
sua forza e anche a superare la miseria culturale in cui la borghesia la vuole schiacciata.
Quest’appassionato appello era parte di una battaglia centrale del partito, ovvero di una legge di
protezione del lavoro femminile e minorile, che venne approvato, seppur con forti peggioramenti
rispetto alla proposta socialista, nel 1902, come risultato della dura lotta di classe. Tuttavia il partito
socialista era attraversato da un forte dibattito relativo alla questione femminile. Nella misura in cui
ci si limitava a rivendicare maggiori tutele per quei lavori che erano chiaramente disumani tutti
erano d’accordo, approfondendo l’analisi emergevano forti crepe. La prima battaglia era contro
l’economicismo, ovvero la tendenza della maggioranza dei dirigenti socialisti, compresa la
Kuliscioff, a sostenere che una volta garantita l’emancipazione economica alle donne, e dunque
eliminata la dipendenza economica dall’uomo, il problema della loro oppressione fosse risolto. In
particolare Anna Maria Mozzoni, una borghese di Milano che aveva iniziato la sua attività proprio
contro l’ipocrisia borghese che vuole la donna priva di autonomia, tentava un approccio più
articolato, denunciando la necessità di una battaglia anche sul terreno culturale.
Nonostante la Mozzoni avesse aderito al partito socialista fin dall’inizio perché considerava la
liberazione della classe operaia al centro del suo pensiero, non riuscì mai a collocare in chiave
rivoluzionaria la questione femminile, limitandosi ad attaccare giustamente l’economicismo, ma
senza tradurre in una proposta politica le sue intuizioni corrette. Complessivamente quindi il partito
socialista non riesce a tradurre una propaganda corretta in un programma politico rivoluzionario,
delegando spesso il suo intervento concreto alle leghe operaie e al sindacato, i quali avevano un
programma ancora più moderato.
Sulla questione del voto alle donne, poi, si evidenzia ancora più chiaramente la non comprensione
della questione. Nonostante non ci sia mai stato un formale schieramento contro il suffragio
femminile, l’interesse era come minimo tiepido, tanto che Filippo Turati, segretario del partito, nel
1910 nel pieno della campagna per il suffragio femminile, in cui Giolitti affermò che concedere i
diritti politici a tanti milioni di donne sarebbe stato un salto nel buio, sostenne che "l’ancor pigra
coscienza politica" delle masse femminili non avrebbe portato grandi benefici e al contrario avrebbe
rafforzato i partiti conservatori. Sebbene questa affermazione corrispondesse forse alla situazione
del momento, non era certo di stimolo a fare un lavoro per svegliare la "pigra coscienza". Il voto del
Psi in parlamento a favore del suffragio femminile rappresentava quindi più una petizione di
principio, corretta ma astratta, che non una reale volontà di impegnarsi a fondo in questa lotta.
La Rivoluzione d’Ottobre e il Partito comunista
Un apporto decisivo a chiarire la situazione e a far emergere posizioni più avanzate l’ebbe
certamente il dibattito internazionale del movimento operaio. Cominciavano a circolare gli articoli
di Clara Zetkin sulla questione femminile anche in Italia e l’arrivo della Prima guerra mondiale fece
precipitare le contraddizioni nei partiti socialisti. Alla propaganda in difesa degli operai seguì una
capitolazione totale agli interessi delle borghesie nazionali. Quasi tutti i partiti socialisti della
Seconda internazionale votarono a favore dei crediti di guerra avallando il massacro di quegli stessi
milioni di operai di cui volevano farsi paladini. Lenin nel 1914 si distingue in questa orgia
patriottarda denunciando la viltà dei partiti socialisti e lanciando una nuova internazionale che si
prefiggesse l’obiettivo della rivoluzione socialista e i cui sostenitori dovevano rompere con quei
dirigenti socialisti che avevano tradito la causa proletaria. La rivoluzione d’ottobre nel 1917 diede
impulso alla nuova internazionale e all’avanzamento del dibattito nei partiti socialisti che si
trovarono costretti a prendere posizione su quell’evento di straordinaria importanza. Fra il 1920 e il
1921 dalla scissione dei partiti socialisti nacquero i partiti comunisti e la Terza internazionale che si
proponeva di conquistare il potere a livello mondiale estendendo quindi l’esperienza sovietica a
tutto il mondo e in particolare in Europa dove c’era un grande fermento rivoluzionario.
Non è questa la sede per un approfondimento di quei grandi eventi e del loro riflesso in Italia. Ci
interessa però sottolineare che questi avvenimenti ebbero un grande effetto nel dibattito sulla
questione femminile in Italia. Per la prima volta la prospettiva comunista sulla liberazione della
donna aveva un impulso sufficiente a formare un gruppo di quadri dirigenti capaci di portare avanti
quella battaglia.
Nel partito socialista si consolidò quell’opposizione che andò poi a formare il partito comunista.
Particolarmente i compagni e le compagne che diedero vita all’esperienza dell’Ordine Nuovo a
Torino si posero l’obiettivo cosciente di applicare l’esperienza sovietica alla situazione italiana e
infatti si trovarono a dirigere l’occupazione delle fabbriche a Torino e un movimento rivoluzionario
nel 1919-20 su scala nazionale, noto come il biennio rosso.
In questo clima si formarono le dirigenti comuniste che scrissero le pagine più belle e profonde del
movimento operaio sulla liberazione della donna. La principale dirigente dell’Ordine Nuovo era
Camilla Ravera, lo slogan che sintetizzava il programma del gruppo, "la donna libera dall’uomo,
tutti e due liberi dal capitale". Il terreno di intervento erano le lotte operaie, ma non più con
l’atteggiamento paternalistico di chi difende i miseri sfruttati, bensì promuovendo il protagonismo
operaio, formando quadri operai, e conquistando gli operai alla causa del comunismo. In questa
ottica cresce l’intervento fra le lavoratrici e Gramsci, direttore dell’Ordine Nuovo, affida a Camilla
Ravera la cura di una rubrica settimanale del giornale dedicata alla questione femminile, La tribuna
delle donne.
In questo spazio vengono pubblicati gli articoli della Zetkin, della Kollontaj, della Luxemburg, dei
principali dirigenti sovietici, i resoconti sulla situazione in Unione Sovietica sull’evoluzione della
lotta per la liberazione della donna durante la rivoluzione. Oltre a tutto questo c’è il materiale di
agitazione per il lavoro fra le lavoratrici che ha un solido impianto teorico perché anche in articoli
brevi si denuncia e si dà la giusta misura dell’oppressione femminile.
La Ravera insiste su tutti gli aspetti, anche più privati della vita quotidiana, in cui si manifesta
l’ideologia borghese radicata nella classe operaia e anche "tra gli stessi compagni"; denuncia lo
squallore della vita della casalinga, la fatica disumana a cui sono costrette le lavoratrici tra la casa e
la fabbrica, denuncia la brutale miseria fisica e morale della maggioranza delle famiglie di fronte
alla quale "tutta la fraseologia borghese sulla libertà, sull’amore, sulla famiglia, sopra i rapporti
tra genitori e figliuoli, diventa tanto più nauseante"6.
La chiarezza teorica permette alle compagne dell’Ordine Nuovo di avere una posizione avanzata
anche sulla maternità. Si denuncia l’ipocrisia sulle gioie della maternità, per affermare che per le
lavoratrici la maternità è una disgrazia e che fintanto che la società non ne riconoscerà il valore
sociale e non se ne accollerà i compiti deve essere consentito alla donna di accettarla o rifiutarla.
Per la prima volta si afferma quindi il diritto di aborto. Questa coraggiosa posizione, in seguito alla
degenerazione stalinista, non venne più ripresa dal partito comunista del dopoguerra e si dovette
attendere lo sviluppo dei movimenti femministi alla fine degli anni ’60.
Nella Tribuna delle donne si pone l’accento sull’importanza dell’emancipazione della donna come
leva per l’emancipazione anche dell’uomo. In occasione delle mobilitazioni dei reduci di guerra
contro l’occupazione femminile, la Ravera non perde occasione per intervenire e denunciare la
cultura patriarcale che vuole l’uomo capo indiscusso della famiglia e la mercificazione del
matrimonio e del rapporto di coppia che costringe gli individui ad un brutale rapporto economico
per il sostentamento reciproco.
E ancora denuncia la schiavitù del capitale nella miseria della vita privata:
"Schiavo del capitale, l’uomo, corrotto dalla sua stessa schiavitù, cerca di prendere la rivincita
soggiogando la donna, sfruttandola e martirizzandola. Estenuato da un lavoro senza gioia e senza
ideale, l’uomo cerca l’oblio nell’alcool, nella crapula; la donna custode del focolare, ne è sempre
la vittima. È la donna che prepara la carne da cannone, la carne da sfruttare, la carne da piacere.
La donna non diventerà libera che quando l’uomo sarà libero".7
Il partito comunista di Gramsci e Bordiga, nato dalla scissione di Livorno nel gennaio del 1921, si
apprestava su queste basi teoriche a costruire il lavoro fra le donne ben consapevoli delle difficoltà:
il partito aveva 1200 sezioni a livello nazionale e 96 commissioni femminili, responsabili del lavoro
fra le lavoratrici, le compagne iscritte erano in tutto 400 e dal 1922 si dotarono di un periodico, La
Compagna, che aveva 15mila copie di tiratura.8
Sconfitta e fascismo
Il fascismo schiacciò sul nascere tutta questa esperienza. Già nel 1921 il numero delle sezioni
fasciste passa da poco più di 300 ad oltre mille. Gli attacchi delle squadracce nei primi quattro mesi
del 1921 vedono 102 morti sul campo. In sei mesi vengono saccheggiate o incendiate 59 case del
popolo, 119 Camere del Lavoro, 141 fra circoli socialisti e comunisti. Le organizzazioni del
movimento operaio vengono ridotte al lumicino e poi costrette alla clandestinità, le condizioni della
classe lavoratrice peggiorano verticalmente.
Nel 1927 i salari femminili vengono ridotti alla metà di quelli maschili, che già avevano subito una
forte riduzione. In uno stabilimento meccanico che produce apparecchi di precisione il salario
maschile va da un massimo di 4 lire all’ora a un minimo di 2,50, mentre le donne vengono pagate 1
lira e 50. Nelle campagne i braccianti maschi ricevono 9 lire a giornata, le donne non riescono ad
andare oltre le 5 lire.
Iniziò una campagna sulla prolificità delle donne il cui ruolo era stare a casa a fare figli. Nel 1927
venne proibito alle donne di insegnare in alcune facoltà universitarie e nei licei, poi la cosa si estese
ad alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, infine vennero raddoppiate le tasse alle
studentesse. Il fascismo ereditò il codice precedente del 1865, nel quale l’uomo era considerato il
capo indiscusso della famiglia, al quale spettava ogni decisione su moglie e figli e anche da separato
o da morto, tramite il testamento, faceva valere la sua volontà; la donna, eterna minorenne, doveva
giurare fedeltà assoluta e l’adulterio era punito con due anni di reclusione, ovviamente l’uomo era
libero di tradirla come voleva. A questa legislazione reazionaria il fascismo aggiunse una norma
ulteriore: l’articolo 587 sul delitto d’onore, secondo il quale chiunque uccidesse la moglie, la figlia
o la sorella per difendere "l’onore suo o della famiglia" aveva diritto alla riduzione di un terzo della
pena. Questa norma, insieme a quella che considera lo stupro un delitto alla morale e non alla
persona, è stata abolita solo negli anni ‘80.
Tra il 1921 e il 1936 la percentuale di donne che svolgeva attività extradomestiche passò dal 32,5%
al 24%, sebbene in alcuni settori i bassi salari e l’assenza di qualifiche incentivavano l’assunzione
di manodopera femminile, checché ne pensasse l’ideologia fascista. Anzi a partire dal 1936 si ebbe
anche un aumento che portò le donne con una occupazione, secondo il censimento di quell’anno, ad
essere 5 milioni e 247mila. Con la Seconda guerra mondiale l’occupazione femminile crebbe
ulteriormente perché le donne sostituivano gli uomini al fronte; analogamente crebbe anche il loro
ruolo nella società e successivamente nella lotta contro il fascismo.
Gli anni della guerra sono durissimi, la fame e la miseria mettono a dura prova la classe operaia
italiana e minano la stabilità sociale. A Torino gli operai lavorano dalle 10 alle 11 ore al giorno. Su
150mila operai 40mila sono donne, i bombardamenti hanno distrutto o danneggiato 25mila case,
decine di migliaia di lavoratori sono sfollati nell’entroterra. La situazione è tale in tutte le principali
città. Gli alimenti e la legna per il riscaldamento sono razionati. I prezzi al mercato nero salgono
vertiginosamente: nel ’43 il burro passa da 27 a 160 lire al chilo, il riso da 2 lire e 50 a 25 lire e la
farina da 1 lira e 80 a 12 lire. Con le tessere (cibo razionato dalle autorità) un operaio di Biella nel
gennaio del ‘43 mangia per 1000 calorie e siccome il grosso dell’alimentazione viene tenuta per i
bambini si capisce bene che le masse erano alla fame. I padroni stessi reclamano un aumento del
cibo distribuito con le tessere perché cala la produttività, gli operai e le operaie sono sempre malate.
Racconta un’operaia di Torino:
"Avevo sempre fame, anche perché quel poco che c’era lo lasciavamo sempre ai bambini. Ma io
sono sempre venuta a lavorare, anche quando mi sentivo male. Per la debolezza avevo le mie cose
irregolari, un mese mi saltavano poi magari mi venivano ogni quindici giorni. Io ero fortunata,
perché non avevo mai dolori, ma una mia compagna di lavoro quando le venivano le sue cose non
riusciva a reggersi in piedi. Ma dai, non venire in quei giorni... le dicevamo noi. Lei aveva una
gran paura di essere licenziata. Era sola, con un bambino e senza marito."9
Intanto iniziavano a giungere le notizie delle sconfitte militari sul fronte e sempre di più era visibile
l’indebolimento del regime. Le operaie che avevano i mariti in Russia venivano ormai considerate
vedove. Si davano per certe le notizie secondo le quali i soldati italiani non avevano abbastanza per
difendersi dal freddo dell’inverno russo e che durante la ritirata i tedeschi avevano requisito i
camion e gli italiani erano costretti alla ritirata a piedi: chi non ce la faceva restava lì, si congelava e
moriva.
Nel gennaio del 1943 appare una lettera di un’operaia su un giornale sindacale fascista: "Faccio lo
stesso lavoro pesante che faceva l’operaio che ho sostituito. Ma lui guadagnava 40 lire al giorno ed
io ne prendo solo 23. Me ne sapete spiegare la ragione?". Sul giornale non c’è traccia di risposta.
Il regime era ormai segnato. Le mobilitazioni del marzo avevano sostanzialmente vinto e soprattutto
avevano dato gran fiducia alle masse oppresse.
Come è noto dalle pagine della storia Mussolini viene arrestato il 25 luglio del 1943.
Immediatamente, già nella notte e poi il giorno successivo si moltiplicano le manifestazioni di
giubilo e gli scioperi. Allo jutificio della Montecatini di Ravenna le operaie, quando sanno che
Mussolini è caduto, convocano uno sciopero per il rilascio di una loro compagna di lavoro arrestata
perché aveva protestato contro i ritmi di lavoro. Tutti leggono nella caduta di Mussolini la fine del
regime e della guerra e quindi vedono giungere il momento del riscatto.
Ma non sarà così. Badoglio, capo del nuovo governo nominato dal re, avverte che "sono vietati gli
assembramenti. La forza pubblica ha l’ordine di disperderli inesorabilmente." Il capo di Stato
Maggiore ordina di sparare ad altezza uomo. A Bari il 27 luglio l’esercito spara su una
manifestazione: 23 morti e 70 feriti. A Reggio Emilia il giorno dopo analoga situazione, una donna
rimane uccisa.
E la guerra continua. E cresce però anche l’insubordinazione fra le masse. Prova ne è quanto accade
fra le mondine nel ‘43 e il ‘44. In Emilia migliaia di donne partivano per il Piemonte per la monda
del riso: per 40 giorni acqua fino al ginocchio, curve sotto il sole a liberare le piantine di riso dalle
erbacce per poi trapiantarlo. In quel periodo c’era una vero e proprio arruolamento. Nell’estate del
’43 ci sono sempre meno donne disponibili. Nel ’44 i padroni chiedono 10mila donne e un migliaio
di uomini. Ne partono 300. E anche quelli che partono creano qualche problemino; così strillano i
padroni sui giornali dell’epoca: "le mondine immigrate influenzate da una accentuata propaganda
antinazionale hanno in più parti scioperato, chiedendo aumenti di paga e miglioramenti del vitto".
E la lotta paga: le spese di viaggio diventano a carico del padrone, la paga giornaliera salirà a 35 lire
(più di quello che guadagna un’operaia alla Fiat) e infine pane, formaggio e marmellata per il
viaggio di ritorno!
Ancora una volta vediamo come le condizioni materiali e la lotta generale dei lavoratori e delle
lavoratrici mutano le coscienze, le relazioni culturali e dunque anche i rapporti fra i sessi:
dall’oscurantismo più becero si è passati in poco tempo a quanto sopra descritto.
E fu chiaramente un fenomeno di massa: 75mila le donne appartenenti ai Gruppi di difesa, 35mila
le partigiane, 4.563 tra arrestate, torturate e condannate, 623 rimaste uccise e 2.750 deportate in
Germania.12
Questo movimento, la Resistenza, rappresentò la lotta rivoluzionaria delle masse oppresse, classe
lavoratrice e contadini, non solo contro il nazifascismo, ma contro il sistema capitalista che ne fu il
responsabile. Le masse aspiravano ad instaurare un ordine nuovo, il loro protagonismo, la loro
abnegazione erano determinati dalla volontà di farla finita con i padroni, "di fare come in Russia,
dove comandano gli operai e i padroni non esistono più".
Non fu così. In Russia, sebbene non ci fossero più i padroni, neppure comandavano gli operai. La
burocratizzazione di quell’apparto statale aveva avuto pesanti effetti su tutti i partiti comunisti,
particolarmente su quello italiano il cui dibattito interno era stato sostanzialmente azzerato dalla
clandestinità imposta dal fascismo.
Questa posizione estrema, farà sì che il divorzio e, successivamente, il diritto all’aborto chieste dal
movimento femminista, verranno considerate da Carla Lonzi e da una parte del gruppo concessioni
allo scopo di rafforzare l’oppressione femminile. È ovvio che questa posizione estrema impedì alle
teorie del gruppo di egemonizzare il femminismo italiano. Oltretutto, rifiutando, come molti gruppi,
il concetto di organizzazione perché autoritaria e "maschile", ogni collettivo che si richiamava a
Rivolta femminile aveva posizioni e metodi di lavoro completamente autonomi, per cui rifiutava il
concetto stesso di egemonia. Ciononostante, Carla Lonzi ebbe il pregio di affermare chiaramente le
sue posizioni e trarre tutte le estreme conclusioni dal presupposto del separatismo e
dell’antiautoritarismo. Non poteva avere molte epigone, ma rappresentò ugualmente un punto di
riferimento teorico, e le sue teorie, magari in una riedizione un po’ sbiadita, le ritroviamo ancora
oggi in settori del movimento anti globalizzazione che si rifanno a Toni Negri.
Carla Lonzi giunge addirittura a negare il valore di qualsiasi cultura, in quanto maschile e a
rivendicare la deculturizzazione:
"La deculturizzazione per la quale optiamo è la nostra azione. Essa non è una rivoluzione culturale
che segue e integra la rivoluzione strutturale, non si basa sulla verifica a tutti i livelli di una
ideologia, ma sulla mancanza della necessità ideologica."15
Da qui segue che la lotta per la liberazione della donna "vanifica il traguardo della presa del
potere"16.
Per un periodo l’esperienza di riferimento della Lonzi è stata la comunità degli hippies, in cui, a suo
dire, si annullavano le distinzioni sessuali nel comportamento quotidiano.
Va inoltre aggiunto che in una dei suoi scritti più importanti, Sputiamo su Hegel, chiarisce la sua
posizione sul marxismo, approfondendo ulteriormente la critica del gruppo Demau. Infatti non è la
sola esperienza dell’Urss a essere criticata, ma l’impostazione autoritaria del marxismo. Mentre
Fourier delineava una società liberata da tutte le oppressioni in cui "ogni uomo potesse disporre di
tutte le donne e ogni donna di tutti gli uomini", Marx ed Engels insistevano sull’opportunità di
riconferire un carattere privato ai rapporti umani, che semplicemente dovevano essere liberati dai
vincoli economici. La concezione marxista viene rifiutata dalla Lonzi perché moralista e autoritaria
in quanto non rivendica la libertà sessuale delle donne. Anche qui c’entra la cultura: le donne e gli
uomini non hanno rapporti sessuali come gli animali, negarlo (cosa dalla quale Marx ed Engels ben
si guardavano) significa negare le stratificazioni culturali degli esseri umani e che potranno
evolvere solo in seguito all’abbattimento del capitalismo e al controllo di tutte le risorse da parte
delle attuali masse sfruttate.
Ovviamente, nella misura in cui anche Lenin ebbe modo di esprimersi su questi concetti durante e
dopo la rivoluzione, anch’egli, nella visione della Lonzi, concorre a dimostrare quanto il marxismo
sia conservatore nella lotta contro l’ideologia patriarcale.
L’obiettivo di Rivolta femminile è dunque l’azione eclatante in cui le donne prendono coscienza di
sé, come ben viene sintetizzato dalle conclusioni del manifesto del gruppo:
"Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte. Noi cerchiamo l’autenticità del gesto di
rivolta e non la sacrificheremo né all’organizzazione né al proselitismo".
Lo strumento con il quale promuovere questa pratica è l’autocoscienza. Carla Lonzi, nei suoi scritti,
chiarisce perfettamente ché cos’è. La Lonzi contrappone l’autoscienza alla "presa di coscienza":
attraverso quest’ultima, nei gruppi della sinistra, le donne si rendono conto della loro condizione di
oppresse in quanto lavoratrici e in quanto donne per poi confluire nella lotta comune contro il
capitalismo. L’autocoscienza invece significa "l’azzeramento della cultura", la "separatezza" e il
"partire da sé"17, ovvero le donne devono confrontarsi in piccoli gruppi, in modo autonomo,
rifiutare la cultura perché maschile e a partire dalla propria esperienza di vita di donna trovare una
unità di visione con le altre donne, senza alcuna imposizione di sorta.
Il metodo del piccolo gruppo e dell’autocoscienza venne praticato da praticamente tutti i gruppi
femministi, magari con sfumature diverse, ma esprimendo questa concezione.
Queste teorie e questi metodi rappresentavano in realtà, dietro la loro apparente radicalità, una
visione reazionaria della questione femminile. L’idea del rifiuto della cultura e del partire
dall’esperienza individuale significa in realtà fare arretrare la propria azione basandola sulla sola
esperienza individuale, rifiutando quella crescita della coscienza che è sempre il frutto più
importante delle lotte e dei movimenti di massa
Ognuno di noi può emanciparsi dalle concezioni arretrate che la classe dominante ci impone solo
unendo un percorso di presa di coscienza individuale al confronto collettivo e all’azione di massa
per affossare il motore di quella cultura, la borghesia.
Rifiutare questa concezione significa far rientrare dalla finestra (l’autocoscienza) la subordinazione
alla cultura dominante borghese che si vuole buttare fuori dalla porta (le altisonanti teorizzazioni
rivoluzionarie). In questa luce capiamo il rifiuto di questo gruppo di porsi il problema della presa
del potere e dell’organizzazione stessa delle proprie forze.
Chiaramente l’Mld si candida a raccogliere quanto il Pci da una parte e il settarismo dei collettivi
femministi dall’altra non riescono a raccogliere; rifiuta il separatismo e tutte le idee movimentiste
anti-organizzazione. Nella sostanza le sue proposte non sono affatto rivoluzionarie: sul terreno dello
sfruttamento economico propongono "la costruzione di un assetto produttivo, inteso come impresa
collettiva, in cui il lavoro sia momento di autorealizzazione e non di alienazione".21 Come superare
l’ostacolo dovuto all’esistenza dei padroni, non è dato saperlo. La giustificazione ai ragionamenti
volutamente confusi è data secondo gli estensori del documento dall’"assenza di una classe che
possa assumersi il compito di realizzare il rinnovamento globale della società" e quindi dalla
necessità di stabilire "obiettivi concreti che non costituiscano fughe in avanti rispetto ai problemi
reali". Questo nel bel mezzo dell’autunno caldo!
L’Mld quindi e il partito radicale non erano rivoluzionari, come forse qualcuno pensò all’epoca, ma
usavano una fraseologia socialisteggiante al preciso scopo di allontanare il dibattito dal punto
centrale: la presa del potere economico e politica da parte dei lavoratori. Alla luce di questo
ragionamento vanno comprese le proposte anche molto avanzate che fece il gruppo. Dell’Mld fu la
proposta di legge per la legalizzazione dell’aborto, la battaglia per la liberalizzazione degli
anticoncezionali e la formazione di asili nido pubblici e anti-autoritari, come venivano definiti
allora per rivendicare non dei parcheggi per i figli delle famiglie operaie, ma dei luoghi dove ci si
prendesse cura dello sviluppo psicomotorio dei bambini.
I metodi di lotta dell’Mld erano le azioni eclatanti, la "disobbedienza civile di massa" 22, e la
raccolta di firme a sostegno delle leggi di iniziativa popolare, essi non potevano sfondare sul piano
organizzativo fra le lavoratrici, anche se portarono un certo disorientamento, perché era l’unico
partito a porre certe questioni.
In realtà il gruppo rifiuta di applicare una interpretazione di classe della questione femminile,
essendo strenuo sostenitore delle concezioni separatiste. L’obiettivo delle lavoratrici non è
promuovere la lotta del movimento operaio contro il capitalismo, intrecciandola alla battaglia per la
liberazione della donna, bensì quello di promuovere un movimento autonomo delle donne nel quale
solo loro possono affrontare i temi specifici della questione femminile. Su queste basi il gruppo
arriverà, in diverse occasioni, a scontri fisici in piazza contro gli uomini (compagni della sinistra
tradizionale o extraparlamentare) che volevano partecipare alle manifestazioni delle donne con
propri contenuti.
Inoltre il gruppo ritiene che per far avanzare la coscienza rivoluzionaria delle donne non si debba
rivendicare il loro inserimento nel mondo del lavoro. Mariarosa dalla Costa, una delle "ideologhe"
del gruppo, denuncia come le donne già lavorino a sufficienza in casa e che, come dimostra
l’esperienza, le donne non si liberano affatto entrando nel mondo del lavoro. Da qui chiarisce come
la lotta delle donne deve essere in primo luogo contro la sua oppressione all’interno delle mura di
casa.
Su queste basi una delle rivendicazioni centrali di Lotta femminista è il salario al lavoro domestico,
come misura per far avanzare, fra le casalinghe, la coscienza del loro sfruttamento e della necessità
di "radicalizzare lo scontro" fino all’abolizione del lavoro in casa.
In realtà in questa analisi manca l’elemento essenziale ovvero il fatto che, per quanto si potesse
promuovere un movimento di massa delle casalinghe, ognuna di loro avrebbe certamente
accresciuto il suo livello di coscienza del suo sfruttamento, ma sarebbe pur sempre rimasta da sola
in casa ad applicare le sue nuove idee. Certo, come abbiamo spiegato sopra, non è il lavoro salariato
a liberare la donna, ma esso è decisivo perché le permette di partecipare a pieno titolo nella lotta di
classe, alla pari con i suoi compagni di lavoro. È necessario quindi partire da lì per promuovere la
lotta contro il capitalismo e il patriarcato. Infine la rivendicazione del salario alle casalinghe,
indipendentemente dalle intenzioni delle sue promotrici, andava nella direzione di legittimare e
istituzionalizzare il lavoro domestico, invece di far crescere l’idea della necessità di una sua
socializzazione nell’ambito di una società socialista.
L’impostazione di Lotta femminista, che chiaramente risente dell’influenza dell’autonomia (Potere
Operaio), è tutta improntata allo sforzo volontaristico, che con slogan e metodi molto aggressivi
volevano istillare l’istinto di rivolta, ma che offrivano come unico terreno di mobilitazione la
partecipazione ai cortei. In una occasione promossero anche uno sciopero del lavoro casalingo, di
cui, nonostante si dicessero soddisfatte dell’esito, non ripeterono l’esperienza.
Se il gruppo si fosse limitato alla battaglia per il salario alle casalinghe, probabilmente non avrebbe
avuto molto successo, invece iniziò una campagna durissima e molto efficace sulla questione
dell’aborto.
La fine del ’75 e il ’76 sono segnati da un aumento delle tensioni: alle manifestazioni per il diritto
alla vita seguono le veglie "in difesa della vita" promosse dai cattolici, che si impegnano in una
campagna vergognosa di denigrazione delle donne sciagurate che ammazzano i loro poveri figli. In
quei mesi gli scontri di piazza e le cariche della polizia accendono ulteriormente il dibattito.
Le iniziative promosse da Movimento femminista e da altri gruppi femministi, fecero crescere la
contestazione e si arrivò al momento più alto di mobilitazione con il corteo del 3 aprile del 1976 a
Roma con 50mila persone, a cui aveva aderito anche l’Udi, che si apprestava ad essere pienamente
conquistata dalle concezioni separatiste e femministe.
Nel 1978 viene approvata la legge 194 sul diritto d’aborto: è una grande conquista perché
finalmente è la donna che decide del suo corpo. La stessa legge però ha forti limiti: si sottolinea che
bisogna fare il possibile per verificare l’opportunità di portare a termine la gravidanza e soprattutto
si permette ai medici l’obiezione di coscienza.
Nonostante questi metodi Movimento femminista riuscì ad avere una certa influenza,
particolarmente fra le studentesse ma anche fra alcune lavoratrici.
Il collettivo di Gela per esempio aveva promosso una serie di interviste sulla condizione di
discriminazione delle studentesse delle medie inferiori e delle superiori, oppure andarono nelle zone
più povere a parlare di anticoncezionali alle donne che avevano setto, otto o magari dieci figli. In
alcune occasioni provarono ad intervenire fra le lavoratrici, volantinando davanti alle fabbriche e
intervenendo ai loro scioperi. Prevalentemente le lavoratrici erano diffidenti, anche se molte di loro
erano affascinate dall’idea di ribellarsi ai soprusi dei loro uomini a casa, alcune anche aderendo e
partecipando ai collettivi femministi. In alcuni casi, particolarmente fra le impiegate del pubblico
impiego, ma non solo, nascevano collettivi femministi, che denunciavano la discriminazione sui
luoghi di lavoro e la ripetitività delle mansioni, ma non era un fenomeno diffusissimo.
Parte dello spirito di ribellione che le lavoratrici traevano dalla propaganda femminista si ritrovò nei
cortei per il diritto all’aborto e nel movimento di occupazione delle case, nel quale si trovarono
coinvolte tante lavoratrici immigrate dal sud.
Alcune conclusioni
Poi arrivarono gli anni della sconfitta operaia e anche il femminismo non trovò più acqua per
nuotare. Le studentesse diventarono grandi, molte di esse con una professione gratificante e dei bei
ricordi di gioventù.
La tragedia del femminismo è che ha sottratto la spinta rivoluzionaria di tante donne al movimento
operaio. L’idea che le donne dovessero stare separate, autonome per non farsi influenzare si è
dimostrato assolutamente fallimentare: da una parte, il femminismo è entrato in un vicolo cieco, ne
è rimasta una caricatura patetica che serve solo alle attuali epigone per giustificare la necessità delle
loro carriere nei più disparati ambiti. Dall’altra parte le organizzazioni riformiste del movimento
operaio hanno avuto buon gioco a marcare un solco fra le rivendicazioni delle donne e quelle del
movimento operaio, contribuendo all’arretramento di quest’ultimo.
Nonostante i suoi dirigenti, tuttavia, la classe operaia con la sua forza e la sua determinazione portò
a casa importanti conquiste da quelle lotte. Oggi lo statuto dei lavoratori, il diritto ad una pensione,
alla sanità uguale per tutti e anche il diritto all’aborto vengono nuovamente messi in discussione
con furia iconoclasta dal padronato. Ci sono già i segnali di una ripresa di lotte della classe
lavoratrice. Ma queste perché ci permettano delle conquiste durature necessitano di essere orientate
alla presa del potere, all’abbattimento del capitalismo, alla nazionalizzazione delle risorse
economiche e alla loro pianificazione controllata dagli attuali sfruttati. Auspichiamo fortemente che
la lettura di queste vicende relative alla lotta per la liberazione della donna vi abbiano convinto
dell’estrema attualità del marxismo e della rivoluzione socialista.
10 ottobre 2002
Note
1 F. Engels, L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Newton Compton
Editori, Roma 1977
2 Cit. da Gabriella Parca, L’avventurosa storia del femminismo, Mondadori, Milano 1981
3 Engels, Op.Cit.
4 G. Parca, Op.Cit.
5 G. Parca, Op.Cit.
6 C. Ravera, L’Ordine Nuovo, 24/3/21
7 C. Ravera, L’Ordine Nuovo, 6 ottobre 1921
8 P. Spriano, Storia del Partito Comunista italiano, Einaudi, Torino, 1967
9Miriam Mafai, Pane nero, donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale, Mondadori,
Milano 1987
10 Miriam Mafai, Op.Cit.
11 Miriam Mafai, Op.Cit.
12 G. Parca, Op.Cit.
13Cfr. In difesa del marxismo n° 2, 1968-69 un biennio rivoluzionario, A.C. Editoriale, Milano,
2000.
14Manifesto di Rivolta femminile, in Rosalba Spagnoletti, I movimenti femministi in Italia, Savelli,
Roma 1978.
15 Sputiamo su Hegel, in Rosalba Spagnoletti, Op.Cit.
16 ibidem
17 Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, Rivolta femminile, 1972
18 Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, Edizioni Laterza.
19 Ibidem
20Bozza di piattaforma dei principi del movimento di liberazione della donna (Mld), in Rosalba
Spagnoletti, Op.Cit.
21 Ibidem
22 Ibidem
23 Rapporto da Lotta femminista, 1973, in Biancamaria Frabotta (a cura di), Femminismo e lotta di
classe in Italia (1970-1973), Savelli editore, Roma 1973.
24 Aborto di Stato: strage delle innocenti, collettivo internazionale femminista (a cura di), Marsilio
editore, Venezia 1976
25 Ibidem