Alessandro Gasparetto
MECCANICA APPLICATA
ALLE MACCHINE
Appunti delle lezioni
www.mechatronics.it
2
Indice
3 Il rendimento 33
3.1 Rendimento delle macchine poste in serie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35
3.2 Rendimento delle macchine poste in parallelo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36
3.3 Moto retrogrado . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37
4 Accoppiamento motore-utilizzatore 41
4.1 Caratteristica del motore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
4.2 Funzionamento da motore, da freno o da generatore . . . . . . . . . . . . . . 45
4.3 Campi operativi di un motore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46
4.4 Curva caratteristica del carico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
4.5 Luogo dei carichi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48
4.6 Accoppiamento diretto motore-utilizzatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
4.7 Accoppiamento motore-utilizzatore mediante riduttore di velocità . . . . . . 50
4.7.1 Riduzione all’asse motore e all’asse utilizzatore . . . . . . . . . . . . . 52
4.7.2 Trasformazione di un moto rotatorio in un moto rettilineo . . . . . . 54
4.8 Funzionamento a regime e in transitorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
I
II INDICE
7 Camme 159
7.1 Legge del moto del cedente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160
7.2 Tracciamento di una camma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163
7.2.1 Camma piana con punteria centrata a rotella . . . . . . . . . . . . . . 165
7.2.2 Camma piana con punteria eccentrica a rotella . . . . . . . . . . . . . 166
7.2.3 Camma piana con punteria a piattello piano . . . . . . . . . . . . . . 166
7.2.4 Camma piana con bilanciere a rotella . . . . . . . . . . . . . . . . . . 166
7.3 Analisi cinetostatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167
7.4 Leggi del moto elementari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169
Lo studio delle interazioni superficiali fra i membri, modellati come corpi solidi, è un argo-
mento fondamentale della Meccanica delle Macchine. Infatti:
• l’attrito è legato al movimento relativo dei membri (in genere deve essere combattuto
come fonte di perdite e di temperature elevate, altre volte è necessario al funzionamento
delle macchine)
La classificazione delle interazioni fra i membri solidi può essere fatta dal punto di vista
geometrico, da quello chimico-fisico e da quello cinematico.
Dal punto di vista geometrico (Fig.1.1) si hanno contatti:
• superficiali
• lineari
• puntiformi
3
4 CAPITOLO 1. MECCANICA DELLE SUPERFICI
???
??????
ω
v
v
Strisciamento Rotolamento Urto
• di strisciamento
• di rotolamento
• d’urto
• i contatti lineari e puntiformi sono caratteristici di molte coppie superiori con membri
rigidi: ruote dentate, camme, piste con interposti elementi rotolanti.
Questa suddivisione teorica, che trae origine dalla forma geometrica ideale dei membri a
contatto, non è tuttavia realizzata in pratica per varie cause, quali:
• la presenza di giochi
Per la presenza delle ondulazioni, tali aree sono localizzate in zone definite: il numero dei
contatti dipende
Nel caso dei contatti diretti fra superfici idealmente combacianti è quindi possibile distinguere
più aree di contatto fra i membri solidi accoppiati. In particolare si deve distinguere tra:
Per contatti fra superfici di acciaio soggette a pressioni specifiche modeste l’area reale
può essere, per esempio, dell’ordine di 1/1000 di quella geometrica. Quando il carico esterno
aumenta e la pressione locale supera il carico unitario limite di snervamento σs del mate-
riale più tenero quest’ultimo comincia a deformarsi plasticamente, di solito in punti posti
immediatamente al di sotto della superficie.
Se il carico aumenta ancora, il materiale attorno a questi punti diventa plastico sinché tut-
ta la regione attorno agli originali punti di contatto è deformata plasticamente e l’estensione
della nuova area di contatto è in grado di sopportare il carico.
Raggiunto l’equilibrio, la pressione media dei contatti pm , detta pressione di snervamento
triassiale, è pari al valore di durezza determinato mediante la prova di Brinell. Quando è
raggiunta la completa plasticità, pm è indipendente dal carico esterno. Questo significa che
ogni aumento del carico fa aumentare l’area reale di contatto, in modo tale che pm resti
costante.
L’area reale di contatto può quindi essere calcolata, in prima approssimazione e per
carichi statici, mediante la relazione:
Fn
Ar = (1.2)
pm
8 CAPITOLO 1. MECCANICA DELLE SUPERFICI
Figura 1.6: Definizione dei raggi di curvatura nel punto teorico di contatto
3. le dimensioni dell’area di contatto sono piccole, rispetto al raggio di curvatura dei corpi
non deformati in vicinanza della zona di contatto
4. i raggi di curvatura della zona di contatto sono grandi, se confrontati con le dimensioni
dell’area di contatto
5. fra i due solidi non vi sono forze di attrito radente e quindi durante il contatto agisce solo
la forza normale: vengono dunque trascurati le sollecitazioni di taglio e gli spostamenti
nel piano tangente comune ai corpi a contatto.
Per contatti puntuali, il modello hertziano prevede che la forma della zona di contatto
sia data da un’ellisse (vedi Fig.1.6), rappresentata dall’equazione:
rispetto ad un sistema di riferimento con l’origine posta nel punto di contatto P , prima della
deformazione, e con assi x1 e y1 giacenti nel piano tangente comune ai corpi a contatto.
I coefficienti A e B sono definiti dalle curvature principali r = 1/R delle superfici a
contatto secondo le relazioni:
1 1 1 1
2 (A + B) = + + + (1.4)
R1M R1N R2M R2N
√
2 (B − A) = Γ + Λ (1.5)
¶2 ¶2
1 1 1 1
µ µ
Λ= − + − (1.6)
R1M R1N R2M R2N
1 1 1 1
µ ¶µ ¶
Γ=2 − − cos (2β) (1.7)
R1M R1N R2M R2N
ove β è l’angolo formato dai due piani contenenti le curvature r1M = 1/R1M e r2M =
1/R2M .
In generale i piani contenenti i raggi di curvatura principali delle due superfici a contatto
non sono coincidenti. Per semplicità grafica, in (Fig.1.6) essi sono stati disegnati nel caso
particolare di β = 0.
Indicando con
• D la quantità
1 − ν2
D= (1.8)
E
che tiene conto delle caratteristiche meccaniche del materiale (essendo ν il modulo di
Poisson, E il modulo di Young)
10 CAPITOLO 1. MECCANICA DELLE SUPERFICI
3Fn
pM AX = (1.14)
2πab
Le pressioni nei vari punti del’area deformata di contatto hanno quindi una distribuzione
semiellissoidale (Fig.1.8).
Nel caso di contatti lineari, ad esempio fra corpi cilindrici con assi paralleli di uguale
lunghezza l, l’area deformata diventa un rettangolo di larghezza b data da:
v
u 2Fn (D1 + D2 )
u
b=t = (r1M + r1N ) + (r2M + r2N ) (1.15)
πl (A + B)
Consideriamo dapprima un corpo 1 che viene premuto contro un corpo 2 con una forza
N normale alla superficie comune di contatto. Per l’equilibrio, il corpo 2 eserciterà sul corpo
1 un insieme di forze la cui risultante FN sarà uguale ed opposta a N , e avrà la stessa retta
d’azione di N , in modo tale che il momento risultante sia nullo.
Supponiamo ora di applicare al corpo 1 una piccola forza T parallela alla superficie di
contatto: sperimentalmente si osserva che il corpo rimane fermo nella posizione iniziale.
Dovrà quindi essere che tra i due corpi, lungo la superficie di contatto, si origina un insieme
di forze la cui risultante FT è uguale ed opposta a T . Affinché sussista l’equilibrio statico
del corpo 1, la forza FN si sarà spostata lungo la superficie di contatto, in modo tale che
la coppia formata da FN e N equilibri quella formata da FT e T (che hanno rette d’azione
diverse).
La forza FT , esercitata dal corpo 2 sul corpo 1 in condizioni di equilibrio statico, è detta
forza di attrito statico o forza di aderenza. Aumentando il valore della forza tangenziale T
applicata al corpo 1, si osserva che il corpo continua a rimanere in equilibrio statico: ciò
significa che anche l’intensità di FT aumenta di conseguenza sino a raggiungere un valore
limite, che rappresenta la massima forza di attrito statico (o aderenza) che si può sviluppare
tra le superfici a contatto. Per valori di T superiori a questo valore limite, non sussistono
più le condizioni di equilibrio statico, e il corpo 1 si muove strisciando sul corpo 2.
Anche in questa situazione di strisciamento sussistono delle forze lungo la superficie di
contatto, la cui risultante ha direzione parallela a quella del moto relativo dei due corpi e
verso opposto a quello della velocità del corpo 1 relativa al corpo 2. Tale risultante è detta
forza di attrito dinamico o forza di attrito cinetico o, qualora non si dia adito ad ambiguità,
semplicemente forza di attrito. Nel suo complesso, il fenomeno descritto prende il nome di
attrito di strisciamento o attrito radente.
Dalla descrizione fatta, si può evincere che la proprietà fondamentale delle forze di attrito
è di avere sempre verso tale da opporsi al moto relativo tra i corpi a contatto.
Il fenomeno dell’attrito radente può anche essere modellato considerando, oltre alle forze
di contatto normale FN e tangenziale FT , anche la loro risultante F , la cui inclinazione
rispetto alla normale è data dall’angolo
FT
ϕ = arctan (1.17)
FN
come indicato in Fig.1.9.
L’angolo ϕ prende il nome di angolo di attrito.
Il rapporto tra le componenti tangenziale e normale delle forze di contatto è definito
coefficiente (o fattore) di attrito:
FT
f= (1.18)
FN
Risulta f = tan ϕ. f è quindi un coefficiente adimensionale.
Se vi è movimento relativo tra i corpi a contatto, f è detto coefficiente di attrito dinamico
(fd ) o coefficiente di attrito cinetico (fc ), se siamo in situazione di equilibrio statico f prende
il nome di coefficiente di attrito statico (fs ) o coefficiente di aderenza (fa ).
Si può allora dire che la condizione di equilibrio statico fra due corpi a contatto permane
finché il rapporto FT /FN tra i moduli delle componenti tangenziale e normale delle forze
1.3. FORZE AGENTI NEGLI ACCOPPIAMENTI 13
ϕ ≤ ϕa = arctan(fa ) (1.20)
In altre parole, in condizioni di equilibrio statico il vettore della risultante può assumere
qualunque direzione, purché giacente all’interno del cono (cono di attrito) avente come asse
la normale alle superfici a contatto e come generatrice la retta d’azione della risultante in
condizioni limite di aderenza (ovvero la retta inclinata dell’angolo ϕa rispetto alla normale).
In condizioni di strisciamento, la risultante delle forze scambiate è invece inclinata rispetto
alla normale di un angolo pari a ϕ = arctan(fd ).
L’attrito tra corpi solidi prende il nome di attrito coulombiano. Secondo Coulomb il
fattore di attrito f :
• dipende dalla natura dei materiali che si toccano e dallo stato delle superfici a contatto
• non dipende dalle forze normali, né dall’estensione del contatto, né dalla forma delle
superfici coniugate
14 CAPITOLO 1. MECCANICA DELLE SUPERFICI
Il modello coulombiano dell’attrito ha il pregio della semplicità e per questo motivo viene
comunemente utilizzato per rappresentare il fenomeno dello strisciamento tra corpi solidi, per
quanto esso non risulti, ad una verifica sperimentale, particolarmente preciso. Il fenomeno
dell’attrito è infatti estremamente complesso da un punto di vista fisico e rifugge pertanto
da una modellazione accurata.
Ad esempio, da risultati sperimentali è emerso che il coefficiente d’attrito non è indipen-
dente dalla velocità (come assunto nel modello coulombiano), ma ha piuttosto un andamento
del tipo raffigurato in Fig.1.10: dopo una brusca diminuzione passando da velocità nulla
(attrito statico) a velocità piccolissime, il coefficiente di attrito subisce un certo aumento
al crescere della velocità. Per velocità maggiori di un dato valore, il coefficiente d’attrito
rimane dapprima costante, poi tende a decrescere con la velocità.
Vediamo ora di capire le motivazioni fisiche del fenomeno dell’attrito.
Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, il contatto fra due corpi solidi con superfici
nominalmente combacianti non si attua sull’intera area geometrica di contatto, ma su una
somma di areole (l’area reale di contatto). Non appena la distanza fra le superfici diventa
così piccola da rendere operanti le forze intermolecolari, si manifestano fra di esse legami di
adesione.
Come rappresentato in Fig.1.11, la resistenza al movimento relativo di due superfici a
contatto è dovuta ad un complesso di fenomeni, fra loro interagenti. Si ha dunque che la
componente tangenziale della forza di contatto è data dalla somma di vari contributi:
Figura 1.12: Variazione del fattore di attrito in funzione dei materiali e delle condizioni di
lubrificazione
Come si può vedere dalla Fig. 1.14, nel campo di valori di rugosità di componenti metallici
prodotti da ordinarie lavorazioni tecnologiche (Ra = 0.4 − 1.4µm), non si hanno sensibili
variazioni del fattore di attrito.
In generale, se la rugosità è molto bassa, l’attrito tende ad essere alto perché l’area
reale di contatto aumenta notevolmente e sono esaltati i fenomeni di adesione. Anche in
presenza di rugosità molto alta l’attrito aumenta per la necessità di sollevare continuamente
una superficie al di sopra delle asperità dell’altra. Nel campo intermedio, invece, l’influenza
della rugosità sul fattore d’attrito è modesta.
Figura 1.13: Valori medi dei fattori d’attrito per diversi accoppiamenti
18 CAPITOLO 1. MECCANICA DELLE SUPERFICI
Figura 1.14: Variazione del fattore di attrito in funzione delle rugosità superficiali delle
superfici a contatto
Numerose esperienze hanno mostrato che il fattore d’attrito statico, in assenza di lubrifi-
cazione, è funzione del tempo di contatto fra i corpi. Esso varia rapidamente in un brevissimo
periodo iniziale del contatto (0.1s), poi cresce più lentamente sino a stabilizzarsi (Fig.1.15).
Il fattore di attrito cinetico, fra superfici in moto relativo, è generalmente inferiore al fattore
di attrito statico. L’andamento generale del fattore di attrito in funzione della velocità è
riportato in Fig.1.10. Risultati sperimentali, condotti su un campo di velocità più ristretto
e per varie coppie di materiali a contatto, sono raffigurati nelle Fig.1.16 e 1.17.
Nei metalli le variazioni di temperatura dovute ad effetti esterni non provocano, in generale,
sensibili variazioni del fattore di attrito, anche perchè i due termini τ e pm risentono nello
stesso modo della variazione di temperatura. Solo nel caso di brevi surriscaldamenti dell’in-
1.3. FORZE AGENTI NEGLI ACCOPPIAMENTI 19
Figura 1.15: Variazione del fattore di attrito in funzione del tempo di contatto fra i solidi
Figura 1.16: Variazione del fattore di attrito con la velocità per alcuni metalli
20 CAPITOLO 1. MECCANICA DELLE SUPERFICI
Figura 1.17: Variazione del fattore di attrito con la velocità per alcuni polimeri
Figura 1.19: Variazione del fattore di attrito di polimeri in funzione della temperatura
ambiente
terfaccia per effetto di alte velocità di strisciamento, il fattore di attrito diventa più basso,
con ogni probabilità perché il carico di taglio τ diminuisce più di pm .
I polimeri presentano invece una maggiore variabilità del coefficiente di attrito con la
temperatura (Fig.1.19).
22 CAPITOLO 1. MECCANICA DELLE SUPERFICI
Figura 1.20: Contatto di strisciamento. Calcolo del volume del materiale usurato
• ∆s lo spazio percorso.
∆V Fn 1 Fn p
∆h = =k ∆s = k ∆s = k ∆s (1.27)
A pm A pm A pm
∆h p ∆s p
=k =k v (1.28)
∆t pm ∆t pm
Il fattore k è funzione dei materiali a contatto e dello stato delle loro superfici, della durez-
za e delle dimensioni delle particelle abrasive. Varia sensibilmente a seconda del meccanismo
prevalente di usura (adesiva, abrasiva, ecc.)
In ogni caso, va tenuto presente che i risultati sperimentali presentano una limitata
ripetibilità, anche per test condotti su componenti identici.
1.4. RELAZIONI FONDAMENTALI DELL’USURA 23
Figura 1.21: Coefficiente di durata per vari tipi di guarnizioni per freni
sicché l’usura specifica, ∆V /L, può essere espressa dal rapporto, misurato in mm3 /kJ:
k
k1 = (1.31)
pm f
detto coefficiente di usura. Dai grafici di figura (Fig.1.21) si nota che il fattore di usura
dipende fortemente dal tipo di materiale per guarnizioni da freno e aumenta più del fattore
di attrito, passando da un tipo di guarnizione all’altro.
Il reciproco dell’usura specifica
1 pm f
k2 = = (1.32)
k1 k
è detto coefficiente di durata. Valori tipici di k2 per i freni vanno da 2 a 100 kJ/mm3 .
24 CAPITOLO 1. MECCANICA DELLE SUPERFICI
Capitolo 2
Nel contatto fra superfici a doppia curvatura la distribuzione delle pressioni può essere
trovata, come visto nel capitolo precedente, utilizzando i risultati della teoria di Hertz. A
25
26 CAPITOLO 2. FORZE DI CONTATTO PER LE COPPIE ELEMENTARI
stretto rigore tale teoria è valida per corpi perfettamente elastici caricati entro il limite
di proporzionalità; in realtà i suoi risultati sono applicabili con ottima approssimazione ai
materiali comunemente impiegati nelle costruzioni meccaniche.
• slittamento fra i due corpi, che si manifesta quando al rullo sia applicata, oltre ad una
forza Q normale alla direzione del moto, anche una forza T parallela a questa direzione.
che ha sempre modulo pari alla Q, ma la cui retta di azione è spostata in avanti, nel senso
del moto, rispetto alla Q. Chiamiamo parametro dell’attrito volvente tale spostamento,
che indichiamo con il simbolo δ.
Per mantenere il rullo in rotazione con velocità angolare costante è necessario applicare
ad esso una coppia che eguagli il momento dato dal prodotto della forza Q per il braccio δ:
Mm = Qδ (2.1)
Il lavoro speso per spostare in avanti l’asse del rullo di una distanza s è pertanto dato
da:
s δ
L p = Mm =Q s (2.2)
R R
dove R è il raggio del rullo.
Il rapporto Rδ è chiamato coefficiente di attrito volvente. Lo indicheremo con il
simbolo fv .
In tal modo si avrà:
Lp = fv Qs (2.3)
che è formalmente analoga alla espressione che dà il lavoro perduto per attrito fra due
corpi striscianti l’uno sull’altro, premuti da una forza Q. La forza orizzontale T da applicare
al rullo per farlo rotolare a velocità costante è dunque data da:
T = fv Q (2.4)
II valore del coefficiente di attrito volvente può essere determinato soltanto in via speri-
mentale; ma il suo ordine di grandezza può essere valutato anche con considerazioni teoriche.
Ad esempio i risultati della teoria di Hertz permettono di fissare un limite superiore
al valore di fv . Soffermiamoci, a questo proposito, sul contatto fra un rullo ed un piano.
Dall’espressione della semilarghezza nel caso di due rulli paralleli:
v
u Q
b = 1.52t (2.5)
u
³ ´
1 1
E R1
+ R2
l
ponendo R2 → ∞ otteniamo:
v
u Q
b = 1.52t (2.6)
u
³ ´
1
E R1
l
Si osserva che fv è di solito molto piccolo (vedasi tabella) e che, pertanto, il consumo
di energia nel rotolamento è di ordine di grandezza molto inferiore a quello che si ha nel
contatto di strisciamento fra superfici.
28 CAPITOLO 2. FORZE DI CONTATTO PER LE COPPIE ELEMENTARI
Le reazioni RA e RB dei collari sull’asta hanno ciascuna una componente normale e una
componente tangenziale, dovuta all’attrito; per determinare le rette d’azione di RA e RB ,
occorre innanzitutto stabilire quali sono i versi delle componenti normali. Per fare ciò, basta
considerare le condizioni di equilibrio dell’asta alla rotazione attorno ai punti in cui le rette
d’azione di RA e RB incontrano la retta d’azione di Q.
Per l’equilibrio dei momenti di RB e di P rispetto al punto di incontro delle rette d’azione
di RA e di Q, ad esempio, si vede che RB è orientata verso il basso; con un ragionamento
analogo, si vede che RA è invece orientata verso l’alto. Le componenti di attrito di RA e RB
hanno sempre versi tali da opporsi all’avanzamento dell’asta, per cui si può concludere che
le rette d’azione di RA e RB sono quelle riportate in figura.
Se le rette d’azione di P e di Q fossero state tali da incontrarsi in un punto compreso fra
i due collari, anzichè in un punto esterno ad essi, le forze RA e RB sarebbero state orientate
entrambe o verso l’alto o verso il basso.
2.2. COPPIA PRISMATICA 29
F − TB − P − TB = 0
NB − NA = 0 (2.8)
NB h − 2aTB − P a + F (a − e) = 0
Se ora si vuole trovare il valore della forza minima necessaria per muovere l’asta, è
sufficiente porsi nelle condizioni limite di aderenza. Tra le componenti tangenziali e normali
delle reazioni vincolari sussiste dunque la relazione:
(
TA = fa NA
(2.9)
TB = fa NB
Sostituendo tali relazioni nel sistema precedente, si ricava che la minima forza necessaria
per muovere l’asta è data da:
P
F = (2.10)
1 − 2fha e
Pertanto F è tanto maggiore quanto maggiori sono P , fa ed e, ed è tanto minore
quanto maggiore è h. Il caso dell’impuntamento si verifica quando 2fa e/h = 1, perché il
denominatore si annulla e F tende ad infinito.
Nota la linea di azione di R12 , la P può essere immediatamente calcolata in via grafica,
con la costruzione del triangolo delle forze.
Volendo procedere per via analitica conviene esprimere l’equilibrio dei momenti delle forze
attorno all’asse del perno. Si ottiene:
Qa + R12 ρ
P = (2.11)
b
Inoltre, applicando il teorema di Carnot al triangolo delle forze, si può scrivere:
q
R12 = P 2 + Q2 − 2P Q cos θ (2.12)
Il rendimento
Le forze (e le coppie) agenti sulle macchine possono essere classificate secondo diversi punti
di vista. Così, per esempio, una classificazione consiste nel distinguere le forze in motrici e
resistenti.
Una forza
• Le forze esterne derivano dall’azione di campi di forze (peso, forze d’inerzia) o di corpi
esterni alla macchina,
Due corpi a contatto fra loro si trasmettono una forza, nella quale in genere (sempre, se
fra i due corpi c’è moto relativo) è presente una componente dovuta all’attrito. Questa com-
ponente d’attrito costituisce una resistenza passiva e durante il moto compie lavoro negativo,
cioè dissipa energia.
Un effetto analogo danno pure resistenze passive di altro genere, come la resistenza che
un fluido esercita su un corpo che si muove immerso in esso, gli attriti interni dei fluidi
viscosi, e cosi via.
Un indice che ben si presta alla valutazione dell’energia spesa per attrito, così in una
coppia cinematica come in una macchina nel suo complesso, è il rendimento.
Consideriamo una macchina alla quale siano applicate dall’esterno una o più forze (o
coppie) resistenti ed una o più forze (o coppie) motrici.
Dopo un certo periodo di funzionamento della macchina le forze resistenti esterne abbiano
assorbito il lavoro Lr e le forze motrici abbiano erogato il lavoro Lm .
Come si è accennato poco sopra, le componenti d’attrito delle forze interne assorbono
lavoro. Indichiamo con Lp , questo lavoro perduto per attrito, riferito allo stesso periodo di
tempo.
Indichiamo con E l’energia cinetica della macchina (somma delle energie cinetiche dei
suoi membri) e prendiamo i lavori in valore assoluto.
33
34 CAPITOLO 3. IL RENDIMENTO
Se le variazioni di energia interna, come ad esempio quella elastica, sono trascurabili, vale
il seguente bilancio energetico:
Lm − Lr − Lp = ∆E (3.1)
cioè la somma algebrica dei lavori compiuti, in un certo intervallo di tempo, da tutte le
forze agenti sulla macchina, è uguale alla variazione subita dall’energia cinetica nello stesso
intervallo di tempo.
Se il secondo membro dell’equazione si mantiene costantemente uguale a zero per un certo
intervallo di tempo del funzionamento della macchina, diciamo che la macchina funziona in
condizioni di regime assoluto.
In tale situazione vale la relazione:
Lm = Lr + Lp (3.2)
Può accadere che durante il funzionamento di una macchina il secondo membro della (3.1)
risulti uguale a zero soltanto al termine di regolari intervalli di tempo. Può cioè accadere
che valga ancora l’equazione (3.2), ma a condizione che i lavori vengano valutati per tempi
uguali, o multipli interi, di un tempo base, chiamato periodo. Quando si verificano queste
circostanze si dice che la macchina funziona in condizioni di regime periodico.
É ovvio che le condizioni di regime, sia assoluto sia periodico, sono condizioni partico-
lari, per quanto frequenti, di funzionamento per una macchina. In generale (per esempio
all’avviamento, all’arresto, nel passaggio da un regime all’altro) il secondo membro della 3.1
è diverso da zero, potendo essere, a seconda dei casi, positivo (ad esempio all’avviamento)
o negativo (ad esempio all’arresto). Di conseguenza, nel primo caso il lavoro motore prevale
sulla somma del lavoro resistente e del lavoro perduto; l’opposto accade nel secondo caso.
Questa condizione generale è chiamata transitorio meccanico
Ciò premesso, consideriamo una macchina che funzioni in condizioni di regime; valga cioè
la (3.2), con le limitazioni sopra menzionate per il caso di regime periodico. In tale situazione
definiamo rendimento della macchina il rapporto:
Lr
η= (3.3)
Lm
É evidente che il rendimento è un numero sempre minore di uno.
• In alcuni casi (per certe coppie o per certe macchine strutturalmente semplici, realiz-
zate con cura, funzionanti in condizioni particolarmente favorevoli) il rendimento può
assumere valori prossimi ad uno.
• In altri casi il suo valore può scendere a valori molto bassi, fino ad annullarsi o
addirittura a divenire negativo; caso questo cui corrisponde impossibilità di movimento.
Lm0 = Lr (3.4)
nella quale con Lm0 si è indicato il lavoro motore richiesto in questa situazione puramente
ideale.
3.1. RENDIMENTO DELLE MACCHINE POSTE IN SERIE 35
η = η1 η2 ..ηn (3.10)
annullarsi. É probabile che la carrucola si comporti nel primo modo; mentre è probabile che
il piano inclinato si comporti nel secondo modo. La prima situazione si verifica quando il
rendimento del sistema nel moto diretto è abbastanza elevato, mentre la seconda situazione
si verifica quando il rendimento nel moto diretto è basso.
Quando si verifica la prima situazione diciamo che il sistema ammette moto retrogrado.
Ciò premesso, passiamo a considerare una macchina che funzioni in condizione di moto
retrogrado (cioè che si muova, in senso opposto, a quello di funzionamento diretto, sotto
l’azione della forza che nel moto diretto è la forza resistente); e calcoliamone il rendimento
nel moto retrogrado.
Il rendimento nel moto retrogrado η ′ è per definizione il rapporto fra il lavoro resistente
nel moto retrogrado L′r ed il lavoro motore nel moto retrogrado L′m :
L′r
η′ = (3.12)
L′m
Tenendo presente che la forza Q, motrice nel moto retrogrado, è la forza resistente nel
moto diretto, e che pertanto, per uguali spostamenti nei due movimenti Lr = L′m si può
scrivere:
L′
η′ = r (3.13)
Lr
A sua volta la perdita di rendimento nel moto retrogrado vale:
L′p
1−η = ′
(3.14)
Lr
dove si è indicato con L′p il lavoro perduto per attrito nel moto retrogrado.
Cerchiamo adesso una relazione fra η ed η ′ . É comodo passare attraverso la perdita di
rendimento. Si ottiene, dividendo membro a membro:
1 − η′ L′p Lm L′p 1 k
= = = (3.15)
1−η Lp Lr Lp η η
E dopo qualche passaggio:
η (1 + k) − k
η′ = (3.16)
η
la quale, noto che sia k, permette di trovare η ′ in funzione di η. Dalla precedente risulta, in
particolare, che η ′ < 0, ossia che il moto retrogrado è impossibile, se η < k/(1+k). Poichè k
3.3. MOTO RETROGRADO 39
è di norma poco diverso da uno, si giunge alla conclusione che il moto retrogrado
è possibile (ossia è η ′ ≥ 0) quando il rendimento nel moto diretto è superiore a
0, 5 circa. Per valori di η inferiori a 0, 5 non si ha moto retrogrado, ma l’arresto
del dispositivo.
40 CAPITOLO 3. IL RENDIMENTO
Capitolo 4
Accoppiamento motore-utilizzatore
La maggior parte dei sistemi meccanici comprende un motore, il quale sviluppa forze o
coppie motrici che compiono lavoro positivo, e un utilizzatore (o carico), che sviluppa
forze o coppie resistenti, le quali compiono lavoro negativo.
Il motore e l’utilizzatore sono solitamente accoppiati per mezzo di una trasmissione
meccanica.
Si potrebbero citare numerosissimi esempi di sistemi motore-utilizzatore. Si consideri un
ventilatore: il motore compie un lavoro positivo per vincere la resistenza aerodinamica delle
pale in movimento (la coppia resistente). Si consideri un argano che solleva un carico: la
forza resistente è costituita dal peso del carico sollevato. Se invece il carico si abbassa, in
questo caso il peso diventa la forza motrice e il momento frenante sviluppato dall’argano è
la coppia resistente.
Sia per il motore che per l’utilizzatore, le due grandezze fondamentali sono la coppia C
e la velocità (angolare) ω (nel caso di attuatori e utilizzatori in moto rettilineo si parlerà
ovviamente di forza e velocità lineare). Normalmente queste due grandezze (il cui prodotto,
lo ricordiamo, dà la potenza) sono dipendenti l’una dall’altra, pertanto C = C(ω), sia per
il motore che per l’utilizzatore. E’ allora possibile rappresentare graficamente la dipendenza
della coppia dalla velocità, ottenendo così la caratteristica meccanica, rispettivamente
del motore o dell’utilizzatore.
41
42 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
Quando si parla di velocità di un motore senza far riferimento alle condizioni di carico
ci si riferisce normalmente alla velocità nominale, ovvero alla velocità per la quale è stato
ottimizzato il progetto del motore, oppure alla velocità di funzionamento a vuoto,
ossia alla velocità assunta dal motore in assenza di carico (ricavabile dall’intersezione della
caratteristica con l’asse delle ascisse).
La relazione coppia-velocità (caratteristica meccanica) può essere valutata per via teorica
o per via sperimentale qualora si disponga di un carico con coppia resistente regolabile (ad
esempio un freno). Il rilievo sperimentale va effettuato a velocità costante per escludere
l’effetto di altri parametri meccanici (inerzia) o elettrici.
Questa caratteristica consente di studiare il comportamento del motore in alcune con-
dizioni indipendentemente dalle caratteristiche elettriche sue e di tutto ciò che gli sta a
monte.
4.1. CARATTERISTICA DEL MOTORE 43
Figura 4.2: Esempi di variazione della curva caratteristica. Motore asincrono regolato in
frequenza (y = f )
Figura 4.3: Esempi di variazione della curva caratteristica. Motore c.c. regolato in tensione
(y = V )
Indichiamo con y (variabile di comando) le eventuali condizioni che possono essere mutate
a comando dall’esterno. Al variare di y la curva caratteristica del motore varia. Nei casi
più semplici y può assumere soltanto una piccola serie di valori prefissati, corrispondenti a
situazioni di tipo marcia avanti/indietro/arresto; all’estremo opposto, in presenza di variatori
elettronici, essa può essere rappresentata ad esempio dalla tensione di alimentazione (o dalla
intensità o dalla frequenza della corrente) e, quindi, può assumere con continuità una serie
di valori compresi tra un minimo ed un massimo.
44 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
Ovviamente, quando sul rotore (e quindi sull’albero d’uscita del motore) si genera una
coppia motrice Cm sullo statore (e, quindi, sulla parte fissa del motore) si genera una coppia
uguale e contraria; a causa di questo fenomeno bisogna sempre prevedere l’ancoraggio dello
statore sul basamento della macchina.
Scelto un verso positivo di rotazione, coppia e velocità assumono il valore positivo se
equiverse con esso.
A scopo didattico è possibile definire tre tipi ideali di caratteristica meccanica del motore:
In altri casi il passaggio avviene variando y (cioè modificando la curva caratteristica) con
continuità o meno, a seconda delle possibilità offerte dal tipo di azionamento.
Nel primo e nel terzo quadrante il motore funziona dunque come tale, fornendo potenza
al carico, mentre nel secondo e nel quarto quadrante il motore funziona da freno, sottraendo
potenza al carico.
In alcune situazioni tale potenza viene dissipata in calore, in altre invece il motore fun-
ziona da generatore (poiché le macchine elettriche sono reversibili) e una parte di essa viene
inviata verso la rete, e quindi recuperata, nella misura concessa dai dispositivi interposti tra
motore e rete. Si può quindi avere una frenatura dissipativa e una frenatura rigenerativa.
Figura 4.7: Campi di lavoro di un motore c.c. Sono indicate anche le zone continuativa e
intermittente
É necessario precisare che una porzione di ques’area viene definita zona di funziona-
mento continuativo e rappresenta le condizioni nelle quali il motore può funzionare per
tempo indefinito.
La restante zona, detta zona di funzionamento intermittente, rappresenta l’insieme
dei punti per il quale il motore può funzionare solo per brevi periodi, per evitare un eccessivo
surriscaldamento.
I limiti di queste zone dipendono da diversi fattori del motore stesso o dei suoi sistemi di
regolazione.
4.4. CURVA CARATTERISTICA DEL CARICO 47
Figura 4.10: Curva caratteristica di un carico (a) puramente passivo, (b) non puramente
passivo
ima, l’altra per la velocità massima), del tipo a coppia costante, del tipo a coppia crescente
con la velocità, o del tipo a potenza costante.
Il luogo dei carichi è determinato, in generale, dall’insieme dei punti coppia-velocità di
regime che si possono determinare nelle diverse situazioni.
Wm = Cm ωm = Cr ωr = Wr (4.1)
50 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
ωr = τ ωm (4.2)
Cm = τ Cr (4.3)
dove ωr e ωm sono la velocità del motore e del carico e Cr e Cm le rispettive coppie; τ è
detto rapporto di trasmissione e generalmente si ha τ < 1.
Le precedenti equazioni si ottengono considerando che, nella situazione ideale di assenza di
perdite all’interno del riduttore (η = 1), la potenza erogata dal motore a regime deve essere
uguale alla potenza assorbita dall’utilizzatore. Dall’eguaglianza delle potenze (Cm ωm =
Cr ωr ) si ottengono allora le equazioni precedenti, che dicono come il rapporto tra le coppie
applicate agli alberi di uscita e di ingresso del riduttore sia inversamente proporzionale al
rapporto delle rispettive velocità.
L’albero più lento è quindi sottoposto ad una coppia più grande, mentre l’albero più
veloce è sottoposto ad una coppia più piccola.
4.7. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE MEDIANTE RIDUTTORE DI VELOCITÀ51
L’ipotesi di riduttore ideale in molti casi non è lontana dalla realtà, in quanto si possono
spesso avere rendimenti molto elevati (superiori a 0,96-0,98).
Se invece le perdite nel riduttore non sono trascurabili, le precedenti equazioni assumono
la forma:
ωm η
Cr ωr = ηCm ωm ⇒ Cr = η Cm = Cm (4.4)
ωr τ
1 ωm 1
Cr ωr η ∗ = Cm ωm ⇒ Cr = Cm = ∗ Cm (4.5)
η ωr
∗ τη
nel caso di moto retrogrado (il motore funziona da freno). η e η ∗ sono i rendimenti di
moto diretto e di moto retrogrado.
Quanto enunciato rimane valido anche nella situazione, meno frequente, in cui la velocità
del motore sia inferiore a quella del carico a cui deve essere accoppiato. L’unica differenza,
in questo caso, è che τ > 1: si avrà pertanto un moltiplicatore di velocità.
52 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
Figura 4.13: a) sistema reale; b) sistema ridotto all’asse motore; c) sistema ridotto all’asse
utilizzatore
utilizzatore.
La Fig. 4.13 illustra il concetto di riduzione del sistema.
La riduzione del sistema ad un unico asse, sia esso quello motore o quello utilizzatore,
consente di determinare in modo agevole il punto di funzionamento. Da un punto di vista
grafico, la procedura di riduzione consiste nel riportare le caratteristiche meccaniche del
motore e dell’utilizzatore sul medesimo piano (C, ω): il loro punto di intersezione fornirà la
velocità angolare del sistema a regime.
Si consideri ad esempio la Fig. 4.14, ove sono riportate le caratteristiche meccaniche
di un motore e di un carico che devono essere accoppiati tramite un riduttore di rapporto
di trasmissione τ , e si supponga di voler ridurre il sistema all’asse utilizzatore. Si tratterà
allora di riportare nel piano (Cr , ωr ) la caratteristica meccanica del motore ridotta all’asse
utilizzatore, ovvero il grafico della coppia motrice equivalente Cm ∗
= Cm /τ in funzione della
velocità dell’utilizzatore ωr = τ ωm . Ciò significa che il grafico originario della Cm si modi-
ficherà moltiplicando il valore dell’ascissa di ogni suo punto per τ e dividendo per lo stesso
4.7. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE MEDIANTE RIDUTTORE DI VELOCITÀ53
Figura 4.15: Riduzione della curva caratteristica del motore nel piano del carico
Figura 4.16: Riduzione della curva caratteristica del carico nel piano del motore
Figura 4.17: Curve caratteristiche del motore ridotte al carico rappresentate in diagrammi
logaritmici
le grandezze (coppia e velocità) che compaiono nell’equazione risultante risultino riferite allo
stesso asse.
Se le curve sono riportate in diagrammi logaritmici, poichè moltiplicare o dividere per τ
equivale ad aggiungere o togliere log τ , queste trasformazioni equivalogono a traslazioni delle
curve caratteristiche lungo rette inclinate di 45◦ (vedi Fig. 4.17 e Fig. 4.18).
Figura 4.18: Curve caratteristiche del carico ridotte al motore rappresentate in diagrammi
logaritmici
Cm ωm = Fr vr (4.6)
da cui:
Cm = Fr vr /ωm (4.7)
Il rapporto di riduzione τ = vr /ωm in questo caso non è una grandezza adimensionale, ma
ha le dimensioni di una lunghezza. Esaminando la Fig. 4.19, si vede come esso coincida con
il raggio r del tamburo su cui si avvolge la fune, in quanto la relazione tra velocità periferica
e velocità angolare è data da: v = ωr.
dω
Cm − Cr = (Jm + Jr ) (4.8)
dt
Quindi il motore e il carico accelerano con una accelerazione angolare data da:
dω Cm − Cr
= (4.9)
dt (Jm + Jr )
4.9. STABILITÀ DEL FUNZIONAMENTO A REGIME 57
Sia la coppia motrice che quella resistente possono dipendere dalla velocità rendendo
molto difficile o impossibile l’integrazione per via analitica. Quindi l’integrale è spesso
calcolato per via numerica.
La Fig. 4.22 illustra, come esempio, il caso di un motore asincrono alimentato dalla rete,
direttamente collegato ad un carico avente coppia crescente con la velocità (ad esempio una
4.11. IL TRANSITORIO IN UN SISTEMA MOTORE-UTILIZZATORE CON RIDUTTORE DI VELO
Sia C1 la coppia erogata dal motore, e si supponga che sul tamburo, oltre al momento
creato dal peso della massa m, agisca una coppia resistente C2 . Siano J1 e J2 i momenti di
inerzia rispettivamente del motore e del tamburo.
Propedeutica alla scrittura delle equazioni dinamiche del sistema è la definizione di un
verso positivo per gli spostamenti (siano essi traslazioni o rotazioni) dei vari elementi del
sistema.
Nel nostro caso, fissiamo come positivo il verso della rotazione dell’asse motore, e quindi
della velocità ω1 e dell’accelerazione ω̇1 della ruota 1. La ruota 2, che ha verso di rotazione dis-
corde, avrà quindi velocità ω2 e accelerazione ω̇2 negative. Per quanto riguarda la traslazione
della massa m, fissiamo come positivo il verso dal basso in alto.
Il rapporto di trasmissione tra l’asse 1 e l’asse 2 può essere facilmente ricavato osservando
che nel punto di contatto le due ruote di frizione devono avere in valore assoluto la stessa
velocità periferica v = ω1 r1 = ω2 r2 . Pertanto il rapporto di trasmissione vale:
4.11. IL TRANSITORIO IN UN SISTEMA MOTORE-UTILIZZATORE CON RIDUTTORE DI VELO
D
ż = ω2 (4.15)
2
D
z̈ = ω̇2 (4.16)
2
Considerando per semplicità prive di attrito le reazioni vincolari dei supporti dei due
assi, possiamo ora scrivere le equazioni dinamiche del sistema, in particolare le equazioni di
equilibrio alle rotazioni per gli assi 1 e 2.
L’equazione di equilibrio alle rotazioni secondo Newton per l’asse 1 è data da:
C1 − F r1 − J1 ω̇1 = 0 (4.17)
ove C1 è la coppia motrice, F la componente tangenziale della forza di contatto (aderenza)
tra le ruote di frizione, −J1 ω̇1 la coppia di inerzia.
Si noti che le reazioni vincolari nei supporti e la componente normale N della forza di
contatto tra le ruote di frizione non danno contributo all’equazione dei momenti, in quanto
le loro rette di azione passano per l’asse e dunque il loro braccio è nullo.
Si presti inoltre attenzione al segno di ognuno dei termini della equazione (4.17), de-
terminati considerando positivo il verso della coppia C1 e della accelerazione angolare ω̇1 ,
concorde con essa. La coppia d’inerzia −J1 ω̇1 ha allora segno negativo per definizione, mentre
il momento −F r1 ha il segno negativo perché discorde con C1 .
L’equazione di equilibrio alle rotazioni secondo Newton per l’asse 2 è data da:
D D
C2 − F r2 + J2 ω̇2 + mg + mz̈ = 0 (4.18)
2 2
Per determinare il segno dei termini in questa equazione, si consideri il fatto che l’accel-
erazione angolare ω̇2 dell’asse 2 è discorde con ω̇1 . La coppia d’inerzia, che ha sempre verso
opposto all’accelerazione angolare, sarà allora concorde con ω̇1 , pertanto il termine J2 ω̇2 si
troverà ad avere segno positivo. Lo stesso ragionamento vale per la coppia d’inerzia generata
dalla forza peso, ovvero mz̈ D2 . C2 ha verso positivo perché, essendo la coppia resistente, ha
verso discorde con ω2 e quindi è concorde con ω1 .
Dalla (4.18) ricaviamo F :
C2 + J2 ω̇2 + mg D2 + mz̈ D2
F = (4.19)
r2
che poi andiamo a sostituire nella (4.17), ottenendo:
62 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
r1 D D
C1 − (C2 + J2 ω̇2 + mg + mz̈ ) − J1 ω̇1 = 0 (4.20)
r2 2 2
Per impostare la procedura di riduzione all’asse motore, conviene portare al secondo
membro i termini che contengono le grandezze cinematiche (in questo caso le accelerazioni
ω̇1 , ω̇2 e z̈), ottenendo:
r1 D r1 r1 D r1
C1 − C2 − mg = J1 ω̇1 + J2 ω̇2 + mz̈ (4.21)
r2 2 r2 r2 2 r2
Effettuiamo ora la riduzione all’asse motore, ovvero esprimiamo tutte le accelerazioni che
compaiono al secondo membro in funzione della ω̇1 , secondo la (4.14) e la (4.16). Si ottiene:
D D
C1 − C2 τ − mgτ = (J1 + J2 τ 2 + mτ 2 ( )2 )ω̇1 (4.22)
2 2
da cui finalmente l’espressione dell’accelerazione dell’asse motore:
C1 − C2 τ − mgτ D2 Ceq,1
ω̇1 = 2 2 D 2 = (4.23)
J1 + J2 τ + mτ ( 2 ) Jeq,1
Si noti che ω̇1 può essere ottenuta come il rapporto tra la coppia equivalente ridotta
all’asse motore Ceq,1 = C1 − C2 τ − mgτ D2 e l’inerzia equivalente ridotta all’asse
motore Jeq,1 = J1 + J2 τ 2 + mτ 2 ( D2 )2 .
Ai fini del calcolo dell’accelerazione angolare dell’asse motore, l’intero sistema è pertanto
equivalente ad un unico corpo rigido rotante attorno all’asse, soggetto all’azione della coppia
equivalente Ceq,1 e avente momento di inerzia equivalente Jeq,1 . Si dice allora che il sistema
è stato ridotto all’asse motore.
La procedura di riduzione può ovviamente essere effettuata rispetto ad un altro asse del
sistema, diverso dall’asse motore. In generale:
C1 τ − C2 τ 2 − mgτ 2 D2 C1 /τ − C2 − mg D2 Ceq,2
ω̇2 = 2 2 D 2 = 2 D 2 = (4.24)
J1 + J2 τ + mτ ( 2 ) J1 /τ + J2 + m( 2 ) Jeq,2
e quindi può essere ottenuta applicando le regole enunciate sopra, tenuto conto del fatto
che il rapporto di trasmissione dell’asse 1 rispetto all’asse 2 è 1/τ .
La riduzione può essere effettuata anche rispetto a z, ovvero all’asse verticale di movi-
mento della massa. In questo caso i rapporti di trasmissione degli assi 1 e 2 rispetto a z sono
2/Dτ e 2/D; l’accelerazione lineare z̈ è allora:
4.12. EFFETTI DELLA VARIAZIONE DEL RAPPORTO DI TRASMISSIONE 63
2
C1 Dτ − C2 D2 − mg Feq,z
z̈ = 2 2 2 2 = (4.25)
J1 ( Dτ ) + J2 ( D ) + m meq,z
Ovviamente in questo caso, trattandosi di un’accelerazione lineare, si avrà una forza
equivalente e una massa equivalente ridotte all’asse z.
Anche il transitorio meccanico può essere studiato riconducendosi al caso di accoppia-
mento diretto, pur di sostituire ai momenti di inerzia reali i momenti di inerzia ridotti. Tale
riduzione, come visto, avviene secondo il quadrato del rapporto di trasmissione.
L’equazione di equilibrio dinamico ridotta all’albero motore è dunque data da:
dωm
Cm − Cr∗ = (Jm + Jr∗ ) (4.26)
dt
ossia
´ dω
m
³
Cm − τ Cr = Jm + τ 2 Jr (4.27)
dt
mentre la stessa equazione, ridotta all’albero condotto, diviene:
dωr
∗
Cm ∗
− Cr = (Jm + Jr ) (4.28)
dt
ossia
Cm Jm dωr
µ ¶
− Cr = + J r (4.29)
τ τ2 dt
Come considerazione conclusiva, si può osservare che, benché nella maggior parte dei casi
il momento di inerzia dell’utilizzatore sia più grande di quello del motore, nell’espressione
dell’inerzia equivalente ridotta all’asse motore esso compare moltiplicato per il quadrato del
rapporto di trasmissione, quindi per una quantità che può essere molto minore di 1. Ciò
comporta che in parecchi casi il contributo del momento di inerzia dell’utilizzatore possa
essere trascurato rispetto a quello dell’inerzia del motore.
è data da una serie di segmenti verticali nel piano < Cr , ωr >, corrispondenti ai vari valori
di ωr = τ ωm . Si noti che l’ampiezza di tali segmenti diminuisce all’aumentare di τ , essendo
Cm,max
∗
= Cm,max /τ .
64 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
Si vede allora che la velocità di regime del carico aumenta all’aumentare di τ (almeno
finché la coppia massima ridotta non scende sotto quella richiesta dal carico: dopodiché non
c’è più condizione di regime).
In questo caso, quindi, se si vuole modificare la velocità di regime del carico può essere
utilizzato un cambio di marce, ovvero un dispositivo che permette di scegliere il rapporto
di trasmissione fra un numero finito di valori.
trasla su se stessa, e di conseguenza la velocità di regime del carico ωr non varia (varia solo
quella del motore ωm ).
In questo caso un cambio di marce è perfettamente inutile. Questo è ciò che accade, ad
esempio, nei veicoli azionati con un motore in c.c. eccitato in serie, come i tram, che infatti
non hanno cambio di marce.
4.13. CRITERI DI VERIFICA E DI SCELTA DEL MOTORE E DEL RIDUTTORE 65
• la verifica della taglia del motore di una macchina funzionante in condizioni specificate;
• la scelta del motore e del riduttore di velocità adatti a movimentare una macchina in
condizioni prefissate.
La prima di queste operazioni (verifica) è più semplice della seconda e può essere svolta
in maniera certa ed automatica. Al contrario l’operazione di scelta è più complicata, può
richiedere scelte soggettive e talvolta deve venire svolta in forma iterativa eseguendo i seguenti
passi:
1. svolgere un’analisi del sistema;
2. in base ai risultati del passo precedente effettuare una scelta del motore e del riduttore;
3. verificare l’ammissibilità della scelta;
66 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
Wm ≥ Wr /η (4.30)
3) Il rapporto di riduzione si calcola infine dal rapporto tra la velocità del carico e quella
nominale del motore:
τ = ωr /ωm (4.31)
.
A seconda dei motori e dei riduttori disponibili si possono individuare più gruppi motore-
riduttore adatti. La scelta definitiva va fatta con criteri economici o analizzando altri fattori
quali, ad esempio, il tempo di avviamento.
Quando la velocità del carico lo consente, si può valutare la possibilità di eliminare il
riduttore di velocità, assumendo, perciò τ = 1.
68 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
Figura 4.29: Adattamento statico del campo operativo del motore per mezzo di riduttore di
velocità
Per quanto riguarda i campi operativi, si deve osservare che, nella procedura di riduzione,
le curve che delimitano il campo di funzionamento del motore e il luogo dei carichi subiscono
lo stesso tipo di trasformazioni illustrate per le curve caratteristiche. In particolare, nei
diagrammi in scala logaritmìca (che vengono usati di preferenza in questa procedura), tali
curve traslano nella direzione a −45◦ di una quantità corrispondente al valore di τ .
La Fig. 4.29 illustra la procedura di adattamento statico, che può essere schematizzata
nei seguenti passi:
1. si calcola la potenza massima richiesta dal carico. Essa sarà data da Wr = Cr ωr,max ;
2. nel piano < C, ω > si traccia la retta inclinata a −45◦ passante per il punto del luogo
dei carichi a potenza massima. Tale retta è il luogo dei punti di potenza pari a Wr ;
3. per tener conto del rendimento del riduttore (η < 1), la potenza nominale richiesta al
motore sarà data almeno da Wm = ηWr . Si traccia nel piano < C, ω > la retta Wm ;
70 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
Figura 4.31: Ricoprimento del luogo dei carichi usando un cambio di marce -
MODIFICARE FIGURA!!!
4. si effettua la scelta del motore in modo tale che il punto di potenza massima del
suo campo operativo si trovi sulla retta Wm . In tal modo, si è scelto un motore di
taglia (potenza nominale) Wm , che in genere non ricoprirà il luogo dei carichi, essendo
tipicamente Cm < Cr e ωm,max > ωr,max ;
5. il ricoprimento del luogo dei carichi si effettua traslando il campo operativo del motore
lungo la retta Wm . L’entità della traslazione determina il valore di τ del riduttore;
′
coppia nominale Cm1 e velocità nominale ωr,max , con conseguente inutilizzo di buona parte
del campo operativo del motore stesso (il triangolo in alto a destra).
E’ questo il motivo per cui, ad esempio, nelle macchine utensili gli assi ed il mandrino
sono azionati da motori distinti: gli assi hanno infatti un luogo dei carichi a coppia costante,
il mandrino a potenza costante.
• semplicità di costruzione
• lunga durata
• rendimento elevato
• basso costo
velocità ed accelerazione. In certi casi tale legge sarà assegnata, in altri è possibile sceglierla
o perlomeno modificarne i parametri, il che consente di adottare un motore di taglia minore.
A titolo di esempio, si consideri il caso di un carico costituito da un posizionatore auto-
matico, per il quale è stata definita una legge di velocità trapezoidale (Fig. 4.32). Il valore
della pendenza delle rampe del trapezio determina il valore dell’accelerazione e della decel-
erazione, e di conseguenza le azioni inerziali sul sistema, influendo quindi sulla scelta del
gruppo motore-riduttore.
Una volta scelta la legge di moto, si dovrà selezionre il motore tra quelli di taglia minima,
nonché il riduttore che minimizzi la coppia.
Nel caso di carichi dinamici movimentati con cicli di periodo T , assume particolare im-
portanza la definizione della coppia nominale, ovvero la coppia che può essere erogata in
maniera continuativa senza provocare surriscaldamenti del motore. Per motori elettrici, il
valore di questa coppia (detta anche ‘coppia termica’) è assunto pari alla coppia quadratica
media, indicata con RM S (Root Mean Square) e definita da:
s
1ZT 2
Crms = C (t)dt (4.34)
T 0
Le condizioni che devono essere soddisfatte nella scelta del gruppo motore-riduttore per
carichi dinamici sono pertanto le seguenti:
1. la massima coppia istantanea erogabile dal motore deve essere maggiore o uguale alla
somma della coppia resistente e delle coppie di inerzia, ridotte all’asse motore:
¯ Jm
¯ ¯
ist
(4.35)
¯
Cm,max ≥ ¯(
¯ + τ Jr )ω̇r + τ Cr ¯¯
τ
2. la coppia nominale del motore deve essere maggiore o uguale alla coppia RMS del
carico, ovviamente ridotta all’asse motore:
nom
Cm ≥ τ Cr,rms (4.36)
4.16. SCELTA DEL MOTORE E DEL RIDUTTORE PER CARICHI DINAMICI 73
3. la velocità massima del motore, ridotta al carico, deve essere maggiore o uguale di
quella richiesta dal carico:
1
ωm,max ≥ ωr,max (4.37)
τ
4. la taglia (potenza nominale) del motore va scelta in modo tale che il prodotto della
sua coppia nominale per la velocità massima sia maggiore o uguale alla potenza RMS
richiesta dal carico, a seguito dell’azione resistente e delle azioni inerziali:
nom
Cm ωm,max ≥ (Cr + Jr ω̇r )rms ωr,max (4.38)
2. effettuare una prima scelta del motore e riduttore secondo un certo criterio (di solito
l’obiettivo è quello di ridurre la coppia RMS)
3. verificare che la scelta effettuata rispetti tutti i vincoli sopra elencati; in caso contrario,
ritornare ai passi precedenti
Jm dωr
µ ¶
Cm = + τ Jr (4.40)
τ dt
da cui:
dωr 1
= Jm Cm (4.41)
dt τ
+ τ Jr
74 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
Per una prefissata coppia motrice, Il valore ottimo di τ , che rende massima l’accelerazione
del carico, è quello che minimizza la quantità a denominatore del secondo membro. Tale
valore si ricava quindi imponendo:
d Jm
µ ¶
+ τ Jr = 0 (4.42)
dτ τ
ossia:
Jm
− + Jr = 0 (4.43)
τ2
da cui:
s
Jm
τott = (4.44)
Jr
Si vede quindi che in corrispondenza di questo valore τott l’inerzia del motore ridotta al
carico eguaglia quella del carico. Si è così realizzato il cosiddetto adattamento dinamico
del motore al carico.
La condizione ottima, da un punto di vista dinamico, è dunque quella in cui i momenti
d’inerzia del motore e del carico ridotti al medesimo asse sono uguali: le energie cinetiche
del motore e del carico sono uguali tra loro, sicchè della potenza motrice metà servirà ad
accelerare il motore mentre l’altra metà attraverserà il riduttore e andrà ad accelerare il
carico.
In tale condizione l’accelerazione assume il suo valore massimo, che risulta:
dωr Cm
( )max = √ (4.45)
dt 2 Jm Jr
Nel caso di carichi dinamici, è dunque opportuno scegliere il riduttore in modo che τ
abbia un valore abbastanza prossimo a τott , per assicurare al sistema elevate prestazioni
dinamiche.
Come regola empirica, per applicazoni non troppo spinte si assume che il rapporto tra in-
erzia motrice e quella del carico ridotta all’albero motore sia compreso tra 4 e 1/4, ottenendo
quindi τott /2 < τ < 2τott . Ovviamente nelle applicazioni più spinte, quali il controllo d’assi, è
necessario scegliere valori di τ uguali o abbastanza vicini a τott , in modo da assicurare elevate
prestazioni dinamiche.
precedenza di inerzia e coppia ridotta all’asse motore al caso più generico di un sistema
meccanico a un grado di libertà.
1 2
T = Jeq,m ωm (4.46)
2
essendo Jeq,m l’inerzia del sistema ridotta all’asse motore. Negli esempi finora visti essa
è costante, in quanto i rapporti di trasmissione che compaiono nella sua espressione sono
risultati costanti. In generale però i rapporti di trasmissione possono non essere costanti, ma
dipendere dalla posizione del sistema e quindi, in ultima istanza, dal valore della coordinata
libera q: τ = τ (q).
In generale, si può dunque affermare che l’energia cinetica di un sistema varia al variare
della coordinata libera, in quanto l’inerzia è dipendente da q. Possiamo allora scrivere
l’equazione che dà l’energia cinetica di un sistema meccanico a un grado di libertà:
1
T = A(q)q̇ 2 (4.47)
2
ove q̇ è la velocità della coordinata libera (quindi del motore) e A(q) è l’inerzia ridotta
alla coordinata libera. Come detto, essa dipende da q in quanto si ricava da:
con i rapporti di trasmissione per le rotazioni τi (q) e per le traslazioni τj (q) che non sono
costanti, ma dipendono in generale da q.
Analogamente all’inerzia, e possibile definire la coppia ridotta alla coordinata libera
come:
X X
Q(q) = Ci τi (q) + Fj τj (q) (4.49)
i j
ove τi (q) e τj (q) sono i rapporti di trasmissione degli spostamenti associati alle coppie Ci
e alle forze Fj agenti sul sistema.
In definitiva, A(q) e Q(q) sono l’estensione di Jeq,m e Ceq,m al caso più generale di un
sistema meccanico in cui i rapporti di trasmissione non siano costanti, ma dipendano da q.
Z q
L(q) = Q(r)dr (4.54)
0
Il lavoro così ottenuto (preso con il suo segno) coincide con la variazione dell’energia
cinetica T del sistema in corrispondenza dello spostamento da 0 a q della coordinata libera:
Z q
∆T (q) = T (q) − T (0) = L(q) = Q(r)dr (4.55)
0
Se L(q) > 0 si avrà dunque un incremento dell’energia cinetica, viceversa se L(q) < 0 si
avrà un decremento.
E’ ovvio che, trovandoci in regime periodico, il lavoro netto compiuto per un ciclo (o per
un numero intero di cicli) sarà nullo:
Z 2π
Lciclo = Q(r)dr = 0 (4.56)
0
Rimane ora da esplicitare q̇(q), in modo tale da poter ottenere come varia la velocità
all’interno del ciclo. Esprimendo l’energia cinetica del sistema in funzione dell’inerzia ridotta
alla coordinata libera, si ottiene:
1 1 Z q
T (q) − T (0) = A(q)q̇ 2 (q) − A(0)q̇ 2 (0) = Q(r)dr (4.57)
2 2 0
da cui:
v
u A(0) 2 Zq
u
q̇(q) = t q̇ 2 (0) + Q(r)dr (4.58)
A(q) A(q) 0
Questa equazione può essere utilizzata per determinare il grado di irregolarità del moto di
un sistema in regime periodico, a partire dalla conoscenza dell’inerzia ridotta e della coppia
risultante, ridotta alla coordinata libera.
Si ottiene allora:
∆L
g= 2
(4.62)
Jeq,m ωmedia
e quindi il valore di Jeq,m necessario per ottenere il grado di irregolarità periodica desider-
ato è dato da:
4.17. REGIME PERIODICO 79
∆L
Jeq,m = 2
(4.63)
gωmedia
La procedura appena vista è accettabile in molti casi; tuttavia, se si desidera una maggiore
accuratezza, e in ogni caso qualora l’inerzia ridotta del sistema non sia costante, è necessario
utilizzare una metodologia più sofisticata, basata su una sintesi grafica.
Partendo dalle (4.59) e (4.60), si possono ricavare i valori delle velocità massima e minima
durante il ciclo:
g
q̇max = ωmax = (1 + )ωmedia (4.64)
2
g
q̇min = ωmin = (1 − )ωmedia (4.65)
2
La procedura grafica qui illustrata prevede di rappresentare il ciclo del sistema nel piano
(A, T ), ovvero in un diagramma avente per ascissa l’inerzia ridotta A e in ordinata l’energia
cinetica T .
Con riferimento alla Fig. 4.33, il sistema nella generica configurazione q sarà dunque
rappresentato da un punto P della curva chiusa; la velocità q̇ in tale configurazione sarà
correlata al valore della tangente dell’angolo α che la congiungente il punto P all’origine
degli assi (A, T ) forma con l’asse delle ascisse.
Infatti, dalla (4.47) si ricava:
1 2 T (q)
q̇ = = tanα(q) (4.66)
2 A(q)
Ora, volere che la velocità all’interno del ciclo sia compresa tra un valore minimo e uno
massimo dati dalle (4.64) e (4.65) equivale a imporre che la curva che rappresenta il ciclo sia
compresa tra due rette aventi pendenze tanαmin e αmax date rispettivamente da:
1 2
tanαmin = q̇min (4.67)
2
1 2
tanαmax = q̇max (4.68)
2
Il ciclo considerato non soddisfa tali condizioni (altrimenti significherebbe che il moto è
già regolarizzato senza necessità di volano): è necessario quindi traslare il sistema (A, T ) in
modo tale da individuare un nuovo sistema (A′ , T ′ ) la cui origine coincide con il punto di
intersezione delle due rette, tangenti al ciclo, aventi pendenze tanαmin e tanαmax (si veda la
Fig. 4.34).
In tal modo si è sicuri che la congiungente qualsiasi punto del ciclo con l’origine del nuovo
sistema di riferimento avrà pendenza compresa tra tanαmin e tanαmax , il che significa che
nessun punto all’interno del ciclo avrà velocità superiore a q̇max né inferiore a q̇min .
Il moto è stato dunque regolarizzato, e l’entità della traslazione orizzontale degli assi
fornisce il valore del momento di inerzia del volano Jv , che va aggiunto all’albero motore in
modo tale da aumentare l’inerzia del sistema di una quantità costante: A′ (q) = A(q) + Jv .
Il progetto del volano, ovvero il calcolo del momento di inerzia aggiuntivo Jv necessario
per ottenere il valore desiderato dell’irregolarità periodica g, può anche essere svolto per via
80 CAPITOLO 4. ACCOPPIAMENTO MOTORE-UTILIZZATORE
ove f (q) una funzione non lineare nota, essendo date sia Q(q) che A(q).
L’equazione precedente si risolve sostituendo a β i valori αmin e αmax , in modo da ottenere
le soluzioni qmin e qmax , che sono i valori della coordinata libera in corrispondenza dei quali
si hanno rispettivamente le velocità minima e massima del ciclo.
Tali valori possono essere utilizzati per calcolare le coordinate dei punti del piano (A, T )
corrispondenti alle velocità minima e massima, come segue:
Per ricavare la traslazione orizzontale che fornisce il valore del momento di inerzia del
volano Jv è ora sufficiente eguagliare l’espressione analitica della retta di pendenza tanαmin ,
passante per il punto di coordinate (Amin , Tmin ), con la retta di pendenza tanαmax , passante
per il punto di coordinate (Amin , Tmin ):
Fc = mω 2 r (4.75)
essendo m la massa del rotore, ω la sua velocità angolare e r la distanza del baricentro
dall’asse di rotazione.
4.18. EQUILIBRAMENTO DEI ROTORI 81
La suddetta forza centrifuga induce sollecitazioni sui supporti che, essendo legate al
quadrato della velocità angolare, possono assumere valori elevati anche a velocità non parti-
colarmente alte. E’ pertanto fondamentale provvedere all’equilibramento statico dei rotori,
ad esempio progettando, come sarà illustrato nel seguito, un opportuno contrappeso.
Anche nel caso di rotore equilibrato staticamente possono però originarsi delle reazioni
vincolari rotanti nei supporti, qualora il rotore stesso non sia equilibrato dinamicamente,
ovvero qualora il proprio asse di rotazione non coincida con uno degli assi principali di inerzia,
definito come un asse rispetto a cui la matrice di inerzia del corpo sia diagonale.
Con riferimento alla Fig. 4.35, si vede che le due metà del rotore hanno baricentri che
non si trovano sull’asse di rotazione; pertanto, le forze centrifughe a cui sono soggette le due
metà del rotore hanno risultante nulla ma, non avendo la medesima retta di azione, generano
una coppia che induce sollecitazioni sui supporti.
1. la posizione del baricentro del sistema di sostituzione sia la stessa di quella del sis-
tema reale, per assicurare che le accelerazioni dei baricentri siano le stesse in qualsiasi
condizione di funzionamento;
2. la massa totale dei due sistemi sia uguale, affinché la forza d’inerzia risultante sia la
stessa;
3. il momento di inerzia rispetto al baricentro sia lo stesso per i due sistemi, in modo tale
che la coppia di inerzia risultante sia uguale.
La posizione delle masse di sostituzione, collocate nei punti di accoppiamento della biella,
non può essere modificata se si vuole calcolare correttamente il contributo dinamico della biel-
la rispettivamente alla manovella e al pistone; rimangono quindi da determinare solamente
i valori delle due masse mr e mt .
Essendovi solo due incognite, non è possibile soddisfare contemporaneamente le tre con-
dizioni enunciate sopra; si sceglie allora di ricavare i valori di mr e mt imponendo le condizioni
4.18. EQUILIBRAMENTO DEI ROTORI 83
1. e 2., mentre per assicurare il rispetto della condizione 3. si dovrà considerare un momento
aggiuntivo dato dalla differenza tra la coppia di inerzia della biella reala e la coppia di inerzia
del sistema di sostituzione.
Dalle prime due condizioni si ottiene dunque il sistema:
mr a = mt b (4.77)
mr + mt = mb (4.78)
ove a e b sono le distanze dei punti di accoppiamento dal baricentro della biella (vedi Fig.
4.36), mentre mb è la massa totale della biella.
Una volta ricavati i valori delle masse di sostituzione, si calcola la coppia di inerzia da
esse prodotta:
Nel capitolo precedente si sono studiati i principi generali di accoppiamento fra un motore e
un utilizzatore meccanico. In questo e nei capitoli successivi saranno considerati i prinicpali
organi meccanici utilizzati per la trasmissione del moto, a cominciare dai sistemi costituiti
da ruote dentate tra loro accoppiate. Tali sistemi sono detti ingranaggi.
Una ruota dentata è un solido costruito in modo da poter ruotare attorno ad un asse e
dotato di sporgenze dette denti in grado di trascinare in movimento i denti di un’altra ruota.
Le ruote dentate, siano esse piane o coniche, e qualunque sia il tipo di dentatura con cui
siano state costruite, rappresentano insieme alle ruote di frizione la principale soluzione al
problema della trasmissione del moto fra una coppia di assi (siano essi paralleli, concorrenti
in un punto oppure sghembi) con un rapporto di trasmissione costante.
L’uso di ingranaggi per la trasmissione del moto è opportuno quando:
Per poter meglio comprendere i principi di funzionamento delle ruote dentate, premetti-
amo la descrizione di un altro organo idoneo a trasmettere il moto tra due assi paralleli o
concorrenti, quando le coppie e potenze in gioco non siano eccessive: le ruote di frizione,
altresì dette ruote di attrito.
85
86CAPITOLO 5. ORGANI PER LA TRASMISSIONE DEL MOTO: GLI INGRANAGGI
C, e le circonferenze, traccia delle due ruote sul piano del moto, sono dette le circonferenze
primitive.
Un siffatto meccanismo costituisce una coppia di ruote di frizione; la trasmissione del
moto è assicurata esclusivamente dalle condizioni di aderenza che debbono verificarsi nel
contatto. L’analisi cinematica mostra che, se il moto relativo è di puro rotolamento, la
velocità di C deve essere la stessa, che sia considerato appartenente alla ruota 1 oppure alla
ruota 2. Pertanto:
A
vC = B vC (5.1)
e quindi, indicando rispettivamente con ω1 e ω2 le velocità angolari della ruota (A) e della
ruota (B) sarà:
ω1 r1 = ω2 r2 (5.2)
Ne segue che il rapporto di trasmissione del meccanismo è:
¯ ω2 ¯ r
¯ ¯
τ = ± ¯¯ ¯=± 1 (5.3)
ω1¯
r2
ed è costante.
I versi delle velocità angolari di (A) e di (B) sono discordi se le ruote (A) e (B) sono
disposte come in Fig. 5.1 e quindi nell’equazione (5.3) vale il segno meno; sono invece
concordi, e varrà quindi il segno più, quando le ruote (A) e (B) sono disposte come in Fig.
5.2, che rappresenta il caso in cui una delle due ruote sia interna.
Quando la realizzazione di un rapporto di trasmissione costante deve essere realizzato
fra due assi concorrenti in un punto, le superfici a contatto sono quelle di due coni a sezione
circolare tangenti lungo una generatrice comune (Fig.5.3), i cui assi formano fra loro un
angolo α. Indicando rispettivamente con α1 ed α2 le semiaperture dei due coni (la cui somma
dà ovviamente l’angolo α), la condizione di rotolamento senza strisciamento nel moto relativo
5.1. RUOTE DI FRIZIONE 87
è che tutti i punti della generatrice di contatto abbiano la stessa velocità tangenziale, sia
essa calcolata in funzione di ω1 oppure di ω2 :
−−−−−→ −−−−−→
ω
~ 1 × (C − O) = ω
~ 2 × (C − O) (5.4)
e quindi:
ω1 OC sin α1 = ω2 OC sin α2 (5.5)
¯ ω2 ¯ sin α1
¯ ¯
τ = ± ¯¯ ¯¯ = ± (5.6)
ω1 sin α2
ed è anch’esso costante. Ovviamente il segno meno varrà nel caso di ruote esterne, il
segno più nel caso di ruote interne (si veda Fig. 5.3).
L’effettivo utilizzo delle ruote di frizione come meccanismi atti a realizzare un rapporto
di trasmissione costante è confinato al campo della trasmissione di piccole potenze (coppie
basse e basse velocità); si comprende che la condizione di strisciamento nullo nel contatto
è realizzabile solo in presenza di un adeguato carico normale sufficiente a generare la forza
tangenziale d’attrito necessaria al funzionamento: tale carico normale non potrà tuttavia
essere troppo elevato per non generare deformazioni locali nel contatto ed elevate perdite
per attrito nei perni delle coppie rotoidali. Le deformazioni del contatto d’altra parte ren-
derebbero falsa la condizione che le primitive del moto siano le due circonferenze (nel caso
di ruote piane) o i due coni (nel caso di assi concorrenti), che assicuravano il rapporto di
trasmissione costante desiderato.
In generale, le condizioni limite di aderenza determineranno un limite superiore per le
coppie applicabili agli assi delle due ruote, che dovranno quindi risultare:
88CAPITOLO 5. ORGANI PER LA TRASMISSIONE DEL MOTO: GLI INGRANAGGI
C1 ≤ fa FN r1 (5.7)
C2 ≤ fa FN r2 (5.8)
Quando sono in gioco potenze notevoli è conveniente che la trasmissione del moto sia
affidata non all’aderenza, ma all’azione mutua che si scambiano opportune superfici coniugate
ricavate sulla periferia di un disco, superfici che costituiscono la sagoma dei denti di una ruota
dentata.
5.2. RUOTE DENTATE PIANE AD EVOLVENTE 89
Il profilo dei denti è dato da una curva detta evolvente di cerchio. L’evolvente è la
traiettoria di un punto generico di una retta che rotola senza strisciare su una circonferenza,
e può essere generata a partire da una circonferenza fondamentale di raggio rf , con
la proprietà che in ogni suo punto la normale all’evolvente è tangente alla circonferenza
fondamentale (Fig. 5.4).
I due tratti di evolvente che costituiscono la sagoma del dente si svolgono in parte interna-
mente e in parte esternamente alla circonferenza primitiva. Il profilo ad evolvente è presente
su entrambi i fianchi del dente, in modo tale da poter trasmettere il moto in entrambi i versi
di rotazione.
Si faccia riferimento alla Fig. 5.5: i profili ad evolvente e1 ed e2 delle ruote dentate (1) e
(2) vengono a contatto nel punto P . Per la proprietà dell’evolvente, la normale comune I1 I2
ai due profili nel punto P deve essere tangente ad entrambe le circonferenze fondamentali cf 1
e cf 2 . In conseguenza della rotazione, il punto di contatto tra i denti si sposta (ad esempio in
P ∗ ) mantenendosi però sempre sulla retta I1 I2 , che risulta quindi essere il luogo geometrico
dei punti di contatto fra i denti delle due ruote. Tale retta è chiamata retta dei contatti o
retta di pressione in quanto, in assenza di attrito, essa rappresenta la direzione della forza
mutua che si scambiano i denti in presa.
L’angolo ϑ che la retta di pressione forma con la normale alla congiungente gli assi
O1 , O2 delle ruote è chiamato angolo di pressione. Il punto C, intersezione della retta
di pressione con la congiungente gli assi O1 , O2 , costituisce geometricamente il punto di
tangenza di due circonferenze cp1 e cp2 centrate in O1 , O2 e di raggi r1 = O1 C e r2 = O2 C,
dette circonferenze primitive.
Risulta allora evidente che, da un punto di vista cinematico, una coppia di ruote dentate
è equivalente a una coppia di ruote di frizione aventi circonferenze uguali alle primitive.
Dalla Fig. 5.5 è facile ricavare la relazione tra le circonferenze fondamentali e le primitive:
essendo O1 I1 C e O2 I2 C due triangoli rettangoli, si avrà:
90CAPITOLO 5. ORGANI PER LA TRASMISSIONE DEL MOTO: GLI INGRANAGGI
rf = r cos ϑ (5.9)
Per l’equivalenza cinematica tra ruote di frizione e circonferenze primitive, il rapporto di
trasmissione tra una coppia di ruote dentate sarà dato dalla (5.3):
¯ ω2 ¯ r1
¯ ¯
τ = ± ¯¯ ¯¯ = ± (5.10)
ω1 r2
Nel caso di un unico ingranaggio, spesso viene trascurata l’indicazione del segno del
rapporto di trasmissione. Scriveremo quindi:
ω2 r1
τ= = (5.11)
ω1 r2
oppure, per la (5.9):
ω2 rf 1
τ= = (5.12)
ω1 rf 2
• la fase in cui i denti si toccano prima dell’attraversamento della retta dei centri si dice
fase di accesso; la successiva, fase di recesso;
• nelle ruote esterne la parte del profilo del dente interna alla primitiva prende il nome
di fianco del dente, la parte esterna prende il nome di costa del dente; nelle ruote
interne è il viceversa;
• la differenza fra i raggi della troncatura di testa e della primitiva prende il nome di
addendum;
• la differenza fra i raggi della primitiva e della troncatura di base prende il nome di
dedendum;
• la lunghezza dell’arco di primitiva compreso fra due profili omologhi (o fra due assi di
simmetria del dente) successivi prende il nome di passo della dentatura;
• la lunghezza dell’arco di primitiva compreso fra i due profili che costituiscono il dente
prende il nome di grossezza del dente;
• la differenza fra passo e grossezza è l’ampiezza del vano fra due denti;
• il rapporto tra l’arco d’azione e il passo viene chiamato rapporto di condotta; per
assicurare la continuità del moto, il valore del rapporto di condotta dovrà essere sempre
maggiore di uno.
Affinché due ruote ingranino correttamente, devono avere lo stesso passo p, ed affinché il
loro funzionamento sia invertibile i denti devono presentare profili simmetrici rispetto ad un
raggio che sarà quindi l’asse del dente.
Ovviamente, perché le ruote possano funzionare correttamente per almeno una rotazione
completa, il numero dei denti z, deve essere intero.
Se p è il passo della dentatura, comune a due ruote ingrananti fra loro, le relazioni che
legano il numero dei denti alla lunghezza della circonferenza primitiva di ciascuna di esse
saranno:
da cui:
p 2r1 2r2
=m= = (5.15)
π z1 z2
Il rapporto m = p/π che compare nella (5.15) prende il nome di modulo della dentatura
(o anche passo diametrale) e si comprende che se due ruote ingrananti fra loro devono avere
lo stesso passo, ciò equivale a dire che dovranno avere anche lo stesso modulo.
Dalle (5.15) e (5.11) si ricava che il rapporto di trasmissione di un ingranaggio è esprim-
ibile anche come rapporto fra il numero dei denti delle ruote accoppiate:
92CAPITOLO 5. ORGANI PER LA TRASMISSIONE DEL MOTO: GLI INGRANAGGI
ω2 z1
τ= = (5.16)
ω1 z2
Per il modulo, che esprime il rapporto fra il diametro di primitiva di una ruota ed il
numero dei suoi denti, si conviene di adottare generalmente numeri interi; solo per den-
tature piccole si adottano numeri frazionari. A parità di numero di denti, a moduli piccoli
corrisponderanno ruote piccole, a moduli grandi ruote grandi.
Il valore del modulo (comunemente indicato in mm) ha un ruolo fondamentale nel pro-
porzionamento della ruota (proporzionamento modulare): si pone l’addendum pari ad
m ed il dedendum pari a 5m/4; l’altezza del dente risulterà pertanto pari a 9m/4.
Adottando un dimensionamento modulare si è certi che l’altezza del dente sia sufficien-
temente grande per garantire che vi sia sempre almeno una coppia di denti in presa per
assicurare la continuità del moto, evitando al contempo fenomeni di interferenza tra le ruote
dentate, che si verificherebbero se l’altezza fosse eccessiva.
La scelta del valore del modulo per un ingranaggio ha un ulteriore risvolto: fissato il
diametro delle primitive, il modulo determina il diametro delle circonferenze di troncatura
di testa e di conseguenza, sulla retta g (Fig. 5.7), i punti IA ed IB in cui avverrà il primo
contatto in fase di accesso (IA ) e l’ultimo contatto in fase di recesso (IB ). Si comprende allora
che tanto più grande è il modulo scelto per la dentatura, tanto più lontano dal centro C si
troveranno i punti IA ed IB , e di conseguenza tanto maggiore sarà la velocità di strisciamento
(velocità relativa) fra i profili, e quindi la potenza perduta nell’ingranaggio.
All’aumentare del raggio primitivo r2 della ruota maggiore, il profilo ad evolvente del
5.3. RUOTE DENTATE CILINDRICHE A DENTI DIRITTI 93
dente tende a diventare sempre più rettilineo e il rapporto di trasmissione diminuisce, fino
ad annullarsi per r2 → ∞, in quanto il moto della ruota non sarà più rotatorio, ma traslatorio.
Come si vede dalla Fig. 5.8, il profilo del dente risulta allora perfettamente rettilineo e
la ruota dentata limite è chiamata dentiera o cremagliera, mentre la ruota minore che
ingrana con essa è chiamata rocchetto o pignone (il termine pignone è usato anche per
designare la ruota più piccola in un generico ingranaggio).
a flessione e di durata superficiale più bassi ed operano con elevate velocità di strisciamento
rispetto ai loro concorrenti con angolo di pressione più grande, il che li rende maggiormente
soggetti a fenomeni di usura e grippaggio.
Angoli di pressione più elevati hanno il vantaggio di migliori prestazioni, rispetto sia
alla resistenza che alla durata, nonché velocità di strisciamento più basse; per contro, la
rumorosità di tali ingranaggi risulta molto più elevata. In alcuni casi, angoli di pressione
molto elevati (28◦ , 30◦ e, in qualche raro caso, anche 45◦ ) sono utilizzati in alcuni particolari
ingranaggi lenti con capacità di carico molto elevate, dove la silenziosità non è la caratteristica
più importante.
Vogliamo ora calcolare le forze scambiate in un ingranaggio: ciò risulta fondamentale per
la progettazione e il dimensionamento del sistema.
La forza mutua F che si scambiano i denti (Fig. 5.10) ha come retta d’azione, in assenza
di attrito, la retta di pressione. Per ciascuna delle ruote, dall’equilibrio dei momenti risulta:
C = F rf = F r cos ϑ (5.17)
5.4. RUOTE CILINDRICHE A DENTI ELICOIDALI 95
W2 = C2 ω2 = C1 ω1 = W1 (5.22)
La forza F scambiata nell’ingranaggio e diretta lungo la retta di pressione può essere
scomposta in una componente radiale R e una tangenziale Q, date da:
C
R = F sin ϑ = tan ϑ (5.23)
r
C
Q = F cos ϑ = (5.24)
r
da cui si vede che l’angolo di pressione influenza solo la componente radiale della F .
Si noti altresì che nel caso di ruote dentate cilindriche a denti diritti non vi sono compo-
nenti assiali della forza scambiata nell’ingranaggio.
• la maggiore robustezza dei denti, potendo utilizzare moduli minori senza compromet-
tere la continuità della trasmissione, ed ottenendo quindi denti di altezza minore;
• il carico trasmesso può essere un po’ più grande, o la durata può essere più lunga con
lo stesso carico, rispetto ad un ingranaggio a denti diritti equivalente.
• il maggior costo di una ruota a denti elicoidali rispetto ad una a denti diritti;
• come si vedrà, la forza scambiata tra una coppia di ruote a denti elicoidali ha una
componente diretta come l’asse dell’albero (oltre a quelle radiale e tangenziale). E’
quindi necessario utilizzare componenti meccanici opportuni (tipicamente cuscinetti
reggispinta) per evitare il disaccoppiamento delle ruote;
Concettualmente, le ruote elicoidali possono essere pensate come delle ruote dentate cilin-
driche a gradini nelle quali la dimensione del gradino diviene infinitamente piccola. Affinché
ruote elicoidali a dentatura esterna possano ingranare è necessario che esse abbiano lo stesso
angolo d’elica ma il verso opposto. Il contrario vale per un ingranamento elicoidale interno;
cioè, il pignone a dentatura esterna e la ruota dentata interna devono avere lo stesso verso
dell’elica.
I valori pratici dell’angolo d’elica vanno da pochi gradi fino a circa 45◦ . Al crescere
dell’angolo d’elica si hanno in generale una riduzione del livello di rumore ed un aumento
della capacità di carico. Per angoli superiori a 15◦ , 20◦ , tuttavia, la resistenza a flessione del
dente inizia a diminuire. Ciò è dovuto al fatto che lo spessore trasversale del dente decresce
rapidamente.
Per ottenere i benefici degli ingranaggi elicoidali senza avere gli svantaggi legati alla
presenza della spinta assiale possono venire utilizzati gli ingranaggi bielicoidali o a doppia
elica (Fig. 5.12).
Per gli ingranaggi elicoidali sono generalmente utilizzati i profili ad evolvente e continuano
a valere le stesse considerazioni fatte in precedenza per gli ingranaggi a denti diritti, in
particolare la (5.15). Il valore del rapporto di trasmissione è quindi ancora dato da:
ω2 r1 z1
τ= = = (5.25)
ω1 r2 z2
Per le ruote dentate a denti elicoidali, anziché considerare le grandezze caratteristiche
(passo, modulo, angolo di pressione, ecc.) nel piano frontale (perpendicolare all’asse della
ruota), si preferisce definire tali grandezze nel cosiddetto piano normale, ovvero nel pi-
ano normale alla superficie del dente. L’angolo tra il piano normale ed il piano frontale è
ovviamente uguale all’angolo α di inclinazione del dente rispetto al’asse della ruota.
Osservando la Fig. 5.13, si ricava:
Y Z = XY tan ϑ (5.26)
Y T = XY tan ϑn (5.27)
Y T = Y Z cos α (5.28)
da cui la relazione tra l’angolo di pressione nel piano normale ϑn e quello nel piano frontale
ϑ risulta:
Figura 5.13: Grandezze caratteristiche di una ruota a denti elicoidali, nel piano normale e
nel piano frontale
pn = p cos α (5.30)
Il modulo normale mn è allora definito, in funzione del modulo frontale m, da:
mn = pn /π = m cos α (5.31)
Pertanto il diametro della circonferenza primitiva di una ruota a denti elicoidali è dato,
in funzione del modulo normale, da:
mn z
2r = (5.32)
cos α
Vogliamo ora calcolare l’espressione delle forze scambiate nell’accoppiamento di due ruote
a denti elicoidali. Con riferimento alla Fig. 5.14, la forza scambiata tra le ruote, che in
5.5. INGRANAGGI CONICI 99
assenza di attrito è perpendicolare alla superficie del dente, giace nel piano normale e può
essere scomposta in una componente radiale R e in una componente H ′′ tangente al cilindro
primitivo della ruota dentata. In formule:
R = F sin ϑn (5.33)
H ′′ = F cos ϑn (5.34)
A sua volta, la H ′′ può essere scomposta in una componente assiale A e in una tangenziale
Q, ottenendo quindi:
Di queste tre componenti, l’unica a fornire momento rispetto all’asse delle ruote è la
componente tangenziale Q. La coppia C agente sull’asse della ruota dentata è quindi data
da:
Invece, come si vedrà più avanti, a differenza degli ingranaggi cilindrici, tutti gli in-
granaggi conici producono una spinta assiale sui supporti. Ciò è una conseguenza della
forma conica della primitiva, indipendentemente dal tipo di dentatura: in altre parole, anche
in un accoppiamento di ruote coniche a denti diritti la forza scambiata ha una componente
assiale.
ω2 z1 r1 sin ϕ1
τ= = = = (5.42)
ω1 z2 r2 sin ϕ2
Si noti che il rapporto di trasmissione è sempre dato sia dal rapporto tra il numero di
denti delle ruote, sia dal rapporto tra i raggi delle primitive, purché ovviamente presi alla
medesima distanza dal vertice comune dei due coni (in quanto i denti hanno passo, modulo
ed altezza proporzionali alla distanza dal vertice).
Per il progetto di un ingranaggio conico, tipicamente sono dati l’angolo ψ tra gli assi da
accoppiare e il valore del rapporto di trasmissione desiderato τ , e si vuole trovare il valore
delle semiaperture delle due ruote coniche ϕ1 e ϕ2 .
5.5. INGRANAGGI CONICI 101
Figura 5.17: Forza scambiata tra i denti di due ruote dentate coniche
C1
spinta tangenziale : Q = (5.46)
r1
C1
spinta radiale : R1 = tan ϑ cos ϕ1 (5.47)
r1
C1
spinta assiale : A1 = tan ϑ sin ϕ1 (5.48)
r1
per la ruota 1, e:
C2
Q= (5.49)
r2
C2
R2 = tan ϑ cos ϕ2 (5.50)
r2
C2
A2 = tan ϑ sin ϕ2 (5.51)
r2
Si noti che la componente tangenziale Q della forza scambiata è la stessa per le due ruote,
mentre le componenti radiale ed assiale sono diverse, essendo funzione della semiapertura
della ruota considerata (la loro somma vettoriale ovviamente è la stessa).
Come per le ruote cilindriche a denti elicoidali, la presenza di una spinta assiale in un
ingranaggio conico richiede l’utilizzo di adeguati supporti per gli alberi (cuscinetti reggispinta
assiali).
Gli ingranaggi ipoidi sono simili agli ingranaggi conici elicoidali, ma le loro superfici
primitive non sono coni, bensì iperboloidi di rivoluzione. Essi sono asimmetrici, nel senso
che l’angolo di pressione è diverso tra le due parti del dente.
Una condizione che deve essere verificata affinché due ruote ipoidi possano ingranare è che
abbiano il medesimo passo normale. Negli ingranaggi ipoidi i numeri di denti della ruota e del
pignone non sono direttamente proporzionali ai loro diametri primitivi: ciò rende possibile
realizzare pignoni piccoli ed al contempo aumentare le dimensioni della ruota condotta.
Nel funzionamento, gli ingranaggi ipoidi sono usualmente più dolci e silenziosi degli in-
granaggi conici, a causa del loro rapporto di condotta intrinsecamente più grande. Tuttavia,
come in tutti i casi di ingranaggi ad assi sghembi, si verifica uno strisciamento elevato tra
le facce dei denti. Il rendimento degli ingranaggi ipoidi è perciò minore di quello di un in-
granaggio conico simile, tipicamente 0,90-0,95 a confronto dello 0,97-0,99 raggiungibile dagli
ingranaggi conici.
In virtù del loro rapporto di condotta intrinsecamente alto, la potenza meccanica mas-
sima degli ingranaggi a vite è piuttosto alta; tuttavia, la loro potenza continuativa reale
è sostanzialmente più bassa. Ciò è dovuto alla notevole generazione di calore, dovuta allo
strisciamento, che può elevare la temperatura del lubrificante a livelli inaccettabili quando il
riduttore è fatto funzionare con continuità. Riduttori a vite ventilati sono piuttosto comuni
e i carter degli ingranaggi a vite con potenze più alte sono quasi sempre alettati per favorire
lo smaltimento del calore. Apparentemente, gli ingranaggi a vite hanno la capacità di sop-
portare sovraccarichi relativamente alti per breve tempo senza manifestare alcun danno: in
realtà la loro idoneità ai sovraccarichi non è particolarmente buona, in quanto le loro lim-
itazioni termiche fanno sì che vengano utilizzati a carichi inferiori ai loro limiti meccanici.
Quando sono azionati per brevi periodi di tempo in sovraccarico, essi funzionano in realtà al
di sopra del loro limite termico di funzionamento continuo ma sotto il loro limite meccanico
(connesso agli sforzi); tuttavia, poiché ci vuole un periodo di tempo apprezzabile affinché la
temperatura aumenti, sopportano questi brevi sovraccarichi abbastanza bene.
L’avvento di oli sintetici è stato un beneficio per tutti i tipi di ingranaggi a vite, in quanto
gli oli sintetici possono lavorare a temperature medie più elevate rispetto agli oli composti
a base minerale che erano di solito usati per gli ingranaggi a vite. Inoltre, il coefficiente
di attrito associato all’uso di lubrificanti sintetici tende ad essere leggermente più basso di
quello associato all’uso di oli composti per ingranaggi a vite; pertanto viene prodotto meno
calore. Questi fattori concorrono alla riduzione del margine tra i limiti termico e meccanico
dei riduttori a vite di nuova produzione, progettati e calcolati per funzionare con oli sintetici.
Il rendimento degli ingranaggi a vite dipende parecchio dalla velocità di funzionamento.
Lo stesso ingranaggio può mostrare, ad esempio, un rendimento dello 0,75 ad una velocità
bassa e dello 0,85 ad una velocità più alta. Il rapporto di trasmissione, il materiale, la
precisione e la geometria sono tutti fattori che influenzano il rendimento dell’ingranaggio a
vite. Valori tipici del rendimento sono compresi tra il 35 ed il 90 per cento, con possibilità
di valori più alti o più bassi in casi particolari.
Un ingranaggio a vite può essere utilizzato dove si desideri l’irreversibilità del moto: si
può infatti dimostrare che per bassi valori dell’angolo d’elica il rendimento scende sotto il
valore limite del 50 per cento, rendendo con ciò impossibile il moto retrogrado. Si dice allora
che la vite è autobloccante.
Quando si progetta un ingranaggio a vite autobloccante si deve tuttavia fare attenzione,
perché questa caratteristica è una proprietà statica. Le vibrazioni e l’inerzia possono infatti
determinare un movimento inverso dell’ingranaggio in condizioni dinamiche. Ad esempio,
durante un’interruzione di potenza sotto carico, la ruota, a causa dell’inerzia del carico che
funge da motore, può trascinare la vite per un tempo considerevole; oppure, un ingranaggio
a vite che da fermo non può essere azionato dall’albero della ruota, può invece essere messo
in rotazione se sottoposto a vibrazioni. La proprietà di autobloccaggio o irreversibilità non
deve quindi essere considerata in senso assoluto, tanto è vero che in applicazioni critiche si
dovrebbe prevedere un freno sulla vite per garantire l’irreversibilità assoluta del sistema.
Vogliamo ora studiare un ingranaggio a vite dapprima dal punto di vista cinematico,
calcolandone il rapporto di trasmissione, quindi dal punto di vista della statica, calcolando
le forze scambiate nell’accoppiamento.
Come detto, un ingranaggio a vite è costituito dall’accoppiamento di una vite e da una
ruota dentata piana a denti elicoidali, con rapporto di trasmissione costante fra assi sghembi,
106CAPITOLO 5. ORGANI PER LA TRASMISSIONE DEL MOTO: GLI INGRANAGGI
generalmente ortogonali.
La vite in genere è a filetto rettangolare oppure trapezoidale (come in Fig. 5.22), e la
sua superficie attiva è quella contenuta fra due cilindri di raggio r1 ed r2 . La vite può avere
uno o più filetti: si parla in quest’ultimo caso di vite a più princìpi (Fig. 5.23).
Se α è l’inclinazione dell’elica media in corrispondenza del raggio medio rm = (r1 + r2 )/2
della vite, in corrispondenza di una rotazione completa 2πrm la vite avanzerà della distanza
fra due punti omologhi consecutivi sul medesimo filetto, ovvero del passo elicoidale pe dato
da:
pe = z1 pa (5.53)
ove con z1 si indica il numero dei princìpi della vite. Si definisce infine come modulo
assiale il rapporto:
ma = pa /π (5.54)
Il rapporto di trasmissione fra i due membri si può allora ricavare considerando ciò che
accade nel piano principale, ossia nel piano normale all’asse della ruota e contenente l’asse di
rotazione della vite: in tale piano la vite si presenta come una cremagliera (profilo principale)
che ingrana con una ruota piana a denti diritti (Fig. 5.24). Il contatto fra i due membri
avviene in corrispondenza del punto C, in cui la primitiva della ruota, di raggio R, è tangente
alla retta ǫ, generatrice del cilindro medio della vite, distante rm dall’asse di rotazione della
vite. La velocità assoluta del punto C, considerato appartenente al filetto della vite, può
5.6. INGRANAGGI AD ASSI SGHEMBI 107
essere ricavata osservando che, se la vite ruota con velocità angolare ω1 , essa compirà un giro
completo in un certo tempo ∆t:
2π = ω1 ∆t (5.55)
Nello stesso tempo, per effetto del moto elicoidale, il punto C si sarà spostato lungo la
retta ǫ, con velocità vc , di una quantità pari al passo elicoidale pe :
pe = vC ∆t (5.56)
Dalle (5.55) e (5.56) si ricava allora:
2π pe
= (5.57)
ω1 vC
da cui
pe z1 pa
vC = ω1 = ω1 (5.58)
2π 2π
La stessa velocità ~vC deve avere il punto C, considerato come appartenente alla primitiva
della ruota che gira a velocità angolare ω2 ; deve quindi essere:
vC = ω2 R (5.59)
Inoltre, affinché vite e ruota ingranino correttamente, il passo della dentatura della ruota
deve essere uguale al passo assiale della vite. Se z2 è il numero di denti della ruota, si avrà
dunque:
z2 pa
z2 pa = 2πR ⇒ R = (5.60)
2π
Sostituendo la (5.60) nella (5.59) si ottiene:
108CAPITOLO 5. ORGANI PER LA TRASMISSIONE DEL MOTO: GLI INGRANAGGI
z2 pa
vC = ω2 (5.61)
2π
che, eguagliata con la (5.58), fornisce il valore del rapporto di trasmissione:
ω2 z1
τ= = (5.62)
ω1 z2
Essendo z1 in genere piccolo e z2 grande, si capisce come con un ingranaggio a vite sia
possibile realizzare rapporti di riduzione estremamente spinti: ad esempio, con una vite a
due principi (z1 = 2) ed una ruota elicoidale con 40 denti (z2 = 40), dalla precedente si
deduce un rapporto di trasmissione τ = 1/20.
Calcoliamo ora le componenti della forza mutua che i due membri si scambiano durante
l’accoppiamento (Fig. 5.25). Restando nel piano principale (yz), osserviamo che, in ipotesi
di assenza di attrito, la forza trasmessa dalla vite alla ruota sarà inclinata, rispetto alla retta
ǫ, dell’angolo di pressione ϑ. Potremo pertanto scrivere:
Fy = Fz tan ϑ (5.63)
Fx = Fz tan α (5.64)
5.6. INGRANAGGI AD ASSI SGHEMBI 109
in quanto la Fxz dovrà essere normale, nel piano (xz), all’elica media che è inclinata di α
rispetto all’asse della vite. La Fx è l’unica forza che equilibra la coppia motrice Cm applicata
all’asse della vite:
Cm = Fx rm (5.65)
Le tre componenti della forza scambiata tra vite e ruota dentata, in funzione della coppia
motrice Cm , risultano quindi essere (nell’ipotesi di trascurare l’attrito):
Cm
Fx = (5.66)
rm
Cm 1
Fz = (5.67)
rm tan α
Cm tan ϑ
Fy = (5.68)
rm tan α
Il modulo della forza F complessivamente trasmessa dalla vite alla ruota dentata risulta
allora:
s
q Cm tan2 ϑ 1
F = Fx2 + Fy2 + Fz2 = 1+ + (5.69)
rm tan α tan2 α
2
ovvero:
Cm q q
F = 1 + tan2 α + tan2 ϑ = Fz 1 + tan2 α + tan2 ϑ (5.70)
rm tan α
110CAPITOLO 5. ORGANI PER LA TRASMISSIONE DEL MOTO: GLI INGRANAGGI
5.7 Rotismi
Un rotismo, o treno di ingranaggi, è definito come un sistema costituito da più ingranaggi,
in cui la rotazione di una ruota determina quella di tutte le altre. I rotismi si suddividono
in:
In un rotismo ordinario è sufficiente conoscere la velocità angolare di una sola delle ruote
(oltre che, ovviamente, le carettaristiche cinematiche delle stesse) per calcolare la velocità di
tutte le altre. Con riferimento alla fig. 5.26, i rapporti di trasmissione dei due ingranaggi,
presi singolarmente, valgono:
ω2 z1
τ1,2 = =− (5.71)
ω1 z2
ω4 ω4 z3
τ3,4 = = =− (5.72)
ω3 ω2 z4
da cui è immediato calcolare il rapporto di trasmissione complessivo tra la prima ruota del
treno (1), a cui è collegato l’albero motore, e l’ultima (4), a cui è collegato l’albero condotto:
esso è dato dal prodotto dei singoli rapporti di trasmissione di ciascun ingranaggio:
5.7. ROTISMI 111
ω4 ω4 ω2 z3 z1 z1 z3
τ = τ1,4 = = = τ3,4 τ1,2 = (− )(− ) = (5.73)
ω1 ω2 ω1 z4 z2 z2 z4
In particolare, se il rotismo contiene una ruota che ingrana contemporaneamente con
altre due (fig. 5.27), il rapporto di trasmissione tra la prima e l’ultima è uguale, a meno del
segno, a quello che si avrebbe se queste due ruote ingranassero direttamente. Infatti:
ω2 z1
τ1,2 = =− (5.74)
ω1 z2
ω3 z2
τ2,3 = =− (5.75)
ω2 z3
da cui si ottiene:
ω3 z1
τ = τ1,3 = τ1,2 τ2,3 = = (5.76)
ω1 z3
Si vede quindi che la presenza della ruota intermedia (chiamata ruota oziosa) ha come
effetto quello di invertire il segno del rapporto di trasmissione rispetto al caso di ingranaggio
diretto.
Se il rotismo può essere considerato ideale (η = 1), il rapporto di trasmissione determina
anche il rapporto tra le coppie in uscita e in ingresso del treno di ingranaggi. Ad esempio,
con riferimento alla fig. 5.26, si ha:
C4 ω1 1
= = (5.77)
C1 ω4 τ
L’impiego più comune dei rotismi è come riduttori di velocità (fig. 5.28). Ogni singolo
ingranaggio è detto stadio di riduzione: l’uso di più stadi di riduzione in serie (si parla di
rotismi a doppia, tripla, quadrupla riduzione) consente di ottenere rapporti di riduzione ben
più spinti rispetto al caso di un singolo ingranaggio.
112CAPITOLO 5. ORGANI PER LA TRASMISSIONE DEL MOTO: GLI INGRANAGGI
• due ruote dentate principali, chiamate solari, non ingrananti tra loro, aventi lo stesso
asse fisso;
• una o più ruote dentate, dette satelliti o planetari, che ingranano con i solari, i cui
assi sono portati in giro da un elemento rigido, detto portatreno
• il portatreno, che ruota attorno ad un asse fisso coincidente con l’asse dei solari e
che, come si è detto, porta in rotazione gli assi dei satelliti.
La fig. 5.29 mostra due esempi di rotismi epicicloidali semplici, in cui gli elementi 1 e 2
sono le ruote solari, gli elementi 3 e 4 sono i satelliti, l’elemento P è il portatreno.
A differenza di un rotismo ordinario, in cui le ruote dentate possono essere scelte in
maniera indipendente l’una dall’altra (badando naturalmente che abbiano lo stesso modulo),
in un rotismo epicicloidale sussistono vincoli di carattere geometrico sui parametri cinematici
5.7. ROTISMI 113
delle ruote (raggi delle primitive, numero di denti). Ad esempio, nel rotismo di fig. 5.29a
deve essere:
r1 + r3 = r2 + r4 (5.78)
il che equivale, essendo ovviamente i moduli delle ruote dentate tutti uguali fra loro, alla
seguente condizione sul numero di denti delle ruote:
z1 + z3 = z2 + z4 (5.79)
Allo stesso modo, per il rotismo di fig. 5.29b sussistono i vincoli:
r1 + 2r3 = r2 (5.80)
z1 + 2z3 = z2 (5.81)
Pertanto, in un rotismo epicicloidale i parametri di ogni ruota dentata sono determinati
una volta fissati quelli di tutte le altre ruote.
Un’altra importante differenza tra i rotismi epicicloidali e quelli ordinari sta nel fatto
che, mentre in questi ultimi vi è un albero di ingresso (motore) e uno di uscita (condotto),
nei primi vi sono tre diversi alberi, collegati rispettivamente ai due solari e al
portatreno. Si possono dunque avere vari casi: due alberi motori e uno condotto, oppure
un albero motore e due condotti, oppure (ed è questo il caso più comune) un albero motore,
uno condotto e il terzo fermo.
Vogliamo ora calcolare il rapporto di trasmissione complessivo τ di un rotismo epici-
cloidale, definito in modo naturale come il rapporto tra la velocità angolare dell’albero (o di
uno degli alberi) di uscita e quella dell’albero (o di uno degli angoli) di entrata.
Per poter determinare τ è necessario passare attraverso il calcolo del rapporto di
trasmissione del rotismo epicicloidale reso ordinario (cioè ad assi fissi), detto
anche tau di Willis τW . Dette ω1 e ω2 le velocità dei solari, e Ω quella del portatreno,
per rendere ordinario il rotismo epicicloidale è sufficiente, da un punto di vista concettuale,
‘annullare’ la velocità del portatreno, mettendosi ad esempio in un sistema di riferimento
114CAPITOLO 5. ORGANI PER LA TRASMISSIONE DEL MOTO: GLI INGRANAGGI
solidale con il portatreno stesso, ovvero rotante con velocità angolare Ω. In questo sistema i
solari ruotano con velocità ω1 − Ω e ω2 − Ω, mentre il portatreno ha velocità angolare nulla:
di conseguenza i satelliti non vengono portati in giro attorno all’asse dei solari, ottenendo
quindi un rotismo ad assi fissi.
Il rapporto di trasmissione di questo rotismo ordinario, derivato da quello epicicloidale,
è dunque dato dalle seguente formula di Willis:
ω2 − Ω
τW = (5.82)
ω1 − Ω
Per la determinazione del rapporto di trasmissione complessivo τ di un rotismo epici-
cloidale si procede allora in questo modo:
• il valore del rapporto di trasmissione complessivo può allora essere ottenuto, con sem-
plici calcoli, a partire dalla (5.82) e dalla definizione dello stesso τ , che naturalmente
dipende da qual è l’albero di uscita e quale l’albero di ingresso nel rotismo epicicloidale
in esame.
C1 + C2 + CP = 0 (5.83)
Un’altra equazione è fornita dalla conservazione della potenza (supponendo il rotismo
ideale: η = 1):
C1 ω1 + C2 ω2 + CP Ω = 0 (5.84)
Dalla 5.83 ricaviamo CP , che poi sostituiamo nella 5.84:
CP = −C1 − C2 (5.85)
C2 ω1 − Ω 1
=− =− (5.87)
C1 ω2 − Ω τW
e parimenti si ricava:
5.7. ROTISMI 115
CP 1 − τW
= (5.88)
C1 τW
Le (5.87) e (5.88) ci dicono che un rotismo epicicloidale può essere visto come un parti-
tore di coppia, nel senso che la coppia sul solare 1 si suddivide tra il solare 2 e il portatreno
con quote proporzionali a − τW 1
e 1−τ
τW
W
rispettivamente. Si noti che tali quote, e quindi i
rapporti tra le coppie, sono indipendenti dalle velocità angolari alle quali ruotano gli assi,
dipendendo unicamente dal valore di τW , che come abbiamo visto è funzione del numero di
denti delle ruote.
Date le loro caratteristiche cinematiche, i rotismi epicicloidali trovano la loro applicazione
più comune nei riduttori a forte rapporto di riduzione ed ingombro limitato. Si
consideri un qualsiasi rotismo epicicloidale e si supponga ad esempio che il portatreno sia
collegato all’albero motore, il solare 1 all’albero condotto e che il solare 2 sia fermo. Il
rapporto di trasmissione complessivo τ è allora calcolabile tramite la 5.82 ponendo ω2 = 0:
−Ω
τW = (5.89)
ω1 − Ω
da cui, con facili passaggi:
ω1 τW − 1
τ= = (5.90)
Ω τW
Se i numeri di denti delle ruote sono scelti in modo tale che il valore di τW sia molto vicino
a 1, si possono ottenere valori di τ molto piccoli, sia positivi (per τW di poco maggiore di 1)
che negativi (per τW di poco minore di 1). Ciò permette di ottenere rapporti di riduzione
molto spinti, con rotazioni concordi oppure discordi degli alberi di uscita e di ingresso.
I rotismi epicicloidali possono essere costituiti sia da ingranaggi cilindrici, sia da ingranag-
gi conici. L’applicazione più importante di questi ultimi è nel differenziale degli autoveicoli,
116CAPITOLO 5. ORGANI PER LA TRASMISSIONE DEL MOTO: GLI INGRANAGGI
ovvero in quel dispositivo che consente alle ruote motrici di percorrere traiettorie curvilinee
senza avere strisciamento tra le ruote e il terreno.
Nel differenziale per autoveicolo rappresentato in fig. 5.30, i solari sono costituiti dalle
due ruote coniche identiche 1 e 2, le quali ingranano con i due satelliti uguali 3 e 4, liberi
di ruotare attorno ad un perno solidale al portatreno P. Il portatreno, solidale ad una ruota
dentata conica che ingrana con un rocchetto conico, il quale a sua volta è posto in movimento
dal motore, trascina in rotazione i satelliti. I solari 1 e 2 sono invece accoppiati agli alberi
delle ruote del veicolo. In questo rotismo epicicloidale l’ingresso è dunque costituito dal
portatreno, mentre le uscite sono date dai due solari.
Se si immagina di ‘bloccare’ il portatreno, si vede facilmente che, per la simmetria del
sistema, il rapporto di trasmissione del rotismo reso ordinario è uguale a: τW = −1. La
formula di Willis per il differenziale è dunque:
ω2 − Ω
τW = = −1 (5.91)
ω1 − Ω
da cui:
ω1 + ω2
Ω= (5.92)
2
Si può quindi dire che il differenziale fa sì che la velocità del portatreno sia sempre
pari alla media aritmetica delle velocità delle due ruote. In condizioni di moto
rettilineo, ω1 = ω2 : i solari ruotano alla stessa velocità angolare (che è anche uguale a quella
del portatreno), e di conseguenza i satelliti non ruotano attorno al loro asse. Se invece il
veicolo percorre una traiettoria curvilinea, la velocità angolare della ruota più esterna sarà
maggiore di quella della ruota più interna: in questo caso i satelliti, oltre ad essere trascinati
dal portatreno, si metteranno anche in rotazione attorno al proprio asse, in modo tale da
diminuire la velocità del solare collegato alla ruota interna ed aumentare la velocità del solare
collegato alla ruota esterna, fermo restando il rispetto della (5.92).
Capitolo 6
In questo capitolo saranno presi in esame altre tipologie di organi di trasmissione del moto,
nonché componenti meccanici (freni, cuscinetti) collegati con le problematiche di trasmissione
del moto.
6.1.1 Cinghie
Le cinghie sono elementi flessibili costituite in genere da un elastomero, spesso opportuna-
mente rinforzato da fibre metalliche. Esse sono ampiamente utilizzate in meccanica come
organi di trasmissione del moto tra assi paralleli, soprattutto quando si è in presenza di un
interasse non piccolo. La cinghia viene avvolta, in genere con un certo forzamento, su due
pulegge, permettendo così la trasmissione della potenza meccanica dalla puleggia motrice a
quella condotta, per effetto delle forze di attrito che si sviluppano in direzione tangenziale
al contatto fra puleggia e cinghia.
Come in tutte le trasmissioni per attrito, la coppia massima trasmissibile mediante cinghie
dipende dal coefficiente di attrito e risulta quindi limitata.
Vi sono tre principali tipologie di cinghie:
• cinghie piane
• cinghie trapezoidali
• cinghie dentate
117
118 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
Cinghie piane
La cinghia piana ha tipicamente sezione rettangolare. Consideriamo il sistema di trasmissione
a cinghie illustrato nella Fig. 6.1: nella puleggia motrice (a sinistra) coppia e velocità angolare
sono concordi, mentre nella puleggia condotta (a destra) coppia e velocità angolare sono
discordi.
Come appare evidente anche da un punto di vista intuitivo, la presenza della coppia
motrice C1 fa sì che la tensione T1 della cinghia all’ingresso della puleggia sia maggiore
della tensione T2 in uscita. Quantitativamente, si può scrivere l’equazione di equilibrio alle
rotazioni rispetto all’asse della puleggia motrice:
C1 − T1 r1 + T2 r1 = 0 (6.1)
da cui:
C1 ω1 = C2 ω2 (6.5)
da cui si ricava:
ω2 C1 r1
τ= = = (6.6)
ω1 C2 r2
Nella realtà si verificano tuttavia delle perdite di potenza, dovute principalmente a
microslittamenti della cinghia causati dalle differenze di tensione, per cui il rapporto di
trasmissione è leggermente inferiore a quello espresso dalla (6.6). Inoltre tale rapporto non
è costante, ma presenta piccole oscillazioni, sempre dovute ai microslittamenti.
Con riferimento alla puleggia motrice, vogliamo ora studiare come varia la tensione della
cinghia, tra il valore minimo T2 e il valore massimo T1 , nel tratto in cui essa è avvolta sulla
puleggia (arco di avvolgimento).
Siano:
• θ il generico angolo lungo l’arco di avvolgimento, misurato a partire dal punto di uscita
della cinghia
• le tensioni trasmesse alle estremità dalle parti rimanenti della cinghia: esse valgono
rispettivamente T e T + dT
• la forza tangenziale, dovuta all’attrito, tra puleggia e cinghia: essa vale dFT = f dFN
• la forza di inerzia, la cui componente normale (forza centrifuga) ha modulo pari a
2
dmω 2 r = q vr ds (la componente tangenziale, di modulo dm dv
dt
può essere trascurata, in
quanto molto piccola)
dθ v2 dθ
−T sin + q ds + dFN − (T + dT ) sin =0 (6.7)
2 r 2
dθ dθ
−T cos − dFT + (T + dT ) cos =0 (6.8)
2 2
Ponendo: dFT = f dFN , ds = rdθ, sin dθ ≈ dθ, cos dθ ≈ 1, e trascurando il prodotto
dT dθ perché infinitesimo di ordine superiore, la (6.7) si scrive:
dT = f dFN (6.10)
Sostituendo ora la (6.9) nella (6.10) si ottiene:
dT = f (T − qv 2 )dθ (6.11)
Si tratta di un’equazione differenziale che, una volta integrata tra gli estremi 0 e θ per
l’angolo, T2 e T per la tensione (si lascia l’integrazione al lettore come utile esercizio), fornisce
finalmente l’equazione fondamentale della trasmissione del moto mediante attrito
tra cinghia e puleggia:
T − qv 2
= ef θ (6.12)
T2 − qv 2
che, qualora si possa trascurare il termine qv 2 rispetto a T , diventa:
T = T2 ef θ (6.13)
(Si osservi che (6.13) è stata ottenuta per la puleggia motrice, tuttavia è immediato
verificare che la stessa equazione vale anche per la puleggia condotta).
La (6.13) ci dice che la variazione della tensione della cinghia lungo l’arco di
avvolgimento sulla puleggia varia esponenzialmente con l’angolo θ. Considerando
la puleggia motrice, il valore minimo della tensione (T2 ) si ha ovviamente per θ = 0, mentre
il valore massimo (T1 ) si ha per un angolo θ∗ ricavabile dalla (6.13):
∗
T1 = T2 ef θ (6.14)
1 T1
θ∗ = log (6.15)
f T2
6.1. TRASMISSIONE DEL MOTO MEDIANTE ORGANI FLESSIBILI 121
∗
C2 = r2 T2 (ef θ − 1) (6.17)
Da queste equazioni si vede che all’aumentare delle coppie (motrice e resistente) aumenta
il valore dell’arco di scorrimento; tuttavia, esso non può essere maggiore del più piccolo fra
i due angoli di avvolgimento β1 e β2 . Se ad esempio, come in Fig. 6.3, β1 < β2 , la coppia
massima che la puleggia motrice può trasmettere alla cinghia è:
C1 = r1 T2 (ef β1 − 1) (6.18)
e di conseguenza la coppia massima che la cinghia può trasmettere alla puleggia condotta
è:
C2 = r2 T2 (ef β1 − 1) (6.19)
Come era logico aspettarsi, la coppia massima trasmissibile mediante cinghie ha delle
limitazioni dovute al fatto che si tratta di una trasmissione per attrito (tanto è vero che
aumentando il valore di f si possono ottenere miglioramenti in questo senso).
122 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
Nel caso in cui la coppia applicata alla puleggia motrice sia maggiore del valore dato dalla
(6.18), si verificano slittamenti tra cinghia e puleggia. La coppia effettivamente trasmessa
rimane quella data dalla (6.18), essendo l’eccesso di coppia equilibrato dall’aumento delle
resistenze all’asse della puleggia, nonché dalla coppia di inerzia dovuta all’accelerazione della
puleggia stessa.
Cinghie trapezoidali
Per aumentare il valore della coppia massima trasmissibile mediante cinghie si deve au-
mentare il valore del coefficiente di attrito f , o per mezzo di un’opportuna scelta dei materiali
oppure, più frequentemente, agendo sulla geometria del sistema.
Anziché cinghie piane (a sezione rettangolare), si possono infatti utilizzare cinghie
trapezoidali (Fig. 6.4), che vengono forzate entro pulegge con gole a forma di ‘V’. Le
forze tra cinghia e puleggia vengono allora scambiate lungo i lati obliqui del trapezio che
costituisce la sezione della cinghia.
Detta α l’apertura della gola della puleggia, N la forza normale di pressione sulla cinghia,
N le forze trasmesse dalla puleggia alla cinghia, l’equilibrio alla traslazione verticale è
′
espresso da:
α
N − 2N ′ sin =0 (6.20)
2
L’equazione di equilibrio alla traslazione in un piano ortogonale alla Fig. 6.4 è:
T − 2f N ′ = 0 (6.21)
ove f è il coefficiente di attrito tra cinghia e puleggia, e T la corrispondente forza
tangenziale.
Da queste due equazioni si ricava la relazione tra T e N :
f
T = N (6.22)
sin α2
6.1. TRASMISSIONE DEL MOTO MEDIANTE ORGANI FLESSIBILI 123
Si può quindi dire che per le cinghie trapezoidali si ha un coefficiente di attrito equivalente
f = sinf α , che è tanto maggiore quanto minore è il valore di α. Ovviamente per α = 180◦
′
2
(cinghia piana) si ritrova f = f ′ .
Cinghie dentate
Un altro modo per aumentare la coppia massima trasmissibile è quello di ricorrere a cinghie
dentate, ovvero dotate di denti collocati lungo l’intera superficie della cinghia, i quali vanno
ad ingranare in appositi vani ricavati nelle pulegge.
Questa soluzione, che ha l’ulteriore vantaggio di impedire lo scorrimento relativo tra
cinghia e puleggia, è assimilabile, da un punto di vista cinematico e dinamico, ad una
trasmissione a catena, che sarà studiata in un successivo paragrafo.
d d
Cm = (P − T ) ≈ P (6.24)
2 2
124 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
6.1.2 Catene
Le catene sono organi meccanici costituiti da una serie di elementi rigidi: ognuno di essi
è collegato ad altri due elementi ed in grado di ruotare liberamente ripetto a questi ultimi.
Il tipo di catena più comune, utilizzata per la trasmissione del moto, è la catena a rulli
(Fig. 6.6), in cui ogni perno collega un rullo, una boccola e quattro piastrine. Il perno
è solidale alle piastrine esterne, mentre la boccola è solidale ripetto alle piastrine interne;
inoltre, il rullo è libero di ruotare attorno alla boccola. La catena ingrana con due ruote
dentate, solidali agli assi tra cui va trasmesso il moto.
La distanza tra gli assi di due perni consecutivi è detta passo della catena. Ad ogni
avanzamento di un passo, le ruote dentate (aventi numero di denti z1 e z2 ) ruotano dei due
angoli:
2π
ψ1 = (6.25)
z1
2π
ψ2 = (6.26)
z2
Detto ∆t il tempo in cui avviene l’avanzamento di un passo, le velocità angolari delle due
ruote sono rispettivamente:
ψ1
ω1 = (6.27)
∆t
ψ2
ω2 = (6.28)
∆t
da cui segue che il rapporto di trasmissione τ è dato da:
ω2 ψ2 z1
τ= = = (6.29)
ω1 ψ1 z2
Pertanto il τ di una trasmissione a catena, essendo dato dall’inverso del rap-
porto tra il numero di denti, è lo stesso che si avrebbe se le ruote dentate
ingranassero direttamente.
6.1. TRASMISSIONE DEL MOTO MEDIANTE ORGANI FLESSIBILI 125
Oltre all’impiego come dispositivi di trasmissione della potenza tra assi paralleli, un’altra
applicazione importante degli organi flessibili è il loro utilizzo come moltiplicatori di sforzo
negli organi di sollevamento.
Si consideri la Fig. 6.7, in cui una fune o una catena si avvolge su due pulegge, una ad asse
mobile (a cui è collegato il carico da sollevare) ed una ad asse fisso, aventi lo stesso diametro
d. Chimando ωf e ωm le velocità angolari, rispettivamente della puleggia ad asse fisso e di
quella ad asse mobile, valgono le seguenti relazioni, di natura cinematica, che esprimono le
velocità lineari della fune nei punti estremi di avvolgimento sulle pulegge:
d
vD = ωf = vE (6.30)
2
126 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
vB = ωm d (6.31)
d
vC = ωm (6.32)
2
Essendo vD = vB , si avrà:
1
ωm = ωf (6.33)
2
1
vC = vE (6.34)
2
Per quanto riguarda le forze in gioco, consideriamo la puleggia mobile e scriviamo per
essa l’equazione di equilibrio alla traslazione verticale in condizioni di regime. Supponendo
di trovarci in condizioni di idealità (trascurando quindi l’attrito nei perni, la resistenza
aerodinamica e l’imperfetta elasticità della fune), le tensioni T all’ingresso e all’uscita della
puleggia sono uguali; si ottiene quindi:
P = 2T (6.35)
Il risultato fondamentale ottenuto con questo sistema a due pulegge è pertanto quello di
dimezzare la forza necessaria al sollevamento di un carico (in condizioni di idealità).
Dalla (6.34) si vede altresì che la velocità di sollevamento del carico è la metà di quella del
punto a cui è applicata la forza di trazione T , risultato che peraltro poteva essere ricavato
anche imponendo la conservazione della potenza.
Se si abbandona l’ipotesi di idealità, ammettendo quindi che vi siano perdite dovute
all’attrito nei perni, alla resistenza aerodinamica e alla elasticità non perfetta del flessibile,
le tensioni in ingresso Ti e in uscita Tu della puleggia non sono più uguali, dovendo quella in
uscita essere maggiore per compensare le forze resistenti. Si può allora scrivere:
Tu = (1 + k)Ti (6.36)
essendo k un coefficiente di perdita che tipicamente vale qualche punto percentuale, a
seconda delle condizioni del sistema (lubrificazione, ecc.).
Le relazioni tra le velocità, essendo di natura puramente cinematica, non sono invece
influenzate dalle condizioni del sistema e pertanto sussistono in ogni caso.
Allo scopo di ridurre ulteriormente il rapporto tra la tensione da applicare e il peso
del carico da sollevare, è possibile concepire un sistema, chiamato paranco o argano di
sollevamento, costituito da varie coppie puleggia fissa - puleggia mobile. Un esempio di
tale dispositivo è rappresentato nella Fig. 6.8.
L’equazione di equilibrio dell’elemento mobile, in condizioni di regime, è data da:
n−1
X
P = T0 + T1 + ... + Tn−1 = Ti (6.37)
i=0
Tn = (1 + k)n T0 (6.39)
Sostituendo poi la (6.39) nella (6.37) si ottiene:
"n−1 #
i
X
P = T0 (1 + k) (6.40)
i=0
(1 + k)n
Tn = Pn−1 i
P (6.41)
i=0 (1 + k)
• potenza
• coppia
• velocità
6.3. GIUNTI 129
Per quanto riguarda potenza e coppia trasmissibile gli ingranaggi hanno caratteristiche
superiori (si tenga comunque presente che i valori massimi di questi tre parametri non sono,
in generale, ottenibili contemporaneamente).
La Fig. 6.10 mostra la dipendenza della potenza trasmessa dalla velocità. Si noti come
gli ingranaggi siano l’unico organo di trasmissione che può trasmettere potenza in maniera
indipendente dalla velocità; per contro alcuni tipi di flessibili (cinghie piane e cinghie dentate)
possono funzionare ad una velocità superiore rispetto agli ingranaggi.
Anche dal punto di vista dell’ingombro gli ingranaggi risultano in vantaggio. In ogni
caso, una scelta appropriata della trasmissione va effettuata considerando tutti i parametri
riportati nella tabella di Fig. 6.9.
6.3 Giunti
I giunti sono organi per la trasmissione del moto tra alberi coassiali, concorrenti o paralleli,
aventi la proprietà di compensare eventuali imperfezioni costruttive e di montaggio, nonché
deformazioni elastiche degli alberi e dei supporti.
• µ il piano hX, Zi contenente gli assi dei due alberi collegati alle forcelle
La relazione tra gli angoli γ1 e γ2 può essere ricavata imponendo l’ortogonalità dei bracci
della crociera, ovvero eguagliando a zero il prodotto scalare dei vettori che li rappresentano
nella terna hX, Y, Zi.
Le componenti, lungo i tre assi, dei due semibracci della crociera sono rispettivamente:
6.3. GIUNTI 131
• l1x = 0
• l1y = l1 cos γ1
• l1z = l1 sin γ1
• l2y = l2 sin γ2
Figura 6.13: Differenza tra le posizioni angolari degli alberi nel giunto di Cardano
Già da questa formula si nota come la trasmissione del moto tra la forcella motrice e
la forcella condotta non sia uniforme. Ogni quarto di giro, infatti, l’angolo γ2 di cui ruota
la forcella condotta risulta alternativamente maggiore o minore dell’angolo γ1 di rotazione
della forcella motrice. La differenza ∆γ = γ2 − γ1 è una funzione periodica, di periodo π, e
di ampiezza tanto maggiore quanto maggiore è il valore di α, come si vede nella Fig. 6.13.
L’espressione analitica di ∆γ si ottiene con l’ausilio di qualche formula trigonometrica:
132 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
tan γ2 − tan γ1
tan ∆γ = tan(γ2 − γ1 ) = (6.46)
1 + tan γ2 tan γ1
da cui, richiamando la (6.45):
tan γ1 (cos α − 1)
∆γ = arctan (6.47)
1 + tan2 γ1 cos α
Il calcolo del rapporto di trasmissione del giunto di Cardano si effettua derivando la (6.45)
rispetto al tempo:
dγ2 dγ1
(1 + tan2 γ2 ) = (1 + tan2 γ1 ) cos α (6.48)
dt dt
per cui:
(6.50)
cos α
τ= (6.51)
1 − sin2 γ1 sin2 α
Il giunto di Cardano è pertanto un giunto non omocinetico, ossia il suo rapporto di
trasmissione non è costante, in quanto oscilla, con periodo π, attorno ad un valor medio
pari a 1 (irregolarità periodica del giunto di Cardano). Ciò significa che, a seconda delle
caratteristiche inerziali degli alberi collegati al giunto, una o entrambe le velocità angolari
degli alberi fluttuano attorno allo stesso valor medio. Le maggiori variazioni si avranno
ovviamente nella velocità angolare dell’albero le cui masse rotanti hanno un momento di
inerzia minore; se l’inerzia di uno dei due alberi è molto minore ripetto a quella dell’altro,
si può considerare che quest’ultimo ruoti a velocità angolare costante, mentre la velocità del
primo varierà a seconda del valore istantaneo del rapporto di trasmissione.
Il valore massimo del rapporto di trasmissione (τmax = cos1 α ) si avrà quando |sin γ1 | = 1,
ovvero per γ1 = π2 + kπ, k ∈ Z, mentre Il valore minimo (τmin = cos α) si avrà quando
sin γ1 = 0, ovvero per γ1 = kπ, k ∈ Z.
L’ampiezza dell’irregolarità periodica del giunto di Cardano è funzione dell’angolo α, e
aumenta con esso, fino ad arrivare al caso limite α = π2 , per cui la (6.51) fornisce τ = 0 e il
moto risulta così impossibile.
Per contro, calcolando il limite della (6.51) per α → 0, si ottiene un risultato prevedibile
anche con l’intuizione, ovvero τ ≡ 1: è questo l’unico caso, peraltro di scarsa utilità pratica,
in cui il giunto di Cardano risulta omocinetico.
6.3. GIUNTI 133
• l’asse dell’albero intermedio deve formare angoli uguali con gli assi degli altri due alberi
La omocineticità di questa seconda configurazione deriva dal fatto che cos(−α) = cos α.
• giunti a flangia
136 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
• giunti a spina
• giunti deformabili a soffietto
• giunti deformabili a molle elicoidali
• giunti deformabili a lamine flessibili
nel quale sono ricavate delle gole che ospitano il filetto della vite, che risulta quindi essere
l’elemento di accoppiamento delle due componenti del sistema.
Il filetto della vite (e di conseguenza la gola della madrevite) può avere varie forme; le
più comuni sono a filetto rettangolare e a filetto trapezio.
∆z = ∆x tan α (6.54)
D’altronde ∆x è funzione dell’angolo di rotazione ∆θ della vite:
d
∆x = ∆θ (6.55)
2
da cui:
d pe
∆z = tan α∆θ = ∆θ (6.56)
2 2π
A questo punto, per ricavare il rapporto di trasmissione del sistema vite-madrevite, è
sufficiente derivare la (6.56) rispetto al tempo, ottenendo:
dz d dθ d pe
vmadrevite = = tan α = tan α ωvite = ωvite (6.57)
dt 2 dt 2 2π
da cui finalmente:
vmadrevite d pe
τ= = tan α = (6.58)
ωvite 2 2π
Lo studio delle relazioni tra forze e coppie agenti in un sistema vite-madrevite porta
a risultati interessanti. Si supponga che il sistema sia utilizzato per il sollevamento di un
carico, e si voglia quindi trovare il momento Mv che deve essere applicato alla vite (elemento
motore) per muovere la madrevite (elemento condotto), alla quale è applicato un carico P .
Detto f il coefficiente di attrito fra i due elementi accoppiati, la forza risultante F scambiata
138 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
tra vite e madrevite sarà inclinata di un angolo φ = arctan(f ) rispetto alla normale n tra le
superfici a contatto, e tale da opporsi al moto relativo fra di esse.
Con riferimento alla Fig. 6.21, l’equazione di equilibrio alla traslazione verticale della
madrevite si scrive:
P = F cos(φ + α) (6.59)
L’equilibrio alla traslazione orizzontale della vite è invece espresso da:
relazioni cinematiche, in particolare la (6.56), rimangono valide, mentre per quanto riguarda
le relazioni tra le forze, la differenza fondamentale è che la forza F scambiata tra le superfici
a contatto sarà inclinata sempre di un angolo φ rispetto alla normale n, ma dalla parte
opposta rispetto al caso precedente, in quanto si è invertito il verso del moto relativo tra vite
e madrevite.
Le equazioni di equilibrio, alla traslazione verticale della madrevite e alla traslazione
orizzontale della vite, sono ora date da:
P = F cos(φ − α) (6.64)
d d
Mv = T = tan(φ − α) P (6.66)
2 2
Nel caso di moto retrogrado, si possono quindi verificare due possibilità:
1. φ > α
Nel caso in cui l’angolo di attrito sia maggiore dell’inclinazione del filetto, il momento
ricavato dalla (6.66) è positivo, il che significa che è necessario applicare alla vite una
coppia di intensità pari a Mv per muovere il carico. In altre parole, il carico non si
abbassa spontaneamente in assenza di una coppia esterna applicata alla vite, e ciò a
causa di una preponderanza delle forze di attrito.
E’ questo il caso in cui il sistema vite-madrevite costituisce un dispositivo irreversibile,
in quanto il moto retrogrado spontaneo è impossibile.
140 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
2. φ < α
Nel caso in cui l’angolo di attrito sia minore dell’inclinazione del filetto, la (6.66)
fornisce un valore negativo di Mv . Ciò sta a significare che, in assenza di una coppia
esterna applicata alla vite, il sistema si abbassa spontaneamente e, per controbilanciare
detto abbassamento, ovvero affinché esso avvenga in condizioni di moto uniforme, è
necessario applicare alla vite una coppia di intensità Mv e di verso tale da opporsi al
moto.
In questa situazione, causata dalla preponderanza delle componenti lungo il filetto
delle forze dovute al carico, rispetto alle forze di attrito fra vite e madrevite, il sistema
costituisce un dispositivo reversibile, essendo il moto retrogrado spontaneamente
possibile.
F vmadrevite F
C= = τ (6.69)
η ωvite η
Se invece la madrevite è l’elemento motore e la vite l’elemento condotto (moto inverso o
retrogrado), il rendimento del sistema è definito come:
Cωvite
ηinv = (6.70)
F vmadrevite
per cui la forza F per vincere la coppia resistente C, in condizioni di regime, è data da:
C ωvite C 1
F = = (6.71)
ηinv vmadrevite ηinv τ
Numericamente, i valori di η e ηinv sono pressoché uguali.
6.5 Frizioni
non viene comandato il disinnesto, oppure finché la coppia trasmessa dall’albero motore a
quello condotto non supera un valore limite, determinato dalla condizione di aderenza, che
è funzione ovviamente del coefficiente di attrito statico fra le superfici a contatto.
Vogliamo ora studiare le fasi di innesto e di aderenza del sistema rappresentato in Fig.
6.25, in cui poniamo che l’elemento 1 della frizione sia collegato all’albero motore e l’elemento
2 all’albero condotto. Siano inoltre:
• I1 e I2 i momenti di inerzia dei due alberi e delle masse rotanti ad essi solidali
1h 2 2
i Z tf Z tf
Lf = T (0) − T (tf ) + Lm − Lr = I1 ω10 + I2 ω20 − (I1 + I2 )ωf2 + Cm ω1 dt − Cr ω2 dt
2 0 0
(6.73)
Se la durata tf della fase di innesto è piccola, i due integrali nella (6.73) sono trascurabili
rispetto alla differenza di energia cinetica (si può assimilare l’innesto ad un urto): la (6.73)
allora diventa:
1h 2 2
i
Lf = I1 ω10 + I2 ω20 − (I1 + I2 )ωf2 (6.74)
2
Poiché il valore della velocità ωf al termine della fase di innesto non è nota a priori,
è necessario ricavarla da qualche altra equazione. Si utilizza in proposito il principio di
conservazione del momento angolare, espresso da:
I1 ω10 + I2 ω20
ωf = (6.76)
I1 + I2
144 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
La Fig. 6.26 mostra un esempio di grafico delle velocità angolari in funzione del tempo.
coefficiente di attrito, del tipo di quello utilizzato nei freni, in modo tale che il contatto tra
le superfici generi una coppia di attrito Cf durante e anche dopo la fase di innesto.
Il valore di tale coppia di attrito può essere ottenuto con il seguente ragionamento, che
porta a ricavare come varia la pressione nell’area interessata dall’attrito di strisciamento. Si
considerino due dischi rotanti coassiali, ricoperti di materiale a coefficiente di attrito f , che
vengono premuti l’uno contro l’altro (per semplicità, si può ipotizzare che uno dei due dischi
sia fermo e l’altro ruoti ad una velocità angolare ω).
Inizialmente, la pressione p risulta uniforme su tutta l’area di contatto, il che causa
un’usura del materiale più accentuata in corrispondenza della parte esterna dei dischi.
Per dimostrare questa affermazione, si consideri l’ipotesi di Reye che, come si ricorderà,
stabilisce che il volume del materiale asportato per usura è proporzionale al lavoro compiuto
dalle forze di attrito. Ora, il lavoro compiuto in un tempo dt dalle forze di attrito su un’area
elementare dA, posta a distanza r dall’asse di rotazione, è dato da:
dLf = f p dA v dt = f p ω r dA dt (6.81)
dh f vp f ωp
= = r (6.83)
dt kReye kReye
Petanto, se p è costante, come nella fase iniziale di utilizzo di dischi nuovi, la (6.83)
dimostra che il consumo del materiale varia in misura proporzionale alla distanza dall’asse
di rotazione, e quindi la parte esterna dei dischi presenterà un’usura più accentuata.
Superata tale fase iniziale, si raggiunge una situazione di equilibrio in cui il tasso di
consumo del materiale diventa uniforme in tutta la superficie a contatto. La (6.83) ci fornisce
allora l’andamento a regime della pressione:
146 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
kReye (dh/dt) 1
p= = kp (6.84)
f ωr r
Da cui si vede che la pressione varia radialmente, in maniera inversamente proporzionale
rispetto alla diatanza dall’asse di rotazione.
Tipicamente, il contatto tra le superfici dei dischi della frizione non avviene sull’intero
disco, ma su una corona circolare di raggio interno ri e raggio esterno re .
Il coefficiente kp può essere ricavato dall’espressione della forza assiale N , ottenuta
integrando la pressione sulla superficie di contatto:
Z re Z 2π Z re Z 2π
N= p r dr dθ = kp dr dθ = 2πkp (re − ri ) (6.85)
ri 0 ri 0
da cui:
N
p = p(r) = (6.86)
2πr(re − ri )
I valori massimo e minimo della pressione nella zona di contatto si avranno allora per
r = ri e r = re rispettivamente:
N
pmax = (6.87)
2πri (re − ri )
N
pmin = (6.88)
2πre (re − ri )
La coppia di attrito Cf può essere calcolata come somma dei singoli contributi delle azioni
tangenziali di attrito agenti in ogni punto delle superfici di contatto:
Z re Z 2π
Cf = f p r2 dr dθ = πf kp (re2 − ri2 ) (6.89)
ri 0
re + ri
Cf = f N (6.90)
2
Allo scopo di aumentare il valore della Cf , e quindi essere in grado di trasmettere coppie
più elevate, si possono costruire frizioni che siano costituite da numerosi dischi (si arriva
anche a parecchie decine), collegati alternativamente con l’elemento motore e l’elemento
condotto. La forza assiale di pressione è la stessa per tutti i dischi, ovvero N , e quindi la
coppia di attrito trasmessa dalla frizione viene moltiplicata per il numero n di dischi:
re + ri
Cf = nf N (6.91)
2
6.5. FRIZIONI 147
ove p è la forza per unità di superficie, normale alla superficie di contatto, f il coefficiente
di attrito e α l’angolo di inclinazione del tronco di cono rispetto all’asse.
La (6.86) continua a valere, con l’avvertenza di considerare pa al posto di p, e la compo-
nente assiale della forza di compressione Na = N (sin α + f cos α) al posto di N :
Na
pa = (6.93)
2πr(re − ri )
da cui, introducendo il valore di pa dato dalla (6.92), si ottiene l’andamento della pressione
in funzione della distanza radiale r dall’asse:
Na
p = p(r) = (6.94)
2πr(re − ri )(sin α + f cos α)
La coppia trasmessa da una frizione conica può essere ricavata direttamente dalla (6.90)
re + ri re + ri
Cf = f N = f Na (6.95)
2 2(sin α + f cos α)
Come ordine di grandezza, la potenza trasmessa da una frizione può arrivare sino a 200-
300 kW, anche se sono state costruite frizioni con caratteristiche particolari (frizioni a bagno
d’olio) che raggiungono anche i 2 MW di potenza trasmessa, seppur con qualche svantaggio
(ad esempio, l’impossibilità di disaccoppiare completamente i due alberi).
148 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
6.6 Freni
Sono detti freni quegli organi meccanici che hanno la funzione di diminuire o annullare la
velocità di un corpo (o di un sistema), dissipandone l’energia cinetica.
Vi sono tre tipi principali di freni:
1. freni ad attrito
2. freni a fluido
3. freni elettromagnetici
• coppia frenante
• forza di comando
• efficacia, definita come il rapporto tra la forza d’attrito applicata al corpo da frenare
e la forza di comando
• indice di regolarità, definito come il rapporto tra la variazione percentuale della coppia
frenante e la variazione percentuale del fattore di attrito. N.B.: la regolarità di un
freno è tanto maggiore, quanto minore è l’indice di regolarità
1. freni a disco
6.6. FRENI 149
I vantaggi dei freni a disco, rispetto alle altre tipologie di freno, sono principalmente:
Lo svantaggio principale dei freni a disco è invece legato alla bassa efficacia intrinseca.
6.7. CUSCINETTI 151
6.7 Cuscinetti
I cuscinetti sono componenti meccanici che fungono da supporto per organi rotanti come
gli alberi, equilibrando i carichi ad esso applicati da parte degli altri elementi del sistema,
ed originando allo stesso tempo coppie resistenti di piccola entità.
I cuscinetti si suddividono in due grandi categorie:
2. cuscinetti a rotolamento, o volventi, in cui tra la parte fissa e quella mobile dell’ac-
coppiamento sono interposti opportuni elementi di rotolamento, in modo che l’attrito
risulti volvente anziché radente.
152 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
Il cuscinetto volvente deve la sua maggiore diffusione ai vantaggi innegabili che esso
presenta rispetto ai cuscinetti a strisciamento:
• mentre per i cuscinetti volventi l’attrito è praticamente costante con la velocità e tende
a diminuire con l’aumentare del carico, nelle bronzine è molto variabile con la velocità,
con il carico e con la temperatura, e può raggiungere valori elevati, soprattutto a basse
velocità;
Gli svantaggi dei cuscinetti a rotolamento rispetto a quelli a strisciamento sono sostanzial-
mente dati da:
• maggiore rumorosità;
• maggior costo.
Nella nostra analisi tratteremo principalmente dei cuscinetti a rotolamento, la cui diffu-
sione è prevalente rispetto a quelli a strisciamento.
I principali requisiti di progetto richiesti ad un cuscinetto sono:
Per la fabbricazione dei cuscinetti si utilizzano materiali duri, ad alta resistenza, con
caratteristiche superiori a quelli degli elementi ai quali vengono accoppiati.
I costruttori hanno reso disponibili cuscinetti a rotolamento in una grande varietà di
tipologie, dimensioni e caratteristiche di resistenza e le cui caratteristiche di utilizzazione
(valori del carico e velocità) sono tabulate in cataloghi.
Il compito dell’utilizzatore è quello di effettuare una selezione fra i cuscinetti presenti in
commercio. In questa sede ci limiteremo a fornire solo alcune considerazioni di carattere gen-
erale relative alla scelta dei cuscinetti. Per approfondimenti si rimanda il lettore a testi spe-
cializzati, oppure ai siti internet dei principali produttori (ad esempio: http://www.skf.com).
La Fig. 6.36 mostra la nomenclatura di un cuscinetto a sfere con i suoi quattro componenti
essenziali:
Figura 6.37: Corpi volventi nei cuscinetti a rotolamento: sfere, rulli cilindrici, rullini, rulli a
botte, rulli conici
• tipo
• dimensioni
• resistenza
• durata
• affidabilità
Questi tre parametri si influenzano l’un l’altro per l’ovvia dipendenza tra di loro.
Per introdurre i calcoli relativi alla scelta del cuscinetto è necessario premettere qualche
considerazione relativa alla durata (o vita) dei cuscinetti.
156 CAPITOLO 6. ALTRI ORGANI DI TRASMISSIONE DEL MOTO
Il numero di cuscinetti che sopravvivono dopo un certo numero di cicli L∗ può essere
pertanto ottenuto moltiplicando per 100 il valore della Pv (L∗ ) ricavato dalla curva continua
6.7. CUSCINETTI 157
C a
µ ¶
L= (6.98)
F
I coefficienti di carico sono determinati per via sperimentale, tuttavia sono state re-
centemente messe a punto delle formule basate sulla teoria relativa alla vita a fatica che
permettono ai costruttori di prevederne il valore, in base alle caratteristiche costruttive del
cuscinetto.
Capitolo 7
Camme
La camma è un organo meccanico atto a realizzare una determinata legge di moto, il cui
andamento dipende dalla forma della camma stessa.
Esistono anche altri meccanismi con i quali si possono ottenere leggi di moto con deter-
minate caratteristiche, ma nessuno permette di ottenere, in generale, leggi di moto anche
complesse con la precisione e la relativa semplicità offerte dai meccanismi con camme. Ciò
spiega la gran diffusione di questi ultimi, specialmente nelle macchine automatiche veloci.
Di solito, la camma è inserita in un meccanismo che comprende almeno tre membri
(movente, cedente e telaio), con due coppie elementari e una coppia superiore. La camma
svolge comunemente la funzione di movente.
I meccanismi con camme possono essere classificati in base a diversi criteri. Un primo
criterio di classificazione è quello di considerare il tipo di moto (rotatorio o traslatorio)
della camma e del membro a contatto con essa attraverso la coppia superiore.
Il moto rotatorio può essere continuo o alternato, mentre quello traslatorio può essere
solo alternato. Nei casi più frequenti, la camma costituisce il movente ed è dotata di moto
rotatorio continuo, mentre il cedente è dotato di moto alternato.
Le camme si possono poi classificare in base alla loro forma: camme piane o a dis-
co, camme cilindriche, ed altri tipi meno comuni (camme coniche, camme sferiche, camme
spaziali o cammoidi, ecc.).
Si distinguono poi diversi tipi di cedenti, a seconda della forma che assume l’elemento
cinematico a contatto con la camma.
Si possono avere
• cedenti a spigolo vivo (o meglio, con raggio di curvatura molto piccolo), usati molto
raramente e solo se le forze in gioco sono molto modeste;
159
160 CAPITOLO 7. CAMME
• cedenti a rotella, molto usati perché il contatto di rotolamento fra camma e cedente
riduce l’attrito e l’usura.
y = y(t) (7.1)
Di solito, però, interessa conoscere la posizione del cedente non tanto in funzione del
tempo, quanto, piuttosto, in funzione della posizione angolare della camma (o della posizione
lineare, se si tratta di una sagoma).
Se, come di solito accade, la velocità angolare della camma (o lineare della sagoma) è
costante, i due modi di assegnare la legge del moto sono del tutto equivalenti.
Indicando con ω la velocità angolare e con θ l’angolo di rotazione della camma, la legge
di moto del cedente sarà un’espressione del tipo:
dy dθ dy
ẏ = = ω = y ′ (θ)ω (7.3)
dθ dt dθ
!2
d2 y d2 y 2
Ã
dθ
ÿ = 2 = ω = y ′′ (θ)ω 2 (7.4)
dθ dt dθ2
Osserviamo che y(θ), y ′ (θ), y ′′ (θ) dipendono solo dalla forma della camma, mentre y(t),
ẏ(t), ÿ(t) dipendono anche dalla sua velocità angolare.
Nel caso di una sagoma, al posto dello spostamento angolare θ comparirà quello lineare,
che indicheremo con x.
La legge di moto del cedente comprende, in generale, quattro fasi:
• andata (A),
162 CAPITOLO 7. CAMME
Figura 7.4: Camma piana con punteria a rotella e camma cilindrica con punteria a rotella
• sosta (S),
• ritorno (R),
• sosta (S);
le due fasi di sosta, o una sola di esse, possono mancare.
Spesso, per comodità, viene detta legge di moto non la legge relativa a tutti i 360◦ , ma
quella relativa ad una delle fasi attive (A o R), e si parla perciò di legge di moto dell’andata
e legge di moto del ritorno.
Indicheremo con β l’angolo di rotazione della camma corrispondente ad una determinata
fase; la somma degli angoli a di tutte le fasi vale, evidentemente, 360◦ .
Lo spostamento totale del cedente in una fase attiva (spostamento lineare se si tratta di
una punteria, angolare se è un bilanciere) si dice alzata (o salto); nel seguito, lo indicheremo
con H. In Fig. 7.6 è rappresentata l’alzata in funzione della rotazione della camma, nelle
quattro fasi del moto.
7.2. TRACCIAMENTO DI UNA CAMMA 163
Se la sagoma di partenza ha una sola pista, la camma che si ottiene è detta anche a
bicchiere; se la sagoma ha una doppia pista, si ottiene una camma cilindrica a comando
positivo (Fig. 7.8).
Figura 7.7: Tracciamento di una sagoma per punteria a spigolo vivo e per punteria a rotella
Figura 7.8: Tracciamento di una camma cilindrica a comando positivo con punteria a rotella
Nel tracciamento del profilo di una sagoma si è fatto uso del procedimento dell’inversione
cinematica, che consiste nel disegnare il cedente nelle successive posizioni che esso viene ad
assumere rispetto alla camma, considerata fissa (nel meccanismo cinematicamente invertito,
pertanto, al telaio viene imposto un moto uguale ed opposto a quello compiuto dalla camma
nel meccanismo reale).
Tale procedimento, che nel caso delle sagome con punteria non ha bisogno di commenti,
permette di disegnare anche i contorni delle camme piane, e può essere esteso ai casi di
camme (sagome e camme a disco) con bilanciere.
Noi ci limiteremo ad esporlo per i casi di camma piana con punteria a rotella, con punteria
a piattello piano e con bilanciere a rotella, essendo priva di difficoltà l’estensione agli altri
casi.
7.2. TRACCIAMENTO DI UNA CAMMA 165
Figura 7.9: Determinazione grafica del contorno di una camma piana con punteria centrata
e con punteria eccentrica a rotella
Consideriamo il caso di una camma piana con punteria a rotella. Supponiamo per il
momento che la punteria sia centrata, cioè che il suo asse incontri l’asse della camma (Fig.
7.9a).
Noti il raggio base R0 della camma e il raggio r della rotella, si fissi per prima cosa un
punto O1 a distanza OO1 = R0 + r dal punto O, intersezione dell’asse della camma con il
piano di moto.
Assunto quindi OO1 come riferimento, per un generico valore θi di θ si tracci una semiretta
formante con OO1 un angolo θi . e su di essa si fissi il punto O1i a una distanza da O pari a:
Il punto OO1i è quindi la posizione del centro della rotella rispetto alla camma, quando
questa ha ruotato dell’angolo θi rispetto alla posizione iniziale.
Naturalmente, se la camma ruota in verso orario, l’angolo θi va preso in verso antiorario
(e viceversa), in modo che il moto relativo fra la camma e il telaio rimanga lo stesso nel caso
effettivo e nel meccanismo cinematicamente invertito.
Ripetendo più volte la costruzione, per un sufficiente numero di valori dell’angolo θi , si
trova il luogo dei centri della rotella (luogo che coinciderebbe con il contorno della camma, se
il cedente fosse a spigolo vivo): tracciando adesso le circonferenze di raggio r con i centri nei
punti OO1i trovati, il contorno della camma si ottiene come inviluppo di tali circonferenze.
Ovviamente, in corrispondenza delle fasi di sosta il contorno della camma risulta essere
un arco di circonferenza di centro O, di raggio R0 , per la sosta inferiore e di raggio R0 + H
per la sosta superiore.
166 CAPITOLO 7. CAMME
Figura 7.10: Determinazione grafica del contorno di una camma piana con punteria a piattello
piano
• la distanza d fra l’asse della camma (O) e quello del bilanciere (O2 );
Figura 7.11: Determinazione grafica del contorno di una camma piana con bilanciere a rotella
bQ
S12 = (7.7)
b cos α − f (b + 2c) sin α
cQ sin α
R32a = (7.8)
b cos α cos ϕ − (b + 2c) sin α cos ϕ
168 CAPITOLO 7. CAMME
(b + c) Q sin α
R32b = (7.9)
b cos α cos ϕ − (b + 2c) sin α cos ϕ
dove f è il coefficiente d’attrito e c è dato da:
c = a − (R0 + r + y) (7.10)
In particolare, se il coefficiente d’attrito f è sufficientemente piccolo, la forza S12 assume
l’espressione approssimata:
Q
S∼
= (7.11)
cos α
da cui si desume che è sempre conveniente che α abbia un valore piccolo, al di sotto dei
40◦ circa.
Osserviamo poi che occorre evitare (mantenendo un ragionevole margine di sicurezza)
che la retta d’azione della forza S12 passi per il punto d’incontro K delle rette d’azione delle
reazioni vincolari R32a e R32b . Se ciò avvenisse, una forza S12 comunque grande potrebbe
sempre essere equilibrata dalle sole reazioni R32a e R32b : ciò significa che per equilibrare la
forza resistente Q occorrerebbe una forza S12 addirittura infinita.
Se, poi, la retta d’azione della S12 passasse a sinistra del punto K, l’equilibrio della
punteria potrebbe essere assicurato soltanto da una forza Q orientata verso l’alto.
In tali condizioni si avrebbe un impuntamento del meccanismo.
Per evitare l’impuntamento, l’angolo di pressione deve soddisfare alla seguente disug-
uaglianza:
7.4. LEGGI DEL MOTO ELEMENTARI 169
b
tan α < (7.12)
f (b + 2c)
Questa relazione può essere facilmente ricavata dalla (7.7) trovando il valore di α per il
quale il valore di S12 diventa infinito.
Net caso della punteria a piattello piano, l’angolo di pressione è nullo, il che costituisce
un non trascurabile vantaggio di questa soluzione. Il pericolo di impuntamento può ancora
presentarsi, sia pure raramente, se il punto di contatto fra camma e piattello è molto discosto
dall’asse delta punteria.
Nel caso del bilanciere, la condizione di impuntamento non può praticamente verificarsi.
Anche in questo caso, comunque, è opportuno che l’angolo di pressione sia piccolo, affinché le
forze trasmesse non raggiungano valori troppo elevati (come si e visto nel caso della punteria).
• di non avere valori troppo alti di accelerazione (ai quali corrispondono valori elevati
delle azioni d’inerzia, che in molti meccanismi a camme sono le principali forze in
gioco);
Per soddisfare a tutte queste esigenze, e ad altre ancora sulle quali non ci soffermiamo,
vengono comunemente impiegate molte leggi particolari, adatte ciascuna ad un determinato
tipo di applicazione, in relazione alle velocità, alle masse in movimento, alle rigidezze, ecc.
Una legge largamente impiegata è la cosiddetta trapezia modificata, la cui accelerazione
presenta due tratti di valore costante raccordati da tratti di sinusoide (Fig. 7.13e).
L’accelerazione massima è superiore solo del 22% a quella della legge parabolica, e non
presenta discontinuità.
Quando è opportuno che i massimi positivi e negativi dell’accelerazione abbiano valori
assoluti diversi, le leggi del moto possono venire rese ‘asimmetriche’, scegliendo i due tratti
(quello ad accelerazione positiva e quello ad accelerazione negativa) non entrambi uguali a
β
2
, ma uno più grande e l’altro corrispondentemente più piccolo (Fig. 7.13f).
Talvolta, il membro al quale si vuole conferire una determinata legge di moto non è il
cedente direttamente a contatto con la camma, ma il membro di uscita di un sistema arti-
colato, del quale il cedente suddetto costituisce l’entrata. In tali casi è necessario, una volta
scelta la legge di moto da conferire al membro di uscita, trovare dapprima la corrispondente
legge di moto del membro di ingresso del sistema articolato suddetto (cedente della camma),
e determinare poi il contorno della camma in base a tale legge.
Osserviamo infine che qualche volta può essere opportuno fare in modo che il cedente non
entri a contatto con la camma nelle fasi di riposo. Questa condizione viene di solito imposta
in meccanismi con contatto di forza; una adatta battuta tiene in posto il cedente senza che
esso tocchi la camma.
Per svariate ragioni (tolleranze di lavorazione, usure, deformazioni termiche, ecc.) è
praticamente impossibile imporre che il contatto fra camma e cedente si ripristini in una
posizione prestabilita. E’ allora inevitabile che all’atto del contatto si abbia un urto; questo
dovrà, peraltro, essere mantenuto entro limiti molto modesti (le velocità d’urto devono essere
di norma dell’ordine di 0,1 m/s).
7.4. LEGGI DEL MOTO ELEMENTARI 171
Figura 7.13: Spostamenti, velocità e accelerazioni per alcune legge di moto comuni
172 CAPITOLO 7. CAMME
Capitolo 8
In questo capitolo si intendono fornire i principi basilari della modellazione delle vibrazioni
meccaniche. I fenomeni vibratori, dovuti all’oscillazione delle parti di un sistema meccanico,
sono originati dalla deformabilità dei corpi e quindi dalla loro capacità di immagazzinare e
rilasciare energia elastica.
La modellazione di un fenomeno vibratorio può rivelarsi notevolmente complessa, so-
prattutto se il sistema presenta delle non-linearità. Tuttavia, nella maggior parte dei casi un
modello lineare risulta sufficientemente fedele nel rappresentare il sistema fisico da studiare.
Il modello elementare utilizzato nella meccanica delle vibrazioni è detto oscillatore sem-
plice. Tale modello rappresenta le due caratteristiche fondamentali che determinano l’entità
e la natura delle vibrazioni, ovvero l’elasticità e lo smorzamento.
Come si può vedere dalla Fig. 8.1, l’oscillatore semplice è un sistema ad un grado di
libertà (lo spostamento x) costituito da una massa m collegata a telaio tramite una molla
ed uno smorzatore lineare.
La molla rappresenta l’elasticità del sistema, ovvero quelle forze di richiamo elastico che
tendono a riportarlo nella condizione di riposo, qualora se ne sia allontanato. La forza
elastica dipende linearmente dallo spostamento secondo una costante k, espressa in N/m,
detta appunto costante elastica.
173
174 CAPITOLO 8. MECCANICA DELLE VIBRAZIONI
• la forza di smorzamento
Fc (t) = −cẋ(t)
• lineare
• ordinaria
• a coefficienti costanti
E’ noto che la soluzione di una siffatta equazione differenziale si ottiene come somma di
due termini:
1. il primo termine esprime come il sistema evolve, a partire da prefissate condizioni in-
iziali, quando nessuna forzante esterna agisce su di esso. Questo termine viene chiamato
oscillazione libera o risposta libera del sistema;
2. il secondo termine esprime invece come il sistema si muove in funzione della forza che
agisce su di esso. Si parla allora di risposta forzata o (vedremo più avanti perché) di
risposta in frequenza.
mλ2 + cλ + k = 0 (8.5)
Dividendo per m:
c k
λ2 + λ+ =0 (8.6)
m m
Definiamo ora:
s
k
ωn = (8.7)
m
Questo importante parametro caratteristico del sistema è chiamato pulsazione naturale
o pulsazione propria dell’oscillatore. Si tratta della pulsazione (espressa in rad/s) con cui
oscillerebbe il sistema nell’ipotesi di smorzamento nullo (c = 0).
La (8.6) può allora essere riscritta:
c
λ2 + √ ωn λ + ωn 2 = 0 (8.8)
mk
Se definiamo lo smorzamento relativo del sistema come
c
ξ= √ (8.9)
2 mk
otteniamo allora:
λ2 + 2ξωn λ + ωn 2 = 0 (8.10)
Le radici della () sono:
176 CAPITOLO 8. MECCANICA DELLE VIBRAZIONI
q
λ1,2 = −ξωn ± ωn ξ 2 − 1 (8.11)
e la risposta libera del sistema sarà data da:
Caso 1: ξ > 1
In questo caso le radici λ1,2 della (8.2) sono reali e negative, pertanto la risposta libera
del sistema sarà la combinazione lineare delle funzioni esponenziali decrescenti eλ1 t , eλ2 t .
Ciò significa che lo smorzamento è talmente grande che lo spostamento del sistema tende
asintoticamente a zero senza oscillare. Questo caso, corrispondente ad un sistema sovras-
morzato, si verifica tuttavia molto raramente nella realtà. La quasi totalità dei sistemi
meccanici presenta infatti uno smorzamento relativo molto minore di uno, in parecchi casi
addirittura inferiore a 0,1.
Caso 2: ξ < 1
Un interesse molto maggiore presenta il caso opposto, corrispondente ad un sistema sot-
tosmorzato. In questo caso le radici della (8.2) sono complesse coniugate:
q
λ1,2 = −ξωn ± iωn 1 − ξ 2 (8.13)
per cui la risposta libera del sistema è data da:
√ √
2 2
xl (t) = A1 e−ξωn t eiωn 1−ξ t + A2 e−ξωn t e−iωn 1−ξ t (8.14)
Ricordando che exp (±iψ) = cos ψ ± i sin ψ, la (8.14) può essere riscritta come:
q q q q
xl (t) = A1 e−ξωn t [cos(ωn 1 − ξ 2 )t+i sin(ωn 1 − ξ 2 )t]+A2 e−ξωn t [cos(ωn 1 − ξ 2 )t−i sin(ωn 1 − ξ 2 )t]
(8.15)
La xl (t) deve necessariamente essere una funzione reale, pertanto i coefficienti A1 , A2
devono essere tali da annullare tutti i termini immaginari della (8.15). Si dimostra facilmente
che ciò accade se e solo se A1 e A2 sono complessi coniugati. Ponendo allora:
B1 B2
A1 = −i
2 2
B1 B2
A2 = +i
2 2
con facili passaggi si ottiene:
8.3. RISPOSTA IN FREQUENZA 177
q q
xl (t) = e−ξωn t [B1 cos(ωn 1 − ξ 2 )t + B2 sin(ωn 1 − ξ 2 )t] (8.16)
√
che, con la posizione ωd = ωn 1 − ξ 2 , assume la forma
Lo spostamento del sistema sarà allora una funzione periodica di pulsazione ωd inviluppa-
ta dalla curva esponenziale e−ξωn t e dalla sua simmetrica rispetto all’asse delle ascisse (vedi
Fig. 8.2).
Il parametro ωd (espresso in rad/s) è chiamato pulsazione smorzata (in inglese damped ).
Per valori piccoli di ξ esso è pressoché uguale alla pulsazone propria ωn .
Pertanto, la risposta libera di un sistema sottosmorzato converge a zero oscillando. Il
periodo di oscillazione è dato da T = ω2πd , il cui inverso f = T1 = ω2πd è la frequenza di
oscillazione.
La velocità di convergenza a zero è direttamente proporzionale a ξ e ωn .
Tale soluzione particolare dipende ovviamente dal tipo di forza F (t) che agisce sul sistema.
Consideriamo dapprima il caso di una forzante sinusoidale di ampiezza F0 e pulsazione ω̄,
ovvero F (t) = F0 cos ω̄t.
Conviene innanzitutto dividere la (8.2) per m e ricordare le definizioni di ωn (8.7) e di ξ
(8.9), così da scrivere l’equazione dinamica del sistema nella forma:
F0
ẍ(t) + 2ξωn ẋ(t) + ωn2 x(t) =
cos ω̄t (8.18)
m
Verifichiamo ora che un integrale particolare della (8.18) ha la forma
F0
−ω̄ 2 X0 cos(ω̄t + ϕ) − 2ξωn ω̄X0 sin(ω̄t + ϕ) + ωn2 X0 (ω̄t + ϕ) = cos ω̄t (8.20)
m
Ricordando ora le formule di addizione del seno e del coseno
−ω̄ 2 X0 cos ω̄t cos ϕ + ω̄ 2 X0 sin ω̄t sin ϕ − 2ξωn ω̄X0 sin ω̄t cos ϕ − 2ξωn ω̄X0 cos ω̄t sin ϕ+
F0
+ωn2 X0 cos ω̄t cos ϕ − ωn2 X0 sin ω̄t sin ϕ =
cos ω̄t (8.23)
m
La relazione (8.23) deve essere valida per ogni valore di t: essendo sin ω̄t e cos ω̄t due
funzioni linearmente indipendenti, i loro coefficienti a primo e secondo membro dovranno
essere uguali. Si avrà pertanto:
F
−ω̄ 2 X0 cos ϕ − 2ξωn ω̄X0 sin ϕ + ωn2 X0 cos ϕ = (8.24)
m
−2ξωn ω̄
tan ϕ = (8.26)
ωn2 − ω̄ 2
Ricordando che cos ϕ = √ 1
, sin ϕ = √ tan2ϕ , possiamo sostituire la (8.26) nella
tan2 ϕ+1 tan ϕ+1
(8.25). Dopo qualche passaggio, ponendo m = k/ωn2 , si ottiene:
8.3. RISPOSTA IN FREQUENZA 179
F0 1
X0 = q (8.27)
k [1 − ( ω̄ 2 2
)] + (2ξ ωω̄n )2
ωn
−2ξ ωω̄n
ϕ = arctan (8.28)
1 − ( ωω̄n )2
Si vede quindi che sia l’ampiezza che la fase della risposta forzata dipendono
sostanzialmente dalla pulsazione di eccitazione. Nelle (8.27) e (8.28) è allora possibile
sostituire a ω̄ la generica pulsazione ω, in modo tale da esprimere i valori di ampiezza e fase
come funzioni della pulsazione normalizzata della forzante, ovvero:
ω F0 1
X0 ( )= q (8.29)
ωn k [1 − ( ) ]2 + (2ξ ω )2
ω 2
ωn ωn
ω −2ξ ωωn
ϕ( ) = arctan (8.30)
ωn 1 − ( ωωn )2
E’ questo il motivo per cui la risposta forzata viene anche chiamata risposta in frequenza.
Le Fig. 8.3 e 8.4 rappresentano gli andamenti di X0 e di ϕ (rispettivamente ampiezza e
fase della risposta in frequenza) in funzione della frequenza normalizzata della forzante, per
diversi valori dello smorzamento relativo ξ.
Si nota che, per valori di ξ non troppo elevati, la curva dell’ampiezza presenta un massimo,
in corrispondenza di un valore di pulsazione ωr della forzante leggermente inferiore alla
pulsazione naturale. Tale valore può essere trovato cercando il minimo del denominatore
della (8.29), ovvero eguagliando a zero la sua derivata rispetto a ω/ωn . Risulta:
q
ωr = ωn 1 − 2ξ 2 (8.31)
La pulsazione ωr è detta pulsazione di risonanza del sistema. Si osserva che, quanto
minore è ξ, tanto più il valore di ωr si avvicina a ωn : in sistemi con poco smorzamento si
può quindi considerare ωr ≈ ωn . Al diminuire di ξ aumenta inoltre il valore di picco di X0
(e quindi la massima ampiezza di xf (t), fino al caso limite ξ = 0 (sistema non smorzato),
per cui l’ampiezza della risposta tende ad infinito.
Nei sistemi meccanici la risonanza è in genere un fenomeno indesiderato, perché ha come
conseguenza vibrazioni di ampiezza molto elevata. E’ quindi necessario, nella progettazione
meccanica, prestare particolare attenzione affinché la risonanza si trovi al di fuori della banda
di frequenze con cui si prevede che il sistema venga eccitato.
Essendo ωr ≈ ωn , lo spostamento del picco di risonanza può essere effettuato variando, q
k
per quanto possibile, il valore della pulsazione propria del sistema. Ricordando che ωn = m ,
un aumento di k sposterà ωn a valori più elevati, mentre un aumento di m produrrà l’effetto
opposto.
180 CAPITOLO 8. MECCANICA DELLE VIBRAZIONI
Qualora non sia possibile portare la risonanza al di fuori della banda delle frequenze di
eccitazione, è necessario aumentare lo smorzamento del sistema in modo da ridurre l’ampiezza
del picco.
Passando a trattare della fase ϕ, essa rappresenta, in valore assoluto, il ritardo della
sinusoide dello spostamento rispetto a quella della forzante. Si osserva che, per valori
piccoli della pulsazione di eccitazione, la fase è anch’essa piccola, quindi lo spostamento del
sistema è sostanzialmente in fase con la forzante.
Al contrario, per valori elevati di ω, la fase tende a −π, il che significa che lo spostamento
del sistema sarà in controfase rispetto alla forzante.
Se invece il sistema è eccitato ad una pulsazione pari a ωn , la fase è pari a −π/2: si dice
allora che lo spostamento è in quadratura rispetto ala forzante.
2. risposta ad un impulso
8.4. RISPOSTA A FORZANTI NON SINUSOIDALI 181
La trattazione che segue avrà comunque carattere elementare, riservando ogni appro-
fondimento a testi specialistici.
I = mv0 (8.35)
ove v0 è la velocità iniziale del sistema meccanico e m la sua massa.
In altre parole, applicare un impulso I ad un sistema meccanico equivale ad imprimergli
una velocità iniziale pari a v0 = mI .
Nel caso di un oscillatore semplice, la risposta all’impulso sarà quindi costituita
dalla risposta libera xl (t) con condizioni iniziali:
xl (0) = 0 (8.36)
I
ẋl (t) = v0 = (8.37)
m
Sappiamo che la xl (t) è data dalla (8.17), che riscriviamo qui per comodità:
ẋl (t) = −ξωn e−ξωn t (B1 cos ωd t + B2 sin ωd t) + e−ξωn t (−ωd B1 sin ωd t + ωd B2 cos ωd t) (8.39)
Per ricavare i valori di B1 e B2 calcoliamo posizione e velocità per t = 0 imponendo le
condizioni iniziali (8.36) e (8.37):
xl (0) = B1 =⇒ B1 = 0 (8.40)
v0 I
ẋl (0) = ωd B2 =⇒ B2 = = (8.41)
ωd mωd
La risposta all’impulso sarà pertanto data da:
I −ξωn t
xl (t) = e sin ωd t (8.42)
mωd
Ovviamente la (8.42) vale per t > 0, mentre per t < 0 si avrà xl (t) ≡ 0.
8.5. VIBRAZIONI TORSIONALI 183
Ovviamente, alla xl (t) va sommata la risposta libera per ottenere la legge del moto
complessiva del sistema.
Si consideri ad esempio (Fig. 8.5) un volano con momento di inerzia I, collegato a telaio
per mezzo di un albero di torsione. L’elasticità e lo smorzamento di quest’ultimo possono
essere modellati rispettivamente da una molla di rigidezza torsionale kt e da uno smorzatore
con coefficiente di smorzamento torsionale ct .
Le forze agenti sul volano sono (Fig. 8.6):