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Il Mulino - Rivisteweb

Antonello D’Angelo
Heidegger e Aristotele: il primo significato della
dynamis
(doi: 10.1403/12061)

La Cultura (ISSN 0393-1560)


Fascicolo 3, dicembre 1997

Ente di afferenza:
Università di Bologna (unibo)

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Heidegger e Aristotele:
il primo significato della dynamis*
di Antonello D’Angelo

Il problema che si pone all’inizio di metaph. Θ (problema rilevato


con precisione da Heidegger) riguarda la fondamentale quanto sfug-
gente differenza tra i due significati della dynamis. Dall’esame del te-
sto aristotelico appare difficile determinare con esattezza sia i due si-
gnificati presi singolarmente sia, sopra tutto, il loro rapporto1. Ed è
proprio da questo secondo aspetto della difficoltà che sarà opportu-
no partire. Aristotele parla di una dynamis che si dice
µλιστακυρ ως, «nel senso più proprio», oppure «nel senso che do-
mina nell’uso comune»2, la quale, tuttavia, è ο χρησ µη (o
χρησιµοττη) πρς  βουλµεα νν, «non utile per lo scopo che
ora intendiamo perseguire»; la dynamis e l’energeia sono intatti π

* Per quel che riguarda il rapporto Heidegger-Aristotele, non sono mancati negli ultimi
anni in Italia studi pregevoli. Basti pensare ai due capisaldi costituiti dalle indagini di F. Vol-
pi, Heidegger e Aristotele, Padova 1984 e di E. Berti, Aristotele nel Novecento, Bari 1992, pp.
44-111; ma molto interessante anche di A. Cazzullo, Heidegger interprete di Aristotele, Milano
1986 (commento puntuale a Vom Wesen und Begriff der φσις). Mi permetto altresì di ricor-
dare che chi scrive iniziò la ricerca sul rapporto tra i due pensatori con uno studio del 1982,
intitolato Φσις e οσ α nell’interpretazione heideggeriana di Aristotele, il cui contenuto è sta-
to rielaborato e circoscritto ad un problema più specifico in La critica heideggeriana dell’analo-
gia, in «La Cultura», XXVII (1989), pp. 276-343. Manca ancora, a mia conoscenza, una rico-
struzione totale e analitica dell’interpretazione heideggeriana dei concetti di δναµις e
νργεια, ricostruzione di cui il presente lavoro costituisce per chi scrive il primo passo. Ri-
cordo tuttavia che il problema è stato già in parte trattato con la consueta perizia e rigore da
F. Volpi, La «riabilitazione» della δναµις e dell’ νργεια in Heidegger, in «Aquinas», XXXIII
(1990), pp. 3-28, e ancora, in modo anche molto pregevole da P. Rodrigo, Heidegger lecteur
d’Aristote: dynamis et energeia sous le regard phénoménologique, in «Les Études philosophi-
ques» (1990), pp. 353-72. Ricordo inoltre gli studi di U.M. Ugazio, L’Aristotele nel primo Hei-
degger, in «Annuario filosofico», VI (1990), pp. 369-88; di F. Caramuta-A.M. Treppiedi, Da
Tebe ad Atene e da Atene a Tebe. ‘Metafisica’ Θ 2 tra Aristotele e Heidegger, in «Giornale di
metafisica», XIV (1992), pp. 373-442; di G. Penati, Aristotele e Heidegger. Prospettive e mo-
menti di un’interpretazione, ivi, pp. 485-504; di A. Sordini, Heidegger a Marburgo. Una lettura
del ‘De anima’, in «Teoria», XIII (1993), pp. 55-88; e infine di P.P. Ciccarelli, Heidegger e il
concetto di negatività. Sulla «presenza» aristotelica in ‘Essere e tempo’, in «Annali dell’Istituto
Italiano per gli Studi Storici», XIII (1995/96), pp. 563-613.
1 A questo proposito A. Faust, Der Möglichkeitsgedanke, Heidelberg 1931, p. 154, ha par-
lato esplicitamente di «rompicapo».
2 Così intende E. Berti, Aristotele nel Novecento, cit., p. 81.

/ a. XXXV, n. 3, dicembre 1997 435


Antonello D’Angelo

πλον τ"ν µνον λεγοµνων κατ# κ νησιν, «di più rispetto a


quelle intese soltanto secondo il movimento»; vale a dire, secondo
un’interpretazione corrente, che lo scopo è quello che pertiene alla
filosofia prima, ossia di considerare l’ente non soltanto in relazione
al movimento, bensì «in quanto ente»; perciò, dopo aver trattato
della dynamis in relazione al movimento, si chiarirà anche quella in-
tesa nel significato più ampio, e questo avverrà allorché si parlerà
dell’energeia (cfr. metaph. Θ 1045 b 35-1046 a 4).
Si veda innanzi tutto il modo in cui Heidegger traduce e parafra-
sa le principali espressioni usate dallo Stagirita. Μλιστα κυρ ως è
reso con «in der Bedeutung, in der man meistens eigentlich das
Wort gebraucht» («in quel significato usato propriamente nella mag-
gior parte dei casi»)3. Tale significato, si dice oltre, è «meist vorherr-
schend verstanden» («inteso nel modo per lo più prevalente»)4. Ο
χρησ µη – Heidegger segue la lezione del Bekker e del Christ e non
quella (χρησιµοττη) del Ross e dello Jaeger – è reso con «nicht
brauchbar» («non utilizzabile»). &Επ πλον è inteso come «er-
strecken sich über mehr» («si estendono oltre»). L’ultima proposi-
zione del testo su menzionato ((λλ& ε)πντες κτλ., 1046 a 2-4) è poi
tradotta: «Aber nachdem wir darüber gehandelt haben, wollen wir,
und zwar in der Erörterung über die νργεια, auch über die ande-
ren (d.h. die weitertragenden Bedeutungen der δναµις) einen Auf-
schluß geben» («Ma, dopo aver trattato di questo, daremo un chiari-
mento, nella discussione concernente l’νργεια, anche sugli altri,
ossia sui significati più estesi della δναµις»)5.
Entrando più nel dettaglio, notiamo che secondo Heidegger non
si deve intendere il significato più essenziale della potenza come del
tutto estraneo al movimento. Egli stabilisce però una differenza fon-
damentale tra il problema che concerne la δναµις κατ# κ νησιν e
la questione κατ# κιν*σεως che riguarda invece «se la δναµις ab-
bia qualcosa a che vedere con il movimento in quanto tale»6. In altre
parole, si chiede non se la δναµις muova qualcosa e dia origine a
un movimento, bensì se il movimento in quanto tale sia determinato
dalla δναµις7. Heidegger osserva, per esempio, che durante la co-
struzione di una casa si esperiscono dei movimenti: pietre e travi
vengono stratificate e connesse per l’opera, dove agiscono forse e at-
tività8. Se osserviamo l’intero movimento e teniamo ferme le attività

3 M. Heidegger, Aristoteles, ‘Metaphysik’ Θ 1-3. Von Wesen und Wirklichkeit der Kraft,
hrsg. von H. Hüni, Gesamtausgabe XXXIII, Frankfurt am M. 1981, p. 49 (d’ora in poi citato
HGA XXXIII e il numero della pagina).
4 Ivi, p. 50.
5 Ivi, pp. 49-50.
6 Ivi, p. 53.
7 Ibid.
8 Ibid.

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Heidegger e Aristotele

e le forze lì presenti, allora consideriamo il tutto κατ# κ νησιν e


percepiamo anche δυνµεις, ossia qualcosa che è semplicemente
presente insieme a ciò che si muove e a ciò che è semplicemente
presente nel movimento. Così – continua Heidegger – non conside-
riamo il movimento in quanto movimento né il mosso in quanto
mosso; non ci interroghiamo pertanto su che cosa sia l’essente-mos-
so in quanto tale; una tale considerazione non verte su ciò che è
mosso in quanto ente né sul movimento in quanto essere, vale a dire
che non ricerchiamo κατ# κιν*σεως, ossia non in modo tale che il
movimento sia il tema dell’indagine. Se invece questo avvenga, allora
la potenza e l’atto si assumono π πλον; questo significato più
esteso non esclude il movimento, anche se esso in tal modo non vie-
ne messo in questione κατ# κ νησιν9.
La ricerca deve tuttavia trattare preliminarmente della potenza ci-
netica, e ne deve trattare non ostante che essa sia ο χρησ µη; a
questo punto Heidegger rileva che si procede in effetti con «un me-
todo strano»10. Si delinea pertanto tale situazione: la ricerca verte da
prima sulla potenza cinetica, sebbene essa sia «inutilizzabile» (nicht
brauchbar) per il chiarimento di quella non solo cinetica; l’indagine
che riguarda la potenza cinetica ha comunque un carattere prepara-
torio; ciò che risulta in riferimento al primo senso della potenza non
può costituire però una parte della determinazione del secondo sen-
so; la ricerca, tuttavia, è opportuna e fruttuosa11. Sembra evidente
che l’imbarazzo di Heidegger di fronte a tale complicata situazione
sia forte e non v’è dubbio che la sua spiegazione sia ingegnosa. Egli
afferma infatti che l’espressione ο χρησ µη non deve essere tradot-
ta con «nicht dienlich» («inservibile») o con «unnütz» («infruttuo-
so»), bensì con «nicht brauchbar», «nicht verwendbar» («non utiliz-
zabile»), «nicht mit hinüberzunehmen in den wesentlichen Begriff»
(«da non accogliere nel concetto essenziale»), espressione, quest’ulti-
ma, da porre in correlazione con «es macht kein Bestimmungestück
dieser aus» («non è parte della determinazione di questa», ossia di
quella non solo cinetica), che compare appena qualche riga sopra.
Sembra dunque che Heidegger intenda dire: il primo significato
di potenza può in qualche modo contribuire al chiarimento del se-
condo ma non fa parte della definizione di questo e pertanto, in tale
definizione, non è utilizzabile, né può esservi compreso. Allo stesso
modo, sappiamo, gli accidenti ‘estendono’ in qualche modo la nostra
cognizione della sostanza, anche se non rientrano in alcun modo
nella sua definizione. Facendo un esempio nel campo di ciò che è
‘utilizzabile’: se acquistiamo un bel quadro d’autore e lo appendia-

9 Ivi, p. 54.
10 Ibid.
11 Ibid.

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mo ad una parete della nostra casa, ci serviamo di alcuni strumenti


‘utili’ a questo scopo, come il martello, i chiodi e i ganci. Tuttavia,
lo scopo primo per il quale abbiamo acquistato il quadro non è
quello di appenderlo, bensì quello di godere della sua visione; è evi-
dente allora che a tal fine il martello e i chiodi non sono di alcuna
utilità. Se dunque il significato più consueto (ma anche principale)
di potenza è «principio di movimento», tale significato non fa parte
della definizione autentica di potenza, anche se forse può offrirci un
vago e non essenziale chiarimento della sua essenza.
È evidente tuttavia che tali spiegazioni non risolvono per nulla il
problema. Heidegger è ben consapevole di questo e infatti afferma:
se ci si serve in questo modo della potenza cinetica, perché da essa
non si passa alla potenza essenziale?12 E ricorda 1046 a 3, dove lo
Stagirita afferma: «nelle trattazioni concernenti l’atto [si badi: il solo
atto] chiariremo anche gli altri significati di potenza». Heidegger
cita inoltre l’inizio del capitolo 6 (solo le prime due righe), non en-
trando però in una complicata questione che si pone, come vedre-
mo, a proposito di quel che Aristotele lì afferma. Il filosofo tedesco
ribadisce: «Il procedimento, impostato a partire dalla δναµις intesa
nel senso abituale, avviene dunque in modo tale che da essa si passi
all’νργεια essenziale? Non si dice che sia così». E ancora: «Qua-
lunque sia in realtà l’andamento, non è innanzi tutto comprensibile
perché la ricerca che concerne la δναµις e l’νργεια sia impostata
in generale a partire dalla δναµις. Forse perché essa appartiene a
τ# +µ,ν γν-ριµα (cfr. Z 3 verso la fine)? Soltanto per questo? Se-
guiamo ora questa impostazione»13. Il richiamo a «ciò che è conosci-
bile per noi» appare senza dubbio di un certo interesse e merita
perciò di essere esaminato in dettaglio. È necessario però, da prima,
approfondire i problemi connessi all’espressione ο χρησ µη.

Per quanto riguarda questo punto, si inizi con le spiegazioni dello


Pseudo Alessandro d’Afrodisia e si ricordi che egli, nella sua para-
frasi, trasforma ο χρησ µη in ο χρησιµοττη; questa seconda le-
zione è attestata anche dal codice Ab ed è accolta dal Ross e dallo
Jaeger. Heidegger, invece, legge ancora nell’altro modo. Lo Pseudo
Alessandro afferma: «E in primo luogo si deve trattare della potenza
intesa nel senso più proprio. Si potrebbe dire che essa è la materia
prima e informe: tutto questo è infatti in potenza; ed essa, anche se
è la potenza prima, tuttavia non è la più utile per lo scopo che ora
ci prefiggiamo; ora ricerchiamo infatti ciò che è immateriale, sempli-
ce e incorporeo e non ciò che è materiale e composto»14. La spiega-

12 Ivi, p. 55.
13 Ibid.
14 Alex. Aphr. in Aristotelis metaphysica commentaria, ed. M. Hayduck, C.A.G. I, Berolini

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Heidegger e Aristotele

zione è chiara. La lezione ο χρησιµοττη attenua il senso più forte


dell’altra: il primo significato di potenza è in qualche modo utile ma
non è il più utile. Esso, dice lo Pseudo Alessandro, consiste nella
«materia non formata». Questa interpretazione è stata rifiutata, con
sfumature varie, dai commentatori contemporanei (fra poco lo ve-
dremo più in dettaglio). Seguendo ancora lo Pseudo Alessandro, si
osservi che se la potenza più propria è la materia, allora è evidente
perché essa non sia la più utile; in filosofia prima, infatti, consideria-
mo ciò che è immateriale, semplice e incorporeo. Si può dunque ri-
cavare che questo primo significato è utile perché è primo quoad
nos; non v’è dubbio in effetti che, almeno per un certo aspetto, ciò
che è anteriore per noi sono proprio la materia e il composto. Dopo
aver affermato che l’essere secondo la potenza e l’atto significa
«più» che il solo essere in potenza o il solo essere in atto, lo Pseudo
Alessandro continua: «Ma anche se l’essere secondo la potenza e
l’atto significa di più che il solo essere in potenza o il solo essere in
atto, tuttavia, dopo aver parlato delle potenze intese nel senso più
proprio, chiariremo, nelle definizioni che riguardano l’atto, anche le
altre potenze»15. In ciò che lo Pseudo Alessandro afferma rimangono
non chiarite le questioni che anche Heidegger intende essere le prin-
cipali: innanzi tutto, perché il primo significato di potenza non è uti-
le? Inoltre, perché il secondo significato sarà chiarito quando si par-
lerà del solo atto? Ancora, se quando si parlerà dell’atto si chiarirà il
secondo significato di potenza, che ne sarà del primo?16
Quanto al primo interrogativo, non si è ancora in grado di ri-
spondere se non ribadendo le spiegazioni dello Pseudo Alessandro e
di Heidegger. Quanto al secondo, si deve porre ancora una questio-
ne, se cioè Aristotele accenni fin da ora al primato dell’atto sulla po-
tenza. Quanto al terzo, si deve osservare che il primo significato di
potenza, sebbene non utile, deve in qualche modo essere ricompreso
nel secondo e non può subire lo stesso destino delle potenze dette
per omonimia, in merito alle quali Aristotele dice espressamente
«siano ora tralasciate» ((φε σωσαν, 1046 a 7). In merito a que-
st’ultimo punto si tornerà tra poco, considerando sopra tutto le spie-
gazioni, per altro piuttosto singolari, di Averroè. Se dunque si deve
parlare della potenza cinetica, è lecito chiedere perché essa non ven-

1891, p. 565, 20-24: κα πρ"τον [scil. διοριστον] περ τ0ς κυρ ως δυνµεως. λγοι δ1 2ν
κυρ ως δναµιν τ3ν πρ-την κα (νε δεον 4λην5 δυνµει γ#ρ πντα στ ν5 6τις κ2ν
πρ-τη δναµις στιν, (λλ& ο7ν οκ 8στι χρησιµοττη πρς  βουλµεα νν5 α9λον γρ
τι κα :πλον κα (σ-µατον ζητοµεν νν (λλ& οκ 8νυλν τι κα σνετον.
15 Ivi, p. 566, 9-12: (λλ& ε) κα π πλον στ τ δυνµει κα νεργε <α το δυνµει
µνον 6 το νεργε <α µνον, =µως ε)πντες περ τ0ς κυρ ως δυνµεως ν το,ς περ τ0ς
νεργε ας >ρισµο,ς δηλ-σοµεν, φησ , κα περ τ"ν ?λλων δυνµεων.
16 Si vedano a tal proposito le spiegazioni di E. Berti, Aristotele: dalla dialettica alla filoso-
fia prima, Padova 1977, pp. 416-17.

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ga ricompresa nella trattazione riguardante l’atto. Tale assenza di


passaggio dall’uno all’altro significato, come si è visto, è stata notata
da Heidegger, il quale ribadisce il problema in questi termini: «Per-
ché mai in Θ 6 la ricerca va dalla δναµις κατ# κ νησιν al-
l’νργεια π πλον e alla corrispondente δναµις @τρως? Quale
νργεια corrisponde alla δναµις κατ# κ νησιν? &Ενργεια κατ#
κ νησιν – che cosa potrebbe essere»?17 A proposito dell’esordio del
capitolo 6 andranno fatte, come si è accennato, alcune osservazioni
che ne pongano in evidenza ulteriori aspetti non chiari.
Ora è necessario esporre nelle grandi linee le spiegazioni di altri
commentatori. Si era accennato al rifiuto, da parte dei contempora-
nei, della tesi secondo la quale il primo significato di potenza è
quello di «materia non formata». A tal proposito lo Schwegler parla
esplicitamente di fraintendimento da parte dello Pseudo Alessandro
e individua invece nel primo significato quello di (ρχ3 κιν*σεως
(µεταβολ0ς), nel secondo quello di «potenzialità», oppure, secondo
un evidente influsso hegeliano, quello di «essere in sé»18. Il Bonitz
offre una spiegazione simile a quella dello Schwegler: il primo signi-
ficato è (ρχ3 µεταβολ0ς, mentre il secondo non viene da Aristotele
definito, bensì, nel capitolo 6, illustrato mediante esempi. Il primo
significato è ulteriormente inteso dal Bonitz come vis o nisus e,
«vernacule», come Vermögen, mentre il secondo, che denota non un
impulso al movimento ma la possibilità ad essere, come Möglichkeit.
Per il Bonitz, tuttavia, Aristotele non avrebbe del tutto dominato la
distinzione, tanto è vero che già nel capitolo 3, ossia trattando anco-
ra del primo significato, egli introduce in modo improvviso il secon-
do19. Anche il Reale si discosta dallo Pseudo Alessandro e individua
nella materia non il primo significato, bensì proprio il secondo, ossia
quello più essenziale e «metafisico»20.
Una particolare attenzione meritano i commenti di Averroè, Al-
berto Magno e Tommaso d’Aquino. Esaminiamo prima quelli dei
due latini e lasciamo per ultimo il Commentator il quale in effetti
sembra discostarsi alquanto dalla lettera, anche a causa della tradu-
zione poco fedele che egli tiene presente.
Si inizi allora da Alberto Magno e innanzi tutto si veda la transla-
tio media da lui letta: «Et primum [scil. determinabimus] de pote-
state, quae dicitur maxime proprie, non tamen utilis est, ad quod
nunc volumus». Alberto osserva da prima: «Primum igitur loquemur
de potestate, quia potestas praecedit actum, quando ambo sunt in

17 HGA XXXIII, p. 56.


18 Cfr. A. Schwegler, Die Metaphysik des Aristoteles. Grundtext, Übersetzung und Com-
mentar, Tübingen 1847-48, IV, p. 46.
19 Cfr. H. Bonitz, Aristotelis Metaphysica, Commentarius, Bonn 1849, pp. 379-80.
20 Cfr. G. Reale, Aristotele, La Metafisica. Traduzione, introduzione e commento, Napoli
1968, II, pp. 63-64, nota 5.

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eodem»21. È stato osservato che Alberto è, tra i grandi commentatori


medioevali, l’unico che abbia cercato di chiarire perché Aristotele
cominci la trattazione dalla potenza; tale chiarimento sarebbe tutta-
via «poco plausibile», data l’anteriorità dell’atto22. Si deve però dire
che questa spiegazione è plausibilissima, anche se forse non cade del
tutto a proposito per questo specifico passo del capitolo 1. Il filoso-
fo di Colonia parla infatti di una anteriorità della potenza in eodem,
ossia (ριµ<" (cfr. 1049 b 19); è possibile perciò che egli abbia anti-
cipato un problema che lo Stagirita affronta nel capitolo 8, a propo-
sito dell’anteriorità dell’atto. Se è vero pertanto che si deve comin-
ciare con la nozione di potenza più nota, anche se meno utile, è evi-
dente che la spiegazione è plausibile; considerando infatti l’ordine
temporale in eodem, la potenza, in quanto nozione più evidente per
noi, precede l’atto.
Alberto continua: «Determinantes autem de potestate, primum
determinationis principium sumemus de potestate, quae maxime pro-
prie dicitur, licet non sit utilis, ad quod nunc intendere volumus, eo
quod doctrina non erit facilis, nisi ab ea incipiamus»23. Il significato
di potenza che intendiamo trattare, quello che concerne la filosofia
prima, non sarà di facile comprensione, si dice, se non inizieremo
assumendo il principio primo della definizione di potenza, sebbene
questo non sia utile per comprendere quel significato che vogliamo
indagare. È evidente che, al di là delle intenzioni di Alberto, si ri-
propone il problema già noto: si inizia da qualcosa che è più com-
prensibile per chiarire qualcosa che lo è di meno; se questo è vero,
allora bisogna ammettere che si passa da ciò che è più comprensibi-
le a ciò che lo è di meno; nel medesimo tempo, però, si dice che ciò
che è più comprensibile non è utile per la ricerca di ciò che è meno
comprensibile e, ulteriormente (lo si vedrà meglio tra poco), che ciò
che è meno comprensibile, ma che è il significato più essenziale, non
avvalendosi di ciò che è più comprensibile (l’inutile), non contribui-
sce a chiarirlo ma chiarisce solo sé stesso. Ancora in termini aristote-
lici: la potenza π πλον verrà chiarita quando si parlerà dell’atto;
l’atto è dunque la verità della potenza π πλον, ed esso non chia-
risce per nulla la potenza cinetica, la quale, si ribadisca ancora, subi-
sce questa strana sorte, ossia di offrire l’avvio alla ricerca ma di esse-
re poi abbandonata e di rimanere non chiarita, in quanto sia inuti-
lizzabile e non rientri nella definizione della potenza più autentica.

21 S. Alberti Magni metaphysicorum libri, in Opera omnia, ed B. Geyer, Monasterium We-


stfalorum in Aedibus Aschendorff 1964, XVI/2, p. 410, 46-47.
22 L’osservazione è di B. Bürke che ha curato l’edizione critica latina del commento di
Averroè a metaph. Θ. Il Bürke, in una delle appendici, confronta puntualmente l’esegesi aver-
roista con quella di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino; cfr. B. Bürke, Das neunte Buch
des lateinischen grossen Metaphysik-Kommentars von Averroes, Bern 1969, p. 123.
23 S. Alberti Magni metaphysicorum libri, XVI/2, p. 410, 47-52. Il corsivo è mio.

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È proprio questa la merkwürdige Methode che Heidegger tenta di


spiegare ricorrendo alla sottile distinzione tra ciò che è nicht dienlich
e ciò che è nicht brauchbar: la potenza cinetica è dienlich e da essa
si deve iniziare, ma è anche nicht brauchbar, perché non fa parte
della definizione della potenza più autentica.
Leggiamo ancora qualche passaggio tratto dalla Metafisica di Al-
berto Magno, dove sono evidenti sia le oscillazioni causate dalla dif-
ficoltà della tesi esposta da Aristotele, sia l’acuta soluzione offerta
dal pensatore di Colonia. «Potestas proprie est im materia mobili ad
formam, et haec est potentia physica, quae non est de nostra inten-
tione, eo quod entis particularis et non est entis, secundum quod est
ens; ut plus enim et secundum intentionem magis propriam est po-
tentia et actus in his solum quae secundum motum sunt, sicut dixi-
mus»24.
A proposito di questo passo si ponga attenzione a tre aspetti. In
primo luogo si osservi che anche Alberto individua nella materia
non ancora formata il primo significato di potenza; essa però appar-
tiene ad un ente particolare (quello mobile) e non all’ente in quanto
ente, sicché non è utile alla nostra ricerca. In secondo luogo si deve
notare, ed è significativo, che Alberto trasforma il maxime proprie
del testo in proprie e che, subito dopo, attribuisce alla potenza π
πλον una intentio magis propriam. È evidente che egli ha ben nota-
to la difficoltà: la potenza π πλον ha senza dubbio una intentio
magis propria rispetto alla potenza cinetica; di quest’ultima però Ari-
stotele afferma che si dice maxime proprie ed è evidente che non
può esservi qualcosa di ‘più proprio’ rispetto a ciò che ‘il più pro-
prio’; nell’esposizione di Alberto Magno, pertanto, il maxime proprie
diviene proprie e, rispetto ad esso, il magis proprie attribuito alla po-
tenza π πλον stabilisce una nuova gerarchia tra i due significati;
si inizia così dalla potenza proprie dicta che è senza dubbio la prima
che si incontri, dato il suo significato ‘proprio’ e consueto; in segui-
to, considerando il fatto che essa, appunto perché ‘propria’, è ri-
stretta ad una sfera particolare dell’ente, la si abbandona in quanto
sia non utile e si giunge alla potenza magis proprie dicta. Tuttavia, si
ribadisca, è il senso dell’‘abbandonare’ e del ‘giungere’ che non è
del tutto chiaro. In terzo luogo si noti che, secondo quel che Alber-
to Magno afferma in litera, la potenza e l’atto secundum intentionem
magis propriam sono soltanto in quelle cose che si dicono secondo il
movimento; come a dire: le nozioni di potenza e atto connesse al
movimento contengono già quelle non pertinenti soltanto al movi-
mento; il passaggio dalle une alle altre sarebbe così spiegato e sareb-
be spiegato anche perché si parta dalle prime; in questo senso, tutta-

24 Ivi, p. 410, 52-58. I corsivi sono miei.

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via, non si spiegherebbe più l’inutilità delle prime e, oltre tutto, la


continuità tra quelle e queste, paradossalmente, non consentirebbe
più il passaggio; si affermerebbe infatti: nella nozione di potenza
κατ# κ νησιν è già contenuta quella di potenza π πλον, pertanto
le due nozioni si identificano; perché allora la prima sarebbe inutile?
È forse proprio in virtù di tale qualificazione (l’inutilità) che Aristo-
tele vuole distinguere le due nozioni e, grazie alla distinzione, fonda-
re la possibilità del passaggio dall’una all’altra? Ma se così fosse, da
capo, come può la prima nozione essere inutile?
Per concludere a proposito del passo di Alberto Magno, si deve
comunque osservare che le parole «in his solum quae secundum
motum sunt» suonano strane e addirittura in contraddizione con la
tesi aristotelica e pertanto sono forse frutto di un indebito interven-
to sul testo della translatio media che dice inequivocabilmente: «plus
enim est potestas et actus solum dictis secundum motum», traduzio-
ne letterale del greco: π πλον γρ στιν + δναµις κα νργεια
τ"ν µνον λεγοµνων κατ# κ νησιν (1046 a 1-2). Se nella parafra-
si di Alberto si leggesse «et non solum in his», oppure se si soppri-
messe lo «in» che precede lo «his» (tali varianti non sono però atte-
state), quest’ultimo costituirebbe il secondo termine di paragone e si
riotterrebbe il senso più autentico: la potenza e l’atto significano di
più rispetto a queste nozioni che sono dette soltanto in relazione al
movimento.
Nei passaggi successivi Alberto Magno propone la sua soluzione:
Sed licet hoc non sit secundum nostram intentionem, quam habemus de ente lo-
quentes, secundum quod est ens, tamen loquendo de tali potestate in determinatio-
nibus et divisionibus, quibus de actu potentiam sequente dividentes determinabi-
mus, ostendemus etiam de aliis actibus ultimis qui sunt actus et principia veri entis,
quia, sicut diximus, vere ens est vere ens per actum ultimum. Haec igitur est neces-
sitas, quare oportet nos de potestate et actu loqui. Diximus enim, quod vere ens
est, ad quod refertur diffinitio; et haec est natura constituta ex potestate et actu,
nec materia est aliquid de esse vere entis, nisi prout per analogiam potestatis refer-
tur ad actum; actus etiam sive forma sive etiam differentia ultima, nisi accipiatur ut
actus, non est aliquid de esse25.

Si ribadisce di nuovo che nella trattazione concernente l’atto verrà


chiarito il significato più esteso di potenza; si noti però che Alberto
Magno intende senz’altro come actus ultimi ciò che nella traduzione
che egli legge è nominato soltanto con l’espressione de aliis. La tran-
slatio media rende alla lettera: «sed dicentes de ea, in determinatio-
nibus de actu ostendemus et de aliis», la proposizione: (λλ&
ε)πντες περ τατης ν το,ς περ τ0ς νεργε ας διορισµο,ς
δηλ-σοµεν κα τερ τ"ν ?λλων (1046 a 2-4); dove è da notare che
con περ τατης (de ea) Aristotele si riferisce alla potenza non utile,

25 Ivi, pp. 410, 58-411, 5.

443
Antonello D’Angelo

e con περ τ"ν ?λλων (de aliis) al significato più esteso della po-
tenza e dell’atto. Alberto, invece, con una forzatura credo del tutto
giustificata, intende che l’intero procedimento abbia la sua verità
nell’atto, in modo che quegli «altri» significati della potenza e del-
l’atto siano ricompresi senz’altro nell’atto. Rimane ancora aperta la
questione concernente il perché si cominci dalla potenza non utile,
e, a tal proposito, la prima parte del passo di Alberto non offre al-
cun chiarimento. Egli infatti afferma: sebbene non corrisponda alla
nostra intenzione (che è quella di ragionare intorno all’ente vero),
tuttavia parliamo di questa potenza (quella non utile) e ne parliamo
nelle distinzioni che riguardano l’atto; ma queste chiariscono gli altri
atti ultimi e non la potenza non utile. Fin qui, pertanto, non si evi-
denzia niente di nuovo. Nella seconda parte del passo, invece, si in-
travede una soluzione: l’ente vero è quello al quale è riferita la defi-
nizione, ed essa è costituita per natura dalla potenza e dall’atto, os-
sia dal genere e dalla differenza; si aggiunga che la materia non è
qualcosa che riguardi l’ente vero se non per il fatto che, per analo-
gia con la potenza, si riferisce all’atto. Torna la tesi già nota: il signi-
ficato più comune della potenza è la materia la quale non si riferisce
all’ente in quanto ente. Possiamo considerare la materia come perti-
nente all’ente vero soltanto per analogia con la potenza, la quale a
sua volta si riferisce all’atto (che è l’ente vero). È dunque la potenza
intesa come essere-in-potenza (non la potenza fisica che è la mate-
ria) che, in quanto sia ordinata all’atto, riguarda la filosofia prima.
Anche l’atto, quand’anche sia inteso come forma o come differenza
ultima, è qualcosa che appartiene all’ente vero soltanto se sia inteso
come atto, ovvero come perfezione d’essere. E se la differenza ulti-
ma è intesa come atto, da ciò risulta che procede dalla potenza così
come la perfezione dall’incoazione e così come il definiente da ciò
che è indistinto e incapace di definire26. «Et haec potestas sic accep-
ta ut confusa nihil diffiniens est huic intentioni primae philosophiae
propria, licet propter doctrinae facilitatem inchoemus a physica po-
testate»27. In tal modo sembra che la spiegazione sia completa: la
potenza propria della filosofia prima non è la materia, bensì quell’es-
sere non ancora in atto o quell’elemento della definizione che anco-
ra non definisce, i quali concernono l’ente vero in quanto si riferi-
scano all’atto. La materia è la potenza fisica, il principio del movi-
mento, il Vermögen del quale parlano lo Schwegler e il Bonitz; la
potenza della filosofia prima è invece l’essere-in-potenza, la Möglich-
keit.
Dall’interpretazione di Alberto Magno sembra risultare chiaro

26 Ivi, p. 411, 7-11.


27 Ivi, p. 411, 11-14.

444
Heidegger e Aristotele

perché Aristotele, mediante la sola nozione di atto, intenda render


nota anche quella di potenza ‘metafisica’; la potenza è tale per l’atto;
le due nozioni in un certo senso si identificano, in quanto, come af-
ferma Alberto, la definizione (che si riferisce all’ente vero e lo rende
noto) sia un discorso unitario; eppure le due nozioni sono diverse,
giacché il medesimo ente è considerato una volta secondo la potenza
e una volta secondo l’atto. La spiegazione di Alberto può inoltre
contribuire a risolvere anche l’altra difficoltà; perché, cioè, si comin-
ci dalla potenza fisica e perché si dica che questa non è del tutto
utile allo scopo che ci si prefigge. La potenza fisica, in virtù del-
l’analogia con la potenza metafisica, può anche essa riguardare l’ente
vero; la potenza metafisica però pertiene all’ente vero in quanto sia
ordinata all’atto; quest’ultimo è la verità dell’intero processo: esso
invera e conduce all’atto la potenza metafisica, giacché questa è ri-
compresa nella definizione e ne costituisce un elemento; la potenza
fisica, pur non rientrando nella definizione dell’altra potenza, è tut-
tavia, come si è detto, potenza per analogia a questa: non è allora
‘utilizzabile’ nella definizione della vera potenza (che è l’ordinamen-
to all’atto) ma ci può consentire, mediante l’analogia, l’accesso ad
essa.
Prima di esaminare le singolari osservazioni di Averroè, sarà op-
portuno accennare al commento di Tommaso d’Aquino che può
aver esercitato qualche influsso su Heidegger.
L’Aquinate considera l’ordine delle cose sensibili e materiali e
quello delle intelligibili. Heidegger non prende in considerazione
questa differenza, anzi afferma in modo esplicito che anche nella po-
tenza π πλον il movimento è sempre in questione, sebbene non
κατ# κ νησιν. Tuttavia, è a proposito della tesi che la ricerca κατ#
κ νησιν sia preparatoria a quella κατ# κιν*σεως che forse si può
rinvenire un influsso tomistico su Heidegger. Tommaso afferma che
si deve cominciare dalla potenza fisica, «dato che le realtà sensibili
che sono in movimento, sono a noi più note». Egli, inoltre, non ha
alcun dubbio che «mediante queste giungiamo alla conoscenza delle
sostanze delle realtà immobili»28. Il punto in cui la posizione heideg-
geriana sembra divergere maggiormente da quella di Tommaso è
proprio quello che riguarda la separazione (ma anche la continuità)
tra le realtà sensibili e in movimento e quelle soprasensibili e immo-
bili. Heidegger non pone né separazione né continuità tra i due or-

28 S. Thomae Aquinatis in duodecim libros metaphysicorum Aristotelis expositio, ed. Catha-


la-Spiazzi, Taurini 19773, § 1771: «Sed cum dixerimus de potentia, quae est in rebus mobili-
bus, et de actu, ei correspondente, ostendere poterimus et de potentia et actu secundum quod
sunt in rebus intelligibilibus, quae pertnent ad substantias separatas, de quibus postea agetur.
Et hic est ordo conveniens, cum sensibilia quae sunt in motu sint nobis magis manifesta. Et
ideo per ea deveniemus in cognitionem substantiarum rerum immobilium».

445
Antonello D’Angelo

dini per il fatto che non pone alcuna dualità di ordini. Egli vede
bensì che in Aristotele non si passa dalla potenza secondo il movi-
mento alla potenza π πλον, ma tale assenza di passaggio non im-
plica una separazione di ordini che debba essere in qualche modo
colmata. Il filosofo tedesco non esclude comunque che la potenza
π πλον abbia un rapporto con il movimento.
E a tal proposito si può fare una considerazione di carattere più
generale. Nel saggio Vom Wesen und Begriff der φσις (composto
nel 1939) Heidegger afferma che la Fisica aristotelica è «il libro fon-
damentale della filosofia occidentale». E, anche se egli ritiene tanto
che la ‘fisica’ sia ‘metafisica’ quanto che questa sia quella, sembre-
rebbe evidente che voglia assegnare proprio alla ‘fisica’ una sorta di
primato. La ‘fisica’, però, considera l’ente in movimento, pur non
considerando il movimento in quanto ente, bensì l’essere del movi-
mento (ciò che Heidegger chiama la Bewegtheit). Il movimento è co-
munque connesso alla δναµις; che in una certa fase del suo pensie-
ro, alla quale appartiene la Vorlesung su metaph. Θ, Heidegger ten-
da ad affermare il primato della potenza sull’atto, sembrerebbe evi-
dente. Da questo punto di vista, pertanto, è anche chiaro perché
egli non prenda in considerazione la differenza tra l’ordine delle
realtà mobili e quello delle realtà immobili, ma tenda ad interpretare
il significato più esteso di potenza come anch’esso relativo in qual-
che modo al movimento, anche se il movimento stesso è posto in
questione dal punto di vista ontologico e non ontico. In questo sen-
so Heidegger è autenticamente antitomista e antimetafisico, cioè nel
rifiutare la separazione tra il temporale e l’eterno, separazione che
poi la metafisica intende ricomporre mediante la fondazione del
temporale da parte dell’eterno o mediante l’analogia tra i due ordini.
Quel che può apparire singolare è però il fatto che, proprio nel sag-
gio sulla φσις, ossia là dove, come si è accennato, Heidegger tende
ad attribuire un primato alla ‘dinamicità’ rispetto alla ‘staticità’ del-
l’essere inteso (metafisicamente) come semplice presenza, può appa-
rire singolare, si diceva, che in questo scritto egli sembri riaffermare
il primato dell’atto. È ovvio (ma forse non troppo) che con
νργεια o ντελχεια Heidegger non intende l’actualitas e dunque
né la semplice presenza né la ‘fine’ del movimento, bensì «l’aversi-
nella-fine», nel quale la ‘fine’ non è da intendersi «come cessazione
del movimento, ma come inizio della motilità, come mantenimento
riprendente il movimento» («‘Ende’ nicht Folge des Aufhörens der
Bewegung, sondern Anfang der Bewegtheit als auffangendes Auf-
behalten der Bewegung», cfr. Vom Wesen und Begriff der φσις,
Wegmarken, Frankfurt am M. 19782 p. 282). È comunque vero che
l’νργεια così come il filosofo tedesco la intende ha una forte so-
miglianza con la potenza attiva della Scolastica, potenza che, per il
fatto stesso che agisce, è in atto, anche se può astenersi dall’agire. Il

446
Heidegger e Aristotele

primato della δναµις sarebbe così di nuovo ristabilito e non più


‘contro’ la tradizione. In merito a questo, però, si dovrà dire più in
dettaglio in un’altra fase della ricerca, sottoponendo tali affermazioni
generali alla verifica dei testi e analizzando altresì l’interpretazione
heideggeriana della vis activa in Leibniz.
Torniamo a Tommaso d’Aquino e notiamo che una convergenza
con le sue tesi Heidegger sembra rivelarla, ed è una convergenza a
ben vedere strana, in quanto cioè risulti in un certo senso dalla diver-
genza stessa. L’Aquinate ammette un passaggio tra la potenza e l’atto
secondo il movimento e la potenza e l’atto delle realtà immobili, pas-
saggio concepibile anche tenendo ferma la separazione tra i due ordi-
ni; si inizia comunque dalle prime perché a noi più note e si giunge
alle seconde, più note per natura. L’analisi della potenza e dell’atto
secondo il movimento è dunque preparatoria. Anche Heidegger affer-
ma esplicitamente questo e aggiunge che forse la potenza secondo il
movimento è più nota per noi. Egli pertanto vede una qualche conti-
nuità nella trattazione aristotelica e per questa ragione tende ad inter-
pretare, si ricordi, l’espressione ο χρησ µη non come «inservibile»
ma come «non utilizzabile». Senonché egli vede anche una separazio-
ne non componibile, la medesima, in fondo, che Tommaso pone tra
le realtà temporali e quelle eterne. L’Aquinate però trova che il meto-
do aristotelico, secondo il quale si indagano prima le realtà sensibili e
poi quelle soprasensibili, sia legittimo e fondato; Heidegger invece lo
giudica «sorprendente». Egli pertanto, come si è detto non rinviene
né corrispondenza né passaggio dalla potenza κατ# κ νησιν a quella
π πλον, né analogia tra ciò che è temporale e ciò che è eterno,
dato che, tra l’altro, la separazione tra il temporale e l’eterno appar-
tiene del tutto alla ‘metafisica’ ed è semmai ‘fondata’ nella temporali-
tà autentica; egli lascia comunque intendere che può essere proficuo
cominciare da ciò che è noto per noi; non è dunque per nulla chiaro
come Heidegger venga a capo della questione.
Concludiamo in breve su questa parte del commento di Tommaso
d’Aquino. Egli avverte senza dubbio qualche difficoltà, tanto è vero
che cita un’altra traduzione, anche questa interpretata tuttavia in
continuità con la tesi già esposta; «Ex quo etiam apparet sensus alte-
rius literae quae sic habet, ‘et quidem potentia quae dicitur proprie,
non solum utilis est ad quod volumus nunc’29: quia, licet potentia
quae est in rebus mobilibus maxime proprie dicatur, non tamen hoc
solum dicitur potentia, ut dictum est. Et utilis est ad praesentem in-
tentionem, non quasi de ea principaliter intendatur, sed quia per
eam in alias potentias devenimus»30. Notiamo che la alia litera dice

29 Guglielmo di Moerbeke traduce: «Et primum de potentia quae dicitur quidem maxime
proprie, non tamen utilis est ad quod volumus nunc».
30 S. Thomae Aquinatis in metaph. expositio, § 1772.

447
Antonello D’Angelo

proprie e che Tommaso espone usando maxime proprie che compare


nella versione di Guglielmo di Moerbeke. Inoltre, sempre nella alia
litera, troviamo solum anziché tamen. La traduzione allora significhe-
rebbe: invero la potenza che si dice in senso proprio, non solo que-
sta (oppure, non solo per questo, ossia per il fatto che si dice in
senso proprio) è utile per quel che ora vogliamo trattare. Il senso di
non utilis è relativizzato: non è del tutto utile ma sotto un certo
aspetto lo è. Tommaso allora osserva: sebbene la potenza che è nelle
realtà mobili si dica nel senso più proprio, tuttavia non solo questa
si dice potenza; ed essa è sì utile alla nostra indagine ma non perché
ci si occupi principalmente di essa, bensì perché per il suo tramite
perveniamo all’altro significato. E questo che Heidegger intende
quando afferma che ci serviamo della potenza cinetica ma non la uti-
lizziamo nella definizione dell’altra? E, più in generale, questo signi-
fica forse che la ricerca concernente la potenza cinetica è finalizzata
al chiarimento dell’altra? Tali interrogativi si ripropongono in modo
stringente nell’esordio del capitolo 6, al quale fra poco faremo cen-
no. Si vedano ora le spiegazioni di Averroè, anche se non ci sono di
alcun aiuto per Heidegger. E si osservi innanzi tutto che la traduzio-
ne utilizzata dal Commentator non è fedele al testo: «Et [scil. loque-
mur] de potentia primo et quod dicitur magis vere, non illud quod
non est utilis in hoc quod volumus nunc»31. Questa traduzione sem-
bra significare il contrario rispetto all’originale: e trattiamo in primo
luogo della potenza e di ciò che si dice nel senso più vero, non di
ciò che non è utile per quello che ora vogliamo32. Averroè sarebbe
stato disorientato dalla traduzione errata (cfr. la nota 32) e si sareb-
be perciò limitato ad affermare: «Et primo incipiamus distinguere,
secundum quot modos distinguitur potentia et actus, et declarare,
quis eorum dicitur vere et quis transumptive»33. Transumptive corri-
sponde a >µωνµως; per il Commentator, dunque, la contrapposi-
zione è tra la potenza in senso autentico e quella in senso omonimo;
sarebbe questa quella inutile e evidentemente del tutto inutile. Ora,
che le potenze dette per omonimia non siano per nulla utili, lo pro-
va il fatto che Aristotele, come si è accennato, afferma di volerle tra-
lasciare. Sembra pertanto che Averroè anticipi la questione riguar-
dante le potenze omonime, che pur egli affronterà poco dopo, quan-
do essa compare in modo esplicito nel testo aristotelico. È vero dun-

31 B. Bürke, Das neunte Buch des latinischen großen Metaphysik-Kommentars von Averroes,
cit., textus 1, p. 25, 7-9.
32 Il Bürke, op. cit., afferma che il testo è incomprensibile e che Averroè non ha notato la
difficoltà di intenderlo. Lo studioso propone poi, non notando egli stesso il problema filosofi-
co che si cela dietro l’incomprensibilità del testo, di sostituire «non illud quod» con
«quamquam», così da ristabilire il significato originario: «Obwohl das keinen Nutzen bietet
für unser gegenwärtiges Vorhaben».
33 Comm. 1, p. 26, 27-29 (cito sempre dall’ediz. Bürke).

448
Heidegger e Aristotele

que che il Commentator è fuorviato dalla traduzione errata che ha


sotto gli occhi; è pur vero comunque che la sua esegesi non è sol-
tanto ‘fuorviata’ o ‘fuorviante’, e che merita perciò attenzione, poi-
ché probabilmente centra in modo molto stringente il problema filo-
sofico di cui ci stiamo occupando Si osservi: la potenza cinetica è
omonima alla vera potenza, oppure, al contrario, la vera potenza è
quella cinetica mentre l’altra è omonima ad essa. Anche se l’inter-
pretazione è estranea alla lettera del testo aristotelico, la si tenti
ugualmente. Le due potenze sono dunque omonime; e supponiamo
che la vera potenza sia quella ‘metafisica’ (anche se dal testo di
Averroè si può desumere che la potenza vera sia quella per transmu-
tationem, e notando altresì che sul piano dell’omonimia non si può a
rigore affermare che un omonimo sia più ‘vero’ dell’altro); si comin-
cia tuttavia dalla potenza ‘fisica’. Si ripropone il problema: perché si
parla prima di ciò che è inutile e come si passa dall’inutile all’utile?
Tra gli omonimi, in verità, non vi è alcun passaggio, dato che essi
rappresentano sotto un nome unico nature completamente diverse34.
Su questo piano, pertanto, il ragionamento potrebbe tornare: non si
dà passaggio da un significato di potenza all’altro, e quello inutile
viene semplicemente tralasciato oppure considerato solo in quanto
omonimo. Come se, per esempio, si cominciasse ad esaminare il pri-
mo significato del nome ‘cane’ (animale latrante), riscontrando tutta-
via che questo significato non serve allo scopo che ci prefiggiamo,
poiché per tale scopo il significato utile è ‘cane’ nel senso della co-
stellazione; lo scopo primario, in questo caso, può essere una tratta-
zione di astronomia anziché di zoologia. Delle potenze omonime,
però, Aristotele dice che debbono essere tralasciate, mentre della
potenza fisica afferma che deve essere indagata; un passaggio tra i
due significati di potenza deve pertanto essere consentito. La que-
stione avrebbe bisogno di un approfondimento che è impossibile
dare in questa sede. Ricordiamo soltanto che l’interpretazione aver-
roista ha una fonte avicenniana e che, più in generale, Averroè ten-
de, in alcune movenze del suo pensiero, a connettere per omonimia
e non per analogia la realtà sensibile e quella soprasensibile; basti ri-
cordare la sua concezione della scienza divina e di quella umana,
che sarebbero ‘scienza’ soltanto aequivoce35.

34 Questa tesi trova riscontro, pur se in un contesto completamente diverso, in J.D. Scoti
quaest. super metaph., liber IV, q. 1, nn. 1-3 (Opera omnia, VII, Parisiis 1893, pp. 145-47),
dove si escludono, a proposito degli equivoci, la contraddizione, la conseguenza e il paragone.
35 Sulla questione, di enorme portata, conto di tornare in un’altra occasione. Cfr. comun-
que il commento di Averroè a metaph. Λ 9, in Aristotelis opera cum Averrois commentariis,
VIII, Venetiis 1562-74, unv. Nachdruck Frankfurt am M. 1962, comm. 51, f. 337r. Che lo ae-
quivoce riferito alle scienze divina e umana sia da intendersi, proprio nel contesto averroista,
piuttosto come analogice, è opinione sostenuta da Ph. W. Rosemann, Νησις νοσεως und
TAcAQQUL AT-TAcAQQUL. Das Aristotelische Problem der Selbstbezüglichkeit des un-

449
Antonello D’Angelo

Le difficoltà che ci stanno impegnando si ripresentano all’inizio di


metaph. Θ 6; prima di vedere questo testo, tentiamo di stabilire qual-
che punto fermo. C’è una potenza attinente solo al movimento e
un’altra di significato più esteso ma che con il movimento ha in qual-
che modo a che fare. La prima è principio di movimento, l’altra è un
essere-in-potenza e dunque non ancora in atto. La nozione di atto,
dice Aristotele, chiarirà questo secondo significato e non il primo. In
che senso il secondo significato di potenza può aver a che fare con il
movimento? Non perché in questo caso il movimento sia prodotto o
subìto ma perché probabilmente, nel ‘non ancora’ che necessariamen-
te le appartiene, la potenza metafisica è anch’essa caratterizzata da un
tendere all’atto; ed è chiaro che ciò che tende in qualche modo si
muove, anche se può starsene in quiete. In tal caso è forse in questio-
ne il movimento ο κατ# κ νησιν come afferma Heidegger? Si dovrà
notare che, anche nel caso della potenza fisica, ciò che produce o rice-
ve il movimento non si muove, né a rigore si muove il movimento
stesso. E ulteriormente si dovrà osservare che ciò che produce o rice-
ve il movimento (la potenza nel primo senso) è o non è in potenza nel
secondo senso; l’arte medica, per esempio, ossia la capacità di produr-
re la guarigione è o in potenza o in atto; ma è evidente che la vera arte
medica, per produrre il movimento verso la guarigione, deve essere in
atto; un medico in potenza, infatti, è ‘non ancora’ medico36. L’atto è
in questo senso la ragion d’essere anche della potenza cinetica.

Leggiamo allora l’esordio del capitolo 6. Heidegger nella Vorle-


sung non lo prende in considerazione in modo analitico ma vi ac-
cenna soltanto37.

&Επε δ1 περ τ0ς κατ# κ νησιν λεγοµνης δυνµεως εBρηται,


περ νεργε ας διορ σωµεν τ τ στιν + νργεια κα πο,ν τι.
κα γ#ρ τ δυνατν Cµα δ0λον 8σται διαιροσιν, =τι ο µνον
τοτο λγοµεν δυνατν  πφυκε κινε,ν ?λλο D κινε,σαι Eπ&
?λλου D :πλ"ς D τρπον τιν, (λλ# κα @τρως, δι ζητοντες
κα περ τοτων δι*λοµεν (1048 b 25-30).

Tentiamo una traduzione:


Dopo aver parlato della potenza intesa secondo il movimento, definiremo, per
quel che concerne l’atto, che cosa esso sia e stabiliremo quali siano le sue proprietà.
E infatti determinando la nozione di atto, risulterà chiaro insieme ciò che è in po-

bewegten Bewegers in der Kommentierug Ibn Rusds, in «Zeitschritt für phil. Forschung», XL
(1986), pp. 543-61. La tesi del Rosemann, a mio avviso non del tutto convincente, merita tut-
tavia un’attenzione che non è possibile darle in questa sede.
36 Cfr. per esempio Plot. enn. II V 1: ο γ#ρ + δναµις + κατ# τ ποιε,ν λαµβανοµνη
λγοιτο 2ν δυνµει.
37 HGA XXXIII, p. 55.

450
Heidegger e Aristotele

tenza, in quanto diciamo ‘in potenza’ non solo ciò che per natura muove altro o è
mosso da altro (sia in senso semplice sia ‘in qualche modo’), ma anche in una ma-
niera diversa; perciò, nel corso di questa ricerca si deve trattare anche di questo ul-
teriore significato.

Il passo è in sintonia con quanto si dice nel capitolo 1, tranne che


per quel che riguarda l’ultima frase (δι ζητοντες κα περ
τοτων δι*λοµεν), della quale si è data qui una versione diversa
dalle altre traduzioni contemporanee e in linea invece con quelle
medioevali e rinascimentali (e i relativi commenti), che pur si disco-
stano dalla lettere del testo. Aristotele afferma di passare, secondo il
programma stabilito, all’indagine che riguarda l’atto; sulla base di
tale trattazione risulterà chiaro anche un altro significato di potenza,
quello cioè per il quale τ δυνατν non è soltanto connesso al mo-
vimento ma ha un’accezione diversa (@τρως). A questo punto si
tende ad interpretare e a tradurre la proposizione conclusiva del
passo (δι ζητοντες κτλ.) in questo modo: perciò ricercando que-
sto significato (quello diverso), trattammo anche degli altri. Questa
interpretazione è in evidente contrasto con quanto Aristotele ha af-
fermato nel capitolo 1. Se infatti il significato dal quale si inizia non
è utile, non si può poi dire «perciò per ricercare il significato diver-
so abbiamo trattato anche dell’altro (ossia di quello inutile)», poiché
in tal modo si finalizzerebbe l’esame del primo significato a quello
del secondo e pertanto si dovrebbe ammettere che il primo è bensì
utile. Che vi sia un rapporto di continuità e di finalità tra le due
parti della ricerca, è ricavabile da quanto afferma lo Pseudo Alessan-
dro: «Perciò, dice, ricercando tale diversa nozione di ciò che è in
potenza, abbiamo trattato anche di queste altre realtà in potenza che
per natura muovono o sono mosse, quasi che d’ora in poi sia chiara
anche quella nozione»38. Se questo è vero, perché si insista, il primo
significato è stato qualificato come inutile? Ferme restando le spie-
gazioni viste, tendiamo ancora a mantenere il contrasto, notando
però che del passo citato dal capitolo 6 è possibile dare un’altra in-
terpretazione. Innanzi tutto il περ τοτων di 1048 a 30 può essere
riferito non alla potenza cinetica bensì proprio all’altra, connettendo
pertanto l’espressione all’avverbio @τρτων. Se questo è vero, però,
costituisce un problema l’aoristo δι*λοµεν; non avrebbe senso in-
fatti dire «abbiamo trattato anche di questi significati più estesi»,
giacché tale indagine deve ancora avvenire. A questo punto è signifi-
cativo notare che Guglielmo di Moerbeke traduce δι*λοµεν con il
futuro superveniemus, correggendo la translatio media che ha tracta-

38 Alex. Aphrod. in Arist. metaph. p. 578, 30-32: δι ζητοντες, φησ , περ το
τοιοτου το κα τρως δυνατο λεγοµνου δι*λοµεν κα περ τοτων τ"ν δυνατ"ν
τ"ν πεφυκτων κινε,ν D κινε,σαι, Gς ντεεν σοµνου κ(κε νου δ*λου.

451
Antonello D’Angelo

vimus (e vedremo ora sia il commento di Tommaso sia quello di Al-


berto Magno). Anche il Bessarione usa il futuro tractabimus39; inol-
tre, Giovanni Genesio Sepulveda, che traduce in latino il commento
di Alessandro, rende con disseremus, tanto da far supporre allo
Hayduck, editore del commento alessandrino, che ci possa essere
una lezione διλωµεν (aoristo congiuntivo) accanto a δι*λοµεν
(aoristo indicativo), lezione che tuttavia nel testo di Alessandro non
ha molto senso40. In Aristotele la lezione διλωµεν non è attestata
ma può tuttavia avere senso; la frase si potrebbe infatti intendere
così: «perciò nel corso della ricerca trattiamo pure [o «tratteremo»]
di questi ulteriori significati». Questa interpretazione che non ha ri-
scontro nei contemporanei, è quella verso la quale propendono
Tommaso d’Aquino e Alberto Magno41. Si veda il primo «Licet
enim nomen actus a motu originem sumpserit, ut supra dictum est,
non tamen solum motum dicitur actus; unde nec dicitur solum pos-
sibile in ordine ad motum. Et ideo oportet inquirendo de his tracta-
re»42. L’atto così come la potenza, dice Tommaso, non sono connes-
si soltanto al movimento; pertanto nella presente ricerca (inquirendo)
si deve trattare anche dei significati che vanno oltre il movimento;
dove è evidente che «de his» si riferisce proprio ai significati ulterio-
ri e che «oportet tractare» parafrasa il «superveniemus» della tradu-
zione di Guglielmo di Moerbeke. In Alberto Magno la faccenda as-
sume un aspetto ancora più singolare; la translatio media infatti,

39 Cfr. Aristotelis opera, ed. I. Bekker, Berlin 1831, III, p. 513 b.


40 Cfr. Alex. Aphrod. commentaria in duodecim Aristotelis libros de prima Philosophia, inter-
prete Ioanne Genesio Sepulveda Cordubensi, Venetiis 1561, p. 236 a 10: «Disserentes ergo de
actu, illud quoque aperiemus, non id modo possibile nuncupari, quod aliud movere potest, vel
ab alio moveri, sed etiam alio modo dici possibile, quare disputantes, inquit, de hoc quod aliter
possibile dicitur, de aliis quoque disseremus quae movere et moveri possunt, quasi ex hoc illud
sit in aperto futurum» (il corsivo è mio). È evidente che questa traduzione rovescia il senso del
passo di Alessandro e inverte l’ordine tra l’indagine ‘passata’ e quella ‘futura’. Alessandro infatti
afferma: «ricercando la potenza ‘diversa’ abbiamo trattato anche di quella cinetica». Secondo la
traduzione del Sepulveda invece si verrebbe a dire: «discutendo della potenza ‘diversa’, ossia sul
fondamento di questa, sarà chiaro anche il senso di quella cinetica».
41 Lo Schwegler, per esempio, traduce: «Wir haben desshalb auch hierüber gehandelt». Il
Rolfes: «... sondern daß man den Begriff auch noch anders nimmt. Dann haben wir auch, hier-
nach suchend, das bisherige erörtet». Anche le traduzioni inglesi mantengono il tempo passato.
Una sfumatura diversa è nel Tricot: «... mais qu’il présente encore un autre sens, sens qui est
l’objet véritable de la recherche, au cours de laquelle nous avons discuté aussi ces précédentes
significations». È evidente che il traduttore francese ha avvertito la difficoltà ed ha eliminato il
«perciò», attenuando il senso ‘forte’ della proposizione. Il Reale, infine, intende il participio
ζητοντες senz’altro come una finale: «ed è proprio per ricercare questo significato che abbia-
mo trattato anche degli altri». E in nota commenta: «È chiaro perché Aristotele dica di aver
trattato dei primi significati di potenza e di atto solo in funzione dei secondi: infatti, i primi
hanno più interesse fisico, i secondi più metafisico. L’atto nel secondo significato – vedremo –
sarà applicabile anche agli enti immobili (Dio e le sostanze motrici delle sfere celesti), cioè a
quelle sostanze verso le quali tutta quanta la ricerca metafisica è diretta». Secondo questa spie-
gazione, è evidente, va del tutto perduto il senso di «inutilità» della potenza cinetica ai fini del-
l’indagine che riguarda la potenza metafisica.
42 S. Thomae Aquinatis in metaph. expositio, § 1824.

452
Heidegger e Aristotele

come si accennava, traduce usando il passato: «quapropter quaeren-


tes et de his tractavimus». Alberto però nell’esposizione trasforma il
perfetto in futuro: «Propter quod quaerentes de actu, tractabimus
etiam de his de quibus potentia aliis et diversi, modis dicitur»43.

Si deve ora parlare della questione che riguarda ciò che è


πρτερον πρς +µHς. Si ricorderà che Heidegger vi fa cenno, chie-
dendo se il procedimento aristotelico nell’indagare il primo significa-
to di potenza possa ricordare quello per il quale si comincia da τ#
+µ,ν γν-ριµα. Viene citato metaph. Z 3, dove l’espressione usata dal-
lo Stagirita è τ# δ& @κστοις γν-ριµα (1029 b 8). Heidegger non va
oltre qui nella discussione di questo punto, ma non c’è dubbio che la
questione sia piuttosto rilevante, sia nel presente contesto, anche se
non in modo molto esplicito, sia in modo invece più evidente in Sein
und Zeit. È stato infatti sostenuto, e con pertinenza, che la formula-
zione heideggeriana concernente la «vicinanza» ontica e la «distanza»
ontologica del Dasein (cfr. Sein und Zeit, §§ 5 e 44b) ricorda quella
aristotelica riguardante ciò che è primo per noi e ciò che è primo per
natura44. In Sein und Zeit, come è noto, una delle ragioni di tale dop-
pio aspetto del primato ontico-ontologico del Dasein sta nel fatto che
esso «tende a comprendere il proprio essere in base all’ente a cui si
rapporta in linea essenzialmente costante e innanzitutto, cioè in base
al ‘mondo’»45. «Mondo» è qui inteso come concetto ontico, ossia in
quanto costituisca la totalità degli enti non conformi al Dasein46.
Si comincia dunque dal Dasein in quanto sia onticamente
πρτερον πρς +µHς; tale vicinanza per noi (e lontananza per natu-
ra), però, in quanto sia connessa alla quotidianità che è anche deca-
dimento, è lontananza per noi e vicinanza per natura. Sembra che il
concetto stesso di «esistenza» costituisca il ‘luogo’ dove si insedia sia
la vicinanza per noi (che è lontananza per natura) sia la lontananza
per noi (che è vicinanza per natura)47. Questo avviene perché l’esi-
stenza per un verso è inevitabilmente semplice presenza, mentre per
un altro verso è autentica esistenza, ovvero il modo di essere pro-
prio del Dasein. L’esistenza, pertanto, è sia la actualitas (Wirklich-
keit), dell’ontologia tradizionale, sia la potentialitas (Möglichkeit, ma
sarebbe più esatto dire Vermögen) dell’ontologia heideggeriana, con
la precisazione che ora con potentialitas non si deve intendere, come
nell’ontologia tradizionale, un modo di essere subordinato alla actua-

43 S. Alberti Magni metaphysicorum libri, XVI/2, p. 420, 11-12.


44 Cfr. E. Kettering, Nähe. Das Denken M. Heideggers, Pfullingen 1987, pp. 103-04.
45 Cfr. Sein und Zeit, Tübingen 197613, p. 15.
46 Cfr. E. Kettering, op. cit., p. 102 nota 2.
47 Cfr. F.-W. von Herrmann, Hermeneutische Phanomenologie des Daseins. Eine Erläute-
rung von ‘Sein und Zeit’, I, Frankfurt am M. 1987, p. 155.

453
Antonello D’Angelo

litas, né connotato, rispetto a quest’ultimo, da una ‘imperfezione’. È


evidente altresì che Heidegger non pone semplicemente da parte il
concetto tradizionale di esistenza ma intende ‘distruggerlo’ secondo
il metodo noto.
Sarà opportuno ricostruire nelle grandi linee il contesto aristoteli-
co che fa da sfondo alle formulazioni heideggeriane, tenendo presen-
te che la questione va vista su due piani, quello, cioè, di Sein und
Zeit, che ci interessa meno in questo contesto ma che è probabil-
mente più importante, e quello della Vorlesung su metaph. Θ, dove
il procedimento aristotelico è ricordato in modo esplicito ma di
sfuggita. In Aristotele la differenza tra ciò che è primo per noi e ciò
che lo è per natura presenta aspetti problematici e quasi contraddit-
tori; si farà riferimento, per illustrarlo in breve, soltanto a tre testi,
che tuttavia rendono palesi le difficoltà. Si tratta di phys. A 1, 184 a
16-24; an post. A 1, 71 b 33-72 a 5; metaph. Z 3, 1029 b 3-12.
In phys. A 1, 184 a 16-24, Aristotele afferma che si deve procede-
re da ciò che è più conoscibile e chiaro per noi a ciò che lo è per
natura o in senso semplice (:πλ"ς), dato che i due ordini non si
identificano. Ciò che è più chiaro per noi (e meno chiaro per natu-
ra) è qui indicato come τ# συγκεχυµνα, confusa nella traduzione
latina, ossia ciò che è mescolato insieme, o ancora l’insieme delle
cose, al quale si contrappongano gli elementi (στοιχε,α) e i principi
((ρχα ). La contrapposizione è ulteriormente indicata come quella
che sussiste tra =λον e µρη, e, ancora, tra universale e particolare:
lo =λον, che è καλου, è più conoscibile per la sensazione (κατ#
τ3ν αBσησιν).
Tommaso d’Aquino, nel suo commento48, nota che le cose più note
per natura sono quelle che «plus habent de entitate», giacché qualco-
sa è conoscibile in quanto è un ente; ma a maggior titolo sono enti
quelli che più sono in atto. Dato che però noi procediamo, nell’intel-
lezione, dalla potenza all’atto, e la nostra conoscenza inizia dalle cose
sensibili che hanno materia e che sono intelligibili in potenza, per
questa ragione ciò che è materiale e potenziale ci è più noto rispetto a
ciò che non ha materia ed è atto puro. Ora, ciò che è confusum con-
tiene «aliqua in potentia et indistincte»; e l’universale, in effetti, con-
tiene in potenza e in modo indistinto le specie e le differenze; cono-
sciamo dunque prima l’animale in generale rispetto all’uomo e al ra-
zionale, giacché questi ultimi sono attualizzazioni di ciò che nel gene-
re ‘animale’ è contenuto solo in potenza. Secondo questo primo
aspetto, allora, ciò che è più noto per noi è ciò che è sensibile, mate-
riale, universale e potenziale, mentre ciò che è più noto per natura ha

48 S. Thomae Aquinatis in octo libros physicorum Aristotelis expositio, ed. P.M. Maggiòlo,
Taurini/Romae 1965, § 7.

454
Heidegger e Aristotele

caratteristiche opposte: pertiene al logos, non ha materia, è particola-


re ed è in atto. Se questo è vero, allora un aspetto della tesi heidegge-
riana è del tutto simile ad un aspetto di quella aristotelica: ciò che vi
è di più individuale, ciò che noi stessi sempre siamo (la Jemeinigkeit
del Dasein), ci è più lontano ed ignoto; l’individuo, in quanto massi-
ma actualitas, è ciò che è meno noto quoad nos.
Si consideri in breve an. post. A 1, 71 b 33-72 a 5. Tommaso, nel
commento alla Fisica, nota immediatamente che negli Analitici secon-
di si sostiene una dottrina contraria a quella appena esposta. Lo Sta-
girita mantiene la distinzione già vista e ribadisce che più conoscibili
per noi sono τ# γγτερον τ0ς α)σ*σεως, mentre più conoscibili
:πλ"ς sono τ# πορρ-τερον; poi aggiunge: «ciò che è più lontano
da noi è l’universale, mentre ciò che è più vicino il particolare».
L’Aquinate nota la difficoltà49 e la risolve affermando che negli Ana-
litici Aristotele intende come singularia gli stessi individui sensibili,
che sono più noti per noi in quanto la conoscenza sensibile, che è
conoscenza dei singoli, preceda in noi la conoscenza intellettiva degli
universali; questi sono lontani dai sensi, giacché non hanno materia
e sono «intelligibilia in actu», mentre ciò che è singolare ha materia
ed è in potenza. Secondo Tommaso, nella Fisica, con singularia non
si debbono intendere gli individui, bensì le specie che sono maggior-
mente in atto rispetto ai generi. Se si accetta questa spiegazione, il
paradosso indicato sopra non ha luogo, giacché l’individuo è ciò
che, data la sua materialità e potenzialità, è più vicino a noi. Secon-
do l’altro aspetto, tuttavia, non v’è dubbio che, se l’animale è più in
potenza rispetto all’uomo, questo lo è rispetto a Socrate50; l’indivi-
duo pertanto è più in atto rispetto alla specie e come tale meno co-
noscibile per noi.
La duplicità del Dasein heideggeriano appare così caratterizzata:
se esso è la massima attualizzazione, allora esso è ciò che ontologica-
mente è più lontano da noi; ma la massima attualizzazione costitui-
sce anche il suo decadimento, ossia il suo modo d’essere ridotto a
Vorhandenheit; pertanto onticamente esso è, proprio a causa della
Vorhandenheit, ciò che è a noi più vicino. Se si considera il Dasein
come intessuto di possibilità, è evidente che ci è onticamente vicino;
ma la possibilità, in quanto competa all’autentico modo d’essere del
Dasein, ossia all’esistenza, è causa del fatto che esso è per noi onto-
logicamente lontano, proprio perché l’esistenza, essendo un continuo
‘avanti a sé’, non può mai essere ridotta all’attualità della Vorhan-
denheit. Rispetto al procedimento aristotelico quello heideggeriano
sembra differenziarsi in un punto: per Aristotele ciò che è più vicino

49 Ivi, § 8.
50 Cfr. S. Thomae Aquinatis I, q. 85, a. 3c, che tra poco esamineremo in dettaglio.

455
Antonello D’Angelo

a noi è sempre più in potenza rispetto a ciò che per noi è più lonta-
no; una volta però si considera più in potenza l’universale, dato che
contiene potenzialmente il particolare; un’altra volta più il particola-
re, dato che ha materia. Per Heidegger, invece, la possibilità che ca-
ratterizza l’esistenza fa sì che il Dasein sia a noi vicino ma anche che
sia a noi lontano, dato che, si ripeta, l’esistenza, in quanto ‘avanti a
sé’, caratterizza l’essere del Dasein come sempre incompiuto. En-
trambi gli aspetti dell’esistenza, l’attualità e la possibilità, sono dun-
que duplici: ciascuno di essi è insieme, per noi, onticamente vicino e
ontologicamente lontano.
Si veda infine metaph. Z 3, 1029 b 3-12. Questo passo presenta
più o meno la medesima dottrina di an. post. A 1. Ciò che è più
noto per noi è ciò che è più vicino ai sensi51; ma ciò che è più cono-
scibile ai singoli spesso è poco conoscibile in sé e poco o niente ha
di essere (µικρν D ο1ν 8χει το Iντος). È evidente che viene
confermata la teoria già esposta, secondo la quale quanto più qual-
cosa è ed è in atto tanto più è conoscibile per natura e tanto meno
è conoscibile per noi. Si ribadisca comunque che per un aspetto
sono più in potenza l’universale e il tutto, mentre per un altro aspet-
to il singolare e la parte. Come i due aspetti si compongano non è
ancora del tutto chiaro. Quel che però è importante sottolineare, a
proposito di questo passo della Metafisica, è che Aristotele denota il
procedimento illustrato con l’espressione πρ 8ργου, «è prelimina-
re», dunque «è proficuo e utile»52; è utile per la nostra conoscenza
procedere da e attraverso ciò che è più noto per noi a ciò che è più
noto per natura. Sembra che qui si dica il contrario rispetto al libro
Θ, dove l’indagine preliminare concernente la potenza cinetica è
detta ο χρησ µη. Eppure anche in questo caso si procede dalla po-
tenza all’atto, ma l’atto non contribuisce per nulla al chiarimento
della potenza, o per lo meno non al chiarimento del primo significa-
to di potenza. Questo significa forse, nell’orizzonte aristotelico, che
la potenza cinetica è effettivamente autonoma dall’atto, mentre la
potenza ‘metafisica’ non lo è? Oppure si deve dire che la potenza
cinetica, che è de facto autonoma, de jure, ossia considerata ‘metafi-
sicamente’ quanto alla nozione, dipende in tutto e per tutto dall’at-
to? Da tale punto di vista la polemica aristotelica contro i Megarici
avrebbe senso solo per la potenza cinetica, laddove a proposito del-
l’altra potenza dovrebbero essere affermati il primato e l’anteriorità
dell’atto. In effetti, se è vero che un costruttore ha la capacità di co-
struire a prescindere dall’esercizio e dall’esecuzione, è pur vero che
tale capacità, guardata dal punto di vista del logos, è tale solo in vir-

51Cfr. S. Thomae Aquinatis in metaph. expositio, § 1303.


52Ivi, § 1300: «Hoc est ‘praeopere’, idest ante opus sicut praeparatorium et necessarium
ad opus».

456
Heidegger e Aristotele

tù dell’atto del costruire. Tali questioni andranno approfondite in al-


tra sede. Per quanto riguarda Heidegger si dica, per concludere
questa parte, che non risponde al quesito che egli pur pone: si co-
mincia forse dalla potenza cinetica in quanto essa sia più nota per
noi? Sembra a questo punto che si debba rispondere in modo nega-
tivo; secondo il metodo illustrato, infatti, il procedere da ciò che è
noto per noi a ciò che è noto per natura è πρ 8ργου, ossia preli-
minare e proficuo.

A mo’ di chiosa a quanto è stato detto, sarà opportuno esaminare


Tommaso d’Aquino, I, q. 85, a. 3, unitamente al commento del Ca-
ietano. Nell’articolo si chiede «utrum magis universalia sint priora in
nostra cognitione intellectuali». Esponiamo alla lettera il testo ini-
ziando dal secondo argomento contrario. I composti, si dice, sono
anteriori per noi; ma gli universali sono più semplici; dunque sono
posteriori per noi53. Nella risposta all’argomento l’Aquinate afferma
che l’universale più comune è paragonato a quello meno comune
come tutto e come parte. Come tutto, in quanto in ciò che è più
universale sia contenuto potenzialmente non solo ciò che è meno
universale ma anche altri elementi; per esempio, sotto l’animale è
contenuto non solo l’uomo ma anche il cavallo. Come parte, in
quanto ciò che è meno comune contenga nella sua nozione non solo
ciò che è più comune ma anche altri elementi; per esempio, l’uomo
contiene non solo l’animale ma anche il razionale. L’animale consi-
derato in sé è pertanto anteriore nella nostra conoscenza rispetto al-
l’uomo; ma l’uomo è anteriore nella nostra conoscenza rispetto al
fatto che l’animale è parte della sua nozione54.
Nel terzo argomento contrario Tommaso cita Aristotele, phys. A
1: il definito è anteriore per la nostra conoscenza rispetto alle parti
della definizione; ma ciò che è più universale è parte della definizio-
ne di ciò che è meno universale; per esempio, l’animale è parte della
definizione dell’uomo; dunque gli universali sono per noi posterio-
ri55. Nella risposta all’argomento l’Aquinate afferma che la parte si
può conoscere in due modi. In un modo, in senso assoluto in quan-

53 «Praeterea, composita sunt priora quoad nos quam simplicia. Sed universalia sunt sim-
pliciora. Ergo sunt posterius quoad nos».
54 «Ad secundum dicendum quod universale magis commune comparatur ad minus com-
mune ut totum et ut pars. Ut totum quidem, secundum quod in magis universali non solum
continetur in potentia minus universale, sed etiam alia; ut sub animali non solum homo, sed
etiam equus. Ut pars autem, secundum quod minus commune continet in sui ratione non so-
lum magis commune, sed etiam alia; ut homo non solum animal, sed etiam rationale. Sic igitur
animal consideratum in se, prius est in nostra cognitione quam homo; sed homo est prius in
nostra cognitione quam quod animal sit pars rationis eius».
55 «Praeterea, Philosophus dicit, in I physic. quod definitum prius cadit in cognitione no-
stra quam partes definitionis. Sed universaliora sunt parte definitionis minus universalium, si-
cut animal est pars definitionis hominis. Ergo universalia sunt posterius nota quoad nos».

457
Antonello D’Angelo

to essa sia in sé; e così niente impedisce di conoscere prima la parte


rispetto al tutto, per esempio le pietre rispetto alla casa. In un altro
modo, in quanto le parti siano parti di questo tutto; e così conoscia-
mo prima il tutto che le parti; conosciamo infatti la casa nel suo in-
sieme prima di distinguere le sue singole parti. Si deve dire pertanto
che gli elementi della definizione, considerati in senso assoluto, sono
noti prima del definito, altrimenti questo non sarebbe reso noto per
mezzo di quelli; in quanto però siano parti della definizione, gli ele-
menti che definiscono sono posteriori: conosciamo infatti prima
l’uomo mediante una conoscenza confusa rispetto al saper distingue-
re ogni parte della sua definizione56.
Nel corpus dell’articolo si afferma che occorre considerare due
aspetti della conoscenza intellettiva. In primo luogo che essa comin-
cia da quella sensibile; e dato che la sensibilità è delle cose singole
mentre l’intelletto è degli universali, è necessario che, per noi, la co-
noscenza delle cose singole sia anteriore a quella degli universali57. Si
osservi pertanto che secondo questo aspetto gli universali sono po-
steriori per noi e anteriori per natura. In secondo luogo, si deve
considerare che il nostro intelletto procede dalla potenza all’atto; e
tutto ciò che procede dalla potenza all’atto perviene prima all’atto
incompleto (ossia al termine medio tra la potenza e l’atto) e poi al-
l’atto perfetto; questo rappresenta la scienza completa, per mezzo
della quale le cose sono conosciute in modo distinto e determinato.
L’atto incompleto, invece, è la scienza imperfetta, per mezzo della
quale le cose sono conosciute in modo indistinto e sotto una certa
confusione; ciò che infatti è conosciuto sub quadam confusione, è co-
nosciuto in atto secundum quid, e in qualche modo è conosciuto in
potenza58. In tal modo può essere conosciuto sia il tutto universale,
nel quale le parti sono contenute in potenza, sia anche il tutto inte-

56 «Ad tertium dicendum quod pars aliqua dupliciter potest cognosci. Uno modo absolu-
te, secundum quod in se est: et sic nihil prohibet prius cognoscere partes quam totum, ut la-
pides quam domum. Alio modo, secundum quod sunt partes huius totius: et sic necesse est
quod prius cognoscamus totum quam partes; prius enim cognoscimus domum quadam confu-
sa cognitione, quam distinguamus singulas partes eius. Sic igitur dicendum est quod definien-
tia, absolute considerata, sunt prius nota quam definitum: alioquin non notificaretur definitum
per ea. Sed secundum quod sunt partes definitionis, sic sunt posterius nota: prius enim cogno-
scimus hominem quadam confusa cognitione, quam sciamus distinguere omnia quae sunt de
hominis ratione».
57 «Respondeo dicendum quod in cognitione nostri intellectus duo oportet considerare.
Primo quidem, quod cognitio intellectiva aliquo modo a sensitiva primordium sumit. Et quia
sensus est singularium, intellectus autem universalium; necesse est quod cognitio singularium,
quoad nos, prior sit quam universalium cognitio».
58 «Secundo oportet considerare quod intellectus noster de potentia in actum procedit.
Omne autem quod procedit de potentia in actum, prius pervenit ad actum incompletum, qui
est medius inter potentiam et actum, quam ad actum perfectum. Actus autem perfectus ad
quem pervenit intellectus, est scientia completa, per quam distincte et determinate res cogno-
scuntur. Actus autem incompletus est scientia imperfecta, per quam sciuntur res indistincte
sub quadam confusione: quod enim sic cognoscitur, secundum quid cognoscitur in actu, et
quodammodo in potentia».

458
Heidegger e Aristotele

grale; entrambi infatti possono essere conosciuti sotto una certa con-
fusione, senza cioè che siano conosciute distintamente le parti. E co-
noscere distintamente ciò che è contenuto nel tutto universale è ave-
re conoscenza di una realtà meno comune; conoscere, per esempio,
l’animale in modo indistinto significa conoscere l’animale in quanto
è animale; conoscerlo invece in modo distinto significa conoscerlo in
quanto è razionale o irrazionale, vale a dire conoscere l’uomo o il
leone. Il nostro intelletto, dunque, conosce l’animale prima dell’uo-
mo59. E dato che la sensibilità, così come l’intelletto, procede dalla
potenza all’atto, in essa appare il medesimo ordinamento della cono-
scenza. Si deve dire allora che la conoscenza delle cose singole è an-
teriore per noi rispetto alla conoscenza degli universali, così come la
conoscenza sensibile è anteriore a quella intellettiva tuttavia, sia per
la sensibilità sia per l’intelletto la conoscenza più comune è anteriore
a quella meno comune60.
Si osservi: il primo cognito è l’ens generalissimum; esso è forse più
in potenza rispetto ai veri enti meno comuni? E inoltre, l’ens meno
comune, in quanto sia più in atto e meno conoscibile per noi, è più
ente o meno ente rispetto a quello più comune? Sembrerebbe sia
più ente in quanto sia più in atto; essendo però meno comune con-
tiene sempre in sé, affinché sia un ente, la nozione dell’ente più co-
mune, cosicché, sotto tale aspetto, è quest’ultimo che è più ente.
Vediamo ora l’acuto commento del Caietano, a proposito del qua-
le, tuttavia, si dovrà riproporre il dubbio appena posto. Egli consi-
dera due aspetti: 1. Il tutto universale è conosciuto prima della parte
soggettiva, ossia l’animale è conosciuto prima dell’uomo. 2. Il tutto
definibile è conosciuto prima della parte definitoria, ossia l’uomo è
conosciuto prima dell’animale. In ambedue i casi si ha che la cono-
scenza del tutto è confusa e pertanto è anteriore naturaliter [?!] a
quella distinta. Così però non si può sapere quale sia il primo cogni-
to in senso assoluto, se cioè il più universale (l’animale) o il meno
universale (l’uomo); il procedimento riguarda infatti le due realtà in
quanto siano considerate come tutto o come parte, ossia ciascuna di

59 «Sic autem potest cognosci tam totum universale, in quo partes continetur in potentia,
quam etiam totum integrale: utrumque enim totum potest cognosci in quadam confusione, sine
hoc quod partes distincte cognoscantur. Cognoscere autem distincte id quod continetur in toto
universali, est habere cognitionem de re minus communi. Sicut cognoscere animal indistincte,
est cognoscere animal inquantum est animal; cognoscere autem animal distincte, est cognoscere
animal inquantum est animal rationale vel irrationale, quod est cognoscere hominem vel leo-
nem. Prius igitur occurrit intellectui nostro cognoscere animal quam cognoscere hominem: et
eadem ratio est si comparemus quodcumque magis universale ad minus universale».
60 «Et quia sensus exit de potentia in actum sicut et intellectus, idem etiam ordo cognitio-
nis apparet in sensu [...] . Est ergo dicendum quod cognitio singularium est prior quoad nos
quam cognitio universalium, sicut cognitio sensitiva quam cognitio intellectiva. Sed tam secun-
dum sensum quam secundum intellectum, cognitio magis communis est prior quam cognitio
minus communis».

459
Antonello D’Angelo

esse può valere sia come tutto sia come parte, e, si osservi, la cono-
scenza del tutto è sempre anteriore a quella della parte61.
Il Caietano nota che nell’articolo compaiono due difficoltà: 1.
Non si capisce quale sia l’ordine della conoscenza in senso assoluto.
2. Non si risponde al quesito. Da quanto si è detto si ricava in effet-
ti che il meno universale (l’uomo) è conosciuto prima del più uni-
versale (l’animale), e al contrario, giacché vengono paragonati secon-
do la nozione di parte e di tutto. Si ribadisca: il tutto è sempre co-
noscibile prima della parte, ma una volta il tutto è il più universale,
mentre un’altra volta è il meno universale. Per risolvere la difficoltà
il Caietano nega che ciò che è meno comune sia conosciuto prima
di ciò che è più comune con uguale ragione. L’ordine della cono-
scenza tra il tutto universale e la parte soggettiva e l’ordine della co-
noscenza tra il tutto definibile e la parte definitoria non sono infatti
uniformi: il primo è un ordine simpliciter, l’altro secundum quid. La
parte definitoria in sé non dipende in effetti, affinché sia conosciuta,
dal tutto definibile, ma ne dipende soltanto per il fatto che è una
parte di quello; possiamo, per esempio, conoscere prima che cosa è
l’animale e poi conoscere che esso è una parte della definizione del
Pigmeo. La parte soggettiva, invece, dipende, affinché sia conosciu-
ta, simpliciter dalla conoscenza di ciò che è più universale. Sebbene
dunque in ambedue i casi la conoscenza del tutto preceda quella
della parte, tuttavia essa non precede qualunque conoscenza. La co-
noscenza del tutto universale, infatti, precede simpliciter quella della
parte soggettiva, e non solo in quanto essa sia una sua parte. In que-
sto caso, pertanto, a maggior ragione ciò che è più comune è cono-
sciuto prima, giacché a maggior ragione si deve attendere l’ordine
della conoscenza simpliciter, il quale precede quello secundum quid62.

61 Thomae de Vio Caietani commentaria in I Parte, in S. Thomae Aquinatis opera omnia,


iussu impensaque Leonis XIII edita, Romae 1882 ss., IV, p. 338, n. VII: «... consequenter in-
fertur optime quod totum universale prius cognoscitur quam pars eius subiectiva ut sic; et si-
militer quod totum definibile prius cognoscitur quam pars eius definitiva ut sic. Et utrobique
eadem est ratio: quia scilicet cognitio totius praeveniens notitiam partium est confusa, quae
naturaliter est prior distincta. Sed ex hoc non habetur quid absolute sit prius cognitum, magis
an minus universale, idest res substrata maiori universalitati an minori: totus enim processus
est comparativus rerum ut vestitae sunt has intentiones, scilicet totius et partis, etc.» (il corsi-
vo è mio).
62 Ivi, VIII: «... negatur quod pari ratione habeatur quod minus commune sit prius cogni-
tum magis communi. Nam ordo notitiae inter totum universale et partem subiectivam ex una
parte, et ordo notitiae inter totum definibile et partem definitivam ex alia parte, non est uni-
formis; sed ille est ordo simpliciter, iste secundum quid. Nam pars definitiva non dependet se-
cundum se in cognosci a toto definibili, sed tantum secundum quod est pars illius: possum
enim prius perfecte nosse quid est animal, et postmodum nosse quod animal est pars definiti-
va Pygmaei. Pars vero subiectiva simpliciter dependet in cognosci a notitia universalioris, ut
de se patet. Licet ergo cognitio totius utrobique praecedat notitiam partis, non tamen quamli-
bet notitiam. Sed notitia totius universalis praevenit cognitionem simpliciter partis subiectivae;
non solum inquantum pars eius est. Et ideo magis hinc habetur quod communius sit prius no-
tum, quam e converso: ordo enim cognitionum simpliciter magis attendendum est, et prior na-
turaliter est quam secundum quid».

460
Heidegger e Aristotele

Si tenti di chiarire il pensiero del Caietano: conosciamo sempre


prima l’animale rispetto all’uomo; in un senso come tutto universale,
perché l’animale, simpliciter, è anteriore rispetto all’uomo e non di-
pende da quest’ultimo; in un altro senso conosciamo prima l’animale
come parte definitoria, perché esso è anteriore all’uomo e non di-
pende da esso. Pertanto l’ordine di antecedenza tra tutto universale
e parte soggettiva è simpliciter, mentre quello tra tutto definibile e
parte definitoria è secundum quid, giacché in realtà ciò che precede
è la parte definitoria che è anche il tutto universale. Si chiarisca an-
cora considerando il rapporto di dipendenza: l’uomo è sempre e ne-
cessariamente animale, cosicché dipende da questo, mentre questo,
che non è sempre uomo, non dipende dall’uomo. La conoscenza
dell’animale non dipende dunque da quella dell’uomo ed è anteriore
ad essa, sia che si consideri l’animale come tutto universale, sia che
lo si consideri come parte definitoria; l’animale è sempre più comu-
ne rispetto all’uomo, perciò più potenziale e più conoscibile per noi.
In conclusione permangono ancora dei dubbi: se ciò che è più co-
noscibile per noi ha la caratteristica dell’indipendenza, non si po-
trebbe ritenere che, in questo senso, esso sia in realtà più conoscibi-
le per natura e dunque meno conoscibile per noi? Qualcosa di simi-
le avevamo osservato sopra a proposito dell’ens generalissimum: da
esso dipende l’ente meno comune e perciò, se da un lato ciò che è
più comune e più potenziale è più noto per noi, dall’altro lato, pro-
prio in virtù della generalità, tutto ciò che è meno generale ne di-
pende; ogni ente infatti è in virtù dell’ens generalissimum e allora
quest’ultimo, in quanto sia il principio assoluto, è il più noto per na-
tura e il meno noto per noi63.
A questo proposito ricordiamo solo per sommi capi che Heideg-
ger, nella Vorlesung del 1928 dedicata a Leibniz, affronta a un certo
punto la questione concernente ciò che è πρτερον φσει e ciò che
è πρτερον πρς +µHς. Il contesto riguarda la temporalità dell’esse-
re, la cui prima determinazione temporale è quella per la quale esso
è πρτερον φσει rispetto all’ente64; si tratta, come è evidente, di
un’anteriorità φσει e non πρς +µHς. ‘Prima di’, continua Heideg-
ger, è una determinazione temporale, e prima di ogni ‘prima di’ c’è
il tempo. Il fatto che l’essere sia πρτερον significa che esso sta in
un rapporto originario con il tempo65. Ora, la stessa temporalità del-
l’essere ‘precede’ quella di ogni altro ente, giacché l’essere è
πρτερον φσει, mentre l’ente è πρτερον πρς +µHς. Come è

63 Si ricordi che il Caietano afferma che la conoscenza del tutto, in quanto sia confusa, è
naturaliter anteriore a quella delle parti che è invece distinta.
64 Cfr. Metaphysische Anfangsgründe der Logik, hrsg. von K. Held, Gesamtausgabe, XXVI,
Frankfurt am M. 1978, p. 184.
65 Ibid.

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Antonello D’Angelo

possibile che tra due πρτερα l’uno sia πρτερον rispetto all’altro?
E come stanno le cose a proposito del Dasein che è esso stesso un
ente, anche se di natura particolare rispetto agli altri enti?
Tali quesiti possono ora essere affrontati solo di sfuggita. Riguar-
do al primo si deve notare che Heidegger, pur non soffermandosi a
lungo sugli aspetti aporetici della tesi aristotelica, lascia intravedere,
come vedremo subito, una soluzione alla difficoltà. Si tratta, come si
è detto, di due πρτερα, dei quali l’uno è πρτερον rispetto all’al-
tro. Sembrerebbe in effetti che l’autentico πρτερον sia quello
φσει, ma sappiamo anche che si comincia da quello πρς +µHς e
che perciò in questo senso il πρτερον φσει viene dopo! In Aristo-
tele la questione si risolve considerando i due punti di vista dai qua-
li essa viene guardata; e si dice perciò che ciò che è anteriore per
noi è posteriore per natura e viceversa. Questi due punti di vista
sono successivi o simultanei? In altre parole, si dice: guardiamo la
questione da un punto di vista e poi dall’altro, oppure la guardiamo
dall’uno e contemporaneamente dall’altro? E in questo secondo caso
la dualità è o no eliminata? È evidente comunque che in entrambi i
casi è in questione il tempo. Heidegger, come si diceva, sembra es-
sere consapevole della difficoltà e la risolve affermando che «l’essere
si dà ‘in sé’ in un senso originario – è πρτερον φσει e πρς
+µHς; soltanto, compreso rettamente e non come un qualcosa di on-
tico tra gli altri66. Se si intende così, non c’è più dualità di ‘anterio-
ri’, bensì, alla maniera heideggeriana, soltanto la relazione originaria
tra essere e tempo. Si può però chiedere, ed è il secondo quesito
che avevamo posto sopra, ‘chi’ siano questi +µε,ς che continuano ad
essere nominati e in relazione ai quali si dice che l’essere è
πρτερον67. Non si può certo intenderli, nel contesto heideggeriano,
come dei ‘noi’ ontici; se così fosse, si riproporrebbe tra l’altro il
dualismo aporetico tra gli ‘anteriori’. Riformuliamo allora il secondo
quesito: come stanno le cose a proposito del Dasein che è anch’esso
un ente, ma ‘difforme’ dagli altri enti? Ferme restando le osservazio-
ni fatte a proposito della lontananza-vicinanza del Dasein rispetto a
sé stesso, concludiamo rapidamente dicendo che Heidegger tenta di
rispondere al quesito nell’intera seconda fase del suo pensiero ma in
fondo già a partire da Sein und Zeit. JΗµε,ς non siamo ‘noi’ indivi-
dui ontici ma ‘noi’ in quanto ‘assegnati’ all’essere nel Da del Da-sein.
Nel Da come Lichtung si dovrebbe realizzare la confluenza tra
φσις e +µε,ς.

66 Ivi, p. 186.
67 A tale riguardo, con una impostazione del tutto diversa dalla presente, ha prodotto ar-
gomenti interessanti M. D’Abbiero, Essere-nel-mondo ed essere-dentro-il-mondo: chi è il «Da-
sein» di Heidegger?, in «Paradigmi», IX (1991), pp. 425-50.

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