SINOSSI 5
MITO E PAROLA 13
IL MITO DELL'INDIFFERENZIATO 45
2
EDITORE: AEDO BOOKS
AUTORE
[MARCO GREGORI]
EDITORE
[AEDO BOOKS]
Copyright © 2014 [AEDO BOOKS]
3
AUTORE: MARCO GREGORI
4
SINOSSI
5
ALBERTO SAVINIO: OPERE
Ogni tema affrontato da Savinio, alla luce della complessità del suo stile
e della sua erudizione, delle innumerevoli relazioni, deviazioni, rimandi
disseminati in tutta la sua opera, richiede uno studio multiforme che
accolga varie forme d'arte.
Nel 1916 Savinio scrive sulla rivista "La Voce" mentre nel 1918, per la
casa editrice omonima, pubblica il romanzo Hermaphrodito: si tratta di
un'opera plurilinguistica e multigenere che rappresenta il preludio,
costituisce la fonte di tutta la produzione successiva per l'abbondanza di
stili e tematiche.
Nel 1920 esce il suo secondo romanzo, La casa ispirata: in questa opera
Savinio espone le sue considerazioni sulla mostruosità del reale e
sull’aura funerea che lo invade. Da questo scritto il tema della morte
diventa prevalente in Savinio anche se qui le considerazioni
sull’argomento non sono pervase dall’angoscia.
7
Dello stesso anno è la redazione finale di Tragedia dell’infanzia: diversi
episodi autobiografici spiegano il conflitto e l’incomunicabilità fra
l’universo infantile e il mondo degli adulti. Il libro è imperniato sulla
problematica della relazione fra infanzia ed espressione artistica e
sull’educazione-repressione della fantasia.
Nel 1925 Savinio e De Chirico iniziano la collaborazione al "Teatro d’arte"
di Pirandello: per Alberto è l’occasione di volgere di nuovo l’attenzione al
teatro, da lui considerato la sede ideale dell’espressione artistica nella
quale convergono la musica, la letteratura, le arti visive.
Ancora nel 1925, Con l’obiettivo di una pronta messa in scena, scrive il
dramma Capitano Ulisse, pubblicato in volume nel 1934, che verrà
rappresentato solo nel 1938 a causa dei noti problemi della compagnia
del "Maestro" siciliano; lo stesso "Nobel" per la letteratura definirà
questo dramma tripartito come un’opera di ironia lirica sull’eterno mito
dell’inquietudine di Ulisse. Il testo teatrale saviniano consiste in una
originale rielaborazione del mito odisseo in chiave moderna.
Nel 1926 il poliedrico artista redige il romanzo Capri che rilegge in forma
parodistica il genere delle prose di viaggio. Questo scritto è un
vademecum ma non ha nulla del prontuario turistico: l’isola diviene un
luogo leggendario conchiuso nel mito e circondato da acque abitate da
straordinari esseri mostruosi in un’atmosfera surreale che visivamente
riporta agli scenari pittorici bockliniani.
L’anno in corso registra il matrimonio con Maria Morino e l’inizio del
secondo soggiorno nella capitale francese dove Savinio rende molto
intensa la sua produzione pittorica che l’anno seguente sublimerà nella
sua prima mostra personale, presentata dall’amico Jean Cocteau.
Il 1927 vede anche la pubblicazione del romanzo dall’architettura e dal
soggetto teatrale Angelica o la notte di maggio, opera nuovamente di
parodia (questa volta dei romanzi d’appendice) intrisa di ambigua
simbolicità: la rivisitazione mitica questa volta pervade con lumi surreali
la leggenda di Amore e Psiche.
8
Introduction à une vie de mercure, che si considera lo scritto
stilisticamente più affine alla corrente surrealista, nella quale Savinio non
si è mai fatto circoscrivere, rivendicando la sua precipua e originale
missione di dare "forma all’informe e coscienza all’incosciente": in
questa opera la fantasia corre libera dando vita ad un umorismo
dissacrante.
Il 1933 segna il definitivo rientro in Italia dei Savinio ed è l’inizio di un
lustro durante il quale Alberto, cambiando spesso il luogo in cui vive fra
Torino e Milano (nel 1934 nascerà il secondogenito Ruggero) si dedica
principalmente alla pittura ed intensamente alla letteratura.
Nel 1938 viene edita la raccolta Achille innamorato (Gradus ad
Parnassum), contenente i racconti pubblicati in giornali e riviste tra il
1919 e il 1937: le narrazioni hanno nitidi accenti surrealisti o rivisitano i
miti classici tra il registro tragico e quello grottesco reinventandoli.
Nel 1940 esce Dico a te, Clio, un diario di viaggio nell’Italia centrale in cui
gli appunti danno spunto a un esteso discorso sulla memoria collettiva e
a un personale approfondimento del concetto di storiografia: il gusto per
la divagazione argomentativa diviene il nucleo centrale del testo
dissolvendo savinianamente il soggetto originario del libro.
9
raggio d’azione della componente strutturale del suo umorismo, ovvero
la freddura.
Lo stesso anno vede la pubblicazione dei racconti di Casa "La Vita", che
rappresentano la sintesi delle sue riflessioni riguardanti i temi del
tetragono Infanzia-Tempo-Morte-Mito opposto, in termini geometrici, alla
ipocrita fissità della perfezione del cerchio-borghesia. Savinio mette in
scena le grandi paure e i tabù della società borghese: il tempo che passa
inesorabile, il sesso e principalmente la morte. Caratteristiche, in questa
raccolta, sono le alterazioni linguistiche, vere e proprie deformazioni
all’insegna dell’ambiguità dell’espressione verbale che costituiscono le
linee principali della "poetica del lapsus", uno dei pilastri della sua arte.
Nell’intervallo fra il 1949 e il 1952 scrive sul "Corriere della sera" racconti
che saranno pubblicati in un volume postumo dal titolo Il signor Dido.
Come in un romanzo del fratello Giorgio "Il signor Dudron" è il gemello
del maggiore dei De Chirico, qui "Il signor Dido" è l’alter ego di Savinio.
Questo ritratto dell’artista maturo è dialettico rispetto a quello
dell’infanzia di Savinio-Nivasio, ma i due termini sono legati da
riferimenti, equivalenze, analogie tra le quali corre sul filo, in equilibrio,
una comune verità: la ricerca dello "psichismo delle forme" come senso
10
della propria arte.
Con questa sorta di atto testamentario artistico e spirituale, Alberto
Savinio scompare a Roma il 5 maggio 1952.
L’attività saggistica e giornalistica di Savinio è raccolta in vari volumi di
argomento letterario, musicale, teatrale, cinematografico, politico.
Nuova enciclopedia raccoglie articoli scritti negli anni quaranta: questa
enciclopedia "a suo uso personale" si presenta come un perfetto
autoritratto, ma anche come un ritratto della nostra civiltà, giunta al
punto in cui deve riconoscere che il sapere non è più univoco senza
fingere una coerenza abbandonata da tempo.
Souvenirs raggruppa scritti degli anni venti e trenta riferibili in prevalenza
al secondo soggiorno parigino, ricchi di memorie personali e pagine di
critica, ma soprattutto sono una doviziosa testimonianza sulle
avanguardie.
Scatola sonora rappresenta l’insieme delle recensioni in forma di
riflessione critica sulle musiche ascoltate, vissute e rivissute nella
memoria, degli anni trenta e quaranta: hanno un forte senso
autobiografico e rispecchiano una strada percorsa alla ricerca di un
insondabile segreto che la musica cela in sé ma che mai rivela nella sua
totalità.
11
Maupassant e l’Altro, edita nel 1960 a cura di Giacomo Debenedetti,
faceva parte dell’edizione del 1944 dei Venti racconti di Guy de
Maupassant con lui e l’altro di Alberto Savinio. Anche in questo saggio il
dato autobiografico prende il sopravvento: lo studio dell’isolamento
dello scrittore francese, "altro" rispetto alla cultura coeva, diviene l’analisi
dell’attività di Savinio e in ultimo riflessione sulla realtà stessa.
12
MITO E PAROLA
Gli eroi di Omero parlano con voi e me, solo che usano miti come noi
usiamo parole.
14
subcosciente, ma del diverso significato che una stessa parola ha sotto
la penna di Omero, sotto quella di Saffo, sotto quella di Euripide. E già mi
sento arrivare la lettera dell’assiduo lettore, che mi dirà che né Omero né
Saffo né Euripide usavano la penna.
Tanta finezza, nel filologismo tedesco finora io non l’avevo mai trovata.
Presentare Virgilio come iniziatore della reverie e del sentimentalismo,
Orazio come primo esempio dell’oligarchismo letterario che trae sua
boria da privilegi incerti e anzi inesistenti, ieri sarebbero parse
considerazioni poco serie; e sono proprio esse che ti mettono al vero
certi personaggi.
E da noi? Anche la filologia, da noi, come tante altre cose è in stato
predarwiniano. Dico: è, non dico: è ancora. Io non penso che in futuro
questo stato muterà. Questo stato è determinato da qualità di razza, e le
qualità di razza non mutano. O almeno, se mutamento c’è, esso nella
nostra prospettiva umana non appare. Che la filologia nostrana mi
presenti l’Iliade, l’Odissea, i lirici, i tragici della Grecia come altrettanti
miracoli, a me non dice nulla. Uomo, io voglio vedere come avvengono le
cose che fanno gli uomini. E questo la filologia nostrana non me le fa
vedere.
Il vocabolario di Omero ha i vocaboli corrispondenti i vari pezzi di un
mondo frammentario; gli mancano i vocaboli che esprimono l’idea di
anima, di spirito; gli mancano altresì i vocaboli che designano il corpo
umano nel suo insieme.
Già Aristarco, il filologo alessandrino, aveva stabilito il principio
fondamentale della interpretazione della lingua omerica: evitare di
tradurre i vocaboli omerici secondo il greco classico, sottrarsi nella
interpretazione del greco omerico alla influenza delle forme più tarde
della lingua. Ma nessuno che io sappia, prima di Bruno Snell aveva così
attentamente studiato le voci del vocabolario omerico, misurato la
"portata" del loro significato, riconosciuto mediante l’analisi delle voci la
condizione psichica del mondo omerico: la condizione psichica di un
mondo precedente l’invenzione della psiche.
Per le ragioni dette qui sopra, molti amano – dicono di amare – la poesia
di Omero, perché direttamente sgorgata dalla vena popolare, ingenua,
schietta, pura di inquinamenti letterari, intellettualistici. E se poesia c’è
che non si meriti queste lodi (se lodi sono) questa è la poesia di Omero.
A cominciare dalla lingua. Lingua quanto altra mai letteraria. Lingua
diversa dagli idiomi parlati in quel tempo nelle varie città della grecia.
Lingua che scarta come indegna la parola propria (kurion) e usa parole
insolite, estranee alla lingua parlata (glottai). Lingua snobistica. Aristotele,
del resto, nella Poetica dice che proprio queste sono le qualità del
linguaggio poetico. E ha ragione. Aristotele non aveva ancora letto
Rimbaud. Lingua, in una parola, dannunziana. In parte oscura. (Per rarità
di vocaboli, non per profondità di concetti). Tanto più ammirata dunque.
Più bella la poesia, più alta, se velata. Precetto caro anche agli ultimi
snob della poesia (Valery).
Lo stesso Aristotele, della parola multipla, che tanta parte ha nella
meccanicità della lingua omerica (“cielo multispecie”, “terra alticime”,
16
“poveròmuso lusingatore”) dice che la parola multipla non è della lingua
parlata, ma è formata apposta, scientificamente e artificialmente, per la
lingua poetica; e se ha detto “meccanicità”, è perché la parola multipla,
nella lingua di Omero è più che un qualificativo, è un attributo fisso di
uomini e cose, come il pepe e lo zucchero in cucina, a seconda che si
tratti di melanzane alla parmigiana o di crema caramella.
Lingua non popolare, ossia non realistica e non pittoresca, usata per
dare forma ed espressione a una poesia non popolare, ossia non
realistica e non pittoresca. Poesia e lingua fatte non per il popolo, ma per
un aristocrazia. Fatte è meno improprio, meno volgare di quanto si può
credere. La poesia di Omero era recitata dagli aèdi. (…) Gli aèdi erano
organizzati in corporazioni, e, nonché recitatori, erano impresari teatrali
di se stessi. Portavano nella poesia anche alcuni mutamenti, a seconda
del castello, dell’umore del castellano, del linguaggio più familiare al
castellano. (…) Aggiungo che la lingua d’Omero non conosceva l’articolo:
non era ”scesa” all’articolo. Il che concorreva a tenerla su un tono alto e
generale, su un tono astratto, e a salvarla dal particolarismo di quaggiù.
(…)
19
Autonomia! Indipendenza!
E gli dèi lassù su l’Olimpo, come i fiori dopo la festa, rimangono ad
appassirsi nei vasi. 6
Nella chiusa, l’analisi saviniana sembra ispirata, ancora una volta, alle
considerazioni di Nietzsche:
L’epos omerico è la poesia della cultura olimpica, con cui essa ha
intonato il suo canto di vittoria sui terrori per la lotta dei Titani. Ora, sotto
il prepotente influsso della poesia tragica, i miti omerici rinascono
trasformati, mostrando in questa metempsicosi che frattanto anche la
cultura olimpica è stata vinta da una concezione del mondo ancora più
profonda. 7
20
La pittura di Alberto Savinio sarebbe piaciuta agli antichi greci. Non dico
che gli antichi greci dipingevano o avrebbero dipinto come Savinio – e
non faccio nemmeno questione di qualità della rappresentazione
pittorica. Dico che la pittura di Savinio avrebbe trovato il più largo
consenso di popolo presso gli antichi greci, in quanto avrebbe
soddisfatto quel loro gusto della deformazione che miti e opere
letterarie, se non figurative, ci documentano. In chi fantasticava del
Minotauro, o immaginava Giove sotto forma di toro o di cigno, e in
Savinio che vede i suoi personaggi con teste di struzzo, di anitre, caproni
e giraffe, il gusto suscitatore è lo stesso. Gusto per il quale la
deformazione avviene come simbolo di trasfigurazione (…). Beninteso
che in Savinio quel gusto opera per via ironica, appunto come negli
autori dell’ epoca ellenistica, come in Luciano a cui per scrivere della
nascita di Minerva dal cervello di Giove, occorreva il colpo di scure di
Vulcano. (…)
Il colpo di scure in Savinio è sottinteso (…). Perciò egli riesce ironico nel
senso più moderno della parola. Ma di spirito intensamente umanistico,
ove per umanesimo si sappia intendere una posizione di cultura squisita
e raffinata (posizione ellenistica di fronte all’Ellade immensa di tutto il
passato, dagli egizi fino a de Chirico). 9
Alla luce delle considerazioni espresse finora, Savinio mirerà a rendere
proprio il mito, dopo averlo sdradicato dalla inerte fissità in cui lo ha
relegato la letteratura, che ne ha depauperato l’abbondanza semantica
fino a disperderne il significato originale, pietrificandolo in statua.
L’artista instillerà il soffio vitale a queste marmoree sculture, le aiuterà a
muoversi fino a farle camminare, liberandole dalla loro eterna sincronia
olimpica e immergendole nell’inesorabile diacronia del tempo storico
attraverso una “parafrasi” mitopoietica.
1 Alberto Savinio, Non forono miracoli né Omero né Virgilio, in Scritti
Dispersi1943-1952, Adelphi, Milano, 2004, p. 1736 – 1740.
2 Ivi.
21
5 Friedrich Nietzsche , La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 2000, p.
59.
6 Alberto Savinio, Non forono miracoli né Omero né Virgilio, cit. p. 1739-
1740.
7 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, cit. pag. 73.
8 Elio Vittoriani, Mostre fiorentine. Savinio, in “Italia letteraria”, 15
gennaio 1933.
9 Ivi.
22
METAFISICA VOLGARE COME
TEOLOGIA DEI POETI
24
incivilita e perfezionata. Religione “alta”. Non viene al potere se non dopo
che ha vinto le forze sotterranee.
La motività non è solo nella religione: è in tutte le cose greche. Le cose
greche “camminano”. Arrivano fino a noi. E noi trovandole ancora fresche
e vive, le trattiamo come attuali. Questa la ragione delle “parafrasi” di noi
artisti poeti scrittori; è la riprova della legittimità delle nostre parafrasi.
Mentre nessuno si sogna di parafrasare Geova, Indra, Osiride. Resta a
parlare del significato degli dèi Greci. Mutevoli come carattere, è giusto
che fossero mutevoli anche come significato. Conosciamo gli dèi Greci
come personificazioni di fenomeni celesti o terrestri (sole, fulmine,
tempesta), li conosciamo come personificazioni di fenomeni naturali
(vicenda del seme nella terra e suo sviluppo in pianta e in frutto), li
conosciamo come personificazioni di umane qualità (forza muscolare,
intelletto, sagacia, saggezza). Una interpretazione altrettanto legittima è
quella di modelli dell’umana società. È in questa funzione che quella
brillante compagnia terminò il suo giro quaggiù.
Messi in immagine, io guardo l’immagine degli dèi olimpi, come da
ragazzo guardavo le tavole dei jardin de modes. Dal quarantenne
barbuto e dalla trentottenne formosa, tutti erano rappresentati per
gradazione di età e d’importanza i membri della società “che veste”.
In Ares abbiamo il modello dell’uomo forte ma bruto, in Ermete
dell’uomo che per virtù d’intelletto è riuscito a levarsi sopra il dramma
della vita, e svolazza su uomini e cose con la felice levità del dilettante.
Decantato, purificato di ogni oscurità, questa espressione della barbarie,
l’Olimpismo si riduce a una pulitissima e invogliante mostra di
esemplarità sociale. Senza contare l’utile, il comodo dei modelli. L’uomo
crea i modelli per poter dire "non giudicate me: guardate il modello di
cui io non sono se non l’imitazione". Una forma larvata dell’Olimpismo si
protrae fino a noi. La fama di certi nostri contemporanei non si
spiegherebbe (artisti, poeti, uomini d’azione) se non sapessimo che i
difetti di costoro, le loro lacune, i loro non-valori sono i modelli nei quali
tanti uomini, e talvolta folle intere, e non di rado interi popoli, si
specchiano, si riconoscono e giustificano se stessi.
Consideriamo Zeus. Gli occhi grassi e come velati di sogno (ma sogno
non è). La barba turchina di bell’uomo maturo. La sufficienza. L’autorità
spesso esercitata a capriccio. L’egoismo. Il ridurre a lecito per sé quello
25
che agli altri è illecito. La “superficialità” del potente. L’indifferenza
dell’anima altrui, specie delle donne. Gli adulterii. La mancanza di cure
materiali (di cure spirituali non si parla neppure) da quando ha vinto i
Titani (egli crede una volta per sempre…). È chiaro che nel tempo della
maturità i Greci collocarono in cima al loro repertorio di angusti modelli
una specie di capo dell’alta finanza internazionale. Era giusto che il Capo
del proletariato internazionale lo spodestasse. 1
26
graziose... gioioso carosello: le mie idee corrono al galoppo, caracollanti,
e fanno una corsa ad ostacoli ...Io non ho, così, il tempo di conoscerle
abbastanza né di stancarmene. 5
27
allo scheletro di Victor Hugo, giacché gli viene
marmocchio antropomorfo?...
il cocco
dell'albicocca.
Un cucurbitaceo straniero serve a nutrirmi,
fischiettio
gergo
voce della mezzamorte (sogno) (infante) marmocchio antropomorfo
albicocca
cocco polpa -mousse buccia
(noce)
(zucca)
30
MITOPOIESI ETIMOLOGICA,
ETIMOLOGIA MITOPOIETICA
32
fresca ancora della carne dei mammut estratti dopo milioni di anni dai
ghiacci della Siberia settentrionale. 5
La coppia di corsivi dimenticata e riapparirà, finemente ossimorica,
ribadisce l’obiettivo della poetica neomitologica dell’autore: restituire
all’umanità il senso originario, ormai ibernato nella rigida logica della
socialità.
In testa a tutti avanza la prisca nobiltà: la Gente Porcia. Porcia del pari si
chiamava la moglie di Marco Giunio Bruto. In italiano diciamo Porca.
Segue qualche mammifero grosso: Manzoni; qualche fiera agile:
Leopardi. Viene infine la minutaglia: i Gatti, I Pecori, i Lepri, i Colombo, i
Pascetti, i Rana, i Mosca, i Coniglia, i Lumachini. Nessuno può credere
quanto io m’immerga nel meditare su un eventuale commendatore Arieti
con testa di montone, quanto mi sprofondi a ricostruire certe
antichissime e misteriose armonie, certi oscuri giochi che gl’ignari
considerano cose “non serie”. 6
In questo passo, Savinio, dopo aver corroso lo status di nobiltà con la
sua ironia dissacrante, contrappone la gravosa scrittura di Manzoni a
quella leggera di Leopardi: attraverso l’armonizzazione della bestialità dei
cognomi con le facoltà intellettuali e la peculiarità delle azioni del “latore
di quel cognome”, lo scrittore individualizza il fato.
Maialetti si chiamava l’usciere di un giornale romano e diversamente da
come può credere la gente volgare, ossia coloro per dare un esempio
che se vedono uno per istrada che scivola e cade si mettono a ridere,
quel nome non sonava buffo o triviale attraverso le scale o i corridoi
della redazione (Maialetti, Maialetti! i redattori anche senza ragione
precisa chiamavano l’usciere Maialetti, per il solo fascino che esercitava
questo nome), ma come una parola antichissima e sacra. 7
Il riferimento alla dea romana Maia, divinità della fecondità e del
risveglio primaverile, è lampante: infatti, presso gli antichi romani, ogni
primo di maggio, veniva offerto un verro castrato alla dea con l’auspicio
che questa concedesse fertilità alla terra.
Il decadimento della bestia originale rivela talvolta un dramma pietoso,
come nel Leoncavallo ridotto nella sua umana realtà a un cartellone da
circo, a uno scendiletto. In Lusignoli l’elle iniziale non sai se è la sineresi
dell’articolo col sostantivo, oppure una sopravvivenza di luscinia (del
33
resto lusignolo si è detto anche in italiano). 8
Pelasgo è il nome di vari eroi, eponimi del popolo “mitico” dei Pelasgi, i
quali occuparono il Peloponneso. Nella mitologia arcade, esistevano due
filiazioni distinte di Pelasgo.
La prima lo attesta come il padre di Licaone, il quale, a sua volta generò
cinquanta figli, eponimi della maggior parte delle città arcadi, e una figlia,
34
Callisto, la quale generò da Zeus l’eroe Arcade, eponimo dell’Arcadia (a
proposito della “geografia antica citata da Savinio”).
La seconda lo presenta come essenzialmente argivo, e non più arcade.
Pelasgo aveva una figlia, Larissa, la quale diede il proprio nome alla
cittadella d’Argo (in riferimento alla citazione dei “minareti di Larissa).
35
inclinazione all’agricoltura. Comunque sia, questo resta certo che, o per
imitazione, o per trasformazione, i Mirmidoni, ossia uomini forti o provati
guerrieri dello stampo di Achille, erano Uomini-Formiche. 10
Il carattere, nuovamente ossimorico, dell’accostamento delle umane virtù
dei Mirmidoni con la loro qualità di discendenti dalle minuscole
formiche, non fa che esaltare il loro status di fieri combattenti e operosi
agricoltori rispetto all’aristocrazia cortigiana francese, così futile e
ciarliera da assomigliare a una "uccelliera":
36
chiamato Eridano, regge a stento coricato sulla riva l’infinita tristezza
della sua testa di bue. Fanciulle, dietro, vivono per metà in ispecie di
pioppi… Se i nostri musei fossero conservati nonché da storici dell’arte e
da funzionari ma da psicologi ancora e da metafisici, quella pittura
sarebbe stata confinata in camera charitatis tra le pitture per uomini soli.
Alla vista di quella pittura, il visitatore si sente improvvisamente nudo.
Dico “nudo”. Né di quella sola nudità che si può coprire sotto calzoni e
giacche a due petti, ma di quella tremenda nudità che a nasconderla non
bastano le morti accumulate di più antenati, fino ai più lontani, più
oscuri, più sacri; fino ai nostri padri dimenticati: gli animali. 13
Nella mitologia classica i fiumi erano considerati divinità generate da
Oceano e da Teti e ad essi venivano attribuiti culti religiosi e discendenze
eroiche. Spesso i loro nomi erano anche legati a racconti di imprese, di
viaggi o di vicende toccanti. Nel caso di Eridano, generalmente
identificato con il Po, la tradizione lo associa a due grandi cicli mitici: le
peregrinazioni di Eracle in Occidente per raggiungere il giardino delle
Esperidi ed il viaggio degli Argonauti diretti nella terra di Circe. Proprio
nell'ambito della storia di Giasone e Medea, la presenza del fiume
richiama la triste e luttuosa vicenda di Fetonte, giovane figlio del Sole,
che impaziente di guidare il carro del padre, finì con il precipitare nelle
acque dell'Eridano. Le sue sorelle, le Eliadi, ne raccolsero il corpo, gli
resero gli onori funebri e lo piansero tanto che furono trasformate in
pioppi.
Oltre l’Eridano si estendeva la terra dei Liguri, i quali veneravano il Bue
nell’era della Grecia arcaica. I Liguri dell'epoca romana, per contro,
avevano il culto del cigno. Il loro re, Cicno, a causa della disgrazia
dell’amico, fu tramutato in cigno per il suo pianto inconsolabile.
In quella serie di mie pitture che figurano uomini con teste di animali, i
più frivoli hanno creduto ravvisare una intenzione caricaturale, che
assolutamente manca. Quelle mie pitture sono “studi di carattere”;
meglio ancora: “ritratti”.
Perché il ritratto – il “vero” ritratto – è la rivelazione dell’uomo nascosto. Il
quale ora è un gatto, ora un cervo, ora un maiale. Più di rado un leone.
Ancor più di rado un’aquila. Spesso un animale senza vita ma
ugualmente nocivo e mortifero, ossia una carogna.
Questa “verità” tanto profonda, tanto terribile, tanto grave da portare che
37
gli Egizii, temendo di soccombere sotto il peso la facevano portare ai loro
dei.
La quale verità, quassù, eufemisticamente, si chiama metafisica.
Ed è scienza italiana, per eccellenza. 14
Ricordo di aver letto, circa quarant’anni fa, una versione italiana delle
Argonautiche di Apollonio Rodio. Sul frontespizio, in basso, tante M, tanti
C e tante altre maiuscole, componevano una data come il 1760 o là
intorno. Degni i caratteri di stampa dello zoccolo della Colonna Antonina.
Ricordo soprattutto che alla parola “azzardo”, usata nel contesto,
rispondeva a piè di pagina questa nota: "Azzardo, dal nome di un castello
38
Hasart, presso Gerusalemme, nel quale i crociati si riducevano a giocare
a dadi, per ingannare la noia dell’assedio". A quarant’anni di distanza,
questa etimologica nota mi è riaffiorata in mente, pochi giorni addietro,
mentre leggevo L’origine del linguaggio di Paolo E. Santangelo (Ed.
Bompiani, 1949).
L’etimologia è una scienza che m’incanta. Essa soddisfa al mio gusto di
vedere come le cose sono fatte dentro, come sono fatte sotto. Capisco la
gioia di Leopardi, allo scoprire che nausea viene da naus, nave. Gusto
infantile. Bambino, rompevo i mie i giocattoli per vedere come erano
fatti dentro. Anche i mobili di casa. Il ricordo di certe punizioni, mi cuoce
ancora nella memoria. Mi piaceva che il cameriere, la mattina, tirasse su
le vesti del canapè e delle poltrone, per andare sotto con la scopa. Tirare
su le vesti alle cose, vedere quello che c’è sotto, è una di quelle curiosità
che più mi seducono ancora. E questa mia curiosità non si è
imborghesita, ha conservato il “disinteressato” di allora. Il disinteressato
infantile. Non cercavo allora la verità, ma la cerco adesso. Non ho mai
rotto i ponti tra me e la mia infanzia. Non ho mai varcato la soglia del
reparto adulti. Non sono mai diventato uomo “serio”. Gli uomini “seri” io
li guardo con stupore, come pappagalli che hanno perduto le penne.
39
apre, ora un tappo che salta via. A star dietro agli ortodossi invece, non
son che porte che si chiudono, tende che vengono giù, tappi cacciati
sempre più dentro nel buco della botte. E io mi annoio.
Il mio amico Nino Sonzogno, musicista “fisiologico”, vorrebbe che gli
abbonati della Scala fossero invitati, a cinque per volta, a vedere lo
spettacolo dal fondo del palcoscenico. Poche volte gli Italiani guardano
lo spettacolo dal fondo del palcoscenico. Poche volte sono invitati a
entrare nei segreti del tempio. Al che aggiungo che, nonché l’invito,
manca agli italiani lo stesso desiderio di entrare nei segreti del tempio.
Quale letteratura più bianca della nostra?
Tra i popoli colti, l’Italiano mi pare non solo meno curioso, ma più restio
a scoprire i segreti delle cose; quanto dire l’origine delle cose. C’è
repugnanza di fronte all’origine delle cose; c’è timore; c’è vergogna. Si
vorrebbe che tutto che è, fosse balzato fuori bello e definitivo , come una
Minerva chiusa dentro una accollatissima veste. Ma e l’amore, allora?
Amore è penetrare, noi, le cose; di là di ogni repugnanza, di là di ogni
timore, di là di ogni vergogna; fino al più profondo della cosa, fino al più
segreto della cosa, fino alla origine della cosa; e lasciare che altrettanto
avvenga in noi. Amore cristiano, grande etimologia del sentimento. Si
aggiunga la ragione “pratica” di questo toccare l’origine delle cose: che,
toccando l’origine della cosa, si acquista assieme l’“infinito” della cosa.
Altrimenti si vive in un mondo di cose mozze. Posate sul suolo, non
abbarbicate con radici nel suolo, e tronche a una statura manesca. Che è,
purtroppo, la condizione sentimentale dei più.
Caso isolatissimo da noi di cacciatore di origini, Giambattista Vico, e
ormai lontano. Ci sono mancati di poi cacciatori come Frazer, come lo
stesso Salomone Reinach, come, nel campo dell’omerismo, Victor
Bérard; come, nella bandita della psiche, Freud. E un velo, anzi una lastra
di cemento, copre, allo spettatore italiano, fino all’ombelico l’umanità.
Mi guardo bene dal mettere l’autore de L’origine del linguaggio sullo
stesso piano con Sir Georges Frazer, non pure con lo stesso Salomone
Reinach. Ma, nonostante la mancanza di rigore, di gravità, di ordine, e
forse per questo appunto; e nonostante certo piglio di audacia
dilettantesca, c’è l’animo in questo autore di cacciatore di origini; e un
modo di porsi di fronte all’origine del linguaggio, che è l’origine stessa
dell’umanità, insolito nei filologhi, e massime nei filologhi italiani: ossia
40
di entrare nello stato originario del linguaggio e dunque dell’umanità,
con quello stesso amore del profondo, anzi, tout court, con quello stesso
amore, con quello stesso “sviscerato” amore, con cui Freud entra nel
fondo della coscienza umana. 17
Infine, a conferma della sua tesi, con il pretesto di raccontarci un
esempio “domestico”, definisce l’etimologia ovvero la “scoperta
etimologica”:
La mia bambina (anni cinque) ha scoperto che i fiammiferi si chiamano
così perché “portano la fiamma”. Una luce nuova ha brillato nei suoi
occhi d’oro, primo riflesso di una intelligenza più ferma delle cose, di una
felicità più sorretta da ragione. (…)
E io stesso tanti anni addietro ero ben felice di scoprire che cravatta
viene da croato, che le due prime lettere di snobismo sono la sigla di
sine nobilitate, che tiranno significava in origine custode dei formaggi. La
scoperta etimologica è una “illuminazione”. La scoperta etimologica ci dà
l’impressione (o l’illusione) di toccare con mano la Verità. quindi quel
gradevolissimo sentimento di ambizione appagata. Ma è sentimento
giovanile e chiuso entro i limiti dell’adolescenza, (o meglio:
“dell’adolescentismo”, perché molte volte il senso adolescentistico
continua anche di là dell’adolescenza). Superati questi limiti, il significato
primitivo delle parole non ci sorprende più, e saggiamente noi ci
attendiamo al significato acquisito e che talvolta è lontanissimo da
quello originale. Che in Piemonte la suocera la chiamino Madonna a noi
che importa? Spenta la curiosità di scoprire le “radici”, una maggiore
libertà ci rimane per scoperte più importanti. La fine dello scorso secolo
è stata l’epoca d’oro dell’etimologismo. Devoti alla dea Ragione, gli
uomini s’illusero di aver toccato con mano la verità. Fu un momento di
gioia piena, orgogliosa, trionfante. Poi, a poco a poco, e mentre le
concioni degli “illuminati” e gli zum-zum delle filarmoniche echeggiavano
ancora nel cielo senza Dio, la delusione cominciò a minare quel terreno
in apparenza così solido. E quello che in principio sembrava l’aurora di
una vita nuova e lucidissima, non era invero se non il segno che corri
corri, arranca arranca, la civiltà settentrionale era arrivata su un binario
morto. 18
41
a parola). Nel momento in cui si genera la rivisitazione del mito, si
percorrono direttrici etimologiche, vettori che attualizzano il senso
originario della parola.
La neo-filologia di Alberto Savinio consiste in una etimologia
mitopoietica: l’analisi filologica, nell’attimo dell’“illuminazione” della
scoperta etimologica, rappresenta in immagini sempre nuove il mito:
siamo in presenza di una reciprocità bidirezionale, dalla parola (mithos)
verso il neo-mito e dall’epifania dell’“illuminazione” etimologica a ritroso,
per via filologica, sino all’origine dell’umanità radicata negli universali
fantastici.
Nel presentare i seguenti passi, troviamo la conferma della nostra analisi
e, rispettivamente, di mitopoiesi etimologica…
ORFEO (II). Il nome di Orfeo, di origine egizia e fenicia, è composto di aur
(luce) e rophae (guarigione, salute). Orfeo è colui che porta agli uomini la
luce e verità. Orfeo non è morto. Gli orfei sono tanti e si rinnovano. Al
principio del nostro secolo viveva a Milano un tale che si chiamava
Gregorio Pezzoli, ma tutti chiamavano Fallatajà perché portava i capelli
lunghi sulle spalle. Costui aveva scritto un libro: perché ho donato agli
uomini luce e verità. Fallatajà era Orfeo ma nessuno lo sapeva.
Nemmeno lui. 19
…ed etimologia mitopoietica:
ACHILLE. Gli antichi operisti scrivevano il nome di Achille quando con
due elle e quando con una, secondo il significato che gli volevano dare.
Al nome del figlio di Peleo erano state immaginate due etimologie
diverse: Achilleus era colui che “scaglia il dolore”, Achileus era colui che
la divina provvidenza aveva annunciato come il “cordoglio d’Ilio”.
Comunque, il nome di Achille non doveva rimanere “inesplicato”, e
similmente i nomi degli altri eroi, degli dei, delle cose. Come si sa, la
freddura etimologica è molto frequente nei poemi omerici. Che più? La
stessa Pallade è freddurista, e termina il suo discorso all’assemblea degli
dei su una freddura degna di Paolo Monelli, ossia su Odisseo, nome del
politropo figlio di Laerte, e odisào, “odiare” (onde anche il nome di
Odisseo va scritto quando con due e quando con una sola esse).
L’etimologia è la psicologia del linguaggio, il modo di penetrare l’anima
delle parole. Una mente etimologica trae infiniti godimenti dalle parole, i
quali sono ignorati da coloro che non considerano le parole se non
42
come suoni convenzionali; così come una mente psicologica trae infiniti
godimenti dalla frequentazione degli uomini, i quali sono ignorati da
coloro che considerano l’uomo se non come una forma parlante e
semovente. L’inerzia di tanti scrittori viene dalla mancanza di quella
mente etimologica, che dà una così brulicante vivacità “interiore” alla
prosa di Giacomo Leopardi. Uomini che nascono, vivono, muoiono e non
s’accorgono, per esempio, che olezzo, per effetto di un semplice o
privativo, è la voce antitetica di lezzo; che innocente è il contrario di
nocente (…). Ignorano nonché l’amore alle parole (“filologia”) ma anche il
“gioco” delle parole (ignorano del resto anche gli altri “giochi” della vita, e
la loro vita è spenta e muta come la morte). La ricerca dell’ètimo è uno
dei principali motivi dell’intelligenza (da motus e come contrapposto a
“quietivo”) e però lo si trova allo stato grezzo nelle persone incolte, ossia
in coloro i quali l’apparenza, la finzione, il velo della coltura non hanno
spento ancora curiosità e desiderio di ricerca. Così, per etimologica
curiosità di scoprire il “perché” delle parole, mia suocera chiama
appetitivo l’aperitivo e mia cognata chiama Balneari le Baleari. Quanto
più interessanti, quanto più commoventi questi errori, del continuare a
dire aperitivo e Baleari e non domandarsi perché. 20
1 Giambattista Vico, Scienza nuova, Milano, Rizzoli, 1977.
2 Alberto Savinio, Dico a te, Clio, Milano, Adelphi, 1998, p. 120.
3 Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, Milano, Adelphi, 2002, p. 40.
4 Alberto Savinio, Nostri antenati, in Scritti dispersi 1943-1952, cit. p. 20-
25.
5 Ivi.
6 Ivi.
7 Ivi.
8 Ivi.
9 Ivi.
10 Ivi.
11 Ivi.
12 Ivi.
13 Ivi.
43
14 Ivi.
15 Alberto Savinio, Tutta la vita, in Casa "La Vita”e altri racconti, Milano,
Adelphi, 1989, p. 241.
1 6 Alberto Savinio, Avventura delle parole, in Scritti dispersi 1943-1952
cit. p. 728.
17 Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, cit. p. 138-139.
18 Ivi.
19 Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, cit. p. 284
20 Ivi, p.19.
44
IL MITO DELL'INDIFFERENZIATO
EROS E PSICHE
46
ascolta e non risponde. È viva! viva in una sua vita che io non… Felice… In
quel sonno… 2
Per Rothspeer, l’Arte-Psiche è un mero oggetto, non un soggetto che
attraverso l’interazione possa arricchire la sua umanità. Come un
ignorante collezionista, il Barone, grazie al suo potere, ottiene il possesso
dell’opera Angelica, ma non sa che farsene. L’occasione per redimere la
sua insensibilità attraverso l’amore è concreta, ma Rothspeer non riesce
a vederla. Dopo un’infinita serie di incomprensioni, all’apice
dell’incomunicabilità, il Barone, in uno scatto di inutile gelosia, spara a
Eros, che veniva segretamente a visitare Psiche prigioniera, ferendolo, e
condannando così Psiche a una lunga infelicità, e con essa il mondo
intero. Il seguente passo fa risaltare la triangolazione fra società, arte,
realtà e i complessi termini dei loro rapporti:
MAZAS. (arriva di corsa, trafelato). Malas notitias! Venticinque suicidi in
città. Quaranta assassinii in un’ora. Settantadue padri hanno stuprate le
figlie. (…)
Che ora sarà? Gli orologi non camminano più. Il tempo si è fermato nel
cuore di una notte infinita , senza domani. E ora?
Salgono a noi le voci, i gemiti più lontani del mondo:
preghiera dei superstiti:
O stelle, o pleiadi,
Sanate Amore!
Presa alla sprovvista, Psiche tacque e fissò Perdita. Il suo occhio rotondo
di uccello, per lo stupore maggiormente si arrotondò. “Su le spalle
dell’alato dio” continuava intanto Perdita, esaltandosi e accendendosi in
viso “ali rugiadose biancheggiavano di sfavillante splendore e benché
fossero ferme, tremolavano di continuo e palpitavano alle estremità
scherzose piumoline. Il resto del corpo era liscio e bello…”. Psiche a
questo punto rompe lo stupore e dà fuori una risata dentata a sega, che
dentro il suo becco di pellicano risuona come un riso di legno. 5
Quello che in Apuleio era il riconoscimento di Amore si è tramutato nella
disgustosa scoperta del pene maschile:
Avrei voluto che la lampadina sopra il mio letto spandesse raggi di
tenebra (…) Avrei voluto che la luce si spegnesse per sempre sul mondo.
(…) Che (…) tutti i sistemi di illuminazione sparissero improvvisamente,
per nascondermi quello che io vidi allora: la cosa più brutta, più stupida,
più avvilente, più sconcia, più informe, più bestiale, più inumana, più
ridicola, più immonda, più illogica, più grottesca, più oscena, più
inguardabile che occhio umano abbia mai veduta!... E quello era mio
marito! Quello il signore di tutto! (…) Non potevo credere. Guardavo e
non vedevo. (…) Pensai che l’occhio mi tradisse, che il mio fedele occhio
di pellicano si prendesse gioco di me (…) che una bestia immonda si
fosse sostituita nel buio a mio marito. Che un viscido lumacone, un
bruco calvo avesse preso il posto di colui che, invisibile, mi dava tanta
felicità, tanto piacere, tanto calore (…) Subito che ebbi fatta luce, mio
48
marito… ma perché dico ancora “mio marito”? Io non devo, io non voglio,
io non posso dare ancora il nome di marito a quel lombrico schifoso e
grottesco… subito che ebbi fatta luce, quello già dormiva, ma turgido
ancora e ansante dalla fatica (…) Paonazza tuttavia la testa, potentemente
cupolata e svasata alle ganasce a imitazione dell’elmetto di guerra dei
soldati tedeschi, priva così di occhi come di naso e solo di bocca fornita,
muta e verticale come bocca della torpedo ocellata. Il suo corpo
tubolare, sul quale s’incordavano e palpitavano grosse vene turchine, e
privo sia di braccia, sia di gambe, sia di ali posava goffo e squilibrato
sopra due borse rigonfie e lustre, simili alle borse di una doppia
ciaramella. (…) Le stesse borse si sgonfiavano e allungavano, perdevano
il lustro e si rigavano di rughe, quasi attraverso un invisibile meato e
senza sibilo perdessero l’aria (…) Il molle cilindro si riduceva e deformava
(…) giaceva umiliato e sfatto, avvolto nella propria pelle come un
morticino nel sudario. 6
La svolta è brutale, il salto dall’aulico al volgare, dal leggiadro e
leggendario al disgustoso e concreto è così netto da mettere a disagio
qualunque lettore. Ma questo è proprio quello che Savinio vuole
ottenere: l’arte non deve creare un senso di sicurezza nel fruitore, ma
deve anzi stravolgere “ogni sicurezza, aspettativa di senso, abitudine
percettiva”, ed è anche in questo contesto che va intesa la distruzione
dell’aura e della sacralità del mito.
GLI ARGONAUTI
“due ore già son; … o meglio: Giasone, che mi sento più che mai
l’argonauta”
Alberto Savinio, Hermaphrodito
ERMAFRODITO
51
uomo turchino, giallo, verde, e così via. Peli e unghie se li fa spuntare a
vista d’occhio. Da uomo diventa donna e reciprocamente"). In Infanzia di
Nivasio Dolcemare, Ermafrodito metaforizza la somma perfezione ("…
Ermafrodito addormentato rappresenta oggi, come al tempo del
Simposio, l’immagine ideale della perfezione. Ma non è un dio neutro
costui, sibbene il divino totale dei totali"). In Ascolta il tuo cuore, città
sublima in ermafroditismo letterario come caratteristica negli "…Uomini
della Poesia, in questi uomini che sono insieme donne" e spunto
polemico contro il funzionalismo architettonico coevo ("penso all’uomo
che ha in sé anche la donna, all’angelo che ha in sé anche il demonio.
Alle felici mistioni finiremo per ritornare, ma quando?"). In Tutta la Vita,
l’unione ermafroditica slitta dalla fusione metafisica alla congiunzione
fisica: Savinio rende il mito feriale, quotidiano, domestico ("le due sorelle
morte rivissero effettivamente nel fratello vivo. Igeo a poco a poco
diventò uomo e assieme donna, e anche nella mollezza dei tratti, nella
rotondità dei fianchi, nella voce, nei gesti, nei gusti…").
52
succede, sublima in un significato più generale di condizione
ermafrodita, nel discostarsi da persone e cose che Savinio sente
contrarie alla sua personalità e nel focalizzare un’immagine
perentoriamente (attraverso la funzione, essa stessa ermafrodita, di
"microscopio-telescopio").
Sono le cose minute, i piccoli fatti, le situazioni di poco conto e non le
grandi opere che interessano Savinio, visti al microscopio i primi e al
telescopio le seconde.
Opposizioni di linguaggio aulico e scrittura oscena, scontro di arcaismi e
neologismi, antagonismi di scelte lessicali barocche e cadute lirico-
elagiache.
Ad ogni passo, il secondo termine delle contrapposizione si innesta sul
primo, neutralizzandolo: se ne deduce che quella saviniana è un tipo di
scrittura che "corre" sempre sul filo, su cui camminano e si destreggiano
le due parti dell’Ermafrodito.
Savinio promuove questa scrittura mobile e pericolosa, fuori da ogni
strada battuta, in questo modo:
ULISSE
53
ora e per sempre che ogni qual volta Ulisse pronuncia il nome della
propria moglie, egli esprime contemporaneamente l’idea di orinale”.
Alberto Savinio, Capitano Ulisse.
54
più, perché sapeva che appena iniziato, l’ultimo viaggio si converte in
penultimo. Era necessario dare un porto a questo navigatore senza
porto, un termine al suo viaggio, una morte alla sua vita. La sorte di
Ulisse è rimasta in sospeso. La fama un giorno lo consacrò uomo
dell’ultimo viaggio… Aveva creduto per molto tempo alla sincerità dell’
ultimo viaggio. Sfinito da quel continuo girare a folle, gli fu giocoforza
convincersi che l’ultimo viaggio era come i capelli di Eleonora, che
quando non ce n’è più ce n’è ancora. “E quasi non bastasse” mi confidò
una volta Ulisse “questo trucco dell’ultimo viaggio me lo vollero abbellire,
inzuccherare. Me lo chiamarono il folle volo!”. Fumava di rabbia “Che
ingenuità! Che mancanza di riguardo! Eppure, Dante lo credevo una
persona seria…”. Tacque un momento poi aggiunse: “forse per questo
appunto. Gli uomini seri sono stati i miei peggior nemici”. 12
"È vero", commenta Savinio, "un destino imbecille, una sorte cocciuta
hanno invariabilmente spinto Ulisse nelle zone serie delle vita". Ulisse è
ora un’illusione reale, che oscilla in un "dormiveglia tra la vita e la
morte". "Imbecille" è il destino serio di Ulisse. Savinio sottolinea il fatto
che, avendo ormai divorato la sua vita al punto da averne abbastanza,
Ulisse potrà morire in pace se lo desidera. Si sa, il mito rinasce dalle sue
ceneri, ma secondo Savinio l’eroe, più in generale, ha bisogno di leggere
le burle ironiche del mito, mantenendo la sua tradizionale poesia. La
"metafisica della scemenza" è un prova di vita nell’enfasi laddove il riso è
fondamentale. "La Storia – scrive Savinio – dice la cosa com’è, il teatro
come dovrebbe essere". L’ironia è la cultura della purificazione e della
rigenerazione, l’unico ponte fra la vita e la morte, il veicolo per districare i
"nodi della vita in modo altrettanto spedito, asettico, indolore".
1 Alberto Savinio, Angelica o la notte di maggio, in Hermaphrodito e altri
romanzi, Milano, Adelphi; 1995.
2 Ivi.
3 Ivi.
4 Alberto Savinio, La nostra anima, Milano, Adelphi, 2001.
5 Ivi.
6 Ivi.
55
8 Ivi.
9 Ivi.
10 Ivi.
11 Ivi.
12 Alberto Savinio, La Verità sull’Ultimo Viaggio.
13 Ivi.
56