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EDITORE: AEDO BOOKS 3

AUTORE: MARCO GREGORI 4

SINOSSI 5

ALBERTO SAVINIO: OPERE 6

MITO E PAROLA 13

METAFISICA VOLGARE COME TEOLOGIA DEI POETI 23

MITOPOIESI ETIMOLOGICA, ETIMOLOGIA MITOPOIETICA 31

IL MITO DELL'INDIFFERENZIATO 45

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EDITORE: AEDO BOOKS

AUTORE
[MARCO GREGORI]
EDITORE
[AEDO BOOKS]
Copyright © 2014 [AEDO BOOKS]

PRIMA EDIZIONE ELABORATA CON PAPYRUS, 2014

PROPRIETA' ARTISTICHE E LETTERARIE RISERVATE

3
AUTORE: MARCO GREGORI

L'autore dice di se stesso: "uno che non si crede nessuno, ma non la


pensa come centomila!".

4
SINOSSI

Alberto Savinio mira a rendere proprio il mito, dopo averlo sdradicato


dalla inerte fissità in cui lo ha relegato la letteratura, che ne ha
depauperato l’abbondanza semantica fino a disperderne il significato
originale, pietrificandolo in statua. L’artista instillerà il soffio vitale a
queste marmoree sculture, le aiuterà a muoversi fino a farle camminare,
liberandole dalla loro eterna sincronia olimpica e immergendole
nell’inesorabile diacronia del tempo storico attraverso una parafrasi
mitopoietica. Savinio riconosce nella mitologia un linguaggio e nei
singoli miti che la compongono lo status di parole: l’artista ha la
potenziale facoltà, l’ineccepibile diritto, la straordinaria possibilità di
muovere le seconde e ricreare i primi, rielaborandoli.

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ALBERTO SAVINIO: OPERE

Suo fratello Giorgio De Chirico si elevò a Pictor Optimus; il suo amico


Guillaume Apollinaire si autodefinì Il Poeta assassinato; il suo grande
estimatore Andrè Breton considerò I Dioscuri Giorgio e Andrea come
"padri del surrealismo": nel nostro piccolo, ci permettiamo di eleggere
Alberto Savinio "Artista Nuovo".

Partendo dall'assunto saviniano secondo il quale l'intelligenza creativa di


un artista è più profonda, cioè precorre il criterio specifico di ogni
singola arte, è sciocco e ingiusto assoggettarsi ai suoi principi peculiari,
alle sue persuasioni individuali.

Questo impianto teorico globale si concretizza in un metodo artistico in


cui ogni gesto creativo, non importa se letterario, pittorico o musicale,
possiede una tensione verso la conoscenza di un volto ogni volta (e ora
solo) specifico della veridicità intima del reale, ma che istantaneamente
rinvia ad un'idea universale del mondo.

L'unità della cosmo creativo saviniano, nella quale continui rimandi


interni legano immagini pittoriche, passaggi letterari e composizioni
musicali è generata dal vigoroso carattere intellettivo della sua arte.
L'aggettivo "intellettivo" corrisponde ad attribuire all'arte esercizio non di
vacuo estetismo ma di consapevolezza nella ricerca del vero, di
conoscenza filosofica ovvero mentale del mondo nella sua totalità,
ponendo così in crisi l'ideale decadente di "unità delle arti".

Ogni tema affrontato da Savinio, alla luce della complessità del suo stile
e della sua erudizione, delle innumerevoli relazioni, deviazioni, rimandi
disseminati in tutta la sua opera, richiede uno studio multiforme che
accolga varie forme d'arte.

Un'elocuzione biografica sul minore dei fratelli De Chirico equivale a una


dissertazione sul suo sapere, sulla funzione che ha ricoperto nel mondo
culturale europeo del ventesimo secolo, sulla sua teoria artistica e sulla
sua poliedrica produzione.
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Nato in Grecia nel 1891, trasferitosi in Baviera, vissuto con movimento
pendolare tra Parigi e varie città italiane, Andrea Alberto trarrà i benefici
di questo "nomadismo" che gli donerà favorevoli, efficaci, proficui
scambi culturali.

Dodicenne si diplomerà in pianoforte e composizione in terra ellenica,


perfezionandosi a Monaco con il "Bach Moderno" Max Reger, per poi
raggiungere il fratello Giorgio nella Ville Lumière.

Questo primo soggiorno parigino sarà fertile di conoscenze, da


Apollinaire a Jacob e da Picasso a Cocteau.

L'esordio artistico nella capitale transalpina è caratterizzato da una densa


attività musicale in veste di compositore, esecutore, teorico. Nel 1912 si
dedica alla scrittura dell'opera buffa Le trésor de Rampsenit lasciandola
incompiuta e l'anno successivo compone la musica per il balletto
drammatico La mort de Niobé; negli stessi mesi termina il saggio
concettuale Le drame et la musique. Nel 1914 crea la corrente musicale
del "sincerismo", teorizzando disegni sonori disarmonizzati. Nel
medesimo anno debutta in letteratura con il poema drammatico Les
chants de la mi-mort, opera che rivela un'accentuata personalità e palesa
stilisticamente e strutturalmente caratteristiche protodadaiste e
protosurrealiste.
Essendosi arruolati come volontari, nel 1915 i "Dioscuri" fanno ritorno
nel bel paese e vengono inviati a Ferrara. Nella città estense, incoraggiati
da Papini e coadiuvati da Carrà, fondano il movimento pittorico più
importante del novecento italiano: la "Scuola metafisica". Prontamente si
uniranno a questa esperienza anche De Pisis e Morandi.

Nel 1916 Savinio scrive sulla rivista "La Voce" mentre nel 1918, per la
casa editrice omonima, pubblica il romanzo Hermaphrodito: si tratta di
un'opera plurilinguistica e multigenere che rappresenta il preludio,
costituisce la fonte di tutta la produzione successiva per l'abbondanza di
stili e tematiche.
Nel 1920 esce il suo secondo romanzo, La casa ispirata: in questa opera
Savinio espone le sue considerazioni sulla mostruosità del reale e
sull’aura funerea che lo invade. Da questo scritto il tema della morte
diventa prevalente in Savinio anche se qui le considerazioni
sull’argomento non sono pervase dall’angoscia.

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Dello stesso anno è la redazione finale di Tragedia dell’infanzia: diversi
episodi autobiografici spiegano il conflitto e l’incomunicabilità fra
l’universo infantile e il mondo degli adulti. Il libro è imperniato sulla
problematica della relazione fra infanzia ed espressione artistica e
sull’educazione-repressione della fantasia.
Nel 1925 Savinio e De Chirico iniziano la collaborazione al "Teatro d’arte"
di Pirandello: per Alberto è l’occasione di volgere di nuovo l’attenzione al
teatro, da lui considerato la sede ideale dell’espressione artistica nella
quale convergono la musica, la letteratura, le arti visive.
Ancora nel 1925, Con l’obiettivo di una pronta messa in scena, scrive il
dramma Capitano Ulisse, pubblicato in volume nel 1934, che verrà
rappresentato solo nel 1938 a causa dei noti problemi della compagnia
del "Maestro" siciliano; lo stesso "Nobel" per la letteratura definirà
questo dramma tripartito come un’opera di ironia lirica sull’eterno mito
dell’inquietudine di Ulisse. Il testo teatrale saviniano consiste in una
originale rielaborazione del mito odisseo in chiave moderna.
Nel 1926 il poliedrico artista redige il romanzo Capri che rilegge in forma
parodistica il genere delle prose di viaggio. Questo scritto è un
vademecum ma non ha nulla del prontuario turistico: l’isola diviene un
luogo leggendario conchiuso nel mito e circondato da acque abitate da
straordinari esseri mostruosi in un’atmosfera surreale che visivamente
riporta agli scenari pittorici bockliniani.
L’anno in corso registra il matrimonio con Maria Morino e l’inizio del
secondo soggiorno nella capitale francese dove Savinio rende molto
intensa la sua produzione pittorica che l’anno seguente sublimerà nella
sua prima mostra personale, presentata dall’amico Jean Cocteau.
Il 1927 vede anche la pubblicazione del romanzo dall’architettura e dal
soggetto teatrale Angelica o la notte di maggio, opera nuovamente di
parodia (questa volta dei romanzi d’appendice) intrisa di ambigua
simbolicità: la rivisitazione mitica questa volta pervade con lumi surreali
la leggenda di Amore e Psiche.

Nel 1928 nasce la sua primogenita, che si chiamerà proprio Angelica e


non a caso: la valenza simbolica del nome richiama Ariosto e Savinio
stesso.
Nel 1929 appare su una rivista parigina il racconto in francese

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Introduction à une vie de mercure, che si considera lo scritto
stilisticamente più affine alla corrente surrealista, nella quale Savinio non
si è mai fatto circoscrivere, rivendicando la sua precipua e originale
missione di dare "forma all’informe e coscienza all’incosciente": in
questa opera la fantasia corre libera dando vita ad un umorismo
dissacrante.
Il 1933 segna il definitivo rientro in Italia dei Savinio ed è l’inizio di un
lustro durante il quale Alberto, cambiando spesso il luogo in cui vive fra
Torino e Milano (nel 1934 nascerà il secondogenito Ruggero) si dedica
principalmente alla pittura ed intensamente alla letteratura.
Nel 1938 viene edita la raccolta Achille innamorato (Gradus ad
Parnassum), contenente i racconti pubblicati in giornali e riviste tra il
1919 e il 1937: le narrazioni hanno nitidi accenti surrealisti o rivisitano i
miti classici tra il registro tragico e quello grottesco reinventandoli.
Nel 1940 esce Dico a te, Clio, un diario di viaggio nell’Italia centrale in cui
gli appunti danno spunto a un esteso discorso sulla memoria collettiva e
a un personale approfondimento del concetto di storiografia: il gusto per
la divagazione argomentativa diviene il nucleo centrale del testo
dissolvendo savinianamente il soggetto originario del libro.

Nel 1941 Savinio pubblica Infanzia di Nivasio Dolcemare, romanzo


dedicato alla fanciullezza, chiaramente autobiografico: è la narrazione
briosa e divertita della sua formazione individuale ed artistica,
ambientata in atmosfere densamente magiche e costellata di efficaci
caratterizzazioni psicologiche dei personaggi.
Nel 1942, con Narrate, uomini, la vostra storia, Savinio contribuisce
all’innovazione della storiografia arricchendola di un biografismo "semi-
immaginario", ponendo in evidenza la posizione dialettica del suo punto
di vista rispetto a quello tradizionale. Mantenendo il riguardo verso le
fonti, egli evita l’immobilizzazione descrittiva dei personaggi
rivitalizzando le latenti potenzialità biografiche mai colte nelle precedenti
cristallizzazioni dei protagonisti.

Nel 1943 Savinio dà alle stampe la raccolta di novelle Ascolto il tuo


cuore, città, omaggio alla Milano reale e a quella ideale, la prima ricca di
viali, larghi, architetture, la seconda di valori sociali e culturali positivi.
Questa opera è rilevante anche sotto l’aspetto stilistico: l’autore traccia il

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raggio d’azione della componente strutturale del suo umorismo, ovvero
la freddura.

Di nuovo nel 1943, esce a puntate su un periodico la biografia Vita di


Enrico Ibsen, assolutamente saviniana nell’infuocato soliloquio in qui il
drammaturgo norvegese è il silente interlocutore. In questo scritto si
muovono parallelamente il nucleo autobiografico e una costellazione dei
temi più eterogenei, ma il pedale armonico, l’argomento viscerale è
sempre quello della funzione e del senso dell’arte relativamente alla
scelta del “reale” da rappresentare.

Lo stesso anno vede la pubblicazione dei racconti di Casa "La Vita", che
rappresentano la sintesi delle sue riflessioni riguardanti i temi del
tetragono Infanzia-Tempo-Morte-Mito opposto, in termini geometrici, alla
ipocrita fissità della perfezione del cerchio-borghesia. Savinio mette in
scena le grandi paure e i tabù della società borghese: il tempo che passa
inesorabile, il sesso e principalmente la morte. Caratteristiche, in questa
raccolta, sono le alterazioni linguistiche, vere e proprie deformazioni
all’insegna dell’ambiguità dell’espressione verbale che costituiscono le
linee principali della "poetica del lapsus", uno dei pilastri della sua arte.

Nel 1944 Alberto pubblica La nostra anima, testo all’insegna della


personalissima rielaborazione mitologica, nella fattispecie del mito di
Eros e Psiche, illuminando la rivisitazione con una surreale e grottesca
psicoanalisi. Lo scritto fornisce la chiave di lettura e di riproposizione
saviniana dell’opera di Freud, con particolare attenzione all’analisi del
linguaggio.

Nel 1945 è la volta di una nuova raccolta di racconti, intitolata Tutta la


vita, che rappresenta una esposizione di caricature dove il sistematico
cavar fuori umoristico è utilizzato per scovare il contraddittorio, il
meschino, il falso della società borghese.

Nell’intervallo fra il 1949 e il 1952 scrive sul "Corriere della sera" racconti
che saranno pubblicati in un volume postumo dal titolo Il signor Dido.
Come in un romanzo del fratello Giorgio "Il signor Dudron" è il gemello
del maggiore dei De Chirico, qui "Il signor Dido" è l’alter ego di Savinio.
Questo ritratto dell’artista maturo è dialettico rispetto a quello
dell’infanzia di Savinio-Nivasio, ma i due termini sono legati da
riferimenti, equivalenze, analogie tra le quali corre sul filo, in equilibrio,
una comune verità: la ricerca dello "psichismo delle forme" come senso
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della propria arte.
Con questa sorta di atto testamentario artistico e spirituale, Alberto
Savinio scompare a Roma il 5 maggio 1952.
L’attività saggistica e giornalistica di Savinio è raccolta in vari volumi di
argomento letterario, musicale, teatrale, cinematografico, politico.
Nuova enciclopedia raccoglie articoli scritti negli anni quaranta: questa
enciclopedia "a suo uso personale" si presenta come un perfetto
autoritratto, ma anche come un ritratto della nostra civiltà, giunta al
punto in cui deve riconoscere che il sapere non è più univoco senza
fingere una coerenza abbandonata da tempo.
Souvenirs raggruppa scritti degli anni venti e trenta riferibili in prevalenza
al secondo soggiorno parigino, ricchi di memorie personali e pagine di
critica, ma soprattutto sono una doviziosa testimonianza sulle
avanguardie.
Scatola sonora rappresenta l’insieme delle recensioni in forma di
riflessione critica sulle musiche ascoltate, vissute e rivissute nella
memoria, degli anni trenta e quaranta: hanno un forte senso
autobiografico e rispecchiano una strada percorsa alla ricerca di un
insondabile segreto che la musica cela in sé ma che mai rivela nella sua
totalità.

Palchetti romani mette insieme critiche teatrali che testimoniano la


continuità del suo interesse per questa forma espressiva: spiccano per la
loro originalità ma anche per un’irriverenza che valica i limiti
dell’eversione.

Il sogno meccanico è una raccolta tripartita di soggetti, riflessioni,


recensioni sul cinematografo. La presente è un saggio sull’amore-odio di
Savinio per il cinema. Come il sogno, il cinema è per sempre perduto e
non dona né una piena felicità né il contrario: rimanendo sospeso in una
finzione generata meccanicamente diventa, appunto, un sogno
meccanico.
I n Sorte dell’Europa sono raccolti gli articoli di politica, in cui viene
esposto il pensiero saviniano di una politica condotta dall’intelligenza
critica, contro ogni dogmatismo.
Alberto Savinio ha scritto anche importanti prefazioni. La più corposa,

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Maupassant e l’Altro, edita nel 1960 a cura di Giacomo Debenedetti,
faceva parte dell’edizione del 1944 dei Venti racconti di Guy de
Maupassant con lui e l’altro di Alberto Savinio. Anche in questo saggio il
dato autobiografico prende il sopravvento: lo studio dell’isolamento
dello scrittore francese, "altro" rispetto alla cultura coeva, diviene l’analisi
dell’attività di Savinio e in ultimo riflessione sulla realtà stessa.

Per completare la trattazione biografica di Alberto Savinio registriamo


l’intensa attività teatrale e musicale svolta dal dopoguerra fino alla
prematura scomparsa dell’artista. Dal 1948 con il teatro "Alla Scala" di
Milano come regista e scenografo curando la messa in scena
dell’Oedipus Rex di Cocteau e Stravinski, dei Racconti di Hoffmann di
Offenbach, dell’Uccello di fuoco di Stravinski e dell’Armida di Rossigni.
Pubblica vari testi teatrali: La famiglia Mastinu, in cinque atti, nel 1948;
Emma B., vedova giocasta, monologo del 1949; l’Alcesti di Samuele,
tragedia, ancora nel 1949; Orfeo vedovo, opera in un atto; nel 1950;
Agenzia Fix, opera radiofonica, dello stesso anno; Vita dell’uomo,
tragicommedia di balletto e mimo, nel 1951.

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MITO E PAROLA

(…) nella lingua di Omero mito significa semplicemente parola.

Gli eroi di Omero parlano con voi e me, solo che usano miti come noi
usiamo parole.

L’errore è di chi legge e non sa ritrovare la sinonimia tra miti e parole.

Alberto Savinio, Casa La Vita

Il complemento mitologico incarna uno dei punti focali del linguaggio


artistico di Alberto Savinio: la mitologia corrisponde al linguaggio, il mito
equivale alla parola, la rappresentazione plastica e pittorica di dèi ed eroi
coincide con l’ideogramma e la loro immagine letteraria a un geroglifico.

La concezione saviniana della lingua omerica ruota intorno alla


sinonimia tra mito e parola ed è tesa a smentire la definizione “mitismo
omerico”, illusoria e insipiente interpretazione dell’autentica virtù di
quella lingua come idioma simbolico per antonomasia, capace di
ammantare l’interiorità umana rendendola percepile ai sensi: l’intimità
dell’animo, i sentimenti e i pensieri vengono espressi come se fossero
esperienze sensoriali, avvenimenti del mondo esterno.
I n Non forono miracoli né Omero né Virgilio, Savinio fornisce la sua
interpretazione della lingua e dell’uomo di Omero considerando la prima
alla stregua, potremmo dire, di un mosaico in cui i singoli vocaboli
rappresentano le tessere, il secondo come un obelisco con i geroglifici
sulle pareti:
Il pensiero nelle sue forme logiche comuni a noi europei è sorto presso i
Greci, e da quel tempo è considerato come l’unica forma possibile di
pensiero. Esso senza dubbio ha un valore determinante per noi europei,
e quando noi lo usiamo nelle speculazioni filosofiche e scientifiche, si
libera da ogni relatività storica e tende verso valori incondizionati e
duraturi, in una parola verso la Verità. E non soltanto tende alla Verità,
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ma raggiunge anche il Duraturo, l’Incondizionato, il Vero. Pure, e più di
quanto comunemente si pensa, questo pensiero è qualcosa di
storicamente “divenuto”. 1
Così comincia l’introduzione del libro di Bruno Snell "La cultura greca e le
origini del pensiero europeo" (ed. Einaudi).
A riga 9, su la parola “divenuto” chiusa fra virgolette, io mi fermai. La
qualità del libro e la forma mentale del suo autore mi erano apparse di
colpo. Pensai: qui andiamo bene.
Avevo capito che non si trattava del solito filologismo "classico", che
rimira le opere e le civiltà letterarie come altrettanti cadaveri
imbalsamati, ma di filologismo vivo e penetrante, e al quale la psicologia
del profondo ha dato un indirizzo e delle vedute che prima gli
mancavano.
Diciamolo subito: il libro di Bruno Snell è l’analisi filologica e assieme
psicologica di quella parte di storia letteraria che parte da Omero e arriva
a Virgilio, e che nella struttura della cultura europea è ciò che il granito è
nella struttura del globo terrestre.
Questo libro mostra prima di tutto il mondo omerico; poi mostra gli
acquisti che fa la mente greca passando dalla "condizione omerica" a
quella dei lirici e dei tragici; infine mostra i nuovi acquisti e soprattutto
gli adattamenti che fa la mente greca entrando nella mente latina e
animandola di sé, e come da questa "edizione" latina della mente greca
nasce e si forma il pensiero europeo.
In altre parole, il libro di Bruno Snell è la storia dei fondamenti della vita
mentale dell’Europa. (…)
Bruno Snell è professore di letteratura greca all’Università di Amburgo.
Filologo agguerritissimo e penetrante, e assieme intelligenza multiforme
e profonda. (…)
E mente libera: fondamentale qualità di Snell. Questi suoi studi letterari
dimostrano quanto utile è la libertà di mente nonché a un grande
dilettante come luciano di Samosata, come Voltaire, come Stendhal, ma
anche a uno specialista di filologia. Snell apre porte e finestre nella storia
dell’uomo, così come le apre Darwin, come le apre Freud. Solo che non si
serve di osservazioni sulla catena della specie, di sondaggi nel

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subcosciente, ma del diverso significato che una stessa parola ha sotto
la penna di Omero, sotto quella di Saffo, sotto quella di Euripide. E già mi
sento arrivare la lettera dell’assiduo lettore, che mi dirà che né Omero né
Saffo né Euripide usavano la penna.

Tanta finezza, nel filologismo tedesco finora io non l’avevo mai trovata.
Presentare Virgilio come iniziatore della reverie e del sentimentalismo,
Orazio come primo esempio dell’oligarchismo letterario che trae sua
boria da privilegi incerti e anzi inesistenti, ieri sarebbero parse
considerazioni poco serie; e sono proprio esse che ti mettono al vero
certi personaggi.
E da noi? Anche la filologia, da noi, come tante altre cose è in stato
predarwiniano. Dico: è, non dico: è ancora. Io non penso che in futuro
questo stato muterà. Questo stato è determinato da qualità di razza, e le
qualità di razza non mutano. O almeno, se mutamento c’è, esso nella
nostra prospettiva umana non appare. Che la filologia nostrana mi
presenti l’Iliade, l’Odissea, i lirici, i tragici della Grecia come altrettanti
miracoli, a me non dice nulla. Uomo, io voglio vedere come avvengono le
cose che fanno gli uomini. E questo la filologia nostrana non me le fa
vedere.
Il vocabolario di Omero ha i vocaboli corrispondenti i vari pezzi di un
mondo frammentario; gli mancano i vocaboli che esprimono l’idea di
anima, di spirito; gli mancano altresì i vocaboli che designano il corpo
umano nel suo insieme.
Già Aristarco, il filologo alessandrino, aveva stabilito il principio
fondamentale della interpretazione della lingua omerica: evitare di
tradurre i vocaboli omerici secondo il greco classico, sottrarsi nella
interpretazione del greco omerico alla influenza delle forme più tarde
della lingua. Ma nessuno che io sappia, prima di Bruno Snell aveva così
attentamente studiato le voci del vocabolario omerico, misurato la
"portata" del loro significato, riconosciuto mediante l’analisi delle voci la
condizione psichica del mondo omerico: la condizione psichica di un
mondo precedente l’invenzione della psiche.

La stessa parola soma (corpo), in Omero non designa il corpo dell’uomo


vivente, ma il cadavere. Mancano parole per il corpo come tale; ci sono
parole solo per le varie parti del corpo. Mancano parole corrispondenti a
braccia o gambe: ci sono parole solo per la mano, l’avambraccio, il
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braccio, il piede, la parte inferiore della gamba, quella superiore.

Eguale frammentarietà – eguale "disgiunzione"- a riguardo dell’anima.

Che cosa è l’uomo omerico? Particelle staccate l’una dall’altra, come i


geroglifici sulle pareti dell’obelisco. E tutte in primo piano, tutte nella
stessa luce. 2
I n Snobistica, dannunziana era la lingua d’Omero, Savinio analizza
ulteriormente la lingua omerica, in un originale ossimoro saggistico in
cui i termini apparentemente opposti sono l’ironia dell’autore e il rigore
del linguista:
Intorno ai poemi omerici si è formato, anche più spesso che intorno ad
altri monumenti della poesia universale, quel rivestimento abbellitore
che Stendhal chiama cristallizzazione. Molti, che malgrado così frequenti
e dure lezioni, professano ancora il culto del bello, mirano quello
scintillante rivestimento con rispetto e ammirazione, né chiedono altro.
Me, la superficie cristallizzata mi annoia; cerco perciò di aprirla e di
guardare sotto. Curiosità infantile. Certuni dicono morbosa. Non è più
morboso lasciarsi affascinare da una superficie lustra? Al popolo, questo
grande anonimo, questo grande impersonale, si riconoscono tutte le
virtù. (…)

Per le ragioni dette qui sopra, molti amano – dicono di amare – la poesia
di Omero, perché direttamente sgorgata dalla vena popolare, ingenua,
schietta, pura di inquinamenti letterari, intellettualistici. E se poesia c’è
che non si meriti queste lodi (se lodi sono) questa è la poesia di Omero.
A cominciare dalla lingua. Lingua quanto altra mai letteraria. Lingua
diversa dagli idiomi parlati in quel tempo nelle varie città della grecia.
Lingua che scarta come indegna la parola propria (kurion) e usa parole
insolite, estranee alla lingua parlata (glottai). Lingua snobistica. Aristotele,
del resto, nella Poetica dice che proprio queste sono le qualità del
linguaggio poetico. E ha ragione. Aristotele non aveva ancora letto
Rimbaud. Lingua, in una parola, dannunziana. In parte oscura. (Per rarità
di vocaboli, non per profondità di concetti). Tanto più ammirata dunque.
Più bella la poesia, più alta, se velata. Precetto caro anche agli ultimi
snob della poesia (Valery).
Lo stesso Aristotele, della parola multipla, che tanta parte ha nella
meccanicità della lingua omerica (“cielo multispecie”, “terra alticime”,

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“poveròmuso lusingatore”) dice che la parola multipla non è della lingua
parlata, ma è formata apposta, scientificamente e artificialmente, per la
lingua poetica; e se ha detto “meccanicità”, è perché la parola multipla,
nella lingua di Omero è più che un qualificativo, è un attributo fisso di
uomini e cose, come il pepe e lo zucchero in cucina, a seconda che si
tratti di melanzane alla parmigiana o di crema caramella.
Lingua non popolare, ossia non realistica e non pittoresca, usata per
dare forma ed espressione a una poesia non popolare, ossia non
realistica e non pittoresca. Poesia e lingua fatte non per il popolo, ma per
un aristocrazia. Fatte è meno improprio, meno volgare di quanto si può
credere. La poesia di Omero era recitata dagli aèdi. (…) Gli aèdi erano
organizzati in corporazioni, e, nonché recitatori, erano impresari teatrali
di se stessi. Portavano nella poesia anche alcuni mutamenti, a seconda
del castello, dell’umore del castellano, del linguaggio più familiare al
castellano. (…) Aggiungo che la lingua d’Omero non conosceva l’articolo:
non era ”scesa” all’articolo. Il che concorreva a tenerla su un tono alto e
generale, su un tono astratto, e a salvarla dal particolarismo di quaggiù.
(…)

Ho parlato soprattutto dell’Iliade, rutilante omaggio alla maggiore vittoria


del colonialismo greco. Poesia di guerra e di guerrieri. Poesia armata e
chiusa nelle sue armi. Poesia tutta verticale. Senza una finestra sui lati.
Tutta “classica”. I conquistatori freschi di conquista sono contenti di sé.
Non guardano di lato – non hanno bisogno di guardare… di guardarsi di
lato. E se muoiono, ils meurent sur place. Senza lasciarsi fantasma
dietro. Così l’aristocrazia, nel suo stato di validità.
Diversa l’Odissea, molto diversa. “radicalmente” diversa. C’è nell’Odissea
un elemento che all’Iliade manca: il senso romantico della vita. E
l’Odissea è tutta orizzontale. E con tutti gli occhi guarda di lato. Non
sicura di sé, non contante di sé. Cerca, aspetta (…) È poesia per coloro
che desiderano, aspettano. 3

L’analisi saviniana corre parallela alla lettura che ne danno,


rispettivamente, Gotthold Ephraim Lessing nel Laocoonte…

La sua imitazione [del poeta] progrediente gli consente infatti di toccare


d’un sol tratto un unico lato, un’unica proprietà dei suoi oggetti corporei.
Ma se la felice organizzazione della sua lingua gli permette di farlo con
un’unica parola, perché di tanto in tanto aggiungerne una seconda?
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Perché, se ne vale la pena, non anche una terza? O addirittura una
quarta? Ho detto che per Omero, ad esempio, una nave è solo una nave
nera, o una nave cava, o una nave veloce, tutt’al più una nave ben
equipaggiata di remi. E’ da intendersi della sua maniera in generale. Qui
e là si trova anche un passo in cui aggiunge un terzo epiteto pittorico: le
ruote rotonde, bronzee, a otto raggi. Anche un quarto: uno scudo tutto
rotondo, bello, di bronzo, lavorato a martello. Chi può biasimarlo per
questo? Chi non gli sarà grato invece per questa piccola ridondanza,
quando sentirà che buon effetto può avere in pochi e opportuni passi.

Ma non voglio trarre la giustificazione vera e propria del poeta e del


pittore dalla similitudine dei due buoni vicini sopra riportata. Una mera
similitudine non dimostra e non giustifica nulla. Questo deve giustificarli:
così come là, nel pittore, i due diversi momenti sono così vicini ed
immediatamente confinanti che possono valer senza disturbo per uno
solo, così anche qui nel poeta i molti tratti per le diverse parti e proprietà
nello spazio si susseguono così rapidamente e in una così serrata brevità
che crediamo di udirli in un solo momento. E qui, io dico, ad Omero
torna enormemente utile la sua stupenda lingua. Essa non solo gli
consente ogni possibile libertà nell’accumulazione e nella composizione
degli attributi, ma ha anche per questi attributi accumulati un così felice
ordinamento che si ovvia con questo alla svantaggiosa sospensione del
loro riferimento. Le lingue moderne mancano completamente di più
d’una di queste facilitazioni. (…)
Ma mi soffermo su piccolezze, e pare che io voglia dimenticare lo scudo
di Achille; questo famoso quadro, in virtù del quale Omero soprattutto è
stato considerato sin dall’antichità un maestro della pittura. Uno scudo,
si dirà, è certo un oggetto corporeo singolo la cui descrizione secondo le
sue parti l’una accanto all’altra, non dovrebbe essere consentita al poeta?
E questo scudo Omero l’ha descritto in più di cento splendidi versi, la sua
materia, la sua forma, tutte le figure che ne riempivano l’enorme
superficie, in maniera così dettagliata che all’artista non fu difficile farne
un disegno concordante in ogni parte. Io rispondo a questa obiezione
particolare… che vi ho già risposto. Omero infatti non dipinge lo scudo
come un qualcosa di perfettamente compiuto ma come qualcosa in
divenire. Egli dunque si è valso anche qui del lodato artificio di
trasformare gli elementi coesistenti del suo oggetto in elementi
consecutivi, creando in tal modo dalla noiosa pittura di un corpo il vivido
18
quadro di un’azione. Noi non vediamo lo scudo ma il divino artefice che
lo forgia. Egli si avvicina alla sua incudine con martello e tenaglia, e dopo
aver dirozzato le piastre, le figure che egli ha destinato ad adornarlo,
sgorgano dal bronzo l’una dopo l’altra, davanti ai nostri occhi sotto i suoi
finissimi colpi. Non lo perdiamo più di vista sino a che non è finito tutto.
Adesso è pronto, e noi restiamo attoniti per quest’opera, ma con il
fiducioso stupore di un testimone oculare che l’ha vista creare. 4
E l’amato Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia…
Per il vero poeta la metafora non è una figura retorica, bensì
un’immagine sostitutiva che gli si presenta concretamente, in luogo di un
concetto. Per lui il carattere non è affatto un tutto composto da singoli
tratti cercati qua e là e messi insieme, bensì una persona
insistentemente viva davanti ai suoi occhi, che si distingue dall’uguale
visione del pittore soltanto per il suo continuare a vivere e ad agire.
Perché Omero descrive con tanta più evidenza di tutti gli altri poeti?
Perché intuisce tanto di più. 5
Ravvisando nella greco omerico una lingua simbolica, Savinio riconosce
nella mitologia un linguaggio e nei singoli miti che la compongono lo
status di parole: l’artista ha la potenziale facoltà, l’ineccepibile diritto, la
straordinaria possibilità di muovere le seconde e ricreare i primi,
rielaborandoli.
Il carattere “divenuto” del pensiero greco è spiegato dal minore dei De
Chirico nel passo conclusivo de Non furono miracoli né Omero né
Virgilio:
Questa incompleta condizione dell’uomo omerico giustifica l’assistenza
assidua, costante della corte olimpica; la quale, come il cacio sui
maccheroni, sparge su quella incompleta umanità ciò che la completa e
la abbellisce: i sentimenti e gli altri prodotti dell’anima e dello spirito.
Quadro degno di meditazione.
Ed è ben divertente, è ben confortante vedere poi l’uomo come a poco a
poco raccoglie da sé le sparse membra, le unisce, compone la propria
unità di scheletro, di carne; e poi ci aggiunge dentro quei condimenti che
prima gli erano largiti dagli dèi; e finalmente, come Pinocchio che da
burattino diventa uomo, comincia a muoversi da sé, a sentire da sé, a
pensare da sé.

19
Autonomia! Indipendenza!
E gli dèi lassù su l’Olimpo, come i fiori dopo la festa, rimangono ad
appassirsi nei vasi. 6

Nella chiusa, l’analisi saviniana sembra ispirata, ancora una volta, alle
considerazioni di Nietzsche:
L’epos omerico è la poesia della cultura olimpica, con cui essa ha
intonato il suo canto di vittoria sui terrori per la lotta dei Titani. Ora, sotto
il prepotente influsso della poesia tragica, i miti omerici rinascono
trasformati, mostrando in questa metempsicosi che frattanto anche la
cultura olimpica è stata vinta da una concezione del mondo ancora più
profonda. 7

I geroglifici omerici campeggiano sul loro obelisco come le idee


partecipano alla pittura di Alberto Savinio, quasi fosse un ideogramma.
Elio Vittorini, nell’articolo "Mostre fiorentine", di Savinio sottolinea
chiaramente questo aspetto:

Si guardino [di Savinio] soprattutto i disegni. Di un segno lieve e pur


folto, che rende i volumi con una densità di sfumato impalpabile e come
in un’atmosfera di cipria, più che “visioni” di cose, si direbbero
“associazioni” di idee. Di idee che abbiano preso corpo in cose visibili,
idee culturali, magari storiche, magari filosofiche, che abbiano sposato
un oggetto qualunque della realtà. Perciò, in fondo, “associazioni” di
cose, realistiche nei singoli elementi, allegoriche in sintesi, e in altri
termini “visioni” introspettive. (…)

Nelle pitture di Savinio, come nei disegni, è sempre per associazione di


idee che le forme di realtà sono cercate. E se qui risulta piuttosto
sovrapposto quanto riusciva fuso, per quell’aria di cipria, nei disegni,
l’equilibrio tra i vari elementi del quadro viene ristabilito dal colore che,
in Savinio, sia pure agendo con forza nient’altro che decorativa ha, in
ogni caso, efficacia d’evocazione.
Resta da vedere se grazie a codesto equilibrio, che è realistico, Savinio
giunge a farci credere alle sue “associazioni” come a una sua realtà.
Vedere questo è vedere fino a che punto Savinio sia pittore. 8

Lo stesso letterato siciliano coglie un’affinità tra la pittura di Savinio e i


gusti degli antichi greci:

20
La pittura di Alberto Savinio sarebbe piaciuta agli antichi greci. Non dico
che gli antichi greci dipingevano o avrebbero dipinto come Savinio – e
non faccio nemmeno questione di qualità della rappresentazione
pittorica. Dico che la pittura di Savinio avrebbe trovato il più largo
consenso di popolo presso gli antichi greci, in quanto avrebbe
soddisfatto quel loro gusto della deformazione che miti e opere
letterarie, se non figurative, ci documentano. In chi fantasticava del
Minotauro, o immaginava Giove sotto forma di toro o di cigno, e in
Savinio che vede i suoi personaggi con teste di struzzo, di anitre, caproni
e giraffe, il gusto suscitatore è lo stesso. Gusto per il quale la
deformazione avviene come simbolo di trasfigurazione (…). Beninteso
che in Savinio quel gusto opera per via ironica, appunto come negli
autori dell’ epoca ellenistica, come in Luciano a cui per scrivere della
nascita di Minerva dal cervello di Giove, occorreva il colpo di scure di
Vulcano. (…)

Il colpo di scure in Savinio è sottinteso (…). Perciò egli riesce ironico nel
senso più moderno della parola. Ma di spirito intensamente umanistico,
ove per umanesimo si sappia intendere una posizione di cultura squisita
e raffinata (posizione ellenistica di fronte all’Ellade immensa di tutto il
passato, dagli egizi fino a de Chirico). 9
Alla luce delle considerazioni espresse finora, Savinio mirerà a rendere
proprio il mito, dopo averlo sdradicato dalla inerte fissità in cui lo ha
relegato la letteratura, che ne ha depauperato l’abbondanza semantica
fino a disperderne il significato originale, pietrificandolo in statua.
L’artista instillerà il soffio vitale a queste marmoree sculture, le aiuterà a
muoversi fino a farle camminare, liberandole dalla loro eterna sincronia
olimpica e immergendole nell’inesorabile diacronia del tempo storico
attraverso una “parafrasi” mitopoietica.
1 Alberto Savinio, Non forono miracoli né Omero né Virgilio, in Scritti
Dispersi1943-1952, Adelphi, Milano, 2004, p. 1736 – 1740.
2 Ivi.

3 Alberto Savinio, Snobistica, dannunziana era la lingua d’Omero, in


Scritti dispersi 1943-1952, cit. , p.1386- 1389.
4 Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, Aesthetica, Palermo, 2003, p. 72-
75.

21
5 Friedrich Nietzsche , La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 2000, p.
59.
6 Alberto Savinio, Non forono miracoli né Omero né Virgilio, cit. p. 1739-
1740.
7 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, cit. pag. 73.
8 Elio Vittoriani, Mostre fiorentine. Savinio, in “Italia letteraria”, 15
gennaio 1933.

9 Ivi.

22
METAFISICA VOLGARE COME
TEOLOGIA DEI POETI

L’arte è pagana. È naturalmente, essenzialmente, irrimediabilmente


pagana.
Il regno dell’arte è di questo mondo.

Ogni tentativo di far passare l’arte nel mondo di là (…) è destinato a un


fallimento sicuro.

In arte, il misticismo è un grosso ripiego


Alberto Savinio, Nuova enciclopedia.

Alberto Savinio riconosce, nel paganesimo classico, il frutto della


creatività dell’uomo: la genesi e la definizione del soprannaturale
possiede le stesse caratteristiche della creazione artistica.

I n Zeus finanziere, l’eclettico volosiano invita a contemplare liberi e


spassionati il mondo sdivinizzato che ci circonda, guardandolo con
"spirito moderno" e non con ispirazione mistica:
In Asia Dio fa l’uomo, in Grecia è l’uomo che fa gli dèi. Ecco perché l’Asia
è tenuta per la patria delle religioni, ecco perché la religione dei Greci
non è tenuta per una religione seria. Quale pulizia, quale tranquillità,
quanta felicità se gli uomini prendessero sempre a modello i Greci!
Questi due antichissimi e diversi modi di considerare i principii primi
(l’asiatico e il greco – e quando si dice greco, si intende la prima
espressione di quell’europeismo che oggi illumina di sé tutte le terre
civili, fino al Sud-Africa e alla Nuova Zelanda) non sono finiti, non si sono
fusi, ma si continuano tuttora, sempre efficienti ciascuno per sé, e
sempre distinti fra loro. Il mondo asiatico si continua nel totalitarismo, il
modo greco nel “libero umano”. Anche l’Italia ebbe un suo totalitarismo,
ma viziato dal suo stesso essere italiano. Mancava il totalitarismo
23
italiano, prima di tutto per ragioni geografiche, di quel religiosismo
asiatico che saturava di sé il totalitarismo tedesco (germains, scrive
Michelet, ces asiatiques de l’Europe) e satura di sé il totalitarismo russo.
Ci fu anche un tentato insegnamento di mistica totalitaria. Ma come
insegnare una facoltà che non esiste? L’Italiano, come anche il Greco, è
naturalmente dotato per le emissioni metafisiche, ma è altrettanto
naturalmente negato a immettere in sé le metafisiche che gli vengono da
fuori. Che fortuna! Gli italiani dimenticano troppo spesso di essere
italiani. Come organizzare un totalitarismo profondo e duraturo, tra un
popolo in cui ogni singolo individuo è un piccolo ma perfetto
totalitarismo?
La religione dei Greci non è presa sul serio, perché è una religione
mutevole. L’uomo preferisce le religioni che non mutano mai, e tra gli
uomini preferisce l’uomo che ha poche idee e non muta mai opinione.
L’uomo dalla idea unica è il più rispettato e temuto. Tra il Sàbaot che
Mosè invocava e il Sàbaot invocato oggi nelle sinagoghe, non c’è
differenza sostanziale. Sostanzialissima differenza invece è tra lo Zeus
primitivo e lo Zeus degli ultimi anni della paganità. Ed è giusto. Visto che
il Greco i suoi dèi se li faceva da sé, egli aveva anche la facoltà di
trasformarli e metterli via via à la mode du jour. Pratica saggia. (…)
Nella evoluzione della religione dei Greci, c’è prima di tutto il mutamento
di sesso. Un passaggio come dal Matriarcato al Patriarcato. Nella
religione arcaica dominava il femminile (per la somiglianza tra femminile
e “misteri naturali”), nella religione olimpica domina il maschile (perché i
misteri naturali non impressionano più nessuno). Se la religione dei
Greci non fosse stata fermata e avesse continuato a svilupparsi, il
dominio della maschilità avrebbe ceduto a sua volta al dominio del
neutro, e il grazioso Ermafrodito, che una domenica sì e una domenica
no io vado a guardar dormire al pianterreno del Museo Borghese, la
faccia e tutta la parte anteriore del corpo pudicamente volte verso la
parete, avrebbe sostituito Zeus nella celeste sovranità. C’è nella religione
dei Greci anche un mutamento di livello: dalla condizione chtonia
(sotterranea) si passa alla condizione alpina (Olimpo).
Il passaggio dal “matriarcato” al “patriarcato” nella religione dei Greci, ha
un significato grave: significa il passaggio dalle forze elementari alla
forza della ragione. Questa la “superiorità” dell’Olimpismo. Religione

24
incivilita e perfezionata. Religione “alta”. Non viene al potere se non dopo
che ha vinto le forze sotterranee.
La motività non è solo nella religione: è in tutte le cose greche. Le cose
greche “camminano”. Arrivano fino a noi. E noi trovandole ancora fresche
e vive, le trattiamo come attuali. Questa la ragione delle “parafrasi” di noi
artisti poeti scrittori; è la riprova della legittimità delle nostre parafrasi.
Mentre nessuno si sogna di parafrasare Geova, Indra, Osiride. Resta a
parlare del significato degli dèi Greci. Mutevoli come carattere, è giusto
che fossero mutevoli anche come significato. Conosciamo gli dèi Greci
come personificazioni di fenomeni celesti o terrestri (sole, fulmine,
tempesta), li conosciamo come personificazioni di fenomeni naturali
(vicenda del seme nella terra e suo sviluppo in pianta e in frutto), li
conosciamo come personificazioni di umane qualità (forza muscolare,
intelletto, sagacia, saggezza). Una interpretazione altrettanto legittima è
quella di modelli dell’umana società. È in questa funzione che quella
brillante compagnia terminò il suo giro quaggiù.
Messi in immagine, io guardo l’immagine degli dèi olimpi, come da
ragazzo guardavo le tavole dei jardin de modes. Dal quarantenne
barbuto e dalla trentottenne formosa, tutti erano rappresentati per
gradazione di età e d’importanza i membri della società “che veste”.
In Ares abbiamo il modello dell’uomo forte ma bruto, in Ermete
dell’uomo che per virtù d’intelletto è riuscito a levarsi sopra il dramma
della vita, e svolazza su uomini e cose con la felice levità del dilettante.
Decantato, purificato di ogni oscurità, questa espressione della barbarie,
l’Olimpismo si riduce a una pulitissima e invogliante mostra di
esemplarità sociale. Senza contare l’utile, il comodo dei modelli. L’uomo
crea i modelli per poter dire "non giudicate me: guardate il modello di
cui io non sono se non l’imitazione". Una forma larvata dell’Olimpismo si
protrae fino a noi. La fama di certi nostri contemporanei non si
spiegherebbe (artisti, poeti, uomini d’azione) se non sapessimo che i
difetti di costoro, le loro lacune, i loro non-valori sono i modelli nei quali
tanti uomini, e talvolta folle intere, e non di rado interi popoli, si
specchiano, si riconoscono e giustificano se stessi.

Consideriamo Zeus. Gli occhi grassi e come velati di sogno (ma sogno
non è). La barba turchina di bell’uomo maturo. La sufficienza. L’autorità
spesso esercitata a capriccio. L’egoismo. Il ridurre a lecito per sé quello
25
che agli altri è illecito. La “superficialità” del potente. L’indifferenza
dell’anima altrui, specie delle donne. Gli adulterii. La mancanza di cure
materiali (di cure spirituali non si parla neppure) da quando ha vinto i
Titani (egli crede una volta per sempre…). È chiaro che nel tempo della
maturità i Greci collocarono in cima al loro repertorio di angusti modelli
una specie di capo dell’alta finanza internazionale. Era giusto che il Capo
del proletariato internazionale lo spodestasse. 1

Per il piccolo Andrea Alberto, cresciuto all’ombra del Partenone, questo


scheletro di marmo che non butta ombra (2), gli dèi e gli eroi, sono
modesti soprammobili, dimessi arredi della domestica quotidianità.
Analogamente, In Infanzia di Nivasio Dolcemare, Savinio descrive il Dio
dei greci ortodossi come un umile curato di paese, indigente e raggiunto
dai morsi della fame: Nivasio sapeva che lì a due passi, dietro quella
tenda di percallina rossa, nel recinto inviolabile e freddo, sopra una sedia
spagliata, avvolto nel pastrano investito dall’uso, la barba sale e pepe,
l’occhio triangolare sotto il tubino logoro, stanco e sfiduciato sedeva il
dio greco. (…) Immaginava tanti modi di recare un po’ di conforto al
Theòs (…) al Dio senza compagnia, al Dio che aveva freddo. (…)
Riepilogava tutte le “buone” cose che lui stesso aveva mangiato a tavola,
e ora voleva spartire col Dio povero. 3

Un simile sistema dialettico viene usato all’inizio di Hermaphrodito, dove


la contrapposizione tra dogmatismo asiatico e mitologia greca, tra
totalitarismo e libera umanità è riproposta in termini diversi ma con un
intento parallelo, quello del rinnovamento delle arti. Il sottotitolo del
primo capitolo, Prèlude, intitolato Tète-antichambre de ministre va
interpretata come una stanza che immette, come un’anticamera, al
capitolo seguente, che ha per protagonista proprio un ministro. Nel
"Prèlude", Savinio dipinge l’effigie dell’artista moderno, che si oppone al
ritratto del ministro del Drame de la ville méridiane, simbolo di quello
homme politique, redingoté, statufié (4) in cui l’artista creatore regredisce
a partire dal Trecento. L’artista nuovo, archetipo dell’uomo a venire, sarà
dinamico, agli antipodi dell’ultima sublimazione della rigidità letteraria, il
ministro "signore dalla rigida morale" della rigidezza in cui involve il
secondo. Il protagonista del Prèlude, alter ego di Savinio, è caratterizzato
dall’irrequietezza, dalla rapidità e dalla leggerezza della sua fantasia.

Nella mia testa trasparente passa un affascinante va e vieni di cose

26
graziose... gioioso carosello: le mie idee corrono al galoppo, caracollanti,
e fanno una corsa ad ostacoli ...Io non ho, così, il tempo di conoscerle
abbastanza né di stancarmene. 5

In questo periodo breve e mosso c'è una perentoria e inequivocabile


dichiarazione di poetica.

Fresche quando arrivano, sono ancora grondanti di freschezza quando


mi lasciano...

La frase costituisce il primo parziale slittamento tra il frammento


prosaico e il successivo frammento poetico: notiamo un primo accenno
di ritmicità (nella versione originale, rileviamo l'assonanza "arrivent-
quittent" alla fine di ognuna delle due frasi).

Io, rimango ansante, fremente, insoddisfatto, come l'amante toccato


dall'amore sublime, come un Tristano!

Ecco il frammento poetico vero e proprio, caratterizzato da una


musicalità piena e ritmata (suggerita dalle rime "pantelant-fremissant-
amant-tristan", sempre nella versione in francese).
Io conservo pura l'emozione che mi donano. Mi lasciano tutta la
nostalgia delle amicizie ardenti e passeggere.

Ritorno al prosaico: la ripartenza paratattica avviene dopo


un'accelerazione ritmico-musicale risolta nell'ultima rima (dove il punto
esclamativo ne aumenta la dinamica), similmente alla variazione di un
tema musicale dopo la cadenza perfetta che chiude la sua esposizione.

Addio mia topina,


parti per il Mississipi,

Addio mia topina


cara!

Questo inserto costituisce uno straniamento tramite un canto, giunto a


interrompere, sospendere il clima in cui si è immerso il lettore. La
canzoncina è però inerente alle brucianti e fugaci passioni che Savinio ci
descriveva poco sopra.

Dottore Decano! correte

d'urgenza a fare un'iniezione d'ossigeno

27
allo scheletro di Victor Hugo, giacché gli viene

un attacco di atassia locomotoria.


Ulteriore straniamento, stavolta apparentemente arbitrario: l'autore
dialoga con un medico ironizzando sullo scheletro di Victor Hugo, che
sembra preso da un’ebbrezza dionisiaca causata dalla contabilità del
motivetto intonato in precedenza.
Come fischiettare nel tuo gergo,

marmocchio antropomorfo?...

La voce della mezzamorte è dolce...


lungi dallo spirito il pompelmo
troppo facile da cogliere.

il cocco
dell'albicocca.
Un cucurbitaceo straniero serve a nutrirmi,

sorta di catecù - mille sapori infiniti,


molle polpa, -
i miei denti senza carie ci si incollano...
poi ci affondano fino all'oblio...

orrore! Nascondete sotto l’impermeabile


la pianta che si chiama <<.............!>>
astro frivolo che cresce nelle casse di legno.

Savinio affida a un fluido poetare la trasposizione metrico-lirica della sua


dichiarazione poetica, facendo uso di associazioni mentali che si
sublimano attraverso concatenazioni di parole. Il campo semantico in cui
si sviluppano queste catene di vocaboli non è univoco: si estende a ogni
parametro in cui lo spirito riesce a intuire e cogliere dei rapporti
associativi.
L'atto del fischiettare è considerato un gergo favellato da una voce,
quella della mezzamorte, metafora del sogno: questi è anarchico come
un infante ovvero marmocchio antropomorfo.
Lo spirito si manifesta in spoglie di cocco, fantasticamente innestato
28
nell'albicocca (l'artista volosiano sfrutta i parametri dell'assonanza, della
sfericità, del materiale linguistico quasi il secondo termine contenesse il
primo) ed è difficile da cogliere (l'ostacolo è rappresentato dall'involucro
noce. Al contrario il pompelmo è trascrizione della superficialità, del dato
scontato del rapporto nome-oggetto derivati dall'uso e dalla lettura
univoca della realtà. La conferma di questo concetto giunge quando è
evocato un cucurbitaceo, potremmo pensare a una zucca, che rimanda al
cocco in relazione al guscio duro. La sua collosa e molle polpa ha sapori
infiniti ( illimitata è anche la classe aperta delle associazioni mentali che
si dipanano parametralmente) e si pone in antitesi alla pamplemousse,
schiuma inconsistente facilmente raggiungibile attraverso l'inconsistente
buccia.
Ricapitolando, nella nostra ipotesi di lettura, le catene di parole si
presentano schematicamente così (la verticalità sta per parametro,
l'orizzontalità per slittamento ora metaforico, ora antitetico; le parole in
parentesi sono nostre e svolgono funzione esplicativa) :

fischiettio

gergo
voce della mezzamorte (sogno) (infante) marmocchio antropomorfo
albicocca
cocco polpa -mousse buccia

(noce)
(zucca)

Il "dioscuro" ribadisce la dialettica fra la creatività dell’artista metafisico e


la lentezza dello stile del vate francese, fra la prosa funambolica dello
stesso Savinio e la staticità delle opere del parigino, fra la freschezza
infantile dell’invenzione linguistica dell’alter ego Nivasio Dolcemare e la
scrittura meccanica e rumorosa dell’autore de Les Miserables e Notre
Dame de Paris. Il linguaggio di Victor Hugo è polverizzato dall’esplosione
di una poesia modernista accesa dalla scoperta e infuocata dalla novità.
In effetti, la parola "lardon", oltre a "marmocchio" (termine del gergo
familiare) si può tradurre come "lardone" (vocabolo gastronomico) (6), e
29
alla luce di questo tutto il passo sopra citato si potrebbe leggere anche
"come fischiettare nel tuo gergo, lardone antropomorfo?". Forse
un’allusione alla gravità corpulenta della lingua dello scrittore
transalpino, che contrasta con la poetica della leggerezza mentale di
Savinio e con la musicalità del suono della mezza morte, spazio della
poesia metafisica. La spiritualità moderna si nutre dei frutti più esotici e
difficili da cogliere, i cui sapori sono "infiniti" e rifiuta i frutti delle
borghesi piante d’appartamento come lo "spirito moderno" che rinnova il
mito e rifugge l’ispirazione mistica.
1 Alberto Savinio, Zeus finanziere, in Scritti Dispersi1943-1952, Adelphi,
Milano, 2004, p. 663-667.
2 Savinio Alberto, Narrate uomini, la vostra storia, Milano, Adelphi, 1984,
p. 247.
3 Savinio Alberto, Infanzia di Nivasio Dolcemare, Milano, Adelphi, 1998, p.
610.
4 Alberto Savinio, Dammi l’anatema, cosa lasciva, in Scatola sonora,
Torino, Einaudi, 1979, p. 432.
5 Qui e in tutto il capitolo viene proposta la mia traduzione dal francese.
6 Dal Vocabolario Garzanti - francese-italiano.

30
MITOPOIESI ETIMOLOGICA,
ETIMOLOGIA MITOPOIETICA

“Al dire di Alessandro H. Krappe, il nome Mirmidoni e il conseguente


mito sarebbero dovuti a una freddura,
caso non infrequente nella formazione dei nomi mitologici e dei miti
stessi,

come dimostra il nome Mercurio, nato esso pure da una freddura.”

Alberto Savinio, Nostri antenati.

Nella concezione saviniana, i miti non nascono come giustificazione


estetica di un’era arcaica. In origine, il mito era l’immagine attraverso la
quale le prime civiltà percepivano la loro umanità. Nella nostra epoca, il
mito cristallizza in mera componente estetica, elemento decorativo
mentre nelle culture che lo hanno generato sublimava in
rappresentazione estatica. Al giorno d’oggi, il mito, non è più percepito
come apollinea espressione, immediata e comunicabile, di un dionisiaco
sentire di idee e sentimenti: la logica relega i sensi nell’oscenità e,
gradualmente, costringe nell’oblio il mito. L’umanità si distacca
progressivamente dal linguaggio simbolico, dal contatto con la
materialità.
Consultiamo, a riguardo, un passo dalla Scienza nuova di Giambattista
Vico:
Ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta immaginativa
di que’ primi uomini, le menti de’ quali di nulla erano astratte, di nulla
erano assottigliate, di nulla spiritualezzate, perch’erano tutte immerse ne’
sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi: onde
dicemmo (…). Ma tali primi uomini, che furono poi i principi delle nazioni
gentili, dovevano pensare a forti spinte di violentissime passioni, ch’è il
31
pensare da bestie. 1

Savinio conviene con il filosofo partenopeo, lapidariamente:


Giambattista Vico aveva ragione. Il senso etimologico rivela la
persistenza nell’uomo del senso delle origini. A maggior ragione nella
donna dunque, tanto più dell’uomo fresca di anima e vicina alle cose
originali. 2
Per comprendere la nostra umanità, la più vera e intrinseca, Savinio
rivisita il mito parafrasandolo. Di più. Lo attualizza attraverso una
mitopoiesi etimologica. Il suo strumento d’indagine è l’etimologia
mitopoietica che gli permette di risalire alla genesi dell’umana natura,
quella dei primi essere umani che incominciaron umanamente a
pensare (3) (il cui pensiero era totalmente corporale), e da lì "ripetere" il
loro linguaggio, cioè i miti, prima della loro metamorfosi da umana e
viva lingua in gergo letterario morto:

Volo degli uccelli migratori: spettacolo invitante quant’altri mai. Il nostro


strano pudore ci vieta di confessare quali strani sentimenti ispira questo
volo, se di gioia, di tristezza o di nostalgia, se nonché con gli occhi
convenga seguirli anche con l’anima e col pensiero. Questo solo ci è
lecito dire che anche gli uccelli migratori, come le stelle, bisogna
guardarli senza desiderio. Volo ordinato e serio. Volo sociale. Volo a
triangolo. Modello di strategia celeste. Si capisce che il volo degli uccelli
migratori abbia ispirato l’animo religioso dell’uomo e sia stato
interrogato dai divinatori. Si capisce che animali anche piccolissimi ma
rivali ugualmente della folgore, del sole, degli elementi, siano all’origine
di tanti culti. 4
L’opposizione dei corsivi invitante e senza desiderio rappresenta la
sintesi dell’approccio analitico di Savinio: i fenomeni naturali non sono
letti misticamente, ma vengono considerati come avvenimenti
suscettibili di studio.
Nei cognomi di origine bestiale sopravvive il totem originario, di là dalla
cristallizzazione nella vita sociale che ha coperto gli uomini di una pelle
uniforme e di un medesimo colore. Si esca dalla scia dell’abitudine, si
legga il cognome bestiale con occhio etimologico e il latore di quel
cognome si staccherà nell’istante stesso dal comune destino degli
uomini e riapparirà nella sua fatalità propria: inusitata, dimenticata ma

32
fresca ancora della carne dei mammut estratti dopo milioni di anni dai
ghiacci della Siberia settentrionale. 5
La coppia di corsivi dimenticata e riapparirà, finemente ossimorica,
ribadisce l’obiettivo della poetica neomitologica dell’autore: restituire
all’umanità il senso originario, ormai ibernato nella rigida logica della
socialità.
In testa a tutti avanza la prisca nobiltà: la Gente Porcia. Porcia del pari si
chiamava la moglie di Marco Giunio Bruto. In italiano diciamo Porca.
Segue qualche mammifero grosso: Manzoni; qualche fiera agile:
Leopardi. Viene infine la minutaglia: i Gatti, I Pecori, i Lepri, i Colombo, i
Pascetti, i Rana, i Mosca, i Coniglia, i Lumachini. Nessuno può credere
quanto io m’immerga nel meditare su un eventuale commendatore Arieti
con testa di montone, quanto mi sprofondi a ricostruire certe
antichissime e misteriose armonie, certi oscuri giochi che gl’ignari
considerano cose “non serie”. 6
In questo passo, Savinio, dopo aver corroso lo status di nobiltà con la
sua ironia dissacrante, contrappone la gravosa scrittura di Manzoni a
quella leggera di Leopardi: attraverso l’armonizzazione della bestialità dei
cognomi con le facoltà intellettuali e la peculiarità delle azioni del “latore
di quel cognome”, lo scrittore individualizza il fato.
Maialetti si chiamava l’usciere di un giornale romano e diversamente da
come può credere la gente volgare, ossia coloro per dare un esempio
che se vedono uno per istrada che scivola e cade si mettono a ridere,
quel nome non sonava buffo o triviale attraverso le scale o i corridoi
della redazione (Maialetti, Maialetti! i redattori anche senza ragione
precisa chiamavano l’usciere Maialetti, per il solo fascino che esercitava
questo nome), ma come una parola antichissima e sacra. 7
Il riferimento alla dea romana Maia, divinità della fecondità e del
risveglio primaverile, è lampante: infatti, presso gli antichi romani, ogni
primo di maggio, veniva offerto un verro castrato alla dea con l’auspicio
che questa concedesse fertilità alla terra.
Il decadimento della bestia originale rivela talvolta un dramma pietoso,
come nel Leoncavallo ridotto nella sua umana realtà a un cartellone da
circo, a uno scendiletto. In Lusignoli l’elle iniziale non sai se è la sineresi
dell’articolo col sostantivo, oppure una sopravvivenza di luscinia (del

33
resto lusignolo si è detto anche in italiano). 8

Il compositore partenopeo Ruggero Leoncavallo è risibilmente associato


alla sua opera più famosa, I Pagliacci, mentre Savinio elenca delle ipotesi
sull’origine del cognome Lusignoli, illuminandoci sulla parentela tra
l’Usignolo e l’Usignolo Maggiore, la Luscinia, uccello migratore delle
foreste europee e asiatiche. La digressione di carattere ornitologico
continua nel frammento seguente:
Italiano, tanto mi rammarico che nel suo itinerario migratorio la cicogna
escluda l’italia, quanto mi sono compiaciuto da piccolo nell’apprendere
che l’Italia è la Terra dei Vitelli. Uccello saggio. Uccello di profonde virtù
familiari (che importa che gli ornitologhi nèghino oggi che la cicogna
adultera è giudicata da un tribunale di cicogne e condannata a morte?).
uccello che sa isolarsi in compagnia. Uccello meditativo. Uccello di buon
augurio. L’ho veduto in cima ai campanili d’Alsazia ove oggi ancora è
sacro e inviolabile, intatto nella sua qualità di totem. L’ho veduto in
Tessaglia, là pure inviolabile e sacro, in cima ai minareti di Larissa, di
Tirnovo, di Valestino. Il suono del becco "da scatola di legno che si
chiude", la stasi sopra l’unica esile lunga zampa sull’orlo del nido, la testa
meditabonda intasata nella gobba: altrettante ragioni perché l’uomo
abbia nutrito l’ambizione di somigliare alla cicogna: anche alla cicogna;
soprattutto alla cicogna.

Questi uomini ambiziosi sono i Pelasgi. “Pelasgo” è un nome generico.


Come il diciannovesimo secolo fa dormire Napoleone nei letti di tutti i
palazzi e di tutte le ville di qualche importanza sparsi per l’Europa: come
la Storia delle Religioni trasformava il mito solare tutti i miti d’incerta
interpretazione, cosi la geografia antica ha messo i Pelasgi in tutti quei
luoghi che avevano da risolvere un difficile problema etnico. È assodato
in ogni modo che i Pelasgi erano un popolo girovago. Ora cicogna in
greco si dice pelargo, e da pelargo a pelasgo il passo è breve, specie se si
pensa alla tendenza che ha l’erre greco a mutarsi in esse. E quando
all’affinità onomale si aggiunge l’affinità del gusto migratorio…9

Pelasgo è il nome di vari eroi, eponimi del popolo “mitico” dei Pelasgi, i
quali occuparono il Peloponneso. Nella mitologia arcade, esistevano due
filiazioni distinte di Pelasgo.
La prima lo attesta come il padre di Licaone, il quale, a sua volta generò
cinquanta figli, eponimi della maggior parte delle città arcadi, e una figlia,
34
Callisto, la quale generò da Zeus l’eroe Arcade, eponimo dell’Arcadia (a
proposito della “geografia antica citata da Savinio”).
La seconda lo presenta come essenzialmente argivo, e non più arcade.
Pelasgo aveva una figlia, Larissa, la quale diede il proprio nome alla
cittadella d’Argo (in riferimento alla citazione dei “minareti di Larissa).

Infine, nella leggenda tessala, si conosceva un altro Pelasgo, il quale non


era padre di Larissa, ma suo figlio avuto da Poseidone, dio del mare. Als
(“il mare”) era anche il nome d’una fonte, serva e compagna di Circe. Si
raccontava che avesse dato il suo nome a una città chiamata Alo Pirgo
(“la Torre d’Als”, relativamente al passo sui “campanili d’Alsazia).
Estrapolando un passo dal Convivio dantesco, Savinio ne commenta in
filigrana gli spunti zoologici:

Non credo che a veder maggior tristizia


Fosse in Egina il popol tutto infermo,

Quando fu l’aer sì pieno di malizia,

Ché gli animali infino al picciol vermo


Cascaron tutti, e poi le genti antiche,

Secondo che i poeti hanno per fermo,


Si ristorar di seme di formiche.

Ecco i Mirmidoni, che in italiano noi chiamiamo formichi.


"Non credo, ecc.", dice il commentatore "che fosse maggior tristezza e
compassione a vedere in Egina tutto il popolo infermo, quando l’aria fu
così piena di malignità pestilenziale, che morirono tutti gli animali infino
al più piccolo verme; e poi l’antico popolo si riprodusse di sostanza di
formiche, secondo che i poeti tengono per fermo; onde quelli di Egina,
isoletta presso il Peloponneso, furono detti Mirmidoni, nome che
suonava si strano ai cortigiani di Luigi XIV, che ne beffavano
Omero" (Conv. IV, 27).

Secondo Stradone, noto positivista del I secolo, i Mirmidoni furono così


chiamati dalla parola greca murmex (formica) per la loro forte

35
inclinazione all’agricoltura. Comunque sia, questo resta certo che, o per
imitazione, o per trasformazione, i Mirmidoni, ossia uomini forti o provati
guerrieri dello stampo di Achille, erano Uomini-Formiche. 10
Il carattere, nuovamente ossimorico, dell’accostamento delle umane virtù
dei Mirmidoni con la loro qualità di discendenti dalle minuscole
formiche, non fa che esaltare il loro status di fieri combattenti e operosi
agricoltori rispetto all’aristocrazia cortigiana francese, così futile e
ciarliera da assomigliare a una "uccelliera":

Ben fa notare un filosofo che la bestia progenitrice è più manifesta nelle


donne che negli uomini, come più sopraffatta negli uomini da una
maggiore volontà umana, offuscata da una coscienza più operante,
consumata da una lotta più aspra con la vita. Quanto ai cortigiani di Luigi
XIV che trovavano tanto buffo il nome Mirmidoni (il carattere farsesco di
questo nome che la pronuncia francese accentua: Myrmidons [cfr.
allons-donc, la grosse dondon, ecc.], si capisce facilmente se si pensa al
senso caricaturale Vecchia-Francia, al pericoloso vicinato di Andromaque
con La Belle Hélène, al vero spirito di Versailles che, contornando la
frattura operata da un Rimbaud, da un Lautréamont, si rinsalda nelle
Folies-Bergères) il loro umore canzonatorio è tanto più significativo, in
quanto s’innesta a un singolarissimo caso d’incoscienza. Dice un
proverbio greco: L’asino ha dato del testone al gallo. I cortigiani di Luigi
XIV, e Luigi XIV stesso, erano più vicini di qualunque altro uomo a quella
progenitarietà bestiale che li faceva ridere negli altri. Fra cicogne, corvi,
cornacchie, cigni, oche, papere, tarabusi, pappagalli, fringuelli, colombe,
pellicani. Versailles era un uccelliera in ingrandimento, un pollaio dorato
e colossale, un Chanteclair avanti lettera. Ora uomini-volatili che
prendono in giro uomini-formiche (11) … Spettacolo tanto più spassoso
in quanto ciascuno di quei duchi, marchèsi, Pari di Francia portava in
giro senza ombra di sospetto e con gravità e sussiego la propria testa
d’animale in mezzo alla basse-cour royale, e alla presenza del Re Sole,
pappagallo egli stesso di gran classe. 12

L’ironia corrosiva lascia il passo alla tensione drammatica e all’intensità


del messaggio artistico teso verso la verità:
Tra le pitture su vetro a fondo oro del Museo Civico di Torino, la
Leggenda di Cicno attira particolarmente l’occhio. Cicno con petto umano
e testa di cigno fende l’onda del Po. Questo fiume, più illustramente

36
chiamato Eridano, regge a stento coricato sulla riva l’infinita tristezza
della sua testa di bue. Fanciulle, dietro, vivono per metà in ispecie di
pioppi… Se i nostri musei fossero conservati nonché da storici dell’arte e
da funzionari ma da psicologi ancora e da metafisici, quella pittura
sarebbe stata confinata in camera charitatis tra le pitture per uomini soli.
Alla vista di quella pittura, il visitatore si sente improvvisamente nudo.
Dico “nudo”. Né di quella sola nudità che si può coprire sotto calzoni e
giacche a due petti, ma di quella tremenda nudità che a nasconderla non
bastano le morti accumulate di più antenati, fino ai più lontani, più
oscuri, più sacri; fino ai nostri padri dimenticati: gli animali. 13
Nella mitologia classica i fiumi erano considerati divinità generate da
Oceano e da Teti e ad essi venivano attribuiti culti religiosi e discendenze
eroiche. Spesso i loro nomi erano anche legati a racconti di imprese, di
viaggi o di vicende toccanti. Nel caso di Eridano, generalmente
identificato con il Po, la tradizione lo associa a due grandi cicli mitici: le
peregrinazioni di Eracle in Occidente per raggiungere il giardino delle
Esperidi ed il viaggio degli Argonauti diretti nella terra di Circe. Proprio
nell'ambito della storia di Giasone e Medea, la presenza del fiume
richiama la triste e luttuosa vicenda di Fetonte, giovane figlio del Sole,
che impaziente di guidare il carro del padre, finì con il precipitare nelle
acque dell'Eridano. Le sue sorelle, le Eliadi, ne raccolsero il corpo, gli
resero gli onori funebri e lo piansero tanto che furono trasformate in
pioppi.
Oltre l’Eridano si estendeva la terra dei Liguri, i quali veneravano il Bue
nell’era della Grecia arcaica. I Liguri dell'epoca romana, per contro,
avevano il culto del cigno. Il loro re, Cicno, a causa della disgrazia
dell’amico, fu tramutato in cigno per il suo pianto inconsolabile.
In quella serie di mie pitture che figurano uomini con teste di animali, i
più frivoli hanno creduto ravvisare una intenzione caricaturale, che
assolutamente manca. Quelle mie pitture sono “studi di carattere”;
meglio ancora: “ritratti”.
Perché il ritratto – il “vero” ritratto – è la rivelazione dell’uomo nascosto. Il
quale ora è un gatto, ora un cervo, ora un maiale. Più di rado un leone.
Ancor più di rado un’aquila. Spesso un animale senza vita ma
ugualmente nocivo e mortifero, ossia una carogna.
Questa “verità” tanto profonda, tanto terribile, tanto grave da portare che
37
gli Egizii, temendo di soccombere sotto il peso la facevano portare ai loro
dei.
La quale verità, quassù, eufemisticamente, si chiama metafisica.
Ed è scienza italiana, per eccellenza. 14

In questo passo del racconto Il gallo, Savinio ribadisce che l’etimologia


dei nomi mitologici cela la loro origine animalesca:
Tutti gli dèi sono in origine animali. Eva in origine era una vacca,
Artemide un’orsa, Cibale una leonessa, le dee che voi chiamate ctonie,
cioè a dire terriere, in origine erano serpi, Afrodite era colomba, Zeus era
aquila e io [Mercurio] gallo, e a me piace ritornare di tanto in tanto alla
mia origine. 15
Nell’uomo moderno, la percezione etimologica svela la continuità del
sensuale sentire che dai primi uomini giunge sino a noi: Alberto Savinio
riconsegna al mito, come linguaggio, l’essenzialità comunicativa,
depurandolo dell’estetismo letterario contemporaneo. Nella ricerca di un
linguaggio che travalichi gli ostacoli socio-linguistici che rendono
inesprimibile la realtà, il mito diviene essenziale in quanto linguaggio
simbolico per eccellenza:
Spesso io lodo l’etimologia per la vivacità, la fantasia, il poetismo
romantico che essa dà alle parole, ma non mi sogno di preferire una
etimologia a un’altra, tenendo questa per vera e quella per falsa.
L’etimologia è una scienza incerta, e questa sua incertezza è forse la
ragione principale del suo fascino. da quando io mi interesso alla storia
e dirò meglio alle avventure delle parole ho veduto molte parole
cambiare più volte storia. Se una sola verità nelle altre cose manca,
perché cercare una sola verità nelle parole? 16
A tal proposito, in Cacciatori di origini nella foresta del linguaggio,
Savinio esplicita chiaramente il suo concetto di etimologia e ne spiega
l’uso:

Ricordo di aver letto, circa quarant’anni fa, una versione italiana delle
Argonautiche di Apollonio Rodio. Sul frontespizio, in basso, tante M, tanti
C e tante altre maiuscole, componevano una data come il 1760 o là
intorno. Degni i caratteri di stampa dello zoccolo della Colonna Antonina.
Ricordo soprattutto che alla parola “azzardo”, usata nel contesto,
rispondeva a piè di pagina questa nota: "Azzardo, dal nome di un castello
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Hasart, presso Gerusalemme, nel quale i crociati si riducevano a giocare
a dadi, per ingannare la noia dell’assedio". A quarant’anni di distanza,
questa etimologica nota mi è riaffiorata in mente, pochi giorni addietro,
mentre leggevo L’origine del linguaggio di Paolo E. Santangelo (Ed.
Bompiani, 1949).
L’etimologia è una scienza che m’incanta. Essa soddisfa al mio gusto di
vedere come le cose sono fatte dentro, come sono fatte sotto. Capisco la
gioia di Leopardi, allo scoprire che nausea viene da naus, nave. Gusto
infantile. Bambino, rompevo i mie i giocattoli per vedere come erano
fatti dentro. Anche i mobili di casa. Il ricordo di certe punizioni, mi cuoce
ancora nella memoria. Mi piaceva che il cameriere, la mattina, tirasse su
le vesti del canapè e delle poltrone, per andare sotto con la scopa. Tirare
su le vesti alle cose, vedere quello che c’è sotto, è una di quelle curiosità
che più mi seducono ancora. E questa mia curiosità non si è
imborghesita, ha conservato il “disinteressato” di allora. Il disinteressato
infantile. Non cercavo allora la verità, ma la cerco adesso. Non ho mai
rotto i ponti tra me e la mia infanzia. Non ho mai varcato la soglia del
reparto adulti. Non sono mai diventato uomo “serio”. Gli uomini “seri” io
li guardo con stupore, come pappagalli che hanno perduto le penne.

Anche l’etimologia mi piace disinteressatamente. Anche nell’etimologia


io non cerco la verità. E come cercare la verità nell’etimologia? Da
quando ho uso di vocabolario ho visto tali e tanti cambiamenti!
Non per questo l’etimologia perde di fascino, anzi. Non ricordo chi ha
tradotto in italiano le argonautiche intorno al 1765. Non era
probabilmente un letterato molto agguerrito. Ma letterato
agguerritissimo era Niccolò Tommaseo, e nella sua versione dei Canti
del popolo greco dice che i partigiani greci del 1821 si chiamavano
Pallicari da Pallade ministra del coraggio, e dice che in neogreco il
cavallo si chiama àllogo, perché a questo intelligente quadrupede non
manca che la parola (logos).
Dubito che il libro di Paolo E. Santangelo abbia a esser preso molto sul
serio dai filologi seri; ma per me ha un pregio sicuro: è il libro di un
eretico. E a me gli eretici piacciono. Faccio tanto per essere eretico
anch’io! Esser eretico, significa non voler morire. Meno quando si muore
bruciati. A andar dietro a un eretico, c’è sempre da guadagnare, se non
altro da divertirsi. Ora è una tenda che si solleva, ora una porta che si

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apre, ora un tappo che salta via. A star dietro agli ortodossi invece, non
son che porte che si chiudono, tende che vengono giù, tappi cacciati
sempre più dentro nel buco della botte. E io mi annoio.
Il mio amico Nino Sonzogno, musicista “fisiologico”, vorrebbe che gli
abbonati della Scala fossero invitati, a cinque per volta, a vedere lo
spettacolo dal fondo del palcoscenico. Poche volte gli Italiani guardano
lo spettacolo dal fondo del palcoscenico. Poche volte sono invitati a
entrare nei segreti del tempio. Al che aggiungo che, nonché l’invito,
manca agli italiani lo stesso desiderio di entrare nei segreti del tempio.
Quale letteratura più bianca della nostra?
Tra i popoli colti, l’Italiano mi pare non solo meno curioso, ma più restio
a scoprire i segreti delle cose; quanto dire l’origine delle cose. C’è
repugnanza di fronte all’origine delle cose; c’è timore; c’è vergogna. Si
vorrebbe che tutto che è, fosse balzato fuori bello e definitivo , come una
Minerva chiusa dentro una accollatissima veste. Ma e l’amore, allora?
Amore è penetrare, noi, le cose; di là di ogni repugnanza, di là di ogni
timore, di là di ogni vergogna; fino al più profondo della cosa, fino al più
segreto della cosa, fino alla origine della cosa; e lasciare che altrettanto
avvenga in noi. Amore cristiano, grande etimologia del sentimento. Si
aggiunga la ragione “pratica” di questo toccare l’origine delle cose: che,
toccando l’origine della cosa, si acquista assieme l’“infinito” della cosa.
Altrimenti si vive in un mondo di cose mozze. Posate sul suolo, non
abbarbicate con radici nel suolo, e tronche a una statura manesca. Che è,
purtroppo, la condizione sentimentale dei più.
Caso isolatissimo da noi di cacciatore di origini, Giambattista Vico, e
ormai lontano. Ci sono mancati di poi cacciatori come Frazer, come lo
stesso Salomone Reinach, come, nel campo dell’omerismo, Victor
Bérard; come, nella bandita della psiche, Freud. E un velo, anzi una lastra
di cemento, copre, allo spettatore italiano, fino all’ombelico l’umanità.
Mi guardo bene dal mettere l’autore de L’origine del linguaggio sullo
stesso piano con Sir Georges Frazer, non pure con lo stesso Salomone
Reinach. Ma, nonostante la mancanza di rigore, di gravità, di ordine, e
forse per questo appunto; e nonostante certo piglio di audacia
dilettantesca, c’è l’animo in questo autore di cacciatore di origini; e un
modo di porsi di fronte all’origine del linguaggio, che è l’origine stessa
dell’umanità, insolito nei filologhi, e massime nei filologhi italiani: ossia

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di entrare nello stato originario del linguaggio e dunque dell’umanità,
con quello stesso amore del profondo, anzi, tout court, con quello stesso
amore, con quello stesso “sviscerato” amore, con cui Freud entra nel
fondo della coscienza umana. 17
Infine, a conferma della sua tesi, con il pretesto di raccontarci un
esempio “domestico”, definisce l’etimologia ovvero la “scoperta
etimologica”:
La mia bambina (anni cinque) ha scoperto che i fiammiferi si chiamano
così perché “portano la fiamma”. Una luce nuova ha brillato nei suoi
occhi d’oro, primo riflesso di una intelligenza più ferma delle cose, di una
felicità più sorretta da ragione. (…)
E io stesso tanti anni addietro ero ben felice di scoprire che cravatta
viene da croato, che le due prime lettere di snobismo sono la sigla di
sine nobilitate, che tiranno significava in origine custode dei formaggi. La
scoperta etimologica è una “illuminazione”. La scoperta etimologica ci dà
l’impressione (o l’illusione) di toccare con mano la Verità. quindi quel
gradevolissimo sentimento di ambizione appagata. Ma è sentimento
giovanile e chiuso entro i limiti dell’adolescenza, (o meglio:
“dell’adolescentismo”, perché molte volte il senso adolescentistico
continua anche di là dell’adolescenza). Superati questi limiti, il significato
primitivo delle parole non ci sorprende più, e saggiamente noi ci
attendiamo al significato acquisito e che talvolta è lontanissimo da
quello originale. Che in Piemonte la suocera la chiamino Madonna a noi
che importa? Spenta la curiosità di scoprire le “radici”, una maggiore
libertà ci rimane per scoperte più importanti. La fine dello scorso secolo
è stata l’epoca d’oro dell’etimologismo. Devoti alla dea Ragione, gli
uomini s’illusero di aver toccato con mano la verità. Fu un momento di
gioia piena, orgogliosa, trionfante. Poi, a poco a poco, e mentre le
concioni degli “illuminati” e gli zum-zum delle filarmoniche echeggiavano
ancora nel cielo senza Dio, la delusione cominciò a minare quel terreno
in apparenza così solido. E quello che in principio sembrava l’aurora di
una vita nuova e lucidissima, non era invero se non il segno che corri
corri, arranca arranca, la civiltà settentrionale era arrivata su un binario
morto. 18

La neo-mitologia saviniana è una mitopoiesi etimologica: la parafrasi


mitologica si basa sull’etimo del mito (che, come Savinio spiega, equivale

41
a parola). Nel momento in cui si genera la rivisitazione del mito, si
percorrono direttrici etimologiche, vettori che attualizzano il senso
originario della parola.
La neo-filologia di Alberto Savinio consiste in una etimologia
mitopoietica: l’analisi filologica, nell’attimo dell’“illuminazione” della
scoperta etimologica, rappresenta in immagini sempre nuove il mito:
siamo in presenza di una reciprocità bidirezionale, dalla parola (mithos)
verso il neo-mito e dall’epifania dell’“illuminazione” etimologica a ritroso,
per via filologica, sino all’origine dell’umanità radicata negli universali
fantastici.
Nel presentare i seguenti passi, troviamo la conferma della nostra analisi
e, rispettivamente, di mitopoiesi etimologica…
ORFEO (II). Il nome di Orfeo, di origine egizia e fenicia, è composto di aur
(luce) e rophae (guarigione, salute). Orfeo è colui che porta agli uomini la
luce e verità. Orfeo non è morto. Gli orfei sono tanti e si rinnovano. Al
principio del nostro secolo viveva a Milano un tale che si chiamava
Gregorio Pezzoli, ma tutti chiamavano Fallatajà perché portava i capelli
lunghi sulle spalle. Costui aveva scritto un libro: perché ho donato agli
uomini luce e verità. Fallatajà era Orfeo ma nessuno lo sapeva.
Nemmeno lui. 19
…ed etimologia mitopoietica:
ACHILLE. Gli antichi operisti scrivevano il nome di Achille quando con
due elle e quando con una, secondo il significato che gli volevano dare.
Al nome del figlio di Peleo erano state immaginate due etimologie
diverse: Achilleus era colui che “scaglia il dolore”, Achileus era colui che
la divina provvidenza aveva annunciato come il “cordoglio d’Ilio”.
Comunque, il nome di Achille non doveva rimanere “inesplicato”, e
similmente i nomi degli altri eroi, degli dei, delle cose. Come si sa, la
freddura etimologica è molto frequente nei poemi omerici. Che più? La
stessa Pallade è freddurista, e termina il suo discorso all’assemblea degli
dei su una freddura degna di Paolo Monelli, ossia su Odisseo, nome del
politropo figlio di Laerte, e odisào, “odiare” (onde anche il nome di
Odisseo va scritto quando con due e quando con una sola esse).
L’etimologia è la psicologia del linguaggio, il modo di penetrare l’anima
delle parole. Una mente etimologica trae infiniti godimenti dalle parole, i
quali sono ignorati da coloro che non considerano le parole se non
42
come suoni convenzionali; così come una mente psicologica trae infiniti
godimenti dalla frequentazione degli uomini, i quali sono ignorati da
coloro che considerano l’uomo se non come una forma parlante e
semovente. L’inerzia di tanti scrittori viene dalla mancanza di quella
mente etimologica, che dà una così brulicante vivacità “interiore” alla
prosa di Giacomo Leopardi. Uomini che nascono, vivono, muoiono e non
s’accorgono, per esempio, che olezzo, per effetto di un semplice o
privativo, è la voce antitetica di lezzo; che innocente è il contrario di
nocente (…). Ignorano nonché l’amore alle parole (“filologia”) ma anche il
“gioco” delle parole (ignorano del resto anche gli altri “giochi” della vita, e
la loro vita è spenta e muta come la morte). La ricerca dell’ètimo è uno
dei principali motivi dell’intelligenza (da motus e come contrapposto a
“quietivo”) e però lo si trova allo stato grezzo nelle persone incolte, ossia
in coloro i quali l’apparenza, la finzione, il velo della coltura non hanno
spento ancora curiosità e desiderio di ricerca. Così, per etimologica
curiosità di scoprire il “perché” delle parole, mia suocera chiama
appetitivo l’aperitivo e mia cognata chiama Balneari le Baleari. Quanto
più interessanti, quanto più commoventi questi errori, del continuare a
dire aperitivo e Baleari e non domandarsi perché. 20
1 Giambattista Vico, Scienza nuova, Milano, Rizzoli, 1977.
2 Alberto Savinio, Dico a te, Clio, Milano, Adelphi, 1998, p. 120.
3 Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, Milano, Adelphi, 2002, p. 40.
4 Alberto Savinio, Nostri antenati, in Scritti dispersi 1943-1952, cit. p. 20-
25.
5 Ivi.
6 Ivi.
7 Ivi.
8 Ivi.

9 Ivi.
10 Ivi.
11 Ivi.
12 Ivi.
13 Ivi.

43
14 Ivi.

15 Alberto Savinio, Tutta la vita, in Casa "La Vita”e altri racconti, Milano,
Adelphi, 1989, p. 241.
1 6 Alberto Savinio, Avventura delle parole, in Scritti dispersi 1943-1952
cit. p. 728.
17 Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, cit. p. 138-139.
18 Ivi.
19 Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, cit. p. 284
20 Ivi, p.19.

44
IL MITO DELL'INDIFFERENZIATO

“questa mania di chiamare uomini e cose per soprannome, fa parte di


una speciale e curiosissima metafisica della scemenza che Ulisse
condivide con altri uomini superiori”.
Alberto Savinio, La Verità sull’Ultimo Viaggio, saggio introduttivo a
Capitano Ulisse.

La ripresa e la quotidianizzazione del materiale mitico, che procede sia


sul piano della dissoluzione degli elementi mitici nel linguaggio
quotidiano, sia sul piano della creazione di una neomitologia, viene così
a prendere forma di un programma di poetica. Ma l’atteggiamento
spietatamente corrosivo che Savinio assume nei confronti di tutto ciò
che ha sapore di tradizione, di costrizione, di ordine costituito, di
accettazione acritica, fa sì che la mitologia, per essere accolta nel suo
mondo poetico, debba passare anche attraverso un filtro di
dissacrazione, che la affranchi dalle incrostazioni idealistiche e la renda
funzionale alla produzione dell’indispensabile effetto di scardinamento
della percezione.
All’interno del più ampio progetto di distruzione di vecchi valori e di
certezze metafisiche, Savinio trasporta il mito dal Monte Olimpo alla città
moderna, e i miti diventano elementi costitutivi del suo archivio
linguistico personale. Il processo richiede necessariamente la
contaminazione del materiale mitologico, e attraverso la diffusione nel
mito dell’indifferenziato savinio mina le partizioni fondamentali del
dualismo metafisico.
La metamorfosi è ardua, ma irrinunciabile: la divinità rifiuta l’immortalità
e irrompe nel tempo storico, e si rianima proprio come la statua di
Mercurio che, dolorosamente, scende dal piedistallo sul quale la Storia
l’aveva relegato per entrare nel mondo fisico del tempo e delle
contraddizioni: il dio si è liberato dalla prigione dell’immortalità ed è
entrato nella temporalità. Il dramma della fuga dall’immortalità per la
45
necessità di vivere nel tempo, nonostante la morte, o forse proprio per
l’esistenza della morte, rappresenta uno dei temi più inquietanti e
affascinanti dell’opera di Savinio. I personaggi del mito classico che
popolano il mondo di Savinio hanno scoperto lo spleen dello stato di
perfezione dell’immortalità, e anelano drammaticamente a essere
soggetti al tempo, a percorrere l’esperienza della vita sigillata dalla
morte. Per essi, come per il loro autore, è proprio la morte che dà un
senso alla vita, e l’immortalità non è che “un’esistenza minore, chiusa a
ogni divenire, immobile e muta”. Dei ed eroi si strappano essi stessi la
loro aureola per cercare la realtà e il tempo, divenendo mortali:
attraverso l’acquisizione della temporalità conquistano un senso di
pathos che li accomuna agli esseri umani e li cala in uno spazio
dominato dal paradosso.

EROS E PSICHE

Balle! (…) Sciocchezze! Sciocchezze e falsità! Ecco gli effetti della


propaganda!

Ecco a cosa portano le menzogne di uno spudorato romanzatore! (…)


Povera me [Psiche] ! Povere noi! Povere tutte noi donne!
Alberto Savinio, Nostra anima

Nel testo Angelica o la notte di maggio (1) il nucleo della storia è


l’incontro-scontro fra il Barone Felix Von Rothspeer (o la quotidiana
convenzionalità della borghesia) e la ballerina di teatro Angelica (ovvero
Psiche, l’arte e la sensualità). Il Barone, ovvero il rigido uomo formale, se
ne innamora e trova attraverso di lei il barlume della propria umanità,
ma non sa andare oltre il desiderio di possesso: ottiene Angelica, lei lo
segue, ma rimane muta. È un’adorata "bambola di carne" con cui la
comunicazione è impossibile:
Ho pianto! ho pianto! Il barone salta giù dalla cuccetta. Chino sullo
specchio, contempla le lacrime sorelle che gli scorrono dalle gote. Altre
ne vorrebbe questo parvenu delle passioni.(…) Mi sono portato dietro
una statua, una statua morbida e calda. Mi guarda e non mi vede, mi

46
ascolta e non risponde. È viva! viva in una sua vita che io non… Felice… In
quel sonno… 2
Per Rothspeer, l’Arte-Psiche è un mero oggetto, non un soggetto che
attraverso l’interazione possa arricchire la sua umanità. Come un
ignorante collezionista, il Barone, grazie al suo potere, ottiene il possesso
dell’opera Angelica, ma non sa che farsene. L’occasione per redimere la
sua insensibilità attraverso l’amore è concreta, ma Rothspeer non riesce
a vederla. Dopo un’infinita serie di incomprensioni, all’apice
dell’incomunicabilità, il Barone, in uno scatto di inutile gelosia, spara a
Eros, che veniva segretamente a visitare Psiche prigioniera, ferendolo, e
condannando così Psiche a una lunga infelicità, e con essa il mondo
intero. Il seguente passo fa risaltare la triangolazione fra società, arte,
realtà e i complessi termini dei loro rapporti:
MAZAS. (arriva di corsa, trafelato). Malas notitias! Venticinque suicidi in
città. Quaranta assassinii in un’ora. Settantadue padri hanno stuprate le
figlie. (…)
Che ora sarà? Gli orologi non camminano più. Il tempo si è fermato nel
cuore di una notte infinita , senza domani. E ora?
Salgono a noi le voci, i gemiti più lontani del mondo:
preghiera dei superstiti:

Arianna, gelido fiore costante,


Dormon nel fondo degli specchi l’ore;

O stelle, o pleiadi,
Sanate Amore!

BERGER. Écoutez: ils pleurent. Plus d’espoir!


IO. No: diamo tempo all’infelice Psiche di terminare il suo pellegrinaggio.
E quando avrà ritrovato il suo sposo che quello scemo di Rothspeer ha
sbadatamente ferito in quella notte di maggio…

BERGER. Mais quoi! c’etait elle, Psyché?


IO. Questo non lascia dubbio. Allora tutto rientrerà nell’ordine, nella
tranquillità. 3

Savinio, rivisitando e deformando, non vuole attuare il superamento del


mito (sentito da tanti autori e che si esprime nella forma della parodia),
47
ma attuare il suo rinnovamento.

L’autore, attraverso la tecnica dello straniamento, conduce il mito in un


processo di grottesca trasformazione. Nella scena rivelatrice de La
Nostra anima, Al culmine della citazione della novella di Apuleio
decantata da Perdita, si produce uno shock. Psiche tradisce la promessa
fatta e illumina il suo amante. Alla domanda di Perdita:
Allora vedesti la leggiadra chioma della testa d’oro, madida di ambrosia,
il collo di latte e le guance purpuree graziosamente incorniciate dalle
ciocche dei capelli sciolti, sparsi sul petto e sulle spalle, e sfolgoranti al
punto che perfino il lume della lucerna vacillava 4
Psiche risponde spezzando la drammaticità del racconto con una brutale
risata liberatoria:

Presa alla sprovvista, Psiche tacque e fissò Perdita. Il suo occhio rotondo
di uccello, per lo stupore maggiormente si arrotondò. “Su le spalle
dell’alato dio” continuava intanto Perdita, esaltandosi e accendendosi in
viso “ali rugiadose biancheggiavano di sfavillante splendore e benché
fossero ferme, tremolavano di continuo e palpitavano alle estremità
scherzose piumoline. Il resto del corpo era liscio e bello…”. Psiche a
questo punto rompe lo stupore e dà fuori una risata dentata a sega, che
dentro il suo becco di pellicano risuona come un riso di legno. 5
Quello che in Apuleio era il riconoscimento di Amore si è tramutato nella
disgustosa scoperta del pene maschile:
Avrei voluto che la lampadina sopra il mio letto spandesse raggi di
tenebra (…) Avrei voluto che la luce si spegnesse per sempre sul mondo.
(…) Che (…) tutti i sistemi di illuminazione sparissero improvvisamente,
per nascondermi quello che io vidi allora: la cosa più brutta, più stupida,
più avvilente, più sconcia, più informe, più bestiale, più inumana, più
ridicola, più immonda, più illogica, più grottesca, più oscena, più
inguardabile che occhio umano abbia mai veduta!... E quello era mio
marito! Quello il signore di tutto! (…) Non potevo credere. Guardavo e
non vedevo. (…) Pensai che l’occhio mi tradisse, che il mio fedele occhio
di pellicano si prendesse gioco di me (…) che una bestia immonda si
fosse sostituita nel buio a mio marito. Che un viscido lumacone, un
bruco calvo avesse preso il posto di colui che, invisibile, mi dava tanta
felicità, tanto piacere, tanto calore (…) Subito che ebbi fatta luce, mio

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marito… ma perché dico ancora “mio marito”? Io non devo, io non voglio,
io non posso dare ancora il nome di marito a quel lombrico schifoso e
grottesco… subito che ebbi fatta luce, quello già dormiva, ma turgido
ancora e ansante dalla fatica (…) Paonazza tuttavia la testa, potentemente
cupolata e svasata alle ganasce a imitazione dell’elmetto di guerra dei
soldati tedeschi, priva così di occhi come di naso e solo di bocca fornita,
muta e verticale come bocca della torpedo ocellata. Il suo corpo
tubolare, sul quale s’incordavano e palpitavano grosse vene turchine, e
privo sia di braccia, sia di gambe, sia di ali posava goffo e squilibrato
sopra due borse rigonfie e lustre, simili alle borse di una doppia
ciaramella. (…) Le stesse borse si sgonfiavano e allungavano, perdevano
il lustro e si rigavano di rughe, quasi attraverso un invisibile meato e
senza sibilo perdessero l’aria (…) Il molle cilindro si riduceva e deformava
(…) giaceva umiliato e sfatto, avvolto nella propria pelle come un
morticino nel sudario. 6
La svolta è brutale, il salto dall’aulico al volgare, dal leggiadro e
leggendario al disgustoso e concreto è così netto da mettere a disagio
qualunque lettore. Ma questo è proprio quello che Savinio vuole
ottenere: l’arte non deve creare un senso di sicurezza nel fruitore, ma
deve anzi stravolgere “ogni sicurezza, aspettativa di senso, abitudine
percettiva”, ed è anche in questo contesto che va intesa la distruzione
dell’aura e della sacralità del mito.

GLI ARGONAUTI

“due ore già son; … o meglio: Giasone, che mi sento più che mai
l’argonauta”
Alberto Savinio, Hermaphrodito

Partenze ed arrivi, abbandoni e ritorni, stazioni e porti, treni e navi,


scompartimenti ferroviari e cabine di piroscafi: elementi dell’archetipo
espressivo del viaggio, ambiente in cui Savinio rivisita il mito degli
argonauti. Il critico di Chiose e appunti ad Apollonio Rodio, ora narratore,
attualizza il mito del vello d’oro ne La partenza dell’argonauta, ampia
sezione di Hermaphrodito:
49
nell’esplorazione del mio sillabario, non mi ero avventurato più in là
della lettera L. Ogni pagina del mio sillabario illustrava o un fatto o un
personaggio storico. La pagine dell’A era dedicata alla partenza degli
Argonauti. Tre uomini armati e composti come statue, guardavano
l’orizzonte del mare e levavano la mano al saluto. 7

L’affezione alla storia di Giasone, è inscritta nell’infanzia dei piccoli de


Chirico. Volos, la città natale è anche la città di nascita dell’eroe greco.
Alberto, “l’argonauta a tavolino”, ama la poeticità del rischio, la precarietà
dell’azzardo, la metafora di chi non ha voluto esitare davanti alle
incognite di un viaggio oltre mondano e davanti ai misteri che popolano i
paesi sconosciuti della leggenda degli argonauti, il percorso dell’eroe
lungo i sentieri di una credibilità non immediata, verso il meraviglioso,
l’avventura, il segreto, la ricerca, dell’“inchiesta”.
Se nella pittura di Giorgio la favola dei tre navigatori si riduceva a
stereotipo, nell’espressione artistica di Andrea Alberto la vicenda della
nave Argo assurge ad archetipo, ovviamente filtrato attraverso
l’immersione del mito nella quotidianità che disinnesca il potenziale
trascendente: gli Argonauti appaiono nelle pagine saviniane in panni
civili, in una realtà di tutti i giorni, senza tuttavia venir meno alla serietà
del loro ruolo ed alla gravità del loro portamento.

Quando domandavo a Diamandi chi era Giasone, Orfeo, Dioscuri, Linceo,


si legge in Tragedia dell’infanzia, quegli rispondeva: ‘Sono eroi che si
aggirano da queste parti, nelle foreste, in riva al mare, lungo le carraie
diffuse nella valle e abbarbicate su per la montagna ’. … benché
quell’uomo singolare che aveva per me le oscure dolcezze di un padre
non si pronunciasse più di così, la misteriosa presenza degli eroi sulla
terra, il loro grave aggirarsi in mezzo a noi mi si chiarivano ugualmente,
mi si manifestavano come fatti reali e patenti”. 8
In Hermaphrodito, l’argonauta Savinio compie il suo viaggio verso la
dimensione esistenziale della sua “dolce città” visitando la terra d’origine,
la madre, l’infanzia in un percorso psicologico senza tempo, eterno nella
sua mancanza di principio e conclusione:
… questo che rivedrò dopo anni e anni di separazione (…) [lo] guardo con
avidità per rispondere subito a’ miei ricordi lontani (…) fra i templi
portatili, le colonne che girano assieme col girare del sole, le statue
animate di serena magia, quanto brillanti nella compagnia degli alberi,
50
quando levate oscure di contro l’amorosissimo cielo. 9

Affidata a una traduzione militare, il viaggio si snoda disponibile agli


incontri con personaggi quotidiani: i compagni di viaggio ("i miei
compagni – eroi"), semplici soldati vengono caricati con caratteri epici
nell’immagine saviniana: ne è un esempio l’epifania del macchinista
come matador:
rimpiattito dietro il finestrino, simile all’habituè che occhieggia nel
camerino della prima, spio le movenze dell’espada… infilandosi i calzoni
a braghe e indossando il camice turchino, pone una cura meticolosa alle
minuzie della sua toilette… pronto nella veste del manovratore,
l’avventizio si toglie il fiore dalla bocca e se lo pone dietro l’orecchio. 10
Poco tempo dopo essere salito sulla nave, Savinio è già tutto dentro il
suo ruolo, come abbiamo sottolineato nella nostra epigrafe con il viatico
di una delle sue amate freddure lessicali!

ERMAFRODITO

“Per quanto camminassi,


non riuscii a slacciarmi dalla voce dello strano ermafrodito,
che tagliava l’epoche da parte a parte”.

Alberto Savinio, Hermaphrodito

Se nella pittura di Alberto Savinio il riferimento iconografico a


Ermafrodito è costante, (spesso appare sdraiato e nudo, in linea con la
scultura ellenistica), nei suoi scritti il figlio di Ermes e Afrodite si presenta
in varie angolature.
I n Tragedia dell’infanzia, si incarna in Apollo/Apolla, l’ambigua creatura
che è il tramite dei primi ambigui appelli sessuali recepiti dal piccolo
Nivasio, alter ego anagrammatico di Savinio. Ne La casa ispirata la
presenza ermafrodita è riferita ad un "Ricorso losco e turbatore". Nel
saggio introduttivo a Capitano Ulisse, La Verità sull’Ultimo Viaggio,
Savinio considera la professionalità degli attori basata sulla capacità di
scambio e integrazione fra i due sessi ("…passa a scelta da uomo rosso a

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uomo turchino, giallo, verde, e così via. Peli e unghie se li fa spuntare a
vista d’occhio. Da uomo diventa donna e reciprocamente"). In Infanzia di
Nivasio Dolcemare, Ermafrodito metaforizza la somma perfezione ("…
Ermafrodito addormentato rappresenta oggi, come al tempo del
Simposio, l’immagine ideale della perfezione. Ma non è un dio neutro
costui, sibbene il divino totale dei totali"). In Ascolta il tuo cuore, città
sublima in ermafroditismo letterario come caratteristica negli "…Uomini
della Poesia, in questi uomini che sono insieme donne" e spunto
polemico contro il funzionalismo architettonico coevo ("penso all’uomo
che ha in sé anche la donna, all’angelo che ha in sé anche il demonio.
Alle felici mistioni finiremo per ritornare, ma quando?"). In Tutta la Vita,
l’unione ermafroditica slitta dalla fusione metafisica alla congiunzione
fisica: Savinio rende il mito feriale, quotidiano, domestico ("le due sorelle
morte rivissero effettivamente nel fratello vivo. Igeo a poco a poco
diventò uomo e assieme donna, e anche nella mollezza dei tratti, nella
rotondità dei fianchi, nella voce, nei gesti, nei gusti…").

Hermaphrodito, la sua prima opera, rappresenta l’origine della costante


mitopoietica saviniana, scaturita da questo suo primo libro e rinnovata
lungo tutta la sua produzione letteraria:
Ho guardato Ermafrodito in faccia e senza paura. Mi sono riconosciuto
intero nella sua faccia. Tutto che io sono nasce da lì. Tutto che ho fatto
viene da lì. Non c’è idea, non c’è pensiero, non c’è concetto, non c’è
sentimento, non c’è immagine da me espressi di poi in quella ventina di
volumi che compongono la mia opera letteraria, in quel migliaio di
pitture che compongono la mia opera pittorica, in quel centinaio di
pagine pentagrammate che compongono la mia opera musicale
(posteriore al “Gran Rifiuto” del 1915), nei tanti frammenti sparsi per
giornali e riviste, nelle tante note segnate nei miei taccuini, e nelle
innumerevoli parole da me pronunciate – non c’è nulla che non tragga da
quella “pustola” e da quel “bubbone”, indecente l’una e malefico l’altro,
ma straordinariamente fecondi ambedue. È nel male, in ciò che agli
uomini “sembra” male, la grande e misteriosa forza generatrice.
Hermaphrodito rappresenta uno dei pochi volumi saviniani in cui il titolo
è esplicitamente riferito a un soggetto della mitologia greca, il che
porterebbe a pensare che il protagonista del libro sia proprio
Ermafrodito. Questo personaggio mitologico appare raramente: quando

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succede, sublima in un significato più generale di condizione
ermafrodita, nel discostarsi da persone e cose che Savinio sente
contrarie alla sua personalità e nel focalizzare un’immagine
perentoriamente (attraverso la funzione, essa stessa ermafrodita, di
"microscopio-telescopio").
Sono le cose minute, i piccoli fatti, le situazioni di poco conto e non le
grandi opere che interessano Savinio, visti al microscopio i primi e al
telescopio le seconde.
Opposizioni di linguaggio aulico e scrittura oscena, scontro di arcaismi e
neologismi, antagonismi di scelte lessicali barocche e cadute lirico-
elagiache.
Ad ogni passo, il secondo termine delle contrapposizione si innesta sul
primo, neutralizzandolo: se ne deduce che quella saviniana è un tipo di
scrittura che "corre" sempre sul filo, su cui camminano e si destreggiano
le due parti dell’Ermafrodito.
Savinio promuove questa scrittura mobile e pericolosa, fuori da ogni
strada battuta, in questo modo:

Il passo letterario è per noi un camminare sulla corda. Questi riferimenti,


queste equivalenze, queste analogie, che noi poniamo ora a destra, ora a
sinistra della nostra vita, hanno lo scopo di mantenerci in equilibrio,
hanno la funzione per noi che il bilanciere con le braccia tese
lateralmente ha per l’equilibrista che cammina sulla corda. 11

La voce dell’Ermafrodito è un canto teso, rischioso, svincolato, sregolato.


È un linguaggio che, sincronicamente, separa e unisce l’inconscio e il
conscio, "parole" e "langue", l’anarchia verbale dell’infanzia e il codice
della cultura, della società in bilico tra animalità e umanità.

ULISSE

“Suo malgrado Ulisse è vissuto tanto da conoscere nonché la Grecia


degli Atridi, ma anche la Grecia di Venizelos. Per questo popolo
sarcastico e navigatore, Penelope è sinonimo di orinale. Eufemismo
eloquente. Traslato ricco di significati. La stessa parola associa la più
domestica delle suppellettili alla più domestica delle donne. Sia inteso

53
ora e per sempre che ogni qual volta Ulisse pronuncia il nome della
propria moglie, egli esprime contemporaneamente l’idea di orinale”.
Alberto Savinio, Capitano Ulisse.

Capitano Ulisse è la rivisitazione saviniana del mito di Ulisse. Il


coraggioso eroe subisce una cura radicale passando "attraverso il
teatro".

Nel lungo preludio, non casualmente intitolato La Verità sull’Ultimo


Viaggio, lo scrittore spiega il rinnovamento del suo personaggio: "Che
una grandissima voglia di finirla struggesse l’animo di Ulisse, era un bel
po’ che lo sospettavo". Ulisse si confessa e si compiange con il suo
padre-autore, "condannato a una notte infinita".
Se i personaggi omerici rappresentano “qualcosa tra il Commendatore e
lo Chevalier de la Légion d’Honneur”, è indispensabile ridimensionare
l’eroe principale e nel far ciò lo si presenta come "futile". Egli smette di
avere il "cuore di bronzo" e l’ingegno "tutto spirito". Ulisse si trasforma in
un personaggio dal "buonumore radicale", interessato soprattutto alla
"metafisica della scemenza" e così dà a Calipso l’epiteto "Dea
Clisopompo" ("Donna Lavativo") e chiama Penelope "orinale". Quindi è
necessario farlo tornare un uomo normale con i tratti leggendari per
farlo vivere secondo uno schema. Perciò nel dramma veste gli abiti di un
Capitano che rinnega la dark lady Circe, rifiuta Calipso e le sue
smancerie, saluta Maman Colibrì dalla pelle bianca come lo yogurt, la
"poltrona Frau dell’amore". Poi la sua storia: il viaggio e il ritorno a Itaca,
dove si ritrova sia con i Proci e con Penelope. Savinio esagera la vicenda
e la studia a fondo rimanendo in un vivace clima teatrale che a un certo
punto diventa irrazionale e spossato dove Ulisse perde la cognizione
della realtà. Tuttavia, Ulisse parte per il suo ultimo viaggio su consiglio
della "zitella famelica", ovvero Minerva, per compiere il destino che alla
nascita gli era stato imposto. L’Ulisse saviniano è anche un damerino
borghese che, a braccetto con lo spettatore incredulo, fugge
elegantemente dal teatro. Ecco un passo dell’introduzione dove si legge
chiaramente l’inversione di tendenza della cultura:

Fermo davanti a un mare di pece, a una nave ugualmente nera e sempre


pronta a salpare: quella nave sulla quale Ulisse non voleva imbarcarsi

54
più, perché sapeva che appena iniziato, l’ultimo viaggio si converte in
penultimo. Era necessario dare un porto a questo navigatore senza
porto, un termine al suo viaggio, una morte alla sua vita. La sorte di
Ulisse è rimasta in sospeso. La fama un giorno lo consacrò uomo
dell’ultimo viaggio… Aveva creduto per molto tempo alla sincerità dell’
ultimo viaggio. Sfinito da quel continuo girare a folle, gli fu giocoforza
convincersi che l’ultimo viaggio era come i capelli di Eleonora, che
quando non ce n’è più ce n’è ancora. “E quasi non bastasse” mi confidò
una volta Ulisse “questo trucco dell’ultimo viaggio me lo vollero abbellire,
inzuccherare. Me lo chiamarono il folle volo!”. Fumava di rabbia “Che
ingenuità! Che mancanza di riguardo! Eppure, Dante lo credevo una
persona seria…”. Tacque un momento poi aggiunse: “forse per questo
appunto. Gli uomini seri sono stati i miei peggior nemici”. 12
"È vero", commenta Savinio, "un destino imbecille, una sorte cocciuta
hanno invariabilmente spinto Ulisse nelle zone serie delle vita". Ulisse è
ora un’illusione reale, che oscilla in un "dormiveglia tra la vita e la
morte". "Imbecille" è il destino serio di Ulisse. Savinio sottolinea il fatto
che, avendo ormai divorato la sua vita al punto da averne abbastanza,
Ulisse potrà morire in pace se lo desidera. Si sa, il mito rinasce dalle sue
ceneri, ma secondo Savinio l’eroe, più in generale, ha bisogno di leggere
le burle ironiche del mito, mantenendo la sua tradizionale poesia. La
"metafisica della scemenza" è un prova di vita nell’enfasi laddove il riso è
fondamentale. "La Storia – scrive Savinio – dice la cosa com’è, il teatro
come dovrebbe essere". L’ironia è la cultura della purificazione e della
rigenerazione, l’unico ponte fra la vita e la morte, il veicolo per districare i
"nodi della vita in modo altrettanto spedito, asettico, indolore".
1 Alberto Savinio, Angelica o la notte di maggio, in Hermaphrodito e altri
romanzi, Milano, Adelphi; 1995.
2 Ivi.
3 Ivi.
4 Alberto Savinio, La nostra anima, Milano, Adelphi, 2001.
5 Ivi.
6 Ivi.

7 Alberto Savinio, Hermaphrodito, 1° edizione, Torino, Einaudi, 1974.

55
8 Ivi.
9 Ivi.
10 Ivi.
11 Ivi.
12 Alberto Savinio, La Verità sull’Ultimo Viaggio.

13 Ivi.

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