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Aristotele

FRAMMENTI.
OPERE LOGICHE E FILOSOFICHE
Introduzione, traduzione e commento
di Marcello Zanatta

C L A S SIC I GR E C I E L AT I N I
Proprietà letteraria riservata
© 2010 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-58-64893-3

Prima edizione digitale 2013

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Alla cara memoria
di Gustavo Bontadini
INTRODUZIONE

1. I FRAMMENTI DELLA PRESENTE RACCOLTA

Nel presente volume si presentano, introdotti, tradotti e


commentati, i frammenti delle opere perdute di Aristotele
che Ross (Fragmenta selecta) ha raccolto come frammenti
di Opere logiche (Ivi, pp. 100-110) e di Opere filosofiche (Ivi,
pp. 111-145).
Sotto un profilo strettamente attinente all’aspetto dot-
trinale, non v’è dubbio che queste seconde rivestano un in-
teresse e un’importanza maggiori, non fosse per altro se
non perché vi si annoverano i frammenti dello scritto Sulle
Idee e Sul bene che costituiscono due capisaldi dell’ontolo-
gia aristotelica. In essi, infatti, lo Stagirita prende posizione
critica nei confronti, rispettivamente, della dottrina plato-
nica delle Forme separate e dei principi, e queste critiche
costituiscono, per così dire, le premesse a partire dalle qua-
li si sviluppa l’interpretazione della realtà data da Aristote-
le. Nella Metafisica (I, 9) egli riprende le critiche delle Idee
sviluppate nel Peri# ièdew^n, anzi, le richiama in modo del tut-
to succinto e persino allusivo, rinviando implicitamente a
esse per quanto riguarda la loro formulazione completa ed
esaustiva; segno palese che non soltanto le considera deci-
sive, ma altresì perfette nella loro enunciazione. Identiche
considerazioni egli mostra di avere anche nei confronti del-
le critiche mosse nel Peri# taègaqop alla dottrina dei princi-
8 INTRODUZIONE

pi. Nelle Introduzioni ai due trattati e nel relativo commen-


to ho cercato di darne informazione.
Intorno a temi di natura ontologica si sviluppano anche
le opere Sui Pitagorici, Sulla filosofia di Archita e Su Demo-
crito. L’intendimento prevalente di esse – così ho inteso e in
questa prospettiva mi sono sforzato di presentarle – non è
né storico, né storiografico, sibbene teoretico, e la teoresi
che in tutti e tre i casi interessa allo Stagirita è la concezio-
ne della realtà elaborata da quei filosofi. L’interesse – si
diceva – non è storico, ossia ad Aristotele non importa tan-
to accertare che cosa essi hanno «veramente detto», né –
ancor meno – è storiografico: trasmettere per far conoscere
con sicurezza ad altri i loro pensieri. Al contrario, ciò che
allo Stagirita stava a cuore nel redigere questi scritti è, per
così dire, «la verità» di ciò che i filosofi chiamati in causa
hanno detto. Ed è una verità che attiene innanzitutto e fon-
damentalmente alla dimensione ontologica. Nei relativi
frammenti se ne scorgono chiari e inequivocabili indizi. In
quest’ordine di considerazioni è ben comprensibile che
l’inquadramento delle dottrine dei pensatori presi in consi-
derazione avvenga entro la prospettiva e sulla base di cate-
gorie speculative proprie della filosofia aristotelica, giacché
solo su questo piano, agli occhi dello Stagirita, è possibile
compiere un’indagine che accerti il vero di quanto è stato
proferito e non semplicemente che cosa sia stato proferito.
Tra le Opere Logiche Ross ha collocato i frammenti di
alcuni scritti che, stando a quella che si è tradizionalmente
intesa come la «logica aristotelica», sviluppano tematiche
attinenti a questa disciplina. A partire dalle Categorie, e poi
in trattati dove la centralità di argomenti propri della dia-
lettica salta subito agli occhi, non disgiuntamente da consi-
derazioni specificamente attinenti al linguaggio. In questa
chiave, diciamo così, tradizionale d’intendere gli scritti
dell’Organon aristotelico non vi è dubbio che le Categorie,
il De interpretatione e poi i Topici siano opere di «logica», e
INTRODUZIONE 9

poiché i frammenti degli scritti qui in causa si connettono,


direttamente o indirettamente, a questi trattati, ben si com-
prendono la collocazione e la qualificazione che vi ha dato
l’illustre studioso.
In realtà, potrebbe non essere questa la loro qualificazio-
ne più pertinente. Per molti aspetti la raccolta del Ross è la
più affidabile, se non altro perché evita le posizioni ipercriti-
che dell’Aristoteles pseudoepigraphus, accogliendo invece le
istanze molto più convincenti delle successive due raccolte
del Rose, la cui numerazione dei frammenti Ross non man-
ca di indicare accanto a quella da lui stesso fornita, così co-
me non manca d’indicare la numerazione della raccolta del
Walzer, che, pur filosoficamente assai robusta, è tuttavia
molto più sintetica; e per altro verso evita gli eccessi dosso-
grafici della raccolta del Gigon, non ingiustamente fatta og-
getto di alcune riserve (si veda, in particolare, Dorandi-Ber-
ti-Rossitto, La nuova edizione). Ma il clima culturale in cui
ha redatto la sua edizione dei frammenti era ancora quello
nel quale la dialettica veniva intesa come una logica del pro-
babile e, dunque, di rango inferiore rispetto all’analitica.
Convinzioni che nei decenni successivi gli studi aristotelici
più accreditati hanno smantellato, fino a indicare (con Ber-
ti) nel metodo dialettico il momento euristico della filosofia
dello Stagirita e a mettere in luce la presenza in tale metodo
di aspetti per i quali esso non è soltanto «peirastico» ed
«exetastico», ossia critico, ma, permettendo di conoscere il
vero e il falso (sia pure in modalità differenti da quelle pro-
prie dell’apodittica), rivela di possedere una valenza anche
conoscitiva.
Sotto un differente angolo prospettico – ma certamente
non lungo una differente linea esegetica complessiva; anzi,
in guisa di arricchimento e di ulteriore sviluppo di essa –
anche l’esistenza di una «logica» aristotelica è stata messa
in discussione. Mi permetto cosi di richiamare l’Introduzio-
ne all’edizione italiana delle Categorie da me redatta, dove
10 INTRODUZIONE

mi sono sforzato di mostrare che la dottrina esposta in


quest’opera costituisce un primo tassello dell’ontologia e
non già, semplicemente e primariamente, della «logica» ari-
stotelica. Ho cercato, infatti, di mostrare come per un verso
tale dottrina derivi dalla critica dello Stagirita al metodo
platonico della divisione – una critica intesa, questa volta,
non a demolire, come nel caso delle Idee e dei principi, ben-
sì a perfezionare e dare adeguata realizzazione alle effetti-
ve possibilità teoriche che quel metodo presenta – e, per
altro verso, come essa, una volta formulata, abbia concorso
in modo decisivo al rifiuto delle Idee. In senso più generale,
nell’Introduzione all’edizione italiana dell’Organon ho cer-
cato di mettere in luce come una «logica» aristotelica – ove
per logica s’intenda una teoria del pensiero formale e
astratto, così come venne intesa dai Medievali: scientia
propter quam, la definiva Tommaso d’Aquino, homo in ipso
actu cognitionis ordinate, faciliter et sine errore procedat –
non esista affatto, ma quella che così viene denominata al-
tro non sia che la definizione delle strutture e dei modi di
connessione del reale, dunque un’ontologia, nel senso più
pieno e più proprio del termine.
Ma queste precisazioni e, in ultima analisi, questo cam-
bio di paradigma esegetico nulla tolgono alla validità della
raccolta del Ross; anzi permettono di leggere i frammenti
ordinati dall’illustre studioso in una prospettiva che può
anche andare al di là del quadro concettuale complessivo
nel quale egli li ha sistemati. In una siffatta prospettiva so-
no stati qui introdotti e commentati.
Se per le Opere filosofiche la questione dell’autenticità è
oggigiorno assai meno acuta di un tempo, specialmente per
ciò che concerne gli scritti Sul bene e Sulle idee, che, come si
diceva, ne costituiscono il centro speculativo, non così stan-
no invece le cose per ciò che riguarda le Opere logiche. La
loro paternità aristotelica è stata ampiamente, e in più casi
molto pertinentemente, messa in discussione. In questa
INTRODUZIONE 11

edizione ho preferito non insistere in modo particolare e


primario su questo genere di considerazioni e rivolgere in-
vece l’attenzione alle problematiche che si annunciano es-
sere state affrontate in quegli scritti, considerando in
quest’ottica le ragioni a favore e contro che la moderna cri-
tica storico-filosofica ha addotto in ordine alla loro perti-
nenza aristotelica. Così, alle questioni attinenti all’aspetto
dell’autenticità – che peraltro per la maggior parte delle
opere in questione è oggigiorno quasi scontato in senso ne-
gativo – ho dato soltanto alcune indicazioni attraverso op-
portuni rimandi e ampliando al massimo, sotto questo pro-
filo, la rassegna bibliografica. Ho preferito, invece, concen-
trare gli sforzi nel mostrare che, siano state scritte o no,
queste opere, dallo Stagirita, esse sviluppano in ogni caso
tematiche che direttamente si riallacciano a motivi centrali
e basilari della filosofia di Aristotele, epperciò (almeno) in
questo senso hanno pieno titolo per essere classificate co-
me «aristoteliche».

2. LA QUESTIONE DEI CATALOGHI


Un discorso a parte merita di essere svolto, sia pur in
termini succinti, sui cataloghi delle opere aristoteliche, quei
cataloghi nei quali sono indicati anche gli scritti di cui sono
qui raccolti i frammenti.
Dopo gli studi di Moraux (Les listes) e Düring (Aristote-
les) vi è accordo pressoché unanime tra gli studiosi nel rico-
noscere che le opere presenti nel Corpus Aristotelicum ri-
empivano un tempo 106 rotoli di papiro, se si conta un ro-
tolo per ogni libro. La maggior parte di esse è costituita da
corsi di lezioni, alcune sono appunti per uso personale, stesi
forse per fungere da traccia per le lezioni; solo poche erano
destinate con certezza direttamente alla lettura. Sebbene
non sappiamo niente di preciso, dobbiamo però supporre
che soltanto pochi di questi 106 rotoli furono pubblicati ed
12 INTRODUZIONE

erano disponibili nelle «librerie» quando Aristotele era an-


cora vivo.
Düring (Aristoteles, pp. 43-53) ritiene che Aristotele,
nelle 106 opere pervenuteci, abbia fissato per iscritto tutta
la sua dottrina. Ritiene, inoltre, che non abbiamo alcun fon-
damento per supporre che nelle numerose opere che sono
andate perdute Aristotele abbia esposto opinioni diverse, o
si sia occupato di settori della scienza diversi da quelli do-
cumentati dalle opere conservate. Non esiste, in questo
senso, per Düring, un «Aristotele perduto».
Un documento importante a riguardo è l’elenco degli
scritti aristotelici tramandato nella Vita Aristotelis di Dioge-
ne Laerzio,1 il quale, come ha mostrato Düring, lo derivò
dalla Vita Aristotelis di Ermippo. È chiaro che il compilato-
re di questo catalogo non conosceva il nostro Corpus Ari-
stotelicum; tuttavia si possono identificare alcuni degli scrit-
ti a noi noti.2 Oltre il libro V, il redattore della lista non co-
nosce alcun altro trattato della Metafisica, e di tutte le opere
di scienza naturale conosce soltanto alcuni libri della Fisica
e la Storia degli animali.
Tutta la singolare storia dei manoscritti aristotelici è
tratta da Strabone (XIII, 608-609), già discepolo di Tiran-
nione. Per verificarne l’attendibilità, Moraux svolge un’ana-
lisi dettagliata dei cataloghi antichi.
Quattro sono le liste antiche delle opere di Aristotele:
una redatta da Diogene Laerzio (V, 22-27, dove sono men-
zionati 146 titoli), una seconda dall’Anonimo della Vita Me-
nagiana (che deriva da Esichio di Mileto), altre due da due
autori arabi. Nei cataloghi di Diogene e dell’Anonimo è su-
bito rimarchevole l’assenza della maggior parte dei grandi
trattati che costituiscono l’odierno Corpus Aristotelicum,
mentre compaiono titoli di opere altrimenti sconosciute.
Già nel 1826, Titze (Liber), anticipando Jaeger di un se-
colo, affermò che le grandi opere di Aristotele non furono
scritte in una sola volta, ma dapprima lo Stagirita compose
INTRODUZIONE 13

piccoli studi, talvolta pubblicati anche separatamente, che


in seguito rifuse e munì di una introduzione. La lista di Dio-
gene sarebbe, pertanto, una testimonianza relativa a questi
piccoli studi originariamente indipendenti. Ravaisson (Es-
sai, I, pp. 42-51), combinando differenti ipotesi, attribuisce
una triplice origine all’abbondanza di titoli della lista. Le
opere circolarono in redazioni differenti; le stesse opere
potevano avere più titoli; a causa del costo elevato dei ma-
noscritti, si evitò di ricopiare le opere per intero e alcuni li-
bri separati furono designati con un titolo speciale che pas-
sò nei cataloghi. Lo studioso, inoltre, crede all’origine ales-
sandrina della lista di Diogene. Valentin Rose (Commenta-
tio, 1854), che ritiene pseudoepigrafe tutte le opere perdute
comunemente attribuite ad Aristotele, afferma che la lista è
opera di Andronico, il quale avrebbe così prodotto un elen-
co delle opere aristoteliche da costui non mai edite. Zeller
(Griechen) prende posizione contro Rose: non ammette
che le opere scolastiche edite da Andronico siano state
escluse dalla lista, dimostrando invece che molte parti degli
scritti del Corpus si trovano menzionate in essa. Heitz (Ver-
lonen Schriften) nota, innanzitutto, che la lista è incompleta e
lo stesso Diogene cita opere che in essa non com-
paiono. Diogene non conosce nulla del lavoro di Androni-
co, per cui le sue fonti devono essere più antiche, in partico-
lare devono risalire a Ermippo, bibliotecario alessandrino.
Le lacune della lista si spiegano con ciò che Strabone e Plu-
tarco raccontano in merito alle vicissitudini dei manoscritti
di Aristotele. La lista di Diogene rappresenta perciò un do-
cumento che testimonia la diffusione degli scritti aristoteli-
ci prima dell’edizione di Andronico. Jaeger considera la li-
sta di Diogene come una testimonianza del progressivo
raggruppamento in «trattati» delle pragmatei^ai aristoteli-
che. Ad avviso di Moraux, l’autore della lista citata da Dio-
gene avrebbe tenuto a separare i dialoghi e le opere con
essi «apparentate» dal resto della produzione di Aristotele.
14 INTRODUZIONE

2.1 Il catalogo di Diogene e l’anonimo catalogo della Vita


Menagiana

Le opere enumerate nel catalogo di Diogene contano


un insieme di 445.270 linee; nello stato più antico, ricostru-
ito da Moraux, la lista menzionava 551 libri, ciascuno dei
quali doveva quindi contenere, in media, 808 linee; un libro
antico contava in media un migliaio di linee. Si considerino
per esempio i Topici, già editi in otto libri all’epoca della
redazione della lista: nella edizione del Bekker gli otto libri
contano complessivamente 4916 linee; sennonché, mentre
una linea del Bekker contiene 44 lettere, uno sti@cov antico
contava in media 36 lettere; le 4916 linee del Bekker corri-
spondono, pertanto, (4.916 x 44 : 36) a 6008 stichi antichi di
36 lettere, il che dà per ogni libro una media di 751 linee,
una cifra che si accorda molto bene con quella di 808 che si
è tratta dalle indicazioni date da Diogene. Il catalogo, in
conclusione, non presenta alcuna lacuna importante.
La Vita Menagiana di Aristotele (pubblicata per la pri-
ma volta da Egide Ménage in appendice alla sua edizione
di Diogene Laerzio) termina con una lista di opere che, nel-
la prima parte, presenta forti somiglianze con la lista ripor-
tata da Diogene. Questa vita anonima non è altro che l’arti-
colo ˆAristote@lhv della Onomatologia di Esichio di Mile-
to, ma le fonti di Esichio non sono ancora state identificate
con certezza. Nella prima parte (139 titoli; seconda parte,
46 titoli, alcuni dei quali presenti già nella prima; terza par-
te, 10 titoli di opere date come pseudoepigrafe), alla posi-
zione 111, figura Metafusika# k‰, comprendente (in base
agli studi di Jaeger) dieci libri, con l’assenza di a, D, K e L.
Nel complesso, l’ordine primitivo della lista è conserva-
to più fedelmente da Diogene. Lo studio comparato delle
due liste permette a Moraux di pervenire alle seguenti
conclusioni: la lista anonima non è una copia diretta di
quella di Diogene e conserva un testo migliore e più com-
INTRODUZIONE 15

pleto; inoltre, la lista anonima contiene cinque titoli as-


senti da quella di Diogene (fra i quali quello della Metafi-
sica); ora, il testo di Diogene presenta una lacuna di cin-
que titoli nella quarta delle cinque colonne, offrendo 30
titoli in luogo dei 35 offerti da ciascuna delle altre colon-
ne. La conclusione appare chiara: i cinque titoli in più pro-
posti dall’Anonimo sono quelli perduti da Diogene, per
cui la lista anonima non può derivare dal testo lacunoso di
Diogene. Le due liste pertanto (come per primi hanno af-
fermato Heitz e Howald) risalgono a una fonte comune,
posteriore alla trascrizione del pinax in cinque colonne e
il testo di Diogene è più vicino a questa fonte, anteriore
all’era cristiana, conservandone più fedelmente l’ordine.
L’ordine ricostruito da Moraux è il seguente:
– Catalogo primitivo
– Cattive copie dei titoli
– Trascrizione in cinque colonne seguita da uno sposta-
mento di posizione e da due interpolazioni
– Modello comune (già errato)
– Caduta di cinque titoli e leggeri errori
– Confusione di cifre (prima dell’era cristiana)
– Diogene
– Primo correttore (circa 130 a.C., rettifica certe cifre, sop-
prime i doppioni, corregge dei titoli che gli sembrano
sbagliati)
– Aggiunta dell’appendice
– Secondo correttore
– Anonimo

2.2. La fonte di Diogene e dell’Anonimo

Nel XX secolo, l’attribuzione della lista ad Andronico è


completamente abbandonata, mentre è Ermippo colui che
dai più (Leo, Jaeger, Ross, Howald, Robin) ne è considera-
16 INTRODUZIONE

to l’autore. Soltanto Gohlke (Aristoteles) ritiene che l’auto-


re sia lo Stagirita, il quale avrebbe redatto contemporanea-
mente un testamento e la lista prima della redazione delle
sue opere di filosofia naturale, in effetti assenti dalla lista di
Diogene; più tardi, rifugiatosi a Calcide, avrebbe terminato
i suoi lavori scientifici e avrebbe aggiornato la sua lista. In
tal modo, Diogene ci avrebbe trasmesso la prima redazione
della lista, mentre Esichio avrebbe conservato la seconda.
Questa ricostruzione non è stata accettata da nessuno.
L’esame dei testi rivela però, ad avviso di Moraux, l’im-
possibilità dell’attribuzione a Ermippo, giacché la grande
varietà che regna nel catalogo mostra che Diogene o gli au-
tori cui egli si ispira hanno tratto le loro informazioni da una
pluralità di fonti. In realtà, Ermippo appare come un autore
di curiosità piuttosto che un sapiente preoccupato di esattez-
za e di rigore scientifico e non sembra il soggetto adatto a
intraprendere il duro e meticoloso lavoro della redazione di
un indice bibliografico; tanto più che i cataloghi della biblio-
teca di Alessandria e i pi@nakev (che, a differenza dei catalo-
ghi, i quali offrivano soltanto indicazioni sulla presenza di
doppioni e sulla provenienza delle opere, davano anche bre-
vi notizie sulla vita degli autori, sulla cronologia e sulla au-
tenticità delle opere circolanti sotto i loro nomi; peraltro i
Greci non stabilirono una distinzione netta fra liste biblio-
grafiche e cataloghi di biblioteca, per cui il termine pi@nax
serviva a designare tanto un catalogo che una lista bibliogra-
fica) di Callimaco gli fornivano un materiale già bell’e pron-
to. Inoltre, nei cataloghi alessandrini concernenti le opere di
un medesimo autore, queste appaiono sempre classificate
secondo un ordine alfabetico e non per materia.
Rose, Bernays, Diels e Gercke fanno di Andronico l’au-
tore della lista, ma, dice Moraux, ciò è impossibile. Innanzi
tutto, verso la metà del I secolo a.C. (l’età di Andronico) si
cominciano a commentare le opere esoteriche di Aristotele
(risalgono a questo periodo i commenti di Boeto, Aristone
INTRODUZIONE 17

di Alessandria e Nicola Damasceno); ebbene, se si crede


che la lista sia opera di Andronico, si è costretti ad ammet-
tere che questi commentatori conoscevano uno stato del
Corpus Aristotelicum (un gran numero di []LRXL_PoLT in-
dipendenti, molto brevi e provviste di titoli differenti da
quelli che conosciamo oggi) del tutto differente da quello
attestato dopo il II secolo d.C. (Aspasio, Adrasto, Erminio,
Alessandro, non avrebbero mancato di sottolineare la dif-
ferenza). Inoltre è certo che Andronico e i suoi contempo-
ranei lavorarono su un Corpus Aristotelicum molto simile,
se non identico, al nostro, e, in ogni caso, molto differente
da quello che presenta la lista.

2.3 La vera origine del catalogo secondo Moraux


La lista appare come un lavoro scientifico, opera di un uomo
capace di stabilire una classificazione razionale nella enor-
me produzione dello Stagirita: egli si ingegna a raggruppare
le opere tenendo conto, di volta in volta, del genere lettera-
rio e delle articolazioni interne del pensiero aristotelico (so-
prattutto utilizzando Metaph., VI, 1), classificando in posi-
zioni diverse (in base alla norma del genere letterario) le
lettere e gli hypomnemata (150, 162). Tale procedimento ri-
sulta particolarmente bene applicato nelle liste stoiche.
La lista è anteriore all’epoca in cui le opere canoniche di
Aristotele si trovano provviste dei loro titoli definitivi e
raggruppate nel modo che oggi conosciamo; i titoli sono
spesso tratti dalla frase iniziale del libro al quale si riferisco-
no e non sono fissi, tanto che la stessa opera riceve talvolta
due o tre denominazioni diverse. L’autore appare provenire
direttamente dal Liceo nella fase successiva a Licone
(272/68-228/24, terzo successore di Aristotele), soprattutto
per l’abbondanza nella lista di scritti di dialettica e di reto-
rica, per la ricchezza di raccolte e collezioni scolastiche, per
la concezione platonizzante della dialettica (scienza dell’es-
18 INTRODUZIONE

sere e scienza del pensiero, metafisica unita alla logica), per


la povertà della sezione riservata alla filosofia naturale, per
il posto d’onore riservato ai dialoghi, per il posto minimo
che tengono le opere di filosofia propriamente detta.
Nella biografia di Stratone, Diogene ci trasmette il testa-
mento di questo filosofo, citando come fonte Aristone di
Ceo, successore di Licone. Di Aristone resta poco, ma la
notizia di Diogene mostra la sua attività di storico del Li-
ceo (tanto che si deve a lui anche la trasmissione dei testa-
menti di Aristotele, Teofrasto e Licone). Tutti e quattro i
testamenti facevano parte di un storia del Peripato (utiliz-
zata da Apollodoro nella metà del II secolo a.C. per le indi-
cazioni relative alla cronologia di Epicuro), nella quale fi-
guravano notizie biografiche e liste di scritti. Appare dun-
que che Aristone, scolarca del Liceo nell’ultimo quarto del
III secolo a.C., è colui che ha redatto la lista.

2.4 Il catalogo di Tolomeo


È posteriore ad Andronico (giacché presenta un Corpus Ari-
stotelicum molto simile a quello odierno) ed è stato trasmesso
da due Arabi dell’inizio del XIII secolo: nella sua Cronaca dei
Sapienti, Ibn al Qifti (1172-1248) dà una lista delle opere di
Aristotele (traducendo e traslitterando dal greco); la medesi-
ma lista è riprodotta nella Storia dei Medici di Ibn Abi Usei-
bi’a (morto nel 1236), che si basa su una versione non diretta-
mente greca, ma siriana. I due testimoni arabi citano come
autore del catalogo che riproducono, un certo Tolomeo el Ga-
rib (lo Straniero), che distinguono esplicitamente dall’autore
dell’Almagesto. Questo Tolomeo è menzionato nella Vita
Marciana e nella Vita Latina, come autore che avrebbe ripro-
dotto il testamento di Aristotele e redatto la lista dei suoi
scritti. Dovrebbe trattarsi di Tolomeo Chennos (seconda metà
del I secolo d.C.), laddove Ce@nnov sarebbe stato confuso con
Xe@nov e tradotto, di conseguenza, lo Straniero.3
INTRODUZIONE 19

La maggior parte delle opere che figurano nella prima


parte (1-25: dialoghi e altri scritti perduti) si riscontrano
anche nella lista di Aristone; fra le opere non presenti
nel catalogo di Aristone è da segnalare qui la presenza
del peri# tw^n aèto@mwn grammw^n g ¿ (il De lineis insecabili-
bus). Segue la parte dedicata agli scritti “sintagmatici”,
cioè ai trattati che noi possediamo ancora (25 b-49), fra i
quali è presente un peri# tw^n meta# ta# fusika# ig ¿ (in tredici
libri: probabilmente a non è contato separatamente da
A). La fonte di Tolomeo è con ogni probabilità lo stesso
Andronico, anche se Tolomeo ammette, nell’Organon, il
De Interpretazione che invece Andronico rigetta come
apocrifo.

3. CONCLUSIONI SULLA SORTE DELLE OPERE SCOLASTICHE DI


ARISTOTELE

L’esame del catalogo di Diogene permette a Moraux di af-


fermare che molte delle opere “esoteriche” esistevano (e,
presumibilmente, circolavano) a Atene fra il III ed il II secolo
a.C.; senza dubbio non si trattava dei manoscritti originali di
Aristotele (sempre che questi siano mai esistiti), ma di copie
effettuate sia sugli appunti del Maestro, sia sulle note prese
dai discepoli durante i corsi. Dell’attuale Organon, sono pre-
senti gli Analitici, Priori e Posteriori, i Topici, le Confutazioni
Sofistiche, mentre interpolati in posizione insolita risultano le
Categorie e il De Interpretatione; delle opere pratiche e poeti-
che, risultano presenti una Etica in cinque libri (probabil-
mente l’attuale Etica Eudemia), la Politica, la Retorica e la
Poetica; delle opere fisiche, sono sicuramente riconoscibili la
Historia animalium e, forse, alcuni libri della Fisica.
Il caso più complicato è quello rappresentato dalla Me-
tafisica, probabilmente presente, però, nella lacuna della
quarta colonna. D’altronde, il nome stesso di “metafisica”,
del quale si crede di trovare menzione in Nicola Dama-
20 INTRODUZIONE

sceno, è anteriore ad Andronico. Jaeger (Studien, 177-181)


ha ragione, contro Bonitz e Zeller: il numero dei libri (10)
fedelmente conservato dall’Anonimo indica che Aristone
conosceva uno «stato» della Metafisica anteriore all’ag-
giunta di a, D, K e L (peraltro, il libro D è presente nel pi-
nax al numero 36 sotto il titolo di peri# tw^n posacw^v lego-
me@non Ô kata# pro@sqesin a‰; lo stesso Aristotele lo cita a
più riprese come peri# tou^ posacw^v, precisamente in Metaph.,
E 4, 1028 a 4-6; Z 1, 1028 a 10-11; I 1, 1052 a 15-16). Nel
catalogo di Diogene tale Metafisica era situata fra le ope-
re matematiche e quelle ipomnematiche. L’ordine della
sezione teoretica è, pertanto, il seguente: fisica, matemati-
ca, metafisica. È il medesimo ordine suggerito da Metaph.,
E 1. L’appellativo di Metafisica non trae dunque origine
dalla posizione nella classificazione operata da Androni-
co. Simplicio (In Phys., I, 17-21) afferma che il nome di
metafisica proverrebbe dal fatto che questa scienza si oc-
cupa degli oggetti transfisici, ma l’affermazione appare
viziata da chiaro neoplatonismo. Alessandro (In Metaph.,
171, 5-7) e Asclepio (In Metaph., 1, 12-22) si avvicinano
senz’altro maggiormente alla verità quando cercano di
giustificare l’ordine fisica-metafisica attraverso conside-
razioni didattiche, spiegando che la faiblesse del nostro
spirito ci porta a cominciare dallo studio delle cose imper-
fette e seconde, oggetto della fisica, per passare in seguito
a quello degli enti perfetti e primi, oggetto della filosofia
prima; è dunque in rapporto a noi che questa viene dopo
la fisica e merita il nome di meta# ta# fusika@.

4. LE VICISSITUDINI DELLE OPERE ARISTOTELICHE


V’è da considerare, però, che la biblioteca di Aristotele co-
stituiva una sua proprietà personale; dopo la morte di lui,
Teofrasto ereditò i libri del maestro, e a sua volta nel suo
testamento fece un legato di tutta la sua biblioteca, inclusi i
INTRODUZIONE 21

libri già di Aristotele, a Neleo (figlio di Corisco), il quale,


già settantenne e ultimo superstite della piccola cerchia di
amici personali di Aristotele, vendette oppure donò la par-
te più cospicua del lascito alla biblioteca di Alessandria
(Tolomeo Sotèr aveva cercato di persuadere Teofrasto a
trasferire la sua scuola ad Alessandria; Stratone e Deme-
trio si recarono ad Alessandria, dove Stratone assunse la
responsabilità dell’educazione del giovane Filadelfo, men-
tre Demetrio collaborò all’organizzazione del museo e del-
la biblioteca), lasciò Atene e ritornò alla sua città di origine,
Scepsi, portando probabilmente con sé soltanto gli esem-
plari d’uso personale del suo antico amico: questi mano-
scritti originali rimasero là per circa 200 anni.
Se vogliamo prestare fede alla tradizione antica, dobbia-
mo ammettere che il Peripato non possedeva alcuna vera
biblioteca di scuola; naturalmente Stratone e i suoi succes-
sori Licone e Aristone avevano alcune copie personali di
certe opere di Aristotele e di Teofrasto, ma la biblioteca era
sempre di proprietà dello scolarca.
In base a queste considerazioni è, a parere di Düring,
più verosimile che il catalogo delle opere che si trova in
Diogene sia un semplice inventario delle opere aristoteli-
che reperibili e possedute dalla biblioteca di Alessandria.
Si può pensare che questo inventario sia stato compilato
dopo che la biblioteca di Teofrasto giunse ad Alessandria
(il suo incendio è probabilmente del 270 d.C., con 40.000
rotoli di papiro distrutti dalle fiamme); questo spieghereb-
be perché manchino molti degli scritti didattici a noi noti,
quelli, cioè, che Neleo aveva portato con sé a Scepsi.
Attraverso Eudemo molte opere aristoteliche giunsero
a Rodi. Anche Prassifane, uno scolaro di Teofrasto, era ro-
dio; più tardi a Rodi troviamo Ieronimo, Panezio e Posido-
nio, che nelle loro opere mostrano sicura conoscenza di
Aristotele. Ancora al tempo di Cicerone, Aristotele non
era molto letto (Cicerone, Top. 3: qui ab ipsis philosophis
22 INTRODUZIONE

praeter admodum paucos ignoraretur). Il primo greco che


lo annovera espressamente fra i grandi filosofi è Dionisio
di Alicarnasso (in un passo scritto dopo il 20 a.C.), presso il
quale troviamo anche per la prima volta una citazione ari-
stotelica che rimanda all’edizione romana di Andronico.
All’inizio del primo secolo a.C., Apellicone, nato a Teo,
ma cittadino ateniese, ricco e bibliofilo (tanto da rubare
dall’archivio pubblico gli originali degli antichi deliberati
popolari), comprò dagli eredi di Neleo i manoscritti di Ari-
stotele, facendone fare nuove copie e mettendole a disposi-
zione del circolo peripatetico di Antioco. Espugnata dopo
un lungo assedio Atene nell’86, Silla trasferì a Roma anche
la biblioteca di Apellicone. Lo stesso fece Lucullo, che por-
tò a Roma, insieme a diverse opere provenienti dalle bi-
blioteche dell’Asia Minore, il dotto Tirannione, il quale mi-
se insieme una biblioteca di 30.000 rotoli. Cicerone men-
ziona spesso Tirannione e, per suo tramite, egli conobbe
almeno qualcuna delle opere di scuola di Aristotele
(nell’Hortensius del 45 scrive che magna etiam animi con-
tentio adhibenda est esplicando Aristotele si legas). Il figlio
di Silla morì nel 46, e da quel momento la grande biblioteca
passò in custodia a Tirannione.
Scolaro di Tirannione era Andronico di Rodi, il cui arri-
vo a Roma è posteriore alla morte di Cicerone (il quale
non ne fa alcuna menzione). L’edizione di Andronico deve
essere stata approntata fra il 40 e il 20 a.C. e, in breve, si
diffuse tanto da soppiantare del tutto quelle che erano nei
tempi precedenti le fonti principali per la conoscenza di
Aristotele, cioè i dialoghi, i quali caddero in oblio.
La testimonianza più importante sull’edizione romana
si trova in Porfirio. Quando costui dovette ordinare e pub-
blicare gli scritti del suo maestro Plotino, si trovò di fronte
a un compito simile a quello di Andronico. Il suo materiale
si presentava come una serie di manoscritti di lezioni prive
di titolo; egli dunque prese a modello Andronico, la cui edi-
INTRODUZIONE 23

zione di Aristotele gli era ben nota. Di Andronico ci dice


questo: “egli riunì i testi concernenti lo stesso tema, in mo-
do che formassero un’opera, e divise così in libri (pragma-
teiai) gli scritti di Aristotele e Teofrasto” (Vita Plot., 24,
6-11). L’ordinamento materiale degli scritti del nostro Cor-
pus Aristotelicum risale così ad Andronico, il quale scrisse
anche un’introduzione alla sua edizione,4 in cui discuteva la
disposizione della materia.
A fondamento della sua attività di editore sta una conce-
zione della filosofia aristotelica che fondamentalmente non
è aristotelica, bensì schiettamente ellenistica. Egli si aspet-
tava cioè di ritrovare in Aristotele ciò che era tipico della
filosofia del tempo suo: un sistema filosofico unitario. Per
Aristotele, invece, la parola pragmateia indica un campo del
sapere e un’attività intellettuale, mentre per Strabone e
Andronico indica un libro; Andronico dunque riunì le le-
zioni aristoteliche in pragmateiai: ecco perché la Metafisica
e la Fisica non possono essere considerate delle “opere”.
Con la sua edizione Andronico offrì un’immagine nuova
di Aristotele come filosofo. Fondamentalmente Aristotele
era un pensatore problematico e un creatore di metodi;
aveva certo una forte tendenza sistematica, ma ciò a cui mi-
rava era una sistematica dei problemi: cercava cioè sempre
di inquadrare il problema particolare in un ambito più va-
sto. Anche nell’analisi e nella classificazione delle osserva-
zioni e dei dati di esperienza all’interno di diversi campi
della scienza tendeva sempre a una costruzione di pensiero
logicamente ineccepibile. Nell’esposizione di risultati già
conseguiti non di rado impiega il metodo deduttivo; nelle
parti della sua opera di questo tenore, come nel De caelo, la
sua esposizione suscita forse un’impressione di dogmati-
smo. Ma nella maggior parte dei casi egli conduce una ri-
cerca e considera i pro e i contro in un incessante dialogo
con se stesso. Era fondamentalmente convinto del fatto che
i diversi campi della scienza richiedono diversi metodi, e
24 INTRODUZIONE

che per conseguenza lo scienziato deve sempre ricercare


nuovi principi. Questa varietà delle archai è un’essenziale
caratteristica della filosofia aristotelica, ed è quindi assolu-
tamente impossibile trovare in Aristotele un sistema con-
cluso, se si intende con questo termine una filosofia che
esponga un edificio dottrinale ben connesso e fondato su
un concetto di unità. In realtà, fu Andronico a fondare con
la sua edizione la credenza che Aristotele avesse voluto co-
struire un compiuto sistema filosofico e per l’influenza del-
la magistrale presentazione di Eduard Zeller questa con-
vinzione continuò a prevalere ancora sino agli inizi del XX
secolo.
Inoltre, Andronico assunse da Antioco l’idea, che poi
sviluppò ulteriormente, secondo cui Aristotele negli scritti
di scuola espose teorie diverse da quelle contenute negli
scritti destinati alla pubblicazione; veramente Antioco ave-
va soltanto rilevato la differenza di stile fra le opere di etica
(quando Cicerone parla di eèxwterikoi# lo@goi, conosce sol-
tanto i passi delle opere di etica in cui ricorre questa espres-
sione) e i dialoghi; ora, Andronico identificò gli exoterikoi
logoi con i dialoghi, e ritenne che soltanto gli scritti “acroa-
matici” fossero le fonti della vera filosofia di Aristotele. V’è
in questa impostazione un granello di verità, in quanto nei
dialoghi Aristotele permette che si esprimano le più diverse
vedute, mentre nei corsi parlava sempre soltanto lui. Nelle
scuole neoplatoniche della tarda antichità si interpretava
questo fatto nel senso che Aristotele avesse esposto negli
scritti di scuola una dottrina esoterica, vale a dire una dot-
trina occulta, riservata alla sua propria scuola. Gli studiosi
del nostro tempo che sostengono la tesi che Aristotele nel
Protreptico e nei dialoghi espose un’«altra» filosofia,5 han-
no ridato vita alle opinioni di Antioco e di Andronico, e le
hanno sempre riempite di contenuto nuovo.
L’edizione di Andronico segna l’inizio dell’aristotelismo;
per la prima volta, circa 300 anni dopo la sua morte, le ope-
INTRODUZIONE 25

re di Aristotele erano accessibili in una forma che consenti-


va una visione complessiva della sua filosofia. Nell’inter-
pretazione di questi scritti ci si trovò però subito di fronte a
grosse difficoltà; non v’era stata una continuità come nella
scuola platonica; gli scritti erano redatti in una lingua e in
uno stile al quale, in quel tempo, si era completamente
estranei. Per soddisfare le esigenze del tempo, inoltre, la fi-
losofia di Aristotele doveva essere trasposta in un’esposi-
zione sistematica, perché ci si interessava innanzi tutto al
contenuto dottrinale e non all’impostazione dei problemi e
alla loro discussione come tali. Fu quindi compito naturale
della generazione successiva divulgare Aristotele mediante
parafrasi e spiegarlo per mezzo di commentari.

Note
1. Quella di Diogene Laerzio, risalente al III sec. d.C., è la biogra-
fia di Aristotele più antica che ci è pervenuta. Diogene, però,
«utilizzò una vita di Aristotele scritta verso la fine del III sec.
a.C., o da Aristone di Ceo, che fu scolara nel Peripato in quel
periodo, (...) oppure da Ermippo, che visse nello stesso tempo e
fu bibliotecario di Alessandria. Comunque Diogene Laerzio
utilizzò la cronologia dello Stagirita indicata nelle Cronache di
Apollodoro, da lui espressamente menzionate, uno storico vis-
suto ad Atene nel II sec. a.C.» (Zanatta, Introduzione, cit., p. 4).
2. Il numero 36 è Metaph., D; il 38 può essere una delle Etiche; 49-50 i
primi e gli Analitici Posteriori; 55 un’edizione dei Topici in sette li-
bri; alcuni libri dei Topici sono elencati come opere singole; il 74
può essere Pol. VII-VIII, il 75 la nostra Politica; il 78 Reth. III; 41-
45, 90, 91, 115 possono essere trattati singoli della nostra Fisica; il
102 un’edizione delle Storie degli animali in nove libri; 142-143 le
Categorie e il De Interpretatione.
3. Secondo la maggior parte degli studiosi (in proposito mi permetto
di rinviare a Zanatta, Lineamenti, p. 5), oggigiorno si propende a
individuare tale Tolomeo in un neoplatonico della scuola di Giam-
blico, del IV sec. a.C.
4. Porfirio la cita come Diai@resiv tw^n èAristotelikw^n suggramma@twn,
poiché a lui interessa il principio dell’ordinamento delle opere;
26 INTRODUZIONE

Simplicio parla di uno scritto Peri# A è ristote@louv bibli@wn, Gellio


dice Liber Andronici philosophi. Secondo la Vita Marciana, che ri-
sale a Tolomeo el Garib, il libro di Andronico conteneva i pi@nakev,
cioè il catalogo delle opere, e il testamento. Nessuna fonte antica fa
menzione di una biografia, e il nome di Andronico non è mai citato
in relazione a una notizia biografica.
5. «In ogni caso l’eterodossia di questi scritti è un fatto incontestabi-
le»: così scrive Jaeger, Aristotele, p. 35.
BIBLIOGRAFIA

RACCOLTE DEI FRAMMENTI

Gigon, Fragmenta = Aristotelis opera, vol. III: Librorum


deperditorum fragmenta collegit et adnotationibus in-
struxit O. Gigon, Berolini 1987.
Rose, Commentatio = Rose V., De Aristotelis librorum ordi-
ne et auctoritate commentatio, Berolini 1854.
Rose, Pseudoepigraphus = Rose V., Aristoteles pseudoe-
pigraphus, Lipsiae 1863.
Rose, Librorum fragmenta = Aristotelis qui ferebantur li-
brorum fragmenta, Scholiorum in Aristotelem Supple-
mentum. Index aristotelicum, curavit V. Rose, in Aristo-
telis opera, edidit Akademia Borussica, vol. V, Berolini
1870 (indicato nella raccolta di Ross con la sigla R2).
Rose, Fragmenta = Aristotelis qui ferebantur librorun frag-
menta, collegit V. Rose, Lipsiae 1886 (indicato nella rac-
colta di Ross con la sigla R3).
Ross, Fragmenta selecta = Aristotelis, Fragmenta selecta, re-
cognovit brevique adnotatione critica instruxit W. D.
Ross, Oxford, Clarendon Press 1955; reprinted lithogra-
phically 1958.
Walzer, Dialogorum fragmenta = Aristotelis dialogorum
fragmenta, in usum scholarum selegit R. Walzer, Hilde-
sheim, Georg Olms Verlagbuchandlung 1963 (indicato
nella raccolta del Ross con la sigla W).
28 BIBLIOGRAFIA

STUDI CRITICI

Düring, Aristoteles = Düring I., Aristoteles. Darstellung und


Interpretation seines Denkens, Heidelberg, Winter 1966;
tr. it. di P. L. Donini, Aristotele, Milano, Mursia 1976.
Gohlke, Aristoteles = Gohlke P., Aristoteles und sein Werk,
Paderbon 1948.
Heitz, Verlorenen Schriften = Heitz E., Die verlorenen
Schriften des Aristoteles, Leipzig, Teubner 1865.
Jaeger, Aristotele = Jaeger W., Aristoteles. Grundlegung ei-
ner Geschichte seiner Entwicklung, Berlin 1923; tr. it. di
G. Calogero, Aristotele. Prime linee di una storia della
sua evoluzione spirituale, Firenze, La Nuova Italia 1935.
Moraux, Listes anciennes = Moraux P., Les listes anciennes
des ouvrages d’Aristote, Paris 1951.
Ravaisson, Essai = Ravaisson F., Essai sur la Métaphysique
d’Aristote, 2 voll., Paris, Librarie de Joubert Editeur
1846.
Titze, Liber = Titze, F. N., De Aristotelis operum serie et di-
stinctione liber singularis, Berolini 1926.
Zanatta, Introduzione = Zanatta M., Introduzione alla filo-
sofia di Aristotele, Milano, Rizzoli 2010
Zeller, Griechen = Zeller E., Die Philosophie der Griechen
in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Leipzig, G. R. Rei-
sland, 1892 e ss.

AVVERTENZA

La traduzione è stata condotta sul testo stabilito da Ross


(Fragmenta selecta), che si produce a fronte.
PARTE PRIMA
OPERE LOGICHE
TESTIMONIA
TESTIMONIANZE

Alex. Aphr., In Arist. Top., p. 5, 17-19: della cosiddetta dia-


lettica Aristotele ha trattato anche in altri libri, ma soprat-
tutto in quelli che s’intitolano Topici.
Alex. Aphr., In Arist. Top., p. 27, 11: oppure si può chiamare
esercizio l’argomento confutativo portato contro ciascuna
delle due parti. Una tale specie di argomenti era abituale a
coloro che diedero inizio alla dialettica [...] 14-18: ma quan-
do fu aggiunta una tesi, esercitando in vista di essa quella
parte di sé che è atta a trovare gli argomenti confutativi,
argomentavano confutativamente costruendo e demolen-
do mediante opinioni notevoli ciò che era oggetto della di-
sputa. E vi sono libri siffatti scritti da Aristotele e da Teo-
frasto, indicanti come portare l’argomentazione confutato-
ria alle posizioni contrarie mediante opinioni notevoli.
Elias, In Arist. Cat., p. 133, 91-17: pertanto <quel trattato> è
autentico [...] sulla base del modo di esporre [...] e dell’aver
esso dato conto agli esegeti attici. Ché, essendo stati trovati
nelle antiche biblioteche quaranta libri degli Analitici e due
delle Categorie, essi scelsero quattro soltanto degli Analiti-
ci e uno solo delle Categorie.
Theon., Prog., 2, p. 165: in Aristotele e in Teofrasto è possi-
bile assumere i modelli di come esercitarsi nelle tesi. Infat-
ti, i loro libri scritti in merito alle tesi sono molti.
SUI PROBLEMI

INTRODUZIONE

1. Lo scritto Sui problemi (Peri# problema@twn) è indicato,


in un libro, al n. 51 del catalogo di Diogene Laerzio e al n.
21 del catalogo di Tolomeo, come composto in tre libri.1 Ad
avviso di Moraux (Listes, p. 88) lo scritto, che non ha niente
in comune con i Problh@mata andati persi di Aristotele, né
con la collezione a suo vedere pseudoaristotelica di problh@-
mata, è in ogni caso un’opera in cui si esponevano alcuni
problemi e se ne indicava la soluzione.
Proprio quest’ultima annotazione ci permette di incana-
lare la ricerca lungo una linea per la quale, attenuando il giu-
dizio dell’illustre studioso, ove si mostrasse che i «problemi»
sollevati in questo scritto trovano precisi riferimenti dottri-
nali in Aristotele, così da potersi complessivamente qualifi-
care come aristotelici, e parimenti che le soluzioni proposte
ruotano in quest’orizzonte, allora esso, se non può certamen-
te dirsi aristotelico quanto alla redazione, è tuttavia presu-
mibile che sia opera di un Peripatetico, allievo diretto di Ari-
stotele, del quale raccoglie ed espone importanti questioni,
con le relative soluzioni. È esattamente ciò che un’attenta
lettura pone in chiaro nel frammento raccolto da Ross.

2. La distinzione tra il metodo dialettico e il metodo apodit-


tico o scientifico, cui si fa riferimento nella prima parte del
34 OPERE LOGICHE

frammento, non ha soltanto carattere aristotelico, ma rap-


presenta addirittura uno dei capisaldi della teoria aristote-
lica sui tipi di argomentazione. Ed è appena il caso di ri-
chiamare la nota distinzione per la quale la dimostrazione
(aèpo@deixiv), ossia l’argomentazione propria della scienza,
tanto da essere chiamata altresì sillogismo scientifico, è
quel sillogismo le cui premesse sono proposizioni «vere,
prime, immediate, più note, anteriori e cause della conclu-
sione» (Anal.Post., I, 2, 71 b 21-22); in quanto «vere», esse
costituiscono determinatamente o una o l’altra parte della
contraddizione, mentre le premesse del sillogismo dialetti-
co, essendo concesse dall’interlocutore, possono essere in-
differentemente una delle due parti della contraddizione;
inoltre sono costituite da «opinioni notevoli (eòndoxa)» o da
enunciati che immediatamente discendono da un’opinione
notevole.

2.1 La stessa questione a proposito della quale ci si doman-


da se vada trattata con metodo dialettico o con metodo
scientifico, avvertendo che questo secondo sembra quello
adatto, benché non costituisca una di quelle che sono spe-
cificamente trattate nei Problemi, è però nell’ordine di
quelle che si affrontano in questo scritto, per cui si può ben
dire che il suo carattere è aristotelico o, comunque, che il
contesto dottrinale e culturale in cui si colloca è quello del-
le ricerche scientifiche che si svolgevano nel Peripato ari-
stotelico.

3. Nel frammento si accenna poi al fatto che il metodo dia-


lettico si usa anche nelle trattazioni di fisica e di etica.
Nell’odierno panorama degli studi aristotelici, caratterizza-
to dalla rivalutazione della dialettica (in proposito si veda,
tra gli altri, Berti, La dialettica), forse nessun rilievo più di
questo può considerarsi del tutto pertinente e congruo con
la dottrina aristotelica.
SUI PROBLEMI 35

3.1 Che la dialettica intervenga, in generale, anche nelle


questioni scientifiche è ciò che lo Stagirita espressamente
afferma attribuendole, oltre a un uso privato, per il quale
essa costituisce un formidabile esercizio (gumnas…a), e a un
uso pubblico, per il quale essa rende abili nel discutere «ne-
gli incontri (™nteÚxeij)», ossia nei dibattiti politici e nei di-
battimenti giudiziari, anche un uso per il quale è utile «in
rapporto alle scienze filosofiche (pro#v ta#v kata# filosofi@an
eèpisth@mav)», ponendosi come strumento insostituibile, per
un verso, là dove ci si trovi in presenza di due asserzioni
opposte di ugual forza probante, di modo che si determina
una situazione di arresto della ricerca. Qui interviene la
dialettica, mettendo in atto quel procedimento diaporema-
tico (diaporh^sai, letteralmente «sviluppare le difficoltà»)
consistente nel dedurre le conseguenze di entrambe le pro-
posizioni, onde accertare se ve ne siano alcune che config-
gono con se stesse o con la proposizione da cui sono deri-
vate. Tale proposizione viene considerata allora falsa e, di
conseguenza, l’altra proposizione vera, trovando così la ri-
cerca uno sblocco e una via d’uscita dalla situazione di stal-
lo in cui era incappata. In effetti, l’esito di tale procedimen-
to è la capacità di «vedere più facilmente il vero e il falso»
(Top., I, 2, 101 b 35-36), testimoniandosi in questa conside-
razione la capacità anche conoscitiva della dialettica, dal
momento che la verità è dimensione del conoscere. Ma si
tratta di una conoscenza che è, per così dire, frutto di un
accertamento, non di un’inferenza dimostrativa. Per altro
verso, l’utilità della dialettica «in rapporto alle scienze filo-
sofiche» si attesta a proposito dell’asseverazione dei princi-
pi di ogni scienza, i quali, essendo proposizioni prime, non
possono essere dimostrati, ossia dedotti da altre proposi-
zioni più originarie, ma la loro verità può essere comprova-
ta soltanto sottoponendo a esame le opinioni espresse in
proposito, a partire dagli œndoxa, e primariamente mediante
la confutazione delle opinioni che li negano.
36 OPERE LOGICHE

3.2 Che, in particolare, la dialettica svolga una funzione in-


sostituibile ed essenziale nelle trattazioni di fisica e di etica
è ciò che traspare alla lettura dei relativi scritti aristotelici.
Già Wieland (Fisica) aveva ricostruito i contenuti dottrina-
li della Fisica facendo vedere come Aristotele proceda per
lo più a determinarli in rapporto oppositivo a Platone, av-
valorando così, di fatto e di diritto, l’uso della dialettica
nell’ambito di questa disciplina. Berti, poi, ha messo in
chiaro come sulle procedure proprie del metodo dialettico
si costruiscano le argomentazioni della Fisica (Berti, Ra-
gioni, pp. 86 ss.). Per parte mia, proseguendo il discorso, in
più occasioni ho cercato di mostrare come la dialettica in-
tervenga nell’esame delle principali questioni oggetto della
fisica (cfr. Zanatta, Statuto epistemologico; Zanatta, Fisica,
Introduzione, pp. 34 ss.; Zanatta, Natura).

3.3 Ma anche la sua importanza nell’ambito dell’etica è


espressamente attestata da Aristotele. In un rilievo di ca-
rattere metodologico di Eth. nic., VII, 1 (1145 b 2 ss.), prima
di iniziare l’esame dell’intemperanza e dell’incontinenza
egli afferma che, come nel caso delle altre argomentazioni
di carattere etico, anche in quella presente si sarà raggiunta
una sufficiente dimostrazione (dedeigmšnon ¨n e‡h ƒkan~wv)
se, dopo aver esposto i fainÒmena, ossia i punti di vista, si
sviluppano i problemi, ossia si esaminano diaporeticamen-
te gli argomenti pro e contro (diaporÁsai) e, rifiutando gli
aspetti insostenibili, si mostra la verità di tutte le opinioni
notevoli (œndoxa) espresse in merito (deiknÚnai p£nta t¦
œndoxa perˆ taàta t¦ p£qh), e se non proprio di tutte, della
maggior parte e delle più importanti. Come chiaramente si
può dunque osservare, non si tratta di null’altro se non del-
la prima possibilità dell’uso scientifico o filosofico della
dialettica. Uso che, essendo atto a fornire una «sufficiente
dimostrazione», si conferma provvisto di capacità anche
conoscitiva, in quella che è la sua stessa attitudine «peira-
SUI PROBLEMI 37

stica» o saggiativa, e manifesta di essere il metodo proprio


anche delle scienze pratiche.

4. Mette conto, infine, richiamare i puntuali riferimenti alla


dottrina degli Analitici che compaiono alla fine del fram-
mento. Quello ai quattro problemi della ricerca è addirittu-
ra testualmente specifico (cfr. la nota n. 3). Quello alla non
pertinenza della ricerca del «perché è» e del «che cos’è»
alla dialettica richiama espressamente la ricerca delle cau-
se e dell’essenza, che non è compito della dialettica, bensì
dell’eèpisth@mh indagare.
FRAGMENTA
FRAMMENTI

1 (R2 199, R3 112)

Alex. Aphr., In Arist. Top., p. 62, 30: si può porre la que-


stione sotto quale genere di problemi saranno ricondotti
i problemi del tipo seguente: perché la pietra chiamata
magnete attira il ferro e qual è la natura delle acque di-
vinatorie. Sembra, infatti, che queste <questioni> non si
riconducano sotto nessuna di quelle date. Oppure, questi
problemi non sono neppure dialettici, ma il discorso ver-
te su di essi e le divisioni hanno essi a oggetto2 [...] p. 63,
11-19: ma esistono i problemi fisici proposti in questo
modo, come s’è detto nello scritto Sui problemi. E infatti
quegli enti, che sono fisici, dei quali si ignorano le cause,
costituiscono dei problemi fisici. Tuttavia anche in meri-
to ad argomenti fisici si originano problemi dialettici,
come pure, dunque, in merito ad argomenti etici e ad ar-
gomenti logici, ma gli uni sono dialettici perché disposti
in questo modo, gli altri sono fisici perché disposti in
quest’altro. E tutti i problemi dialettici si possono ricon-
durre alla ricerca del «che è» e del «se è», i quali sono
due dei quattro <problemi> di cui <Aristotele> ha par-
lato all’inizio del secondo libro degli Analitici secondi.3
Infatti, «perché è» e «che cos’è» non sono problemi dia-
lettici.4
40 OPERE LOGICHE

Note
1
È da far presente che nella prima parte di questo catalogo così
com’è attualmente (1-25) compaiono dialoghi e altri scritti perduti.
Una interessante ricostruzione del catalogo è stata effettuata da
Baumstark (Syrien), per il quale l’ordine originario del catalogo corri-
sponde esattamente a quello delle divisioni conosciute dai commenta-
tori greci. Littig (Andronikos), dal canto suo, ha ritenuto che gli scritti
non dialogici presenti nella prima parte erano originariamente elenca-
ti in ordine alfabetico. Si trattava sempre di scritti ipomnematici di
dubbia autenticità, ai quali sarebbero stati aggiunti alcuni dialoghi in
seguito a un’interpolazione. Un correttore, ritenendo che alcune ope-
re del catalogo che Tolomeo aveva contestato (gli aèntilego@mena) in
realtà fossero opere autentiche, le avrebbe collocate in blocco dove si
trovano attualmente. Moraux (Listes, p. 300) ha contestato questa ri-
scostruzione, opponendo che soltanto il Peri# problema@twn g èe il
Mhcanikw^n problema@twn b èpossono essere classificati con certezza tra
le opere ipomnematiche. Sulla qualificazione di «ipomnematiche» da-
ta dagli antichi commentatori ad alcuni scritti di Aristotele e su quali
opere dello Stagirita furono così indicate si veda la nota n. 1 degli Ap-
punti.
2
Ossia, non sono materia di discussione (tale mi pare il significa-
to di «dialettici»), bensì di argomentazione e di classificazione (tale
mi sembra il senso, rispettivamente, di «discorsi», lo@goi, e di «divi-
sioni»). Altrimenti detto: i problemi quali quelli qui presi in consi-
derazione sono oggetto di analisi scientifica, scandita in argomenta-
zioni e in classificazioni, e non di discussioni intese a dibattere se
essi debbano o no essere indagati scientificamente e, in caso affer-
mativo, a quale scienza spetti la relativa indagine.
3
Cfr. An. po., II, 1, 89 b 23-24: «gli argomenti che sono oggetto di
ricerca, sono uguali di numero a quanti conosciamo. Cerchiamo quat-
tro cose: il “che”, il “perché”, “se è”, “che cos è”».
4
Giacché concernono, rispettivamente, la causa e l’essenza, e il ri-
cercare le cause e il definire l’essenza non appartengono alla dialetti-
ca, bensì all’eèpisth@mh.
DIVISIONI

INTRODUZIONE

Le Divisioni (Diaire@seiv, Divisiones) sono state tramanda-


te in quattro testi, uno dei quali è costituito dalla parte fi-
nale della Vita di Platone di Diogene Laerzio (III, 80-109),
mentre gli altri tre sono, rispettivamente, il codice Marcia-
no greco 257, edito da Mutschmann nel 1906 assieme alle
divisioni di Diogene Laerzio (cfr. Mutschmann, Divisio-
nes), il codice Parigino 39, scoperto da Boudreaux nel 1909
(cfr. Boudreaux, Un nouveau manuscrit) e il codice di Lei-
da Q 11, portato alla luce come fonte dello scritto da Mo-
raux nel 1977 (cfr. Moraux, Témoins). Di questi testi, quello
più completo e, per più aspetti, più esaustivo è senza dub-
bio quello del codice Marciano, il quale ai ff. 251-254 ripor-
ta un corpo di 69 divisioni con titolo di Divisioni di Aristo-
tele (Diaire@seiv ˆAristote@louv), mentre il codice parigino ai
ff. 168-172 reca 39 divisioni, raccolte sotto il medesimo tito-
lo di Divisioni di Aristotele (Diaire@seiv ˆAristote@louv) e il
codice di Leida ai ff. 92-96 ne presenta 61 col titolo di Sulle
divisione (Peri# diaire@sewv).
Le divisioni tramandate da Diogene Laerzio sono in nu-
mero di 32, e a motivo della loro collocazione non portano
alcun titolo. Va tuttavia segnalato che il dossografo nel suo
catalogo delle opere di Aristotele indica in tre luoghi scritti
riguardanti le divisioni, con titoli diversi e in un numero
42 OPERE LOGICHE

diverso di libri. Così in V, 23, 6 e in V, 24, 25 riporta uno


scritto intitolato Atto a dividere, in un libro (Diairetiko@n a @)
e in V, 23, 4 riferisce di un’opera intitolata Divisioni, in 17
libri (Diaire@seiv iz @). Ascrive altresì allo Stagirita un tratta-
to sulle Divisioni sofistiche in quattro libro (V, 22, 21: Diare@
seiv sofistikai@ a )@ e un altro sulle Divisioni degli entimeni
in un libro (V, 24, 19: ˆEnqumhma@twn diaire@seiv @a ¿).
Inoltre, a uno scritto di Aristotele sulle divisioni fa im-
plicitamente riferimento Alessandro di Afrodisia nel com-
mento ai Topici parlando di «divisione dei beni» (eèn ga#r th^j
aègaqw^n diaire@sei), e delle Divisioni di Aristotele dà testi-
monianza Simplicio nel commento alle Categorie. Il primo
dei due passi, già presente come fr. 113 in Rose, Fragmenta,
è riportato da Ross come fr. 1; il secondo è racconto da
Ross come fr. 4.
La storia delle interpretazioni dello scritto in oggetto è
un significativo esempio di giudizi che, nelle loro differenze,
talvolta così radicali da segnare posizioni antitetiche, e in
molti casi nel loro intersecarsi finiscono per ricoprire sup-
pergiù l’intera gamma dei pareri che in proposito è possibile
esprimere. In effetti, si assiste a una pluralità di esegesi che,
muovendosi tra i poli della asserita e della denegata paterni-
tà aristotelica dello scritto, modulano l’una e l’altra posizio-
ne con variazioni tali da conferire a tesi esegetiche in ultima
analisi allineabili in qualche modo a un medesimo filone,
sfaccettature notevolmente diverse, e questo già a partire
dal valore dei quattro testi cui è affidata la trasmissione del-
le Divisioni, considerati in rapporto alla completezza e alla
precisione del contenuto dottrinale che attestano. Dico già a
partire da quest’aspetto perché, se la maggior parte degli
studiosi non ha esitato ad attribuire al testo del codice Mar-
ciano una supremazia rispetto agli altri, tanto da presentarlo
in sinottico, sulla scorta di Mutschmann, con quello di Dio-
gene Laerzio nella redazione dello scritto, proprio questa
scelta, che, riproposta anche nella recente edizione italiana
DIVISIONI 43

delle Divisioni curata da Cristina Rossitto (Rossitto, Divi-


sioni), era stata adottata da Gigon nel comporre il rifaci-
mento del terzo volume della monumentale edizione del
Bekker delle opere aristoteliche (Gigon, Fragmenta), ha co-
stituito specifico oggetto di critica mossa da Dorandi a que-
sta nuova edizione. Lo studioso ha infatti rimproverato a
Gigon di aver tenuto conto, per ciò che attiene alle Divisio-
ni, del solo codice Marciano e non aver presentato, oltre alla
versione di Diogene Laerzio, anche il testo anche degli altri
due codici (Dorandi, Ricerche; cfr. anche Dorandi, La tradi-
tion manuscrite), finendo così per assegnare loro, di fatto,
un’importanza non inferiore al primo. E con ciò è chiaro che
la questione delle interpretazioni delle Divisioni s’intreccia
con quella dei criteri che hanno presieduto all’elaborazione
delle edizioni di questo scritto. Sul piano esegetico, poi, essa
s’intreccia, com’è ovvio, con la questione generale del signi-
ficato dottrinale degli scritti giovanili di Aristotele, in ordine
alla quale resta da decidere il peso e il significato delle Divi-
sioni, ove se ne ammetta l’attribuzione allo Stagirita.
In questa sede sembra eccessivo provare a ripercorrere
con minuzia analitica le interpretazioni dello scritto e il di-
battito che, direttamente o indirettamente, esse hanno dato
luogo tra gli studiosi. Sarà sufficiente, invece, presentare in
modo schematico ed essenzializzato il quadro di quelle più
notevoli, di quelle cioè che sono entrate nella storia della
ricezione di questo scritto e hanno costituito le pietre mi-
liari per la ricostruzione, tramite esso, del pensiero di Ari-
stotele. Nei termini seguenti:
1) La non attribuzione ad Aristotele delle Divisioni se-
gna una posizione attestatasi prevalentemente nell’Otto-
cento, soprattutto per opera di due grandi filologi, ossia di
Immanuel Bekker, che non comprese nell’edizione critica
del Corpus Aristotelicum da lui redatta nessuno dei quattro
testi secondo cui sono state tramandate, e Valentin Rose il
quale, con un’operazione opposta, ma identica nel significa-
44 OPERE LOGICHE

to esegetico, le inserì invece, secondo il testo del codice


Marciano, nell’Aristoteles pseudoepigraphus (1863), ossia in
quella raccolta di frammenti di opere spurie che la tradizio-
ne attribuisce allo Stagirita, ma erroneamente giacché esse,
ad avviso dello studioso, furono per lo più composte da Pe-
ripatetici posteriori. In seguito, tuttavia, Rose mutò parere
e nelle due successive raccolte dei frammenti di scritti ari-
stotelici da lui redatte (Rose, Librorum fragmenta; Rose,
Fragmenta) accolse anche le Divisioni, delle quali riportò
sia alcuni brani nelle versioni di Diogene Laerzio e del co-
dice Marciano, e cioè veri e propri frammenti, sia testimo-
nianze di commentatori come Alessandro di Afrodisia e
Simplicio che vi fanno riferimento. A favore del carattere
non aristotelico dell’opera sembra essersi schierato anche
Mansfeld (Physikai doxai), giacché, se è vero che sostiene
la derivazione dai Topici della div. 42 del codice Marciano,
la quale, assente sia da Diogene Laerzio che dal codice Pa-
rigino, si svolge intorno a «i problemi filosofici», giudica pe-
rò in generale le Divisioni «un piccolo manuale scolastico
databile a prima di Diogene Laerzio, che cita grossi brani
nella sezione delle Vite dedicata a Platone» (Ivi, p. 327).
Questa posizione è stata di recente condivisa da Dorandi,
che nel suo saggio (Dorandi, Ricerche), dedicato a Man-
sfeld, dichiara di approvare la posizione di fondo di questo
studioso. Egli, per parte sua, individua nelle Divisioni, che si
attribuiscono, sì, ad Aristotele, ma nelle quali è impossibile
riconoscere spunti di opere aristoteliche, la fonte di due dif-
ferenti tradizioni: una cui si rifà la versione di Diogene La-
erzio e una seconda, indipendente dalla prima, dalla quale
deriverebbero da un lato, attraverso un comune capostipite,
le versioni dei codici Marciano e Parigino e da un altro, per
una diversa via, il testo del codice di Leida.
2) Altri studiosi sono, invece, decisamente a favore della
paternità aristotelica dello scritto, come, per citare soltanto
coloro che hanno espresso una tale posizione in modo mag-
DIVISIONI 45

giormente marcato, Bernays (Dialoge), Suchow,1 Jaeger


(Aristoteles) e Fortenbaugh (Emotion). Quest’ultimo, in
particolare, ha rimarcato l’uso costante che lo Stagirita nei
suoi scritti fa del verbo «dividere» (diairei^n) e ha mostrato
come nella maggior parte dei passi in cui Aristotele rinvia
agli eèxoterikoi# lo@goi possa riscontrarsi la presenza di alcune
divisioni; cosa che, ad avviso dello studioso, comproverebbe
che il rinvio è alle Divisioni.
3) Altri ancora hanno ritenuto aristotelico lo scritto per
i suoi contenuti dottrinali anche se non per la composizio-
ne in senso materiale. Cosi, per esempio, Gigon (Fragmen-
ta), per il quale sia il testo delle Divisioni riportato da Dio-
gene Laerzio (da lui indicato come fr. 82) che quello ripor-
tato dal codice Marciano (indicato come fr. 83), raccolti
nella sezione concernente i To@poi protreptikoi@, sono estrat-
ti di dialoghi perduti di Aristotele di carattere etico. Così,
per altro verso e sotto un differente profilo, Moraux (Té-
moins), lo scopritore, come s’è detto, del codice di Leida e
fautore di una tesi esegetica secondo cui le Divisioni che ci
sono pervenute, pur presentando un contenuto dottrinale
di carattere aristotelico, non sono quelle menzionate nei
cataloghi delle opere dello Stagirita.2 Così, recentemente,
Rossitto (Divisioni), che pur si è mossa lungo una differen-
te prospettiva esegetica. Questa studiosa, in particolare, at-
traverso un minuzioso commento della versione conserva-
ta nel codice Marciano e da Diogene Laerzio, e raccoglien-
do i frutti di una serrata discussione della basilare biblio-
grafia critica relativa non soltanto allo scritto specificamen-
te in questione, ma, in generale, agli scritti giovanili di Ari-
stotele (cfr. Divisioni, Introduzione, pp. 29 ss.), ha ribadito
nella seconda edizione delle Divisioni quanto aveva già so-
stenuto – e in modo assai convincente – nella prima, e cioè
che l’opera, benché «nel testo letterale a noi pervenuto»
non sia dovuta alla mano di Aristotele, deriva «tuttavia da
uno scritto dello Stagirita composto precisamente nel pe-
46 OPERE LOGICHE

riodo da lui trascorso nell’Accademia di Platone» (Rossit-


to, Divisioni, p. 38). In modo più determinato, ad avviso di
Rossitto le Divisioni deriverebbero «da appunti di corsi di
Platone presi da Aristotele durante il suo soggiorno
nell’Accademia» (Ivi, p. 44).3
4) Da queste stesse parole è chiaro che, tra coloro che,
sia pur a vario titolo, ammettono la paternità aristotelica
delle Divisioni e una volta riconosciuta, sia pur in modalità
differenti, una tale attribuzione, si apre il problema del ca-
rattere aristotelico o platonico dei contenuti in esse espres-
si. La presenza del momento platonico sembra impossibile
a disconoscersi, se non altro perché lo scritto, come la stra-
grande maggioranza degli studiosi oggigiorno riconosce, si
ambienta nel contesto dell’Accademia e, ove attribuito allo
Stagirita, al periodo della sua permanenza nella scuola di
Platone, cosicché è impossibile che non risenta delle dottri-
ne in essa professate dal grande filosofo. Del resto, quello
del dividere per generi era, notoriamente, il metodo indica-
to da Platone stesso nel Sofista come proprio del filosofo,
metodo che qualifica la dialettica cosiddetta discendente e
che nel Flebo, caratterizzato com’è dal sapere dividere le
Idee secondo i loro effettivi confini, in modo da non tran-
ciarle, ma da separarle mercé una competenza pari a quella
espressa dal medico nel separare le membra sulla base di
una precisa conoscenza della loro anatomia, viene così con-
trapposto, con un’immagine fortemente icastica, all’opera-
zione del macellaio che, invece, dilania le carni. Le divisioni
che Platone e gli Accademici operavano e alle quali gran
parte degli stessi contenuti filosofici era affidata, come si
deduce dall’identificazione platonica del filosofo col dialet-
tico, ossia con colui che pratica questo metodo per la solu-
zione dei problemi, erano certamente ben conosciute da
Aristotele, tanto che, come ho cercato di mostrare, la sua
dottrina delle categorie trae origine dal perfezionamento
di esso e le critiche che lo Stagirita vi muove sono diretta-
DIVISIONI 47

mente intese non già a rifiutarlo, ma a migliorarlo, così da


renderlo pienamente adeguato alle notevoli possibilità
dottrinali che gli sono insite (Zanatta, Categorie, Introdu-
zione, pp. 57 ss.).
a) Ecco dunque che, per un verso, si è ritenuto che le
Divisioni presentate da Diogene Laerzio e dal codice Mar-
ciano corrispondano a una raccolta di divisioni di carattere
platonico, mentre quelle elencate nei cataloghi delle opere
di Aristotele e quelle indicate in alcune testimonianze di
Alessandro d’Afrodisia si riferiscano a una seconda raccol-
ta di divisioni. È l’opinione di Heitz (Divisiones), che pure
incluse le redazioni laerziana e marciana delle Divisioni, le
uniche allora conosciute, nell’edizione degli scritti di Ari-
stotele pubblicata da Firmin Didot.
b) Per altro verso, nelle Divisioni contenute nelle due
redazioni sopraddette si scorse o un’esposizione in cui dot-
trine platoniche si mescolano assieme a dottrine aristoteli-
che (Susemhil), o la rielaborazione di un’opera composta
da qualche membro dell’Accademia (Zeller), o un manua-
le di regole in uso nella scuola di Platone (Christ).4 Come
di un compendio di regole logiche formulate da Platone e
dagli Accademici ne parla Hambruch (Logischen Regeln),
con riferimento precipuo alle div. 37 e 64-69 del codice
Marciano. Lo stesso Mutschmann (Divisiones), cui si deve
la pubblicazione di questo codice in un’edizione delle Divi-
sioni che lo pone come testo base, affiancato sinotticamen-
te a quello di Diogene Laerzio, non mancò di riconoscere il
carattere e la derivazione platonici di alcune divisioni. Non
molto diversamente, Wilpert (Aristotelische Frühschriften)
ha sostenuto che le Divisioni riproducono uno scritto nel
quale un membro dell’Accademia riassume le dottrine non
scritte di Platone. Sostanzialmente platonici, in effetti, ne
sarebbero i contenuti, tra i quali lo studioso segnala per im-
portanza la distinzione degli enti in per sé (kaqˆ auéta@) e
relativi (pro@v ti) e dei quali sottolinea la corrispondenza
48 OPERE LOGICHE

con altrettanti contenuti di Metaph., V e, presumibilmente,


con lo scritto aristotelico Sui contrari (Peri# eènanti@wn), an-
dato perduto.
c) Gli studiosi appartenenti alla cosiddetta Scuola di Tu-
binga, in linea con le loro posizioni di fondo circa l’insegna-
mento orale di Platone, accolgono in via generale la tesi
della paternità aristotelica delle Divisioni, individuando in
questo scritto una delle fonti da cui si conoscono le dottri-
ne non scritte di Platone. In questa prospettiva, Gaiser ha
riportato nei Testimonia platonica le div. 27 e 32 di Diogene
Laerzio e le div. 23, 67 e 68 del codice Marciano come test.
n. 43 e 44,5 e Krämer non soltanto ha fatto altrettanto
nell’appendice al volume Platone e i fondamenti della me-
tafisica (Krämer, Fondamenti, App. III, pp. 23-31), ma ha
addirittura sostenuto che le div 67 e 68 del codice Marciano
e la div. 32 di Diogene Laerzio costituiscono redazioni ese-
guite da Aristotele delle lezioni orali del maestro (Krämer,
Arete, pp. 290-296).
5) Quanto a Ross, la cui edizione delle Divisioni viene
riproposta in questo volume, è pienamente condivisibile il
giudizio espresso da Rossitto (Divisioni, pp. 34-35), cosic-
ché anch’egli le considera opera di Aristotele. Lo studioso,
come si può constatare, ha riportato come fr. 2 la versione
di Diogene Laerzio inclusa come fr. 114 in Rose, Fragmenta
e come fr. 3 la versione del codice Marciano inclusa come
fr. 3 in Rose, Librorum fragmenta. Con estrema finezza,
egli non ha riportato integralmente i testi delle raccolte del
Rose, ossia i testi di Diogene Laerzio e del codice Marcia-
no sulle quali il filologo ottocentesco aveva fondato le due
edizioni. Per cui nel commento ho ritenuto opportuno pre-
sentare in nota, in una traduzione integralmente da me ese-
guita, le divisioni sia di Diogene Laerzio che del suddetto
codice (in sinottico, quando la concordanza sussiste), cui
nel testo Ross fa riferimento e quelle di argomento affine.
L’ho ritenuto indispensabile per offrire al lettore l’oppor-
DIVISIONI 49

tunità di avere tutto il materiale a disposizione, evitando


scomodi rinvii. Ma ciò che in questo momento più interessa
è che proprio la circostanza per cui Ross nella sua edizione
ha fatto espresso riferimento ai frammenti delle due ultime
raccolte del Rose, che, come abbiamo detto, mutando pare-
re rispetto all’Aristoteles pseudoepigraphus, aveva alla fine
riconosciuto la paternità aristotelica delle Divisioni, lascia
ragionevolmente intendere che identico sia stato in propo-
sito il parere anche di Ross.6
FRAGMENTA
FRAMMENTI

1 (R2 110, R3 113)

Alex. Aphr., In Arist. Top., p. 242, 1-9: inoltre, ciò che per
sé è alquanto bello e alquanto degno d’onore e alquanto
lodevole. Come <strumento> più comune, ora fa uso dei
nomi, sia per ciò che è alquanto bello, sia per ciò che al-
quanto degno d’onore, sia per ciò che è alquanto lodevole.
Infatti, nella divisione dei beni afferma che, tra i beni, so-
no degni d’onore quelli più originari, come Dio, i genitori,
la felicità; sono invece belli e lodevoli le virtù e le attività
conformi a esse, e le facoltà delle quali è possibile fare un
uso buono e cattivo; sono poi utili quelli che sono atti a
produrre queste stesse cose e a queste sono finalizzati. E
ora sembra portare il bello, il lodevole e ciò che è degno
d’onore anche nei beni come facoltà.7

2 (R2 111, R3 114)

Diog. Laert., III, 80 (45): <Platone>, dice Aristotele, distin-


gueva anche le cose secondo il medesimo criterio. Dei be-
ni, alcuni sono nell’anima, altri nel corpo, altri esterni; per
esempio, la giustizia, la saggezza, il coraggio, la moderazio-
ne e i <beni> di questo genere sono nell’anima; la bellezza,
la buona condizione, la salute e la forza sono nel corpo; gli
amici, la felicità della patria e la ricchezza si annoverano
tra gli esterni8 [...] 108 (74): degli enti, alcuni sono per sé,
altri si dicono in relazione a qualcosa9 [...] 109 (74): in que-
52 OPERE LOGICHE
DIVISIONI 53

sto modo, ad avviso di Aristotele, egli divideva anche le


cose prime.10

3 (R2 112, R3 115)

Cod. Marc., 257, f. 250: Divisioni di Aristotele. Divide l’ani-


ma in tre parti.11

Simpl., In Arist. Cat., p. 65, 5: nelle Divisioni [...] 7-8: dopo


aver aggiunto le categorie, introduce «intendo dire queste
assieme alle loro flessioni».
54 OPERE LOGICHE

Note
1
Traggo notizie su questo studioso da Hambruch, Logischen Rege-
ln, p. 4, nonché da Rossitto, Divisioni, p. 30.
2
Alle esegesi di Gigon e di Moraux si riporta Vallejo Campos, il
quale nella sua edizione delle Divisioni si limita a riferire l’opinione di
entrambi gli studiosi, senza peraltro esprimersi in proprio (cfr. Vallejo
Campos, Fragmenta, pp. 339-341).
3
All’esegesi di Rossitto sembra aderire Berti nel suo recentissimo
studio aristotelico, ove riconosce che essa è costruita sulla base di
«buoni argomenti» (Berti, Sumphilosophein, p. 141)
4
Traggo anche queste informazioni da Hambruch, Logischen Re-
geln, p. 4, nonché da Rossitto, Divisioni, p. 30.
5
In proposito si veda anche Gaiser, Principi e Findlay, Plato.
6
«Il fatto [...] che l’illustre editore non abbia riprodotto per esteso
il testo – ha opportunamente scritto Rossitto (Divisioni, p. 35) –, ma si
sia limitato a segnalarne il luogo (come avviene anche per la sua tradu-
zione inglese), non significa che egli intendesse ridurne l’estensione,
perché così facendo egli riprodusse quasi alla lettera le indicazioni
dell’ultima raccolta di Rose, le quali rinviavano al testo completo del
codice Marciano pubblicato nell’Aristoteles pseudoepigraphus»
7
Sul bene e sulle relative divisioni si veda anche la nota seguente.
8
Queste le corrispondenti divisioni:
(*)
Divisione n. 5 Cod. Marc. (pp. 1, 5-2, 9 Mutschmann; pp. 84-85
Rossitto): «I beni si dividono in tre: infatti, alcuni di essi sono nell’ani-
ma, altri nel corpo, altri esterni. Quelli nell’anima sono la saggezza, la
giustizia, il coraggio, la moderazione e gli altri siffatti; quelli nel cor-
po sono la forza, la bellezza, la salute, la buona condizione e gli altri
siffatti; quelli esterni sono gli amici, la ricchezza, la buona reputazio-
ne, la felicità della patria. Pertanto, dei beni alcuni sono nell’anima,
altri nel corpo, altri esterni».
(*)
Divisione n. 36 Cod. Marc. (pp. 30, 13 – 31, 14 Mutschmann;
pp. 156-157 Rossitto), parallela alla divisione n. 23 di Diogene La-
erzio (III, 101-102; pp. 156-157 Rossitto):
DIVISIONI 55

n. 36 Codice Marciano n. 23 Diogene Laerzio


Il bene si divide in quattro. Infatti, Il bene si divide in quattro generi.
una <specie> di esso sono la virtù e E, di essi, diciamo che colui che
la giustizia, una ciò che possiede la possiede la virtù è un bene in senso
virtù, una l’utile, una ciò che produce proprio. Altro <genere>: diciamo
il diletto e il provare piacere. E cioè, che la virtù in se stessa e la giustizia
è virtù e giustizia perché ciascuna di in se stessa sono un bene. Un terzo
queste due cose è detta essere un be- <genere> sono, per esempio, i pasti,
ne, una poi è ciò che possiede la vir- gli esercizi ginnici convenienti e i
tù: per esempio, un cavallo, un uomo farmaci. E diciamo che vi è un quar-
e le cose siffatte. Infatti, anche cia- to bene: per esempio, l’auletica,
scuna di queste è detta essere un be- l’arte dell’attore e le cose siffatte.
ne se possieda la virtù. Ciò che è uti- Pertanto, del bene vi sono quattro
le sono, per esempio, l’esercizio gin- specie: una, il possedere la virtù,
nico, la medicina e tutte le altre cose un’altra la stessa virtù, come terza i
che hanno attinenza con la salute e cibi e gli esercizi ginnici che procu-
la buona condizione. Infatti, anche rano giovamento, come quarta di-
ciascuna di queste è detta essere un ciamo che sono un bene l’auletica,
bene per colui al quale sia utile. Il l’arte dell’attore e la poetica.
diletto e il provare piacere sono, per
esempio, un attore e un sonatore di
aulo: non per il fatto di essere utili
sono detti essere un bene, ma per il
fatto di procurare diletto.

(*)
Divisione n. 47 Cod. Marc. (pp. 57, 22 – 58, 12 Mutschmann;
pp. 180-181 Rossitto): «I beni propri e i beni in comune si dividono
in cinque. Di essi, infatti, alcuni sono propri di Dio, altri sono propri
dell’uomo, altri poi sono comuni a Dio e agli uomini, altri sono co-
muni agli uomini e agli altri viventi tranne Dio, altri sono comuni a
tutti i viventi. Ora, sono propri di Dio l’essere eterno e le cose sif-
fatte, sono propri dell’uomo l’essere moderato e giusto e le cose
siffatte, sono comuni a Dio e agli uomini l’essere dabbene, giacché
essere dabbene appartiene sia a Dio che all’uomo. <Bene> proprio
dell’uomo è la fortezza, la quale è atta ad allontanare qualche male,
invece sta bene dire che a Dio né succede né appartiene un male; e
<sono un bene proprio> le altre cose siffatte. È <un bene> comune
agli uomini e agli altri viventi tranne Dio il coraggio, giacché esso è
atto a resistere a qualche pericolo e paura. E lo sono tutte le cose
siffatte. <Bene> comune a tutte le cose, poi, è il bello».
(*)
Divisione n. 56 Cod. Marc. (pp. 60, 8 – 61, 14 Mutschmann;
pp. 198-201 Rossitto): «Somiglianza dei beni, quelli che concerno-
no l’anima, quelli che concernono il corpo e quelli esterni, è que-
sta: ora, ai termini primi sono simili le cose prime, ai secondi le
cose seconde, ai terzi le cose terze, ai quarti le cose quarte. E alcu-
ni <beni> sono nell’anima, altri nel corpo, altri esterni. Infatti, la
56 OPERE LOGICHE

saggezza, la quale è nell’anima, è causa del fatto che l’anima versi


nello stato migliore, mentre la buona condizione è causa del fatto
che il corpo versi in uno stato ottimale. Infatti, chi ha buona fama
fa ciò che vuole. Pertanto, ciascuno di questi beni compie le cose
prime e la prima somiglianza si assume in questa modalità. E, a
sua volta, la giustizia è nell’anima, essa che è anche causa <dell’ar-
monia> delle parti dell’anima; il bell’aspetto, invece, che è nel cor-
po, consiste nel buon ordine delle parti del corpo: del freddo, del
caldo, del secco e dell’umido. La buona sorte, che è <un bene>
esterno, consiste in una certa disposizione favorevole della com-
posizione dei fatti. Di conseguenza, anche in questo modo si con-
cepisce, di nuovo, la somiglianza dei beni. E, a sua volta, il corag-
gio, che è nell’anima, consiste in una certa forza e in un vigore di
fronte alle paure e alle cose siffatte, invece la forza, che è nel cor-
po, è forza di fronte alle fatiche e alle sofferenze di mali; gli amici
poi, che sono <un bene> esterno, sono possessori di questa forza
rispetto all’aiuto esterno. Infatti, colui che ha molti amici è più
forte in una città. Anche in questo modo si concepisce la somi-
glianza di questi beni. E, a sua volta, la moderazione, che è nell’ani-
ma, orna l’anima e produce il vivere misuratamente; invece la bel-
lezza, che è nel corpo, orna il corpo e lo rende proporzionato; la
ricchezza, poi, che è <un bene> esterno, è direttrice e ornamento
degli uomini. Anche in questo modo si concepisce la somiglianza
di questi beni».
(*)
Divisione n. 72 di Diogene Laerzio (III, 105; pp. 246-247 Ros-
sitto): «Dei beni vi sono tre generi: gli uni, infatti, possono essere
posseduti, altri possono essere partecipati, altri ancora possono
sussistere. Ora, quelli che possono essere posseduti sono tutti
quelli che è possibile avere, come la giustizia e la salute. Invece
possono essere partecipati tutti quelli che non è possibile avere,
ma di essi è possibile partecipare: per esempio, non è possibile
possedere il bene in sé, ma è possibile partecipare di esso. Possono
poi sussistere tutti quelli che non è possibile né avere né parteci-
pare, ma occorre che sussistano: per esempio, l’essere virtuoso e
l’essere giusto sono un bene, ed essi non è possibile né possedere
né partecipare, ma occorre che sussistano. Pertanto, dei beni alcu-
ni possono essere posseduti, altri possono essere partecipati, altri
ancora possono sussistere».
Sui beni si vedano anche la divisione n. 23 Cod. Marc. (p. 34, 9
– 35, 2 Mutschmann; pp. 128-129 Rossitto), parallela alla divisione
n. 27 di Diogene Laerzio (III, 104-105; pp. 128-129 Rossitto), la
divisione n. 55 Cod. Marc. (p. 31, 16 – 32, 9 Mutschmann; pp. 196-
197 Rossitto), parallela alla divisione n. 24 di Diogene Laerzio
(III, 102; pp. 196-197 Rossitto), nonché la divisione n. 68 Cod.
DIVISIONI 57

Marc. (pp. 65, 20 – 66, 13 Mutschmann; pp. 235-237 Rossitto), tutte


riportate alla nota successiva.
9
Riferimento alla divisione n. 67 del Codice Marciano (pp. 39, 21 – 40, 7
Mutschmann; pp. 232-233 Rossitto), parallela alla divisione n. 32 di Dioge-
ne Laerzio (III, 108-109; pp. 232-233 Rossitto), che leggiamo in sinottico:

n. 67 Codice Marciano n. 32 Diogene Laerzio


Degli enti alcuni sono in sé e per sé, Degli enti alcuni sono per sé, altri si
ossia tutti quanti quelli che sono in dicono in relazione a qualcosa. Ora,
modo semplice, non per il fatto che quelli detti per sé sono tutti quelli che
esiste di necessità qualcos’altro, nella spiegazione non hanno bisogno
mentre quelli in relazione a qualco- in aggiunta di nulla. Questi recedono
sa sono di questo genere: per esem- da una spiegazione. Invece fanno
pio, il doppio e la scienza. Infatti, il parte degli <enti> che si dicono in re-
doppio si dice in relazione al mezzo lazione a qualcosa tutti quelli che
e la scienza in relazione a qualcosa. hanno bisogno in aggiunta di qualche
spiegazione, come «maggiore di qual-
cosa», «più veloce di qualcosa», «più
bello di qualcosa» e quelli siffatti. In-
fatti, il mezzo è mezzo di una cosa più
piccola, e ciò che è più veloce è più
veloce di qualcosa. Pertanto, degli en-
ti alcuni sono detti in sé e per sé, altri
in relazione a qualcosa.

Mette conto leggere anche le altre divisioni del codice Marciano


relative alla classificazione degli enti o, comunque, di contenuto
ontologico, in parallelo, ove sussistono, con quelle di Diogene
Laerzio.
(*)
Divisione n. 25 Cod. Marc. (pp. 47, 11-17 Mutschmann; pp.
132-133 Rossitto): «gli enti si dividono in tre: alcuni sono secon-
do essenza, altri per accidente, altri secondo affezione. Quelli
secondo essenza sono, per esempio, l’essere uomo e l’essere cia-
scuno degli enti; quelli per accidente sono, per esempio, il corre-
re, l’essere seduti e altre cose siffatte; l’<ente> secondo affezione
è, per esempio, il provare piacere, dolore, coraggio, paura e le
altre cose siffatte».
(*)
Divisione n. 22 Cod. Marc. (pp. 46, 9 – 47, 7 Mutschmann; pp.
124-127 Rossitto): «la divisione del modo di chiamarsi degli enti
ha luogo in cinque. Tra essi, infatti, alcuni sono <enti> che si dico-
no come uno rispetto a molti, altri come molti in rapporto a molti
e in rapporto a uno, altri come dissimili in rapporto a simili, altri
come simili in rapporto a simili, altri come uno in rapporto a uno.
Ebbene, quelli come uno in rapporto a molti sono, per esempio, il
soggetto più veloce, il soggetto più grande, il soggetto più bello e
gli <enti> siffatti. Quelli come molti in rapporto a molti e in rap-
58 OPERE LOGICHE

porto a uno sono, per esempio “queste cose di numero maggiore


di queste cose”, “queste cose di numero minore di queste cose”,
“questi soggetti più belli di questi soggetti” e altri <enti> siffatti.
Quelli come dissimili in rapporto a simili [†], quelli come simili in
rapporto a simili sono, per esempio, i fratelli in rapporto ai fratelli,
gli amici in rapporto agli amici e gli <enti> siffatti. Quelli come
uno in rapporto a uno sono, per esempio, “questo soggetto è più
bello di questo soggetto”, “questo soggetto è più veloce di questo
soggetto” e gli <enti> siffatti».
(*)
Divisione n. 26 Cod. Marc. (pp. 38, 15 – 39, 13 Mutschmann;
pp. 134-135 Rossitto), parallela alla divisione n. 31 di Diogene La-
erzio (III, 107-108; pp. 134-136 Rossitto):

n. 26 Codice Marciano n. 31 Diogene Laerzio


Inoltre, degli enti, alcuni sono divi- Degli enti alcuni sono divisibili in
sibili in parti, altri sono senza parti, parti, altri non divisibili in parti. Di
e di quelli divisibili in parti alcuni quelli che sono divisibili in parti gli
sono con parti simili, altri con parti uni sono con parti simili, altri con
dissimili. Gli <enti> divisibili in parti dissimili. Ebbene, sono senza
parti sono quelli che eventualmen- parti tutti quelli che non hanno divi-
te abbiano divisione: per esempio, sione né sono composti da qualcosa,
la casa, il mantello, il denaro, il po- come l’unità, il punto e il suono. So-
dere e gli <enti> siffatti; senza parti no invece divisibili in parti tutti
sono invece quelli che eventual- quelli che sono composti da qualco-
mente siano non divisibili in parti, sa, come le sillabe, le sinfonie, gli
come l’unità, il punto, il segno, il animali, l’acqua e l’oro. Sono con
suono e gli <enti> siffatti. E fra gli parti simili tutti quelli che sono com-
<enti> non divisibili in parti, poi, gli posti di <parti> simili e l’intero non
uni sono con parti simili, quelli di differisce in niente dalla parte tran-
cui anche le parti sono simili, come ne che per la posizione: per esempio,
l’acqua, il fuoco, il bronzo e gli <en- l’acqua, l’oro, tutto ciò che è fusibile
ti> siffatti, mentre sono con parti e ciò che è siffatto. Invece sono con
dissimili quelli le cui parti sono dis- parti dissimili tutti quelli che sono
simili, come la casa e gli <enti> sif- composti di parti dissimili, come la
fatti. casa e gli <enti> siffatti. Pertanto,
degli enti alcuni sono divisibili in
parti, altri senza parti; e di quelli di-
visibili in parti alcuni sono con parti
simili, altri con parti dissimili.

(*)
Divisione n. 55 Cod. Marc. (p. 31, 16 – 32, 9 Mutschmann; pp.
196-197 Rossitto), parallela alla divisione n. 24 di Diogene Laerzio
(III, 102; pp. 196-197 Rossitto):
DIVISIONI 59

n. 55 Codice Marciano n. 24 Diogene Laerzio


Ciascuno degli enti si divide in tre: Degli enti alcuni sono mali, altri be-
infatti, è o un bene, o un male, o ni, altri nessuna delle due cose. Di
nessuna delle due cose. Ora, uno è questi, diciamo mali i seguenti: quel-
un bene quando procuri giovamen- li che possono procurare sempre
to a qualcuno o non procuri danno, danno, come la mancanza di crite-
un altro è un male quando procuri rio, la stoltezza, l’ingiustizia e le co-
sempre danno, un altro ancora non se siffatte. Le cose contrarie a que-
è nessuna delle due cose: ciò che ste sono beni. Ma quelle cose che
talvolta procura danno e talvolta possono procurare talvolta giova-
procura giovamento, come le pas- mento, talvolta danno, come il pas-
seggiate, i sonni, le piante di ellebo- seggiare, lo stare seduti e il mangia-
ro e le cose siffatte, oppure né pro- re, oppure che non possono procu-
cura completamente danno né pro- rare totalmente né giovamento né
cura giovamento. danno, queste non sono, per l’ap-
punto, né beni né mali. Pertanto,
degli enti alcuni sono beni, altri ma-
li, altri nessuna di queste due cose.

(*)
Divisione n. 27 Cod. Marc. (p. 48 2 –18 Mutschmann; pp. 136-
139 Rossitto): «Divisione delle cose migliori e delle cose peggiori,
delle cose più belle e più turpi, di cose più bianche e di cose più
nere. Ciascuna di queste si dice in tre modi: ché, <si dice> o del
contrario o dello stesso mezzo: per esempio, come una cosa mi-
gliore di una contraria è detto essere il bene del male, al modo in
cui la saggezza lo è della scellerataggine e della dissennatezza; co-
me cosa migliore del mezzo è detto essere il bene, per esempio, di
ciò che non è né buono né cattivo; come cosa migliore di se stessa
si dice, poi, un bene di un bene, se uno dei due sia <bene> in misu-
ra minore. Similmente anche il bello: infatti è detto essere sia più
bello di ciò che è turpe, sia più bello di ciò che non è né turpe né
bello, ed è detto essere più bello anche di ciò che è bello e di una
cosa minormente bella. In modo simile è detto anche “più bian-
co”: infatti il bianco è detto essere più bianco sia del nero, sia di
ciò che non è né nero né bianco, la qual cosa è un mezzo. Anche
delle altre cose che si dicono così, affermate che stanno nel mede-
simo modo. Pertanto, migliore e peggiore, più bello e più turpe,
più bianco e più nero si dicono in tre modi».
(*)
Divisione n. 23 Cod. Marc. (pp. 34, 9 – 35, 2 Mutschmann; pp.
128-129 Rossitto), parallela alla divisione n. 27 di Diogene Laerzio
(III, 104-105; pp. 128-129 Rossitto):
60 OPERE LOGICHE

n. 23 Codice Marciano n. 27 Diogene Laerzio


I contrari si dividono in tre. Di essi, I contrari si dividono in tre: per esem-
infatti, uno è l’esserlo come un bene pio, diciamo che le cose buone sono
a un male: per esempio, la salute al- contrarie alle cose cattive, come la
la malattia, la bellezza alla turpitu- giustizia all’ingiustizia, la saggezza
dine e le cose siffatte; un altro, come alla stoltezza e le cose siffatte. E le
nessuna delle due cose a nessuna cose cattive sono contrarie alle cose
delle due cose: per esempio, la bian- cattive: per esempio, la prodigalità
chezza alla nerezza, la leggerezza all’avarizia e l’essere torturati ingiu-
alla pesantezza e le cose siffatte; un stamente all’essere torturati giusta-
altro, come una cosa da fuggire a mente. Anche le cose siffatte sono
una cosa da fuggire: per esempio, la cose cattive contrarie a cose cattive.
prodigalità all’avarizia, la calorosità Ciò che è pesante <è contrario> a ciò
alla freddezza, la magrezza alla che è leggero, ciò che è veloce a ciò
grassezza e le cose siffatte. che è lento, ciò che è nero a ciò che è
bianco come nessuna delle due cose
a nessuna delle due cose. Pertanto,
dei contrari alcuni sono contrari co-
me beni a mali, altri come mali a ma-
li, altri come nessuna delle due cose a
nessuna delle due cose.

(*)
Divisione n. 68 Cod. Marc. (pp. 65, 20 – 66, 13 Mutschmann; pp.
235-237 Rossitto): «I contrari si dividono in questo modo. Di alcuni
degli enti vi è qualcosa di contrario, di altri no. Infatti, all’oro, all’uo-
mo, al mantello e alle cose siffatte niente è contrario, mentre alla vir-
tù, al bene al caldo qualcosa è contrario. Ché, al bene è contrario il
male, alla virtù il vizio, al caldo il freddo. Ora, degli stessi contrari al-
cuni hanno qualcosa a mezzo, altri no. Infatti, fra bene e male vi è
qualcosa di mediano, mentre tra movimento e quiete non vi è niente
a mezzo. Ché, di necessità tutte le cose o sono in movimento o sono in
quiete. Anche tra la vita e la morte niente è a mezzo. Ché, di necessità
ciò che è atto ad accogliere la vita o vive o è morto. E i contrari stessi
si dicono in tre sensi: infatti, o come a un bene è contrario un male:
per esempio, alla giustizia l’ingiustizia, alla moderazione l’incontinen-
za e le cose siffatte; o come nessuna delle due cose è contraria a nes-
suna delle due cose: per esempio, [†], ché, nessuno di questi è né male
né bene; e come un male è contrario a un male: l’eccesso al difetto e
le cose dette per eccesso e difetto, come il raffreddarsi eccessivamen-
te al riscaldarsi eccessivamente. Queste cose, infatti, si dicono per ec-
cesso. Anche ciò che difetta di calore <è contrario> a ciò che difetta
di freddo. Infatti, anche queste cose sono contrarie per difetto».
(*)
Divisione n. 48 Cod. Marc. (pp. 23, 19 – 24, 12 Mutschmann;
pp. 182-183 Rossitto), parallela alla divisione n. 18 di Diogene
Laerzio:
DIVISIONI 61

n. 48 Codice Marciano n. 18 Diogene Laerzio


Ciascuno degli enti giunge a compi- Il fine delle cose si divide in quattro
mento per quattro cause: infatti, o specie: in una, le cose assumono il
per la sorte, o per la scienza, o per <loro> fine per legge, quando si ab-
la natura, o per costrizione, ossia bia un decreto e la legge le porti a
per necessità. Gli enti dovuti alla compimento. Le cose assumono il
sorte sono ciò che giunge a compi- <loro> fine per natura: si tratta del
mento per caso, ossia senza un pia- giorno, dell’anno e delle stagioni. Le
no, quelli dovuti alla scienza sono le cose assumono il <loro> fine per ar-
case, le navi e tutte le cose siffatte, te: per esempio, quella di costruire
quelli dovuti alla natura sono, per case, giacché un’<arte> porta a com-
esempio, gli uomini, le piante e tutti pimento una casa, e quella di costru-
gli animali, dovuti a costrizione, os- ire navi, giacché <porta a compi-
sia a necessità, sono, per esempio, le mento> le navi. Il fine per le cose si
dome degli animali privi di ragione, verifica per sorte quando soprag-
le dominazione, le tirannidi e le co- giungano in modo diverso e non co-
se siffatte. me uno suppone. Pertanto, il fine
delle cose è, da un lato per legge, da
un altro per natura, da un altro anco-
ra per arte, da un altro poi per sorte.

(*)
Divisione n. 29 Cod. Marc. (p. 49, 7-16 Mutschmann; pp. 142-
143 Rossitto): «il divenire si divide in quattro. Una <specie> di
esso è mutare da non ente a sostanza: per esempio, chi non era
figlio, diventarlo e quella che non era una statua, diventarla e tut-
te le cose siffatte. Una <specie> è mutare da un luogo in un luogo
ed essere posto in un altro: per esempio, coloro che navigano, che
camminano e ogni cosa siffatta. Una <specie> è mutamento di
stato e di disposizione: per esempio, da soggetto senza educazio-
ne diventare soggetto educato, da giovane vecchio, da nemico
amico. Una <specie> è mutamento delle cose: per esempio, di-
ventare da ricco povero, da cittadino privato governante, da go-
vernante cittadino privato e altre cose siffatte».
(*)
Divisione n. 65 Cod. Marc. (p. 64, 8-27 Mutschmann; pp. 224-227
Rossitto): «“Anteriore” si dice in cinque sensi: in effetti, sarà detto o
per natura, o per il tempo, o per la potenza, o per la posizione o per
l’ordine. Ora, per posizione <è anteriore>, per esempio, ciò che siamo
soliti dire nel caso di ciottoli giacenti, come “questo è anteriore a que-
sto”. Per ordine, per esempio, il tassiarco <è anteriore> al locado, il lo-
cado al soldato semplice, la “a” alla “b”. Per potenza diciamo che è
anteriore il generale al soldato e, in senso assoluto, il governante al
cittadino privato. Per il tempo <è anteriore>, per esempio, il padre al
figlio e ciò che è più vecchio a ciò che è più giovane. Per natura è ante-
riore, per esempio, la monade alla diade, la parte all’intero, il genere
alla specie e, in senso assoluto, fra tutte quelle cose che non si elimina-
62 OPERE LOGICHE

no assieme l’una con l’altra, ciò che produce l’eliminazione è anteriore,


mentre ciò che viene eliminato è posteriore per natura: per esempio, se
è stata eliminata la monade, sono eliminati la diade e ogni numero; se
invece viene eliminata la diade, niente impedisce che esista la monade.
Pertanto la monade viene per natura anteriormente alla diade. Simil-
mente, anche se è stata eliminata la parte è eliminato l’intero, mentre
se non c’è l’intero niente impedisce che ci sia la parte. Ed è chiaro che,
in quanti sensi si dice “anteriore”, in altrettanti si dirà anche “posterio-
re”. Infatti, diciamo “posteriore” o per natura, o per tempo, o per posi-
zione, o per ordine o per potenza».
(*)
Divisione n. 66 Cod. Marc. (p. 65, 2-17 Mutschmann; pp. 228-
231 Rossitto): «In quanti sensi si dicono “anteriore” e “posterio-
re”, in altrettanti si dirà anche di “insieme”: e cioè o per natura, o
per posizione, o per potenza, o per tempo, o per ordine. Ora, per
posizione sono assieme le cose siffatte, tutte quelle che per il luo-
go sono in uguale situazione: per esempio, diciamo che le cose che
corrono e le cose che stanno ferme sono insieme. Per posizione
sono insieme le cose siffatte: per esempio, coloro che camminano
in fila per i gioghi. Per potenza diciamo che sono insieme le cose
che non sono possibili una più dell’altra. Per il tempo diciamo che
sono assieme le cose siffatte: quelle che esistono nello stesso tem-
po. Per natura bisogna dire che sono insieme le cose che si elimi-
nano reciprocamente, ossia quelle che non possono esistere l’una
separatamente dall’altra, come il doppio e il mezzo. Questi, infatti,
si eliminano insieme l’un con l’altro e l’uno è impossibile che sia
separatamente dall’altro. Ché, una volta che sia stato eliminato un
doppio, non esisterà un mezzo e una volta che sia stato eliminato
un mezzo non esisterà un doppio, ossia è impossibile che, esisten-
do un doppio, non esista un mezzo. Avendo mostrato così queste
cose, segue che si parli degli enti».
10
Ossia dei principi. Sia nel Codice Marciano, sia in Diogene Laer-
zio, sia negli altri due codici non risulta alcuna divisione specificamen-
te attinente ai principi, per cui è credibile che il dossografo faccia qui
riferimento alle nozioni basilari dell’ontologia platonica (esposte da
Aristotele), che ha illustrato nelle pagine precedenti, quelle che a no-
stra volta abbiamo documentato nella nota n. 2.
11
Sull’anima si veda la divisione n. 1 Cod. Marc. (pp. 15, 2 – 16, 3
Mutschmann; pp. 76-77 Rossitto), corrispondente alla divisione n. 12 di
Diogene Laerzio (III, 90; pp. 76-77 Rossitto).
DIVISIONI 63

n. 1 Codice Marciano n. 12 Diogene Laerzio


L’anima si divide in tre: infatti, una L’anima si divide in tre: infatti, una
<parte> di essa è razionale, una è <parte> di essa è razionale, un’altra
irascibile, una è appetitiva. La <par- è desiderativa, un’altra è irascibile.
te> razionale è quella per la quale Di queste, quella razionale è causa
ragioniamo; la <parte> appetitiva è del deliberare, del ragionare, del
quella per la quale assumiamo i de- pensare e di tutte le cose siffatte. La
sideri; la <parte> irascibile è quella parte desiderativa dell’anima è cau-
per la quale proviamo ribollimenti sa del fatto che essa desideri man-
dell’animo, montiamo in collera, giare, fare sesso e di tutte le cose
proviamo ardimento, ci difendiamo siffatte. La parte irascibile è causa
e <compiamo> le altre cose siffatte. dell’esser ardimentosi, del provare
Pertanto, una <parte > dell’anima è piacere, dell’affliggersi e del monta-
razionale, una è irascibile, una è ap- re in collera. Pertanto, una <parte>
petitiva. dell’anima è razionale, un’altra è
desiderativa, un’altra è irascibile.
APPUNTI

INTRODUZIONE

1. Nella sua classificazione generale degli scritti aristotelici


Ammonio indica quelli redatti in forma di appunti (uépo-
mnhmatika@) nell’ambito degli scritti di carattere generale
(kaqo@lou), assieme a quelli redatti in forma di trattati (sun-
tagmatika@).1 Il commentatore così li caratterizza: si tratta
di opere nelle quali si fissavano i punti principali (kefa@la-
ia) delle questioni, o si trascrivevano passi di particolare
rilievo che potevano essere utilizzati per dimostrare una
tesi, tratti da scritti più antichi. Insomma, annotazioni, ap-
punti di concetti dello stesso autore o di altri autori, cui era
annessa specifica importanza in vista di successive utilizza-
zioni. In un tempo successivo a questi appunti venne confe-
rito un ordine, così da darvi risalto per la bellezza del di-
scorso e l’eleganza dello stile. Ordine e bellezza stilistica
caratterizzavano così gli scritti ipomnematici (Amm., In
Arist. Cat., 4, 5). Olimpiodoro nei Prolegomeni (6, 24 s.) ri-
propone questi medesimi concetti senza aggiungere altre
note connotative alla descrizione delle opere in oggetto.
Altre caratteristiche degli scritti ipomnematici presenta in-
vece Elia nel suo commento alle Categorie (114, 1-8). Dopo
aver ribadito che vi si annotavano soltanto i punti principa-
li (kefa@laia) precisa che in essi mancavano sia l’introdu-
zione che la conclusione ed erano composti in uno stile che
APPUNTI 65

non s’addice agli scritti editi (così, il De interpretatione fu


considerato uno scritto ipomnematico a causa della sua
oscurità fino a che Ammonio non mostrò che aveva un’in-
troduzione e una conclusione). Inoltre, ad avviso di Elia gli
hypomnemata non riflettono fedelmente il pensiero di Ari-
stotele, poiché non furono da lui rivisti, come aveva detto
Simplicio (In Arist. Cat., 4, 19-21).
Ora, quand’anche lo scritto di cui qui sono raccolti una
testimonianza e due frammenti non siano di Aristotele, è cer-
to che sono aristotelici i contenuti e l’impronta letteraria. Da
quanto è dato vedere, i contenuti non concernono un unico
ambito tematico, ma vengono fissati i kefa@laia di argomenti
svariati, complessivamente riguardanti il linguaggio. Il loro
carattere aristotelico è chiaro da quanto segue.

2. Nella testimonianza di Filopono si fa riferimento a due


tipi di epicheiremi:2 uno, indicato come primo, il quale as-
sume che si diano le definizioni e l’altro, indicato come se-
condo, che assume l’esistenza di dimostrazioni. L’assunzio-
ne dell’esistenza di definizioni e dimostrazioni è ciò che
colui che pronuncia l’epicheirema si fa concedere dall’av-
versario e usa come premessa dell’argomentazione, la
quale manifesta in questo il suo carattere dialettico. Sono
infatti dialettici i sillogismi le cui premesse sono concesse
dall’interlocutore (a differenza dei sillogismi scientifici o
dimostrazioni, nei quali le premesse sono proposizioni
«vere, prime, immediate, più note, anteriori e cause della
conclusione» [An.Po., I, 2, 71 b 21-22]); non soltanto, ma
corrispondono a «opinioni notevoli (ndoxa)» o a proposi-
zioni immediatamente derivate da opinioni notevoli, e an-
che per quest’aspetto i due tipi di epicheirema qui menzio-
nati manifestano il loro carattere dialettico. Che esistano
definizioni e dimostrazioni è, infatti, un’opinione notevole,
in quanto è cosa ammessa da tutti o comunque da tutti gli
esperti, e proprio questa è la caratteristica di un’opinione
66 OPERE LOGICHE

notevole.3 Evidentemente, chi interroga chiede all’interlo-


cutore se ritiene che si danno definizioni e dimostrazioni, e
questi è costretto a rispondere di sì, altrimenti, contraddi-
cendo un’opinione notevole, risulterebbe immediatamen-
te soccombente agli orecchi dell’uditorio. In tal modo, con
la sua risposta obbligatoriamente affermativa, egli conce-
de a chi argomenta la premessa dell’epicheirema. Il quale,
se procede da una premessa consistente nell’ammissione
che esistono definizioni è «primo» rispetto all’epicheirema
la cui premessa è l’esistenza di dimostrazioni in quanto la
definizione stessa è anteriore alla dimostrazione. Quest’ul-
tima, infatti, procede da una premessa (quella minore) che
è costituita da un «principio proprio» (An. Po., I, 2, 71 b 23;
72 a 6; De Gen. Anim., II, 8, 747 b 30; 748 a 8; Magna Mora-
lia, I, 1, 1183 b 1), ossia da una proposizione prima e indi-
mostrabile il cui predicato conviene per sé al solo genere
di determinazioni studiate da una data scienza (An. Po., I,
28; An. Pr., I, 30, 46 a 17-23; Metaph., III, 2, 997 a 18-22; 28-
30), vale a dire al suo gšnoj Øpoke…menon (An.Po., I, 7,75 a
42 – b 1), e tra i principi propri si annoverano le definizioni
(Ðrismo…), ossia i discorsi che dicono che cos’è una cosa
(Top. I, 5, 101 b 38; An. Po., II, 3, 91 a 1; 10,93 b 29; 39; 94 a
11; Metaph.,VII,5,1031 a 12).
Come dunque si vede, la dottrina chiamata in causa dal-
la testimonianza di Filopono e riferita agli Appunti è piena-
mente rispondente a quella di Aristotele.

3. Identiche osservazioni debbono essere fatte a proposito


dei due frammenti. Nel primo si richiamano le articolazioni
e i connettivi quali strutture determinanti il discorso. Lo
specifico interesse di Aristotele per questa materia è atte-
stato sia dal cap. 20 della Poetica, dove l’analisi è stretta-
mente linguistica, sia dai cap. 5 e 8 del De interpretatione,
dove in riferimento ai connettivi si specifica l’unità o la plu-
ralità del discorso medesimo. Sempre nel primo frammento
APPUNTI 67

si chiamano in causa i nomi indefiniti (così sembra di dover


intendere quelle che sono dette «negazioni») e le flessioni
dei verbi: materia che lo Stagirita esamina in De int., 2 e 3.
Si richiamano, infine, le privazioni, le cui analisi aristoteli-
che sono chiaramente attestate da Metaph., X, 4.
Esplicito richiamo alle negazioni, alle privazioni, alle espres-
sioni indefinite e alle flessioni dei verbi compaiono identica-
mente anche nel secondo frammento, a proposito del quale
vanno dunque ribadite le osservazioni formulate per il primo.
TESTIMONIA

FRAGMENTA
TESTIMONIANZE

Philop., In Arist. An. Post., p. 233, 32: Alessandro sostiene che


hanno carattere più razionale quegli epicheiremi4 che proce-
dono dalle definizioni, dei quali egli (scil. Aristotele) ha fatto
uso come di argomentazioni prime. Assume, infatti, che si dan-
no definizioni e che è possibile definire le cose, ma senza dimo-
strare quest’assunzione, ossia che si danno definizioni, come
pure nel secondo degli epicheiremi razionali assume questo
come dato su cui vi è accordo, ossia che si dà dimostrazione.

FRAMMENTI

1 (R2 113, R3 116)

Simpl., In Arist. Cat., p. 64, 18: ma perché mai – dicono i se-


guaci di Lucio5 – abbandonare i connettivi se i vocaboli e
questi sono atti a significare ? [...] pp. 64, 29 - 65, 10: ricerca-
no anche in quale categoria linguistica6 saranno ordinate le
articolazioni,7 e intorno a esse vale il medesimo discorso.8
Ché, anche queste sono come dei connettivi, che in più si-
gnificato i generi, ossia il maschile e il femminile, in modo
indeterminato. Infatti, non manifestano che cos’è. Perciò da
alcuni sono chiamati indefiniti, ma le negazioni, le privazio-
ni9 e le differenti flessioni dei verbi10 in quale categoria lin-
70 OPERE LOGICHE
APPUNTI 71

guistica11 saranno ordinate? Oppure lo stesso Aristotele le


ha distinte negli Appunti. E infatti nel Trattato di metodica e
negli Appunti e nelle Divisioni e in un altro libro di appunti
intitolato Contro lo stile, il quale, se pure a taluni non sem-
bra autentico di Aristotele, è però certamente di qualcuno
dei suoi allievi di scuola, aggiungendo in questi <scritti> le
categorie, inserì «parlo di queste assieme alle loro flessio-
ni», oppure unì alle flessioni, alle negazioni, alle privazioni
e alle espressioni indefinite la relativa didascalia.

Dexippus, In Arist. Cat., p. 33, 8-13: ma – egli dice – le nega-


zioni, le privazioni, le espressioni indefinite e le flessioni in
quale categoria linguistica saranno ordinate? Ora, in que-
sta materia lo stesso Aristotele diede un insegnamento mi-
gliore negli Appunti. Avendo, infatti, aggiunto le categorie
assieme alle loro flessioni, sia alle negazioni che alle
espressioni indefinite unì ad un tempo la relativa didasca-
lia, chiamando ptoseis le flessioni.
72 OPERE LOGICHE

Note
1
Cfr. Zanatta, Dialoghi, Introduzione, p. 32. La classificazione di
Ammonio è la seguente: dapprima egli divide gli scritti dello Stagirita
in particolari (merika@), intermedi (metaxu@) e di carattere generale (ka-
qo@lou); indi, tra questi ultimi distingue quelli redatti in forma di ap-
punti (uépomnhmatika@) da quelli redatti in forma di trattati (suntagma-
tika@), nei quali comprende i dialoghi, qualificati anche come opere
essoteriche, e gli scritti «in prima persona» (auètopro@swpa), che defini-
sce anche acroamatici.
2
Su che cosa sia l’epicheirema cfr. la nota n. 4. Nel catalogo dioge-
niano delle opere di Aristotele sono indicati tre scritti aventi per tema
gli epicheiremi: gli uŒpomnh@mata eèpiceirhmatika#, in tre libri (Diog. Laer.,
63), gli ˆEpiceirhma@twn, in due libri (Diog. Laer., 65) e le Qe@seiv eèpi-
ceirhmatikai@, in 25 libri (Diog. Laer., 70). Ad avviso di Moraux (Listes,
pp. 94 s.), le tesi per l’argomentazione dialettica che erano raccolte in
quest’ultima opera, dal carattere pressappoco simile a quello degli altri
scritti di genere epicheirematico, presentavano tuttavia quest’aspetto
peculiare: si sarebbero fondate sull’opinione paradossale di un sapien-
te e non su una semplice opinione corrente. Rileva ancora lo studioso
che l’elevato numero di tesi lascia ragionevolmente pensare che la rac-
colta comprendeva una collezione completa delle tesi aristoteliche in
circolazione all’epoca della compilazione del catalogo.
3
Sono, infatti, opinioni notevoli (eòndoxa, ossia opinioni eèn do@xhj, «in
fama») quelle opinioni che «sembrano a tutti o alla massima parte o ai
sapienti e, se a questi, o a tutti o alla stragrande maggioranza o a quel-
li massimamente noti e illustri» (Top., I, 1,100 b 21-23).
4
L’«epicheirema», letteralmente «discorso rivolto contro qualcu-
no», è il sillogismo dialettico in generale, che può sia concludere che
non con la contraddizione, distinto dall’«aporema», ossia dal sillogi-
smo dialettico che conclude espressamente con la contraddizione del-
la tesi avversaria, vale a dire con la contradizione (Soph. El., VIII,11,
162 a 12-18, dove sono altresì indicati altri due tipi di sillogismo: il «fi-
losofema» o sillogismo scientifico e il «sofisma» o sillogismo eristico.
In realtà si tratta di un paralogismo, ossia di un discorso che ha l’appa-
renza di essere un sillogismo, ma di fatto non lo è). Sull’epicheirema si
veda anche Top., II, 4, 111 b 12; 5, 111, b 33; VI, 14, 151 b 23; VIII, 11,
162 a 16 ss.
5
Si tratta del Platonico che, assieme a Nicostrato (menzionato nei
frr. 5 e 6 dello scritto Sui contrari), fa parte degli oppositori di Aristo-
tele e, in particolare, delle dottrine logiche dello Stagirita (in proposito
cfr. Moraux, Aristotelismus, pp. 97 ss.).
6
Letteralmente, «dove» (pou^).
7
Per una discussione su che cosa Aristotele intenda per su@ndesmov
e per aòrqon, e perché si possa propendere per attribuire a questo se-
condo il significato di articolazione piuttosto che di articolo, e al primo
APPUNTI 73

quello di connettivo, mi permetto di rinviare alla nota n. 173 del testo


della Poetica nell’edizione italiana da me curata (Torino, Utet 2004).
8
Ossia, quello che sottolinea la necessità di non trascurare, assieme
ai connettivi, neppure le articolazioni, dal momento che anche queste,
al pari di quelli, sono elementi della le@xiv atti a significare.
9
Per «negazioni» sembra che qui si faccia riferimento a quelli che
in De int., 3 Aristotele chiama nomi indefiniti, come per esempio «non
uomo», perché costituiti dal nome e dalla negazione «non». Per «pri-
vazioni», invece, s’intendono i termini composti con un’alpha privativo
(per esempio, aèleqh@v). Distinte sia dalle negazioni che dalle privazioni
sono poi le negazioni privative, in merito alle quali si veda Metaph., X,
4 (e la nota n. 92 del mio commento a questo trattato).
10
Sulle flessioni del verbo cfr. De int., 3.
11
Letteralmente, qui, «in che cosa».
CATEGORIE

INTRODUZIONE

Sotto il titolo “Categorie” (Kathgori@ai), a differenza di


quanto avviene per tutti gli altri scritti di questa raccolta,
non sono ordinati i frammenti di un’opera specifica, diver-
sa da altre di cui Aristotele è l’autore, né le due testimo-
nianze si riferiscono a un’opera siffatta, ma gli uni e le altre
rappresentano, in realtà, considerazioni sul primo trattato
dell’Organon. Insomma, le Categorie, libro cui si riferisco-
no le testimonianze e i «frammenti» qui ordinati, non sono
uno scritto diverso dalle Categorie, primo trattato dell’Or-
ganon, ma corrispondono a questo trattato. Lo stesso cata-
logo laerziano delle opere aristoteliche non reca due scritti
intitolati alle categorie, né di due scritti siffatti danno noti-
zia i cataloghi di Tolomeo e dell’Anonimo. Da qui l’eccen-
tricità e, se si vuole, persino l’anomalia di questa presenza
delle Categorie nel contesto complessivo della raccolta del
Ross e, per altro verso, l’eccentricità dei «frammenti» qui
riportati, i quali non sono passi dell’opera cui si riferiscono,
bensì, come si diceva, considerazioni su di essa.
Eppure, nelle biblioteche dovevano essere presenti e
gli Antichi dovevano conoscere due scritti concernenti le
Categorie riferiti ad Aristotele, se gran parte delle testimo-
nianze e dei «frammenti» sono univocamente impegnati a
sostenere la paternità aristotelica di uno solo di essi, men-
76 OPERE LOGICHE

tre del secondo, recante il medesimo titolo (Categorie), o


un titolo di poco differente (Sulle categorie Per… kathgoriw ~n;
così nella testimonianza 1/b), attestano che non va ascritto
allo Stagirita. Si tratta con ogni verosimiglianza e probabi-
lità di un’opera di scuola aristotelica e fors’anche di uno
dei discepoli diretti del Maestro, che tuttavia doveva diffe-
rire da quella autenticamente aristotelica non tanto per lo
stile e la brevità, per le quali caratteristiche, anzi, assomi-
gliava assai a essa (cfr. il frammento 1/a), quanto invece
per la profondità e la sottigliezza dei contenuti dottrinali,
come Boezio non manca di rilevare (cfr. fr. 1/e), nonché
per la compattezza teorica e la piena linearità con i con-
cetti che caratterizzano l’argomentare dello Stagirita e so-
no peculiari del suo pensare (cfr. fr. 1/e). Ma su ciascuno di
questi caratteri è opportuno soffermarsi un po’ più analiti-
camente.
Quanto allo stile, il riferimento è a quell’esposizione
concisa e stringata dei concetti che effettivamente caratte-
rizza le Categorie dello Stagirita, prive addirittura come so-
no di un’introduzione – a differenza degli altri principali
scritti di Aristotele – e subito avviate all’analisi della mate-
ria. Uno stile che, dunque, le rendeva inconfondibili e ben
riconoscibili, e sul quale perciò fanno leva le testimonianze
e i frammenti.
Le differenze sul piano stilistico tra i due scritti riguar-
dano invece alcune espressioni, quali l’incipit, che varia
nell’uno e nell’altro. Ma si tratta di differenze di poca rile-
vanza, soprattutto sotto il profilo della pertinenza
dell’espressione rispetto al concetto; quella dell’incipit, in
particolare, non sembra rivelare una particolare curvatura
impressa all’idea e anche per l’aspetto strettamente forma-
le non lascia scorgere alcuna significativa caratterizzazione,
tanto che Ps. Ammonio (fr. 1/c) parla di «inizio che è pres-
soché identico (hòtiv scedo#n hé auèth@ eèsti)».
Anche la concisione delle espressioni, e dunque la brevi-
CATEGORIE 77

tà dello scritto, è una caratteristica delle Categorie aristote-


liche. Tra le circostanze che lo attestano sembra particolar-
mente significativa la trattazione della scienza (eèpisth@mh),
la quale, annoverata in Cat., 8 nella prima specie delle qua-
lità, ossia tra gli abiti e le disposizioni, in Cat., 7 è detta al-
tresì far parte dei relativi, senza una parola di spiegazione
in ordine alla doppia collocazione. Non soltanto, ma, stante
che ogni relativo deve avere un correlativo, che va scelto
adeguatamente nella sua determinazione concettuale, ossia
enucleando lo specifico aspetto per il quale ne è correla-
tivo, fino a coniarne anche il nome, se nella lingua corrente
non esiste (per esempio, «testato» come correlativo di testa
e «timonato» come correlativo di timone), si fa presente,
senza risolverla, la difficoltà che interviene tra la scienza e
il correlativo «scibile», nonché tra la sensazione e il corre-
lativo «sensibile». In realtà la soluzione sussiste, e nel no-
stro commento al trattato abbiamo cercato di individuarla,
procedendo lungo la linea indicata dallo Stagirita di fronte
a casi nei quali l’espressione linguistica fa insorgere proble-
mi (cfr. Zanatta, Categorie, pp. 378 ss.). Ma ciò che qui inte-
ressa porre in evidenza è che la soluzione è soltanto lascia-
ta scorgere al lettore, ma non espressamente formulata. Si
tratta di un esempio particolarmente significativo ed ecla-
tante di concisione ben più che stilistica, ma concettuale e
dottrinaria. Il rilievo dei commentatori intorno a questa
prerogativa dello scritto aristotelico è, dunque, del tutto
appropriata e pertinente. E anche in riferimento a essa dal-
le testimonianze e dai frammenti qui raccolti si evince che
le Categorie non aristoteliche non differivano – o comun-
que non differivano molto – da quelle dello Stagirita.
La differenza più rilevante che invece viene segnalata,
sia pur tra le righe, riguarda la profondità dei contenuti teo-
rici. Lo si può inferire dalle parole di Boezio secondo cui «il
libro (scil. le Categorie aristoteliche) in verità è di Aristote-
le e di nessun altro, proprio perché in ogni parte della filo-
78 OPERE LOGICHE

sofia egli si trova d’accordo con se stesso in merito all’argo-


mentazione di quest’opera, e la stessa brevità e sottigliezza
non costituiscono una discrepanza da Aristotele, [...] ben-
ché esista un secondo libro di Aristotele che tratta dei me-
desimi argomenti e che contiene pressoché le stesse cose,
pur essendo diverso nell’elocuzione» (fr. 1/e). Da questa
basilare testimonianza emerge, oltre che l’attestazione del-
la coerenza dell’argomentare aristotelico con quello delle
Categorie (sul che fisseremo l’attenzione tra breve), l’atte-
stazione della sottigliezza di un tale ragionare, unitamente
alla brevità: quel carattere brachilogico sul quale abbiamo
già riflettuto. Ora, il fatto stesso che, rispetto a questo carat-
tere della sottigliezza, cui è connessa la brevità, Boezio in-
troduca l’altro trattato sulle categorie con una concessiva
(«benché esista [quamquam extet]») è sintomatico ed elo-
quente nel far intendere come a questo secondo scritto tali
prerogative non appartenessero; o, più precisamente, non
vi appartenesse né l’acutezza né quella brevità connessa a
questa dote, giacché sotto il profilo meramente formale, re-
lativo cioè alla sola elocuzione, considerata indipendente-
mente dai contenuti, anche le «altre» Categorie usassero
espressioni concise. Espressioni che, tuttavia, ancorché si-
milari, non erano però le stesse, come appare dall’ultimo
rilievo («pur essendo diverso nell’elocuzione»).
Conviene infine considerare il rilievo concernente la
congruità dell’argomentare delle Categorie con quello pro-
prio dello Stagirita, segno manifesto e importantissimo
dell’autenticità del primo. Con esso è agevole e normale ri-
tenere che Boezio si riferisse al fatto che le strutture di pen-
siero teorizzate nelle Categorie si ritrovano alla base del
ragionare di Aristotele per l’ampiezza di tutte le sue opere
e rappresentino, in particolare, l’ossatura formale del suo
modo di pensare. Alle categorie si connette strutturalmente
la multivocità dell’ente e, notoriamente, è questa la struttu-
ra di pensiero che caratterizza Aristotele. La divisione per
CATEGORIE 79

generi e specie, sulla quale si definisce la dottrina delle ca-


tegorie, rappresenta, inoltre, una costante dell’ontologia e
della gnoseologia del Nostro. Le categorie, infine, per il fat-
to stesso di teorizzare la suddetta pluralità originaria
dell’essere stanno alla base del rifiuto aristotelico della me-
tafisica platonica dei principi e, in ultima analisi, definendo
questi le strutture formali delle Idee, delle Idee stesse.
TESTIMONIA
TESTIMONIANZE

a) Ps. Amm., In Arist. Cat. (Ven. 1546), f. 13 a: si dice per


esempio che nella grande biblioteca furono trovati quaran-
ta libri degli Analitici e due delle Categorie. Dagli esegeti
questo delle Categorie è stato giudicato essere autentico di
Aristotele, e che lo sono quattro <libri> degli Analitici. Il
giudizio è stato formulato sulla base dei pensieri, del tipo di
espressione e per il fatto che di questo libro il filosofo ha
fatto menzione anche in altre trattazioni.1

b) Elias, In Arist. Cat., p. 133, 9-18: sulla base di questi <ele-


menti> lo diciamo autentico. In effetti, dal tempo antico il
presente libro <è ritenuto> autentico sulla base sia del tipo
d’espressione, sia della gravità dei pensieri,2 sia dal fatto
che con questo nome egli (scil. Aristotele) menziona il pre-
sente libro in altri suoi libri: «com’è detto nelle Categorie»,3
sia da quello che per sua emulazione i suoi compagni4 scris-
sero libri con lo stesso titolo e hanno usato l’aggiunta «sulle
(peri@)», sia dal fatto che esso ha dato conto agli esegeti atti-
ci.5 Dei quaranta libri degli Analitici trovati nelle antiche
biblioteche e dei due delle Categorie, quattro soltanto degli
Analitici si giudicano <autentici> e uno solo delle Catego-
rie, e se il presente trattato non fosse autentico, l’intera
trattazione logica sarebbe acefala.
FRAGMENTA
FRAMMENTI

1 (R2 114, R3 117)

(a) Simpl., In Arist. Cat., p. 18, 16-21: racconta Adrasto


nell’opera Sull’ordine dei trattati di Aristotele che viene tra-
mandato come di Aristotele anche un altro libro delle Ca-
tegorie, che è anch’esso breve e succinto nello stile e si di-
versifica per poche divergenze, e ha come inizio «delle cose
che sono, una è». La quantità di righe di ciascuno dei due è
la stessa, per cui la brevità stilistica parla come se ciascuno
degli argomenti confutativi fosse esposto sinteticamente.

(b) Amm., In Arist. Cat., p. 13, 20-25: si deve sapere che nelle
antiche biblioteche sono stati trovati quaranta libri degli
Analitici e due delle Categorie. Uno dei due ha quest’inizio:
«delle cose che sono, alcune si dicono omonime, altre sinoni-
me»; invece il secondo, che ora abbiamo <qui> presente, ha
questo tipo di descrizione: «si dicono omonime le cose delle
quali soltanto il nome è comune, ma la definizione dell’essen-
za è diversa».6 Questo viene preferito, nella convinzione che
sia superiore per ordine e trattazione e che dappertutto di-
chiari la paternità di Aristotele.

(c) Ps. Amm., In Arist. Cat. (Ven. 1546), f. 17 a: essendo stati


trovati, come s’è detto, due libri delle Categorie pressoché
simili in tutto e per il prologo.7 Infatti, l’inizio dell’uno è
«delle cose che sono, alcune sono omonime, altre sinoni-
me». Inizio che è pressoché identico a quello del libro che
84 OPERE LOGICHE
CATEGORIE 85

ho dinanzi. Questo libro è stato giudicato essere autentico


del filosofo da parte di tutti gli esegeti.

(d) Schol. in Arist. Cat., 33b 35 (Brandis): che questo sia


autentico, si è dimostrato così [...] 30-33: sulla base del fatto
che ha dato conto a tutti gli atticisti e che tutti, con identico
parere, hanno giudicato autentico questo soltanto dei due
libri <delle Categorie> che sono stati trovati, come dei qua-
ranta degli Analitici, secondo quanto racconta Adrasto.

(e) Boeth., In Arist. Cat., 1, pp. 161d-162a (Migne): il libro


in verità è di Aristotele e di nessun altro, proprio perché in
ogni parte della filosofia egli si trova d’accordo con se stes-
so in merito all’argomentazione di quest’opera, e la stessa
brevità e sottigliezza non costituiscono una discrepanza da
Aristotele, [...] benché esista un secondo libro di Aristotele
che tratta dei medesimi argomenti e che contiene presso-
ché le stesse cose, pur essendo diverso nell’elocuzione. Ma
questo libro diede inizio al calcolo di chi ne abbia la pater-
nità.
86 OPERE LOGICHE

Note
1
Cfr. anche la testimonianza 1/b. Per la verità, non risulta che in al-
cun passo di altri suoi scritti lo Stagirita abbia menzionato il trattato
delle Categorie. Risulta, invece, che in più e più occasioni egli ha fatto
esplicito riferimento alle categorie, indicandole espressamente nella so-
stanza, nella qualità, nella quantità, nella relazione e via di seguito, ossia
in quelle stesse di cui tratta espressamente nell’omonimo scritto. Sinto-
matici, tra gli altri, i seguenti luoghi: Gen. corr., I, 3, 319 a 11-12 («queste
cose sono state determinate con le categorie. Alcune, infatti, significano
un certo questo, altre un quale, altre un quanto»); Eth. nic., I, 4. 1096 a
28-29 («infatti <il bene> non si direbbe in tutte le categorie»); Magna
Mor., I, 1, 1183 a 10-12 («poiché infatti affermiamo che il bene si dice in
tutte le categorie, ed effettivamente si dice nella sostanza, nella relazio-
ne, nel quando e in generale in tutte quante ecc.); Phys., V, 1, 225 b 6 «se
dunque le categorie si dividono nella sostanza, nella qualità, nel dove,
nel quando, nella relazione, nella quantità, nel fare e nel patire, ecc.»);
Metaph., VI, 1, 1026 a 33 ss. («ma poiché l’ente, enunciato in senso asso-
luto, si dice in molti sensi, uno dei quali, come s’è visto, è l’ente per acci-
dente, un altro l’ente come vero, e il non ente come il falso, e oltre a
questi vi sono le figure delle categorie, ossia il che cosa, il quale, il quan-
to, il dove, il quando, e se qualche altra <determinazione> significa in
questo modo»); Ivi, VII, 9, 1034 b 7 ss. («non soltanto in ordine alla so-
stanza il ragionamento mostra che la forma non si genera, ma il ragiona-
mento nel suo carattere comune riguarda, parimenti, tutte le cose prime,
come la quantità, la qualità e le altre categorie»); Ivi, IX, 10, 1051 a 34 s.
(«poiché l’ente e il non ente si dicono, da un lato secondo le figure delle
categorie, ecc.»); Ivi, XI, 12, 1068 a 3 («se dunque le categorie si dividono
in sostanza, qualità, luogo, agire, patire, relazione, quantità»).
2
Non pare vi possa essere dubbio che qui eènqu@mhma non assume il si-
gnificato tecnico di «entimema», ossia di sillogismo retorico, giacché le
Categorie non sono affatto, com’è noto, un trattato di retorica e in nessu-
na parte di esso si parla di entimemi. Il termine ha invece il senso generi-
co di pensiero, concetto, riflessine e simili (ovvero, ciò che è nel qumo@v).
3
Cfr. in proposito la nota n. 1.
4
Si tratta dei discepoli e, in generale, dei filosofi del Peripato, chia-
mati «compagni» (eétaoroi) perché assieme ad Aristotele percorrevano
la via della ricerca e dello studio.
5
Ossia: ha dato prova delle proprie prerogative autenticamente
aristoteliche. Tale il significato, qui, di «aver dato conto» (euèqu@nav de-
dwke@nai).
6
L’incipit delle Categorie aristoteliche è questo secondo.
7
Per «prologo» (to# prooi@mion) non è qui certo da intendersi un’«in-
troduzione», ché le Categorie non ne hanno affatto, sibbene, in senso
generale, l’incipit del trattato. E di «inizio» (aèrch@), in effetti, parla
espressamente Ps. Ammonio nel prosieguo.
SUI CONTRARI

INTRODUZIONE

1. Lo scritto Sui contrari (Peri# eènanti@wn a è) è indicato al


n. 30 del catalogo di Diogene Laerzio, in un libro, ed è
con ogni verosimiglianza da identificare con lo scritto
sulla Scelta dei contrari che Aristotele indica nei passi di
Metaph., IV, 2, riportato da Ross come test. 1 e Metaph.,
X, 3, riportato da Ross come test. 2, e che Alessandro di
Afrodisia nella test. 3 dice avere lo Stagirita menzionato
anche nel secondo libro dell’opera Sul bene. Ond’è che
alcuni studiosi hanno creduto di dover identificare questi
due scritti, ma erroneamente, come ha mostrato Moraux
(Listes, pp. 52-53., dove sono chiariti i termini della que-
stione).1 Il fatto poi che Aristotele citi la Scelta dei con-
trari in Metaph., X esclude altresì l’identificazione di
questo scritto, ossia dello scritto Sui contrari, con il deci-
mo trattato della Metafisica, come già Bonitz e Susemihl
avevano dimostrato e Moraux, che li cita (Ivi, p. 52, nota
n. 42), ribadisce.
Quanto alla datazione, Moraux ritiene lo scritto in og-
getto anteriore sia al trattato Sul bene che al primo libro
della Metafisica (Ivi, p. 316), e questa collocazione cronolo-
gica, del tutto congruente con il quadro delle citazioni cui
anzi si è accennato, non risulta sia stata efficacemente con-
traddetta da alcuno studioso.
88 OPERE LOGICHE

2. Ross annovera tra i frammenti dello scritto Sui contrari


anche passi del commento di Simplicio alle Categorie in cui
questi ripetutamente cita uno scritto aristotelico Sugli op-
posti (Peri# aèntikeime@nwn). In particolare, nel passo raccolto
da Ross come fr. 1 (In Arist. Cat., p. 387, 17) Simplicio pre-
cisa che questo scritto sarebbe servito agli Stoici (evidente-
mente gli Stoici antichi) come base di studio di argomenti
logici e in particolare dei contrari (eèpi# tw^n eènanti@wn); se ne
sarebbero serviti anche per reperire la formulazione e, pro-
babilmente, anche la soluzione di «aporie» (aèpori@ai), vale a
dire problemi filosofici posti (e risolti) in chiave logica;
aporie che il trattato aristotelico Sugli opposti avrebbe
contenuto in gran numero (aèporiw^n plh^qov aèmh@canon).
Presupposto di un tale interesse degli Stoici per lo Stagirita
era la chiarezza con la quale egli aveva esposto la dottrina
degli opposti (safh@neiav eòtucen hé tou^ èAristote@louv le@@xiv).
Dell’uso da parte degli Stoici dello scritto aristotelico Sugli
opposti il commentatore dà attestazione anche nei frr. 2, 5 e
6; nel fr. 4 lo richiama semplicemente, attribuendolo sem-
pre ad Aristotele.
Moraux (Listes, p. 316) fa giustamente presente che que-
sto scritto non ha nulla a che vedere con il trattato Sulla
scelta dei contrari, ossia con l’opera Sui contrari, e aggiunge
che si tratterebbe di uno scritto spurio, che all’epoca di
Alessandro era già andato perduto; insomma «uno pseudo-
epigrafo verosimilmente posteriore all’elaborazione della
logica stoica» (Ivi). Un giudizio, quest’ultimo, che per più
ragioni non sembra potersi interamente condividere.
Va innanzitutto osservato che gli argomenti tratti «dal
silenzio» non sono decisivi né da un punto di vista storico
né, ancor meno, da un punto di vista logico. Il fatto che
Alessandro non lo abbia menzionato, perché non lo cono-
sceva, non attesta di per sé che lo scritto non sia esistito. Da
un punto di vista strettamente logico, poi, se vige il criterio
secondo cui ciò che viene documentato con una prova sicu-
SUI CONTRARI 89

ra (quale può essere la citazione di passi dell’opera in sede


di commento) è esistente, la negazione dell’antecedente,
ossia di detta documentazione, non implica la negazione
del conseguente, ossia l’inesistenza dell’opera. Lo stesso va
detto a proposito dell’assenza del trattato dal catalogo di
Diogene Laerzio così come dagli altri cataloghi delle opere
di Aristotele. Ma, per converso, se si tiene conto dell’auto-
revolezza e del peso della testimonianza di Alessandro, in
primis, e di Diogene Laerzio, l’assenza, pur non potendo
essere argomento decisivo, dice pur qualcosa. Così, se essa
non prova l’inesistenza dello scritto, prova però, in termini
altamente plausibili, la sua non paternità aristotelica. Ora,
se gli argomenti di cui è data testimonianza essere stati
espressamente trattati nello scritto e costituire suo specifi-
co oggetto presentano indiscutibili corrispondenze con la
teoria aristotelica degli opposti e con le posizioni assunte
dallo Stagirita come conseguenze di questa teoria e comun-
que come addentellate a essa, l’ipotesi che lo scritto sia re-
almente esistito e sia stato redatto da un discepolo dello
Stagirita, e comunque in ambiente strettamente a lui vici-
no, si affaccia con una forte connotazione di attendibilità.
Anche la non coincidenza con l’opera Sui contrari gravi-
ta nell’orbita di una siffatta corrispondenza. Giacché, noto-
riamente, per Aristotele i contrari costituiscono una specie
di opposti, assieme ai relativi, ai contraddittori e al possesso
e privazione, com’è detto in Cat., 10, e il commento di Sim-
plicio in cui si parla dello scritto Sugli opposti è proprio un
commento alle Categorie. È dunque non soltanto piena-
mente logico che questo scritto e quello Sui contrari siano
opere diverse, ma è pienamente congruente con la materia
di entrambi che nell’opera Sugli opposti si sia parlato anche
dei contrari (ond’è che bene ha fatto Ross a includere nella
racconta dei frammenti Sui contrari anche questo passo di
Simplicio relativa allo scritto Sugli opposti). Ebbene, la te-
stimonianza derivante dal commento di Simplicio attesta
90 OPERE LOGICHE

esattamente questo. Dice infatti Simplicio che (1) mercé la


teoria degli opposti Aristotele «ha fornito le basi per tutte
le questioni», ossia l’impianto teorico in base al quale for-
mulare e risolvere tutti i problemi filosofici, vale a dire quel-
le «aporie» alla cui trattazione, come anche prima s’è accen-
nato, il primo libro dello scritto dava ampio spazio; (2) di
questa formidabile capacità della dottrina degli opposti di
risolvere le aporie, presentate dallo Stagirita in gran nume-
ro, si erano accorti gli Stoici; (3) i quali tuttavia non tennero
conto di tutte, ma unicamente di quelle convergenti con la
loro dottrina filosofica; il che significa: i pensatori del Porti-
co si accorsero che la dottrina aristotelica degli opposti era
un formidabile strumento logico per risolvere quelle aporie
del loro sistema in qualche modo convergenti con quelle
presenti nel sistema aristotelico; (4) all’interno della dottri-
na degli opposti particolare attenzione era rivolta, a questo
riguardo, alla teoria dei contrari (chiara impostazione ari-
stotelica, come s’è detto, per la quale i contrari costituiscono
una specie di opposti); (5) si enunciano perciò i capisaldi di
tale teoria, correggendo la definizione che precedente ne
era stata data. Così la «nuova» e più pertinente concezione
dei contrari, espressa dalla «nuova» e più pertinente defini-
zione, li pone direttamente in rapporto (a) sia alla distanza,
che nel caso dei contrari è massima, (b) sia alla differenza, e
al tempo stesso pone in rapporto tra loro la distanza massi-
ma e la differenza.
Ora non è difficile scorgere in questo quadro le determi-
nazioni che connotano la contrarietà nella dottrina di Cat.,
10 e quelle che, ulteriormente sviluppando questa dottrina,
ne connotano la specificità teorica nella trattazione di Meta-
ph., X, 4. In effetti, che i contrari costituiscano i termini mas-
simamente distanti entro il genere è la nota che caratterizza
questa specie di opposti in Cat., 10. Su di essa, infatti, si fonda
sia la tesi secondo cui, a differenza dei relativi, che si dicono
l’uno in relazione all’altro, ciascuno dei contrari non si dice
SUI CONTRARI 91

l’uno in relazione all’altro, ma in senso assoluto, ossia come


semplicemente contrario dell’altro (così, bianco non si dice
«bianco del nero» né nero si dice «nero del bianco», al modo
in cui, invece, servo si dice «servo del padrone» e padrone si
dice «padrone del servo», ma si dicono in senso assoluto: co-
me, rispettivamente, contrario del nero e come contrario del
bianco; cfr. Ivi, 11 b 32-37), sia quella per la quale i contrari
non ammettono intermedi se o l’uno o l’altro di essi è neces-
sario che appartenga alla cosa, o perché necessariamente vi
si genera, o perché necessariamente vi si predica; ammetto-
no invece intermedi se non è necessario che o l’uno o l’altro
appartenga alla cosa (Ivi, 11 b 38 ss.). Parimenti, la determi-
nazione della contrarietà in base alla differenza e, in stretta
relazione con quest’assunto, il rapporto tra la distanza entro
il genere e la differenza sono i tratti che caratterizzano l’ana-
lisi della contrarietà in Metaph., X, 4. In effetti, nella prima
parte di questo capitolo (1055 a 3 ss.) Aristotele fa presente
che (1) la contrarietà è differenza perfetta, (2) in quanto dif-
ferenza perfetta, stante che la differenza è tra due termini, la
contrarietà è tra due termini; ossia: a un contrario è opposto
un solo contrario; (3) le altre definizioni di contrarietà si ri-
capitolano in quella testé proposta: (a) quella secondo cui la
contrarietà è differenza massima perché la differenza perfet-
ta differisce massimamente; (b) quella secondo cui sono
contrarie le cose che entro un medesimo genere distano
massimamente tra loro perché è evidente che esse realizza-
no la differenza massima, e la differenza perfetta è differen-
za massima; (c) quella secondo cui sono contrarie le cose che
distano al massimo grado nel medesimo ricettacolo per il
medesimo motivo della precedente, considerando che il ge-
nere, in quanto sostrato, è ricettatolo; (d) quella secondo cui
sono contrarie le cose che differiscono al massimo grado
nell’ambito di una medesima scienza perché ogni scienza
concerne un genere di enti, e quella condizione per cui la
differenza massima esistente tra gli enti di un determinato
92 OPERE LOGICHE

genere è differenza perfetta, si ripropone identicamente per


la conoscenza di tale genere di enti.2
Ora, proprio la compresenza nella definizione dei con-
trari delle note che specificano questo tipo di opposti non
soltanto nella trattazione di Cat., 10, ma anche, per così di-
re, nel perfezionamento di questa trattazione espresso in
Metaph., X, 4 attesta la posteriorità cronologica dello scrit-
to Sugli opposti, menzionato da Simplicio, rispetto ai due
suddetti trattati, avvalorando così l’ipotesi che questo scrit-
to, realmente esistente, sia l’opera di un Peripatetico che
raccolse e sintetizzò i momenti salienti della teoria aristo-
telica dell’opposizione, in generale, e della contrarietà, in
particolare.

2.1 A questa ipotesi esegetica si potrebbe obiettare di non


tenere conto della disamina sui contrari che, nel quadro del-
la trattazione degli opposti, Aristotele sviluppa in Metaph.,
V, 10. Qui infatti, com’è noto, gli opposti sono indicati in
numero di sei e non già di quattro (e precisamente (1) nei
contraddittori, (2) nei contrari, (3) nei relativi, (4) nel pos-
sesso e nella privazione, (5) nei termini ultimi delle genera-
zioni e delle corruzioni (6) nelle cose che non possono ap-
partenere contemporaneamente a ciò che è atto a riceverle)
e, quanto alla contrarietà, si fornisce una casistica minuzio-
sa e particolareggiata nella quale campeggiano le determi-
nazioni della massima distanza e della differenza massima,
ma scandite in una pluralità di situazioni teoriche che speci-
ficano altrettanti significati di questo tipo d’opposizione.3
Sennonché per ciò che attiene al numero di opposti e, in
particolare, al fatto che nell’elenco di Metaph., V, 10 com-
paiano due significati dell’opposizione (ossia il quinto e il
sesto) che non sono presenti in Cat., 10, in altra circostanza
ho cercato di mostrare come sia probabile che con il quinto
e il sesto significato Aristotele abbia inteso dare specifico
risalto a certe proprietà comuni a quelle delle quattro for-
SUI CONTRARI 93

me di opposizione che specificano tale rapporto in senso


esclusivo, realizzando così il modo più radicale di quello
«stare l’uno di fronte all’altro» (aènti-kei^qsai) che è pro-
priamente l’«op-porsi». Tali sono l’antifasi, i contrari, il pos-
sesso e la privazione, in ciascuna delle quali i termini in
causa stano «l’uno di fronte all’altro» (aènti-kei^tai) in modo
da escludersi a vicenda, mente nel caso dei relativi il loro
stare «l’uno di fronte all’altro» (aènti-kei^sqai) si risolve in
un rapporto di reciproca implicazione. Ond’è che la quinta
e la sesta nota concorrono a segnare la differenza tra l’op-
posizione in senso esclusivo e l’opposizione inclusiva.4 Sot-
to questo profilo la classificazione dei significati di «oppo-
sto» presentata in Metaph., V, 10 pare essere meno rigorosa
di quella di Cat., 10, e lo stesso può dirsi a proposito del
maggior numero di significati di «contrario» indicati nel
primo testo, chiaramente inteso a fornire una casistica più
che una determinazione teoricamente stringata del concet-
to di contrarietà, com’è consono alla sua originaria compo-
sizione. Metaph., V, infatti, con ogni probabilità all’inizio
costituiva un trattato a sé stante, non facente ancora parte
della Metafisica, e coincide con lo scritto accademico dello
Stagirita intitolato Peri# tw^n pollacw^v legome@nwn (Sulle
cose che si dicono in molti sensi), del quale è data notizia
nei cataloghi più antichi delle opere di Aristotele (in pro-
posito cfr. Berti, Struttura e significato, pp. 68 s.). Da qui la
decisione dell’autore dello scritto Sugli opposti di attenersi,
nella sua sintesi della dottrina aristotelica di questa nozio-
ne, in genere, e di quella di contrarietà, in specie, alle tratta-
zioni più rigorose e più teoricamente essenzializzate dello
Stagirita.

3. Anche negli altri frammenti, come s’è accennato, a ecce-


zione del terzo, Simplicio richiama lo scritto Sugli opposti e
sempre, direttamente o indirettamente, con riferimento alla
dottrina dei contrari, estrapolando, con ogni evidenza, la
94 OPERE LOGICHE

parte degli opposti che lo scritto del Peripatetico traeva


dall’opera giovanile di Aristotele Sui contrari. Il carattere
indiretto o diretto del riferimento è dato dal semplice ri-
chiamo di questa dottrina, senza la citazione dello scritto, o
dall’esplicita e testuale citazione di esso là dove si parla dei
contrari. In ogni caso, il riferimento a essi e l’esposizione
della relativa dottrina costituiscono l’aspetto prioritario per
il quale il commentatore richiama l’opera Sugli opposti.

3.1 Il carattere aristotelico della dottrina dei contrari (chia-


ro indizio che l’omonima opera è da ascrivere allo Stagirita
e che quella Sugli opposti, che la riprende, fu redatta in am-
biente peripatetico, da un filosofo che conosceva bene lo
scritto aristotelico) si attesta nel fr. 2 in due istanze, che pe-
raltro costituiscono l’asse concettuale su cui il frammento
stesso si costruisce.
Innanzitutto nella tesi per cui la giustizia è contraria
all’ingiustizia. Tesi prettamente aristotelica, affatto inqua-
drabile nella teoria delle Categorie, dove si afferma che le
qualità ammettono contrarietà e nella prima specie di qua-
lità, rappresentata dagli abiti e dalle disposizioni, si anno-
verano le virtù (Cat., 8, 8 b 26-29) e, di conseguenza, i vizi,
giacché anche questi, al pari delle prime, consistono in abiti
(Eth. nic., II,4); ora, la giustizia e l’ingiustizia non soltanto
costituiscono una virtù e un vizio, ma sono espressamente
la virtù e il vizio addotti a esempio da Aristotele per illu-
strare la caratteristica delle qualità di avere un contrario
(Ivi, 10 b 12-13: «sussiste anche contrarietà secondo la qua-
lità (ad esempio, giustizia è cosa contraria a ingiustizia)».
Inoltre, nella tesi secondo cui la persona giusta e quella
ingiusta non esprimono casi di contrarietà se non nel senso
derivato e secondario dovuto al fatto di partecipare di con-
trari. Si precisa, infatti, nel frammento che due cose possono
dirsi contrarie in due sensi: o per sé, ossia perché in se stesse
sono contrarie (come quiete e movimento e, per l’appunto,
SUI CONTRARI 95

virtù e vizio) o per il fatto di partecipare di cose contrarie


(come ciò che è in quiete e ciò che è in movimento). Ebbene
la persona giusta e quella ingiusta sono contrarie in questo
secondo senso, per il fatto di partecipare di quei contrari
per sé che sono la giustizia e l’ingiustizia. In tal modo esse,
precisa ancora lo Stagirita, non sono propriamente contra-
rie, ma si dispongono in modo contrario (eè n anti@ w v
diakei^sqai), in conseguenza della circostanza che virtù e vi-
zio, in quanto abiti, sono altresì disposizioni (disposizioni
permanenti) e come tali, una volta acquisiti, dispongono in
un certo modo i relativi soggetti. Non è difficile avvedersi
che al fondo di questa tesi gioca quella per cui l’uomo giu-
sto e ingiusto sono qualificati non in quanto tali, ma perché
«possiedono» la giustizia e l’ingiustizia; ond’è che il loro es-
sere giusto e ingiusto corrisponde propriamente a un avere,
essi cadono cioè sotto questa categoria, e essa, benché Ari-
stotele nelle Categorie non ne parli che molto succintamen-
te e, in particolare, non dica che non ammette contrarietà
(cfr. Cat., 9), è tuttavia evidente che non l’ammette, giacché
l’opposto del possesso è la privazione e questi danno luogo
a un’altra specie di opposizione, espressamente indicata da
Aristotele nello stesso trattato delle Categorie come diversa
dalla contrarietà (cfr. Cat., 10, 12 a 25 ss.). Il che risulta con-
fermato ove si consideri che in una trattazione più matura
dei contrari, costituita dal già richiamato Metaph., X, 4, pos-
sesso e privazione sono riferiti alla contraddizione, essendo
questa una privazione assoluta, ossia privazione non soltan-
to della forma, ma anche del ricettacolo che l’accoglie (lad-
dove la contrarietà è privazione della forma soltanto e per
questo privazione perfetta).

3.2 Nel frammento n. 3 Simplicio presenta la dottrina ari-


stotelica della contrarietà in rapporto a quella stoica. In-
nanzitutto è opportuno considerare la struttura del fram-
mento, il che consentirà di formulare alcuni rilievi in ma-
96 OPERE LOGICHE

niera più circostanziata perché intessuti nella specificazio-


ne stessa dei singoli momenti.
Il frammento si declina come segue:
– si precisa che per Crisippo, mentre uno stato, come per
esempio la saggezza, è contrario a uno stato (come la stol-
tezza), la relative definizioni non sono contrarie.
La giustificazione dell’assunto in entrambe le parti ri-
prende istanze della dottrina aristotelica delle Categorie, che
– già sappiamo dal passo di Simplicio raccolto nel fr. 1 – era
tenuta in conto dagli Stoici quale formidabile strumento
per la soluzione di problemi filosofici. Uno stato può essere
contrario a uno stato perché, come abbiamo già avuto mo-
do di richiamare, per Aristotele gli stati (eçxeiv), unitamente
alle disposizioni (diaqe@seiv), costituiscono la prima specie
del genere categoriale della qualità, e le qualità ammettono
contrario. Ma anche le tesi per cui una definizione non può
essere contraria a una definizione poggia su una dottrina
aristotelica, espressa anch’essa nelle Categorie, e precisa-
mente in Cat., 6 (5 b 10 ss.), ove si afferma che «alla quanti-
tà niente è contrario»; ora, tra le quantità discrete si anno-
vera il discorso (Ivi, 4 b 22-23), e la definizione è un discor-
so, esattamente «il discorso che significa l’essenza» (cfr.
Top., I, 5, 101 b 38: oçrov me#n lo@gov oé to# ti# hùn eiùnai shmai@nwn;
cfr. anche Metaph., VII, 4, 1029 b 25-26 dove la definizione
è detta «discorso dell’essenza [lo@gov tou^ ti@ hùn eiùnai]»).
– Tuttavia, con una debita aggiunta anche una definizio-
ne può ritenersi contraria a una definizione. Lo aveva so-
stenuto già Aristotele e gli Stoici ribadiscono l’assunto. Lo
Stagirita, infatti, aveva messo in chiaro che, mentre una co-
sa e la definizione della cosa contraria non possono dar
luogo a un rapporto di contrarietà, giacché possono stare
assieme (per esempio, si può dire che la saggezza non è
«ignoranza dei beni, dei mali e di ciò che non è né bene né
male», che è la definizione della stoltezza, ossia del contra-
rio della saggezza), invece una definizione può opporsi co-
SUI CONTRARI 97

me contraria a una definizione, ma con un’aggiunta, con la


quale si specifichi che le due definizioni sono contrarie non
per se stesse, ma in quanto definizioni di cose contrarie.
Ora, nella tesi secondo cui una cosa e la definizione del-
la cosa contraria non danno luogo a un’opposizione di con-
trarietà risuona, nettissimo, l’eco di due teorie aristoteliche,
per cui è certamente vera la testimonianza di Simplicio per
la quale l’assunto va originariamente ascritto allo Stagirita.
La prima teoria aristotelica che vi si rinviene è già indicata
nella giustificazione che Semplicio riporta dell’assunto
stesso, e cioè che i contrari, a differenza dei relativi, non
possono stare assieme, ma si respingono. È dottrina che
traspare nettissima da Cat., 10 e che è implicitamente riba-
dita in Cat., 11 (14 a 7 ss.), ove si precisa che, mentre in cose
diverse se c’è un contrario non è necessario che ci sia anche
l’altro, nella stessa cosa se c’è l’uno è necessario che non ci
sia anche l’altro. Ma vi si rinviene anche la teoria aristoteli-
ca per la quale la contrarietà esige identità di genere, essen-
do i contrari i termini massimamente distanti entro di esso;
ma ove siano in causa una «cosa» e una definizione, una
tale unità di genere non è affatto garantita, e il caso di spe-
cie lo attesta eloquentemente: la giustizia è una qualità,
mentre la definizione, come s’è anzi precisato, essendo un
discorso, è una quantità.
– Infine si richiamano indicazioni tecniche su quando
una definizione è contraria a una definizione. Si precisa che
lo è se tra esse vige contrarietà del genere o della differen-
za specifica o di entrambi.
Ora che l’indicazione abbia una chiara valenza aristoteli-
ca è detto dallo stesso Simplicio nel presentarla, ed è chiaro
dal fatto che essa si costruisce sulla dottrina, propria dello
Stagirita, secondo cui la definizione è data dal genere (pros-
simo) e dalla differenza specifica. Ossia: la contrarietà di due
definizioni riposa sulla contrarietà degli elementi che Ari-
stotele ha indicato essere costitutivi della definizione stessa.
98 OPERE LOGICHE

Va infine osservato che gli esempi addotti a illustrazio-


ne dell’assunto, chiamando in causa istanze di chiara spe-
cificità platonica, concorrono a comprovare e dal canto
loro rafforzano la datazione dello scritto Sui contrari, da
cui la dottrina della contrarietà esposta nel frammento in
ultima istanza è tratta, nel periodo accademico di Aristo-
tele, quando, per l’appunto, le teorie del maestro rappre-
sentavano per lui il termine più immediato e diretto di
confronto, nei consensi e nei dissensi. Di spessore plato-
nico sono le due definizioni che illustrano la contrarietà
perché i generi sono contrari; tali quella che il bene è
proporzione tra le parti e quella che il male è sproporzio-
ne tra esse. Vi echeggiano le note definizioni platoniche
della giustizia e dell’ingiustizia come armonia tra le parti
dell’anima (Resp., IV, 434 c-436 a; 441 c-443 b) e come
disordine e disaccordo tra le stesse (Ivi, IV, 444 a-e). Al
tempo stesso la tesi che due cose sono contrarie perché i
loro generi sono contrari manifesta la sua piena paternità
aristotelica, essendo congruente con il terzo caso indica-
to in Cat. 11 (14 a 19-20), dove lo Stagirita precisa che «è
necessario che tutti i contrari siano o nel medesimo gene-
re o nei generi contrari, o che siano essi stessi generi»;
tanto più congruente perché come esempio di questo ter-
zo caso stesso Aristotele adduce proprio le nozioni di be-
ne e di male (cfr. Ivi, 24-25: «bene e male non sono in un
genere, ma essi stessi si trovano ad essere generi di alcu-
ne cose»).

3.3 Il fr. 4, a dispetto della sua apparente semplicità e linea-


rità, presenta invece, ove lo si esamini non solo dal punto di
vista strutturale, ma anche storico, un movimento di pen-
siero articolato e complesso, giacché manifesta un interes-
sante intreccio di istanze platoniche e aristoteliche. L’ac-
certa-mento delle prime conferma e ribadisce la datazione
pristina dello scritto Sui contrari cui il frammento si riferi-
SUI CONTRARI 99

sce, le seconde comprovano ancora una volta la paternità


aristotelica di quest’opera.
Sembra opportuno mettere in luce i due momenti in
modo distinto, incominciando col chiarire per quali ele-
menti il frammento presenta aspetti di indiscutibile matri-
ce aristotelica. Un primo è costituito dal fatto che esso si
sviluppa intorno a una questione particolare (un’«aporia»,
secondo l’espressione usata nel fr. 1) che non soltanto s’in-
quadra in un problema di chiara marca aristotelica: se tra i
contrari vi sia qualcosa d’intermedio, ma viene analizzata
e risolta sulla base di strutture concettuali stabilite dallo
Stagirita. La questione (l’«aporia») è se tra l’opinione vera
e quella falsa vi sia o no un intermedio. Che il problema
generale entro cui essa s’inquadra sia aristotelico attesta
Cat., 10, dove la trattazione del darsi o meno di un inter-
medio tra i contrari occupa ampia parte dell’indagine sulla
contrarietà (cfr. 11 b 37 – 12 a 20). Che, entro questo qua-
dro generale, la specifica questione tematizzata nel fram-
mento venga sviluppata sulla base di istanze ineludibil-
mente aristoteliche salta agli occhi sia dalla soluzione che
se ne dà, sia dal metodo con cui la si guadagna. La risposta
negativa che è data alla questione (tra l’opinione vera e
quella falsa non sussiste intermedio) è in tutto e per tutto
conforme alla dottrina aristotelica secondo cui tra i con-
trari non sussiste intermedio se è necessario che o l’uno o
l’altro di essi appartenga al soggetto (Ivi). Nel caso di spe-
cie, l’impossibilità di un intermedio deriva dal fatto che
necessariamente un’opinione è o vera o è falsa, ossia che
un’opinione per così dire «neutra», tale cioè da non essere
né vera né falsa, non si dà. Questa tesi è asseverata attra-
verso la smentita della tesi contraddittoria, e proprio un
tale metodo, tipico dell’uso della dialettica nella soluzione
di problemi filosofici, denunzia la sua marca aristotelica. Si
rammenti, infatti, che in Top., I, 2 (101 a 36 – b 4) lo Stagi-
rita annovera tra gli usi della dialettica anche quello per il
100 OPERE LOGICHE

quale essa è utile «in rapporto alle scienze filosofiche (prÕj


t¦j kat¦ filosof…an ™pisth@mav)». Il caso di specie ne è un
esempio lampante. In effetti, si prospetta una situazione
che parrebbe smentire l’impossibilità di un intermedio tra
opinione vera e opinione falsa e la si smonta, mostrando
così, attraverso la sua inconsistenza, la verità della tesi in
oggetto. La situazione oppositiva è che tra l’opinione vera
e l’opinione falsa, che costituiscono due contrari, si inseri-
scono, come intermedi, per l’appunto, la scienza e l’igno-
ranza, giacché talvolta si passa dall’opinione alla scienza o
dall’opinione all’ignoranza; ossia: la cancellazione di
un’opinione vera o falsa può dar luogo a scienza o a igno-
ranza, che pertanto si interpongono tra i due tipi di opinio-
ne, di modo che questa non è necessariamente o vera o
falsa, ma si dà una situazione intermedia costituita dall’as-
senza dell’una e dell’altra. Tale situazione intermedia è ap-
punto quella della scienza o dell’ignoranza.
A questo livello si inserisce il momento platonico della
disamina, che va messo distintamente in chiaro. Esso ri-
manda alle note tesi del libro sesto della Repubblica (509
d – 513 e) in cui Platone mostra che, nella perfetta corri-
spondenza dei gradi del conoscere ai gradi dell’essere, co-
me sul piano ontologico tra l’essere che assolutamente è,
ossia le Idee, e l’assoluto nulla si colloca quale intermedio
il divenire, che è essere e assieme non essere, così sul pia-
no gnoseologico tra la conoscenza assolutamente indefet-
tibile e vera della scienza (eèpisth@mh) e l’assoluta assenza
di conoscenza espressa dall’ignoranza (aògnoia) si colloca
una conoscenza intermedia consistente, per l’appunto,
nell’opinione (do@xa). Essa è intermedia tra la scienza e
l’ignoranza perché non è né l’una né l’altra, o meglio è
l’una e l’altra, così come il corrispondente livello ontolo-
gico, costituito dal divenire, è a mezzo tra il puro essere e
il puro niente perché non è né l’uno né l’altro, ma l’uno e
l’altro.
SUI CONTRARI 101

In questo quadro, di chiara matrice platonica, si preci-


sa la valenza dell’obiezione alla tesi secondo cui tra
l’opinione vera e l’opinione falsa si collocano come in-
termedi la scienza e l’ignoranza, giacché non sono né
l’una né l’altra.
La risoluzione dell’obiezione consiste nel far presente
che scienza e ignoranza (nella stessa prospettiva platonica
nella quale sono assunte come termini oppositivi della tesi
in questione) sono «ciò tra cui» l’opinione, vera o falsa che
sia, è un intermedio e non già l’intermedio tra la verità e la
falsità di un’opinione. La prospettiva dalla quale muove
l’obiezione rovescia, per così dire, l’effettivo stato di cose,
giacché fa surrettiziamente passare i termini entro i quali
l’opinione vera e quella falsa si pongono, ossia la scienza e
l’ignoranza, come termini intermedi tra i due tipi di opinio-
ne. Ma indebitamente, perché è l’opinione, vera o falsa che
sia, non cessa di essere opinione, ed è l’opinione a collocar-
si tra scienza e ignoranza, non queste tra la verità e la falsi-
tà dell’opinione.

3.4 A tutta prima l’appartenenza del fr. 5 alla raccolta Sui


contrari potrebbe sembrare strana. Non certo perché non si
fa riferimento alcuno a questo scritto, sibbene a quello Su-
gli opposti. Nell’ipotesi esegetica che si è avanzata la dottri-
na dei contrari presente in quest’ultimo trattato estrapola
o comunque si rifà direttamente a quella esposta nel primo,
per cui non è sotto questo profilo che eventuali perplessità
potrebbero sorgere. Potrebbero invece ingenerarsi al pen-
siero che, di fatto, nel frammento non si parla di contrarie-
tà, sibbene di possesso e privazione, vale a dire di un tipo
diverso di opposizione. Ma si tratterebbe di una perplessità
che va subito fugata, riflettendo che – come già abbiamo
richiamato (cfr. ante, p. 91) – la contrarietà si riporta a una
forma di privazione, e precisamente alla privazione perfet-
ta o privazione della forma, e proprio di questo tipo di pri-
102 OPERE LOGICHE

vazione e del corrispondente possesso si discute nel fram-


mento. La cui architettura vede contrapposti, nel quadro
complessivo di una discussione intorno al possesso e alla
privazione, da un lato il platonico Nicostrato, autore di una
minuziosa e serrata polemica nei riguardi delle Categorie
di Aristotele,5 dall’altro la dottrina di costui, asseverata da-
gli Stoici, che in quest’occasione appaiono alleati dello Sta-
girita contro Nicostrato.
Il frammento è come diviso in due parti, nella prima del-
le quali è a tema se si possa passare dalla privazione al pos-
sesso. Nicostrato nelle argomentazioni polemiche che co-
struiva contro Aristotele in materia etica, non soltanto lo
affermava, ma lo faceva. Aristotele fa presente che vi sono
più generi di privazioni, ossia che le privazioni possono es-
sere di molti tipi e concernere i costumi, cose naturali, de-
naro e altro, e che di alcune non è possibile liberarsi, passa-
re cioè dalle privazioni ai possessi.
Al fondo di queste considerazioni echeggia, come si ac-
cennava, la distinzione tra privazione assoluta e privazione
della forma o privazione perfetta, ed echeggia la tesi di
Cat., 10 secondo cui non si può passare dalla privazione al
possesso.
Nella seconda parte – dove la dottrina posta in campo
non è soltanto quella di Aristotele, ma anche quella di Cri-
sippo, messa assieme da Giamblico, che ne riferisce, alla
prima e assimilata a tal punto con essa da poter alludere,
come sembra, allo scritto Sugli opposti come «scritto aristo-
telico e crisippeo (eòk te tou^ ˆAristotelikou^ kai# Crusippei@-
ou bibli@ou)» – si fa presente che non si dà privazione di un
contrario. Dottrina prettamente aristotelica, giacché già
sappiamo che per lo Stagirita un contrario è una privazio-
ne, e precisamente privazione della forma, e non è possibile
privare una privazione. Si fa presente, inoltre, che non si dà
privazione dei beni dell’anima e concernenti la scelta deli-
berata (proai@resiv), e anche questa è dottrina che affonda
SUI CONTRARI 103

le sue radici in Aristotele, sia per il riferimento ai beni


dell’anima, nella loro implicita distinzione dai beni del cor-
po e dai beni esteriori, che, già presentata da Platone, si tro-
va tematizzata dal giovane Aristotele nel Protrettico (cfr. fr.
3 Ross; Zanatta, Dialoghi, p. 235), sia per il richiamo della
«scelta deliberata», che è tema basilare dell’etica aristoteli-
ca (cfr. Eth. Nic., III, 6) in quanto in essa consiste propria-
mente l’azione virtuosa. Si fa infine presente che ogni pri-
vazione è o un male o un indifferente, e qui è chiaro che la
dottrina aristotelica è mescolata assieme a quella stoica, al-
la quale appartiene la nozione di «indifferente (aèdia@fo-
ron)».

3.5 Anche nel fr. 6 la dottrina aristotelica dei contrari viene


per ampio tratto mescolata a quella stoica. In un quadro
complessivo dei tipi di contrari, che probabilmente veniva
tracciato dal Peripatetico autore dello scritto Sugli opposti,
il frammento ne chiama direttamente in causa quattro: (1)
contrarietà di un bene a un male; (2) contrarietà di un ma-
le a un male o a un bene; (3) contrarietà di ciò che non è né
bene né male a ciò che non è né bene né male; (4) contra-
rietà di un indifferente a un indifferente.
I primi tre tipi di contrarietà trovano senz’altro riscon-
tro in Aristotele; anche il terzo, che nell’orizzonte temati-
co e dottrinale dello Stagirita designa quello stato in cui
il soggetto, senza essere ancora pervenuto alla virtù, sta
tuttavia compiendo, per incitamento di un maestro e sot-
to l’influenza delle buone leggi, atti virtuosi che lo porte-
ranno ad acquisire l’abito della virtù (cfr. la nota n. 17 del
commento al frammento). Invece il quarto tipo di contra-
rietà chiama in causa una nozione che non trova spazio in
Aristotele, ma che è invece basilare nell’etica degli Stoici,
quale è, per l’appunto, quella di «indifferente».
Se, com’è logico credere, Simplicio traeva ciò che rife-
risce, direttamente o indirettamente, dallo scritto Sugli
104 OPERE LOGICHE

opposti, allora occorre ritenere che il Peripatetico autore


di esso, benché seguace della filosofia aristotelica, su un
punto abbia però interpretato a suo modo il pensiero del
maestro, finendo per assimilare surrettiziamente la dot-
trina dello Stagirita con quella stoica. Mi riferisco
all’identificazione di contrati quali bianco/nero, dolce/
aspro, quiete/movimento con ciò che per Aristotele non
è né buono né cattivo, ossia con la condizione del sogget-
to sopra indicato, sull’evidente presupposto che tali de-
terminazioni, che in realtà gravitano nell’ambito della
fisica, non appartengono all’etica, dove invece campeg-
giano i concetti di bene e di male. Si tratta di un’identifi-
cazione arbitraria, ma che l’autore del trattato ha com-
piuto, sovrapponendo una sua interpretazione a una tesi
dello Stagirita, probabilmente perché influenzato, sul
punto, dalla filosofia stoica. Anzi, dovette esserne tal-
mente influenzato da andare oltre e identificare la con-
dizione che aristotelicamente non è né un bene né un
male, pensata come denotante ciò che, gravitando nell’or-
dine del fisico, non ha rilevanza etica, con quella che gli
Stoici indicavano con la nozione di «indifferente». Sim-
plicio che, come si diceva, dovette attingere, direttamen-
te o indirettamente, allo scritto Sugli opposti, riprese
identicamente questa posizione e la fece valere contro le
obiezioni portate dal platonico Nicastro, critico dello
Stagirita, alle tesi di costui.
In questa chiave la linea di sviluppo del frammento è
presto tracciata: Nicastro contrappose ad Aristotele di
non aver preso in considerazione, nella tavola dei con-
trari, la contrarietà di un indifferente a un indifferente.
Egli probabilmente conosceva lo scritto Sugli opposti,
ma si era reso conto che la nozione aristotelica di ciò che
non è né un bene né un male è altra da quella stoica di
indifferente, e in base a ciò aveva mosso la sua critica.
Alla quale Simplicio, che segue l’identificazione operata
SUI CONTRARI 105

dal Peripatetico autore dello scritto, oppone che di fatto,


menzionando la contrarietà di ciò che non è né un bene
né un male a ciò che non è né un bene né un male, si era
posta in campo la contrarietà di un indifferente a un in-
differente.
TESTIMONIA
TESTIMONIANZE

Arist., Metaph., IV, 2, 1003b 33 – 1004a 2: tante specie vi


sono dell’uno, quante ve ne sono dell’ente. E l’indagare su
di esse, che cos’è <ciascuna>, è compito di una scienza
identica per il genere: dico, per esempio, indagare sull’iden-
tico, sul simile e sulle altre determinazioni di questo tipo. E
pressoché tutti i contrari si riportano a questo principio.6
Queste cose per noi siano state indagate nella Scelta dei
contrari.

Arist., Metaph., X, 3, 1054a 29-32: come abbiamo descritto


nella Scelta dei contrari, dell’uno sono propri l’identico, il
simile e l’uguale, mentre della moltitudine il diverso, il dis-
simile e il disuguale.

Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 250, 17-19: per ciò che ri-
guarda il conoscere che quasi tutti i contrari si riconducono
all’uno e alla moltitudine come al loro principio,7 ci riman-
da alla Scelta dei contrari, sul presupposto d’averne trattato
particolarmente. Di una tale scelta ha parlato anche nel se-
condo libro dell’opera Sul bene8 .

Syrian., In Arist. Metaph., p. 61, 12-17: differenze dell’uno,


come sue specie, sono l’identico, il simile, l’uguale, il retto e,
in senso complessivo, la serie delle cose migliori, come le è
conseguente quella che ha più bisogno dei molti. Ne ha
108 OPERE LOGICHE

FRAGMENTA
SUI CONTRARI 109

trattato particolarmente anche questo filosofo stesso, effet-


tuando la scelta di tutti i contrari e ponendone alcuni sotto
l’uno, altri sotto i molti.

Asc., In Arist. Metaph., p. 237, 11-13: per ciò che riguarda il


conoscere che quasi tutti i contrari si riconducono all’uno e
alla moltitudine come al loro principio, ci rinvia alla Scelta
dei contrari, sul presupposto d’averne trattato particolar-
mente. Di una tale scelta ha parlato anche nel secondo li-
bro dell’opera Sul bene.9

Simpl., In Arist. Cat., p. 382, 7-10: risulta che Aristotele ab-


bia tratto le <dottrine> sugli opposti dal libro di Archita
intitolato Sugli opposti, libro che egli non ordinò assieme al
discorso sui generi, ma ritenne degno di una trattazione
propria.

Simpl., In Arist. Cat., p. 407, 15: dopo che il discorso sulla


differenza dei contrari è stato completato da parte di Ari-
stotele, si possono ben esporre anche le <teorie> di Archita
su di essi [...] p. 407, 19-20: non lo trascurò chi indagò il libro
di Aristotele Sugli opposti.

FRAMMENTI

1 (R2 115, R3 118)

Simpl., In Arist. Cat., p. 387, 17: ma poiché l’elocuzione di


Aristotele ha avuto in sorte la chiarezza, osserviamo quan-
te elaborazioni i più illustri degli interpreti hanno apporta-
to al luogo. Stante che gli Stoici hanno grandi pensieri nella
discussione di argomenti logici, sia nel caso degli altri ma
anche in quello dei contrari si danno cura di mostrare che
110 OPERE LOGICHE
SUI CONTRARI 111

Aristotele ha fornito le basi di tutte le <questioni> nel pri-


mo libro dell’opera che ha intitolato Sugli opposti, nel qua-
le vi è anche una quantità straordinaria di aporie. E di esse,
quelli hanno presentato una piccola parte. E mentre non è
logico inserire le altre in un’introduzione, bisogna esporre,
invece, tutte quelle che gli Stoici disposero in modo concor-
de con Aristotele. Ebbene, lasciata cadere l’antica defini-
zione relativa ai contrari, di cui anche prima abbiamo fatto
menzione, ossia tutte le cose che nel genere sono massima-
mente distanti tra loro, Aristotele nell’opera Sugli opposti
ne corresse la definizione, mettendola alla prova in molte
specie. E infatti stabilì se le cose che differiscono sono con-
trarie, se la differenza può costituire contrarietà, se ogni
distanza è quella che differisce massimamente, se «le cose
che distano massimamente» è identico a «le cose che diffe-
riscono massimamente», qual è la distanza e come bisogna
venire a sapere che vi è la massima distanza. E se queste
cose appaiono assurde, bisogna aggiungere qualcosa al ge-
nere, perché la definizione sia «le cose che massimamente
sono distanti nel medesimo genere». E stabilì quali assurdi-
tà conseguono a questa <definizione>, se la contrarietà è
alterità, se sono contrarie le cose che sono massimamente
diverse, e altre obiezioni in numero maggiore.
p. 388, 13-14: questa è la minima parte delle cose di cui
Aristotele nella trattazione Sulle contrarietà10 sviluppò i
problemi.

2 (R2 116, R3 119)

Simpl., In Arist. Cat., p. 388, 21: I seguaci della Stoa si servi-


rono, dunque, di tutte queste cose e seguirono immantinen-
te Aristotele nelle altre definizioni concernenti i contrari,
avendo egli dato le basi per esse nello scritto intitolato Sui
contrari, basi che essi elaborarono nei loro libri [...] p. 389,
4-10: essendo l’insegnamento stoico di questo genere, vedia-
112 OPERE LOGICHE
SUI CONTRARI 113

mo come lo trassero dalla tradizione di Aristotele. Questi,


infatti, nell’opera Sugli opposti afferma che la giustizia è
contraria rispetto all’ingiustizia; non afferma però che il
giusto si dice come contrario dell’ingiusto, ma che si dispo-
ne in modo contrario <all’ingiusto>. E se queste cose sono
contrarie, egli sostiene, «contrario» si dirà in due sensi: ché, i
contrari si diranno o per sé: per esempio, virtù e vizio, movi-
mento e stasi; oppure per il fatto di partecipare di contrari:
per esempio, ciò che è in movimento a ciò che è in quiete e
ciò che è buono a ciò che è cattivo.

3 (R2 117, R3 120)

Simpl., In Arist. Cat., p. 389, 25 – 390, 7: perciò <Crisippo>


afferma che, mentre la saggezza è contraria alla stoltezza, la
definizione non è più, in corrispondenza, contraria alla defi-
nizione. Ma facendo riferimento a quelle cose,11 essi12 oppo-
nevano anche le definizioni, <ma> secondo un’unione. Que-
ste cose13 in Aristotele, che lo segnalò per primo, erano di-
stinte, non ritenendo egli giusto che un contrario non si pos-
sa porre assieme alla definizione di un contrario: per esem-
pio, che la saggezza non è il contrario dell’ignoranza dei be-
ni, dei mali o di nessuno dei due, ma <ritenendo giusto>
semmai opporre una definizione a una definizione secondo
un’unione e di dirle contrarie per il fatto di essere <defini-
zioni> di cose contrarie. E applica pienamente un accorgi-
mento tecnico, ossia che un discorso definitorio è contrario
a un discorso <definitorio> nel caso in cui qualcosa sia con-
trario al genere o alle differenze o a entrambi; per esempio,
la definizione di «bene», se per caso è questa, è «proporzio-
ne delle parti tra loro»; contrario a essa è «sproporzione del-
le parti tra loro».14 E si dà la contrarietà al genere, ma in altri
casi alle differenze: per esempio, il bianco è il colore capace
di scindere la visione, il nero il colore capace di comporla; in
questi casi il genere è il medesimo, mentre la contrarietà è
114 OPERE LOGICHE
SUI CONTRARI 115

secondo le differenze. Si è detto, dunque, come un discorso


<definitorio> è contrario a un discorso <definitorio>; anche
i discorsi atti a mostrare l’essenza saranno contrari. Ma è
sufficiente che questi argomenti siano stati portati fino qui.

4 (R2 118, R3 121)

Simpl., In Arist. Cat., p. 390, 19-25: lo stesso Aristotele nel


libro Sugli opposti condusse questa ricerca: se chi perde
uno dei due <contrari> non necessariamente assume l’al-
tro, vi è forse qualcosa in mezzo a essi o non vi è del tutto?
Infatti, chi perde l’opinione falsa non assume necessaria-
mente l’opinione vera, né chi perde quella vera assume ne-
cessariamente l’opinione falsa, ma talvolta muta da
quest’opinione o nel non assumere assolutamente nulla o
nella scienza, e tra un’opinione vera e una falsa nulla è a
mezzo se non si tratta di ignoranza né di scienza.

5 (R2 119-120, R3 122-123)

Simpl., In Arist. Cat., p. 402, 26: Simpl., In Arist. Cat., 402, 26:
assurdamente <Nicostrato>,15 costruendo le argomentazio-
ni oppositive a partire dalle privazioni concernenti il costu-
me, sostiene di mutare anche la privazione nel possesso [...]
30: Invece Aristotele non assunse il possesso e la privazione
nelle argomentazioni oppositive che muovono dal caratte-
re, ma in quelle per natura, per le quali l’antitesi secondo il
possesso e la privazione si dice anche in senso principale.
Serviamoci dunque delle stesse tesi di Aristotele contro Ni-
costrato. Infatti, nello scritto Sugli opposti egli sostiene che
alcune privazioni si proferiscono delle cose secondo natura,
altre delle cose che si collocano nell’ambito del costume, al-
tre dei guadagni, altre di altri soggetti: la cecità fa parte del-
le cose per natura, la nudità di quelle che si collocano
nell’ambito del costume, la privazione di denaro di quelle
116 OPERE LOGICHE
SUI CONTRARI 117

che sopraggiungono nell’uso. Ma vi sono anche altre priva-


zioni, in numero maggiore, e da alcune privazioni non è pos-
sibile una liberazione, da altre è possibile [...] 403, 5-24: ma
dal libro aristotelico e crisippeo è possibile assumere la pie-
na dottrina sulle privazioni, e anche Giamblico ne trascrisse
una che suona in questi termini: “Poiché avere si dice in
molti sensi, come già abbiamo mostrato, la privazione si
estende a tutti i significati di avere, ma non si estende, inol-
tre, anche ai contrari. Infatti, la privazione è qualcosa
d’uguale a una distruzione, per cui non si può parlare di pri-
vazione di un male, poiché neppure si può avere distruzione
di un male o di una cosa dannosa, ma di un bene o di una
cosa utile. In effetti, colui che si è liberato di una malattia o
della povertà, non si può dire che è stato privato di una ma-
lattia o della libertà, ma piuttosto colui che ha subito la per-
dita della salute o della ricchezza. La cecità è privazione di
un bene (infatti la vista è un bene), mentre la nudità è priva-
zione di un indifferente (infatti il mantello è un indifferente,
ossia non è né un bene né un male). Per questo nessuna
privazione è un bene, ma o è un male o è un indifferente. E
si può avere privazione o di tutti i beni o della stragrande
maggioranza. Ma Aristotele afferma che non si verifica pri-
vazione dei beni che risiedono nell’anima e che riguardano
la scelta deliberata. Nessuno, infatti, dice di essere privato
della giustizia e chi dice ‘nessuno sopporta la scienza’ parla
a partire dalla medesima concezione. Dunque, le privazioni
hanno piuttosto per oggetto la ricchezza, la fama, i beni di
questo genere e, soprattutto, i cosiddetti beni concernenti il
possesso. Per questo alla stragrande maggioranza delle pri-
vazioni fanno seguito compassione e pietà”. Tuttavia Ari-
stotele paragona ora (scil. nelle Categorie) l’antitesi delle
privazioni naturali a quella dei contrari. Ma di questi argo-
menti si è detto a sufficienza.
118 OPERE LOGICHE
SUI CONTRARI 119

6 (R2 121, R3 124)

Simpl., In Arist. Cat., 490, 15: alle cose dette sui contrari ag-
giunge queste [...] 17: che al bene è totalmente contrario un
male, ma al male talvolta è contrario un bene, talvolta un
male16 [...] 30: nell’opera Sugli opposti a questi modi dei
contrari ha aggiunto anche quello delle cose che non sono
né beni né mali in rapporto alle cose che non sono né beni
né mali, dicendo così che il bianco si oppone come contra-
rio al nero, il dolce all’aspro, l’acuto al pesante, la quiete al
movimento17 [...] 410, 25-30: Nicostrato <gli> muove un
rimprovero, che la distinzione dei contrari è imperfetta. In-
fatti, non ha aggiunto che anche un indifferente si oppone
come contrario a un indifferente.18 Ma in realtà questo nel
libro Sugli opposti lo aggiunge, dicendo che vi è un modo
dell’antitesi che è proprio delle cose che non sono né beni
né mali in rapporto alle cose che non sono né beni né mali,
come s’è detto prima.19 Queste cose non le ha chiamate in-
differenti, come ritengo, perché il nome di indifferente, po-
sto dagli Stoici, come si sa è più recente.
120 OPERE LOGICHE

Note
1
La prova decisiva che lo studioso adduce è che Alessandro non
cita il passo della Scelta dei contrari al quale Aristotele fa riferimento
nel Sul bene, ma si limita a richiamare l’allusione dello Stagirita; non
cita passi della Scelta dei contrari neppure là dove, nel corso del suo
commentario alla Metafisica, illustra le tesi aristoteliche in merito alla
dottrina platonica dei principi (chiaro riferimento, lasciato inesplicato
da Moraux, probabilmente a motivo della sua evidenza, al commento
di Metaph., I, 9). Ma Alessandro conosceva lo scritto Sul bene, e d’altro
canto non avrebbe mancato di citare i passi dell’opera aristotelica che
gli serviva per il commento, come si può facilmente desumere dal suo
usuale modo di procedere. Per cui, se la Scelta dei contrari coincidesse
con lo scritto Sul bene, che il commentatore aveva sotto gli occhi, non
si sarebbe limitato a menzionare il semplice rinvio dello Stagirita, ma
lo avrebbe citato direttamente.
2
Sulla dottrina aristotelica della contrarietà in Metaph., X,4 si ve-
da, tra gli altri, la lucida disamina di Rossitto, Opposizione.
3
Si dice, infatti, che sono contrarie (1) le cose, differenti per genere,
che non possono essere contemporaneamente presenti; (2) le cose più
distanti entro un medesimo genere; (3) le cose che entro un medesimo
soggetto atto ad accoglierle differiscono massimamente; (4) le cose
che cadono sotto la medesima facoltà e che differiscono massimamen-
te; (5) ciò che differisce massimamente (a) o in senso assoluto, (b) o
secondo il genere (c) o secondo la specie; (6) le cose che (a) possiedo-
no i contrari, (b) o sono atte a ricevere i contrari, (c) o sono atte a
produrre o a patire i contrari; (d) o producono o patiscono i contrari;
(e) sono perdite o acquisizioni di contrari; (f) possessi o privazioni di
essi (Metaph., V, 10, 1018 a 20- 38).
4
Cfr. Zanatta, Metafisica, nota n. 140 nel commento del libro deci-
mo, dove ho altresì presentato lo status quaestionis e le soluzioni che
altri studiosi hanno proposto
5
In proposito cfr. la nota n. 15.
6
Come le specie dell’ente sono da individuare nelle categorie, os-
sia nei significati in cui originariamente si divide l’ente in quanto ente,
così le specie dell’uno sono i significati che l’uno stesso assume origi-
nariamente, ossia nelle differenti categorie. E nella sostanza l’uno si-
gnifica l’identico, nella quantità l’uguale, nella qualità il simile (cfr.
Metah., X, 3, 1054 a 30-31). Ebbene, poiché l’uno e l’ente sono «la stes-
sa cosa e una sola natura» (cfr. Metaph, IV, 2, 1003 b 23), alla medesi-
ma, unica scienza che studia l’ente in quanto ente, ossia alla filosofia
prima in quanto ontologia, compete di studiare anche l’uno. E poiché
l’uno si dice in molti significati, a tale, unica scienza, competendo di
studiare che cos’è l’uno, compete eo ipso di studiare che cos’è l’identi-
co, che cos’è l’uguale, che cos’è il simile e così via. Non soltanto, ma vi
compete di studiare anche che cos’è ciascuno dei contrari di queste
SUI CONTRARI 121

determinazioni, vale a dire il diverso, il disuguale e il dissimile, giacché


la scienza dei contrari è la medesima, e all’uno si riconducono in ulti-
ma analisi i contrari dei suoi originari significati. In quanto tale, l’uno
è «principio». È quanto si riscontra al fondo del commento di Alessan-
dro secondo cui «con “principio” <Aristotele> intende la coppia dei
contrari costituita dall’uno e da ciò che è opposto all’uno, ossia i molti.
Infatti, l’identico è un’unità, mentre il diverso è una molteplicità e in
una molteplicità. Allo stesso modo il simile e l’uguale sottostanno
all’uno, mentre il dissimile e il disuguale sottostanno al molteplice»
(Alex., In Arist. Metaph., 250, 14-18).
7
Cfr. Metaph., X, 3, 1054 a 20 ss., dove Aristotele, richiamato che
l’essere dell’uno è l’essere l’indivisibile (come ha determinato in Me-
taph., X, 1, 1052 b 16: to# eèni# eiè^nai to# aèdiaire@twj eèstˆn eiè^nai) e, di conse-
guenza, che l’essere dei molti è il divisibile, <I> dapprima stabilisce
che l’opposizione tra l’uno e i molti è per contrarietà, non essendo
ammissibile che (a) l’indivisibile, assunto nella valenza di uno, sia la
negazione del divisibile, assunto nella valenza di molteplice e con ciò
escludendosi che si tratti di contraddittorietà, (b) né essendo ammissi-
bile che il primo sia privazione del secondo, (c) né che il rapporto sia
tra relativi. <II> Indi, posto che l’uno come indivisibile si chiarisce a
partire dal molteplice in quanto divisibile, essendo quest’ultimo più
noto rispetto a noi, ossia secondo la sensazione, Aristotele stabilisce
che <A> uno significa (1) identico, (2) simile, (3) uguale; <B> molte-
plice significa (1) diverso, (2) dissimile, (2) disuguale. <A> Indica
quindi i significati (1) di identico, stabilendo che è tale ciò che è uno
(a) secondo il numero, (b) secondo il numero e la nozione, vale a dire
sia per la materia che per la forma, (c) secondo la nozione della so-
stanza prima, vale a dire per il fatto di avere la medesima forma o es-
senza; (2) di simile: sono tali (a) le cose che, essendo diverse come
concreti individui, hanno identica forma; (b) le cose cui ineriscono af-
fezioni qualitative del medesimo grado; (c) le cose che hanno la mede-
sima affezione qualitativa, indipendentemente dal relativo grado; (d)
le cose che hanno più aspetti identici che diversi. <B> Indica quindi i
significati di diverso, stabilendo che è tale (a) l’opposto di identico; (b)
ciò di cui tanto la materia quanto la nozione non sono unitarie; (c) ciò
la cui nozione non è unitaria. <III> Precisa poi che identico e diverso
si oppongono come contrari e non come contraddittori (il contraddit-
torio di identico è non-identico). <IV> Da ultimo stabilisce che sono
diverse le cose che si distinguono in senso generale, mentre sono diffe-
renti le cose che si distinguono per un particolare, identico aspetto, il
quale può riguardare o il genere (cosicché le cose sono differenti per
genere) o la specie (cosicché le cose sono differenti per la specie).
8
Riportato anche come fr. 5/1 del Sul bene.
9
Riportato anche come fr. 5/3 del Sul bene.
10
Questo lo@gov Sulle contrarietà (peri# eènantioth@twn) non è certa-
mente un’opera, oltre quelle Sui contrari (o Sulla scelta dei contrari) e
Sugli opposti, bensì, con ogni verosimiglianza, una parte (lo@gov ha qui,
122 OPERE LOGICHE

infatti, il significato di trattazione ed equivale perciò a pragmatei@a) o,


forse, un intero libro di quest’ultimo scritto. Sulle contrarietà potrebbe
così essere il titolo di questa sezione del trattato Sugli opposti. In effet-
ti, com’è detto da Simplicio nella prima parte del frammento, in que-
sto trattato la dottrina aristotelica della contrarietà era esposta anche
in funzione della formulazione e della soluzione di molte «aporie»,
ossia di molti problemi filosofici. Per «contrarietà» (eènantioth@seiv) so-
no perciò da intendersi questi problemi, qualificati con tale termine
(che probabilmente costituiva il titolo della parte dello scritto Sugli
opposti in cui l’autore ne trattava o, quanto meno, il titolo col quale gli
Stoici indicavano questa parte dello scritto) a motivo del fatto che i
problemi (le «aporie») consistevano in concezioni, per l’appunto, con-
trarie, intorno a determinati argomenti; concezioni effettivamente so-
stenute da precedenti filosofi e semplicemente presentate come possi-
bili dall’autore dello scritto.
11
Ossia «cose» come la saggezza e la stoltezza, vale a dire a realtà
che sono contrarie in se stesse e in senso assoluto, senza cioè bisogno
di qualcos’altro, come un’aggiunta.
12
Ossia gli Stoici.
13
Ossia «cose» come la saggezza e la stoltezza, da un lato, e le defi-
nizioni, dall’altro.
14
Chiaro eco della teoria di Platone secondo cui la giustizia è ar-
monia delle parti dell’anima (Resp., IV, 434 c-436 a; 441 c-443 b), men-
tre l’ingiustizia è disordine e subbuglio tra esse (cfr. Ivi, IV, 444 a-e). In
proposito si veda l’Introduzione, ante, p. 98.
15
Sul platonico Nicostrato di Atene, autore di uno scritto polemico
contro le Categorie di Aristotele, si veda Moraux, Aristotelismus, pp. 97 ss.
16
Il riferimento è alla dottrina aristotelica delle virtù etiche, le qua-
li, notoriamente, costituiscono il giusto mezzo tra un difetto e un ec-
cesso, che sono entrambi vizi, ossia mali. Ora, rispetto a uno dei due
estremi (che è un male), e cioè al difetto o all’eccesso, sono contrari sia
il mezzo (cioè un bene), sia l’altro estremo (cioè un altro male). È
quanto Aristotele espone in Eth. nic., II, 8.
17
Come si vede, se si eccettua la coppia acuto/pesante, tra i quali
non si vede come possa sussistere contrarietà, tutte le altre specificano
termini che aristotelicamente designano indiscutibilmente dei contra-
ri. Si tratta di termini riferibili a realtà naturali, e probabilmente per
questo l’autore del trattato Sugli opposti, che, pur essendo con ogni
verosimiglianza un Peripatetico, sul punto assimila però la dottrina di
Aristotele con quella degli Stoici, constatando che detti termini fuori-
escono dalla sfera dell’etica, dice che si riferiscono a «cose che non
sono né beni né mali», intendendo con ciò gli indifferenti stoici, come
comprova il successivo rilievo di Simplicio, il quale, trovando probabil-
mente attestato, direttamente o indirettamente, nello scritto Sugli op-
posti l’identificazione del concetto aristotelico di «ciò che non è né
buono né cattivo» con quello stoico di «indifferente», può così ribatte-
SUI CONTRARI 123

re a Nicostrato, che accusava l’autore del suddetto trattato e, dietro di


lui, lo stesso Aristotele di non aver tenuto conto del fatto che anche gli
indifferenti possono essere contrari, e rispondergli che, in realtà, si è
tenuto conto anche di questo tipo di contrari, adducendo a prova la
contrarietà proprio dei termini qui richiamati (bianco/nero, dolce/
aspro, ecc.). Ma è una sovrapposizione surrettizia, questa che assimila
ciò che per lo Stagirita non è né buono né cattivo con ciò che per gli
Stoici è un indifferente. In realtà, per Aristotele ciò che non è né buo-
no né cattivo non ha niente a che fare con gli «indifferenti» stoici, né
riguarda quei contrari fisici, quali bianco/nero, dolce/aspro, ecc., ai
quali malamente l’autore dello scritto Sugli opposti lo assimila, ma de-
nota lo stato etico di chi, senza essere ancora virtuoso, ossia senza ave-
re ancora acquisito l’abito della virtù, sta tuttavia compiendo (sotto la
guida di un maestro e, soprattutto, delle leggi) quegli atti virtuosi per
la cui abituale esecuzione giungerà a possedere la virtù (in proposito
cfr. Eth. nic., II, 1; Metaph., X, 4, 1055 b 23-25 nonché la nota n. 287 di
Zanatta, Metafiusica, libro V). È opportuno far presente che «pesan-
te», ove fosse correttamente opposto a «leggero», designando questo
secondo la qualità peculiare di ciò che si porta verso l’alto (il fuoco,
innanzitutto, e poi l’aria) e il primo quella di ciò che si porta verso il
basso (la terra, innanzitutto, e poi l’acqua) sarebbe servito, assieme al
leggero, a indicare non soltanto il termine di una coppia di determina-
zioni autenticamente contrarie, ma tali da costituire, per Aristotele, i
paradigmi stessi della contrarietà secondo il luogo: in quanto proprietà
di «alto» e «basso» che per lo Stagirita non sono direzioni né posizioni,
bensì «luoghi propri», in riferimento ai quali si definisce primariamen-
te nell’ambito fisico la contrarietà. Infatti, gli altri luoghi contrari, ossia
sinistra/destra e avanti/indietro, sono successivi ad alto/basso.
18
Per esempio, la malattia alla salute. Entrambe, infatti, nell’ottica
della morale stoica sono «indifferenti» (ancorché la seconda rappre-
senti un «indifferente preferito», mentre la prima un «indifferente re-
spinto»), e sono contrari.
19
Da tutto ciò ritengo che sarebbe azzardato sostenere che Nico-
strato non aveva letto lo scritto Sugli opposti e così non si era potuto
avvedere del fatto che, con la contrarietà di ciò che non è né un bene
né un male a ciò che non è né un bene né un male, era posta in campo
anche la contrarietà di un indifferente a un indifferente. Ritengo inve-
ce più consono opinare che Nicostrato lesse quello scritto e prese atto
dell’identificazione operata dal suo autore dei due concetti, ma, rite-
nendola surrettizia, ebbe così modo di denunciare che nel quadro del-
le opposizioni per contrarietà presentato in quello scritto stesso man-
cava quella di un indifferente a un indifferente.
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struxit E. Mioni, Padule 1958.
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telis Categorias commentarium, edidit A. Busse, Berolini
1898; rist. Berlin, De Gruyter 1961.
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gen versehen von H. G. Zekl, Hamburg, Meiner 1998.
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trariety, London, Routledge & Kegan 1957.
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Ch., Berlin, Walter de Gruyter 1984; tr. it. di V. Cicero,
L’aristotelismo presso i Greci, volume secondo, tomo se-
condo: L’aristotelismo nei non-Aristotelici nei secoli I e II
d.C., introduzione di G. Reale, Milano, Vita e Pensiero
2000.
Reale, Metafisica = Aristotele, La Metafisica, Introduzione,
traduzione e commento di G. Reale, 2 voll., Napoli, Lof-
fredo 1968.
Reale, Metaph. = Aristotele, Metafisica, saggio introduttivo,
testo greco a fronte e commentario a cura di Giovanni
Reale. Edizione maggiore rinnovata. Vol. I: saggio intro-
duttivo e indici; Vol. II: Testo greco con traduzione a
fronte; Vol. III: Sommari e commentario, Milano, Vita e
Pensiero 1993, rist. 1995.
Rossitto, Opposizione = Rossitto C., Opposizione e non
contraddizione nella “Metafisica” di Aristotele, in Aa.
Vv., La contraddizione, a cura di E. Berti, Roma, Città
Nuova 1977, pp. 34-51.
Syrian., In Arist. Metaph. = Syriani, In Aristotelis Metaphy-
sica commentaria, edidit W. Kroll, Berolini 1902.
Zanatta, Metafisica = Aristotele, Metafisica, monografia in-
troduttiva, testo greco, traduzione, commento e indici
analitici di M. Zanatta, 2 voll., Milano, Rizzoli 2009.
PARTE SECONDA
OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE

INTRODUZIONE

1. Lo scritto aristotelico Sul bene (Peri# taègaqou^) è riporta-


to al n. 20 del catalogo di Diogene Laerzio, che lo indica in
tre libri, al n. 20 del catalogo dell’Anonimo, che lo presenta
in un solo libro e al n. 9 del catalogo di Tolomeo, che lo se-
gnala in cinque libri. Ne dà notizia altresì la Vita marciana
(p. 433, 10-15 = fr. 1) e lo ricordano i commentatori di Ari-
stotele, a partire da Alessandro, che ne fa espressamente
menzione in più luoghi (In Arist. Metaph., 56, 35 = fr. 2; 85,
16-18 = fr. 2; 59, 28 – 60, 2 = fr. 4; 250, 17-20 = fr. 5; 262, 18-26
= fr. 5) ed è con ogni probabilità la fonte alla quale si rifan-
no anche gli altri, e cioè Giovanni Filopono, Asclepio, Sim-
plicio e lo Ps. Alessandro (nei passi raccolti nelle Testimo-
nianze e nei frr. 2, 5 e 6).
In merito al numero di libri in cui lo scritto era redatto è
pressoché impossibile esprimersi con sicurezza. Se si dà
credito alla testimonianza di Alessandro, che conosceva di-
rettamente lo scritto aristotelico e in due circostanze fa
espresso riferimento a un secondo libro (In Arist. Metaph.,
p. 250, 17-20 = fr. 5; 262, 18-26 = fr. 5), è ragionevole credere
che lo scritto constasse di più libri, sì da ritenere poco pro-
babile la notizia della sua composizione data dall’Anoni-
mo, e che Aristotele abbia organizzato la materia in modo
da esporre in un libro o più libri la dottrina dei principi,
144 OPERE FILOSOFICHE

essendo questa, come subito vedremo, l’oggetto dell’opera,


e formulare in un altro libro o in altri libri le sue critiche a
essa. Che i libri fossero complessivamente due, è l’ipotesi
più probabile. Ciò comporterebbe che in un solo libro lo
Stagirita abbia raccolto assieme ed esposte le dottrine di
Platone e dei Platonici, e in un altro le abbia prese in consi-
derazione insieme per muovervi contro obiezioni, senza
mescolarle, ovviamente, ma neppure senza separarle così
nettamente da impiegare più libri per ricostruire, in alcuni,
e criticare, in altri le dottrine accademiche separatamente
considerate. Una distinzione, questa, che non è confacente
allo Stagirita neppure là dove, in Metaph., XIII e XIV, espo-
ne e critica le teorie dei numeri di Platone e degli Accade-
mici. Donde, come si diceva, l’ipotesi più ragionevole è che
l’opera sia consistita in due libri. Già quest’architettura ne
metterebbe allora in risalto la complessità e la vastità, le
quali caratteristiche risulterebbero ancor più marcate se si
dovesse dar fede alla notizia che ne vuole la composizione
in più libri ancora.

2. S’è detto che il contenuto dello scritto riguarda la dottri-


na dei principi, e ciò è quanto risulta dalle testimonianze e
da tutti i frammenti, il cui esame pone altresì in evidenza,
come analiticamente vedremo, che i principi in causa sono
di natura matematica. Tanto che Alessandro, nel presentar-
li, afferma che essi, pensati dagli Accademici come principi
delle Idee e, di conseguenza, dell’intero esistente, erano
fatti coincidere con i principi del numero (cfr. In Arist. Me-
taph., p. 55, 20-57, 28 = fr. 2; 85, 15-18 = fr. 2 e la nota n. 2 di
questa Introduzione). Mette conto, allora, illustrare perché
mai l’opera faccia riferimento al bene, fin già nello stesso
titolo. Il fatto si è che, come si ricava dalla testimonianza di
Aristosseno (Harm., 2, 20, 16 – 31, 3) ed è riconosciuto da-
gli studiosi che ammettono l’esistenza delle cosiddette
«dottrine non scritte» (aògrafa do@gmata) di Platone, queste
SUL BENE 145

riguardavano, per l’appunto, l’esposizione dei principi, alla


quale Platone dedicò una famosa lezione in cui annunciava
che avrebbe parlato del bene. La connessione tra il bene e i
principi si salda sulla circostanza che al primo nella Repub-
blica è assegnata la funzione di principio delle Idee, nella
duplice valenza di ratio essendi, in quanto è ciò che ne spie-
ga l’essere, e di ratio cognoscendi, essendo ciò che da un
lato le rende intelligibili e, dall’altro, rende l’intelletto intel-
ligente, ossia capace di coglierle – al modo in cui sul piano
sensibile il sole, del quale il bene è l’analogo sul piano
dell’intelligibile, causa la vita delle cose sensibili e rende, da
un lato, visibili queste cose stesse, dall’altro veggente l’oc-
chio (Resp., V, 580 a ss.). Le Idee, infatti, fin dalla loro istitu-
zione, individuabile nel celebre passo del Fedone (99 e ss.)
in cui Socrate raccolta di aver compiuto una «seconda navi-
gazione» e di aver ricercato la cause delle cose non più nel-
le cose stesse, ma nei lo@goi, sono presentate come «ipotesi»
(uépoqe@seiv) e come «postulati» (aièth@mata): ossia come cau-
se paradigmatiche che bisogna «ipotizzare» per dar conto
delle cose sensibili, ovvero come ciò che è richiesto, e cioè
«postulato», per renderne ragione. Cosicché, per dar conto
di quelle ipotesi e di quei postulati che sono le Idee, occor-
re ipotizzare e postulare l’esistenza di altre Idee, e queste a
loro volta richiedono che si ipotizzino e si postulino altre
Idee ancora, fino a pervenire, in questo procedimento che
segna un momento essenziale della dialettica nella sua li-
nea ascendente, a un principio anipotetico, espresso, per
l’appunto, dal bene. Se, dunque, il bene è il principio delle
Idee e quindi, in ultima analisi, essendo le Idee le cause del-
le realtà sensibili, della totalità dell’esistente, una volta ri-
conosciuto, come effettivamente Platone riconobbe nell’ul-
tima fase della sua filosofia, che esse hanno natura mate-
matica e i loro principi sono i principi stessi dei numeri,
trattare del bene equivaleva a trattare dei principi mate-
matici delle Idee.
146 OPERE FILOSOFICHE

Da qui, il disagio in cui vennero a trovarsi gli uditori di


quella lezione, secondo quanto testimonia Aristosseno, che
riferisce un racconto dello stesso Aristotele; questi, infatti,
vi assistette e, come altri che la udirono (cfr. Simpl., In Ari-
st. Phys., p. 151, 6-19 = fr. 2; pp. 453, 25-454, 19 = fr. 2), ne
stese un resoconto, il quale costituisce il nucleo del Peri# aè-
gaqou^. Ora, Aristosseno narra che la stragrande maggio-
ranza di coloro che parteciparono alla lezione sul bene,
erano andati ad ascoltare Platone «supponendo che avreb-
be preso uno di questi che sono ritenuti beni umani, ossia
la ricchezza, la salute, la forza, complessivamente una qual-
che meravigliosa felicità. Ma quando risultò che i discorsi
vertevano sulle matematiche, sui numeri, sulla geometria,
sull’astronomia e, alla fine, che il bene è l’uno, si manifestò
loro qualcosa, credo, di completamente paradossale».

2.1 Parlando della dottrina dei principi si è fatto riferimen-


to agli «studiosi che ammettono l’esistenza delle cosiddette
“dottrine non scritte”» (aògrafa do@gmata) di Platone. In
realtà, la dottrina dei principi che Aristotele attribuisce a
Platone non si trova enunciata in nessuno dei Dialoghi, an-
che se nel Flebo e nel Timeo si rinvengono considerazioni
teoriche che non soltanto sono del tutto compatibili con
essa, ma sembrano esserne un palese richiamo e un’elo-
quente attestazione. Donde il problema della veridicità
delle affermazioni dello Stagirita, ad alcuni studiosi essen-
do sembrato che esse non ne abbiano alcuna, ma le «dottri-
ne non scritte» siano soltanto un’invenzione di Aristotele,
che attribuì al maestro questa teoria al solo fine di poterne
più drasticamente e più vigorosamente muovere obiezioni;
in realtà, Platone non l’avrebbe mai professata. È la tesi
radicale che trova in Cherniss il suo più deciso e notevole
assertore,1 ma che a vario titolo annovera tra i suoi sosteni-
tori anche Ast, il primo Zeller, Techmuüller, Shorey, Kluge,
Ritter, Natorp, Isnardi Parente.2
SUL BENE 147

Si tratta però di una posizione minoritaria, rispetto alla


quale la maggior parte degli studiosi dà credito alla notizia
di Aristotele, ritenendo che Platone abbia effettivamente
professato un dottrina dei principi accanto a quella delle
Idee e che, mentre questa seconda è attestata dai Dialoghi,
la prima è il frutto di un insegnamento orale.
Tuttavia, alcuni di coloro che condividono questa linea
esegetica ritengono che la dottrina dei principi percorra inte-
ramente il pensiero di Platone, costituendone la struttura di
fondo non mai esposta ex professo, ma non per questo assen-
te dai Dialoghi, nei quali in realtà sarebbe riscontrabile in
espressioni manifestamente allusive di essa.3 Per altri, invece,
essa è assente dai Dialoghi e corrisponde soltanto a un’acqui-
sizione del tardo Platone, che ne fece oggetto di un’esposizio-
ne unicamente orale, nella famosa lezione sul bene.4 È questa
l’opinione oggigiorno più condivisa, la quale, come si vede, è
anche la meno provvista di radicalità nel sostenere un im-
pianto metafisico in Platone sempre e dovunque riscontrabi-
le o nel negarne totalmente l’esistenza.

3. Che il Peri@ taègaqou^ avesse per oggetto la dottrina platoni-


ca dei principi, e quali essi fossero, appare dalle notizie dei
commentatori, e innanzitutto da Alessandro, il quale, serven-
dosi di questo scritto per illustrare alcuni passi della Metafisi-
ca, lo cita espressamente nel commento di luoghi in cui Ari-
stotele parla di tale dottrina in modo molto stringato, indi-
candola come un’elaborazione teorica ulteriore a quella delle
Idee separate e addirittura come contrapposta a essa, o sem-
plicemente vi allude. In tal senso il commento di Alessandro
risulta prezioso, innanzitutto, perché permette di rendersi
conto del motivo di tale e tanta brachilogia dello Stagirita là
dove si riferisce alla dottrina in oggetto, potendosi chiara-
mente intendere che nei passi in cui la presenta in maniera
così scarna egli in realtà riassume argomenti più diffusamen-
te enunciati nel Peri# taègaqou^ e, parimenti, che pure le criti-
148 OPERE FILOSOFICHE

che che succintamente vi muove sono semplici indicazioni di


obiezioni più articolatamente formulate e strutturate in
quell’opera; ma risulta prezioso anche – e soprattutto – per-
ché, presentando il contenuto del Peri# taègaqou^, o in maniera
diretta, attraverso la citazione di suoi brani, o anche riassu-
mendo soltanto il contenuto di altri, permette così di cono-
scere, assieme a siffatte, più scandite formulazioni dottrinali,
le ragioni su cui si reggevano le tesi platoniche intorno ai
principi, e cioè le motivazioni che Platone e gli Accademici
ne portavano a sostegno.

3.1 È quanto paradigmaticamente si riscontra nel commen-


to a Metaph., I, 6, 987 b 18-29. Qui lo Stagirita, confrontan-
do Platone e i Pitagorici, afferma:

poiché le Idee sono cause (aiòtia) per le altre cose, <Platone>


ritenne che gli elementi (ta@ stoicei^a) di esse fossero elementi
di tutti gli enti. Ebbene, <ritenne> che il Grande e il Piccolo
sono principi come materia (wév uçlhn ... aèrca@v), mentre come
essenza (wév ouèsi@an) <è principio> l’Uno. Da quelli, infatti, per
partecipazione all’Uno (kata# me@qexin tou^ eéno@v), derivano le
Idee. Ma in realtà, quanto al fatto che l’Uno è sostanza (ouòsian)
e che qualcosa che sia diverso <da esso> non si predica come
uno, egli disse in modo analogo ai Pitagorici, e come loro si
espresse anche per ciò che attiene all’essere i numeri cause per
le altre cose della loro sostanza. Invece, nell’aver posto in luo-
go dell’illimitato, inteso come unità, una Diade, e che l’illimita-
to deriva dal Grande e dal Piccolo, questo gli è peculiare.5 E
inoltre, egli afferma che i numeri sono accanto alle cose sensi-
bili, mentre essi che i numeri sono le cose stesse, e non pongo-
no gli enti matematici come intermedi tra <quelli e> queste.

Dal passo aristotelico (secondo la lezione di Jaeger, che ho


seguito) si ricava che per Platone le Idee, le quali sono cau-
sa e dunque principi delle cose, hanno esse stesse due prin-
SUL BENE 149

cipi: un principio formale, consistente nell’Uno, e un princi-


pio materiale, consistente nel Grande e nel Piccolo. Si rica-
va inoltre che le Idee derivano dalla partecipazione (me@qe-
xiv) del Grande e del Piccolo all’Uno, situazione che le
colloca direttamente in rapporto con i numeri pitagorica-
mente intesi, giacché anch’essi derivano, ad avviso di questi
filosofi, dall’azione dell’uno sull’illimitato, in luogo del
quale Platone pose, con identica finzione di principio, per
l’appunto, materiale, la Diade di Grande e Piccolo. Donde
l’ipotesi che le Idee stesse siano numeri, che coincidano
cioè con quei numeri ideali, distinti dai numeri matematici,
di cui ancora Aristotele parla in Metaph., I, 9 e XIV; un’ipo-
tesi che apre un importante e difficile problema esegetico,
il quale si acuisce e si complica anche per un aspetto filolo-
gico. In effetti, nella prima frase del passo in oggetto la tra-
dizione manoscritta, alla riga 22, reca ta# eiòdh eiùnai tou#v
aèriqmou@v: dal Grande e dal Piccolo «per partecipazione
all’Uno derivano le Idee, cioè i numeri», ponendo così che
le stesse Idee sono numeri ideali.
In questo senso intendono Alessandro (In Arist. Metaph.,
53, 5-9) e Asclepio (In Arist. Metaph., 48, 14-18), che pur
legge ta# eiòdh eiùnai <kai#> tou#v aèriqmou@v («derivano le Idee
e i numeri»). Di per sé, tuttavia, il testo non autorizza a
porre una tale identità, ma lascia aperta anche la possibili-
tà che Idee e numeri ideali siano diversi, potendosi indivi-
duare nel testo tradito (ta# eiòdh eiùnai tou#v aèriqmou@v ) un
nesso asindotico (dal Grande e dal Piccolo «per partecipa-
zione all’Uno derivano le Idee, i numeri») e, al di là dell’in-
terpretazione che dà Asclepio, coincidente nella sostanza
con quella di Alessandro, l’aggiunta di kai@ da lui proposta
avalla indiscutibilmente la separazione dei due tipi di enti
ideali.
Questa stessa ambivalenza si rafforza negli emendamen-
ti avanzati dai moderni editori. Ross (Metaph., I, p. 172),
pur avvertendo che la soppressione di ta# eiòdh o di tou#v
150 OPERE FILOSOFICHE

aèriqmou@v lascia il senso invariato, espunge tuttavia ta# eiòdh;


così aveva già fatto Gillespie. Al contrario Jaeger, seguendo
Christ, espunge tou#v aèriqmou@v. La frase scandisce presso-
ché identicamente il seguente pensiero: le Idee per Platone
sono causa delle altre cose; ma le Idee hanno come loro
elementi, ossia come loro principi, il Grande e il Piccolo, in
funzione di principio materiale, e l’Uno, in funzione di prin-
cipio formale: infatti esse derivano per partecipazione del
Grande e del Piccolo all’Uno. Di conseguenza, i suddetti
principi delle Idee sono causa di tutte le cose. Così secondo
il testo stabilito da Christ e Jaeger. Il testo proposto da Gil-
lespie e Ross richiede un passaggio ulteriore, ma lascia in-
variata la sostanza speculativa: le Idee per Platone sono
causa delle altre cose; ma esse derivano dalla partecipazio-
ne del Grande e del Piccolo (in funzione di principio mate-
riale) all’Uno (in funzione di principio formale), quel
Grande e Piccolo e quell’Uno che sono altresì principi dai
quali derivano i numeri; dunque, questi principi sono cause
anche delle altre cose. Come si vede, l’identità delle Idee
con i numeri ideali non risulta né asserita né smentita da
nessuna delle due lezioni.
Né risolve la questione la seconda frase, dove Aristotele
istituisce un confronto tra Platone e i Pitagorici. (1) Due
aspetti avvicinano le rispettive posizioni: (a) i Pitagorici han-
no posto l’Uno come sostanza, nel significato di essenza; lo
stesso è per Platone, giacché per costui l’Uno non si predica
che di se medesimo; (b) i Pitagorici hanno posto i numeri
come cause delle cose; parimenti fa Platone, dal momento
che, come s’è visto nella frase precedente, dal Grande e dal
Piccolo e dall’Uno derivano i numeri ideali (siano essi coin-
cidenti o meno con le Idee), e se, come s’è detto, il Grande e
il Piccolo e l’Uno sono cause di tutte le cose e da essi deriva-
no i numeri ideali, questi saranno causa di tutte le cose. (2)
Tuttavia, (a) i Pitagorici come principio materiale dei nume-
ri pongono l’illimitato, ossia un principio unico e unitario;
SUL BENE 151

Platone pone invece una Diade, coincidente con quel Gran-


de e quel Piccolo nel quale già in precedenza aveva indicato
la causa materiale (cfr. 987 b 20) e che esprime l’infinitudine
nella duplice direzione della grandezza e della piccolezza.
(b) Lo stesso illimitato pitagorico (quale principio materiale
da cui, in seguito all’azione dell’Uno, si generano i numeri)
deriva per Platone dalla diade di Grande e Piccolo.
Il fatto si è che – occorre precisare – i numeri in questio-
ne al punto 2/a per i Pitagorici sono numeri matematici (os-
sia aggregati di unità, pensate a loro volta come monadi
dotate di posizione o volumi minimi, donde la loro esisten-
za concreta e, di conseguenza, la loro coincidenza eo ipso
con le cose, come vien detto subito appresso; in quanto tale,
ciascuno di essi deriva dall’azione limitante dell’uno, che
svolge perciò funzione di principio formale, su una materia
infinita avente esistenza reale, ossia fisica), mentre per Pla-
tone si tratta di numeri ideali, ciascuno dei quali deriva
dall’azione dell’Uno (principio formale intelligibile) su una
materia intelligibile costituita dalla diade di Grande e Pic-
colo. Essa rappresenta a sua volta, in quanto materia intel-
ligibile, la forma di quell’infinità fisicamente esistente che
costituisce la materia dei numeri pitagoricamente, ossia
matematicamente intesi. Essa, infatti, specifica l’infinità
della materia fisicamente esistente nella duplice direzione
della grandezza e della piccolezza, vale a dire dell’aumento
e della diminuzione, e l’azione dello specificare è pur sem-
pre un’azione formale, ond’è che la Diade stessa, principio
materiale dei numeri ideali, è, per così dire, la forma del
principio materiale dei numeri matematici. Questi poi co-
me loro principi formali hanno i numeri ideali, nel senso
che ciascuno di tali numeri, che sono limitati alla decade,
esprimendo la dualità, la ternità, la quaternità e così via,
esprime per ciò stesso l’unità formale dei due, dei tre, dei
quattro e così via quali quantità unitariamente determinate
(in quanto costituite dall’aggregazione di due, di tre e di
152 OPERE FILOSOFICHE

quattro unità) su una quantità illimitata. La sottolineatura


della differenza del principio materiale (l’illimitato per i
Pitagorici, il Grande e il Piccolo per Platone) su cui fissa
l’attenzione Aristotele mi sembra marcare questa diversità
tra numeri ideali e numeri matematici. Ma al di là di questo
pur importante, specifico aspetto, la coincidenza o meno
tra Idee e numeri ideali, nella loro distinzione dai numeri
matematici, resta indecisa.
Tuttavia ciò su cui in questo momento interessa fissare
primariamente l’attenzione è l’impianto della testimonian-
za aristotelica. Essa informa che le Idee, cause, e cioè prin-
cipi, delle cose, hanno esse medesime due principi; indica
quali Platone pensava che fossero: l’Uno e la Diade di
Grande e Piccolo; accosta questo secondo principio all’illi-
mitato dei Pitagorici e confronta le due posizioni, ma non
dice perché proprio l’Uno e la Diade di Grande e Piccolo
erano indicati da Platone come principi delle Idee e, in par-
ticolare, perché Platone nella funzione di principio materia-
le delle Idee sostituiva l’infinito dei Pitagorici con il Gran-
de e il Piccolo.
In particolare, nel prosieguo del passo Aristotele, dopo
aver mosso una critica a questa dottrina dell’Uno e della
Diade, presenta la derivazione dei numeri pari da questo
secondo principio, nei termini sui quali ci soffermeremo
più innanzi; ma non illustra perché i principi siano l’Uno e
la Diade, e anche nell’ipotesi che le Idee coincidano con i
numeri ideali, questo basilare aspetto non risulta trattato.
Altro, infatti, è spiegare «come» i primi quattro numeri di-
spari, ossia le Idee individuate in queste fattispecie di nu-
meri, derivano dalla Diade e altro spiegare «perché» pro-
prio la Diade e non l’infinito pitagorico è il principio da cui
derivano le Idee-numeri.
Una discrepanza, questa, che a proposito dei numeri di-
spari risulta ancor più marcata. Questi numeri, infatti, co-
me spiega Alessandro (In Arist. Metaph., 57, 24-26), «si ge-
SUL BENE 153

nerano con l’aggiunta, a ciascuno dei numeri pari, di una


unità», ma, precisa subito appresso il commentatore, essa
«non è l’Uno inteso come principio, giacché questo non è
un principio materiale, bensì un principio produttore di
forma», ossia: l’unità che, sommata ai numeri dispari, pro-
duce i numeri pari è l’unità matematica, cioè l’uno inteso
come numero matematico che, come tale, rientra nell’am-
bito della materia dei numeri, non l’Uno quale principio
formale di essi. Qui, dunque, ancor più che nel caso dei nu-
meri dispari, la differenza tra «come» si generano i numeri
e «perché» principi dei numeri siano l’Uno e la Diade ap-
pare lampante, dal momento che l’uno in forza del quale si
formano i numeri in oggetto, ossia quelli dispari, è l’uno
aritmetico, laddove l’Uno che presiede alla loro costituzio-
ne è il principio-Uno, ossia il principio che unifica, e cioè
determina, un molteplice. Ché, precisa subito appresso
Alessandro, al fine di marcare la differenza tra l’Uno quale
principio produttore di forma e l’unità aritmetica che inter-
viene nella generazione dei numeri dispari, «come il Gran-
de e il Piccolo diventavano due una volta determinati
dall’Uno, così anche ciascuno di essi si dice che è un’unità
quando è determinato dall’Uno».
Ebbene, nel suo commento al passo di Metaph., I, 6 qui a
tema (= fr. 2) Alessandro spiega «perché» l’Uno e la Diade
di Grande e Piccolo siano stati pensati da Platone, nella ri-
costruzione che ne effettua Aristotele, come principi delle
Idee. Ne fornisce, infatti, quattro giustificazioni, e tutte, per
quanto s’è detto, ripropongono un contenuto del Peri# taèga-
qou^.

3.2 La prima giustificazione («Platone ... tutte le cose»; fr. 2


= Adv. Math., 55, 20 – 56, 5) si struttura in tre passaggi: in-
nanzitutto, sul presupposto che «principio è ciò che è primo
e ciò che è incomposto», si affermano due tesi: (1) il prima-
to dei numeri tra le cose, ossia che i numeri sono principi
154 OPERE FILOSOFICHE

delle cose e (2) il primato delle Idee rispetto alle cose, ossia
che le Idee sono principi delle cose. Sono questi i momenti
decisivi dell’intera argomentazione, l’asse portante sul qua-
le essa si regge.
(1) Il primato del numero è provato attraverso la ridu-
zione delle cose a numeri, con il seguente ragionamento:
«rispetto ai corpi sono prime le superfici – infatti, sono pri-
me per natura le cose più semplici e quelle che non si di-
struggono assieme –, rispetto alle superfici, le linee, secon-
do il medesimo ragionamento, e rispetto alle linee, i punti,
che i matematici chiamavano segni ed essi monadi: realtà
che sono assolutamente incomposte e che non hanno nulla
prima di sé. Ma le monadi sono numeri; dunque, i numeri
sono i primi degli enti».
(2) A giustificazione del primato delle Idee rispetto alle
cose si porta il motivo principe sul quale si fonda la loro
stessa istituzione (nel passo del Fedone, ove il Socrate pro-
sopo narra d’aver compito una seconda navigazione, che si
è sopra richiamato), ossia il fatto che le cose «da esse han-
no l’essere». Si tratta – come si è detto – del motivo di prin-
cipe, e Aristotele, attraverso questa testimonianza di Ales-
sandro, sembra metterlo in luce facendo presente che in
realtà l’esistenza delle Idee era provata anche con altri ar-
gomenti («che esse esistano, <Platone> cerca di dimostrare
con più <argomenti>»), ma il motivo or ora richiamato rag-
giunge la loro stessa essenza e ne esprime la ragion d’esse-
re, ed è perciò quello basilare.
L’esito del ragionamento fin qui istituito è espresso dal-
la conclusione del seguente sillogismo: le cose prime sono i
numeri, ma le Idee sono le realtà prime, dunque le Idee
sono numeri («le forme sono numeri»).
(3) Il terzo momento discende da questa conclusione e
ne costituisce un corollario: se le Idee sono numeri, allora i
principi dei numeri sono eo ipso principi anche delle Idee;
ma principio del numero è l’uno (si tace in questa prima
SUL BENE 155

giustificazione la Diade di Grande e Piccolo), per cui l’uno


è principio delle Idee e, in ultima analisi, di tutte le cose;
precisamente: «se (...) ciò che è uno per forma è primo ri-
spetto agli enti che sono in relazione a esso, e nulla è primo
rispetto al numero, allora le forme sono numeri. Perciò so-
steneva che i principi del numero sono principi delle forme
e che l’uno è principio di tutte le cose».
Due rilievi s’impongono. Innanzitutto occorre osservare
una certa ambiguità nella struttura dell’argomentazione
tra numeri matematici e numeri ideali. Quando, infatti, si
afferma che le cose sono numeri perché i corpi si riportano
alle superfici, queste alle linee, queste ai punti, i quali sono
unità, e il numero è una somma di unità (momento 1), è
evidente che il numero è qui inteso come numero matema-
tico, e parimenti l’uno, principio del numero, è l’unità arit-
meticamente intesa. Per contro, là dove si dice che le Idee
sono numeri (momento 3) è chiaro che i numeri in questio-
ne non sono più quelli matematici, bensì quelli ideali, ovve-
ro le Idee-numeri. Se infatti si trattasse dei numeri mate-
matici e le Idee fossero identificate con essi, la posizione
platonica sarebbe già risolta in quella di Speusippo il quale,
notoriamente, eliminava le Idee e le riduceva a numeri ma-
tematicamente intesi.
Tuttavia, a ben vedere, quest’ambiguità non specifica af-
fatto una confusione, non corrisponde, cioè, a un’indebita
sovrapposizione dell’un tipo di numeri all’altro tipo. Al
contrario, se, con occhio più vigile e superando l’impatto
istantaneo, la si inquadra nel contesto in cui è collocata, si
trova che essa utilizza la nozione di numero a un livello vo-
lutamente anteriore a quelli delle nozioni tecniche di nu-
mero matematico e di numero ideale, una nozione, per così
dire, neutra rispetto a queste due che sono dottrinariamen-
te specificate in quanto corrispondono alla nozione «tecni-
ca» del numero, propria dei Pitagorici e di Platone, laddove
parla di numeri matematici, e alla nozione anch’essa «tec-
156 OPERE FILOSOFICHE

nica» di numero, propria di Platone laddove parla di Idee-


numeri o numeri ideali. Ma proprio qui risiede, a ben vede-
re, il nocciolo del problema e, in fondo, la sua soluzione. Se
infatti si tien conto che ciò che con questa prima giustifica-
zione si intende provare è la tesi che i numeri sono il prin-
cipio delle Idee e, quindi, delle cose, e che questa tesi si col-
loca nel confronto tra i Pitagorici e Platone ed è presentata
come tesi comune alla filosofia di entrambi, è logico che
debba fare riferimento a una nozione di numero che s’adat-
ti sia alla nozione di numero matematicamente, ossia tecni-
camente, inteso (la quale accomuna sia il numero concepito
dai Pitagorici che l’identico tipo di numero ammesso dallo
stesso Platone), sia alla nozione, parimenti tecnica, perché
calibrata in una specifica scansione teorica e provvista di
una propria connotazione dottrinale, del numero ideale,
usata da Platone. Insomma, una nozione di numero che sia
«neutra» tra il numero matematico e il numero ideale e
che, in questa valenza, permetta di asserire che tanto chi ha
concepito il numero secondo una connotazione propria-
mente aritmetica, quanto chi l’ha concepito secondo una
valenza prettamente filosofica e ideale, ha ammesso che il
numero è, in ultima analisi, il principio di tutte le cose.
Con un secondo rilievo occorre poi rimarcare il modo in
cui nel momento 2 Alessandro, riportando con ogni verosi-
miglianza l’espressione aristotelica del Peri# taègaqou^, ha in-
dicato le Idee: «le forme e le idee» (ta# eiòdh kai# aié iède@ai). Si
dice, infatti, «le forme sono prime e le Idee sono prime (ta#
eiòdh prw^ta@ te kai# aié iède@ai prw^tai). Ora, l’uso della correla-
zione te ... kai@, che – notoriamente – indica un nesso strettis-
simo tra i termini, impedisce di attribuire a kai@ valore di «os-
sia» (intendere «le forme, ossia le Idee»). Ove – ancora una
volta – s’inquadri il rilevo nel contesto di comparazione tra
Pitagorici e Platone in cui si colloca la relativa argomenta-
zione, non è difficile vedere che si è cercata, anche qui,
un’espressione che risulti adeguata alle determinazioni con-
SUL BENE 157

cettuali degli uni e dell’altro. «Forme e Idee» sembra adat-


tarsi bene a questa finzione, giacché «forme» (eiòdh) richiama
direttamente le cose nella loro sagoma (nella loro forma, per
l’appunto), e per i Pitagorici le cose si riportano in ultima
analisi ai «corpi» geometricamente intesi e questi, riportan-
dosi alle superfici e poi alle linee e quindi ai punti, si riporta-
no ai loro aspetti visibili, ossia alle loro «forme». Per altro
verso, anche le Idee platoniche sono forme: certamente non
sensibili e immanenti alle cose stesse, ma pur sempre forme,
così indicandole espressamente lo stesso Platone. Sembra
pertanto che con l’espressione «le forme e le Idee» (ta# eiòdh
te kai# aié iède@ai) Aristotele da un lato abbia inteso usare un
modus dicendi che s’adattasse tanto alla forma delle cose pi-
tagoricamente intesa quanto alla forma intesa in senso pla-
tonico, dall’altro abbia suggerito che le stesse Idee platoni-
che non sono che l’ipostatizzazione nel soprasensibile, ossia
la cristallizzazione nell’indiveniente, delle forme sensibili
delle cose. E poiché le forme sensibili si riconducono in ulti-
ma analisi a numeri, come hanno indicato i Pitagorici, qui
risiede la ragione profonda della tesi secondo cui le Idee so-
no numeri, con la conseguenza che l’uno, essendo principio
di questi secondi, è per ciò stesso principio anche delle pri-
me. Certamente non l’uno aritmeticamente inteso, bensì –
daccapo – l’uno cristallizzato nel soprasensibile e ipostatiz-
zato in quel regno dell’invisibile (to# aèor@ aton) che, come vie-
ne indicato nel Fedone, è il regno delle stesse Idee: l’Uno,
insomma, fungente da principio metafisico.

3.3 Una seconda giustificazione, contenuta nel passo imme-


diatamente successivo alla prima («Inoltre ... è divisa»; fr. 2 =
Adv. Math., 56, 6 –12), è propriamente un’appendice di que-
sta, nel senso che, mentre la prima, come abbiamo visto,
chiamava in causa soltanto l’uno, nell’ambiguità che si è se-
gnalata, questa nomina ancora l’uno, nella medesima ambi-
valenza, ma vi affianca nella funzione di principio la anche
158 OPERE FILOSOFICHE

Diade, e spiega perché proprio questa. L’attenzione, anzi, in


questa seconda giustificazione cade espressamente sulla
Diade. Che si tratti di una sorta di appendice attesta il fatto
che si presuppone che il numero è principio delle Idee, cosic-
ché i principi del numero sono principi anche delle Idee («le
forme sono principi delle altre cose, e delle Idee, che sono
numeri, sono principi i principi del numero»): esattamente la
conclusione dei momenti 1 e 2 della prima giustificazione; e
tutto il discorso verte intorno alla determinazione della Dia-
de quale principio del numero e, quindi, delle Idee stesse. Il
presupposto del ragionamento giustificativo è ancora che
principio è ciò che è primo. Per cui, si dice, nel numero ciò
che è primo è, innanzitutto, la monade, ossia l’unità (qui è
chiaro che l’unità è l’uno aritmetico; ma al tempo stesso è
chiaro che esso, avendo funzione di principio, e di principio
non soltanto dei numeri, ma anche delle Idee, esprime una
dimensione formale; è cioè l’Uno-principio. Esattamente
l’ambivalenza riscontrata nella prima giustificazione). Inol-
tre, poiché nei numeri è presente, oltre la dimensione
dell’unità, anche quella del molto e del poco, loro principio è
altresì la prima determinazione che, dopo l’uno, esprime il
molto e il poco, e tale è la diade («poiché [...] nei numeri vi
sono l’uno e ciò che è oltre l’uno, ossia molti e pochi, ciò che
per primo è in essi oltre l’uno, questo ponevano come princi-
pio dei molti e dei pochi. Ma la diade è prima oltre l’uno,
avendo in sé sia il molto che il poco. Infatti, il doppio è molto,
mentre il mezzo è poco, ed essi sono nella diade»).
A questa giustificazione, l’ultima parte del passo ne ag-
giunge un’altra: unità e molteplicità, che sono dimensioni
entrambe presenti nel numero e dunque entrambe postula-
no un principio che le giustifichi, sono contrarie tra loro.
Dunque, anche i loro principi dovranno essere contrari tra
loro. Ebbene, la diade è contraria all’uno giacché è divisibi-
le, mentre l’uno è indivisibile («ed è contraria all’uno, se
veramente questo è indivisibile, mentre essa è divisa»).
SUL BENE 159

3.4 La terza giustificazione («Inoltre ... per la forma»; fr. 2


= Adv. Math., 56, 13-21) si scandisce nel modo seguente: (1)
dapprima si dice che la totalità del reale si divide in enti
per sé (ta# kaq è auéta# oònta) e in enti opposti (ta# aèntikei@mena
<oònta>). (2) Indi si pone che gli enti, nella divisione or ora
detta, «si riconducono» (aèna@gein) all’uguale e al disuguale
(to# iòson kai# to# aònison), sottintendendo con ciò che questi
sono i loro principi. (3) Si afferma, infine, che (a) l’uguale
s’iscrive sotto la monade, ossia sotto l’uno, mentre (b) il
disuguale s’iscrive sotto l’eccesso e il difetto (hé uéperoch^
kai# hé eòlleyiv); e poiché «disuguale» significa grande e pic-
colo (me@gav kai# miVro@n), ossia eccedente ed ecceduto (uépe-
re@con kai# eèllei@pon), che sono «due» determinazioni «inde-
finite» (aèo@rista), il disuguale è perciò espresso dalla «Dia-
de» «indefinita» (aèo@ristov dua@v). Quest’ultima – si chiari-
sce nella parte finale del passo – non è «la diade che è nei
numeri», ossia il numero due, giacché questo numero è de-
finito, subisce cioè, per così dire, l’azione dell’Uno, che a
sua volta non è il numero uno, bensì l’Uno-principio. Di
conseguenza l’Uno e la Diade indefinita sono i principi de-
gli enti.
Ora, la classificazione degli enti in «per sé» (kaqˆ auéta@) e
«opposti» (aèntikei@mena), ricordata da Alessandro, corri-
sponde, con ogni probabilità, a una classificazione invalsa
nell’Accademia e richiama quella, più nota, tra enti «per
sé» (ta# kaq èauéta@) ed «enti relativi» (ta# pro@v ti) la quale, di
chiara origine platonica, come comprova il fatto di compa-
rire in Soph., 255 c, era entrata a far parte del patrimonio
dottrinale della scuola. Essa compare, infatti, al n. 67 delle
Divisiones aristoteleae e in Senocrate (cfr. fr. 12 Heinze). In
ogni caso il problema di fondo in questo momento è com-
prendere in che modo l’Uno e la Diade di Grande e Picco-
lo o Diade indefinita, ossia l’uguale (cui si riconduce l’Uno)
e il disuguale (cui si riconduce la Diade), siano principi di
tutti gli enti. Potrebbe infatti sembrare che l’Uno sia princi-
160 OPERE FILOSOFICHE

pio degli enti per sé e la Diade di Grande e Piccolo (o Dia-


de indefinita) principio degli enti che stanno tra loro in
rapporti di opposizione, ma quest’ipotesi manifesta imme-
diatamente la sua debolezza non soltanto perché, come ha
opportunamente osservato Berti (Primo Aristotele, p. 210),
«le due classi <di enti> sono collegate dalle congiunzioni
correlative te ... kai@, le quali indubbiamente stanno a signi-
ficare che entrambe hanno come principi l’Uno e la Dia-
de», ma anche perché non si capirebbe per quale moltivo
gli opposti debbano significare indeterminatezza, espressa
per l’appunto dalla Diade.

3.4.1 Un basilare aiuto a risolvere il problema è offerto, sul-


la scorta degli studi di Wilpert (Neue Fragmente) e, soprat-
tutto, di Berti (Primo Aristotele, pp. 211 ss.), dal confronto
tra la classificazione degli enti richiamata da Alessandro e
quelle che Sesto Empirico (Adv. Math., 10, 263-265) e il
platonico Ermodoro (come riferisce Simplicio, In Arist.
Phys., 248, 2-5 nel suo commento a Phys., I, 9, 192 a 3, dove
Aristotele afferma che Platone chiamava la materia [th#n
uçlhn] «grande e piccolo» [me@ga kai# mikro@n]) attestano esse-
re state stabilite da Platone. Le ultime due ripropongono,
nella sostanza, quella di Alessandro, che appare più sempli-
ficata, e non ingiustificatamente, in quanto riferisce soltan-
to i termini essenziali, ma con il rischio, effettivamente ve-
rificatosi, di far comprendere di meno e, in specie, di abbi-
sognare, nella sua estrema stringatezza, com’è proprio dello
stile di Aristotele, dal cui Peri# taègaqou^ Alessandro diretta-
mente attinge, di ulteriori elementi, offerti invece dalle al-
tre due classificazioni. Queste, a loro volta, pur coincidendo
nella sostanza e pur chiamando in gioco i medesimi tipi di
enti, si differenziano però per il diverso grado di precisione
con cui ne articolano la scansione.
Tra esse, quella più precisa è la classificazione di Ermo-
doro, secondo la quale
SUL BENE 161

delle cose che sono, alcune <Platone> dice essere per sé (kaqˆ auéta@),
come uomo e cavallo, altre in relazione ad altre (pro#v eçtera), e
di queste alcune come in relazione a contrari (pro#v eènanti@a),
quali buono e cattivo, altre come relativi (pro@v ti), e di esse le
prime come definite (wérisme@na), le seconde come indefinite
(aèo@riosta)».6

Gli enti, dunque, risultano qui divisi in (1) per sé (kaqˆ auéta)@
e (2) in relazione ad altri (pro#v eçtera), suddivisi a loro vol-
ta in (2/a) in relazione a contrari (pro#v eènanti@a) e (2/b) re-
lativi (pro@v ti).
Quanto poi alla distinzione tra cose definite e cose inde-
finite, di cui si dice nell’ultima parte del passo, è importante
il prosieguo dell’esposizione di Ermodoro (Simpl., In Arist.
Phys., 248, 5-13),7 dove si afferma che (A) «le cose dette
come grande in relazione a piccolo hanno tutte il più e il
meno (to# ma^llon kai# hé^tton)», (B) invece «le cose dette co-
me l’uguale, l’immoto e l’adatto, non hanno il più e il meno,
mentre i loro opposti lo hanno». Ora, se si considera che
(A) col primo genere di cose si allude a quella specie degli
enti in relazione ad altri costituiti dai relativi (2/b), mentre
(B) al secondo genere appartiene l’altra specie degli enti in
relazione ad altri, ossia i contrari (2/a) e che, di questi,
(2/a/1) alcuni, come l’uguale, sono definiti, ossia non am-
mettono più e meno, invece (2/a/2) i loro opposti, come il
disuguale, sono indefiniti perché ammettono il più e il me-
no, ci si avvede che (A) tra le cose determinate si compren-
dono (1) gli enti per sé e (2/a/1) gli opposti come l’uguale e
l’immoto che non ammettono variazioni in più e in meno;
invece (B) tra le cose indeterminate si annoverano (2/b) i
relativi e (2/a/2) quei contrari che, come il disuguale e il
mobile, ammettono più e meno.

3.4.2 Ad analoga conclusione si perviene considerando


altresì la classificazione di Sesto Empirico, il quale, ben-
162 OPERE FILOSOFICHE

ché faccia espressamente riferimento ai Pitagorici, pre-


senta tuttavia, com’è stato dimostrato, 8 notizie ampia-
mente attribuibili all’ambiente accademico, tanto che si è
persino potuto sostenere che tale classificazione altro
non sia che la citazione da parte di Sesto di un passo trat-
to da un resoconto della lezione platonica sul bene diver-
so da quello del Peri# taègaqou^ aristotelico.9 Ebbene, vi si
dice

Tra gli enti, affermano i Pitagorici, alcuni sono pensati secondo


differenza (kata# diuafora@n), altri secondo contrarietà (kat è eè-
nanti@wsin), altri in relazione a qualcosa (pro@v ti). Secondo dif-
ferenza dicono essere i sostrati per sé (uépokei@mena kaq èauéta@) e
secondo il proprio ambito, come uomo, cavallo, terra, acqua,
aria, fuoco: ciascuno di questi, infatti, è pensato in modo assolu-
to (aèpolu@pwv) e non per il suo stare in relazione ad altro; se-
condo contrarietà esistono (uépa@rcein) tutti quelli che sono pen-
sati in base all’opposizione di uno all’altro, come buono e catti-
vo, giusto e ingiusto, utile e inutile, lecito e illecito, pio e empio,
mosso e quieto, e tutti gli altri che a questi conseguono; in rela-
zione a qualcosa si trovano (tugca@nein) quelli pensati secondo
il loro stare in relazione ad altro, come destro e sinistro, in alto
e in basso, doppio e mezzo (Sext., Adv. Math., 10, 263-265).

Come si può agevolmente constatare, (1) gli enti secondo


differenza corrispondono esattamente agli enti per sé della
classificazione di Ermodoro, e ben lo attesta il fatto che es-
si sono costituiti da sostrati per sé, ossia da enti quali uomo,
cavallo, terra, acqua, aria, fuoco, e proprio enti quali uomo
e cavallo, si dice nella classificazione di Ermodoro, sono per
sé. Nell’un caso come nell’altro si tratta di enti che, secondo
la dottrina aristotelica delle categorie, sono sostanze. Don-
de la pregnanza del loro essere detti per sé, in entrambe le
classificazioni, e sostrati, nella classificazione di Sesto Em-
pirico. Quanto poi (2) agli enti secondo contrarietà e (3) a
SUL BENE 163

quelli in relazione a qualcosa, ossia relativi, di questa classi-


ficazione, la loro corrispondenza con i rispettivi tipi di enti
indicati nella classificazione di Ermodoro come (2/a) enti
in relazione a contrari ed (2/b) enti relativi o in relazione a
qualcosa balza immediatamente agli occhi e la stessa iden-
tità degli esempi (buono/cattivo) portati nelle due classifi-
cazioni lo ribadisce, con la differenza che in quella di Er-
modoro gli enti dell’uno e dell’altro tipo sono raggruppati
come specie del genere enti in relazione ad altri, mentre Se-
sto Empirico li indica come due generi di enti. Da qui, co-
me si diceva, la maggiore precisione della classificazione di
Ermodoro, in virtù dell’articolazione più minuziosa che
rappresenta, pur nell’identità sostanziale con quella di Se-
sto Empirico.
Il che permette di riferire anche a quest’ultima la distin-
zione indicata da Ermodoro e accertata nella sua classifica-
zione tra quali enti debbono considerarsi definiti (wérisme@-
na) e quali indefiniti (aèo@riosta).
Ma Sesto, nel proseguimento della sua analisi, offre un
ulteriore, interessante elemento. Sempre parlando dei «fi-
gli dei Pitagorici», ma dovendosi estendere il rilievo ai Pla-
tonici, dapprima fa presente che essi «attribuiscono come
genere delle cose pensate per sé l’Uno (to# eçn); a quelle con-
trarie l’uguale e il disuguale (to# iòson kai# to# aònison), di cui il
primo non ammette il più e il meno, mentre il secondo lo
ammette; a quelle relative l’eccesso e il difetto (uéperoch#
kai# eòlleyiv)» (Adv. Math., 273). Indi riconduce questi tre
generi a due principi, e cioè all’Uno e alla Diade indefinita,
secondo questa scansione:

l’uguaglianza si riduce all’uno: infatti l’Uno è uguale a se stesso


in modo primario, mentre la disuguaglianza mira all’eccesso e
al difetto. Ma anche l’eccesso e il difetto sono ordinati secondo
la ragione della Diade indefinita, poiché il primo eccesso e di-
fetto è il due, l’eccedente e l’ecceduto (Adv. Math., 275).
164 OPERE FILOSOFICHE

Ora, contrariamente a Wilpert (Aristotelische Früh-


schriften, p. 191) e a coloro che, sulla scorta di questo stu-
dioso, hanno creduto che nella tripartizione dei generi
l’Uno sia indicato come principio delle cose che ammetto-
no uguaglianza, mentre la Diade indefinita come principio
delle cose che ammettono disuguaglianza ed eccesso e di-
fetto,10 pare opportuno opporre che, al di là del medesimo
nome, nella sostanza speculativa altri sono i criteri che sor-
reggono la tripartizione suddetta e altri quelli in base a cui
si fissano i due principi, cosicché non vi può essere corri-
spondenza automatica tra questi secondi e i primi. In parti-
colare, altro è l’Uno come «genere» di un certo tipo di enti
e altro è l’Uno come «principio» e, parimenti, altro sono
l’uguale e il disuguale, da un lato, l’eccesso e il difetto,
dall’altro, come «generi» di due tipi di enti, e altro sono
l’uguaglianza e la disuguaglianza che, in virtù dell’eccesso e
del difetto che quest’ultima comporta, definiscono il crite-
rio secondo cui è introdotto il «principio» della Diade in-
definita. In questo caso, ancor più che per l’Uno, la discre-
panza risulta ancor più evidente e marcata ove si ponga
mente al fatto che, come esprimenti un «genere», ugua-
glianza e disuguaglianza concorrono assieme a definire il
tipo di enti che in quel genere si raccoglie, mentre sul piano
dei «principi», la disuguaglianza disgiuntamente e non già
congiuntamente all’uguaglianza concorre, mercé l’eccesso
e il difetto che comporta, a definire la Diade indefinita.
Questa stessa, inoltre, poiché esprime altresì eccesso e di-
fetto, si definisce anche sulla base di queste determinazioni,
assieme alla disuguaglianza, la quale invece, sul piano dei
«generi», ne definisce, assieme all’uguaglianza, uno (quello
dei contrari) diverso da quello nel quale si raccolgono gli
enti che ammettono eccesso e difetto, ossia i relativi.
Tutto ciò pone in chiaro che l’Uno e la Diade indefinita
non operano come principi separatamente, e cioè il primo
come principio di certi enti e la seconda come principio di
SUL BENE 165

certi altri, ma che, invece, essi operano congiuntamente e


assieme come principi di tutti gli enti. Giacché ciò che fa
capo all’Uno sono alcune proprietà o attributi e ciò che fa
capo alla Diade sono altre proprietà e attributi, ma (1) sia
le prime che le seconde sono o possono essere proprietà
del medesimo ente e (2) gli enti sono definiti dalle loro
proprietà. Ecco perché tutti, (1) avendo o potendo avere
attributi che hanno come principio quello della determina-
zione, espresso dall’Uno, e altre proprietà che hanno come
principio quello dell’indeterminazione, espresso dalla Dia-
de indefinita, e (2) ciascuno essendo definito dalle sue pro-
prietà, tutti ricadono sia sotto il principio dell’Uno che sot-
to quello della Diade indefinita. Un esempio può chiarire il
concetto: un uomo è un «sostrato per sé», è o può essere
giusto o ingiusto, servo o padrone; un cavallo, a sua volta, è
anch’esso un «sostrato per sé», può essere veloce o lento,
grande o piccolo. Ora, l’uomo qui in oggetto è quell’ente
definito dalle proprietà che abbiamo detto, alcune delle
quali appartengono al genere delle cose per sé, altre al ge-
nere dei contrari (giusto/ingiusto), altre ancora a quello dei
relativi (servo/padrone). Ma se la sua realtà è definita da
queste proprietà e alcune (quelle appartenenti al genere
delle cose per sé, come l’essere un sostrato, l’essere o il po-
ter essere giusto, ossia un contrario determinato) cadono
sotto il principio dell’Uno mentre altre (quelle apparte-
nenti al genere dei contrari indeterminati, come l’essere o
il poter essere ingiusto, e quelle appartenenti al genere del-
le cose che ammettono eccesso e difetto, ossia i relativi, co-
me l’essere servo o padrone) cadono sotto il principio della
Diade indefinita, è evidente che il medesimo uomo è con-
temporaneamente definito da entrambi i principi. E lo stes-
so dicasi, nell’esempio, per il cavallo: in quanto è un sostra-
to ed è o può essere veloce, e dunque è definito da proprie-
tà che rientrano nel genere delle cose per sé, la prima per-
ché tale è l’essere un sostrato, la seconda perché è un con-
166 OPERE FILOSOFICHE

trario determinato, esso cade sotto il principio dell’Uno,


ma al tempo stesso, in quanto è definito da proprietà inde-
terminate come quella di essere o poter essere lento, che
rientra nel genere dei contrari indeterminati e da proprietà
che ammettono eccesso e difetto, come quella di essere
grande o piccolo, che rientrano nel genere dei relativi, cade
anche sotto la Diade indefinita. Non si tratta soltanto di
intendere la distinzione tra i generi degli enti come sempli-
ce distinzione di generi di predicati,11 ma di acquisirla sotto
un segno più forte e radicale, per il quale anche quest’aspet-
to logico le appartiene, ma non primariamente, giacché in-
nanzitutto è da tenere presente che l’ordine dei predicati è
quell’ordine delle proprietà o degli attributi dai quali l’ente
è definito nella sua stessa realtà e che pertanto attengono,
primariamente e innanzitutto, al piano ontologico.
Resta piuttosto da considerare la discrepanza tra queste
classificazioni platoniche e accademiche degli enti e quella
aristotelica espressa dalla dottrina delle categorie. Donde,
agli occhi dello Stagirita, l’inevitabile insoddisfazione delle
prime, anche al di là del loro far riferimento ai principi
dell’Uno e della Diade indefinita (o Diade di Grande e
Piccolo) contro i quali egli polemizza. Anzi, nella misura in
cui, come sembra dalle testimonianze di Ermodoro e di Se-
sto Empirico, questa dottrina dei principi è introdotta dai
Platonici, secondo la lettura di Aristotele, a partire dalle
caratteristiche del tipo di enti in cui essi dividevano la tota-
lità dell’esistente, o comunque è richiesta ed è perciò la
conseguenza di questa caratterizzazione, l’assurdità della
prima dipende in gran misura anche dall’inadeguatezza di
questa seconda, ossia: la dottrina platonica e accademica
dei principi non è ammissibile perché dipende in ampia mi-
sura da un modo inadeguato in cui sono state pensate le
prerogative degli enti, secondo la classificazione che ne
hanno dato Platone e i Platonici. I principi, infatti, sono co-
me il suggello di tale modo di classificare gli enti e di carat-
SUL BENE 167

terizzarne le prerogative. Così, in particolare, i relativi, se-


condo la testimonianza di Sesto Empirico (Adv. Math., 270,
273), erano ritenuti ammettere eccesso e difetto (uéperoch#
kai# eòlleyiv). In Cat., 7, 6 b 24 s. Aristotele precisa che non
tutti i relativi ammettono il più e il meno (ma^llon kai#
hé^tton), e porta l’esempio del doppio: un numero non è più
o meno doppio di un altro, ossia non ammette eccesso o
difetto di doppiezza. Ancora, sia secondo la testimonianza
di Sesto Empirico, sia secondo quella di Ermodoro, per gli
Accademici uno dei contrari è indeterminato. In Cat., 10
proprio la determinazione di entrambi i contrari sta alla
base della possibilità, ivi teorizzata, che tra i contrari si dia-
no o non si diano intermedi. Ma, soprattutto, nelle classifi-
cazioni accademiche degli enti manca la netta definizione
di enti sostanziali ed enti accidentali che invece sta alla ba-
se della dottrina aristotelica delle categorie; una distinzio-
ne alla quale quella tra enti per sé, enti relativi ed enti con-
trari supplisce solo latamente e imperfettamente, nella mi-
sura in cui non precisa il carattere basilare della sostanza di
non essere mai in un soggetto, di non inerire, cioè, a nulla,
ma di essere essa stessa sostrato di inerenza, che invece
Aristotele stabilisce in Cat., 5.

3.4.3 In ogni caso, ora possediamo tutti gli elementi per re-
perire la soluzione del problema che la terza giustificazio-
ne dei principi nella classificazione di Alessandro ha solle-
vato. Ché, se questa classificazione è congruente con quelle
di Ermodoro e di Sesto Empirico e in queste, nell’ultima in
particolare, come abbiamo mostrato, l’Uno e la Diade sono
da intendersi come principi di tutti gli enti e non già il pri-
mo di un certo tipo di enti e la seconda degli enti di un altro
tipo, allora lo stesso dovrà dirsi anche per ciò che attiene
alla classificazione aristotelica presentata da Alessandro.
Ora, la perfetta congruenza di questa classificazione con le
due sopra esaminate è lampante: (1) gli enti per sé (ta# kaqˆ
168 OPERE FILOSOFICHE

auéta# oònta) sono indicati in tutte e tre le classificazioni; (2)


quanto invece agli enti opposti (ta# aèntikei@mena <oònta>),
enunciati nella classificazione di Alessandro, ove si ponga
mente al fatto che gli opposti per Aristotele comprendono
sia i relativi (ta# pro@v ti) che i contrari (ta# eènanti@a), com’è
specificato in Cat., 10, e che questi enti sono indicati sia da
Ermodoro, come specie degli enti in relazione ad altri, sia
da Sesto Empirico, come due distinti generi, ci si avvede
che anche in questo caso si verifica una perfetta corrispon-
denza tra la classificazione aristotelica presentata da Ales-
sandro e le altre due. Si può, anzi, constatare come, in rife-
rimento al secondo caso, quella presentata da Alessandro
sia «propriamente» e «tipicamente» aristotelica, risponda
cioè al modo in cui lo Stagirita inquadrava nella propria
teoria i contrari e i relativi, unificandoli, per l’appunto, ne-
gli opposti, laddove, con ogni verosimiglianza e probabilità,
gli Accademici li intendevano come generi separati di enti
o come unificati in un sommario e impreciso genere di enti
in rapporto ad altri enti. Donde un ennesimo riscontro
dell’appartenenza all’aristotelico Peri# taègaqou^ del passo
di Alessandro in cui si espone detta classificazione degli
enti.12
La conclusione sopra enunciata secondo cui Uno e Dia-
de indefinita sono principi di tutti gli enti, a questo punto si
manifesta valere anche per la classificazione di Alessandro
e il relativo problema può considerarsi risolto.

3.4 La quarta giustificazione («Inoltre, il primo numero ...


Sul bene»; fr. 2 = Adv. Math., 56,21-35), che termina citando
espressamente il Peri# taègaqou^ come opera nella quale Ari-
stotele dà conto della dottrina platonica dei principi e, in
particolare, del fatto che Platone li indicava nell’Uno e nel-
la Diade indefinita, si scandisce nei seguenti passaggi: (a) si
prende in considerazione il 2, considerato il primo numero
(per il motivo esposto alla nota n. 28 del corrispondente
SUL BENE 169

passo) e si osserva che in esso sono contenuti il doppio e il


mezzo; (b) ma il doppio e il mezzo comportano che qualco-
sa sia eccedente e qualcos’altro sia ecceduto; (c) ora, ecce-
dente ed ecceduto si rapportano al doppio e al mezzo come
loro principi, giacché non tutto ciò che è eccedente è dop-
pio e non tutto ciò che è ecceduto è mezzo, mentre tutto ciò
che è doppio è eccedente e tutto ciò che è mezzo è eccedu-
to; (d) principio del numero 2 è perciò una “Diade” (che
indichiamo con l’iniziale maiuscola per distinguerla dalla
diade come numero 2), ossia un principio che chiama in
causa due elementi: l’eccedente e l’ecceduto, ovvero il
grande e il piccolo; (e) essa non è principio soltanto del nu-
mero 2, ma anche del 3, del 4 e, in generale, di ogni numero,
giacché ogni numero è scandito da qualcosa di eccedente e
da qualcosa di ecceduto: nel 3, infatti, sono presenti il triplo
e il terzo, nel 4 il quadruplo e il quarto, e così via, e triplo e
terzo, quadruplo e quarto, ecc. sono momenti dell’ecceden-
te e dell’ecceduto; (f) ma nel 2 il doppio, che è indetermina-
to, si determina, nel 3 il triplo, che è indeterminato, si deter-
mina e, in generale, in ogni numero l’eccedente e l’eccedu-
to, che sono elementi indeterminati, si determinano; (g)
ora, determinare significa dare unità, per cui ciò che defini-
sce è l’Uno, inteso come principio unificatore e determi-
nante (e perciò distinto dall’1 quale unità aritmetica); (h)
principi del 2 e, in generale, dei numeri sono, dunque, la
Diade di grande e piccolo, ossia la Diade indefinita, tali es-
sendo il grande e il piccolo, vale a dire l’eccedente e l’ecce-
duto, e l’Uno.
In modo più stringato l’intera argomentazione può rias-
sumersi così: appartiene alla natura di ogni numero, ovvero
del numero in quanto tale, di contenere un elemento ecce-
dente e un elemento ecceduto, vale a dire un grande e un
piccolo (il 2 contiene il doppio e il mezzo; il 3 contiene il
triplo e il terzo, e così via; ma doppio, triplo ecc. sono mo-
menti dell’eccedente; mezzo, terzo, ecc. momenti dell’ecce-
170 OPERE FILOSOFICHE

duto). Dunque, principio del numero è una Diade (ecce-


dente/ecceduto, grande/piccolo), la quale esprime indeter-
minatezza, perché tali sono le dimensioni, per l’appunto
imprecisate, dell’eccedente e dell’ecceduto, del grande e
del piccolo. Ma in ogni numero il momento dell’eccedente
e dell’ecceduto non resta indeterminato, ma si determina, e
ciò che determina è un principio unitario e unificante, ossia
un Uno. Ecco pertanto che principi del numero sono la
Diade indefinita o Diade di Grande e Piccolo e l’Uno.

4. Negli altri passi in cui dà notizia del Peri# taègaqou^, Ales-


sandro riprende sostanzialmente i contenuti del commento
a Metaph., I, 6.

4.1 In quello riferito da Simplicio nel suo commento alla


Fisica di Aristotele, raccolto da Ross sotto il fr. 2 (Alex.
Aphr. presso Simpl., In Arist. Phys., p. 454, 19-455, 14), Ales-
sandro, che nomina espressamente il Peri# taègaqou^ e attri-
buisce a quest’opera aristotelica il contenuto della sua te-
stimonianza, non aggiunge alcuna nuova informazione di
rimarchevole spessore dottrinale a quelle riferite in prece-
denza circa la teoria accademica dei principi, ma, sintetiz-
zando la prima e la quarta giustificazione del commento a
Metaph., I, 6, fornisce una visione certamente meno analiti-
ca, ma altrettanto certamente più percepibile in modo di-
retto e immediato dell’essere i principi, per i Platonici,
principi della totalità dell’esistente. In effetti, che essi fos-
sero principi di tutte le cose e che coincidessero con i prin-
cipi del numero, costituiva il contenuto saliente della prima
giustificazione, com’è risultato dal relativo esame. Questo,
infatti, ci ha permesso di vedere che la «giustificazione»
non era primariamente volta a dar ragione di quali fossero
i principi, che essi, cioè, risiedono nell’Uno e nella Diade
indefinita, quanto piuttosto a esplicare perché i principi dei
numeri sono i principi di tutte le cose. Per contro, nelle al-
SUL BENE 171

tre tre giustificazioni, e in particolare nella quarta, giudica-


ta dagli studiosi la più persuasiva,13 l’accento cadeva deter-
minatamente sui motivi che stavano alla base dell’indivi-
duazione dei principi nei due anzidetti. Ebbene, nel passo
ora in oggetto Alessandro sintetizza la prima e la quarta
giustificazione, offrendo un quadro complessivo dal quale
risulta perché i principi dei numeri sono i principi di tutte
le cose e perché l’Uno e la Diade indefinita, o Diade di
grande e piccolo sono i principi dei numeri.
In effetti, nella prima parte del frammento, che riprende
la prima giustificazione, si dice che il numero è primo ri-
spetto alle altre cose e, come in essa, lo si prova attraverso
la riduzione dei corpi a solidi geometrici (chiaro motivo pi-
tagorico, ampiamente presente anche nel Timeo; donde la
continuità tra la dottrina professata in questo dialogo con
la dottrina dei principi – o addirittura, come sostengono gli
esponenti della cosiddetta «Scuola di Tubinga e Milano», la
presenza di questa dottrina in quella del Timeo14), indi dei
solidi a superfici, di queste alle linee e delle linee ai punti,
che sono «monadi dotate di posizione». Da qui la conclu-
sione: «poiché (...) il numero è per natura primo rispetto
alle altre cose, <Platone> riteneva che (...) i principi del pri-
mo numero fossero anche principi di ogni numero» e, per
conseguenza, di ogni cosa.
Indi, stante che il primo numero è il 2, si dimostra che
suoi principi sono l’Uno e il Grande e il Piccolo, ossia la
Diade indefinita. La dimostrazione riprende la quarta giu-
stificazione. Si afferma così che nel due sono presenti il
doppio e il mezzo, nei quali si esprimono i molti e i pochi, e
che questi aspetti si riportano all’eccesso e al difetto, i qua-
li sono aspetti duali e indefiniti. Cosicché, sotto questo pro-
filo, principi del 2 e, in generale, di ogni numero sono la
Diade indefinita di Grande e Piccolo. Ma nel due il Grande
e il Piccolo assumono una forma unitaria: quella, per l’ap-
punto, della dualità, e ciò richiede un principio di determi-
172 OPERE FILOSOFICHE

nazione, vale a dire di unificazione (essendo la determina-


zione una unificazione), consistente nell’Uno. Donde la
conclusione: se «i numeri sono elementi di tutti gli enti» e
principi dei numeri sono l’Uno e la Diade indefinita, allora
«l’Uno e il Grande e il Piccolo, ovvero la Diade indefinita
sono anche principi di tutte le cose».
«Ma Platone sosteneva che anche le Idee sono numeri».
Qui non se ne dà la giustificazione, ma essa è implicita:
«elementi (ossia cause) di tutti gli enti sono i numeri», ma
le Idee costituiscono le cause paradigmatiche delle cose,
per cui le Idee sono numeri. Dicendo questo è probabile
che Alessandro non si riferisca a tutte le Idee, bensì alle
Idee-numeri o numeri ideali. In ogni caso, se le Idee sono
numeri, «è logico, dunque, che dei principi del numero ab-
bia fatto i principi anche delle Idee». L’Uno e la Diade in-
definita sono, dunque, principi anche delle Idee, o – più
esattamente – sono principi di tutte le cose perché sono
principi delle Idee.
Le ultime righe del passo rivestono particolare interesse
perché indicano in che senso la Diade di grande e piccolo è
principio d’indeterminazione. Essa, vi si dice, «è la natura
dell’indeterminato, poiché il grande e il piccolo, ovvero il
maggiore e il minore non sono definiti, ma possiedono il
più e il meno, il quali procedono verso l’illimitato».
Alcuni studiosi hanno inteso queste affermazioni nel
senso che l’indeterminatezza della Diade dipende dal fatto
che grande e piccolo esprimono indifferenza lungo le due
opposte direzioni, ossia nell’aumento e nella diminuzione;15
per altri, invece, la sua indeterminatezza non va intesa in
senso direzionale, ma, per così dire, strutturale, quale
espressione, cioè, della costitutiva e intrinseca assenza di
determinazione che la caratterizza in essenza. Insomma, la
Diade è indeterminata perché ciascuno dei due termini di
cui si compone è indeterminato.16
È probabile che entrambe le interpretazioni siano cor-
SUL BENE 173

rette nella misura in cui definiscono l’indeterminatezza


della Diade sotto aspetti differenti. Quale principio delle
Idee e dei numeri ideali è logico che rappresenti l’infinito
sotto il profilo qualitativo, ond’è che la sua stessa indeter-
minatezza è di questa natura, avvalorandosi in questo la
prima esegesi; ma quale principio dei numeri matematici è
logico che il Grande e il Piccolo significhino indetermina-
tezza nella valenza di indeterminato aumento e diminuzio-
ne, nei termini chiariti dalla seconda esegesi. In effetti, la
Diade indefinita è principio tanto delle Idee e, in specie,
delle Idee-numeri o numeri ideali, quanto delle cose, come
in più luoghi dello stesso Peri# taègaqou^ è precisato. Ora, co-
me si può evincere da Metaph., I, 6, 987 b 27 s., dove Aristo-
tele confronta la concezione del numero dei Pitagorici con
quella dei Platonici e rileva che, mentre per i primi «i nu-
meri sono le cose stesse», i Platonici «pongono gli enti ma-
tematici come intermedi tra i numeri ideali e le cose», la
Diade indefinita di Grande e Piccolo, fungendo da princi-
pio materiale dei numeri ideali, esprime la forma dell’illi-
mitato quale principio materiale dei numeri matematici, in
quanto, per così dire, lo specifica nella direzione dell’infini-
to crescere e decrescere. Essa esprime cioè, per così dire, il
principio materiale dei numeri matematici nella forma cre-
scente e decrescente della sua infinitudine. I numeri ideali
rappresentano poi il principio formale dei numeri matema-
tici in quanto ciascuno di essi, esprimendo l’essenza di una
quantità determinata, definisce un’unità (l’unità della dua-
lità, della ternità e così via) che «dà forma» all’indetermi-
natezza di un infinito crescere e decrescere.

4.2 Questa doppia valenza del carattere d’indeterminatez-


za della Diade e al tempo stesso la diversità dei profili sot-
to i quali si specificano, da un lato, l’idea del suo procedere
indefinitamente nella direzione dell’accrescimento e della
diminuzione, da un altro l’idea della strutturale indetermi-
174 OPERE FILOSOFICHE

natezza degli elementi di cui si compone, ossia delle nozio-


ni di grande e di piccolo, si possono rinvenire nel passo di
Porfirio riportato da Simplicio (In Arist. Phys., 453, 25 –
454, 19) e raccolto da Ross tra i frammenti n. 2. Un fram-
mento che si rivela altresì interessante per il giudizio di
Simplicio circa il «carattere enigmatico» (cfr. aiènigmatwdw^v)
della lezione sul bene tenuta da Platone e per la notizia,
che anch’egli riferisce, dei resoconti che ne stesero Aristo-
tele, Eraclide, Estieo e altri membri della scuola.
Ma maggiore interesse, dal punto di vista da cui ora le
esaminiamo, le parole di Simplicio rivestono per la con-
trapposizione tra la natura indefinita della Diade e il suo
essere collocata da Platone, oltre che nell’ordine del sensi-
bile, in quanto principio delle cose, anche sul piano dell’in-
telligibile, evidentemente per il fatto stesso di essere princi-
pio pure delle Idee, che sono, per l’appunto, di questa natu-
ra. L’indeterminatezza – così sembra doversi intendere il
rilevo – è caratteristica della materia, e perciò non stride
che sia attribuita alla Diade in quanto principio delle realtà
sensibili, giacché esse sono provviste di materia. Stride, in-
vece, l’attribuirla alla Diade pensata come principio (an-
che) delle Idee. Con ciò Platone trasferisce nell’intelligibile
una prerogativa del sensibile. Sullo sfondo del motivo pole-
mico s’affaccia così – tacitamente, perché non nominata ex
professo, quanto massicciamente – la figura speculativa
della Diade quale materia intelligibile, contro cui si rivolge
in essenza l’obiezione. È da leggersi la denunzia di una con-
traddizione e dunque una critica alla dottrina dei principi,
che s’allinea a quella di Alessandro che troviamo indicata
ancora in Simplicio, in In Arist. Phys., 151, 6-19 = fr. 2 (cfr.
infra), sempre relativamente alla Diade. In entrambi i pas-
si, anzi, è molto probabile che Simplicio abbia derivato la
critica da Alessandro, ossia, in ultima analisi, dal Peri# taèga-
qou^ di Aristotele dal quale Alessandro ha attinto per i suoi
commenti allo Stagirita.
SUL BENE 175

Quanto alla testimonianza di Porfirio, là dove si afferma


che, «procedendo <il più e il meno> nella direzione dell’ac-
crescimento e della diminuzione, ciò che partecipa di essi
[scil., la Diade] non s’arresta né giunge a compimento, ma
procede verso l’indefinito dell’illimitatezza», cosicché, sot-
to questo profilo, in una grandezza, per esempio nel cubito,
si rinviene «racchiusa una certa natura dell’illimitato, o
piuttosto <si rinvengono racchiuse> più nature: una che
procede verso il grande e una che procede verso il piccolo»,
il carattere indefinito della Diade sembra affermato in ra-
gione del carattere indefinito degli elementi che la com-
pongono, il Grande e il Piccolo; si tratta, dunque, di una in-
determinatezza di ordine strutturale, in quanto attiene alla
«natura» della Diade. Ma dove si afferma che «la Diade
<è> indefinita» perché è «costituita dalla monade che pro-
cede verso il grande e dalla monade che procede verso il
piccolo», la sua indefinitezza sembra essere intesa nel sen-
so direzionale dell’aumento e della diminuzione.
Anche qui, tuttavia, si riprende il tema, già ampiamente
apparso in Alessandro, secondo cui il determinarsi della
Diade nel due richiede un principio di determinazione,
espresso dall’Uno.
La testimonianza di Porfirio riveste, infine, non poco inte-
resse anche per il collegamento che istituisce tra il Flebo e la
dottrina dei principi, dando così attestazione che questa corri-
sponde a una struttura portante anche degli ultimi Dialoghi di
Platone, oltre che del suo insegnamento orale, non a una teo-
ria a lato di quelle riscontrabili nelle opere scritte del filosofo.

5. Si è fatto riferimento a un motivo polemico di Aristotele,


riferibile in ultima analisi, attraverso la testimonianza di
Simplicio e di Alessandro, al Peri# taègaqou^, nei confronti
della dottrina platonica dei principi, e nel caso in cui lo
scritto aristotelico sia stato redatto in più di un libro, come
vogliono alcune indicazioni dell’opera riferite all’inizio, è
176 OPERE FILOSOFICHE

logico supporre che lo Stagirita abbia sviluppato la polemi-


ca separatamente dalla ricostruzione della dottrina, dedi-
cando all’una e all’altra parti separate dell’opera.

5.1 Bersaglio principale della polemica aristotelica sembra


essere stata la Diade indefinita. Contro di essa si indirizza
la critica già esaminata in Simplicio, In Arist. Phys., 453, 25
– 454, 19 (= fr. 2), e ancora contro di essa si rivolge Aristote-
le nella critica riferita sempre da Simplicio (In Arist. Phys.,
pp. 453, 25 – 454, 19 = fr. 2), il quale riporta un passo di
Alessandro che, per quanto si è detto, è probabile che an-
che in questo caso attinga direttamente al Peri# t¢gaqou^.
È nuovamente nominata la lezione tenuta da Platone
sul bene e si fa nuovamente riferimento alla redazione da
parte di Aristotele e di altri membri dell’Accademia di re-
soconti di essa. Si ritorna ancora sul nesso tra la dottrina
dei principi e le dottrine pitagoriche, facendo presente che
«in molti luoghi Platone segue» questi filosofi.
Ma l’aspetto più interessante del frammento, quello per
il quale qui se ne fa espresso oggetto di analisi è costituito
dall’affermazione secondo cui è verisimile che per Platone
l’Uno e la Diade indefinita siano principi di «tutte» le cose,
ma è assurdo che la Diade sia principio delle Idee, rivesten-
do la funzione di materia di esse, così espressamente aven-
do il filosofo qualificato il Grande e il Piccolo, giacché egli
stesso nel Timeo afferma che la materia esiste soltanto nel
mondo sensibile, dove vi è generazione, mentre le Idee né
sono soggette a generazione, né sono di natura sensibile.
Anche qui, dunque, ricompare la medesima critica – for-
mulata in termini più chiari e più netti che nel passo prece-
dentemente esaminato – secondo cui la nozione di Diade
indefinita quale principio materiale delle Idee è un’assur-
dità: «materia intelligibile» è espressione che contiene una
contradictio in adiecto, e l’essere infinito è caratteristica
propria del sensibile e del materiale.
SUL BENE 177

5.2 Più radicali e incisive sono le critiche di Aristotele alla


dottrina platonica dei principi che Alessandro riferisce
nel commento a Metaph., I, 9, 990 b 17-22, dove peraltro
richiama contestualmente quella dottrina e il Peri# taèga-
qou^. Questo scritto, infatti, è espressamente indicato da
Alessandro come l’opera in cui lo Stagirita ha esposto
quella teoria dei principi alla quale, nel suddetto luogo
della Metafisica, imputa di configgere con le Idee e che,
parlando in prima persona, e dunque annoverandosi an-
cora tra i Platonici, dichiara stare loro più a cuore delle
Idee stesse.17 Ebbene, il commentatore (In Arist. Metaph.,
85, 15-18 = fr. 2), che conosceva il Peri# taègaqou^, precisa
che i principi cui Aristotele allude sono l’Uno e la Diade
indefinita di grande e piccolo, e con riferimento a essi
esplica le tre obiezioni che nel passo della Metafisica Ari-
stotele espone in maniera assolutamente succinta.18 Esse
sono le seguenti:

capita che <a> non sia prima la diade, ma il numero, <b> e che il
relativo sia prima del per sé, <c> e capiteranno tutte quelle cose
secondo le quali taluni che seguono le opinioni sulle Idee si sono
messi in contrasto con i principi (Metaph., I, 9, 990 b 17-22).

Non vi è dubbio che qui lo Stagirita abbia soltanto sintetiz-


zato i tre rilievi polemici che aveva, invece, diffusamente
esposto nello scritto Sul bene, non diversamente da come
aveva fatto nelle righe appena precedenti (990 b 8-17), do-
ve si era soltanto limitato a richiamare gli argomenti di Pla-
tone e dei Platonici a favore dell’esistenza delle Idee (l’ar-
gomento «dalle scienze», dell’«uno sopra i molti», del
«pensare alcunché quando si è corrotto» e poi gli «argo-
menti più rigorosi») e le sue critiche a essi, argomenti e cri-
tiche che invece nel Peri# ièdew^n aveva diffusamente esposti
e formulate. E, come vedremo, pure in questo caso Ales-
sandro, che aveva conoscenza diretta anche del Peri# ièdew^n,
178 OPERE FILOSOFICHE

esplicava le brevi indicazioni di Metaph., I, 9 con i corri-


spondenti passi di quello scritto.19

5.2.1 La prima critica aristotelica, nell’esposizione diffusa


del Peri# taègaqou^ riferita da Alessandro, si declina in que-
sti termini: in quanto principi delle Idee, l’Uno e la Diade
indefinita vengono prima di queste, ma – obietta Aristote-
le – le stesse considerazioni che inducono a postulare le
Idee hanno per conseguenza che il numero sia anteriore
alla Diade. In effetti, il predicato comune, essendo per i
Platonici un’Idea, sussiste per sé e come tale è anteriore a
ciò di cui si predica. È questa, infatti, la caratteristica
dell’Idea e in questo modo la pensano i Platonici, come il
predicato comune per sé sussistente, separato dalle cose
di cui si predica e, di conseguenza, anteriore a esse. Ma in
tal modo il rapporto tra la Diade indefinita e le Idee si
inverte. Infatti, (a) della Diade indefinita si predica la dia-
de (ossia il due), la quale, in quanto predicato, sarà un’Idea
e dunque anteriore alla Diade indefinita; (b) non soltanto,
ma della stessa diade si predica il numero, che, in quanto
predicato, sarà un’Idea (come effettivamente sostengono
i Platonici, per i quali le Idee sono numeri) e dunque an-
teriore alla stessa diade. Ne consegue che la diade (ossia il
due) non sarà il principio dei numeri, vale a dire il primo
numero, ma che il numero, in quanto Idea, sarà anteriore
alla diade; (c) ora, se il numero, in quanto Idea, è anterio-
re alla diade e questa, in quanto Idea, è anteriore alla Dia-
de indefinita, il numero, ossia le Idee (stante che per i Pla-
tonici le Idee sono numeri) sono anteriori alla Diade in-
definita, con la conseguenza che questa non può essere
principio delle Idee.20
In merito a quest’argomentazione, che è stata accreditata,
tra gli altri, da Schwegler (Metaph., III, p. 84), Bonitz (Comm.,
p. 112), Ross (Metaph., I, p. 196) e Reale (Metaph., III, p.
196), non è mancato chi, per contro, abbia rilevato una con-
SUL BENE 179

fusione da parte di Alessandro tra la nozione di diade, ossia


del numero due, e quella della Diade indefinita di Grande e
Piccolo e, comunque, abbia scorto nell’argomento una serie
di incongruenze alla cui radice riposa in buona sostanza la
mancata distinzione tra le due nozioni. In questo senso sem-
bra essersi espresso Cherniss (Plato, pp. 300-305; 513-524)
ove parla di modi differenti di anteriorità, la cui mancata di-
stinzione da parte di Aristotele, che invece li assimilerebbe,
falsa i rapporti tra le determinazioni in gioco.
Ma, forse, la scansione dell’argomento in tre momenti
concettualmente distinti e non in due, come sembrerebbe-
ro interpretare taluni studiosi nelle loro ricostruzioni (così,
per esempio, sembra fare Viano, Metaph., p. 219, nota 1),
destituisce (o, meglio, concorre a destituire) l’accusa di un
fondamento teorico, in quanto vede distintamente chiama-
ti in causa prima il rapporto tra la diade e la Diade indefi-
nita, indi quello tra il numero e la diade e infine, quale mo-
mento ove si compie l’inferenza tra i primi due, il rapporto
tra il numero e la Diade indefinita. Così letto, il senso
dell’argomento sembra essere proprio quello che Alessan-
dro illustra quando specifica che per i Platonici la Diade
indefinita, assieme all’Uno, essendo principio delle Idee e
queste essendo numeri, è anche principio del numero. Ma
l’argomento or ora esaminato, dimostrando che i presup-
posti teorici stessi che portano a istituire le Idee esigono
che queste siano anteriori ai principi, dimostra, assieme al
successivo, «che le Idee distruggono i principi. Ma una vol-
ta distrutti questi, verranno meno anche le cose che sono
dopo i principi, posto che da questi derivano, quindi anche
le Idee» (85, 18-21). Ossia, in ultima istanza, la teoria delle
Idee si distrugge da se stessa, sulla base degli stessi presup-
posti che porterebbero a postularla.

5.2.2 Il secondo argomento che conduce a un tale esito


prende le mosse dalla conclusione del primo, ossia che, in
180 OPERE FILOSOFICHE

realtà, non la Diade indefinita è principio del numero, ma


questo è principio di quella, di modo che l’assurdo che mo-
stra essere insito in quest’assunto può, sotto un certo profi-
lo, intendersi come una prosecuzione e un ulteriore ribadi-
mento della medesima infondatezza della postulazione
delle Idee già mostrata nel primo argomento. L’assurdo,
spiega Alessandro (In Arist. Metaph., 86, 6-11), consiste in
questo: «se il numero è un relativo, giacché ogni numero è
numero di qualcosa, e se è il primo tra gli enti, dato che lo è
anche rispetto alla Diade, che i Platonici considerano prin-
cipio, allora ciò che è relativo dovrebbe essere anteriore,
secondo i Platonici, a ciò che è per sé. Ma è assurdo, poiché
ogni relativo è posteriore. Il relativo, infatti, indica la pro-
prietà di una realtà preesistente, la quale è prima rispetto
alla proprietà che le si è aggiunta».
Qui non è tanto la nozione di relativo quale risulta da
Cat., 7 che sembra essere chiamata in causa. Se così fosse, si
sarebbe dovuto dire che il relativo, essendo costitutivamen-
te relativo di un correlativo (Cat., 7, 6 b 28; 7 a 22-23), è si-
multaneo a questo (Cat., 7, 7 b 15) e dunque non può mai
essere il primo. Sembra invece che sia in causa la nozione
accademica di «enti relativi (ta# pro@v ti)» nella loro distin-
zione dagli «enti per sé (ta# kaqˆ auéta@)» (cfr. Platone, Soph.,
255 c-d; Divis. Arist., n. 67), come induce a credere il rilievo
che il relativo esprime la proprietà di un ente e, in quanto
tale, non può essere per sé, rilievo nel quale si concentra
l’essenza della distinzione accademica suddetta; e inoltre,
come fa pensare il fatto che il numero nelle Categorie non
è detto essere un relativo, bensì una quantità, ed esatta-
mente una quantità discreta (Cat., 6, 4 b 22-23).
Questo non significa, ad avviso di chi scrive, che nel mo-
mento di formulare questa critica della dottrina delle Idee
Aristotele non aveva ancora elaborato la dottrina delle ca-
tegorie, ma piuttosto che, riferendosi determinatamente
all’idea accademica di enti relativi e assimilando a questo
SUL BENE 181

tipo di enti il numero in quanto esprimente una certa pro-


prietà di una cosa, ha con ciò stesso inteso rimarcare una
contraddizione interna alla teoria delle Idee. Insomma, la
distanza dall’idea di relativo definita nelle Categorie per
assumere l’idea accademica di enti relativi sembra essere
alcunché di deliberatamente voluto dallo Stagirita e una
scelta strategica del suo argomentare. In quest’ordine di
considerazioni, anzi, il prosieguo del commento di Alessan-
dro sembra avvalorare l’ipotesi che questo stesso argomen-
to presuppone la dottrina delle categorie. Se infatti si chie-
desse che tipo di proprietà delle cose è il numero, sarebbe
logico rispondere che è una quantità. Esattamente alla
quantità fa riferimento il commentatore quando, subito ap-
presso, quasi volendo correggere l’assunto che il numero è
un relativo – o, meglio, quasi volendo precisare che tale as-
sunto non corrisponde a una tesi di Aristotele, ma che que-
sti, così qualificando il numero, si è volutamente rifatto a
una dottrina accademica –, osserva che, «anche se si voles-
se dire che il numero è una quantità e non un relativo, ne
seguirebbe che, per i Platonici, la quantità è prima della so-
stanza» (Alex., In Arist. Metaph., 86, 11-12). Ma proprio le
Categorie, come s’è detto, pongono che il numero è una
quantità. La precisazione di Alessandro, nel modo stesso in
cui è asserita, sembra richiamare questa circostanza.

5.2.3 Le altre incongruenze cui accenna Aristotele in meri-


to al conflitto tra le Idee e i principi sono, ad avviso di
Alessandro (In Arist. Metaph., 87, 3-24), le seguenti: (a)
l’esistenza dei principi è vanificata dal fatto che anteriore a
essi sarebbe l’Idea di principio. Ché, «se il termine comune
che si predica di alcune cose è principio e Idea di esse, e se
“principio” è il predicato comune dei principi ed “elemen-
to” degli elementi, dovrebbe esserci qualcosa di anteriore e
principio dei principi e degli elementi. Ma in tal modo non
potrebbe essere né principio né elemento». (b) L’Uno e la
182 OPERE FILOSOFICHE

Diade indefinita non possono essere principi perché sono


Idee e «non c’è un’Idea che sia anteriore a un’altra, poiché
tutte le Idee sono principi allo stesso modo». (c) Se l’Uno e
la Diade indefinita sono principi e, precisamente, il primo è
principio formale e la seconda principio materiale, poiché
la materia è determinata dalla forma si avrà che l’Idea di
Diade, ossia la Diade in sé, sarà informata dall’Idea
dell’Uno, ossia dall’Uno in sé. Ma «è assurdo che un’Idea
riceva la sua forma da un’altra Idea, dal momento che tutte
le Idee sono forme». (d) «Se» invece «i Platonici non di-
ranno che la Diade indefinita è un’Idea», a essa, che pure è
principio, ossia determinazione prima, sarà anteriore l’Idea
di diade o Diade in sé. (e) «Le Idee sono semplici»; come
tali non possono «derivare da principi» che siano «diversi
tra loro», come per l’appunto sono l’Uno e la Diade indefi-
nita. (f) Se si pone una Diade in sé, una Diade indefinita e
la diade matematica, ossia il numero due, «ci sarà un incre-
dibile numero di diadi».

6. Nel seguito del passo in cui indica le quattro giustifica-


zioni dei principi, Alessandro dà notizia di come da que-
sti si generano i numeri. Egli adduce tale spiegazione, che
corrisponde al riassunto di un luogo del Peri# taègaqou^, a
commento di Metaph., I, 6, 987 b 34 ss. dove Aristotele, a
conclusione del confronto tra Platone e i Pitagorici in
merito alla concezione del numero,21 afferma che «l’aver
posto una Diade come l’altra natura ebbe come causa il
generare naturalmente da essa i numeri, eccetto quelli
primi, come da un qualche materia plasmata e informan-
te». Indi muove una critica a questo procedimento. Si
tratta della generazione dei numeri pari, dal momento
che quelli che sono detti fare eccezione a tale generazio-
ne sono i numeri dispari, in questi dovendosi identificare
i «numeri primi», come la maggior parte degli studiosi ri-
conosce.22
SUL BENE 183

È subito importante osservare la «natura diversa» della


Diade rispetto a quella dei numeri sia ideali che matemati-
ci, dal momento che essa funge da principio del loro gene-
rarsi e il principio non ha la stessa «natura» del principiato.
Donde, rispetto ai numeri matematici (di cui qui è questio-
ne), la logica conclusione che, essendo la serie di questi nu-
meri infinita, ossia indeterminata, l’indeterminatezza della
Diade dovrà essere, per un verso, dello stesso tipo di quella
della serie numerica, così da indicare un indeterminato au-
mentare e diminuire, ma, per altro verso, dovrà essere di
tipo diverso da questa, per il fatto stesso di essere l’inde-
terminatezza del principio rispetto a quella del principiato,
e significare perciò una dimensione qualitativa e non già
direzionale, intrinseca alla Diade stessa. È una riconferma
dell’ipotesi esegetica avanzata nell’analisi delle due testi-
monianze riportate da Simplicio, nelle pagine precedenti.
La spiegazione di Alessandro, attinta direttamente dal
Peri# taègaqou^, della generazione dei numeri pari fa ricorso
alla Diade come fattore di duplicazione, nei termini se-
guenti:

gli sembrava che la Diade fosse atta a dividere tutto ciò a cui
veniva riferita. Per questo la chiamava anche produttrice del
due. Infatti, duplicando ciascuna delle cose alle quali viene riferi-
ta, in qualche modo la divide, non permettendo che resti ciò che
era. E questa divisione è generazione di numeri. Come le mate-
rie plasmate e informanti, ossia gli stampi, rendono simili a sé
tutte le cose che sono state adattate dentro di essi, così anche la
Diade, come se fosse una materia plasmata e informante, diviene
atta a generare i numeri successivi a essa, rendendo due e dop-
pio ciascuno al quale venga riferita. Infatti, essendo riferita
all’uno, produsse i due (infatti, due è due volte uno), ed essendo
riferita ai due produsse i quattro (infatti, i quattro sono due volte
due), e d essendo riferita al tre produsse il sei, e similmente negli
altri casi (Alex., In Arist. Metaph., 57, 3-11 = fr. 2).
184 OPERE FILOSOFICHE

I numeri dispari, poi, si generano per aggiunzione di un’uni-


tà a quelli pari, come ancora Alessandro precisa:

se viene aggiunta una monade a ciascuno dei numeri pari, si


producono quelli dispari, ma una monade che non sia l’uno
<assunto> come principio – giacché questo è produttore di for-
me, ma non della materia –, bensì, come il grande e il piccolo
definiti con l’uno erano il due, così anche ciascuno di essi defi-
nito con l’uno è detto essere una monade (Alex., In Arist. Me-
taph., 57, 24-28 = fr. 2).

Berti (Primo Aristotele, p. 292) ha mostrato con solidi argo-


menti grammaticali e logici che colui che considerava la dia-
de «produttrice del due (duopolio@v)» fu Platone, non Ari-
stotele, e che quest’ultimo riferisce una dottrina del primo.
Sennonché, la spiegazione data da Alessandro, accolta e
avvalorata tra gli altri da Bekker (Diairetische Erzeugung,
pp. 464-501), Stenzel (Zahl, pp. 30-53) e Wilpert (Aristoteli-
sche Frühschriften, pp. 207-209), trova un forte motivo
d’opposizione nel fatto di veder attribuita alla Diade una
funzione attiva nella generazione dei numeri, in contrasto
con il suo essere principio materiale e dunque passivo.
Inoltre, tale spiegazione trascura completamente la struttu-
rale indeterminatezza della Diade indefinita, composta
com’è dal Grande e dal Piccolo, dal difetto e dall’eccesso
(cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 294).
Sono state così proposte interpretazioni del passo in
esame ben diverse da quella fornita da Alessandro. Tra es-
se, particolare attenzione riveste l’interpretazione di Ross
(Ideas, pp. 202-205). Convinto che il Grande e il Piccolo de-
rivino direttamente dal più e dal meno del Filebo e che per-
tanto la Diade esprima una pluralità indefinita, lo studioso
respinge l’idea che per Platone essa potesse avere una fun-
zione duplicatrice. Individua invece nel processo di genera-
zione dei numeri un processo di successive determinazioni
SUL BENE 185

operate dall’Uno, in quanto principio formale, su tale plu-


ralità indeterminata o, più precisamente, sull’indetermina-
to rapporto fra due grandezze, costituito dalla Diade. Così
l’Uno, operando in modi diversi su tale rapporto indeter-
minato, produce quei rapporti determinati che sono i nu-
meri e agisce perciò come principio formale su un principio
materiale.
Ross ritiene che, se questa è l’effettiva dottrina di Plato-
ne, quella presentata da Aristotele nel Sul bene si riferisce
invece a Senocrate. Questi, infatti, confuse i numeri ideali
con quelli matematici, e i numeri di cui Aristotele indica
qui il processo generativo sono di tipo aritmetico.
Ma proprio quest’ultima annotazione permette di re-
spingere la conclusione che Aristotele attribuisce a Platone
una dottrina di Senocrate. In effetti, se ciascuno dei numeri
ideali costituisce un’unità formale, ossia, per così dire, l’Uno
della dualità, della ternità, della quaternità e via seguitan-
do, e d’altro canto la Diade indefinita di Grande e Piccolo,
principio materiale dei numeri ideali, esprime la forma di
quell’indeterminato o di quell’indefinito che costituisce il
principio materiale dei numeri matematici, è di questi ulti-
mi che nel passo in esame bisogna vedere indicata la gene-
si, a partire, per l’appunto, dall’azione della Diade quale
forma del principio materiale di questi numeri stessi.
E che la Diade non sia soltanto principio materiale (dei
numeri ideali), ma anche forma (del principio materiale dei
numeri matematici) è ben testimoniato dal termine
eèVmagei^on qui usato dallo Stagirita per designarla (esso
compare già in Platone, Thaet., 191 c; 196 a; Tim., 50 c). Tale
termine, come ha ben spiegato Berti, non indica semplice-
mente la materia, ma una materia che a sua volta conferi-
sce ad altro la forma che riceve. «ˆEVmagei^on – ha scritto lo
studioso – è propriamente il recipiente di creta in cui viene
versato il bronzo fuso destinato a formare la statua. Come
tale, esso riceve la forma dall’azione plasmatrice dell’arti-
186 OPERE FILOSOFICHE

sta, e dunque può essere considerato principio passivo, ma-


teriale; ma a sua volta esso trasmette la forma al bronzo
che vi è introdotto, e dunque svolge anche una funzione
attiva, formatrice» (Berti, Primo Aristotele, p. 296).
La Diade, in quanto eèkmagei^on (ho tradotto il termine
con «materia plasmata e informante» proprio per indicare
la duplice natura al tempo stesso passiva e attiva della dia-
de; Reale, più sinteticamente, lo rende con «matrice», e
questo termine è usato anche da altri studiosi) riceve la for-
ma dell’Uno, concorrendo così alla generazione di numeri
ideali e, a sua volta, permette la formazione di quell’infini-
to indeterminato avente funzione di materia sul quale i nu-
meri ideali, agendo come principio formale, generano i nu-
meri matematici e, in particolare, i numeri dispari. In effetti,
il principio materiale di tali numeri, quel principio, cioè, di
cui la Diade indefinita è forma, proprio in quanto deriva da
questa, che è indefinita nella direzione del grande e del pic-
colo, ossia dell’infinito accrescimento e dell’infinito decre-
scere, è materia che indefinitamente moltiplica e divide
quell’unità che di volta in volta riceve dal principio forma-
le. Detta unità, come si accennava, è espressa da ciascun
numero ideale. In tal modo la dualità, la ternità, la quater-
nità e così via, agendo ciascuna come un’unità sulla materia
derivante dalla Diade, vedono infinitamente raddoppiati i
due, i tre, i quattro, insomma i numeri fino al dieci di cui
esprimono l’unità formale. La dualità dà luogo così al 2, al
4, all’8, al 16; la ternità al 3, al 6, al 12, al 24; la quaternità al
4, all’8, al 16, al 32.
Come si vede, i numeri in causa sono numeri matemati-
ci, ma di essi si può ben dire che derivano dall’azione dei
numeri ideali su una materia derivante dalla Diade indefi-
nita di Grande e Piccolo. La ragione che induceva Ross ad
attribuire la dottrina qui a tema a Senocrate, pertanto, ca-
de, e la dottrina stessa rivela il suo carattere pienamente
platonico.
SUL BENE 187

La critica di Aristotele cui si accennava, formulata in Me-


taph., I, 6, 988 a 1 ss., è chiara:23 è la forma che, applicandosi
a una materia, genera molte volte (è l’unica forma del tavo-
lo che, applicata a più legni, genera più tavoli, ed è lo sper-
ma maschile, principio formale nella generazione degli ani-
mali, che può informare più gameti femminili, i quali hanno
funzione di materia); ma Platone attribuisce questa capacità
generatrice in senso distributivamente plurale alla materia,
capovolgendo lo strutturale rapporto tra materia e forma.
TESTIMONIA
TESTIMONIANZE

Aristox., Harm., 2, 20, 16 – 31, 3: come Aristotele racconta-


va spesso, la stragrande maggioranza di coloro che avevano
ascoltato da Platone la lezione sul bene, provava questi
sentimenti. In effetti, ciascuno vi era andato supponendo
che avrebbe appreso uno di questi che sono ritenuti beni
umani, ossia la ricchezza, la salute, la forza, complessiva-
mente una qualche meravigliosa felicità. Ma quando risultò
che i discorsi vertevano sulle matematiche, sui numeri, sul-
la geometria, sull’astronomia e, alla fine, che il bene è l’uno,
si manifestò loro qualcosa, credo, di completamente para-
dossale.

Arist., Phys., IV, 2, 209b 11-16: per questo, anche Platone


nel Timeo afferma che la materia e lo spazio sono identici:24
infatti, il ricettacolo e lo spazio sono un’unica e medesima
cosa. E, pur parlando in modo diverso qui25 e nelle cosid-
dette dottrine non scritte, tuttavia ha dichiarato identici il
luogo e lo spazio.

Them., In Arist. Phys., 106, 21-23: eppure, che la materia


accolga le Idee, <Platone> nel Timeo afferma in un modo,
nelle dottrine non scritte in un altro: là, infatti, per parteci-
pazione, mentre nelle dottrine non scritte per somiglianza.

Philop., In Arist. Phys., 515, 29-32: se <Platone> nel Timeo


190 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 191

chiamò la materia in modo diverso, denominandola «ricet-


tacolo», mentre nelle conversazioni non messe per iscritto
la chiama «grande e piccolo», non facciamo nessuna diffe-
renza, tranne che egli sostiene che il ricettacolo sono lo
spazio e il luogo.

Philop., In Arist. Phys., 521, 9-15: ossia, chiamando la mate-


ria nel Timeo in un modo e in un altro nelle dottrine non
scritte, ossia nelle conversazioni non messe per iscritto.
<Infatti>, nelle conversazioni non messe per iscritto chia-
mava la materia «grande e piccolo», come in precedenza ha
detto Aristotele, e noi esponiamo per quale motivo la ma-
teria è grande e piccolo; invece nel Timeo chiama la mate-
ria «ricettacolo» per il fatto che riceve le Idee. Lo stesso
Aristotele mise per iscritto le conversazioni di Platone non
messe per iscritto.

Simpl., In Arist. Phys., 503, 10-18: <Aristotele>, avendo mo-


strato che l’infinito è avvolto più che avvolgere e che per
sua stessa natura è inconoscibile, confuta l’esplicazione su-
perficiale delle dottrine di Platone. Poiché Platone nelle
dottrine Sul bene aveva sostenuto che la materia è il gran-
de e il piccolo, che diceva anche indeterminata, e che tutte
le cose sensibili sono avvolte dall’infinito, e che sono inco-
noscibili per il fatto di avere natura materiale, indetermi-
nata e mobile, egli sostiene che a una tale dottrina sembra
fare seguito che anche negli intelligibili vi siano quelli che
colà sono il grande e il piccolo, nella qual cosa consiste la
Diade indefinita, la quale è anch’essa principio assieme
all’Uno di ogni numero e di tutti gli enti. Le Idee, infatti,
sono numeri.

Simpl., In Arist. Phys., 542, 9-12: egli (scil. Aristotele) affer-


ma che <Platone> nel Timeo chiamò la materia in un mo-
do, nelle conversazioni non messe per iscritto in un altro. In
192 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 193

effetti, nel Timeo la chiama «ricettacolo» (giacché in un


qualche modo assai aporetico riceve l’intelligibile), mentre
nelle conversazioni non messe per iscritto la chiamava
«grande e piccolo».

Simpl., In Arist. Phys., 545, 23-25: il ricettacolo, nelle con-


versazioni Sul bene non messe per iscritto lo chiamava
«grande e piccolo», nel Timeo materia, che denominava an-
che luogo e spazio.

Arist., De an., I, 2, 404b 18-21: in pari modo si sono date


definizioni anche nello scritto Sulla filosofia, ossia che il vi-
vente in sé deriva dalla stessa idea dell’uno e dalla prima
grandezza, larghezza e profondità, e che le altre cose deri-
vano in maniera simile.26

Philop., In Arist. De an., 75, 34-76, 1: chiama le cose che ha


trascritto Sul bene, Sulla filosofia. In esse Aristotele rac-
conta le conversazioni di Platone non messe per iscritto. Il
suo libro è legittimo. In esso, dunque, racconta l’opinione
di Platone e dei Pitagorici sugli enti e sui loro principi.27

Simpl., In Arist. de an., p. 28, 7-9: ora chiama Sulla filosofia


il trattato Sul bene, da lui trascritto dalla conversazione di
Platone, trattato nel quale racconta le opinioni dei Pitago-
rici e dei Platonici sugli enti.28

Ascl., In Arist. Metaph., p. 77, 2-4: tuttavia sosteniamo che


non esistono Idee di cose cattive. Infatti, la cose cattive sus-
sistono senza un solido fondamento e sopravvengono,
com’è detto nelle conversazioni platoniche.
FRAGMENTA
FRAMMENTI

1 (R2 22, R3 27)

Vita Aristotelis Marciana, p. 433, 10-15: Aristotele fu molto


misurato nel carattere, se nelle Categorie sostiene che non
ci si deve pronunciare frettolosamente, ma dopo aver riflet-
tuto molte volte, e che, di certo, neppure svolgere soltanto
le difficoltà è senza utilità. E nell’opera Sul bene <afferma>
che bisogna ricordarsi che è uomo non soltanto colui che
ha successo, ma anche colui che opera dimostrazioni.

2 (R2 23, R3 28)

Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 55, 20-57, 28: Platone e i


Pitagorici ipotizzavano come principi degli enti i numeri,
poiché sembrava loro che fossero principio ciò che è primo
e ciò che è incomposto, e che prime rispetto ai corpi sono le
superfici – infatti, sono prime per natura le cose più sempli-
ci e quelle che non si distruggono assieme –, rispetto alle
superfici, le linee, secondo il medesimo ragionamento, e ri-
spetto alle linee, i punti, che i matematici chiamavano segni
ed essi monadi: realtà che sono assolutamente incomposte
e che non hanno nulla prima di sé. Ma le monadi sono nu-
meri; dunque, i numeri sono i primi degli enti. E poiché le
forme sono prime e le Idee sono prime rispetto agli enti
che, a suo avviso, sono in relazione a esse e da esse hanno
l’essere – e che esse esistano, cerca di dimostrare con più
<argomenti> –, diceva che le forme sono numeri. Se infatti
196 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 197

ciò che è uno per forma è primo rispetto agli enti che sono
in relazione a esso, e nulla è primo rispetto al numero, allo-
ra le forme sono numeri. Perciò sosteneva che i principi del
numero sono principi delle forme e che l’uno è principio di
tutte le cose.
Inoltre, le forme sono principi delle altre cose, e delle
Idee, che sono numeri, sono principi i principi del numero.
E sosteneva che principi del numero sono la monade e la
diade. Poiché, infatti, nei numeri vi sono l’uno e ciò che è
oltre l’uno, ossia molti e pochi, ciò che per primo è in essi
oltre l’uno, questo ponevano come principio dei molti e dei
pochi. Ma la diade è prima oltre l’uno, avendo in sé sia il
molto che il poco. Infatti, il doppio è molto, mentre il mez-
zo è poco, ed essi sono nella diade. Ed è contraria all’uno,
se veramente questo è indivisibile, mentre essa è divisa.
Inoltre, ritenendo di dimostrare che l’uguale e il disu-
guale sono principi di tutte quante le cose, sia di quelle
che sono per sé che di quelle contrarie – tutte, infatti, cer-
cava di ricondurre a questi, come se fossero le <determi-
nazioni> più semplici – poneva l’uguale sotto la monade e
il disuguale sotto l’eccesso e il difetto. Infatti, la disugua-
glianza consiste in due cose, nel grande e nel piccolo, i
quali sono eccedente e difettante. Per questo, la chiamava
anche Diade indefinita, perché nessuno dei due, né ciò
che eccede né ciò è ecceduto, in quanto tale, è definito, ma
indefinito e illimitato. Ma, dopo esser stata definita
dall’uno, la Diade indefinita diventa la diade che è nei nu-
meri, giacché la diade siffatta è un uno per la forma.
Inoltre, il primo numero è la diade,29 e principi di questa
sono ciò che eccede e ciò che è ecceduto, poiché nella pri-
ma diade si trovano il doppio e il mezzo. Infatti, il doppio e
il mezzo sono, <rispettivamente>, eccedente ed ecceduto,
mentre non sempre ciò che eccede e ciò che è ecceduto so-
no doppio e mezzo. Di conseguenza, questi sono elementi
del doppio; e poiché ciò che eccede e ciò che è ecceduto,
198 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 199

quando siano stati definiti, divengono doppio e mezzo – in-


fatti, essi non sono più indefiniti, come non lo sono neppu-
re il triplo e il terzo, o il quadruplo e il quarto, o una delle
altre cose con eccesso già definito – e questo produce la
natura dell’uno (infatti, ciascuno è un’unità, in quanto è un
certo questo, ossia una cosa definita), elementi delle diade
che si trova nei numeri saranno l’Uno e il Grande e il Pic-
colo. Ma la diade è il primo numero; questi, dunque, sono
elementi della diade. E per certe ragioni di questo genere
Platone poneva l’Uno e la Diade come principi dei numeri
e di tutte quanti gli enti, come afferma Aristotele nell’ope-
ra Sul bene.
57, 3: questo perché gli sembrava che la Diade fosse atta
a dividere tutto ciò a cui veniva riferita. Per questo la chia-
mava anche produttrice del due. Infatti, duplicando ciascu-
na delle cose alle quali viene riferita, in qualche modo la
divide, non permettendo che resti ciò che era. E questa di-
visione è generazione di numeri. Come le materie plasmate
e informanti, ossia gli stampi, rendono simili a sé tutte le
cose che sono state adattate dentro di essi, così anche la
diade, come se fosse una materia plasmata e informante,
diviene atta a generare i numeri successivi a essa, rendendo
due e doppio ciascuno al quale venga riferita. Infatti, essen-
do riferita all’uno, produsse i due (infatti, due è due volte
uno), ed essendo riferita ai due produsse i quattro (infatti, i
quattro sono due volte due), ed essendo riferita al tre pro-
dusse il sei, e similmente negli altri casi [...]
57, 24-28: infatti, se viene aggiunta una monade a ciascu-
no dei numeri pari, si producono quelli dispari, ma una mo-
nade che non sia l’uno <assunto> come principio – giacché
questo è produttore di forme, ma non della materia –, ben-
sì, come il grande e il piccolo definiti con l’uno erano il due,
così anche ciascuno di essi definito con l’uno è detto essere
una monade.
200 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 201

Alex. Aphr. presso Simpl., In Arist. Phys., p. 454, 19-455, 14:


e Alessandro, convenendo di parlare anch’egli a partire dai
discorsi di Platone Sul bene, che Aristotele e gli altri com-
pagni di Platone raccontarono, ha scritto queste cose: «Pla-
tone, infatti, cercando i principi degli enti, poiché gli sem-
brò che il numero fosse per natura primo rispetto alle altre
cose (e infatti i limiti della linea sono punti, e i punti sono
monadi dotate di posizione, e senza linea non esistono né
superficie né solido, mentre il numero può esistere anche
indipendentemente da questi), poiché dunque il numero è
per natura primo rispetto alle altre cose, riteneva che que-
sto fosse principio e che i principi del primo numero fosse-
ro anche principi di ogni numero. Ma il primo numero è la
diade, i cui principi diceva che sono l’Uno e il Grande e il
Piccolo. Infatti, in quanto è diade, ha in sé moltitudine e
pochezza: infatti, in quanto in essa vi è il doppio, c’è molti-
tudine (ché, il doppio è moltitudine, eccesso e una certa
grandezza); in quanto, invece, vi è il mezzo, c’è pochezza.
Perciò, secondo queste <considerazioni>, in essa vi sono
eccesso e difetto, grande e piccolo. Ma in quanto ciascuna
delle sue parti è una monade, ed essa è una certa forma
unitaria, ossia quella diadica, essa partecipa della monade.
Perciò sosteneva che principi della diade sono l’Uno e il
Grande e il Piccolo. Ed affermava che essa è una diade in-
definita per il fatto di avere, partecipando del grande e del
piccolo, ovvero del maggiore e del minore, il più e il meno.
Questi infatti, procedendo nella direzione dell’accresci-
mento e della diminuzione, non si arrestano, ma avanzano
verso l’indefinito dell’illimitatezza. Poiché dunque il primo
dei numeri è la diade, e principi di essa sono l’Uno e il
Grande e il Piccolo, necessariamente questi sono principi
anche di ogni numero. Ma i numeri sono elementi di tutti
gli enti. Per cui l’Uno e il Grande e il Piccolo, ovvero la
Diade indefinita, sono anche principi di tutte le cose. E in-
fatti ciascuno dei numeri, in quanto è questo determinato
202 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 203

<numero>, uno e definito, partecipa dell’Uno, ma in quan-


to si divide ed è una quantità, partecipa della Diade indefi-
nita. Ma Platone sosteneva che anche le Idee sono numeri.
È logico, dunque, che dei principi del numero abbia fatto i
principi anche delle Idee. E sosteneva che la Diade è la na-
tura dell’indeterminato, poiché il grande e il piccolo, ovve-
ro il maggiore e il minore non sono definiti, ma possiedono
il più e il meno, i quali procedono verso l’illimitato». Ari-
stotele dunque, dopo aver esposto in questi termini in qua-
li cose i Pitagorici ponevano l’indeterminato e in quali lo
poneva Platone, di seguito racconta che cosa i Pitagorici
dicevano che è l’illimitato e per quale motivo.

Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 85, 16-18: Principi sono


l’Uno e la Diade indefinita, come egli (scil. Aristotele) po-
co prima ha esposto30 e ha raccontato nell’opera Sul bene.
Ma a loro avviso (scil., dei Platonici), questi sono principi
anche del numero.

Simpl., In Arist. Phys., p. 151, 6-19: Alessandro afferma che


«ad avviso di Platone, principi di tutte le cose e delle stesse
Idee sono l’Uno e la Diade indefinita, che chiamava Gran-
de e Piccolo, come anche Aristotele ricorda nell’opera Sul
bene». Lo si può assumere anche presso Speusippo, Seno-
crate e gli altri che furono presenti alla lezione di Platone
sul bene. Tutti, infatti, trascrissero e custodirono la sua opi-
nione, ed affermano che egli fece uso di questi principi. Ed
è del tutto verisimile che Platone sostenga che l’Uno e la
Diade indefinita sono principi di tutte le cose (infatti, il ra-
gionamento è dei Pitagorici, e in molti luoghi appare che
Platone segue i Pitagorici), ma il sostenere che la Diade
indefinita costituisce anche un principio31 delle Idee, chia-
mandola Grande e Piccolo <e> indicando con questi la ma-
teria, in che modo è, inoltre, conseguente, specificando
Platone che la materia esiste nel solo mondo sensibile e
204 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 205

dicendo chiaramente nel Timeo che è propria della genera-


zione, e che in essa si genera ciò che si genera? E sostenne
che le Idee sono conoscibili con il pensiero, mentre la ma-
teria «può essere creduta con un ragionamento bastardo».

Simpl., In Arist. Phys., pp. 453, 25-454, 19: dicono, infatti, che
Platone affermava che l’Uno e la Diade indefinita sono prin-
cipi anche delle cose sensibili, ma, dopo aver posto la Diade
indefinita pure tra le cose intelligibili, sosteneva che è illimi-
tata, e sosteneva anche che il Grande e il Piccolo, che aveva
posti come principi, sono un illimitato, in quei discorsi Sul
bene32 avendo assistito ai quali Aristotele, Eraclide, Estieo e
altri amici di Platone misero per iscritto in forma enigmatica
le cose che erano state dette, nel modo in cui erano state
dette; invece Porfirio, annunciando di correggerle, di esse,
<trattate> nel Flebo, ha scritto queste cose: «egli (scil., Plato-
ne) pone il più e il meno, e l’intensamente e il dolcemente
sono propri della natura dell’illimitato. Infatti, dove questi
siano insiti procedendo nella direzione dell’accrescimento e
della diminuzione, ciò che partecipa di essi non s’arresta né
giunge a compimento, ma procede verso l’indefinito dell’illi-
mitatezza. Similmente stanno anche il maggiore e il minore
e le cose nominate da Platone in luogo di essi, ossia il Gran-
de e il Piccolo. Si abbia, infatti, una certa grandezza limitata,
per esempio un cubito; essendo questo diviso in due, se la-
sceremo uno dei due semicubiti indiviso e, tagliando invece
l’altro semicubito, lo aggiungessimo a poco a poco a quello
indiviso, il cubito avrebbe due parti: una che procede verso il
minore e l’altra che procede verso il maggiore, ininterrotta-
mente. Infatti, tagliando non giungeremmo mai a una parte
indivisibile: giacché il cubito è continuo, e il continuo si divi-
de in <parti> sempre divisibili. Ebbene, un tale ininterrotto
tagliare mostra una certa natura dell’illimitato racchiusa nel
cubito, o piuttosto più nature: una che procede verso il gran-
206 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 207

de e una che procede verso il piccolo. In questi casi si scorge


anche la Diade indefinita, costituita dalla monade che pro-
cede verso il grande e dalla monade che procede verso il
piccolo. E queste cose appartengono sia ai corpi continui
che ai numeri. Infatti, la diade è il primo numero pari, e nella
natura del pari sono racchiusi sia il doppio che il mezzo, ma
il doppio <risiede> in un eccesso, il mezzo in un difetto. Nel
pari vi sono, dunque, eccesso e difetto. La diade tra i numeri
è il primo pari, ma, mentre in sé è indefinita, è definita per la
partecipazione all’Uno. La diade, infatti, è definita in quanto
è una certa forma unitaria. Pertanto, l’Uno e la Diade sono
elementi anche dei numeri: il primo come <elemento> che
determina e produce la forma, mentre la seconda è indeter-
minata sia in eccesso che in difetto». Queste cose disse Porfi-
rio quasi letteralmente, avendo annunciato di correggere le
cose che erano state dette in forma enigmatica nella conver-
sazione Sul bene, e forse perché esse erano concordanti con
quelle scritte nel Flebo.

3 (R2 24, R3 29)

Sext. Emp., Adv. Math., III, 57: ma in realtà Aristotele [...]


afferma che ciò che vien detto da costoro (scil. dai geome-
tri), ossia una lunghezza senza larghezza, è inintelligibile,
però a noi è possibile giungere alla nozione indipendente-
mente da ogni difficoltà. E istituisce l’argomentazione su di
un esempio piuttosto efficace ed evidente: effettivamente
– egli dice – afferriamo la lunghezza di un muro anche sen-
za fissare insieme lo sguardo sulla sua larghezza, per cui
sarà pure possibile intendere la lunghezza di cui parlano i
geometri indipendentemente da una certa larghezza.

Sext. Emp., Adv. Math., IX, 412: ma in realtà Aristotele soste-


neva che la lunghezza senza larghezza <che troviamo> pres-
208 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 209

so i geometri è inintelligibile (però afferriamo la lunghezza


di un moro – egli dice – indipendentemente dal considerare
la larghezza del muro).

4 (R2 25, R3 30)

Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 59, 28 – 60, 2: si ricerche-


rà come mai, pur avendo Platone parlato della causa effi-
ciente là dove dice: «è <nostro> compito, dunque, ricerca-
re e mostrare il facitore e il padre di ogni cosa»,33 ma an-
che della causa finale e del fine, con le <parole> con cui,
di nuovo, dice: «tutte le cose riguardano il re di tutte le
cose e tutte sono finalizzate a lui»,34 Aristotele non si sia
ricordato di nessuna di queste due cause nella <sua> opi-
nione di Platone? O perché là dove parlava delle cause
non si è ricordato di nessuna di queste, come ha mostrato
nell’opera Sul bene; oppure perché non le pone come cau-
se delle cose che si trovano nella generazione e nella cor-
ruzione, e neppure ha prodotto alcunché intorno a esse.

5 (R2 26, R3 31)

Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 250, 17-20: per ciò che ri-
guarda il conoscere che quasi tutti i contrari si riconducono
all’uno e alla moltitudine come al loro principio, ci rimanda
alla Scelta dei contrari, sul presupposto d’averne trattato
particolarmente. Di una tale scelta ha parlato anche nel se-
condo libro dell’opera Sul bene.35

Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 262, 18-26: tramite l’espres-


sione «infatti da parte nostra sia stata assunta l’induzione»
ci rimanda di nuovo a ciò che ha raccontato nel secondo
libro dell’opera Sul bene.

Asclep., In Arist. Metaph., 237, 11-14: per ciò che riguarda il


210 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 211

conoscere che quasi tutti i contrari si riconducono all’uno e


alla moltitudine come al loro principio, ci rinvia alla Scelta
dei contrari, sul presupposto d’averne trattato particolar-
mente. Di una tale scelta ha parlato anche nel secondo li-
bro dell’opera Sul bene.35

Asclep. Aphr., In Arist. Metaph., p. 247, 17-21: dopo aver


detto che tutti i contrari si riportano all’uno e alla molti-
tudine, e ciò mediante quella raccolta dei contrari che è
stata operata nel secondo libro dell’opera Sul bene, e do-
po aver assunto anche che i contrari sono elementi degli
enti e della sostanza, afferma che da queste <considera-
zioni> è chiaro che la speculazione sull’ente in quanto
ente è propria di una sola scienza.

Ps. Alex., In Arist. Metaph., p. 615, 14-17: infatti, nell’opera


Sul bene ha operato una divisione, come abbiamo detto an-
che in altri <luoghi>, mediante la quale ha ricondotto tutti
quanti i contrari alla moltitudine e all’uno. Ora, l’identico,
il simile e l’uguale sono propri dell’uno, mentre della molti-
tudine sono propri il diverso, il dissimile e il disuguale.

Ps. Alex., In Arist. Metaph., p. 642, 38-643, 3: queste prime


contrarietà dell’ente, egli dice, tanto che si tratti della mol-
titudine e dell’uno, o della somiglianza e della dissomiglian-
za, o di alcune altre, siano state poste. Infatti, quali esse sia-
no ha detto nel suo libro, scritto Sul bene.

Ps. Alex., In Arist. Metaph., p. 695, 23-26: dopo aver detto


queste cose, afferma: «che anche la causa finale, oltre che
nelle cose che abbiamo detto, esista in quelle immobili, mo-
stra la divisione», chiamando «divisione» quella nella quale
sovente ha sostenuto d’aver operato la raccolta dei contra-
ri. E l’ha operata nel libro scritto Sul bene.
212 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 213

Asc., In Arist. Metaph., p. 79, 7-10: vogliono maggiormente,


anzi moltissimo, che i principi esistano. Infatti, per loro i
principi sono principi anche delle stesse Idee. Essi sono
l’Uno e la Diade indefinita, come s’è detto poco prima e co-
me egli (scil. Aristotele) ha raccontato nell’opera Sul bene.36
214 OPERE FILOSOFICHE

Note
1
Cfr. Cherniss, Plato.
2
Cfr. Ast, Platons, p. 390; Zeller, Darstellung, pp. 199-200; 295-300;
Techmuüller, Fehden, pp. 228-232; Shorey, Doctrina, pp. 31-39; Kluge,
Darstellung, pp. 65-74; Ritter. Platon; Natorp, Ideenlehre, pp. 384-456;
Isnardi Parente, Accademia platonica.
3
È questa la tesi della cosiddetta Scuola di Tubinga, portata avanti
da Krämer (Arete) e Geiser (Ungeschreiebene Lehre), ripresa di re-
cente da Szlezàk (Platon) e Reale (Nuova interpretazione), ma che già
in precedenza era stata proposta da Gomperz (System, pp. 426-431).
4
Tra i sostenitori di questa linea esegetica vanno ricordati Zeller
(Griechen, II, 1, pp. 985-986), Trendelenburg, Doct(rina), Susemhil
(Entwickelung, pp. 507-508), Jackson (Plato’s later theory; 10, 1881),
Burnet (Greek philosophy, I, pp.178, 214, 313), Taylor (Plato, pp. 10,
503, 504), Frank (Platon, pp. 93-95), Stenzel (Zaahl), Robin (Rapports,
pp. 134-136), Wilpert (Aristotelische Früschriften), De Voegel (Pro-
blems), Ross (Ideas, pp. 142-153), Mansion A. (Aristotelisme), Berti
(Primo Aristotele, pp. 202 ss.).
5
Anche il passo «poiché le Idee ... peculiare» è controverso, e anche
per esso non posso discutere analiticamente le interpretazioni che sono
state date, perché ciò equivarrebbe a discutere una bibliografia critica
che di fatto abbraccia l’intero volume degli studi sulle cosiddette dottri-
ne non scritte di Platone e il valore che in merito a esse va attribuito alla
ricostruzione aristotelica. La quale in questo passo, a proposito della ba-
silare questione dell’identità o meno delle Idee con i numeri ideali, lascia
aperta entrambe le possibilità, senza stringere in modo decisivo a favore
di una. Si veda a riguardo l’Introduzione a questo scritto, pp. 148 ss.
6
Simplicio, In Arist. Phys., 248, 2-5. Come ha puntualizzato Berti
(Primo Aristotele, p. 251, nota n. 128) con la precisione e la maestria
che contraddistinguono questo studioso, il frammento di Ermodoro,
messo in luce da E. Zeller, De Hermodoro Ephesio et Hermodoroi
platonico, Marburg 1859 e Griechen, II, 1, p. 982, nota n. 1 fu studiato
da Susemhil, Entwickelung, II, pp. 522 ss.; Heinze, Xenocrates, pp. 38-
40; P. Natorp, s.v. Hermodoros, in R. E. Pauly-Wissowa, V Suppl., 1861;
Robin, Théorie, pp. 645-647; Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp.
183-194; Id., Neue Fragmente, pp. 227-229; Cherniss, Plato, p. 89, nota
n. 60 e pp. 170-171; De Vogel, La dernière phase; Krämer, Arete, pp.
282-285.
7
Sulle difficoltà che intorno a questo testo sono state sollevate e
sulle relative soluzioni (quelle proposte da Heinze, cfr. Xernocrates,
pp. 37-40, innanzitutto, e da Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp.
229-236. Ma si veda anche C. De Vogel, Greek philosophy, Leiden,
Brill 1950, p. 277) cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 251, nota n. 131.
8
Cfr. Merlan, Baiträge, I; Wilpert, Neue Fragmente; De Vogel, La
dernière phase; Berti, Primo Aristotele., p. 214.
SUL BENE 215

9
Così Krämer, Arete, p. 260, nota n. 11.
10
Così, per esempio, Ross, Ideas, p. 186.
11
In questo modo ha pensato la distinzione qui a tema Berti,
aprendo così, al tempo stesso, la strada alla soluzione del problema, sì
che anche per quest’aspetto il suo contributo è illuminante e decisivo,
ma – forse – limitandone la portata. Ponendo, infatti, fortemente l’ac-
cento sull’«origine logica della classificazione degli enti, su cui giusta-
mente insiste Cherniss (Plato, pp. 169-170, nota n. 96)», così si è
espresso lo studioso: «è vero che a questa distinzione logica corri-
sponde una distinzione ontologica, come afferma Wilpert (Aristoteli-
sche Frühschriften, p. 184), ossia una distinzione fra aspetti della real-
tà, ma è anche vero che tali aspetti, distinti dal pensiero, si riconduco-
no tutti alle stesse realtà». Cosicché, conclude lo studioso, «i generi di
cui si fa questione sono generi di predicati, i quali nella realtà appar-
tengono tutti a uno stesso soggetto: ad esempio, di Socrate possiamo
dire che è uomo, nel qual caso gli avremo attribuito un predicato del
genere del per sé; che è giusto o ingiusto, nel qual caso gli avremo at-
tribuito un predicato del genere dei contrari; che è grande o piccolo,
nel qual caso gli avremo attribuito un predicato del genere dei relati-
vi. Alcuni predicati, ad esempio quello di uomo e di giusto, conferi-
scono determinatezza; altri, ad esempio quello di ingiusto, di grande o
piccolo, conferiscono invece indeterminatezza. Perciò in virtù dei pri-
mi un ente, ad esempio Socrate, dipende dal principio di determina-
zione, l’Uno; in virtù degli altri dipende dal principio di indetermina-
zione: la Diade indefinita. Dunque non è giusto dire che alcuni enti
dipendono da un principio e altri dal principio opposto, ma si deve
dire che ciascun ente, in virtù di alcuni suoi predicati dipende da un
principio e in virtù di altri suoi predicati dipende dal principio oppo-
sto» (Berti, Primo Aristotele, pp. 215 s.).
12
Può essere utile indicare in sinossi le tre classificazioni e così ri-
scontrarne la perfetta corrispondenza
Alessandro Ermodoro Sesto Empirico
kaqˆ auéta@ kaqˆ auéta@ kata# diafora@n =
uépokei@mena kaqˆ auéta@

{
pro#v eènanti@a kata# eènanti@wsiv
aèntikei@mena pro#v eçtera
pro@v ti pro@v ti
13
Cfr. Berti, Primo Aristotele., p. 219.
14
In proposito cfr. Reale, Nuova interpretazione, pp. 387 ss.
15
Così, per esempio, Stenzel, Zaahl, pp. 52 s.; Wilpert, Aristotelische
Frühschriften, p. 197; Krämer, Arete, p. 254.
16
Ciò è stato ben colto da Berti, Primo Aristotele, p. 220.
17
Nel citato passo di Metaph., I, 9, infatti, Aristotele, come quarta
critica alla teoria delle Idee oppone che «in generale, le argomentazio-
216 OPERE FILOSOFICHE

ni sulle Idee eliminano le cose che vogliamo che esistano più dell’esi-
stenza delle Idee», alludendo con ciò ai principi.
18
Questo l’intero commento di Alessandro, di cui solo una parte
(qui indicata in corsivo) è riportata da Ross come fr. 2: «ciò che ai
Platonici sta più a cuore e a cui tengono più che a ogni altra cosa è
l’esistenza dei principi, i quali sono per loro principi anche delle stesse
Idee. Principi sono l’Uno e la Diade indefinita, come egli (scil. Aristo-
tele) poco prima ha esposto [riferimento a Metaph., I, 6, 987 b 18-22] e
ha riferito nell’opera Sul bene. Ma a loro avviso (scil., dei Platonici),
questi sono principi anche del numero. Ebbene, Aristotele sostiene
che questi argomenti che dimostrano le Idee distruggono i principi».
19
È opportuno considerare, nel quadro complessivo dell’analogia
tra i due casi, il carattere redazionale di «appunti» (uépomnh@mata) per
l’insegnamento, comune ai passi in esame. Proprio perché erano anno-
tazioni di Aristotele per lo svolgimento di una lezione, non occorreva
mettere nuovamente e diffusamente per iscritto ciò che si era già
esposto in altra circostanza, in una specifica opera, ma bastava soltan-
to richiamarlo. Esattamente come si fa in una sorta di scaletta didatti-
ca. In tal senso e per questo motivo, il modo assolutamente brachilogi-
co che caratterizza questi passi di Metaph., I, 9 non denota affatto un
segno di inadeguatezza, neppure sotto il profilo stilistico.
20
Alex., In Arist. Metaph., 85, 21-86, 3: «<Premessa> Se, infatti, al di
sopra di tutte le cose di cui si predica il termine comune esiste un qual-
cosa di separato, vale a dire un’Idea, <a> e se anche della Diade inde-
finita si predica la diade, dovrebbe esserci qualcosa di anteriore a essa
e che è Idea: così la Diade indefinita non sarebbe più principio. <b> A
sua volta la diade non sarebbe più né prima né principio, perché, dac-
capo, anche di essa, in quanto Idea, si predica il numero. Le Idee, infat-
ti, sono considerate dai Platonici numeri; di conseguenza per loro il
numero, che è un’Idea, sarebbe la realtà prima. <c> Se le cose stanno
in questo modo, il numero sarà anteriore alla Diade indefinita, che per
loro è principio, e non viceversa. Posto ciò, la Diade non sarà più prin-
cipio, se è ciò che è per partecipazione a qualcosa»
21
In merito cfr. anche ante, p. 148.
22
Cfr., per esempio, Berti, Primo Aristotele, pp. 291 s. Differenti in-
terpretazioni sono state date da Trendelenburg e Swegler, per i quali si
tratta dei numeri ideali, in analogia con Metaph., XIV, 6, 1080 b 22; 7,
1081 a 4, 23, e da Taylor, che ritiene siano indicati i primi due numeri.
In proposito si vedano Ross, Metaph., I, pp. 173-173 e Robin, Théorie,
pp. 661 s. Il punto d’appoggio di coloro che nei «numeri primi» vedono
indicati i numeri dispari è – ancora una volta – il commento di Ales-
sandro (In Arist. Metaph., 57, 24-28), il quale attesta che così Aristotele
li concepisce in rapporto ai numeri pari.
23
Questo il passo: «Eppure le cose avvennero proprio in senso
contrario, giacché non era logico che <avvenissero> in quel modo.
Ché, dalla materia essi producono molte cose, mentre la forma genera
SUL BENE 217

un’unica volta soltanto. Ma risulta che da una sola materia deriva un


solo tavolo, mentre chi apporta la forma, pur essendo uno solo, ne pro-
duce molti. Similmente si comportano anche il maschio e la femmina:
ché, questa è fecondata da un solo accoppiamento, mentre il maschio
feconda molte <femmine>. Eppure, queste sono imitazioni di quei
principi. Platone, dunque, ha definito in questo modo le cose sulle qua-
li indaghiamo».
24
Cfr. Timeo, 51 a – 52 d
25
Ossia nel Timeo.
26
Riportato anche come fr. 9 del Sulla filosofia.
27
Riportato anche come fr. 11/5 del Sulla filosofia.
28
Riportato anche come fr. 11/4 del Sulla filosofia.
29
L’uno, infatti, più che un numero è il costitutivo dei numeri, che
sono, per l’appunto, aggregati o somme di unità. Si sente in questa tesi
l’eco della teoria pitagorica secondo cui, dividendosi i numeri in pari e
dispari, l’uno è entrambi: «parimpari», perché aggiunto a un numero
pari ne genera uno dispari e aggiunto a uno dispari ne genera uno pari.
Ora, i Platonici sembrano aver ragionato nel modo seguente: se i nu-
meri sono o pari o dispari e l’uno non è né pari né dispari, allora più
che essere entrambi non è un numero. Il primo numero è perciò il
due.
30
Riferimento a Metaph., I, 6, 987 b 18-22
31
Letteralmente «principi (¢rc£j) delle Idee», giustificandosi il
plurale «principi» col fatto che la Diade è (specificata da) «due» aspet-
ti, ossia il Grande e il Piccolo, come del resto subito appresso si dice.
32
Si tratta evidentemente della lezione sul bene che Platone tenne
nell’Accademia e che, secondo la testimonianza di Aristosseno (Harm.,
2, 20, 16 – 31, 3 = Test.), lasciò sconcertati gli uditori.
33
Tim., 28c.
34
Ep. II, 312e.
35
Riportato anche come testimonianza 3° del Sui contrari.
36
Riportato anche come testimonianza 5° del Sui contrari.
SULLE IDEE

INTRODUZIONE

1. Lo scritto “Sulle Idee” nelle testimonianze dei commenta-


tori e dei dossografi
Dello scritto aristotelico Sulle Idee (Peri# ièdew^n) è data spe-
cifica testimonianza da Alessandro di Afrodisia in tre luo-
ghi del suo commentario al libro Alpha della Metafisica, ed
esattamente in In Arist. Metaph., 94, 4; 85, 11; 98, 22
Hayduck. Da queste testimonianze, e precisamente dal fat-
to che nelle prime due il riferimento è al libro primo
dell’opera mentre nella terza è al secondo, si ricava che lo
scritto era in due libri. Ancora in due libri lo presentano
altri commentatori della Metafisica aristotelica, e precisa-
mente Siriano (cfr. fr. 1a e 1b), Ps.-Alessandro (cfr. fr. 1c) e
Ps.-Filopono (cfr. Testimonianze, 1).
Ne attesta invece l’esistenza, ma s enza indicare in quan-
ti libri sia stato redatto, Dionisio Trace (cfr. fr. 2).
Forniscono poi testimonianze che vanno con ogni pro-
babilità riportate al De ideis Diogene Laerzio, il quale al n.
54 dell’elenco delle opere di Aristotele parla di un Peri# th^v
iède@av a @, l’Anonimo, che al n. 45 dell’elenco degli scritti
aristotelici annovera anch’egli un Peri# th^v iède@av a @ e Tolo-
meo, che nel suo catalogo indica al n. 45 un Peri# eièdw^n g @.
Lo stesso Diogene Laerzio dà notizia al n. 31 del suo
220 OPERE FILOSOFICHE

elenco anche di uno scritto aristotelico intitolato Peri#


eièdw^n kai# genw^n a @e lo stesso Anonimo al n. 28 riporta
un’opera dal titolo Peri# eidw^n a @, ma – com’è stato giusta-
mente osservato da Leszl (Ideis, p. 58) – in nessuna delle
due è congruo vedere un riferimento al Sulle Idee, che in
tal caso sarebbe indicato due volte e con titoli diversi, trat-
tandosi piuttosto di opere intorno alle specie e ai generi,
ossia di carattere logico, come comprova anche il contesto
degli scritti nel quale sono menzionate.

2. Problemi esegetici e di datazione


Benché l’opera sia andata perduta, se ne può tuttavia rico-
struire il contenuto sia perché lo Stagirita stesso lo ha rias-
sunto nella critica alle dottrine di Platone contenuta in Me-
taph., I, 9 e sia perché Alessandro di Afrodisia, che la posse-
deva, ne ha riportato ampi brani a commento del suddetto
testo aristotelico.
La maggior parte degli studiosi è concorde nel datare il
Sulle Idee nel periodo accademico di Aristotele, ambien-
tandolo nel quadro della discussione intorno alle Idee che
si svolse quando Platone era ancora in vita.1 Il Sulle Idee
rappresenterebbe pertanto il contributo offerto da Aristo-
tele a questa discussione.2 Un contributo essenziale e per
noi prezioso per il modo stesso in cui – nel testo di Alessan-
dro – è strutturato: dapprima la ricostruzione degli argo-
menti con i quali era fatta valere l’esistenza delle Idee, indi
la critica dello Stagirita.
Entrambi questi momenti, quello cioè della ricostruzio-
ne degli argomenti a favore dell’esistenza delle Idee e quel-
lo delle critiche di Aristotele, sono stati oggetto di giudizi
differenti e talora persino opposti da parte degli studiosi.
Tali giudizi sono legati alla cifra complessiva che viene data
alla formazione della filosofia dello Stagirita e molti di essi,
soprattutto in un recente passato, erano sensibilmente con-
SULLE IDEE 221

dizionati dall’ipotesi genetico-evolutiva (anche se – va


messo in luce – Jaeger nel suo Aristoteles non si era soffer-
mato con particolare insistenza sul Sulle Idee nel delineare
lo sviluppo storico del pensiero aristotelico), oggigiorno
poco praticata dagli esegeti o, comunque, molto meno ac-
creditata presso di loro. Ma anche al di là dell’ipotesi gene-
tico-evolutiva, i problemi intorno ai quali il testo aristoteli-
co è andato soggetto riguardano, per un verso, l’attendibili-
tà e l’esattezza degli argomenti attribuiti ai sostenitori delle
Idee, con l’annessa questione se essi debbano ascriversi a
Platone o agli Accademici e, per altro verso, è chiamato in
causa il valore delle critiche aristoteliche.
Com’è evidente, i due versanti problematici sono stret-
tamente connessi, avendo molti punti in comune e presen-
tando le soluzioni di volta in volta date sull’uno basilari e
inevitabili ricadute su quelle prospettate sull’altro, cosicché
solo in modo formale essi possono schematizzarsi come
esegeticamente distinti, anche se concettualmente la distin-
zione tra l’un tipo di questione e l’altro sussiste.
Quanto al primo versante, con la maggior parte degli
studiosi vi è da rilevare che gli argomenti così come sono
esposti nel Sulle Idee non trovano riscontro nei Dialoghi. Il
che innesca anche sotto questo profilo e da quest’angolatu-
ra prospettica la vexata quaestio del valore degli agrapha
dogmata. Ci si è così chiesti se le prove a favore dell’esi-
stenza delle Idee formulate nel nostro scritto (1) siano «in-
venzioni» di Aristotele, che le avrebbe costruite al solo fine
di colpire quella teoria, (2) o argomenti effettivamente fat-
ti valere nell’Accademia e dunque a giusto titolo chiamati
in causa dallo Stagirita, almeno nella loro ossatura teorica
di fondo se non anche nella formulazione in cui sono pre-
sentati. E, in questo secondo caso, (2a) se essi siano da
ascrivere a Platone (2b) o a quei membri della sua scuola
che condividevano con lui l’esistenza delle Idee, ancorché
in un assestamento dottrinale e in una configurazione teo-
222 OPERE FILOSOFICHE

rica differente. Ma con ciò, come facilmente si constata, si è


anche invaso il secondo versante problematico.
Tra coloro che ritengono che non si tratti in «invenzio-
ni» di Aristotele, ma di argomenti effettivamente in vigo-
re nell’Accademia – e oggigiorno questa è l’opinione pre-
valente degli studiosi –, Robin (Théorie, pp. 15-25) sembra
attribuirli sia a Platone che ai Platonici. Di fatto egli si li-
mita a esporli (travisandone il senso, almeno nel caso dei
relativi, ad avviso di Leszl, De ideis, p. 77). Quanto poi alle
critiche di Aristotele, esse, essendo costruite sull’alterna-
tiva univocità-equivocità (Ivi, pp. 71 s.), avrebbero con-
sentito agli argomenti criticati di sottrarsi alla morsa
stringente in cui lo Stagirita li prende. In questo senso in
esse si scorgono anche dei «travisamenti», che l’interprete
non manca di denunziare e a sua volta di criticare (Ivi, p.
181). Il loro senso complessivo è, comunque, quello di mi-
rare a porre i Platonici in contraddizione con se stessi cir-
ca la quantità di cose per le quali occorre postulare l’esi-
stenza di Idee.
Che le critiche di Aristotele colpissero istanze platoniche
intese ad affermare l’esistenza delle Idee, ma nelle formula-
zioni che ne avevano dato gli Accademici, sembra il tratto
comune delle esegesi, per il resto tra loro molto differenti,
di Karpp, Peri# ièdew^n e di Philippson, Peri# ièdew^n: il Karpp ri-
tenendo, in particolare, che il Sulle Idee presentava la genesi
delle Idee anche nello stesso modo in cui Aristotele ne spie-
ga l’origine in Metaph., I, 6 e XIV, 4; credendo Philippson, in
conseguenza della datazione assai pristina da lui assegnata
al Sulle Idee, composto, a suo avviso, addirittura anterior-
mente al Parmenide (cfr. la nota n. 2), che le critiche di Ari-
stotele più che colpire la teoria platonica delle Idee, parte
basilare della sua formazione nel periodo iniziale del suo
discepolato presso l’Accademia, tendessero a metterne in
luce gli aspetti aporetici e che, invece, gli argomenti contro
cui esse muovono erano quelli assai scolastici dei Platonici.
SULLE IDEE 223

Che le critiche di Aristotele fossero rivolte contro argo-


menti dei Platonici, che mostrino scarsa penetrazione di
essi e che pertanto risultino poco pertinenti, è quanto ha
sostenuto Cherniss (Plato). Ciò che esse intendevano colpi-
re era propriamente la natura separata delle Idee, non
l’aspetto di principi formali per il quale era stata postulata
la necessità della loro esistenza. In effetti, sulla base della
sua dottrina dell’astrazione, lo Stagirita fa valere che la giu-
sta esigenza di attribuire agli universali un modo d’essere
differente da quello degli individui empirici non comporta
l’esistenza di Idee separate, ma è garantito, per l’appunto,
da quella dottrina (Ivi, pp. 142, 236, 239, 274). La separatez-
za delle Idee era stata accentuata dai Platonici, e a costoro
vanno fondamentalmente riportati gli argomenti nella for-
mulazione in cui sono presentati da Alessandro. In questa
formulazione, di essi non vi è traccia nei Dialoghi. In realtà,
essi ripropongono istanze platoniche, delle quali così come
sono costruiti rappresentano una sorta di formalizzazione
(Ivi, pp. 224-234).
Sulla linea dell’esegesi di Chernis per ciò che attiene al
concentrarsi delle critiche di Aristotele sul carattere di se-
paratezza, ossia di autosufficienza, delle Idee e sull’astra-
zione quale struttura concettuale che permette di superare
le aberrazioni cui va incontro, in esse, la giusta esigenza di
attribuire all’universale una modalità ontologica differente
da quella degli individuali, in virtù della quale le Idee stes-
se sono state postulate, si muove l’interpretazione di S.
Mansion (Peri# ièdew^n, pp. 199–201). Questo è particolar-
mente evidente, ad avviso della studiosa, nelle critiche agli
argomenti meno rigorosi (Ivi, pp. 177 s.). In particolare, in
linea con l’esegesi di Cherniss (cfr. la nota n. 2), S. Mansion
ritiene che il «terzo uomo» rappresenti una formulazione
dell’«uno sopra i molti» applicata alla predicazione essen-
ziale (Ivi, pp. 190-192) e che gli argomenti contro i quali si
rivolge la critica secondo cui occorrerebbe ammettere Idee
224 OPERE FILOSOFICHE

anche di negativi e, in generale, di realtà per le quali i Pla-


tonici negavano che esistessero, sono argomenti ascrivibili
non già a Platone, bensì agli Accademici.
Forte della convinzione che il Sulle Idee sia stato scritto
successivamente alla morte di Platone, Wilpert (Aristoteli-
sche Früschriften, p. 26) ascrive agli allievi di costui gli argo-
menti a favore dell’esistenza delle Idee nella forma in cui li
espone Alessandro, pur riconoscendo la loro origine plato-
nica (Ivi, pp. 50-51). Le critiche che lo Stagirita vi rivolge li
colpiscono sia sul piano gnoseologico, mettendo in chiaro
come essi non adeguino le condizioni di possibilità del cono-
scere in virtù delle quali sarebbero richieste le Idee (Ivi), sia
sul piano ontologico, mostrando come l’esigenza di postula-
re entità universali distinte da quelle empiriche non ne com-
porti anche la separatezza e l’autosufficienza (Ivi, pp. 54-55),
le quali corrispondono, per così dire, a un’aggiunta ontologi-
ca a una giusta esigenza epistemologica. Donde l’errore dei
Platonici. In particolare, le critiche agli argomenti meno ri-
gorosi mostrano come tali argomenti portino a riconoscere
l’esistenza di entità oggettive universali, ma non la loro esi-
stenza separata: in tal modo essi vanno al di là di quanto
possono provare (Ivi., pp. 54-55; 72-73; 80). Quelle agli argo-
menti più rigorosi, poi, mostrano l’inammissibilità delle Idee,
indicandone l’intrinseca contraddittorietà nell’argomento
dei relativi (Ivi, p. 80-81; 89) e denunziando l’assurdità di un
regresso all’infinito nel «terzo uomo» (Ivi, pp. 82; 90). Rileva
infine lo studioso una sostanziale tendenza di Aristotele a
preferire la teoria dei principi a quella delle Idee, in virtù del
suo carattere più marcatamente metafisico, così risolvendosi
la contrapposizione tra l’una e l’altra, additata a motivo di
critica dalla stesso Stagirita (Ivi, pp. 97 s.; 118).
Molte delle posizioni di Cherniss, di Mansion e di Wilpert
sono condivise e avvalorate da Berti nel suo Primo Aristote-
le, in quello cioè che a tutt’oggi continua a essere lo studio
più completo e più profondo degli scritti accademici dello
SULLE IDEE 225

Stagirita. Di Wilpert egli non condivide la datazione del Sul-


le Idee, ma condivide senz’altro la tesi, a diverso titolo rin-
tracciabile anche nelle esegesi degli altri due studiosi, che gli
argomenti a sostegno delle Idee corrispondono alla formula-
zione irrigidita data dagli Accademici a istanze platoniche
(Ivi, p. 203), cosicché contro costoro più che contro Platone
stesso si rivolgono le critiche di Aristotele (Ivi, p. 207). Esse
mirano fondamentalmente a negare la separatezza delle
Idee (Ivi., pp. 218, 211, 217, 224 s., 229, 249, 553), cui lo studio-
so italiano, riprendendo i rilievi di Cherniss e Mansion, ma
correggendo la direzione di quello del primo studioso e av-
valorando invece lo spessore di quello della studiosa di Lo-
vanio, contrappone la dottrina dell’astrazione (Ivi, p. 204):
per Cherniss, come abbiamo richiamato, essa costituisce il
presupposto teorico appoggiandosi al quale le critiche dello
Stagirita finiscono per essere poco pertinenti; per Berti, in-
vece, in ciò concordando con S. Mansion, la teoria dell’astra-
zione rappresenta uno degli esiti più significativi delle criti-
che stesse del nostro filosofo alle Idee. L’approdo a tale teo-
ria conferisce peraltro, ad avviso di S. Mansion e di Berti, un
carattere decisamente costruttivo a quelle critiche stesse.
Proprio nella chiave del superamento della separazione tra
le Idee e le cose Berti legge, approfondendo una posizione di
Wilpert, la contrapposizione operata da Aristotele tra la dot-
trina delle Idee e quella dei principi e la preferenza accorda-
ta dal filosofo a quest’ultima (Ivi, p. 232), ond’è che la critica
stessa dello Stagirita dà corpo all’esigenza di rendere le
istanze platoniche più fondate e rigorose (Ivi, p. 249).
Sul motivo dell’identificazione tra il piano logico-gnoseo-
logico e il piano ontologico quale momento decisivo e basi-
lare delle critiche di Aristotele agli argomenti portati a so-
stegno delle Idee aveva in precedenza posto l’accento De
Striker, associandosi anch’essa, in questo, alla linea esegeti-
ca di S. Mansion e Wilpert (Séparation, pp. 127 s.). Allan, a
sua volta, per il quale gli argomenti cui Aristotele si oppone
226 OPERE FILOSOFICHE

rappresentano una versione scolastica di istanze platoniche


(Aristotle, p. 17), aveva additato nell’autosufficienza delle
Idee il tema di fondo delle critiche di Aristotele a questa
dottrina; critiche che, al di là della formulazione degli Acca-
demici, colpivano nel segno e mettevano a nudo autentiche
difficoltà concettuali insite in essa (Ivi., p. 14-16). E anch’egli
indicava nella teoria dell’astrazione il rimedio proposto dal-
lo Stagirita (Ivi). Ancora sul motivo della separazione aveva
particolarmente insistito Stark (Aristotelesstudien), giun-
gendo a dire che questa prerogativa delle Idee e non già il
loro carattere di principi formali è ciò che Aristotele rifiuta
nel nostro scritto (Ivi, p. 21). Dal canto suo Cadiou (Le pro-
blème), nel quadro di un’esegesi intesa anch’essa a indivi-
duare il fulcro delle critiche di Aristotele nella separazione
delle Idee, appuntava particolarmente l’attenzione sul fatto
che nell’Idea le relazioni, anziché essere attribuite alle cose,
come dovrebbero, vengono invece ipostatizzate.
Una menzione a parte va riservata all’esegesi di Düring,
per la sua eccentricità rispetto ai motivi prevalenti rintrac-
ciabili nelle altre interpretazioni e la radicalizzazione del
carattere di debolezza delle critiche aristoteliche. Le quali,
ad avviso dello studioso, si rivolgono ad argomenti genui-
namente platonici e sono poco pertinenti, come già aveva
osservato Cherniss, per il fatto di non distinguere, nelle
Idee, l’aspetto di predicati da quello di realtà a sé stanti, in
funzione di modelli delle cose, con la conseguenza di legge-
re la somiglianza tra queste e quelle nei termini di un rap-
porto modello-copia (Aristotles, pp. 245 ss.).
Va poi ricordato lo studio di Leszl (De ideis), che riporta
altresì il testo del commento di Alessandro relativo al Sulle
Idee stabilito da Harlflinger, in sostituzione della tradizio-
nale edizione critica dell’intero commento dell’Afrodisien-
se al libro Alpha della Metafisica ad opera di Hayduck
(Alessandro, In Arist. Metaph.), e la traduzione italiana di
esso da lui stesso eseguita; riporta altresì, accanto alla re-
SULLE IDEE 227

censio vulgata, la recensio altera, ossia la versione dei codici


L e F. Leszl analizza con meticolosità e minuzia tutti gli ar-
gomenti, che anch’egli ritiene di origine platonica, ma espo-
sti in una forma data dagli Accademici, e le critiche di Ari-
stotele, rispetto alle quali concorda sostanzialmente con
Wilpert e Berti nel ritenere che non intendono tanto re-
spingere le Idee quali principi formali, quanto piuttosto
l’inadeguatezza del modo in cui rappresentano l’universa-
le, inteso per l’appunto come un individuale ipostatizzato.3
A mia volta, anticipando esiti che la successiva trattazio-
ne si propone di mostrare, ritengo che l’esame complessivo
degli argomenti addotti contro le Idee metta in luce come
la critica di Aristotele si sia sviluppata fondamentalmente
intorno a due motivi:
a) innanzitutto che l’universale espresso dall’Idea è un
falso universale, in quanto si istituisce e si configura secon-
do una scansione che non è quella autentica;4
b) quindi che le Idee, vale a dire siffatti pseudo-univer-
sali, non sussistono e contraddicono le stesse esigenze che,
ad avviso di Platone, ne postulano l’esistenza o quelle che,
nelle teorie dei loro sostenitori, ne caratterizzano l’assun-
zione o quelle ancora che ne definiscono la struttura.
Conformemente a quanto ho fatto, con intendimenti di-
versi e, di conseguenza, disponendo la materia secondo una
logica essa stessa differente, sia nell’Introduzione alle Cate-
gorie (pp. 97 ss.) che nel commento al cap. 9 del primo libro
della Metafisica (vol. I, pp. 319 ss.), anche in questa sede –
ma con intendimento ancora diverso – saranno dapprima
esposti gli argomenti platonici contro i quali Aristotele
obietta, indi le critiche dello Stagirita.

3. Il primo gruppo di argomenti


Ebbene, un primo gruppo di argomenti con i quali nel suo
commento a Metaph., I, 9 (990 b 8-15) Alessandro attesta
228 OPERE FILOSOFICHE

che i Platonici provavano l’esistenza delle Idee e contro i


quali il commentatore riferisce le critiche portate da Ari-
stotele nel primo libro del Sulle Idee sono (1) l’argomento
desunto dalle scienze, (2) l’argomento dell’«uno sopra i
molti» e (3) l’argomento desunto dal pensare. Gli uni e le
altre sono stati raccolti da Ross nella prima parte del fr. 3.
Aristotele li richiama molto succintamente nel citato capi-
tolo della Metafisica in quella che è la seconda delle venti-
sei obiezioni alle dottrine platoniche, rivolte sia a quella
delle Idee che a quella dei principi. In tale seconda obie-
zione lo Stagirita fa rifermento ai tre suddetti argomenti
come a prove che finiscono per dimostrare l’esistenza di
Idee anche di realtà per le quali i Platonici negavano che
esistessero, menzionate assieme ad altre con le quali, inve-
ce, essi pretendevano che le Idee fossero dimostrate, ma
che di fatto non dimostrano nulla perché non sono veri
argomenti.5

3.1 L’argomento «dalle scienze»


L’argomento «dalle scienze» viene presentato da Alessan-
dro in tre versioni, corrispondenti, con ogni probabilità, a
tre diverse formulazioni con le quali esso ricorreva nell’Ac-
cademia.
Nella prima (Alex., In Arist. Metaph., 79, 6-9) esso fa for-
za sul fatto che oggetto di ciascuna scienza è qualcosa di
uno (eçn), identico (tauèto@n) e quindi eterno (aiòdion), il qua-
le, proprio per avere queste caratteristiche, non trova spa-
zio tra le cose sensibili. L’esistenza di enti siffatti è inferita
dall’esistenza stessa delle scienze (poiché ci sono le scienze
– così si declina l’argomento –, ed esse hanno un oggetto, e
i loro oggetti sono alcunché di uno, sempre identico ed
eterno, dunque ci sono enti siffatti), e tali sono per l’appun-
to le Idee. L’argomento non si limita ad asserire la necessi-
tà dell’esistenza delle Idee, ma menziona espressamente
SULLE IDEE 229

anche il rapporto modello-copia secondo cui le cose sono


spiegate dalle Idee. Potrebbe sembrare una sorta di intru-
sione fuori luogo di una dimensione ontologica in un con-
testo di natura gnoseologica, ma a ben vedere non è affatto
così, giacché il rapporto di mimesi, nell’atto stesso di dare
ragione delle cose in virtù dell’essere imitazioni delle Idee
(momento ontologico) fa con ciò stesso anche conoscere
(momento gnoseologico) l’Idea nella sua funzione di causa
paradigmatica. Insomma, il momento ontologico è inscin-
dibile da quello gnoseologico.
Nella seconda formulazione (Alex., In Arist. Metaph.,
79, 9-12) la caratteristica degli oggetti delle scienze in base
alla quale si deve dire che essi non albergano tra gli enti
empirici, ma sussistono al di là di questi e sono, per l’ap-
punto, le Idee, è la determinatezza (cfr. aié de# eèpisth@mai
wérisme@nwn), di contro all’infinità e all’indeterminatezza
delle cose sensibili (cfr. aòpeira@ te kai# aèo@rista). È chiaro
che il rapporto di opposizione or ora richiamato permette
di dire che la determinatezza delle Idee è di tipo sia nume-
rico (esse sono di numero finito, mentre le cose corrispon-
denti a ciascuna di esse sono numericamente infinite) che
logico-ontologico (le Idee sono compitamente definite in
se stesse, mentre la definizione delle cose è labile, a motivo
del loro divenire). La struttura dell’argomento è identica a
quella della precedente formulazione: esistono le scienze, i
loro oggetti sono realtà in sé determinate, tali realtà non
possono trovarsi tra le cose, che sono indeterminate sia
numericamente che ontologicamente e gnoseologicamen-
te, dunque esistono oltre le cose e tali sono le Idee. Il rife-
rimento alla determinatezza è strutturalmente legato
all’identità della prima formulazione. Per cui le due ver-
sioni sembrano essere modi complementari di articolarsi
di un medesimo motivo.
Nella terza formulazione (Alex., In Arist. Metaph., 79,
12-16) l’argomento ritorna sostanzialmente sul motivo, già
230 OPERE FILOSOFICHE

espresso nella prima, che oggetto delle scienze è qualcosa


di uno e di identico, che qui, tuttavia, viene indicato come
determinazione in senso assoluto, ossia «in sé» (è chiaro
che soltanto in riferimento all’Idea l’in sé ha un’estensione
pari a quella dell’uno: infatti, fuori di questo riferimento,
l’in sé è prerogativa unicamente della sostanza, mentre
l’uno ha un’ampiezza semantica che si estende anche ad
altre categorie oltre quella della sostanza, nella quale si
specifica come identico).
La critica di Aristotele a quest’argomento (che va con-
siderato unitario nelle sue tre versioni) si sviluppa anch’es-
sa in tre argomenti, l’ultimo dei quali sembra unire i moti-
vi polemici degli altri due. Il primo è che l’argomento «dal-
le scienze» non prova l’esistenza delle Idee, ossia di entità
in sé, eterne e separate, ma soltanto che vi è qualcosa che
oltrepassa i singoli enti di una classe e che esprime ciò che
è loro comune (la salute di tutte le singole situazioni sane,
l’uguale e il commensurabile di tutte le singole uguaglian-
ze e di tutte le singole commensurabilità, e così di seguito),
e tale è l’universale correttamente inteso: come, per l’ap-
punto, l’unità del molteplice. Dunque, perché vi siano le
scienze non occorrono le Idee, ma il loro oggetto è l’uni-
versale. Di conseguenza, «tali ragionamenti non dimostra-
no ciò che si sono proposti», ossia «che esistono le Idee,
ma dimostrano che esistono alcune cose oltre quelle indi-
viduali e sensibili» (Alex., In Arist. Metaph., 79, 16-17):
esattamente, gli universali. Infatti, prosegue il commenta-
tore, «se esistono alcune cose che sono oltre quelle indivi-
duali, queste non sono affatto Idee. Infatti, oltre le cose
individuali vi sono quelle comuni, e queste sosteniamo an-
che che le scienze hanno per oggetto» (Alex., In Arist. Me-
taph., 79, 17-19).
Alessandro presenta pure un secondo motivo di opposi-
zione dell’argomento «dalle scienze». Il quale fa perno sul
fatto che anche gli oggetti delle diverse arti sono alcunché
SULLE IDEE 231

di unico, di non individuale, ma di comune a tutti gli indivi-


dui di una medesima classe e di stabile e, dunque, secondo
quegli argomenti, un’Idea; cosicché da quegli stessi argo-
menti occorrerebbe dedurre che esistono Idee anche degli
oggetti delle arti; il che non era ammesso da Platone e dai
Platonici (Alex., In Arist. Metaph., 79, 19 – 80, 7).6
Lungo una linea esegetica che annovera tra i suoi soste-
nitori Schwegler (Metaph., III, p. 82), Ross (Metaph., I, pp.
190-193) e Reale (Metaph., III, pp. 75 s.), l’interpretazione
di Alessandro delle critiche di Aristotele all’argomento
«dalle scienze» è attendibile e corretta. Si deve allora rico-
noscere che entrambe dovettero esser state enunciate det-
tagliatamente nel De ideis, e la formula estremamente ge-
nerica che compare nella Metafisica («secondo le argomen-
tazioni derivanti dalle scienze vi saranno Idee di tutte quel-
le cose delle quali vi sono scienze») non ne è che una som-
maria indicazione, in cui tuttavia pare intenzionata innan-
zitutto e primariamente la seconda obiezione.
Contro questa ipotesi è stato fatto valere che nei Dialo-
ghi platonici non solo non si trova traccia dell’inesistenza
di Idee di artefatti, ma, al contrario, in più casi le Idee sono
riferite agli oggetti delle arti. Così altri studiosi, tra cui Bo-
nitz (Comm., p. 110) e Chernis (Plato, pp. 239 s.), fissando
l’attenzione sul fatto che nel testo nella Metafisica non si
parla di «prodotti delle arti», ma, genericamente, di «tutte
quelle cose delle quali vi sono scienze (pa@ n twn oç s wn
eèpisth^mai@ eièsi)», hanno ritenuto che Aristotele abbia inte-
so riferirsi all’esistenza di Idee anche degli enti non sostan-
ziali, portata come critica alla teoria platonica delle Idee
anche in Metaph., 990 b 22-29. Anzi, Cherniss (Ivi) ha altre-
sì ipotizzato che il medesimo argomento nel De ideis
avrebbe fatto valere l’esistenza di Idee anche di manufatti,
mentre nel passo della Metafisica anzi citato quella di Idee
di non-sostanze (in proposito cfr. anche Viano, Metaph., p.
214, nota, 1).
232 OPERE FILOSOFICHE

Sennonché occorre osservare che, (1) ove quest’esegesi


intenda ovviare al fatto che l’inesistenza di Idee di manu-
fatti cozza con i Dialoghi, altrettanto occorre dire per
l’inesistenza di Idee di non-sostanze: a tal punto che nello
stesso scritto platonico in cui è testimoniata la scoperta
delle Idee, ossia il Fedone, il passo che le istituisce fa riferi-
mento all’Idea del bello (100 d) e dell’uguale (101 b), dun-
que di qualità e non di sostanze. (2) Pare invece più verisi-
mile credere che la stessa inesistenza di Idee di manufatti,
della cui attestazione da parte di Alessandro non vi è più
motivo di dubitare, corrisponda non già a un contenuto
dottrinale espressamente asserito da Platone e dai Plato-
nici, ma a un contenuto dottrinale che Aristotele pone co-
me conseguenza della dottrina platonica delle Idee, sulla
base della considerazione che queste sono eterne, dunque
non hanno un inizio, mentre i prodotti artigianali hanno
costitutivamente e strutturalmente un inizio, giacché si ca-
ratterizzano per il fatto di essere «costruiti», ossia posti in
essere dall’opera di un tecni@thv; per cui è impensabile che
i relativi paradigmi ideali non contemplino la presenza in
sé di un inizio, cozzando in tal modo contro il suddetto ca-
rattere di eternità delle Idee. In quest’ipotesi, nella critica
all’argomento platonico «dalle scienze» Aristotele dareb-
be alla teoria delle Idee una curvatura che corrisponde a
ciò che in essa è in nuce: nel dire, cioè, che tale argomento
configge contro il «fatto» che per Platone non esistono
Idee di prodotti artigianali egli chiama in causa un «fatto»
che non corrisponde a «ciò che ha veramente detto Plato-
ne», ma, per così dire, alla «verità di quello che egli con
tale teoria ha detto».
Resta in ogni caso il carattere ineccepibile del primo ri-
lievo riferito da Alessandro, ossia che per costruire le scien-
ze non servono le Idee, ma bastano gli universali, ed è que-
sto, a quanto pare, l’assunto di fondo della critica all’argo-
mento «dalle scienze».
SULLE IDEE 233

3.2 L’argomento dell’«uno sopra i molti»


Con l’argomento che in Metaph, I, 9, 990 b 13 è detto «uno
sopra molti (to# e°n eèpi# pollw^n)» – espressione che con ogni
probabilità riferisce la denominazione con la quale l’argo-
mento veniva indicato nell’Accademia – la necessità
dell’esistenza delle Idee era inferita dall’esserci certi termi-
ni che fungono da predicati unitari di una classe di indivi-
dui: tali predicati non s’identificano con nessuno degli indi-
vidui di cui si predicano, ma sono qualcosa di distinto da
essi, separato ed eterno. E queste sono esattamente le pro-
prietà delle Idee (cfr. Alex., In Arist. Metaph., 80, 8-15).
La critica di Aristotele fa valere che tale argomento
«istituisce Idee anche delle negazioni e delle cose che non
sono», giacché «anche la negazione», restando una e iden-
tica, «si predica di molte cose», si predica anche «delle cose
che non sono» e «non è identica a nessuna delle cose delle
quali si dice con verità». Così, per esempio, vi sarà l’Idea di
non-uomo, che «si predica sia del cavallo, sia del cane, sia
di tutte le cose oltre l’uomo», «non è identica a nessuna
delle cose di cui si predica» e, rimanendo una e identica,
«continua sempre a dirsi con verità in modo simile delle
cose simili», ossia dell’Idea di un termine positivo, il quale,
dicendosi di tutti gli individui di una classe, si dice di cose
simili, mentre la negazione si dice di cose dissimili quali,
per l’appunto, il cane e il cavallo (Alex., In Arist. Metaph.,
80, 16 – 81, 2).
Proprio questo, l’esserci cioè «un’Idea unica di cose che
non appartengono al medesimo genere e che sono differenti
in ogni aspetto» costituisce una prima difficoltà circa l’esi-
stenza di Idee di negazioni (Alex., In Arist. Metaph., 81, 2-5).
Una seconda difficoltà è data dal fatto che «ci sarà
un’Idea unica anche di molte cose indeterminate» (Alex.,
In Arist. Metaph., 81, 5); una terza dal fatto che vi saranno
Idee «anche di ciò che è primo e di ciò che è secondo», co-
me il genere e la specie, giacché «sia uomo che animale so-
234 OPERE FILOSOFICHE

no non-legno», mentre gli stessi Platonici negavano l’esi-


stenza di tali Idee.
Il senso della critica aristotelica è volto, anche in questo
caso, a rimarcare l’inutilità di ricorrere alle Idee, bastando
invece la nozione di universale correttamente posta. Tanto
deve leggersi nell’affermazione conclusiva secondo cui «an-
che quest’argomentazione non conduce ad ammettere l’esi-
stenza delle Idee, ma tende anch’essa a dimostrare che il
predicato comune è diverso dai singolari di cui si predica»
(Alex., In Arist. Metaph., 81, 7-10). Aristotele è pienamente
d’accordo con i Platonici circa l’esistenza di tale predicato e
circa il fatto che esso non coincide con nessuna delle cose di
cui si predica, vale a dire circa il suo essere un «uno sopra i
molti». Ma nega che esso corrisponda a un’Idea. Proprio in
questa negazione si manifesta la distanza che separa la con-
cezione aristotelica di un tale «uno sopra i molti» da quella
che professavano i Platonici. Costoro, infatti, concependolo
come un’«Idea», vale a dire come un’entità separata e per
sé, lo pensavano come un’entità che sta «di fronte» alle co-
se: propriamente un «uno di fronte ai molti»; e ritenevano
che soltanto dall’avere detta unità una siffatta fisionomia
fossero soddisfatte le condizioni per le quali un termine può
predicarsi di una molteplicità di individui. L’argomento dei
Platonici postulava infatti – l’abbiamo visto – la separatezza
di una tale unità, vale a dire l’esistenza di Idee come condi-
zione che soddisfi (a) l’essere il termine predicato distinto
dalle cose di cui si predica e (b) il predicarsi di esse sempre
nello stesso modo. Ora, proprio la concezione aristotelica
dell’universale soddisfa entrambe queste esigenze della
predicazione senza dover postulare le Idee, che, anzi, la
mortificano. L’unità di significato sussiste se il predicato de-
nota una mi@a fu@siv (e su ciò vi è accordo tra Aristotele e i
Platonici), ma essa non sta oltre le cose, bensì corrisponde
al carattere comune di esse, sicché una tale unità è sempre e
costitutivamente in funzione di esse. Se ne distingue, certo,
SULLE IDEE 235

nel senso che non coincide con nessuna; ma tale distinzione


non è una separazione, che ponga da una parte la natura
unitaria e dall’altra le cose. Essa esige, invece, che il predica-
to comune sia strutturalmente rivolto agli individui, espri-
mendone, per l’appunto, la comune natura. In questo senso
esso è un «uno sopra i molti».7
L’ultima annotazione del commentatore dal nostro pun-
to di vista è particolarmente interessante perché permette
di confermare anche a proposito di questo secondo argo-
mento ciò che si è ipotizzato a proposito del primo circa il
modo in cui Aristotele nel Sulle Idee (in modo più diffuso e
nel passo parallelo di Metaph., I, 9, in modo più succinto)
ricostruisce la dimostrazione platonica delle Idee. Alessan-
dro fa presente, infatti, che l’argomento dell’«uno sopra i
molti» dimostra l’esistenza di Idee di negazioni anche nel
caso in cui la negazione non venga intesa, com’era nella pre-
cedente ricostruzione, quale nozione plurima che si dice
univocamente di una pluralità eterogenea di cose, ma quale
nozione unitaria che si dice univocamente di esse. In effetti
– rileva Alessandro – è riferendosi ad alcunché di uno che si
negherà qualcosa di più cose, poiché quando si dice che
l’uomo e il cavallo non sono bianchi, non si sta negando un
attributo proprio di ciascuno di essi presi singolarmente, ma,
facendo riferimento a qualcosa di uno, si nega di tutti la
stessa bianchezza (Alex., In Arist. Metaph., 81, 9-11). In tal
senso la negazione presenta la stessa unità della nozione po-
sitiva, giacché «anche colui che afferma la stessa cosa di più
cose non affermerà di ciascuna una cosa diversa, ma ciò che
afferma sarà qualcosa di unico: per esempio, l’uomo in rife-
rimento a qualcosa di unico e di identico. Ché, similmente a
come <si struttura> la negazione, <si struttura> anche l’af-
fermazione» (Alex., In Arist. Metaph., 81, 12-19). Ora, che la
nozione negativa («non bianco») sia una nozione unitaria è
assunto che non trova riscontro negli scritti di Platone; ep-
pure Aristotele gliel’attribuisce se la sua critica all’argomen-
236 OPERE FILOSOFICHE

to dell’«uno sopra i molti» dev’essere letta nel senso che,


contrariamente a quanto affermavano Platone e i Platonici,
da esso si può comprovare l’esistenza anche di Idee di nega-
zioni pensate non solo come nozioni plurime (prima rico-
struzione dell’argomento), ma anche come nozioni unitarie
(seconda ricostruzione). Ma allora è agevole ipotizzare che
il rifiuto di Idee di negazioni intese come nozioni unitarie
non corrisponde a «ciò che hanno veramente detto» Plato-
ne e i Platonici, ma alla «verità di ciò che essi hanno soste-
nuto» rifiutando il darsi di Idee di negazioni. Un tale rifiuto,
nell’ottica di Platone e dei Platonici, faceva unicamente rife-
rimento al carattere non-unitario, ossia indeterminato, di
una negazione, donde l’impossibilità che un’Idea, la quale,
in quanto «in sé», esprime la determinatezza paradigmatica,
abbia come suo contenuto un indeterminato. Ma nell’ottica
aristotelica la stessa logica che portava Platone e i Platonici
a respingere l’esistenza di idee di negazioni in quanto nozio-
ni plurime, doveva portarli a respingere l’esistenza di Idee
di negazioni considerate anche come nozioni unitarie, e an-
che in questa curvatura egli presenta il «loro» argomento.
«Loro», per l’appunto, non perché propone ciò che hanno
veramente detto, ma la verità di ciò che hanno detto.

3.3 L’argomento desunto dal pensare


L’inadeguatezza del modo di concepire l’universale secon-
do i tratti dell’Idea e, dunque, l’istituzione della genuina
valenza dell’universale, sono motivi che si ritrovano al fon-
do anche della critica di Aristotele all’argomento desunto
dal pensare, quello che in Metaph., I, 9, 990 b 14 è detto del
to# noei^n ti fqre@ntov.
Quest’argomento conclude all’esistenza delle Idee dalla
premessa che il pensiero è sempre pensiero di ciò che è;
difatti, anche quando le cose sono venute meno il pensiero
permane.8 Ma ciò che è, è l’Idea, essendo che gli enti empi-
SULLE IDEE 237

rici non vivono, propriamente, nell’essere, ma nel divenire


e nella corruttibilità.
La critica di Aristotele nella ricostruzione di Alessandro
(che non è riportata da Ross, ma che è reperibile nell’edi-
zione di Leszl) consiste nella denunzia di due assurdi, cia-
scuno dei quali intende porre in chiaro che l’argomento
porta a dimostrare l’esistenza di Idee di cose per le quali
Platone e i Platonici non le ammettevano: (1) innanzitutto,
che esso conduce ad ammettere «Idee anche delle cose che
si corrompono e che si corruppero e, in generale, delle cose
individuali e corruttibili», come ad esempio di Socrate e di
Platone: anche costoro, infatti, li pensiamo e ne conservia-
mo e custodiamo la rappresentazione anche quando non ci
sono più, poiché anche delle cose non più esistenti rimane
in noi una rappresentazione; (2) in secondo luogo, che por-
ta a porre Idee anche di «cose che non esistono affatto, co-
me il Centauro o la Chimera» (Alex., In Arist. Metaph., 82,
1-7).9
Ora, anche a questo riguardo occorre osservare che il
rifiuto delle idee di cose inesistenti (seconda critica) corri-
spondeva con ogni verosimiglianza a un effettivo assunto
di Platone e dei Platonici, giacché l’Idea esprime il paradig-
ma delle cose empiriche, e se la cosa non esiste è logico e
congruente credere che non esista neppure la relativa Idea.
In caso contrario, infatti, essa sarebbe il paradigma di un
nulla. Dunque, nella seconda critica presentata da Alessan-
dro, nell’affermare cioè che l’argomento in oggetto condu-
ceva ad ammettere l’esistenza di Idee di cose per le quali
Platone e i Platonici non ammettevano le Idee, vale a dire
Idee di cose non esistenti, Aristotele ribatteva contro i so-
stenitori delle Idee un’istanza da loro effettivamente soste-
nuta.
Ma che Platone e i Platonici non ammettessero l’esisten-
za di Idee «delle cose che si corrompono e che si sono cor-
rotte (tw^n fqeirome@nwn te kai# eèfqarme@nwn)» rasenta l’in-
238 OPERE FILOSOFICHE

credibile, giacché le Idee rappresentano l’essere eterno e


incorruttibile di ciò che, nell’esperienza, si presenta come
mutevole e corruttibile: insomma ciò che è di contro a ciò
che, divenendo, è e non è. Per cui, nella stessa (prima) criti-
ca secondo la quale anche delle cose che si corrompono e
che si sono corrotte, quando si siano effettivamente corrot-
te, si conserva l’immagine, dunque un contenuto positivo,
per esplicare il quale Platone e i Platonici postulano l’Idea,
contrariamente a quanto essi stessi asserivano, è agevole
ipotizzare che Aristotele opponeva ai sostenitori delle Idee
non un assunto che essi affettivamente asserivano, ma un
assunto che egli riteneva congruo e conseguente a ciò che
essi asserivano e che per questo presenta come intrinseco
momento del loro stesso argomento. Un assunto per il qua-
le, se le Idee, in quanto costituiscono l’autentico essere di
ciò che, divenendo, autenticamente non è, sono essere, allo-
ra di ciò che non è, perché si è corrotto (si badi, di questo,
non di ciò che è corruttibile, fqarto@n), non può esserci
un’Idea. Insomma, nella logica che postula l’esistenza delle
Idee come essere (e che proprio in quanto autentico essere,
eterno e immutabile, fungono da paradigma delle cose che
propriamente non sono, ma divengono), Aristotele trova
che è vero dire che, dunque, non possono esserci Idee di ciò
che non è. Esiste l’Idea della cosa corruttibile, non della
cosa che si è corrotta, giacché questa è non essere e di ciò
che non è non può esserci l’essere. Si tratta della «verità»
dell’istanza platonica e dei Platonici secondo cui l’Idea è il
vero essere, non di ciò che essi «hanno veramente asserito»
dicendo che essa è l’essere che autenticamente è.
Se si riconosce questo, si può allora ipotizzare che la pri-
ma critica dello Stagirita all’argomento in oggetto, pensato
«nella verità» del detto platonico, doveva configurarsi nei
termini seguenti: per i sostenitori delle Idee non possono
esistere Idee di cose che si corrompono e si sono corrotte,
ossia di cose che non esistono più; ma tali sono le cose sen-
SULLE IDEE 239

sibili una volta che di esse si abbia soltanto l’immagine, per


dar conto della quale, quando si siano distrutte, quei filoso-
fi hanno postulato l’esistenza delle Idee, contrariamente a
ciò che essi stessi credono. Ma è una postulazione inutile.
Ancora una volta, la critica di Aristotele intende far valere
che l’argomento platonico, assunto sia «in ciò che veramen-
te dice» (seconda critica) sia «nella verità di ciò che dice»,
non prova l’esistenza di Idee. È esattamente la conclusione
di Alessandro: «perciò neppure quest’argomento dimostra
che esistono le Idee» (Alex., In Arist. Metaph., 82, 7).
Al fondo di queste critiche si trova pertanto che l’obiet-
tivo cui si rivolge la polemica dello Stagirita è il modo in
cui i Platonici, ponendole come Idee, configuravano le de-
terminatezze che sono oggetto di pensiero, vale a dire gli
universali nella dimensione della loro pensabilità. Per i Pla-
tonici tali determinatezze, per potersi offrire al pensiero ed
essere pensate, devono porsi come determinatezze in sé,
tali essendo esattamente le Idee. Aristotele, obiettando che,
se si pone che il pensare esige l’in sé delle determinatezze,
si pone allora l’assurdo di Idee anche di individui, sgancia
le determinatezze che si danno a pensare dall’essere degli
in sé per rivendicarne la genuina fisionomia di determina-
tezze qua tales, vale a dire la genuina fisionomia di univer-
sali. Egli asserisce, cioè, che il pensare, lungi dal richiedere
l’in sé delle determinatezze, richiede invece la genuinità
della loro universalità.
In che consista questa dimensione di genuinità e di au-
tenticità dell’universale, ci è noto: l’essere esso un carattere
comune, che, in quanto tale, non esiste separatamente dagli
individui, ma in funzione di essi. Soltanto in queste condi-
zioni e unicamente in questa fisionomia gli universali sono
autenticamente oggetto di pensiero. In questa scansione,
infatti, nella critica all’argomento qui a tema risulta messa
in discussione la stessa valenza dell’universale per la quale,
nell’argomento precedente, esso veniva caratterizzato co-
240 OPERE FILOSOFICHE

me un «uno sopra i molti». Ma mentre là la critica di Ari-


stotele era espressamente e tematicamente intesa a riven-
dicare, contro la tesi dei Platonici, il carattere non separato
di una tale unità, qui determinatamente ne rivendica, inve-
ce, sempre in opposizione alla concezione accademica, il
carattere di non-inseità.
I due caratteri sono complementari, e per questo la pre-
sente critica può intendersi, in certo senso, come il comple-
tamento di quella del precedente argomento. Che la deter-
minatezza che i Platonici pongono come in sé, vale a dire
come Idea, debba pensarsi come universale, è attestato dai
termini stessi in cui Aristotele, nella ricostruzione di Ales-
sandro, presenta la prova accademica: «quando pensiamo
un uomo o un terrestre o un animale», uomo, terrestre, ani-
male denotano, per l’appunto, degli universali. Ed è perciò
dell’universale che qui Aristotele, negando che debba pen-
sarsi come un in sé, rivendica la dimensione di carattere
comune.

4. Gli argomenti più rigorosi


Seguono quindi quelli che in Metaph., I, 9, 990 b 16 Aristo-
tele chiama «gli argomenti più rigorosi (aèkribe@steroi tw^n
lo@gwn)», ossia l’argomento dei relativi e la riduzione al
«terzo uomo».
Intorno alla qualificazione di «più rigorosi» si è molto
discusso. Per Alessandro questi argomenti sono tali perché,
a differenza dei precedenti, che provano «semplicemente
l’esistenza di qualcosa di comune al di là dei singolari», di-
mostrano «l’esistenza di un modello delle cose di quaggiù
che esiste in senso proprio», e l’essere modello «pare sia la
caratteristica saliente delle Idee» (In Arist. Metaph., 83, 19-
22). Questa spiegazione è stata accettata da Schwegler
(Metaph., III, 83-84), Bonitz (Comm., p. 111) e, in tempi più
recenti, da Reale (Metaph., III, p. 193), ma ha contro il pa-
SULLE IDEE 241

rere di molti interpreti. E, forse, non a torto (cfr. Ross, Me-


taph., I, p. 194), giacché è senz’altro vero che la paradigma-
ticità rappresenta una caratteristica peculiare delle Idee,
ma non per questo si può considerare la nozione comune ai
molti, ossia l’universale, che le Idee esprimono ipostatizza-
ta nell’unità e nell’identità di un individuo trascendente i
molti stessi, come una caratteristica a esse non altrettanto
peculiare. Sono state avanzate perciò differenti esegesi. Per
Robin, Théorie, pp. 19-20, nota 16 gli argomenti sono detti
«più rigorosi» perché permetterebbero di distinguere le
conseguenze dedotte da Aristotele dalle tesi di Platone e
dei Platonici. Per Ross, Metaph., I, p. 194 si tratta di argo-
menti nei quali Platone con maggior precisione e nettezza
distingue le conseguenze derivanti dalla teoria delle Idee,
conseguenze che non erano accettate dai membri dell’Ac-
cademia. Cherniss, Plato, pp. 275-279 ritiene che «più rigo-
rosi» indichi il carattere di maggior precisione sotto un
profilo prettamente logico di certi argomenti dai quali la
funzione di modello attribuita alle Idee risulta con la mas-
sima nettezza dal fatto di essere state respinte altre pro-
spettive. Ad avviso di S. Mansion, Peri# ièdew^n, pp. 192-193
l’argomento dei relativi e del terzo uomo sono «più rigoro-
si» in quanto, a differenza di quello dell’«uno sopra i mol-
ti», hanno attenzione per il modo il cui il predicato viene
attribuito al soggetto, il primo considerando i predicati che
non gli appartengono per sé, il secondo i predicati che con-
corrono a specificare l’unità della sua essenza. Per Berti,
Primo Aristotele, p. 222 l’argomento dei relativi e del terzo
uomo sono «più rigorosi» perché rappresentano una più
rigorosa versione dell’argomento dell’«uno sopra i molti»,
in virtù dell’attenzione che, a differenza di quest’ultimo, es-
si prestano al modo in cui l’uno viene predicato dei molti.
Wilpert, Aristoteliche Frühschriften, pp. 40-41, 74-75 ha cre-
duto che la qualificazione di «più rigorosi» né fosse plato-
nica, né fosse presente nel De ideis, e che Alessandro, non
242 OPERE FILOSOFICHE

comprendendola, anche perché non avrebbe conosciuto


questo scritto, ma unicamente la Metafisica, ne avrebbe da-
ta una sua, non accettabile, interpretazione. Heinze, Xeno-
crates, p. 55, nota 2 ha supposto che la qualifica di «più rigo-
rosi» non attenga agli argomenti dei Platonici, bensì alle
critiche di Aristotele. Una rapida, ma acuta rassegna di
queste interpretazioni vedasi in Viano, Metaph., p. 261, nota
2. Tra le altre proposte esegetiche segnalo quella di Leszl,
De ideis da me medesimo fatta propria nella monografia
introduttiva alla mia edizione delle Categorie (cfr. Zanatta,
Categorie, p. 112). Secondo tale esegesi, questi argomenti
sono «più rigorosi» in quanto si costituiscono sulla distin-
zione, introdotta da Platone e avvalorata dagli Accademici,
tra enti per sé ed enti relativi (cfr. Platone, Soph., 255 c-d;
Divis. Arist., n. 67), cosicché, dimostrando l’esistenza delle
Idee in rapporto a ciascuno di questi due tipi di realtà, ne
áncorano la prova in quelle che sono le istanze fondamen-
tali della dialettica platonico-accademica.
Come s’è detto, di tali argomenti, gli uni sono quelli che
dimostrano («producono [poiou^sin]», dice il testo aristote-
lico; cfr. Metaph., I, 9, 990 b 17) l’esistenza di Idee di relati-
vi, gli altri sono indicati dallo Stagirita come quelli che «af-
fermano (le@gousin)» il terzo uomo (Ivi, 18).

4.1 L’argomento dei relativi


L’argomento che, secondo l’esegesi che qui seguo, dimostra
l’esistenza delle Idee dei relativi (e non delle Idee in gene-
rale, come pure alcuni studiosi hanno sostenuto),10 si scan-
disce nel modo seguente: dapprima si indicano tre casi in
cui la predicazione è «non-omonima»: (1) innanzitutto,
quando ciascuna delle cose il cui predicato viene attribuito
in senso proprio e primario è ciò che esso stesso significa
(predicazione non-omonima in senso proprio: ad esempio,
«uomo» si predica degli uomini in carne e ossa); (2) inoltre,
SULLE IDEE 243

quando le cose sono copie di quelle cui si attribuisce il pre-


dicato in senso proprio (predicazione non-omonima deri-
vata: per esempio, «uomo» è predicato di dipinti raffigu-
ranti uomini); (3) infine, quando le cose sono l’una il mo-
dello e le altre l’immagine, ossia quando l’una è ciò che il
predicato significa in senso proprio e le altre ciò che signi-
fica in senso derivato (predicazione non-omonima mista:
per esempio, «uomo» viene predicato degli uomini in carne
e ossa e dei dipinti). Indi si rileva che, in riferimento esclu-
sivamente agli enti empirici, l’«uguale» si predica in senso
omonimo, giacché tali enti, (1) non avendo la stessa defini-
zione, mutando continuamente e nessuno di essi potendo
ricevere la definizione di «uguale» in senso proprio, né am-
mettono la predicazione non-omonima di «uguale» in sen-
so proprio, (3) né ammettono la predicazione non-omoni-
ma di uguale in senso misto, in quanto non ve n’è nessuno
che, potendo ricevere la predicazione in senso proprio, pos-
sa fungere da modello. (2) Per quanto poi attiene alla pre-
dicazione non-omonima di «uguale» in senso derivato, essa,
se si considerano unicamente gli enti empirici, risulta esclu-
sa dal fatto stesso che per nessuno di essi vale quella in sen-
so proprio. Se perciò, in riferimento a questi enti, l’«ugua-
le» si predica in senso «non-omonimo», non resta che una
predicazione in senso derivato nella quale il modello non
sia nessuno degli enti empirici stessi, ma sia l’uguale in sé
(Alex., In Arist. Metaph., 82, 11-83, 17).
All’esistenza delle Idee provata da quest’argomento lo
Stagirita oppone le seguenti critiche: (1) innanzitutto, che
gli Accademici stessi «non dicevano esservi Idee di relativi
(tw^n de# pro@v ti ouèk eòlegon eiè^nai iède@av)» (sicché si segnala
una contraddizione tra la prova dell’argomento e questa
negazione), in quanto le Idee, come realtà per sé e sostan-
ze, sono autosufficienti, mentre i relativi necessitano dei
correlativi (cfr. Cat., 7, 6 b 28; 7 a 22-23); (2) in secondo
luogo, che l’argomento porta a moltiplicare le Idee
244 OPERE FILOSOFICHE

dell’«uguale», dal momento che anche l’uguale ideale avrà


un correlativo (l’«uguale in sé» sarà uguale all’«uguale in
sé», altrimenti non sarebbe neppure uguale);11 (3) infine
che, nella logica dell’argomento, si dovrà affermare l’esi-
stenza dell’Idea anche del «disuguale», ma, per ammissione
degli stessi Accademici, il «disuguale» si trova in cose di-
verse, per cui non può esserci un’Idea (Alex., In Arist. Me-
taph., 83, 24-30).

4.1.1 Questioni esegetiche: Idee o Idee di relativi?


Le questioni esegetiche sorte intorno a quest’argomento
riguardano sostanzialmente due ordini di problemi: (A) in-
nanzitutto, il valore che va riconosciuto all’esistenza di Idee
di relativi che l’argomento stesso attribuisce ai Platonici;
(B) in secondo luogo, in che senso deve intendersi la non-
omonimia del secondo e del terzo caso.
Circa la prima questione va ricordato innanzitutto che
Aristotele, nel passo di Metaph., I, 9 in cui menziona gli
«argomenti più rigorosi», dichiara – come abbiamo letto –
che alcuni producono Idee di relativi. Invece Alessandro –
il quale, come hanno mostrato Robin, Théorie, p. 462 e Wil-
pert, Aristotelische Früschriften, p. 124, di contro all’opinio-
ne di Rose, Fragmenta, p. 213, pure nel riferire quest’argo-
mento si serve direttamente del Sulle Idee – lo introduce
come comprovante l’esistenza «anche di relativi (kai# tw^n
pro@v ti)». Ma, come ha rilevato Berti, Primo Aristotele, p.
212, la testimonianza, se attentamente considerata, non de-
pone, contrariamente a quanto a tutta prima parrebbe, a
favore della dimostrazione di Idee generali tra le quali an-
che quelle dei relativi, ma l’aggiunta «anche» va riferita
agli «argomenti più rigorosi» nel loro complesso, «i quali
dimostrano Idee anche dei relativi nel senso che alcuni di
essi dimostrano soltanto queste Idee, mentre altri ne dimo-
strano altre».
SULLE IDEE 245

Alcuni interpreti hanno ritenuto che l’argomento dimo-


stri l’esistenza di Idee in generale e non determinatamente
di Idee di relativi12 e, tra costoro, mentre alcuni – come S.
Mansion – hanno indicato nel riferirsi di Aristotele
all’uguale il suo intendimento di porre specificamente a
tema l’uguale in sé, così da delineare l’argomento come
avente la struttura di una reductio ad absurdum, altri han-
no scorto nel fatto che lo Stagirita presenta l’Idea
dell’uguale, la cui affermazione egli ritiene conseguente
alla dottrina dei Platonici, come Idea di un relativo, il so-
vrapporsi del suo proprio punto di vista a quello genuina-
mente platonico-accademico. Paradigmatico quanto a
questo proposito afferma Isnardi Parente. Dopo avere
connesso – molto giustamente – le determinazioni della
sostanza e dei relativi alla divisione accademica degli enti
in kaqˆ auéta@ e in pro@v ti e dopo avere messo in chiaro che
questa divisione si riallaccia a sua volta alla teoria platoni-
ca dei principi dell’Uno e della Diade di Grande e Piccolo,
intesi rispettivamente come principio di uguaglianza, di
ordine e di identità e come principio di indeterminatezza,13
la studiosa osserva che, ponendo l’uguale come esempio
dei relativi, lo Stagirita contraddice le impostazioni plato-
nica e accademica, le quali «assegnano il rapporto di ugua-
glianza a quella parte del reale che si pone sotto la catego-
ria dell’Uno, dell’ordine e della misura, in una parola della
razionalità e del definito» (Isnardi Parente, Per l’interpre-
tazione, p. 19). E così prosegue: «nello schema categoriale
di Ermodoro come in quello della fonte di Sesto non c’è
posto per una definizione dell’uguale come pro@v ti, come
puro relativo, quindi come indeterminato. Aristotele sem-
bra qui sovrapporre un suo punto di vista a quello degli
avversari contro cui si schiera, e il rimprovero ai sostenito-
ri delle Idee di ammettere, con l’idea dell’uguale, l’Idea di
un relativo, cadendo in contraddizione con l’esclusione
precedente dei relativi dal novero delle Idee, sembra asso-
246 OPERE FILOSOFICHE

lutamente ignorare il fatto che per i sostenitori delle Idee


l’uguale, se non può porsi tra le sostanze, non può nemme-
no considerarsi rientrare nel campo delle relatività indefi-
nite, delle quali è contrario per sua natura» (Ivi, pp. 20-21).
Da tutto ciò la studiosa conclude che l’argomento non è
diretto a dimostrare l’esistenza delle Idee dei relativi. È
Aristotele che attribuisce agli Accademici di dover am-
mettere, conseguentemente alle loro dottrine, l’esistenza
di queste Idee, e il suo intento è quello di confutarli ad
hominem, di mostrare, cioè, che i loro argomenti li costrin-
gono ad affermare ciò di cui negano l’esistenza (cfr. Ivi,
p.p. 21 s.).
Anche Robin (Théorie, pp. 129 ss.) ritiene che Aristotele
abbia sovrapposto il proprio schema dottrinale alle istanze
platoniche, ma non perché abbia pensato l’Idea dell’uguale
come Idea di un relativo – ché, anzi, lo studioso ritiene che
Platone abbia ammesso l’esistenza delle Idee dei relativi –,
ma per aver dichiarato che sussiste una contraddizione tra
l’essere l’Idea dell’uguale un’Idea e l’essere un relativo,
giacché, a suo avviso, proprio questo era ammesso dai Pla-
tonici. Il rilievo critico di Aristotele si configurerebbe per-
ciò come un equivoco.14 In effetti, ad avviso dello studioso
Aristotele con la sua critica ha obiettato ai sostenitori delle
Idee che i loro argomenti li costringevano ad ammettere
l’esistenza di quelle Idee di relativi che essi invece negava-
no (Ivi, pp. 189-190), ma proprio per questo, e cioè proprio
per aver creduto che i Platonici non ammettevano tali Idee,
sulla base dell’equivoco tra sostanzaialità e raletività anzi
indicato, egli non ha compreso il loro pensiero, anzi, lo ha
frainteso.
Nell’intendere la critica di Aristotele all’argomento dei
relativi nel modo che s’è detto, Robin sostanzialmente s’al-
linea a quegli interpreti che hanno sostenuto che essa pro-
cede analogamente a quella che lo Stagirita ha rivolto
all’argomento «dalle scienze», vale a dire di portare tale ar-
SULLE IDEE 247

gomento ad ammettere l’esistenza delle Idee degli artefatti


che gli Accademici negavano.15 Un’interpretazione, questa,
che è stata decisamente respinta da Wilpert (Aristotelische
Früschriften).
In senso diametralmente opposto si sono espressi Berti e
Leszl, per i quali (a) l’argomento di natura accademica di-
mostra l’esistenza non delle Idee in generale, ma determi-
natamente di quelle dei relativi; (b) l’esistenza di tali Idee
non corrisponde alla traduzione da parte dello Stagirita
della platonica Idea dell’uguale nello schema dottrinale del
proprio punto di vista, ma a una posizione peculiare della
dottrina degli Accademici; (c) infine, la critica di Aristotele
consiste nel rilevare l’assurdità di tali Idee, o perché la loro
esistenza è implicitamente negata dagli argomenti degli
stessi sostenitori delle Idee (così Berti), o perché il filosofo
la indica come in se stessa assurda (così Leszl).16
L’interpretazione precedente si reggeva sull’avvalora-
mento della negazione da parte degli Accademici delle
Idee dei relativi («affermavano che dei relativi non vi sono
Idee» [tw^n de# pro@v ti ouèk eòlegon eiè^nai iède@av]), intesa come
attestazione fornita da Aristotele di un’effettiva posizione
platonico-accademica; donde – tocchiamo così una secon-
da, basilare istanza di quella interpretazione – la denunzia
dell’equivoco segnalato, che non ha consentito allo Stagiri-
ta di avvedersi del fatto che l’Idea dell’uguale era espressa-
mente ammessa dai sostenitori delle Idee e, in particolare,
che essa è apertamente nominata da Platone in Fedone, 74
a-c come in altri Dialoghi.17
In merito al primo punto Wilpert (Aristotelische Frü-
schriften, p. 78, nota n. 87) aveva sostenuto che il testo ri-
portato da Alessandro, dove si dice che gli Accademici ouèk
eòlegon esserci Idee di relativi, non deriva dal De ideis, ma
corrisponde a un rilievo personale del dossografo, il quale,
considerando il tenore delle critiche aristoteliche ai prece-
denti argomenti e, soprattutto, il fatto che gli Accademici
248 OPERE FILOSOFICHE

successivi a Platone effettivamente non ammisero Idee di


relativi (cfr. Siriano, In Arist. Metaph., 107, 8-30; 111, 12;
114, 5), ha creduto che anche in questo caso la critica di
Aristotele individui una contraddizione tra la conseguenza
dell’argomento e le tesi degli Accademici.
Contro quest’interpretazione si era efficacemente
espressa S. Mansion (Deux écrits), la quale rivendicava
l’appartenenza del passo al De ideis. Ma anche senza giun-
gere a negare tale appartenenza, i sostenitori dell’esegesi
sopra esaminata vi hanno letto il riscontro da parte di Ari-
stotele della negazione accademica di Idee di relativi (ope-
rata sulla base del fraintendimento anzi segnalato).
Berti e Leszl hanno interpretato, invece, detta negazione
come conseguenza cui sono costretti a incorrere i sosteni-
tori delle Idee in base alle loro dottrine, conseguenza che lo
Stagirita oppone, come rilevamento di una contraddizione,
al fatto che essi «producono (poiou^sin)» Idee di relativi, in-
tendendo quest’ultima espressione non già nel senso di
«ammettono implicitamente», bensì di «pongono esplicita-
mente».18
Quanto poi al fatto che l’Idea dell’uguale è stata espres-
samente affermata da Platone nei Dialoghi, e innanzitutto
nel Fedone, viene ribadito che «Aristotele non ha di mira la
posizione di Platone, bensì quella degli altri Accademici»
(Berti, Primo Aristotele, p. 215). Si dichiara, inoltre, che
«l’origine platonica dell’argomento nel suo complesso sem-
bra essere indubbia, [...] tuttavia l’argomento accademico
presenta certamente alcuni sviluppi rispetto alla sua meno
tematica e meno tecnica formulazione nel Fedro, [...] la di-
stinzione fra omonimia e sinonimia (= non omonimia), il
connesso uso di definizione e descrizione come criteri
dell’una e dell’altra, il ricorso a un contrasto assai netto tra
termini relativi e termini sostanziali» (Leszl, De ideis, p.
244; cfr. anche Berti, Primo Aristotele, p. 214), insomma tut-
ta una serie di «novità» che lasciano intendere una ripresa
SULLE IDEE 249

e una riabilitazione di un’istanza platonica su di una base


dottrinale più complessa.
Conformemente a quanto è stato acquisito con questi
rilievi, l’istanza platonica espressa dall’argomento viene
presentata nella seguente scansione: «l’assunto da cui si
parte è che la predicazione di uno stesso termine a una plu-
ralità di enti non può essere omonima, ma deve essere si-
nonima, cioè deve mostrare una certa natura comune, per
soddisfare il criterio della razionalità. Ci si chiede con qua-
le dei tre casi di sinonimia [...] è analoga la predicazione dei
relativi (di un relativo: l’uguale). [...] Si afferma che l’ugua-
le si può predicare solo in modo omonimo (equivoco)
quando questa predicazione venga fatta con riferimento
esclusivo alle cose di quaggiù. [...] Si ribadisce che la predi-
cazione di un relativo fatta in riferimento agli enti empirici
soltanto contraddice la condizione della predicazione sino-
nima in senso proprio e della predicazione sinonima mista.
Quanto alla predicazione sinonima derivata, si mostra che
essa non ha luogo nella predicazione dei relativi alle cose
di quaggiù con riferimento esclusivo alle cose di quaggiù,
vale a dire non si applica agli enti empirici quando si verifi-
chi una situazione paragonabile a quella per cui alcune di
queste cose (per esempio le statue) possono essere chiama-
te «uomini» perché sono copie di altre cose pur apparte-
nenti al mondo empirico (cioè agli uomini in carne e ossa)»
(Leszl, De ideis, pp. 193-194). E con ciò si afferma che la
predicazione sinonima derivata si applica alle cose di quag-
giù quando il modello, non essendo una di esse, le trascen-
de, vale a dire esprime la determinatezza dell’uguale in
senso assoluto: e tale è l’Idea.
Berti (Primo Aristotele, p. 214), a proposito di questa
predicazione sinonima (o non-omonima) derivata si espri-
me in modo diverso, asserendo che si può riconoscere che
è questa che l’argomento fa valere a proposito dei relativi
empirici; ma poiché, facendo propria la posizione di S.
250 OPERE FILOSOFICHE

Mansion (Peri# ièdew^n, pp. 182 s.), egli ritiene che l’uguale di
cui si parla nell’argomento sia l’uguale in sé, risulta allora
che le cose empiriche rientrano nel caso della non-omoni-
mia in senso derivato perché esse sono copie dell’uguale
in sé. Sicché dunque il motivo esegetico di fondo è il me-
desimo.
Un sostanziale accordo lungo un’identica linea esegetica
di fondo – quella, per l’appunto, secondo cui nelle critiche
di Aristotele si scorge l’attestazione da parte del filosofo
dell’assurdità delle Idee dei relativi nel quadro della mede-
sima teoria delle Idee – sussiste anche tra le interpretazioni
che i due studiosi hanno dato di queste critiche stesse. Lun-
go questa linea, la prima critica viene intesa – sé detto – co-
me denunzia di una contraddizione interna alla dottrina
delle Idee, essendo conseguente a essa che i relativi, in
quanto si definiscono in rapporto ad altro, ossia ai correla-
tivi, non possono essere Idee, le quali, essendo in sé sussi-
stenti, sono invece sostanze (e dunque autosufficienti).19 La
seconda critica contrappone – come abbiamo visto – all’uni-
cità dell’Idea la necessità che vi siano più Idee dell’uguale,
dal momento che i relativi ideali, non diversamente da
quelli empirici, sono tali in rapporto a un correlativo
(l’«uguale in sé» è uguale all’«uguale in sé»). La terza criti-
ca fa valere che la logica che postula le Idee esige che si
affermi l’esistenza anche dell’Idea del disuguale; il che se-
condo i Platonici stessi è assurdo, perché il disuguale è più
cose eterogenee e dunque non può essere ricondotto
all’unicità dell’Idea.

4.1.2 L’omonimia
L’altra questione esegetica, riguardante la nozione di
non-omonimia, si è, per così dire, aperta su due lati: in uno
ha impegnato gli studiosi a chiedersi se essa debba ritenersi
equivalente a quella aristotelica di sinonimia; nell’altro ha
SULLE IDEE 251

fatto riflettere in che senso nel secondo e nel terzo dei tre
casi indicati la predicazione è non-omonima.
È innanzitutto opportuno fare presente che, al fine di
ovviare alle difficoltà emerse dall’intendere la valenza in
cui tale nozione interviene nel secondo e nel terzo caso,
Robin (Théorie, pp. 19-21) ha creduto di ricorrere, oltre che
alla recensio vulgata, adottata da Hayduck nello stabilire il
testo di Alessandro, anche alla recensio altera, quella cioè
dei codici L e F, dove i due casi a tema vengono considerati
più o meno omonimi.
Si tratta, in tutta chiarezza, di un espediente molto po-
co convincente, e per questo rifiutato in termini perentori
da Wilpert, il quale ha mostrato come la versione dei co-
dici suddetti, calibrando i termini oémwnu@mwv e mh# oémonu-
mwv in un senso decisamente aristotelico e non platonico,
non possa derivare dal Sulle Idee. In specie, quanto al ter-
zo caso di non-omonimia, nel testo di Alessandro, Wilpert
riconosce che si tratta di un errore, anche se non di impor-
tanza fondamentale (Wilpert, Aristotelische Früschriften,
pp. 41-43).
Ad avviso di Cherniss (Plato, pp. 229-233), nel testo di
Alessandro oémwnu@mwv compare in due significati diversi,
uno, propriamente platonico, per il quale il termine indica
«in modo tale che il nome sia comune e la natura derivata»,
l’altro, squisitamente aristotelico, per il quale si chiama in
causa l’omonimia come equivocità. Comunque, secondo
Cherniss e Wilpert, l’argomento tende ad affermare la se-
conda possibilità della predicazione non-omonima, ossia
quella derivata.
Per S. Mansion (Peri# ièdew^n, pp. 181-181) la predicazione
nel secondo e nel terzo caso è considerata omonima perché
non riguarda to# iòson, bensì – come abbiamo visto – to# iòson
auèto@; e poiché l’argomento, a suo giudizio, si configura nei
termini di una reductio ad absurdum, l’uguale in sé può es-
sere predicato non-omonimamente in riferimento agli enti
252 OPERE FILOSOFICHE

empirici soltanto se, postulando un modello trascendente,


si riporti al terzo caso.
Ad avviso di Owen (Peri# ièdew^n, pp. 103-111) oémwnu@mwv
rivesta, nell’argomento, un significato platonico; la predica-
zione di «uomo» in riferimento alle immagini è dichiarata
non-omonima perché «uomo» non è un termine relativo,
come «uguale», e in quanto tale è predicato per sé sia degli
uomini sensibili che delle immagini: ché, nel contesto pla-
tonico, il modello costituisce l’essenza delle sue copie.
Quanto invece all’uguale, anche Owen riconosce che si
tratta dell’uguale in sé, e afferma che la sua predicazione
alle cose di quaggiù si riconduce al secondo caso ed è con-
siderata omonima perché riguarda l’uguale in senso assolu-
to. Per lo studioso, inoltre, l’argomento ammette una sorta
di rapporto logico fra cose ed Idee analogo a quello che
Aristotele chiama «omonimia in relazione all’uno», anche
se, però – rileva Leszl (De ideis, p. 196) –, egli connette la
sua tesi alla nozione di sinonimia e non a quella di omoni-
mia, come avevano fatto Cherniss e Robin.
Per Lugarini (Categorie, p. 34) mh# oémwnu@mwv non signi-
fica «sinonimamente», in senso aristotelico, ma «ha invece
il compito di opporre all’omonimia platonica operante
nei Dialoghi della maturità (scil., l’uguaglianza del nome,
la quale, dato che questo manifesta direttamente la natu-
ra della cosa – presupposto naturalistico –, denota per ciò
stesso anche una medesima natura delle cose a cui si ap-
plica) il criterio (diremo con Kucharski) della eteronomia,
invalso negli ultimi Dialoghi in connessione con la meto-
dologia diairetica»; criterio in forza del quale si ricerca «il
fondo unitario comune a più eide, vale a dire la mia phy-
sis, che costituisce il loro elemento identico e la loro ou-
sia» (Ivi, p. 32). Su questa base lo studioso, prendendo in
esame il terzo caso di non-omonimia presentato nel testo
di Alessandro e mettendolo a confronto con il primo capi-
tolo delle Categorie, dove l’attribuzione del medesimo
SULLE IDEE 253

nome all’uomo in carne e ossa e ai dipinti che lo raffigura-


no è citata come esempio di omonimia, individua la di-
stanza dottrinale tra i due testi nel fatto che, se si postula
la realtà in sé della natura (comune al modello e alle im-
magini), segue che il modello e le immagini sono non-
omonime (così in Platone), mentre se (come per Aristote-
le) si pensa che esistenti in sé siano i singoli individui (em-
pirici) delle copie e il singolo individuo (empirico) del
modello, allora gli individui/copie e l’individuo/modello
sono ontologicamente diversi, cioè non hanno la stessa
natura. Sicché l’avere lo stesso nome è pura omonimia
(Ivi, pp. 39-41).
Per Leszl, infine, mh# oémwnu@mwv equivale sempre all’ari-
stotelico «sinonimamente», e questa è anche la linea inter-
pretativa di Berti. Leszl, in particolare, interpreta il terzo
caso di non-omonimia (= di sinonimia) nel senso che «la
natura dell’originale è presente anche nelle sue copie, ma
in forme differenti, cioè con delle qualifiche: l’umanità
dell’uomo dipinto non è un’umanità pura e piena, com’è
quella di un uomo in carne e ossa, ma è appunto come può
essere umano ciò che è dipinto» (Leszl, De ideis, p. 201).
Insomma, si verifica una predicazione sinonima, anche se
distinta da quella precedente («data l’identità di natura fra
copie e modello che viene ammessa dai Platonici – scrive
per l’appunto Leszl –, questa situazione viene considerata
indicare che le copie sono chiamate come il modello per-
ché hanno la sua stessa natura, ma in modo derivato: meno
pieno rispetto al modello» [Ivi]). Ad avviso dello studioso
questo stesso schema serve a inquadrare la situazione dei
termini relativi. La predicazione di «uguale» presenta, in-
fatti, un parallelismo con quella di «uomo» in quanto,
«mentre “uomo” può essere predicato in modo primario e
incondizionato rispetto agli uomini di questo mondo, cioè
alle realtà empiriche – per cui vale il contrasto tra questa
predicazione e la predicazione di un uomo applicata alle
254 OPERE FILOSOFICHE

immagini di queste realtà (empiriche) –, questo non si veri-


fica nel caso della predicazione di termini come “uguale”,
che non si predica mai in modo incondizionato delle cose
di questo mondo, ma solo dell’Idea» (Ivi, p. 203). Da qui,
come abbiamo visto, si ha che l’argomento porta a postula-
re Idee di relativi e non Idee di cose per sé o sostanziali,
«giacché la predicazione sinonima è già incondizionata
quando si applica alle cose sostanziali di questo mondo»
(Ivi).

4.2. Il “terzo uomo”


Il secondo gruppo degli «argomenti più rigorosi» è quello
degli argomenti che «dicono il terzo uomo», e anch’esso è
riferito da Alessandro, che lo trae dal De ideis, nel com-
mento a Metaph., I, 9, 917 b 7.
Egli riferisce tre differenti esposizioni dell’argomento e
quattro diverse versioni della riduzione al terzo uomo, del-
le quali la prima è attribuita ad Aristotele, la seconda ai
Sofisti, la terza a Polisseno, la quarta ancora ad Aristotele.
L’ordine di successione degli argomenti e delle critiche è il
seguente: (1) primo argomento; (2) secondo argomento; (a)
prima critica; (b) seconda critica; (c) terza critica; (3) terzo
argomento; (d) quarta critica.
I tre argomenti ripropongono la medesima istanza
dell’«uno sopra i molti», e cioè la necessità di postulare
nell’Idea trascendente l’essere autenticamente tale della
determinatezza quale condizione perché gli enti empirici si
qualifichino secondo questa. Sotto tale profilo essi possono
considerarsi differenti formulazioni di un unico argomento,
che rigorizza quello dell’«uno sopra i molti» sia per la for-
ma, per appunto più precisa, con cui presenta l’assunto co-
mune, sia perché nelle diverse esposizioni si declina sotto il
profilo della predicazione e della partecipazione.
(1) Sulla predicazione si appoggia espressamente la pri-
SULLE IDEE 255

ma formulazione, la quale fa valere che il predicato comu-


ne degli enti sostanziali si attribuisce in senso proprio sol-
tanto all’Idea, essendo soltanto essa in senso proprio ciò
che esprime il predicato, mentre agli enti empirici si attri-
buisce in modo derivato, poiché essi non sono in senso pro-
prio quello che sono (cfr. Alex., In Arist. Metaph., 83, 34-84,
1: «dicono che i predicati comuni delle sostanze sono tali in
senso proprio, e questi sono Idee»).
È immediatamente da rilevare che il grado di pienezza
del predicarsi di una determinazione è posto in diretta cor-
rispondenza con l’essere le cose di cui si predica autentica-
mente quello che la determinazione dice essere. In questo
senso l’argomento stabilisce un’assoluta corrispondenza
tra il livello logico – quello per l’appunto della predicazio-
ne – e il livello ontologico – l’essere la cosa ciò che è secon-
do la determinazione espressa dalla predicazione –, sicché
la condizione per cui la predicazione sia in senso proprio è
che la cosa sia tale in senso proprio.
Sennonché l’argomento non si limita a porre quest’istan-
za, ma – esattamente com’era stato a proposito dell’«uno
sopra i molti» – stabilisce l’esistenza in sé della determina-
zione per osservare che soltanto di essa si ha predicazione in
senso proprio. Reduplica cioè la determinazione, facendone
una «cosa», un «ente» dotato di un’esistenza autonoma, al
fine di poter dichiarare che a esso, che è quella determina-
zione e nient’altro, la determinazione conviene in senso pro-
prio. Così la determinazione si predica in senso proprio
dell’Idea e di essa soltanto, perché l’Idea è l’in sé della de-
terminazione, vale a dire è la determinazione propriamente
tale, mentre non si predica in senso proprio degli enti empi-
rici perché essi non sono quella determinazione e nient’al-
tro, ossia non sono la determinazione nella sua pienezza.
Come dunque immediatamente si evince, il presupposto
su cui si regge l’argomento è che la determinazione, la qua-
le esprime un universale (per esempio, «uomo»), si confi-
256 OPERE FILOSOFICHE

guri in un’esistenza in se stessa, abbia cioè un’esistenza au-


tonoma. Perché, appunto, soltanto a questa condizione si
dà una «cosa» che è totalmente e autenticamente quella
espressa dalla predicazione, sì che la predicazione stessa sia
in senso proprio. Ed è esattamente una tale concezione
dell’universale che Aristotele respinge nella sua critica, la
quale ne pone espressamente a tema l’assurdità esibendo
l’inghippo nel quale si incorre quando si pensa l’universale
non semplicemente come un ente, ma come un ente sepa-
rato da ciò di cui si predica.
Con Leszl (De ideis, p. 246) converrà osservare come qui
non si asserisca più, contrariamente che nell’argomento dei
relativi, che uomo si predica in senso proprio degli enti em-
pirici. Ciò in quanto gli enti sostanziali empirici, che non
sono in senso proprio quello che sono, si predicano in senso
proprio rispetto ai relativi, non rispetto alle Idee, vale a dire
alle sostanze che sono in senso proprio quello che sono.
(2) Nella seconda esposizione l’argomento fa forza sul
motivo che la somiglianza delle cose empiriche si spiega in
funzione della partecipazione all’Idea in quanto ente che è
in senso proprio quella determinazione sotto il cui profilo
le cose empiriche sono simili (cfr. Alex., In Arist. Metaph.,
84, 1-2: «le cose simili l’una all’altra, sono simili l’una all’al-
tra per partecipazione a qualcosa di identico, che è in senso
proprio questa <determinazione>; e questo è l’Idea»).
Considerato nella sua struttura logica, l’argomento si
scandisce in due istanze: innanzitutto dichiara che la deter-
minazione per la quale le cose empiriche sono simili
dev’essere alcunché di sempre identico, ossia dev’essere
alcunché che è tale in senso proprio. E con ciò si esclude
che possa essere una delle cose empiriche stesse (giacché
queste, per il fatto stesso di esser empiriche, e per ciò dive-
nienti, non sono sempre quella proprietà e non sono sem-
pre nello stesso modo). In questo l’argomento, in tutta
chiarezza, non fa che ripresentare la medesima istanza fat-
SULLE IDEE 257

ta valere nell’esposizione precedente, e dunque postula


l’esistenza dell’Idea secondo la stessa concezione dell’uni-
versale che prima si è illustrata. Stabilisce poi che le cose
empiriche possiedono tale determinazione (in modo non
proprio, ovviamente), essendo così simili tra loro, perché la
partecipano da quell’alcunché che la incarna in senso pro-
prio, vale a dire dall’Idea. La situazione nella prima e nella
seconda formulazione dell’argomento è dunque la medesi-
ma: in entrambe si presuppone (per le stesse ragioni) che
le cose empiriche non sono quello che sono in senso pro-
prio e che l’attribuzione della determinazione (a esse che
non la possiedono in senso proprio) è possibile soltanto a
partire da ciò che la possiede in senso proprio. La differen-
za è che nella prima esposizione tale attribuzione viene
considerata nella prospettiva logica della predicazione,
mentre in questa seconda è considerata in quella ontologi-
ca della partecipazione.20
(3) La medesima esigenza della separazione dell’univer-
sale quale condizione del suo predicarsi con verità dei mol-
ti, è espressamente affermata anche nella terza formulazio-
ne, la quale non si presenta come un’esposizione «nuova»
in senso vero e proprio, ma piuttosto come un’esposizione
delle tesi che portano alla riduzione del terzo uomo. Ecco
perché l’argomento che essa enuncia si riconnette a quelli
precedenti: riferisce solo in modo più ampio la formulazio-
ne basata sulla predicazione e istituisce con quella basata
sulla partecipazione il medesimo rapporto secondo cui ab-
biamo visto che questa si relazione alla prima. «Il terzo uo-
mo – si legge nella terza formulazione – si dimostra anche
così: se ciò che è predicato con verità di più cose esiste an-
che come diverso oltre quelle delle quali si predica, essendo
separato da esse – questo, infatti, credono di dimostrare co-
loro che pongono le Idee. Ché, per questo a loro avviso esi-
ste qualcosa come l’uomo in sé, ossia perché l’uomo si pre-
dica con verità degli uomini individuali che sono più d’uno,
258 OPERE FILOSOFICHE

ed è diverso dagli uomini individuali –, se è così, vi sarà an-


che un terzo uomo» (Alex., In Arist. Metaph., 84, 21-28).
Com’è immediatamente riscontrabile, nella seconda
parte sono riproposte le medesime istanze avanzate a so-
stegno delle Idee nell’argomento dell’«uno sopra i molti»:
il termine predicato deve concepirsi come separato (*) per-
ché si predica con verità di molti individui e (**) perché è
differente da essi (cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 222; Leszl,
De ideis, p. 229). Ma anche la prima istanza comporta la
separazione dell’universale. In essa, infatti, non si pone sol-
tanto che il termine predicato si predica di ciascun indivi-
duo di un certo tipo, ma si pone che tali individui costitui-
scono una pluralità. Ora, nessuno degli individui empirici
di detta pluralità si predica in senso proprio, vale a dire con
verità. Ma poiché deve esserci un termine che si predichi in
senso proprio e con verità (pena il venir meno della possi-
bilità di predicare sinonimamente gli individui di quella
stessa classe), esso dovrà essere separato.
La critica di Aristotele, in tutte le sue formulazioni, è in-
teramente volta a mettere in luce l’assurdità della separa-
zione dell’universale che funge da predicato comune delle
sostanze, di concepirlo cioè come un’Idea. Pensato, infatti,
come Idea separata, il predicato comune cessa propriamen-
te di essere tale e diviene esso stesso un elemento della
classe delle cose che godono della proprietà espressa dal
predicato, con la conseguenza che tale proprietà, essendo
comune agli individui empirici e all’Idea, postula l’esisten-
za di un’altra Idea, e così di seguito all’infinito. In tal modo,
oltre agli uomini empirici e all’Idea di uomo dovrà postu-
larsi un «terzo Uomo», ossia un’ulteriore Idea di uomo, e
poi una quarta, una quinta, e così di seguito all’infinito. Il
che colpisce al cuore la dottrina delle Idee quali cause pa-
radigmatiche, richieste per dar conto dei caratteri delle co-
se empiriche: giacché con il rinvio all’infinito la spiegazione
di tali caratteri risulta anch’essa rimandata all’infinito e
SULLE IDEE 259

dunque tralasciata. Viene meno, perciò, la ragione stessa


per la quale nei Dialoghi Platone introduceva le Idee (cfr.
Fedone, 99 a ss.). Se dunque l’universale come predicato
comune è un «uno verso i molti» e non «sopra i molti», vale
a dire una determinazione unitaria la quale, non coinciden-
do con nessuno dei molti di cui è predicata, per questo è
strutturalmente rivolta a essi («unum versus alia») e in fun-
zione di essi, l’Idea, ponendosi invece come costitutivamen-
te separata dagli individui empirici rispetto a cui è Idea e
per questo potendo fare parte, come individuo sui generis
essa stessa, della classe degli individui di cui si predica la
proprietà, si contrappone agli individui empirici e perciò
non è autenticamente un universale.21 Donde il contrasto
tra la sua pretesa di essere «predicato comune» e assieme
«separata», come individuo essa medesima, dagli individui
di cui surrettiziamente vuol essere il predicato comune.
L’assurdo denunziato dal terzo uomo dà appunto corpo a
un tale contrasto. Ciò è particolarmente evidente nella se-
conda formulazione della critica di Aristotele: «se <vale>
questo (scil., come s’è detto nella terza formulazione
dell’argomento), ci sarà un terzo uomo. Se, infatti, (*)
l’<uomo> che si predica è diverso da quelli dei quali si pre-
dica ed è sussistente per proprio conto, (**) e l’uomo si
predica sia degli <uomini> individuali che dell’Idea, vi sarà
un terzo uomo oltre sia quelli individuali che l’Idea. Ma in
questo modo <ne esisterà> anche un quarto: quello che si
predica sia di questo, sia dell’Idea, sia degli <uomini> indi-
viduali, e similmente anche un quinto, e questo all’infinito»
(Alex., In Arist. Metaph., 84, 27-85, 3).
Il predicarsi di «uomo» dell’Idea di uomo, com’è richia-
mato dalla premessa (**), è la diretta conseguenza del fatto
che l’Idea di uomo si pone, in quanto individuo (sui gene-
ris) in sé sussistente e separato, accanto ad altri individui,
costituiti dagli uomini empirici, sì da formare con essi la
classe degli uomini; ma in tale giustapporsi agli individui
260 OPERE FILOSOFICHE

empirici essa manifesta di non esprimere, se non inadegua-


tamente, il predicato «uomo» che è loro comune, vale a dire
di non essere, se non surrettiziamente, un universale: giac-
ché non può essere, in quanto separata e in sé sussistente, in
funzione degli uomini empirici e costitutivamente rivolta a
essi: condizione, questa, per la quale l’autentico «predicato
comune» uomo «è diverso dalle cose di cui si predica e sus-
siste per conto proprio», ossia non coincide con nessuno
degli uomini empirici, com’è detto nella premessa (*).
Il contrasto tra l’essere il predicato alcunché di «comu-
ne», vale a dire un universale, e il suo essere annoverato
nella medesima classe degli enti dei quali si predica, vale a
dire il suo essere alcunché di esistente per sé, separato da
quelli e loro giustapposto, costituisce l’asse portante anche
della prima formulazione della critica aristotelica, ancor-
ché il motivo sia espresso in maniera meno evidente e im-
plicita, mettendosi invece più marcatamente a tema il salto
logico per cui, se il predicato «comune» è distinto dagli enti
di cui è predicato, nel senso che non s’identifica con nessu-
no di essi, allora deve pensarsi «al di là di essi», vale a dire
come separato. «Ma se <vale> questo (scil., com’è stato
detto nelle premesse delle formulazioni dell’argomento), e
il predicato comune di alcune cose non sia identico ad alcu-
na di quelle delle quali si predica, <ma sia> qualcosa d’al-
tro oltre esse – per questo, infatti, l’uomo in sé è un genere,
perché, predicandosi di quelli individuali, non è, come af-
fermiamo, identico a nessuno di essi – vi sarà un terzo uo-
mo oltre quello individuale, come Socrate e Platone, e
l’Idea, la quale è anch’essa una di numero» (Alex., In Arist.
Metaph., 84, 2-7).
Se dunque la determinazione predicata si suppone come
in sé sussistente e separata, essa non costituisce un universa-
le (un «uno verso i molti»): poiché l’universale è sì distinto
dagli individui di cui si predica, ma tale distinzione, lungi dal
configurarlo come un in sé, e dunque come giustapposto e
SULLE IDEE 261

persino contrapposto a ciò di cui è predicato, è invece la


condizione del suo essere l’unità della caratteristica comu-
ne. La quale non esiste che negli individui, reale in tale im-
manenza.
La riduzione al terzo uomo conosce questo concetto
dell’universale come «predicato comune» e non come «uno
sopra i molti», giacché proprio questa unità essa contrappo-
ne alla separazione della determinatezza, al fine di denun-
ziarne l’assurdo. Come infatti abbiamo visto, la riduzione,
evidenziando che la distinzione dell’universale da ciò di cui
è predicato, moltiplica all’infinito la postulazione dell’uni-
versale stesso pensato come in sé sussistente, ne contrappo-
ne la genuina nozione di «predicato comune» a quella sur-
rettizia che lo fa essere un’Idea. E così si rende chiaro che,
se si pensa l’universale come l’unità della determinazione
comune, allora esso non può essere un’Idea, oppure, se lo si
pone come determinazione ideale, allora si compromette
irrimediabilmente il suo stesso carattere di universalità.22
Questi rilievi consentono d’intendere appieno il motivo
fondamentale del rigetto aristotelico dell’Idea.
Gli studiosi hanno rilevato che la prima e la seconda for-
mulazione dell’argomento coincidono con quelle usate da
Socrate nel Parmenide rispettivamente in 132 a e in 132 d-e,
e che la stessa riduzione aristotelica al terzo uomo ripropo-
ne l’obiezione avanzata da Platone nel medesimo Dialogo
contro la separazione dell’Idea (132 a-b), con la sola diffe-
renza che, mentre qui si tratta dell’Idea di uomo, là si argo-
menta sull’Idea di grande.
Prescindendo in questa sede dal problema del rapporto
storico tra la critica del Parmenide e il De ideis23 e conside-
rando invece la portata della critica stessa in questo mede-
simo ordine d’indagine, la questione essenziale consiste nel
decidere se la critica aristotelica e quella platinica abbiano
lo stesso valore.
Con motivazioni diverse lo hanno negato S. Mansion e
262 OPERE FILOSOFICHE

Lugarini. La prima rilevando che non si tratta né dello stes-


so argomento, né delle stesse critiche, giacché nel nostro
trattato è in causa l’Idea di un termine sostanziale, quale è
per l’appunto quella di uomo, laddove nel Parmenide è in
causa l’idea di un relativo, com’è quella del grande, e men-
tre l’Idea di uomo è omogenea rispetto agli uomini empiri-
ci, cosicché l’uomo si può nuovamente predicare di essa,
questo non è consentito a proposito dell’idea del grande, la
quale è eterogenea rispetto al grande sensibile (Mansion
S., Peri# ièdew^n, pp. 189-192; Deux écrits, p. 404). Lugarini, dal
canto suo, che pur rifiuta quest’esegesi, contestandole che
l’eterogeneità dell’Idea del grande in relazione al grande
empirico nel Parmenide non è ammessa, ma è proprio ciò
che viene posto in discussione (Lugarini, Terzo uomo, pp.
47 s.), sostiene tuttavia – come già abbiamo avuto modo di
richiamare – che la critica del Parmenide colpisce l’Idea
nella sua unità, mentre la riduzione al terzo uomo del De
ideis la colpisce nel suo essere realtà in sé, vale a dire nella
sua esistenza (Ivi, pp. 36-46).24 Ora, in quest’ipotesi la «no-
vità» dottrinale dell’intervento aristotelico è chiaramente
espressa, e si tratta di una «novità» totale nell’ipotesi di S.
Mansion, più circoscritta ma pur sempre rilevante e, anzi,
decisiva in quella di Lugarini.
A favore di un’esegesi che riconosce il medesimo valo-
re teoretico della critica del Parmenide e di quella del De
ideis si è invece espresso Berti (Primo Aristotele, pp. 221
s.: «comunque stiano le cose, è certo che la stessa critica
del Parmenide e quella del De ideis hanno lo stesso valo-
re teoretico»). Tale valore, ad avviso dello studioso, con-
siste nel rilevare le difficoltà che insorgono a proposito
del carattere separato dell’Idea, carattere che il Parmeni-
de pone in questione e che Aristotele nel De ideis rifiuta.
Peraltro, questo rilevamento delle difficoltà si sostanzia
ancor più marcatamente se si considera – come del resto
fa Berti stesso – che Platone, nonostante la critica del
SULLE IDEE 263

Parmenide, continuò a sostenere la separatezza delle


Idee,25 di contro al tematico rigetto di esse da parte dello
Stagirita.
In ordine alla questione anche chi scrive si è espresso in
senso affermativo, e alle relative pagine (Zanatta, Catego-
rie, pp. 143-145) rinvia per la giustificazione dell’assunto.
TESTIMONIA

FRAGMENTA
TESTIMONIANZE

[Philopon.], In Arist. Metaph., f. 67 B, apud Ravaisson, Essai


sur la Métaph., I, p. 75, n. 1: quelle cose che ho scritto sulle
Idee in due libri, diversi da quelli che sono questi XIII e
XIV e al di fuori della composizione della Metafisica.

FRAMMENTI

1 (R2 180, R3 185)

Syrian., In Arist. Metaph., p. 120, 33 – 121, 4: che contro


l’ipotesi delle Idee non abbia da formulare nessuna <obie-
zione> di più di queste, manifestano sia il primo libro di
questa trattazione, sia i due libri Sulle Idee da lui composti.
Infatti, portando pressoché queste medesime obiezioni in
ogni luogo e talora dividendole e separandole, talora inve-
ce enunciandole in modo più conciso, cerca di correggere i
filosofi vissuti prima di lui.

Syrian., In Arist. Metaph., p. 195, 10-15: sono le medesime


<obiezioni> che in questi <libri> Aristotele oppone alle teo-
rie dei Pitagorici e dei Platonici, <obiezioni> che, in realtà,
comprendono pure quelle proferite nel libro Alpha grande,
come ha segnalato anche il commentatore Alessandro. Per-
266 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 267

ciò anche noi, essendoci opposti con queste <obiezioni>,


pensiamo di non aver tralasciato neppure quelle; ma nep-
pure tutto quello che contro tali filosofi ha enunciato nei
due libri dell’opera Sulle Idee. Ché, anche qui egli ricicla
pressoché queste medesime <obiezioni>.

Ps. Alex., In Arist. Metaph., p. 836, 34 – 837, 3: dicendo que-


ste cose, riassume tutto quanto il ragionamento esponendo
«quelle che sono, dunque, le conclusioni» per coloro che
affermano i numeri ideali, che pongono gli enti matematici
come separati e che sostengono che le <determinazioni>
suddette sono cause degli enti fisici; «e se ne potrebbero
riunire in numero ancor maggiore di queste», vale a dire le
cose che egli ha scritto nei due libri dell’opera Sulle Idee, le
quali sono diverse da quelle dei libri XIII e XIV, ossia stan-
no fuori dell’ordinamento della Metafisica.

2 (R2 181, R3 186)

Scol. In Thrac., p. 116, 13-16 Hilgard: si deve sapere che le


definizioni fanno parte delle realtà universali e che per-
mangono sempre, come anche Aristotele ha detto nell’ope-
ra Sulle Idee, che è stata da lui composta contro le Idee di
Platone. Tutte le cose particolari mutano e non sono mai
nello stesso modo, mentre quelle universali sono immuta-
bili ed eterne.

3 (R2 182. R3 187)

Alex. Afrod., In Arist. Metaph., p. 79, 3 – 83, 30: per l’istitu-


zione delle Idee si servono delle scienze in più modi, come
<Aristotele> afferma nel primo libro dell’opera Sulle Idee.
Gli argomenti che ora sembra bene ricordare sono di que-
sto tipo: <1> se ogni scienza compie la sua opera riportan-
dosi a qualcosa di uno e identico, e non la compie mai in
268 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 269

rapporto ad alcuna delle cose individuali, <allora> confor-


memente a ciascuna scienza vi sarà qualche altra <realtà>
eterna oltre quelle sensibili, ossia un modello delle cose che
si producono secondo ciascuna scienza. Una tale <realtà> è
l’Idea. <2> Inoltre, le cose che sono oggetto delle scienze,
queste cose esistono. Ma le scienze hanno per oggetto alcu-
ne cose diverse oltre quelle individuali, giacché queste sono
infinite e indeterminate, mentre le scienze hanno per ogget-
to cose determinate. Vi sono, pertanto alcune <realtà> oltre
quelle individuali, e queste sono le Idee. <3> Inoltre, se la
medicina non è scienza di questa determinata salute, ma
della salute semplicemente, vi sarà una salute in sé; e se la
geometria non è scienza di questo determinato uguale e di
questo determinato commensurabile, vi saranno l’uguale in
sé e il commensurabile in sé, e questi sono le Idee.
Ora, tali ragionamenti non dimostrano ciò che si sono
proposti, che, come si è detto, è che esistono le Idee, ma di-
mostrano che esistono alcune cose oltre quelle individuali
e sensibili. Ma, se esistono alcune cose che sono oltre quel-
le individuali, queste non sono affatto sono Idee. <1> (a)
Infatti, oltre delle cose individuali vi sono quelle comuni, e
queste sosteniamo anche che le scienze hanno per oggetto.
(b) Inoltre, il fatto che vi sarebbero Idee anche delle cose
prodotte dalle arti, giacché anche ogni arte riferisce ad al-
cunché di unico le cose che vengono all’essere per sua ope-
ra, e quelle cose che le arti hanno per oggetto, esistono, e le
arti hanno per oggetto certe cose diverse oltre quelle indi-
viduali. (c) Ma l’ultimo <argomento>, oltre a non mostrare
neppure esso che vi sono Idee, sembrerà istituire Idee an-
che delle cose di cui non vogliono che vi siano Idee. Ché, se
per il fatto che la medicina non è scienza di questa determi-
nata salute, ma della salute semplicemente, esiste una salu-
te in sé, esisterà <un in sé> anche nel caso di ciascuna delle
arti. Infatti, non hanno per oggetto l’individuale né questa
data cosa, ma semplicemente la cosa intorno a cui vertono:
270 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 271

per esempio, l’arte del costruire, semplicemente la panca,


ma non questa data <panca>, e semplicemente il letto, ma
non questo <particolare letto>. In modo simile anche la
scultura, la pittura, l’architettura e ciascuna delle altre arti
si rapportano alle cose che ciascuna produce. Dunque, vi
sarà un’Idea anche di ciascuna delle cose prodotte dalle ar-
ti, il che <i Platonici> non vogliono.
p. 80, 8: per istituire le Idee fanno uso anche di un argo-
mento di tal genere: se ciascuno dei molti uomini è un uo-
mo e ciascuno di molti animali è un animale e similmente
anche nel caso degli altri enti e di ciascuno di essi non c’è
qualcosa che sia predicato esso di se stesso, ma vi è qualco-
sa che si predica anche di tutti questi non essendo identico
a nessuno di essi, ci sarà qualcosa di questi che sia oltre gli
enti individuali, separato da essi, eterno. Sempre, infatti, si
predica in modo uguale di tutte le cose che si differenziano
per numero. Ma ciò che è uno sopra i molti, separato da
essi ed eterno, questo è un’Idea. Dunque, esistono le Idee.
<Aristotele> sostiene che quest’argomento istituisce
Idee anche delle negazioni e delle cose che non sono. Infat-
ti, anche la negazione si predica come una e identica di
molte cose e delle cose che non sono, e non è identica a
nessuna delle cose delle quali si dice con verità. Ché, «non
uomo» si predica sia del cavallo, sia del cane, sia di tutte le
cose oltre l’uomo, e per questo è un uno sopra i molti, e non
è identica a nessuna delle cose di cui si predica. Inoltre,
continua sempre a dirsi con verità in modo simile delle co-
se simili. Infatti, «non musico» si dice con verità di molte
cose (ché, <si dice con verità> di tutto ciò che non è musi-
co), similmente a come «non uomo» <si dice con verità> di
ciò che non è uomo. Di conseguenza, vi sono Idee anche
delle negazioni. Il che è assurdo. In effetti, come potrebbe
esserci un’Idea del non essere? Ché, se si accetterà questo,
allora vi sarà un’Idea unica di cose che non appartengono
al medesimo genere e che sono differenti in ogni aspetto:
272 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 273

della linea, se capti così, e dell’uomo. Infatti, tutte queste


cose non sono cavalli.
Inoltre, vi sarà un’Idea unica anche delle cose indetermi-
nate. Ma anche di ciò che è primo e di ciò che è secondo: in-
fatti, sia l’uomo che l’animale sono non-legno, e di essi uno è
primo, l’altro secondo. Ma sono cose delle quali <i Platonici>
non vogliono che ci siano, come si diceva, né generi né Idee. È
chiaro che neppure quest’argomento prova che esistono Idee,
ma anch’esso vuole mostrare che ciò che si predica in modo
comune è diverso dalle cose individuali di cui si predica.
Inoltre, quelli stessi che vogliono dimostrare che ciò che si
predica in comune di più cose è alcunché di unico e che esso è
un’Idea, lo istituiscono a partire dalle negazioni. In effetti, se
colui che nega qualcosa di più cose negherà riferendosi a
qualcosa di unico – infatti, colui che dice «l’uomo non è bian-
co», «il cavallo non è bianco» non nega di ciascuno di questi
qualcosa che è loro proprio, ma facendo riferimento a qualco-
sa di unico nega di tutte il medesimo bianco –, anche colui che
afferma la stessa cosa di più cose non affermerà di ciascuna
una cosa diversa, ma ciò che afferma sarà qualcosa di unico:
per esempio, l’uomo in riferimento a qualcosa di unico e di
identico. Ché, similmente a come <si struttura> la negazione,
<si struttura> anche l’affermazione. Vi è dunque qualcosa che
è diverso oltre ciò che è nelle cose sensibili, che è causa dell’af-
fermazione vera per molti casi e comune, e questo è l’Idea.
p. 81, 25: l’argomento che istituisce l’esistenza delle Idee
a partire dal pensare è del genere seguente: se, quando
pensiamo un uomo o un terrestre o un animale, pensiamo
qualcuna delle cose che sono e nessuna di quelle individua-
li – infatti, il medesimo pensiero permane anche dopo che
queste si sono corrotte –, è chiaro che ciò che pensiamo è
oltre le cose individuali e sensibili, sia che esse esistano, sia
che non esistano; infatti, allora non pensiamo qualcosa che
non è. E questo è la forma, ossia l’Idea.26
p. 82, 11: l’argomento che istituisce Idee anche dei relati-
274 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 275

vi è del genere seguente: <I> nei casi in cui qualcosa di


identico si predica di più cose non omonimamente, ma co-
me alcunché che manifesta una qualche, unica natura, di
esse si dice con verità <1> o per il fatto che queste sono in
senso proprio ciò che è significato dal predicato, come
quando diciamo uomo Socrate e Platone, <2> o per il fatto
che esse sono immagini di quelle vere, come nel caso dei
dipinti, quando <di essi> predichiamo l’uomo – infatti, nel
caso di questi indichiamo le immagini degli uomini, signifi-
cando una qualche natura identica per tutti –, <3> oppure
come se una di esse fosse il modello e le altre le immagini,
come se dicessimo uomini sia Socrate che le sue immagini.
<II> Ma delle cose di quaggiù predichiamo l’uguale stesso
come predicato in senso omonimo di esse. <1> Infatti, <a>
né la stessa definizione conviene a tutte esse, <b> né signi-
fichiamo le cose che sono veramente uguali, giacché la
quantità nelle cose sensibili è soggetta a cambiamento e
muta continuamente e non è determinata. <c> Ma neppure
esiste qualcuna delle cose di quaggiù che accolga in modo
esatto la definizione dell’uguale. (3) Ma neppure come se
una di esse fosse il modello e un’altra l’immagine, giacché
una delle due non è maggiormente modello o immagine
dell’altra. <2> Anche se si accogliesse che l’immagine non
è omonima al modello, segue sempre che queste cose ugua-
li sono uguali come immagini di ciò che è uguale in senso
proprio e vero. <III> Ma se vale questo, vi è qualcosa di
uguale in se stesso e in senso proprio, in riferimento al qua-
le le cose di quaggiù vengono all’essere e si dicono uguali
come immagini, e questo è l’Idea, modello e figura per le
cose che in rapporto a essa vengono all’essere.
p. 83, 22-30: Ebbene, <Aristotele> dice che quest’argo-
mento istituisce l’esistenza di Idee anche dei relativi. Effet-
tivamente la prova che ora è stata indicata si riferisce
all’uguale, che si annovera tra i relativi. Ma <i Platonici>
affermavano che dei relativi non vi sono Idee per il fatto
276 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 277

che a loro avviso le Idee sussistono di per sé, essendo delle


sostanze, mentre i relativi hanno l’essere nello stare gli uni
in rapporto agli altri. Inoltre, se l’uguale è uguale all’ugua-
le, vi saranno più Idee dell’uguale, giacché l’uguale in sé è
uguale all’uguale in sé. Se, infatti, non fosse uguale a niente,
non sarebbe neppure uguale. Inoltre, secondo il medesimo
argomento occorrerà che vi siano Idee anche delle cose di-
suguali, giacché vi saranno o non vi saranno Idee in pari
modo degli opposti. Ma si è d’accordo, anche a loro avviso,
che il disuguale è in più cose.

4 (R2 184, R3 188)

Alex. Afrod., In Arist. Metaph., p. 83, 34 – 89, 7: l’argomento


che introduce il terzo uomo è di questo genere: dicono che
i predicati comuni delle sostanze sono tali in senso proprio,
e questi sono Idee.
Inoltre, le cose simili l’una all’altra, sono simili l’una
all’altra per partecipazione a qualcosa di identico, che è in
senso proprio questa <determinazione>; e questo è l’Idea.
Ma se <vale> questo, e il predicato comune di alcune cose
non sia identico ad alcuna di quelle delle quali si predica,
<ma sia> qualcosa d’altro oltre esse – per questo, infatti,
l’uomo in sé è un genere, perché, predicandosi di quelli indi-
viduali, non è, come affermiamo, identico a nessuno di essi –,
vi sarà un terzo uomo oltre quello individuale, come Socrate
e Platone, e l’Idea, la quale è anch’essa una di numero [...]
84, 21: il terzo uomo si dimostra anche così: se ciò che è
predicato con verità di più cose esiste anche come diverso
oltre quelle delle quali si predica, essendo separato da esse
– questo, infatti, credono di dimostrare coloro che pongono
le Idee. Ché, per questo a loro avviso esiste qualcosa come
l’uomo in sé, ossia perché l’uomo si predica con verità degli
uomini individuali che sono più d’uno, ed è diverso dagli
uomini individuali –, se <vale> questo, vi sarà un terzo uo-
278 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 279

mo. Se infatti l’<uomo> che si predica è diverso da quelli


dei quali si predica ed è sussistente per proprio conto, e
l’uomo si predica sia degli <uomini> individuali che
dell’Idea, vi sarà un terzo uomo oltre sia quelli individuali
che l’Idea. Ma in questo modo <ne esisterà> anche un
quarto: quello che si predica sia di questo, sia dell’Idea, sia
degli <uomini> individuali, e similmente anche un quinto, e
questo all’infinito.
Quest’argomento è identico al primo, poiché si poneva
che le cose simili sono simili per partecipazione a qualcosa
di identico. Infatti, gli uomini e le Idee sono simili [...]
85, 9: ebbene, della prima esposizione del terzo uomo
hanno fatto uso altri e, chiaramente, Eudemo di Rodi
nell’opera Sullo stile, mentre dell’ultima ha fatto uso Ari-
stotele nel primo libro dell’opera Sulle Idee e in questo
(scil. nel libro I della Metafisica), tra poco.
85, 18: Ebbene, egli afferma che questi argomenti che isti-
tuiscono le Idee eliminano questi principi.27 Infatti, una volta
eliminati questi, saranno eliminate anche le cose che vengo-
no dopo i principi, se davvero derivano da essi; per cui saran-
no eliminate anche le Idee. Se infatti nel caso di tutte le cose
di cui si predica, il termine comune è separato e un’Idea, e
anche la diade si predica della Diade indefinita, vi sarà qual-
cosa che è prima di essa ed è un’Idea. In questo modo, la
Diade indefinita non sarà più un principio. Ma neppure la
diade a sua volta sarà prima e principio, giacché, a sua volta,
anche di essa, in quanto è un’Idea, si predica il numero. In-
fatti, per loro (scil., i Platonici) le Idee sono numeri. Di con-
seguenza, per loro il primo sarà il numero, essendo un’Idea.
Ma se vale questo, il numero sarà primo rispetto alla Diade
indefinita, che per loro è principio, e non <sarà> la diade
prima rispetto al numero. Se vale questo, essa non sarà più
principio, se in realtà è tale per partecipazione a qualcosa.
Inoltre, si suppone che <la diade> sia principio del nu-
mero, ma secondo il ragionamento anzi formulato il nume-
280 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 281

ro è primo rispetto a essa. Ma se il numero è un relativo –


giacché ogni numero lo è di qualcosa –, e il numero è il pri-
mo degli enti, se pertanto è primo anche rispetto alla diade,
che essi suppongono <essere> principio, il relativo, secondo
loro, sarà primo rispetto a ciò che è per sé, e questo è assur-
do, dal momento che ogni relativo è secondo. Infatti, il rela-
tivo significa possesso di una natura preesistente, la quale è
prima rispetto al possesso che le è sopraggiunto [...]
86, 11: Ma se anche qualcuno dicesse che il numero è
una quantità e non un relativo, per loro conseguirebbe che
la quantità è prima rispetto alla sostanza. Ma lo stesso
Grande e Piccolo fanno parte dei relativi.
Inoltre, consegue loro di dire che il relativo è principio
del per sé ed è primo, nella misura in cui, a loro avviso,
l’Idea è principio delle sostanze; ma per l’Idea l’essere Idea
consiste nell’essere un modello, e il modello è un relativo,
giacché il modello è modello di qualcosa.
Inoltre, se per le Idee l’essere consiste nell’essere mo-
delli, allora le cose che si producono in relazione a esse e
delle quali le Idee sono <Idee>, saranno immagini di esse, e
così si dirà che tutte le cose che sono costituite secondo
natura, a loro avviso diventano dei relativi, giacché tutte
sono o immagini o modelli.
Inoltre, se l’essere per le Idee consiste nell’essere mo-
delli, e il modello è in vista di ciò che si produce in relazio-
ne a esso, e ciò che è a causa di altro è maggiormente privo
di valore di esso, le Idee saranno maggiormente prive di
valore delle cose che si producono in relazione a esse.
Tali sono gli argomenti che, oltre a quelli prima formula-
ti, mediante la posizione delle Idee eliminano i loro princi-
pi. Se ciò che si predica in comune di alcune cose è princi-
pio e Idea di esse, e il principio si predica in comune dei
principi, e l’elemento degli elementi, vi sarà qualcosa che è
primo e principio dei principi e degli elementi. Ma così non
vi sarà né principio né elemento.
282 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 283

Inoltre, un’Idea non è anteriore a un’Idea, giacché tutte


quante le Idee sono principi in pari modo. Ma l’uno in sé il
due in sé sono Idea in pari modo dell’uomo in sé, del caval-
lo in sé e di ciascuna delle altre Idee. Pertanto, tra esse non
vi sarà una che è prima rispetto a un’altra, per cui neppure
principio. Dunque, l’Uno e la Diade indefinita non saranno
un principio.
Inoltre, è assurdo che un’Idea sia fatta Idea da un’Idea,
giacché tutte sono Idee. Ma se l’Uno e la Diade indefinita
sono principi, un’Idea sarà fatta Idea da un’Idea. Infatti, il
due in sé è fatto Idea dall’uno in sé. Così, infatti, dicono che
questi sono principi, supponendo che l’Uno sia forma e la
Diade materia. Pertanto, questi non sono principio.
E se diranno che la Diade indefinita non è un’Idea, sarà
primo qualcosa che è primo rispetto a essa, che pure è prin-
cipio: ossia la diade in sé, per partecipazione della quale
anch’essa è diade, giacché essa non è la diade in sé. Infatti,
la diade sarà predicata di essa per partecipazione, dal mo-
mento che lo sarà anche delle diadi <individuali>.
Inoltre, se le Idee sono semplici, non deriveranno da prin-
cipi diversi, ma l’Uno e la Diade indefinita sono diversi.
Inoltre, la quantità delle diadi sarà sorprendente, se altra
è la diade in sé, altra la Diade indefinita, altra quella mate-
matica, della quale ci serviamo quando numeriamo e che
non è identica a nessuna di quelle, e ancora, oltre a queste,
quella che si trova nelle cose numerabili e sensibili. Queste
<conseguenze> sono assurde, per cui, seguendo <le tesi>
poste da loro circa le Idee, è chiaramente possibile elimina-
re i principi, che per loro sono più pregiati delle Idee [...]
88, 20 – 89, 7: vi è anche l’argomento che dice la causa
delle cose che si generano ordinatamente, istituendo il mo-
dello per il generarsi di qualcosa, e che questo è l’Idea, non
nel caso delle sole sostanze. Ma anche quello che l’afferma
a partire dal fatto che ciò che parlando diciamo con verità,
questo sussiste – dicendo che gli accordi sono cinque o tre
284 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 285

e tre le armonie, esse, pertanto, sono anche di questo nume-


ro. Ma il numero delle cose di questo mondo è infinito, per-
tanto vi sono alcune altre cose eterne in conformità delle
quali diciamo il vero –, e quest’argomento non ha per og-
getto le sole sostanze. Ma vi sono altri argomenti di questo
tipo, in numero maggiore.

5 (R2 184, R3 189)

Alex. Aphrod., In Arist. Metaph., 97, 27 – 98, 24: <a dimo-


strazione> che, non come ritenevano Eudosso e alcuni al-
tri, le altre cose esistano per mescolanza delle Idee, <Ari-
stotele> afferma che è possibile raccogliere molte impossi-
bilità conseguenti a quest’opinione. Potrebbero essere di
questo tipo:
<1> se le Idee si mescolano con le altre cose, esse, innan-
zitutto, saranno corpi, giacché la mescolanza è propria dei
corpi.
<2> Inoltre, avranno contrarietà tra loro, giacché la me-
scolanza ha luogo secondo contrarietà.
<3> Inoltre, saranno mescolate così che in ciascuna delle
cose alle quali sono mescolate vi sia o un’<Idea> intera o
una sua parte. Ma se vi è un’Idea intera, l’uno per numero
sarà in molte cose; l’Idea, infatti, è un uno per numero. Se
invece vi è in parte, sarà uomo ciò che partecipa della parte
dell’uomo in sé, non ciò che partecipa dell’intero uomo in
sé. Inoltre, le Idee saranno divisibili e ripartibili, pur essen-
do impassibili. In più saranno costituite di parti simili, se
tutte le cose che possiedono una parte da una medesima
cosa sono simili tra loro. Ma com’è possibile che le Idee
siano costituite di parti simili? Ché, non è possibile che la
parte dell’uomo sia un uomo, come la parte dell’oro è oro.
<4> Inoltre, come anch’egli (scil. Aristotele) afferma
proseguendo un poco, in ciascuna cosa non sarà mescolata
una sola Idea, ma molte. Se infatti altra è l’Idea di animale
286 OPERE FILOSOFICHE
SULLE IDEE 287

e altra quella di uomo, e l’uomo è sia animale che uomo,


parteciperà di entrambe le Idee. Pure l’uomo in sé, ossia
l’Idea, in quanto <l’uomo> è anche animale, parteciperà
pure dell’animale in sé. Ma così le Idee non saranno sem-
plici, bensì composte di molte cose, e alcune di esse saran-
no prime, altre seconde. Se invece non è animale, come non
è assurdo dire che l’uomo non è animale?
<5> Inoltre, se si mescolano con le cose che sono in rela-
zione a esse, come saranno ancora modelli, come essi affer-
mano? Neppure è così, infatti, che i modelli sono cause per
le immagini della somiglianza a essi, ossia con l’esservi me-
scolati.
<6> Inoltre, si corromperebbero anche insieme alle cose
corruttibili nelle quali sono.
<7> Ma neppure sarebbero separabili, pur essendo in sé
e per sé, bensì nelle cose che partecipano di esse.
<8> Oltre a queste <aporie, le Idee> non sarebbero, in
più, neppure immobili.
Vi sono, ancora, tutte le altre <aporie> che <Aristotele>
ha mostrato nel secondo libro dell’opera Sulle Idee, esami-
nando quest’opinione che ha in sé delle impossibilità. Per
questo, infatti, egli dice: «è facile raccogliere insieme molte
impossibilità contro quest’opinione». In effetti, qui sono
state raccolte.
288 OPERE FILOSOFICHE

Note
1
In questo senso si sono espressi, tra gli altri, Karpp. Peri# ièdew^n;
Philippson, Peri# ièdew^n; Moraux, Listes anciennes, pp. 328-337; Al-
lan, Aristotle, pp. 16-21 (tr. it., pp. 18 ss.); Düring 1956; Berti 1962,
p. 200; Leszl, De ideis, pp. 348-352. Wilpert, Aristotelische Frü-
schriften, pp. 97-118 ha ritenuto che la composizione dello scritto
risalga al periodo immediatamente successivo alla morte di Plato-
ne. Jaeger, Aristoteles ammette la possibilità che il trattato sia sta-
to scritto durante il soggiorno di Aristotele nell’Accademia, nono-
stante asserisca l’adesione del filosofo alla teoria delle Idee.
2
Così Berti, Primo Aristotele, p. 200. Anche Düring, Aristotle
and Plato ha ritenuto di dover datare lo scritto in un tempo imme-
diatamente successivo alla composizione del Parmenide, ossia in-
torno al 360 a.C. Ma nell’Aristoteles (pp. 49, 245 s.) ha affermato
che esso era probabilmente anteriore al dialogo platonico. Una
tale datazione era già stata sostenuta in termini non dubitativi, ma
certi da Philipson, Peri# ièdew^n. Per questo studioso Aristotele scris-
se il Sulle Idee prima ancora del Parmenide, che, anzi, a suo avviso
sarebbe stato composto da Platone proprio nell’intento di sottrar-
si alle critiche dello Stagirita. Ma questa tesi è stata confutata con
validi e convincenti argomenti da Moraux, Listes anciennes, pp.
329-333 e da Cherniss, Aristotle’s criticism, pp. 538-539. Leszl, De
ideis, p. 79 sul punto concorda con questi due ultimi studiosi.
3
Si sono qui volutamente prese in considerazione alcune delle
più significative interpretazioni generali del Sulle Idee, sul presup-
posto e nella convinzione che soprattutto gli studi di quest’ordine
complessivo rivestano particolare utilità a fungere da base per un
orientamento di massima nelle intricate e difficili questioni che lo
scritto solleva. Si sono perciò volutamente tralasciati gli studi su
temi specifici del Sulle Idee. Tra essi vanno segnalati, per profondi-
tà d’indagine e importanza dei risultati, quello di Isnardi Parente,
Platone e la prima Accademia, ove si prende in esame il problema
degli artefacta e si mostra come il rifiuto di riconoscere l’esistenza
di Idee anche per questo tipo di enti aveva alla base una sorta di
disconoscimento di valore da parte degli Accademici e dello stes-
so Aristotele e il convincimento della loro inferiorità sul piano
ontologico rispetto agli enti naturali. Va poi ricordato il saggio di
Owen, Peri# ièdew^n dedicato all’argomento dei relativi, delle cui
Idee soltanto, ammesse dai Platonici, e non di quelle di ogni gene-
re di enti esso è volto a negare l’esistenza. A quest’argomento è
dedicato anche il saggio di Isnardi Parente, Per l’interpretazione,
che giunge a conclusioni opposte a quelle di Owen: i Platonici non
ammettevano l’esistenza di Idee di enti relativi e la critica di Ari-
SULLE IDEE 289

stotele mette in evidenza come essi, in contraddizione con se me-


desimi, per essere coerenti con le istanze della loro dottrina avreb-
bero invece dovuto ammetterle. L’argomento del «terzo uomo» è
invece l’oggetto di un importante studio di Wilpert, Dritten Men-
schen: in polemica con Baeumeker, Polixenus, per il quale il «terzo
uomo» del Parmenide sarebbe l’argomento del sofista Polisseno di
Fania, egli mostra che la terza versione di quest’argomento pre-
sentata da Alessandro, quella cioè di Polisseno, è differente sia da
quella che il commentatore attribuisce ad Aristotele, sia da quella
del Dialogo platonico. Ancora intorno al «terzo uomo» è da se-
gnalare lo studio di Arpe, tri@tov aònqrwpov, per il quale tutti i riferi-
menti che lo Stagirita fa di esso sono alla seconda versione in cui
Alessandro lo presenta, quella cioè che ad avviso del commenta-
tore è di origine sofistica, con la conseguenza che la critica di Ari-
stotele non sarebbe intesa a mostrare l’assurdità del regresso
all’infinito comportata da tale argomento, come invece, frainten-
dendo, vorrebbe Alessandro. Una tesi, questa, che Wilpert, Aristo-
telische Früschriften, pp. 85 ss. ha confutato. È inoltre da segnalare
il saggio di Lugarini, Terzo uomo, secondo cui la critica di Aristo-
tele in quest’argomento, volta com’è a polemizzare contro la sepa-
ratezza dell’Idea, non riprende quella del Parmenide, che invece è
diretta contro l’unità dell’Idea. Berti, Primo Aristotele, pp. 436 ha
confutato questa ipotesi esegetica. Vanno infine ricordati gli studi
di Diano, Studi e saggi, per il quale il «terzo uomo» mostra l’anti-
nomia tra il momento della storicità, espresso dall’evento, e quello
logico, espresso dalla forma, e di Vlastos, Third man, che analizza
la struttura logica della riduzione «terzo uomo».
4
Così, in particolare, Robin (Théorie, p. 26: «le Idee sono per
Aristotele universali eretti a sostanze») e Chersiss, Plato, p. 260: le
Idee, nella loro separatezza, non sono che ipostatizzazione
dell’«uno sopra i molti».
5
Cfr. Metaph., I, 9, 990 b 8-11: «In più, le Idee non risultano se-
condo nessuno di questi modi secondo cui abbiamo mostrato che
esistono. In effetti, da alcuni non è necessario che si abbia un sillo-
gismo, da altri si hanno Idee anche di quelle cose delle quali non
crediamo <che vi siano> (ћƲƨƣҭƩƠƧ·ƮҒưƲƯфƮƳưƣƤрƩƬƮƫƤƬᅠƲƨ
ћƱƲƨƲҫƤѷƣƦƩƠu·ƮᅧƧоƬƠƴƠрƬƤƲƠƨƲƮхƲƷƬїƭїƬрƷƬƫҭƬƢҫƯƮᅧƩ
чƬнƢƩƦƢрƢƬƤƱƧƠƨƱƳƪƪƮƢƨƱƫфƬїƭїƬрƷƬƣҭƩƠұƮᅧƵҢƬƮѳфƫƤƧƠ
ƲƠхƲƷƬƤѷƣƦƢрƢƬƤƲƠƨ)». Lo Stagirita non si sofferma analiticamen-
te su quei primi. Tuttavia dal commento di Alessandro siamo in-
formati anche su quali erano quei falsi sillogismi. «Tale sarebbe (a)
quello per cui, se c’è qualcosa di vero, allora devono esserci le For-
me, perché nessuna delle cose di quaggiù è vera. (b) Oppure: se c’è
la memoria, esistono anche le Forme, perché la memoria riguarda
290 OPERE FILOSOFICHE

ciò che permane. (c) Ancora: il numero si riferisce all’essere, men-


tre le cose di questo mondo non sono essere; ma se è così, allora il
numero si riferirà alle Forme; dunque le Forme esistono. (d) Lo
stesso discorso vale anche per l’argomento secondo il quale le de-
finizioni si riferiscono agli esseri, mentre nessuna delle cose di
quaggiù è essere» (In Arist. Metaph., 78, 14-18). Il commentatore
nel presentare le critiche di Aristotele ai due tipi di argomenti for-
mula due ipotesi: secondo la prima, tutti gli argomenti provereb-
bero più di quanto avrebbero dovuto, in quanto avallerebbero
l’esistenza di Idee anche di realtà per le quali ad avviso di Platone
e dei Platonici non vi sono Idee, ma gli uni, oltre a questo, sarebbe-
ro anche sillogismi scorretti, ossia «argomenti inconcludenti», altri
invece sono concludenti, vale a dire autentici sillogismi, ma con
conclusioni eccedenti ciò che vorrebbero dimostrare. In tale ipote-
si, conclude Alessandro, «alcuni di questi argomenti falliscono sot-
to entrambi gli aspetti [scil. quello di provare di più di quanto con
essi si vuole provare e quello di essere falsi sillogismi], altri ricado-
no in ogni caso in uno dei due errori [scil. quello di provare più di
quanto con essi si vuole provare]» (78, 6-13). Secondo l’altra ipote-
si, invece, Aristotele intenderebbe dire che i primi argomenti sono
«assolutamente falsi e nient’affatto probanti» (78, 13-14). Pertan-
to, ad avviso del commentatore, lo Stagirita non ne menzionereb-
be nessuno proprio per il fatto che non sono argomenti (78, 19).
Sulla linea già indicata da Bonitz (Comm., pp. 109 s.), la maggior
parte degli studiosi accetta, oggigiorno, come più probabile la se-
conda alternativa, nonostante il parere contrario di Cherniss (Pla-
to, p. 495).
6
È questa che abbiamo proposto l’interpretazione più comune
dell’argomento «dalle scienze» (cfr. per esempio, Cherniss, Plato,
pp. 236 s.; Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp. 53 ss.; Berti, Pri-
mo Aristotele, pp. 204 s.; Profilo, pp. 80 ss.). Ad avviso di Leszl, in-
vece, i due rilievi critici non scandiscono due obiezioni distinte, ma
presentano una compattezza strutturale giacché entrambi fanno
tutt’uno nel sottolineare un’implicazione delle obiezioni ad homi-
nem basata sull’inaccettabilità delle Idee degli artefatti. Il senso
complessivo della critica di Aristotele è così delineato dallo studio-
so: essa parte «dall’impossibilità, ammessa dai Platonici stessi, che
gli argomenti provino l’esistenza di Idee di artefatti per inferire
che (dato che, se questi argomenti provano le Idee, devono provar-
le anche nel caso degli artefacta) essi non la provano in nessun ca-
so» (Leszl, De ideis, p. 105). Insomma, «se ci sono delle forme nel
caso degli artefacta (e ci debbono essere perché essi siano conosci-
bili), esse debbono essere immanenti (una tesi almeno implicita-
mente ammessa dai Platonici stessi); siccome gli argomenti desunti
SULLE IDEE 291

dalle scienze provano (se provano affatto qualcosa di separato)


forme anche nel caso degli artefacta, essi debbono essere non vali-
di; non resta che ammettere delle forme immanenti in entrambi i
casi, quelli degli artefacta e quello delle cose naturali» (Ivi, p. 107).
7
«Aristotele – scrive opportunamente Leszl, De ideis, p. 166 –
non può trattare l’universale come in un certo senso identico agli
individui [...] quando ciascuno di essi sia considerato in quanto
membro della classe a cui appartiene [...] Da questo punto di vista
non è nient’altro che l’identica natura o prima essenza che essi
hanno in comune e in virtù della quale sono identici». E inoltre:
«per Aristotele anche nel caso degli enti empirici è possibile de-
terminare un aspetto sufficientemente determinato, il quale sia
condizione oggettiva sufficiente per la determinatezza semantica
che è necessaria al linguaggio» (Ivi, p. 147).
8
In questo senso, con il riferimento alle cose particolari, pre-
sente nell’affermazione che «quando pensiamo [...], pensiamo
qualcuna delle cose che sono e nessuna di quelle individuali», mi
pare che Alessandro ponga l’accento non tanto sull’aspetto della
singolarità come tale, quanto piuttosto su quello della corruttibili-
tà degli enti individuali. Individuale, infatti, è soltanto l’ente empi-
rico, il quale, in quanto tale, è corruttibile. La congruità di questo
modo d’intendere mi sembra attestata, oltre che dal senso com-
plessivo dell’argomento, anche dal rilievo immediatamente se-
guente con il quale il commentatore segna il contrasto tra l’affer-
mazione del pensiero e l’essere venute meno «queste <cose>»,
vale a dire le cose individuali, espressamente menzionate: « infatti,
il medesimo pensiero permane anche dopo che queste si sono cor-
rotte». Parimenti, anche quando Alessandro, a conclusione dell’ar-
gomento, asserisce che «è chiaro che ciò che pensiamo è oltre le
cose individuali e sensibili», mi pare che chiami in causa non tanto
(o non immediatamente) la non-individualità, vale a dire l’univer-
salità delle determinazioni che si pensano (quasi ne richiamasse
l’aspetto per il quale essa si ponga, nei termini dell’argomento
precedente, come un «uno sopra i molti»), quanto piuttosto e in
prima istanza l’aspetto per cui essa è un «ciò che è». Le cose indi-
viduali, in quanto cose empiriche, sono soggette a corruzione, per
cui, se «ciò che pensiamo è al di là delle cose individuali», allora
ciò che pensiamo è incorruttibile, vale a dire è ciò che propria-
mente e autenticamente è. E tale è, appunto, l’Idea. E, infatti, an-
che in questo caso il rilievo immediatamente seguente che «allora
non pensiamo qualcosa che non è», depone a favore dell’interpre-
tazione che qui si propone, attestandosi che proprio in tale non
pensare ciò che non è si puntualizza il significato essenziale
dell’essere ciò che pensiamo «oltre le cose individuali».
292 OPERE FILOSOFICHE

9
fh@si dh# tou^ton to@n lo@gon kai# tw^n fqeirome@nwn te kai# eèfqarme@nwn
kai# oçlwv tw^n kaq è eçkasta@ te kai# qfartw^n iéde@av kataskeua@zein,
oié^on Swkra@touv, Pla@twnov. Kai# ga#r tou@touv noou^men kai# fantasi@
av auètw^n fula@ssomen kai# mhke@ti oòntwn. fa@ntasma ga@r ti kai# tw^n
mhke@ti oòntwn sw@zomen. Aèlla# kai# ta# mhd èoçlwv oònta noou^men, wév
éIppoke@ntauron, Ci@mairan, wçste ouède# oé toiou^tov lo@gov iède@av eiè^nai
sullogi@zetai [ebbene, <Aristotele> dice che quest’argomento
istituisce Idee anche delle cose che si corrompono e che si corrup-
pero e, in generale, delle cose individuali e corruttibili, come di
Socrate e di Platone. E pensiamo anche costoro e di loro e delle
cose che non sono più custodiamo le rappresentazioni. Ché, sal-
viamo una qualche rappresentazione anche delle cose che non
sono più. Ma pensiamo anche le cose che non esistono affatto, co-
me l’Ippocentauro e la Chimera, per cui neppure il discorso siffat-
to argomenta che esistono Idee].
10
Così, per esempio, Cherniss, Plato, p. 3.
11
Berti, Primo Aristotele, p. 213 rileva che questa critica ricorda
chiaramente il passo del Parmenide (133 c-134 e) in cui si afferma
la correlazione tra le Idee dei relativi. Ma – osserva lo studioso –
«mentre là si avanzava come obiezione l’inconoscibilità delle Idee,
qui la conseguenza obiettata è un’altra, ossia che vi saranno più
Idee di una stessa cosa, per esempio più uguali in sé». Lugarini,
Categorie, pp. 45-46 connette questa critica a quella del «terzo uo-
mo», traendo motivo da tale connessione per illustrare il senso
che nell’argomento assume l’espressione mh# oémwnu@mwv. Per parte
mia, ritengo essenziale rimarcare la specificità dell’obiezione ari-
stotelica, e cioè che la moltiplicazione delle Idee di una stessa cosa
compromette la funzione paradigmatica dell’Idea stessa.
12
Così, per esempio, Cherniss, Plato, p. 3.
13
Su questa divisione accademica degli enti in kaq è auéta@ e in
pro@v ti si vedano, tra gli altri, Berti, Dalla dialettica, pp. 189-190;
Gercke, Ursprung, p. 426; Merlan, Poseidonios, p. 200; Eldesr, One,
pp. 25 ss.; Isnardi Parente, Kaq èauéta@ e duna@mei, pp. 130-131.
14
«È poco verisimile – ha scritto lo studioso –, stante l’argo-
mento dei pro@v ti, che Platone abbia negato che vi siano Idee di
relativi [...] ma, si dirà, poiché il relativo è ciò che è minormente
sostanza, mentre le Idee posseggono una sostanzialità assoluta,
Platone aveva serie ragioni per non sottostare a ciò che, comun-
que, poteva esigere la sua dottrina: poteva non attribuire al relati-
vo l’esistenza assoluta dell’Idea. È, com’è risaputo, la dottrina di
Aristotele: fra tutte le categorie, la relazione è quella che è minor-
mente sostanza; e forse è sulla base del riscontro di un’analoga
osservazione in Platone che Aristotele ha fondato la sua testimo-
nianza sulle Idee dei relativi. Tuttavia dal fatto che la sostanzialità,
SULLE IDEE 293

vale a dire l’esistenza indipendente e assoluta, non apparterrebbe


ai relativi, si deduce che egli non poteva aver avuto l’Idea dei rela-
tivi? Non sembra; su questo punto, come su molti altri, le conse-
guenze tratte da Aristotele sembrano essere andate molto al di là
dei dati sui quali egli le fondava» (Robin, Théorie, p. 129).
15
Così Jackson, Plato’s later theory, p. 355, nota n. 2; Heinze,
Xenocrates, p. 55; Zeller, Platonische Studien, p. 261; Id., Griechen,
II, 1, p. 587.
16
Il senso dell’opposizione diametrale di questa linea esegetica
rispetto a quella anzi indicata è manifestamente espresso da Berti
quando dichiara che «in questa luce la critica di Aristotele all’ar-
gomento che dimostra Idee dei relativi appare esattamente l’in-
verso di quella agli argomenti che partono dalle scienze. Mentre a
proposito di questi egli rimprovera agli Accademici di implicare
direttamente Idee che essi esplicitamente negavano, a proposito
dell’argomento che dimostra Idee dei relativi egli rimprovera agli
Accademici di porre esplicitamente Idee che erano implicitamen-
te escluse dalle loro stesse dottrine» (Berti, Primo Aristotele, pp.
216 s.). E così precisa il senso di tale critica: «in entrambi i casi si
tratta di critiche interne; tuttavia, mentre le critiche aristoteliche
alle dimostrazioni delle Idee che partono dalle scienze finiscono
per essere degli argomenti ad hominem, in quanto si richiamano
alla particolare funzione di coloro che compiono la dimostrazione,
indipendentemente dal valore di tale funzione, la critica alla di-
mostrazione delle Idee dei relativi ha, a mio avviso, un significato
diverso, in quanto si richiama alle posizioni dell’intera Accademia,
ossia alla ripartizione degli enti in kaq èauéta@ e pro@v ti» (Ivi). Pro-
prio questo riconoscere da parte di Berti che la critica aristotelica
alle Idee di relativi non è condotta ad hominem, facendo partico-
larmente rimarcare il momento dottrinale della critica stessa sul
quale si sofferma in maniera precipua Leszl, sfuma la differenza
che, all’interno di questo medesimo indirizzo esegetico, distingue
l’interpretazione dei due studiosi. Per Leszl, infatti, Aristotele
«nelle sue critiche cerca di provare l’assurdità dell’ammissione
delle Idee dei relativi» e – prosegue l’interprete – «senza suggerire
che tale assurdità fosse stata riconosciuta dagli Accademici stessi»
(Leszl, De ideis, p. 225).
17
Sul che si è soffermato con particolare insistenza Ross (Ideas,
pp. 165 s) come conseguenza cui incorre la critica di Aristotele.
18
Cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 215; Leszl, De ideis, p. 203; cfr.
anche Wilpert, Aristotelische Früschriften, p. 75; Cherniss, Plato, pp.
279-280; Mansion S., Peri# ièdew^n, pp. 183-184. Circa eòlegon Berti scri-
ve che «non è necessario attribuire ad Alessandro questo genere di
equivoco (scil., quello denunziato da Wilpert): egli stesso, infatti, nel
294 OPERE FILOSOFICHE

riferire le ragioni per cui gli Accademici ouèk eòlegon esservi Idee di
relativi, lascia intendere il vero significato di quest’espressione. La
ragione è costituita dal fatto che le Idee, qualora siano intese come
separate dalle cose, vengono a essere delle sostanze, e dunque esi-
stono per sé, mentre i relativi non possono che essere in relazione
ad altro. In altre parole, l’Idea separata di un relativo sarebbe con-
traddittoria, perché come Idea separata dovrebbe essere in sé, men-
tre come relativo dovrebbe essere in relazione ad altro. Questi rilie-
vi presuppongono chiaramente la divisione del reale in due generi:
gli enti kaq èauéta@ e gli enti pro@v ti, reciprocamente escludentisi. Si
tratta di una divisione schiettamente platonica e accademica [...] Si
comprende così il significato dell’espressione di Alessandro, secon-
do cui gli Accademici ouèk eòlegon esservi Idee di relativi. Essa indica
una conclusione indiretta, implicita, derivante come conseguenza
dalle stesse dottrine accademiche» (Berti, Primo Aristotele, p. 216).
Leszl, in diretta polemica con Isnardi Parente, mostra, sulla base di
rilievi filologici, l’impossibilità di intendere kataskeua@zwn del passo
di Alessandro come indicante che «la prova cui Aristotele allude
non vuole essere una dimostrazione dell’esistenza delle Idee di re-
altà relative, ma semplicemente una dimostrazione dell’esistenza di
Idee trascendenti, modelli separati, applicata a una realtà come
l’uguale» (Leszl, De ideis, p. 212). E cita a documentazione l’Index
aristotelicum di Bonitz a p. 347, 6 s. e il dizionario del Liddel- Scott,
s.v., p. 911. Quanto poi a ouèk eòlegon, anch’egli afferma in tutta chia-
rezza che l’espressione «indica un’implicazione degli argomenti de-
gli Accademici» (Ivi).
19
Cherniss (Plato, pp. 181-183) ha sostenuto che Aristotele in
questa critica confonde il significato ontologico con quello logico
di kaq èauéto@, col primo intendendosi una categoria che è opposta a
quella della relazione, col secondo invece la capacità di sussistere
in modo indipendente. Al che Berti (Primo Aristotele, p. 229) ha
obiettato che «la confusione tra il piano logico e il piano ontologi-
co è proprio ciò che Aristotele rimprovera all’argomento che di-
mostra Idee dei relativi, in quanto questo conferisce una sussisten-
za ontologicamente indipendente a proprietà distinguibili solo lo-
gicamente» (cfr. anche S. Mansion, Peri# ièdew^n, pp. 185 s.). Per parte
sua Leszl (De ideis, p. 232) precisa che l’errore che Aristotele attri-
buisce ai Platonici «non è quello di saltare dal piano logico a quel-
lo ontologico, ma quello di arrivare a un’ontologia sbagliata par-
tendo da una logica sbagliata, una logica che ammette che ci sia un
relativo, e cioè quello in sé, che però può essere concepito isolata-
mente da tutti gli altri termini relativi».
20
Cfr. Wilpert, Aristoteliche Frühschriften, pp. 92 s.: «nur der
Wechsel, der einmal logiche, das andere Lame in ontologischer ist,
SULLE IDEE 295

unterscheidet die beiden Ideenargumente». Cfr. anche Lugarini,


Terzo uomo, pp. 15-17.
21
Che l’Idea, nella precisa fisionomia in cui viene qui configu-
rata, sia considerata anch’essa dallo Stagirita come un individuale,
è testimoniato da due passi di Metaph., XIII, 9. In 1086 a 32-34 si di-
ce, infatti, che açma ga#r kaqo@lou te poiou^sin ta#v iède@av kai# pa@lin wév
cwrista#v kai# tw^n kaq è eçkaston, e in 1086 b 10-11 si legge: wçste sum-
bai@nei scedo#n ta#v auèta#v fu@seiv eiè^nai ta#v kaqo@lou kai# ta#v kaq è
eçkaston.
22
Owen (Peri# ièdew^n, pp. 37 s.), dopo avere indicato che la dimo-
strazione dell’esistenza delle Idee fornita dall’argomento qui in
oggetto si basa su due premesse: (a) la non-identità di soggetto e
predicato, vale a dire del termine predicato e di ciò di cui si predi-
ca e (b) il predicarsi del predicato non soltanto degli individuali
empirici, ma anche delle Idee, rileva come Aristotele, di fronte alla
necessità di rinunziare o all’assunto dell’autopredicazione o a
quello della non-identità di soggetto e predicato, distingua due ti-
pi di predicazione riguardanti la sostanza: (1) la predicazione che
dice l’essenza (con la quale si salva l’autopredicazione, ma non la
differenza di soggetto e predicato) e (2) la predicazione che attri-
buisce alla sostanza qualcosa che non fa parte della sua essenza
(predicazione accidentale), predicazione mediante cui si preserva
la differenza, ma non l’autopredicazione. A questa interpretazio-
ne si è opposto Leszl, il quale ha fatto valere che «l’universale è
sempre distinto dall’individuo, e questo fatto deve avere una sua
giustificazione anche nel caso della predicazione essenziale, nella
categoria della sostanza» (Leszl, De ideis, p. 276). Inoltre lo studio-
so fa presente che «nel caso di “l’uomo è animale bipede” o “l’uo-
mo è animale” non si tratta certo di autopredicazione, ma di asser-
zioni d’identità – identità completa fra genere e specie più diffe-
renza specifica; identità parziale fra genere e specie» (Ivi).
23
Alcuni studiosi ritengono che la riduzione al terzo uomo sia
stata originariamente formulata nel De ideis e da qui il Parmenide
l’abbia desunta (così, per esempio, Philippson, Peri# ièdew^n, p. 24;
Wundt, Parmenides, p. 65). Altri rovesciano diametralmente il rap-
porto, indicando nel Parmenide la primitiva esposizione della ri-
duzione stessa, ripresa successivamente da Aristotele nel De ideis
(così, sia pur dando un significato diverso alla derivazione aristo-
telica, tra gli altri, Robin, Théorie, pp. 609-612 e Wilpert, Aristoteli-
sche Früschriften, pp. 83-85; Dritten Menschen, p. 56). Per altri stu-
diosi, infine, Aristotele avrebbe desunto la riduzione platonica
non direttamente da Platone, ma da una sua riproposizione acca-
demica. Su questa linea Ross, Metaph., I, pp. 194-196 e Cherniss,
Plato, pp. 292 s. pensano che anche Platone nel Parmenide, non
296 OPERE FILOSOFICHE

meno di Aristotele, avrebbe desunto la critica da un terzo autore


ignoto.
24
Per contro cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 221, per il quale tanto
nel Parmenide quanto nel De ideis la critica è diretta contro l’unità
dell’Idea. «Del resto – precisa lo studioso – la distruzione dell’unità
dell’Idea comporterebbe la distruzione della sua stessa esistenza,
poiché, in base all’argomento che si vuole criticare, l’Idea ha ragio-
ne di essere solo in quanto unità di una molteplicità» (Ivi).
25
Su ciò cfr. anche Cherniss, Plato, pp. 287-300.
26
Nel testo di Alessandro segue la critica di Aristotele a
quest’argomento. Poiché Ross nella sua raccolta non la riporta,
anch’io ho tralasciato qui di presentarla. La presento, invece,
nell’Introduzione, sia nel testo greco che in traduzione italiana
(cfr. pp. 202, nota n. 9).
27
Ossia l’Uno e la Diade indefinita di grande e piccolo, di cui
Aristotele riferisce nell’opera Sul bene.
SUI PITAGORICI

INTRODUZIONE

1. Lo scritto Sui Pitagorici (Peri# tw^n Puqagorei@wn) è indi-


cato al n. 101 del catalogo di Diogene Laerzio (V, 25), in un
libro, dopo che al n. 97 il dossografo dà notizia di uno scrit-
to dello Stagirita Contro i Pitagorici (Pro#v tou#v Puqago-
rei@ouv), anch’esso in un libro. Se, come non vi è ragione per
non credere, si tratta di due opere distinte,1 è logico pensa-
re che la prima rispondesse nel suo impianto di fondo
all’intendimento dello Stagirita di esporre le dottrine di
quei filosofi, mentre nella seconda egli raccoglieva le criti-
che di cui quelle dottrine erano passibili. L’uno e l’altro
aspetto trovano, infatti, preciso riscontro negli scritti di
scuola e in particolare in quella prima storia della filosofia,
scritta con intendimento teoretico e critico, che è il libro
Alpha della Metafisica. Ebbene, anche qui le dottrine dei
Pitagorici sono fatte oggetto di riflessione in due momenti:
in effetti, nel capitolo quinto lo Stagirita s’impegna fonda-
mentalmente nella loro esposizione. Essa è, sì, animata
dall’intento di mostrare che i Pitagorici non posero soltan-
to la causa materiale, ma intravidero anche quella formale:
un’esposizione, dunque, operata in chiave non storiografica
e non certamente con il proposito di riferire le dottrine in
oggetto per sé stesse, ma non per questo inefficace sotto il
profilo dell’offerta di un’ampia e basilare messe di mate-
298 OPERE FILOSOFICHE

riale a partire da cui ricostruire le tesi di quei filosofi. Per


converso, nel capitolo ottavo Aristotele ritorna sulle dottri-
ne pitagoriche, ma per sottometterle a una serrata critica. Il
piano secondo cui si delinea l’impianto di fondo dei due
capitoli di Metaph., I ripropone, dunque, il disegno com-
plessivo dei due trattati sopra menzionati.

2. In ogni caso è ragionevole credere che la trattazione del-


lo scritto Sui Pitagorici sia stata più ampia e analitica delle
due disamine di Metaph., I; senz’altro per ciò che attiene
all’esposizione delle dottrine di questi filosofi, ma probabil-
mente, perché ne è un ben logica conseguenza, anche per
ciò che attiene alle critiche portate dallo Stagirita a esse.
Ho parlato di esposizione delle dottrine, ma sarebbe sta-
to più corretto dire «esposizione delle opinioni», giacché, a
ben vedere, proprio la prima parte dei frammenti dello
scritto Sui Pitagorici pone in evidenza una serie di creden-
ze dei Pitagorici intorno alla figura di Pitagora e di conside-
razioni sui suoi eccezionali poteri, confinanti con il magico,
che appartengono con ogni verosimiglianza al contenuto
delle «opinioni» professate da quei filosofi, ma che certa-
mente non possono qualificarsi come loro «teorie» in senso
vero e proprio né considerarsi facenti parte del loro patri-
monio dottrinale strettamente inteso. Si tratta invece di
«opinioni», riconducibili in ultima analisi alla credenza del-
la natura divina del fondatore della scuola. Una credenza
invalsa tra gli adepti, fino ad annoverarsi, essa sì, tra i moti-
vi salienti del loro sostrato culturale e fatta valere, per
quanto è possibile sapere, dallo stesso Pitagora. In realtà
essa è del tutto coerente con il tipo di atteggiamento col
quale egli, notoriamente, si presentava agli allievi, cui par-
lava dietro una tenda, sì da dare un senso oracolare e, per
l’appunto, divino al suo dire, dopo lunghi periodi durante i
quali essi potevano soltanto ascoltare. Tanto che non è
mancato chi, per cercare di risolvere certe discrepanze
SUI PITAGORICI 299

all’interno della dottrina pitagorica e taluni momenti di es-


sa in (reale o presunto) conflitto tra loro abbia avanzato
l’ipotesi che in realtà si tratta, da un lato, di cose dette agli
«acusmatici» e, dall’altro, di cose mostrate ai soli «matema-
tici», ossia a soggetti già divenuti membri del gruppo pita-
gorico e avanzati nell’apprendimento della dottrina.
Un’ipotesi certamente poco credibile perché provvista di
scarsa attendibilità sul piano storiografico, come ha osser-
vato Isnardi Parente (Pitagorici, III, p. ),2 ma che altrettan-
to certamente è significativa a conferire ulteriore avallo al
carattere sacrale della parola di Pitagora e alla conseguen-
te credenza nella divinità della sua figura.
Ora, come si accennava, la ricca gamma di opinioni ri-
portate nello scritto Sui Pitagorici in ordine a tale creden-
za, è assente dalle trattazioni di Metaph., I. E questo fatto
permette di leggere il predetto parallelismo tra Metaph., I,
5; 8, da un lato, e gli scritti Sui Pitagorici e Contro i Pitago-
rici, dall’altro, in una chiave esegetica tale da lasciar ragio-
nevolmente credere che nei primi due logoi Aristotele ab-
bia ripreso, rispettivamente, l’esposizione della dottrina e
le critiche a essa già mosse e formulate più ampiamente nei
due ultimi scritti.
In ordine ai quali è così possibile trovare un termine an-
te quem per la loro datazione: la composizione, per l’ap-
punto, del libro Alpha della Metafisica.

3. È interessante rimarcare il fatto che agli occhi degli


adepti la divinità del maestro fosse attestata – e i frammen-
ti dell’opera Sui Pitagorici lo attestano a chiare lettere – da
una serie di episodi di natura magica e miracolistica; non
soltanto, ma che – come s’è detto – tale modalità di manife-
starsi della natura divina di Pitagora facesse parte del patri-
monio culturale dei Pitagorici e si annoverasse tra i conte-
nuti delle loro credenze.
In realtà, questa convinzione è essa stessa rivelatrice del
300 OPERE FILOSOFICHE

modo in cui quei filosofi concepivano il divino, e non sol-


tanto ad avviso di Aristotele ma di fatto, giacché su questo
specifico aspetto la testimonianza di Aristotele appare
quanto mai attenta a cogliere il livello più profondo e l’es-
senza della credenza pitagorica. Almeno tre momenti
dell’indagine, se adeguatamente considerati, lo attestano.
Essi si dispongono come tre successivi segmenti di una me-
desima linea, ovvero come tre fasi di uno stesso itinerario
speculativo, colto in un progressivo crescendo.

3.1 Innanzitutto il momento seguente: è noto che per i Pita-


gorici nell’ordine del divino, ossia di ciò che, essendo altro
dalla materialità dei corpi, è caratterizzato dal perdurare
dopo il disfacimento di questi, se non eternamente, almeno
per un certo volgere del tempo e per un certo numero di
reincarnazioni – nell’ordine del divino così inteso si iscrivo-
no i demoni. Ossia: il demonico rappresenta per questi filo-
sofi un aspetto basilare e, probabilmente, l’aspetto eminen-
te del divino. Ma per altro verso i demoni, essendo di natu-
ra diversa dal somatico, sono per ciò stesso invisibili, ovve-
ro tali dovrebbero essere. Ebbene, due frammenti del no-
stro scritto attestano che in alcuni uomini di particolare
eccellenza il demone – il loro demone, ossia quello che in
essi è incarnato – si rende visibile, sì che, guardandoli, si
scorge «la forma del demone». Tale, per l’appunto, la loro
divinità. Pitagora si annovera tra questi uomini. Così nel fr.
3 Apuleio (De deo Socr., 20, 166-167), al fine di dar credito
alla possibilità che in Socrate si poteva scorgere un demo-
ne, porta la testimonianza di Aristotele secondo cui per i
Pitagorici la forma del demone è visibile in certi uomini di
particolare levatura. Il riferimento, ovviamente, è a Pitago-
ra, nel quale i suoi seguaci «erano soliti ammirarla piena-
mente». Da qui la sua divinità. Una divinità che, se nell’at-
testazione di Apuleio è comprovata dal fatto che quell’uo-
mo eccezionale rende manifesta la forma del demone che
SUI PITAGORICI 301

alberga in lui (giacché i demoni «accompagnano <gli uomi-


ni> per tutto il tempo dell’incarnazione»; Clem. Al., Strom.,
VI, 6, 53, 2-3 = fr. 3), Giambico, nel passo raccolto come fr.
2, fa addirittura coincidere con l’eccezionalità di quell’uo-
mo medesimo, divino perché esso stesso demone: «e assie-
me agli dèi – attesta per l’appunto Giambico – annoverano
poi Pitagora, convinti che si tratti di un demone buono e
filantropo».
Da entrambi i frammenti si ricava, dunque, che per i Pi-
tagorici (1) un aspetto eminente del divino è il demone
(«assieme agli dèi ... un demone buono»); (2) Pitagora ren-
de manifesta la forma del demone che è in lui e addirittura
è gli stesso un demone; (3) donde egli stesso è un dio («as-
sieme agli dèi annoverano poi Pitagora») o, comunque, è
un uomo divino. Dove è chiaro che in tanto egli è tale in
quanto il divino stesso è concepito da quei filosofi nella de-
terminazione della demonicità, che Pitagora con la sua
stessa persona rende visibile. Attribuendo dunque a Pita-
gora natura divina perché rivelatore del demone, i Pitago-
rici manifestano eo ipso la loro concezione del divino. Lo
scritto Sui Pitagorici lo mostra in modo eloquente.

3.2 Qui interviene, per così dire, un secondo livello della


testimonianza aristotelica del nostro scritto. Se Pitagora,
poiché manifesta il demone, è divino (sull’evidente presup-
posto che il demonico rappresenta una dimensione emi-
nente del divino), allora in Pitagora debbono riconoscersi i
segni e le fattezze di un dio. Ecco pertanto che egli non è
considerato soltanto un demone, o la manifestazione visibi-
le di un demone, quello presente in lui, ma coincide con lo
stesso dio Apollo, è cioè una sua epifania, in senso proprio:
Apollo prende forma in Pitagora, ovvero Pitagora è una
figurazione – o, meglio, una delle figurazioni – di Apollo.
Già nel passo di Giambico raccolto nel fr. 2 si dice che
«gli uni [consideravano Pitagora] come Apollo Pizio, altri
302 OPERE FILOSOFICHE

come Apollo Iperboreo, altri come Apollo Peana», aggiun-


gendo subito appresso – al fine di dare ulteriore rinforzo
all’equazione demone/divino – che «altri ancora [lo ritene-
vano] come uno dei demoni che abitano la luna». La mede-
sima individuazione in Pitagora di una figurazione di Apol-
lo risuona in una serie di altri passi raccolti come frammen-
ti del nostro scritto. Così in Aelian., V. H., II, 26 (= fr. 1):
«Aristotele afferma che Pitagora era chiamato dagli abi-
tanti di Crotone Apollo Iperboreo»; così in Diog. Laert.,
VIII, 1, 11 (9 = fr. 1): «e di lui gli allievi diffondevano la fa-
ma che era Apollo venuto dagli Iperborei»; così ancora in
Iambl., V. P., 28, 140-143 (= fr. 1): «dicono, infatti, che fosse
Apollo Iperboreo». Lo stesso Eliano (V. H., IV, 17 = fr. 1)
attesta che «Pitagora insegnò agli uomini d’essere stato ge-
nerato da semi migliori che secondo la natura mortale».
Detti «semi migliori» di quelli umani sono, per l’appunto,
quelli divini: Pitagora stesso avvalorava, dunque, la creden-
za d’essere un dio, perché generato da dèi.
Anche il racconto del suo rapporto con Abaris e della
donazione da parte di costui della freccia con la quale tro-
vava la direzione nel cammino non è che una variante della
divinità apollinea di Pitagora. Abaris era, infatti, un sacer-
dote di Apollo (cfr. la nota n. 20), possessore e gestore, per
così dire, della medesima potenza del dio (Iambl., V. P., 28,
140-143 = fr. 1: «Si dice che Abaris venisse dagli Iperborei
raccogliendo oro per il tempio e predicendo una pestilenza.
Albergava nei santuari e non fu mai visto né bere né man-
giare alcunché. Si dice che anche a Sparta celebrò le ceri-
monie impeditive3 e per questo a Sparta in seguito non si
verificò mai più una pestilenza»). Il rapportarsi a lui di Pi-
tagora è perciò un diverso modo per esprimere il suo con-
tatto con la potenza divina di Apollo.

3.3 Ma ciò che più conta è considerare la ragione per la


quale i Pitagorici vedevano nel maestro un dio, e innanzi-
SUI PITAGORICI 303

tutto, come s’è detto, una figurazione di Apollo. Il passo di


Eliano sopra ricordato (V. H., IV, 17 = fr. 1) è esemplare a
riguardo. Dopo aver richiamato il racconto di Aristotele
secondo cui Pitagora stesso dichiarava la sua divinità, di-
cendo di non essere nato da seme umano, ma divino, enun-
cia la prova che lo Stagirita ne indica, una prova che, con
ogni verosimiglianza, era addotta dagli adepti al pitagori-
smo e che il filosofo presenta. Essa è la seguente: «Infatti,
egli (scil. Aristotele) dice, nello stesso giorno e alla medesi-
ma ora fu visto a Metaponto e a Crotone. E a Olimpia mo-
strò che una delle sue due anche era d’oro. Rammentò an-
che al crotoniate Millia che egli era il Frigio Mida, figlio di
Gordia; e accarezzò l’aquila bianca, che rimaneva ferma.
Ma fu anche invocato dal fiume Kasa mentre lo attraversa-
va, dicendogli il fiume “salve, Pitagora”» (Ivi).
I medesimi episodi e altri dello stesso genere trovano
attestazione anche nelle narrazioni di altri autori, raccolte
nei frr. 1-2. Essi sono rivelatori di una potenza che eccede
le possibilità dell’umano, e come tale è divina, e al tempo
stesso ha natura magica. La divinità di Pitagora è affidata
alla «prova» di possedere una tale potenza, e la credenza
nella sua divinità è la credenza nel possesso di essa. E se
Pitagora è divino, anzi è una figurazione dello stesso dio
Apollo perché ne è portatore, allora è chiaro che la stessa
nozione del divino si attesta, nell’ottica di una tale creden-
za, sul piano di una coincidenza col magico.
Ecco il sostrato dottrinariamente più interessante che
emerge da siffatti racconti. Su di essi occorre fissare l’atten-
zione non soltanto perché attestano sul piano storico una
credenza dei Pitagorici, ma anche perché, attraverso essa,
manifestano il modo in cui i Pitagorici concepivano il divi-
no: un modo, per l’appunto, magico. Tale concezione costi-
tuisce, infatti, il presupposto dei racconti sulla divinità di
Pitagora e delinea lo sfondo sul quale essi si collocano, as-
sumono senso e prendono risalto.
304 OPERE FILOSOFICHE

3.4 Queste conclusioni e, in particolare, che questa sia la


concezione del divino che Aristotele attribuisce ai Pitagori-
ci richiamando i sopraddetti episodi, trovano una conferma
indiretta nel carattere iniziatico della scuola pitagorica. Nel
fr. 15 Ross del Sulla filosofia lo Stagirita attesta che per gli
iniziati l’esprienza del divino non è il risultato di un ap-
prendimento e non corrisponde affatto a una conoscenza
(maqei^n), sibbene è il risultato di un’emozione (paqei^n).4 Ed
esattamente per dare un’emozione erano, a ben vedere, co-
struiti quei racconti intorno alle straordinarie capacità di
Pitagora, addotte a prova della sua divinità. Si tratta, infat-
ti, di episodi mirabolanti, capaci di per sé di suscitare
un’ammirazione che in nient’altro consiste se non nel su-
scitare un’impressione (un pa@qov) in chi li ascolta. La no-
zione del divino che vi traspare quale loro sfondo e presup-
posto si radica, dunque, in un pa@qov, non in un ma@qhma, ri-
velando anche in questo modo il suo carattere magico.

4. Una considerazione a parte va riservata al modo in cui i


Pitagorici si rapportavano agli dèi tradizionali, quale tra-
spare dalla notizia che Aristotele dà nel nostro scritto. Essa
viene presentata da Diogene Laerzio (Diog. Laert., VIII, 1,
33 = fr. 5), il quale prima informa dei divieti e delle interdi-
zioni prescritte da Pitagora ai seguaci della sua dottrina,
indi riferisce l’interpretazione dello Stagirita. Tali divieti e
dette interdizioni permettono a chi le osserva di mantener-
si puro, e proprio in stato di purezza il precetto pitagorico
prescriveva di accostarsi agli dèi, come il dossografo richia-
ma nella parte iniziale del frammento, dove pure informa
della regola di non tributare agli dèi e agli eroi identici
onori, ma «agli dèi sempre, con parole benedicenti, coperti
di bianchi mantelli e», per l’appunto, «essendo puri; invece
agli eroi dalla metà del giorno».
Non vi è dubbio che gli dèi ai quali si fa riferimento sia-
no le divinità venerate dalla religione ufficiale. Quelle divi-
SUI PITAGORICI 305

nità alle quali i Greci erigevano templi, ove più direttamen-


te venire in contatto con esse, perché accostate in luoghi
loro consacrati, nei quali, dunque, più forte e più viva se ne
poteva avvertirsi la presenza. Qui, è logico credere che le
suppliche e le implorazioni fossero ritenute più intense e
qui, in particolare, dovevano essere eseguite le pratiche mi-
steriche, ove il culto della divinità ne prevedeva la celebra-
zione, come nel caso dei misteri delfici ed eleusini, dedicati
ad Apollo.
Ebbene, verso questi dèi della religione tradizionale il
precetto pitagorico prescrive rispetto, espresso nei termini
che si sono richiamati: vesti bianche, stato di purezza, onori
in misura pari alla loro dignità, ossia sempre, ma null’altro;
non, in particolare, devozione, non preghiere, in senso com-
plessivo, nessuna di quelle espressioni che caratterizzano
l’atteggiamento del devoto verso la divinità e ne specifica-
no la pietas. Segno evidente che le divinità alle quali i Pita-
gorici si sentivano effettivamente legati e che apparteneva-
no al loro patrimonio culturale e religioso erano quei de-
moni, di origine orfica, sopravviventi alla consunzione del
corpo e soggetti a metempsicosi, dei quali s’è detto, mentre
per le divinità ufficiali del culto greco, soltanto rispetto, ma
nessuna dedizione. È questo un primo dato emergente dal
frammento qui in oggetto.
Ma perché mai, ci si potrebbe allora chiedere, se le divi-
nità cui i Pitagorici attribuivano valore erano i demoni, non
quelle della religione tradizionale, per queste erano pre-
scritti rispetto e attenzione? Perché non indifferenza? La
spiegazione di un tale precetto si può scorgere nella notizia
di Porfirio (V. P., 41 = fr. 6) secondo cui Pitagora «diceva
anche in modo mistico, per simboli (sumbolikw^v), alcune
cose che Aristotele registrò per la maggior parte: per esem-
pio, chiamava il mare lacrima di Crono, le orse [scil., l’orsa
maggiore e l’orsa minore] mani di Rea, la costellazione del-
le Pleiadi lira delle Muse, i pianeti cani di Persefone».
306 OPERE FILOSOFICHE

Qui l’accento cade su «per simboli (sumbolikw^v)». Gli


dèi della tradizione religiosa greca diventano nel pensiero
di Pitagora simboli di fenomeni fisici, sia astronomici che
geografici. Un rimando simbolico che consiste altresì in
un’allegoria e, assieme, in una metafora. È arduo credere
che un uomo provvisto di una mentalità razionale e mate-
matica quale era Pitagora potesse credere che realmente il
mare fosse costituito dalle lacrime di Crono (il mitologico
dio primigenio, figlio di Urano e di Gea, che evirò il padre
e ne prese il posto nella guida del mondo, ma fu a sua volta
spodestato dal figlio Zeus, salvato dalla madre Rea, sorella
e al tempo stesso sposa di Crono, dalla furia con la quale
questi divorava i suoi figli non appena partoriti); più sem-
plice intendere che la vastità delle acque marine rinvia –
ecco il simbolo (qualcosa sta per qualcos’altro) e assieme
l’allegoria (il dire una cosa per significarne un’altra)5 – alla
grandezza del dolore di Crono per essere stato spodestato;
un dolore che, come ogni sofferenza, è espressa dal pianto.
Il mare, nella vastità delle acque che raccoglie, è simbolica-
mente e assieme metaforicamente significato dalla quanti-
tà delle lacrime di Crono per la sorte subita. E Crono, il dio
della religione tradizionale, non interessante per sé, ma per
il fatto di poter fungere, con il suo dolore e le sue lacrime,
vasto il primo e abbondanti le seconde tanto quanto im-
menso era il suo dominio sul mondo, da simbolo e metafo-
ra per significare l’ampiezza delle acque marine. Dunque, è
il fenomeno naturale nella sua caratteristica di quantità
sterminata di acque ciò che interessa esprimere, e il dio del-
la tradizione è funzionale a esprimerla.
Parimenti, le due costellazioni dell’orsa maggiore e
dell’orsa minore, nel loro dare l’orientamento, rinviano al-
legoricamente alle mani di Rea, che, strappando il neonato
Zeus alla voracità di Crono, orientarono la vita del mondo
a un nuovo corso.
Le Pleiadi disegnano nel cielo una lira, uno strumento
SUI PITAGORICI 307

musicale con cui si accompagnavano anche le melodie poe-


tiche, e ben sette delle nove Muse (così almeno nella Teo-
gonia di Esiodo) hanno direttamente a che fare con la mu-
sica, o perché con Tersicore ispiravano la danza, o perché
erano le dee di sei generi di poesia (Calliope di quella epi-
ca, Erato di quella amorosa, Euterpe di quella flautistica,
Polimnia di quella mimica, Talia di quella comica, Melpo-
mene di quella tragica).
Ancora: nella narrazione mitologica, Persefone, la figlia
di Demetra, fu rapita da Ade, che la portò nell’oltretomba
per farla sua sposa, ma per intercessione di Zeus, che così
venne incontro al dolore della madre, ritornava periodica-
mente, per sei mesi, sulla terra, dalla madre Demetra, per
poi rimanere, altrettanto periodicamente, per sei mesi, nel
buio dell’Averno. Donde il regolare alternarsi di primavera
ed estate all’autunno e all’inverno. Così, il suo periodico e
regolare trascorrere l’esistenza ora sulla terra, ora nell’ol-
tretomba è figurazione simbolica e assieme allegorica che
richiama i pianeti i quali, con il loro «andare errando» nel
cielo (donde la loro denominazione), disegnano periodici e
regolari movimenti.
Ora, di fronte a «divinità» che sono tali perché, nel loro
essere allegorie di fenomeni che costantemente ritornano
nella vita dell’universo, si rivestono esse medesime di
quell’attributo dell’eternità che caratterizza il divino, nes-
suna devozione, nessuna supplica, nessuna preghiera è am-
missibile. Verso di esse si addicono, invece, rispetto e ammi-
razione.

5. Eppure, nel medesimo passo in cui dà notizia del modo


simbolico in cui Pitagora esprimeva «alcune cose» (tina),
ampiamente registrate poi da Aristotele nello scritto Sui
Pitagorici, Porfirio parla anche di «un modo misterico»
(misterikw^j tro@pwj) con il quale Pitagora asseriva «alcune
cose» identicamente registrate dallo Stagirita. Benché Por-
308 OPERE FILOSOFICHE

firio non distingua le une cose dalle altre, tuttavia dal pro-
sieguo della sua testimonianza è chiaro che le prime, come
abbiamo visto, sono gli dèi tradizionali; quanto alle secon-
de, così dice: «l’eco che si origina dal bronzo battuto è la
voce di uno dei demoni (tinov tw^n daimo@nwn) rinchiuso nel
bronzo» (fr. 6).
Qui il riferimento non è più agli dèi tradizionali, bensì ai
demoni, ossia alle divinità che trasmigrano in altri corpi do-
po la morte di quello attuale; divinità che, come abbiamo
letto, i Pitagorici ritenevano di poter effettivamente vedere
(fr. 3) e alle quali credevano appartenesse Pitagora, identi-
ficato con Apollo (fr. 2), nel quadro e sullo sfondo di un
modo magico di concepire il divino demonico. Esattamen-
te quel modo che – anche questo si è accertato – si lega al
carattere iniziatico delle credenze professate dai Pitagorici.
Tale carattere, a sua volta, porta all’osservazione di Aristo-
tele secondo cui la nozione del dio attinta dagli iniziati è il
risultato dello sconvolgimento emotivo provato da costoro
nella celebrazione dei misteri: una nozione, dunque, anco-
rata a una dimensione essenzialmente irrazionale, e ai mi-
steri erano iniziati i Pitagorici, e di «modo misterico» parla
Porfirio riferendosi alla credenza pitagorica del demone
che, racchiuso nel bronzo, emette voce quando il bronzo
viene percosso.
A questo punto il cerchio si chiude e dall’insieme di
questi riferimenti è possibile fare luce sull’ultima parte del-
la testimonianza di Porfirio e sulla sua connessione con la
prima. Nei termini seguenti: non v’è dubbio che la creden-
za secondo cui il risuonare del bronzo percosso rappresen-
ta l’emissione della voce da parte di un demone in esso pre-
sente sia l’interpretazione magica di un fenomeno natura-
le.6 Risulta pertanto che, (1) nel riferire «alcune cose» so-
stenute dai Pitagorici e registrate da Aristotele nel nostro
scritto, Porfirio assimila nella forma espositiva, ma distin-
gue nella sostanza dottrinale (a) le «cose» che quei filosofi
SUI PITAGORICI 309

ritenevano in merito agli dèi tradizionali e (b) quelle che


ritenevano in merito ai demoni e alla lettura demonica che
essi davano dei fenomeni fisici. (2) Il carattere magico di
questa lettura è connesso al carattere misterico e dunque
iniziatico col quale i Pitagorici si accostavano al divino de-
moniaco, (3) cosicché questa dimensione stessa del divino
era da loro concepita nella modalità or ora indicata. (4) In
funzione demonica potevano essere interpretate, anzi, di
fatto erano interpretate dagli adepti al pitagorismo anche
talune delle divinità della religione tradizionale, e innanzi-
tutto Apollo, ma in una chiave assolutamente diversa da
quella secondo cui le si leggeva come divinità della religio-
ne ufficiale. Lette in questa seconda chiave, esse erano sim-
boli e assieme allegorie di fenomeni naturali, ma intese co-
me demoni e, in particolare, identificato Apollo con un de-
mone, questo dio manteneva pur sempre le fattezze essen-
ziali attribuitegli dalla tradizione, a partire dalla conoscen-
za profetica e dalla profondità del conoscere che caratte-
rizzava la sua figura di inventore delle arti, ma trasfigurate
in modalità, per l’appunto, demoniache, ossia cariche di
una potenza e di un’eccezionalità che sopravanzano il ra-
zionale. Una tale potenza e una tale eccezionalità del dio
della tradizione greca trasformato in demone potevano co-
gliersi soltanto nella nozione che ne aveva l’iniziato ai mi-
steri, in virtù di un intenso pathos.
Pitagora, a motivo delle sue doti eccezionali, che gli ve-
nivano dall’identificazione con Apollo, appariva agli adepti
in queste fattezze. In lui, infatti, erano ritenute presenti sia
le doti cognitive dell’Apollo della religione tradizionale, sia
quelle dell’Apollo demoniaco. In tal modo, egli era visto –
e a buona ragione – come uomo capace di indagare l’uni-
verso e di fondare una dottrina della sua origine basata
sulla razionalità del numero e sulla matematica e, al tempo
stesso, come soggetto provvisto di prerogative magiche.
L’eccezionalità singolare e portentosa con cui si riteneva
310 OPERE FILOSOFICHE

ammantata la sua figura si connotava di entrambe le di-


mensioni.
E così, proprio in Pitagora si compendiano paradigmati-
camente i due basilari aspetti secondo cui i Pitagorici si ac-
costavano al divino, a quello demoniaco e a quello colto
negli dèi tradizionali. Essi risuonano nella notizia di Porfi-
rio, che risulta assai interessante anche per la testimonian-
za che offre in ordine all’ampiezza con cui Aristotele nello
scritto Sui Pitagorici registrava le loro credenze in proposi-
to. Ed è ragionevole supporre che proprio nel mettere in
luce questa duplicità del loro modo di pensare il divino ri-
siedeva l’aspetto eminente della trattazione aristotelica.

6. A ben vedere, il doppio registro, cognitivo (dunque, in


ultima istanza, razionale) e magico, che si riscontra nella
testimonianza aristotelica sul modo dei Pitagorici di pensa-
re le divinità, Apollo e Pitagora in primis, ricompare identi-
camente nella notizia dello Stagirita sui divieti loro pre-
scritti, quali si leggono nei frr. 4 e 5.
Come si riscontra nella testimonianza di Diogene Laer-
zio (fr. 5), in essa è dominante il momento giustificativo del
precetto, il quale, per altro verso, considerato in sé e per se
stesso, appare ispirato a una concezione magica dell’esi-
stenza e, in specie, del divino. Anzi, la giustificazione, ossia
l’aspetto propriamente razionale della norma, così come
Aristotele la presenta, è, per così dire, interna a questa con-
cezione, giacché consiste nell’istituzione di rapporti e nella
definizione di collegamenti in virtù dei quali la caratteristi-
ca di un fenomeno fisico o la proprietà di una cosa naturale
sono trasferite a entità demoniache e occulte. Donde il ver-
so magico e tabuico della norma, il cui altro verso è, invece,
la motivazione razionale.

6.1 Alcune di tali motivazioni sono fornite con l’esibizione


di una metafora, la quale, come precisa lo Stagirita, consiste
SUI PITAGORICI 311

nel trasferimento del nome da una cosa a un’altra7 operato


sulla base di una somiglianza tra le due. Tanto che, afferma
ancora lo Stagirita, l’essere capaci di scorgere le somiglianze
è condizione essenziale per effettuare metafore,8 e il saper
cogliere somiglianze è un’abilità di natura intellettiva e co-
noscitiva, giacché la somiglianza stessa è di per sé e in quan-
to tale una conoscenza. Ond’è che l’usare metafore a titolo
di giustificazione è fornire una motivazione che, per essere
basata su una conoscenza, è eo ipso di natura razionale.
Ora, proprio una somiglianza tra la cosa naturale e l’en-
tità occulta e magica risalta nella spiegazione dei precetti
pitagorici attestata dallo Stagirita. Pochi casi sono suffi-
cienti a suffragarlo. Pitagora prescriveva di astenersi dal
mangiare le fave «o perché sono simili (oçmoioi) ai sessi, [...]
o perché sono cosa simile (oçmoion) alla natura del tutto». In
queste due spiegazioni la somiglianza è addirittura temati-
ca e salta immediatamente agli occhi, sia quella tra le fave e
gli organi sessuali maschili, sia quella tra questi legumi e
«la natura del tutto», giacché, come illustra Timpanaro Car-
dini (Pitagorici, III, p. 247), riferendo la spiegazione di Dio-
gene Laerzio, 24, «le fave, essendo piene di vento, parteci-
pano maggiormente dell’anima universale»: dov’è chiara la
somiglianza, nell’abbondanza di vento, tra le fave e la natu-
ra universale.9 Insomma, le fave sono una metafora del ses-
so maschile e della natura del tutto, e per questo non biso-
gna cibarsene: il farlo corrisponderebbe infatti a divorare
l’organo sessuale e a distruggere la natura del tutto.
La razionalità del precetto è evidente: esso ha una giu-
stificazione, di esso si porta una ragione, ed è una ragione
che consiste nell’individuazione di una somiglianza, dun-
que in un atto conoscitivo. Ma al tempo stesso questa giu-
stificazione razionale si tinge altresì di un carattere tabuico
e magico, in quanto trasferisce l’effetto che si determine-
rebbe sulla cosa – le fave – alla cosa cui le fave metaforica-
mente alludono – il sesso maschile, la natura del tutto, e
312 OPERE FILOSOFICHE

rovinare la prima equivale a rovinare le seconde. La razio-


nalità del precetto si attesta specificamente nell’accerta-
mento di somiglianze: in dettaglio, nella somiglianza tra la
forma della fava e la forma dell’organo maschile, tra la ca-
pacità delle fave di produrre vento e la prerogativa dell’uni-
verso di animarsi di vento; il suo carattere tabuico e magico
si manifesta nell’intendere la somiglianza come trasferi-
mento della natura di una delle due cose simili all’altra co-
sa, e precisamente, nel credere che la fava, poiché ha forma
simile a quella del sesso maschile, ha per ciò stesso la natu-
ra di quest’ultimo, investendo così la somiglianza della for-
ma di una dimensione che attiene, invece, alla natura della
cosa, cosicché mangiare le fave equivale eo ipso a mangiare
l’organo genitale dell’uomo, o che l’animazione prodotta
dal vento nell’universo è prodotta altresì dal vento delle
fave, di modo che, ancora una volta, mangiare le fave equi-
vale a distruggere l’animazione universale. In entrambi i
casi, il divieto carica la somiglianza, cognitivamente e dun-
que razionalmente accertata, di una dimensione che ecce-
de il dato accertato, attribuendogli una facoltà il cui posses-
so non corrisponde più a un accertamento, ma a un fanta-
sioso trasferimento, ritenuto «vero» e «indubitabile» in
virtù di una credenza di carattere irrazionale. La coinci-
denza di razionalità e magia risiede espressamente in un
tale rapporto.

6.2 Altre motivazioni sono fondate sul carattere simbolico


della cosa proibita, e anche in questo caso la razionalità
della norma è chiaramente attestata, giacché il simbolo in-
dica, nella sua stessa etimologia (sun-ba@llein: gettare as-
sieme), un’unità originaria – quell’unità primigeniamente
espressa dal combaciare delle due metà della tavoletta
spezzata che sta all’origine del simbolo stesso –, e l’unità è
di per se stessa motivo di razionalità, comportando la capa-
cità di scorgere il momento comune, in misura ancor mag-
SUI PITAGORICI 313

giore della metafora. Ché, se nella metafora questo è dato


da una somiglianza, nel simbolo è dato da un’identità. Ma
al contempo, anche in questa fattispecie la razionalità
dell’accertamento è investita di una carica tabuica, nella
misura in cui all’identità, razionalmente accertata, viene at-
tribuita una potenza che eccede l’accertamento dell’aspet-
to comune, di modo che una cosa, per il fatto di essere iden-
tica a un’altra per un aspetto, è ritenuta identica all’altra
anche per altri aspetti, se non addirittura nella sua stessa
natura. Ancora la proibizione di cibarsi delle fave è para-
digmatica. Una delle sue motivazioni, oltre quelle che ab-
biamo letto, è che esse «sono cosa tendente all’oligarchia
(in effetti con esse si operano i sorteggi)» (fr. 5). Il riferi-
mento è alla pratica di sorteggiare i magistrati con una fava
bianca,10 in vigore nei governi democratici; ond’è che la fa-
va diviene il simbolo di questa forma di governo, con la
conseguenza che l’astenersene è, per converso, espressione
di sentimenti oligarchici (cfr. Giambico, V. P., III, 620).11
Ancora il carattere simbolico del gallo bianco in rappor-
to al Mese sta alla base della proibizione di cibarsene.12 Un
carattere simbolico espresso sia dal fatto che il gallo, se-
gnando le ore con il suo chicchirichì, rimanda alla scansio-
ne delle ore di cui il mese è costituito, sia dall’essere esso
«supplice» del Mese in quanto – come ha sottolineato De-
latte, Études, p. 290 – la sua immagine, rappresentata sulle
urne mortuarie di Locri, è simbolo funerario del tempo vis-
suto; e ancora, perché la bianchezza è simbolo del bene,
mentre il nero lo è del male.
Anche due delle motivazioni addotte a giustificazione
del divieto di disperdere il pane hanno chiaramente carat-
tere simbolico: «su un solo (eçna) pane si riunivano gli amici
dei tempi antichi» (fr. 5), ossia il pane è simbolo dell’«uni-
tà» degli adepti al credo pitagorico. Qui l’unità del pane è
chiaramente simbolo di quella della comunità. E ancora:
«perché dal pane ha origine l’intero» (fr. 5), dove «l’intero»
314 OPERE FILOSOFICHE

(tÏ Óélon) è l’universo nell’unità organizzata delle sue parti13


e dellecose che vi sono raccolte. Ancora una volta, dunque,
l’unità del pane simboleggia una tale unità raccogliente.

7. Ma l’uso della metafora non è soltanto una strategia che


permette di giustificare, sul duplice registro del razionale e
del magico, l’imposizione di divieti; essa costituisce altresì il
criterio che sottostà alla formulazione di molti precetti pre-
scritti da Pitagora ai suoi seguaci.
Certo, qui non si assiste più al raccordarsi, nella metafo-
ra, del duplice registro, razionale e tabuico, che stava inve-
ce alla base della giustificazione dei divieti. Ond’è che – si
potrebbe a tutta prima credere – la metafora, liberata dalla
carica di veicolare assieme al momento razionale momenti
di natura magica, si attesta in quella valenza di forma
espressiva elegante e raffinata che Aristotele le attribuisce
nella Poetica, particolarmente adatta in virtù di questa ca-
ratteristica a conferire forza suadente all’enunciato del
precetto. Ma a ben vedere non è così. Nella formulazione
del precetto essa perde, sì, la funzione di raccordare al mo-
mento razionale un momento magico, che nella fattispecie
non si dà, ma assume la funzione di caricare il precetto di
un pathos che esso altrimenti non avrebbe e che lo rende
maggiormente passibile di essere osservato. Un pathos – si
badi – che eccede la raffinatezza della forma espressiva po-
sta in essere dalla metafora, che non dipende, cioè, da que-
sta, ma che vi si aggiunge come elemento ulteriore. Ond’è
che attraverso la metafora si veicola pur sempre una di-
mensione che sopravanza il mero accertamento razionale e
tocca invece una dimensione emotiva, che grazie alla meta-
fora si aggiunge alla prima e rende così l’enunciato più ri-
marchevole ed efficace. In una modalità ancor più forte e
decisa che nelle motivazioni dei divieti. In effetti, nel caso
dei precetti la metafora è presente in quella specie dell’ana-
logia, illustrata in Poet., 21, che senza alcun dubbio è la spe-
SUI PITAGORICI 315

cie principale e più incisiva di tale figura e, in particolare,


quella nella quale la capacità della metafora di far conosce-
re, e dunque la sua capacità razionale, si attesta con mag-
gior decisione. Ché nell’analogia, intesa nel significato pro-
priamente aristotelico di uguaglianza di rapporti (A : B = C
: D), la nozione di ciascuno dei quattro termini del rappor-
to prende risalto dagli altri tre, e da essi è altresì ricavabile.
Eppure, proprio questa specie di metafora nella quale – co-
me stiamo rimarcando – il momento cognitivo e razionale è
massimamente visibile, funge da strategia per un trasferi-
mento del nome di una cosa a un’altra che, se non può cer-
to dirsi carico di una valenza tabuica e magica, lo è però di
una valenza emotiva; più propriamente, la metafora è lo
strumento razionale con cui emotivamente si carica qual-
cosa del nome di qualcos’altro.
In Poet., 21 (1457 b 17 ss.) Aristotele, dopo aver precisa-
to che il trasferimento del nome di una cosa a un’altra cosa,
che caratterizza in senso proprio la metafora, può avvenire
o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o da una
specie a una specie, ciascuno di questi tre processi definen-
do una specie di metafora, fissa l’attenzione su una quarta
specie di questa figura, chiarendo che essa si attua median-
te un’analogia, e precisamente, se i termini sono tali che il
secondo sta al primo come il quarto sta al terzo, (a) quando
si dice il quarto termine in luogo del secondo o il secondo
in luogo del quarto, (b) o quando si aggiunge a un termine
quello al quale esso si rapporta (per esempio, stante che la
coppa sta a Dioniso come lo scudo sta ad Ares, ossia che la
coppa si rapporta allo scudo come Dioniso ad Ares, chia-
mando la coppa «scudo di Dioniso» o lo scudo «coppa di
Ares»).14
Ebbene, l’esame di molti precetti di cui dà notizia Porfi-
rio (V. P., 42) nel fr. 7 attesta che essi si giustificano sulla
base della quarta specie di metafora or ora illustrata. E al
tempo stesso mette in chiaro come con l’uso di questa for-
316 OPERE FILOSOFICHE

ma di metafora l’accertamento di una somiglianza sia cari-


cato di una valenza rivelatrice di una maniera emotivamen-
te forte di concepire la cosa. Anche qui, pochi casi baste-
ranno a documentare la circostanza.
Uno dei precetti suona: «Non strappare la corona»; il
che, aggiunge Porfirio, significa: «non corrompere le leggi:
queste, infatti, sono corone delle città». La metafora nella
seconda delle due forme di analogia sopra illustrate balza
agli occhi: posto, infatti, che il soggetto umano sta alla coro-
na (ne è infatti l’abbellimento) come la città sta alle leggi
(anch’esse ne sono l’abbellimento. Ecco la somiglianza), a
un termine del rapporto (le leggi) è aggiunto quello al qua-
le esso si rapporta (la corona), sì da poter chiamare le leggi
«corone della città». E al tempo stesso è chiaro che, così
chiamate le leggi, l’invito a non trasgredirle espresso nei
termini di «non strappare la corona» assume una portata
emotiva che ne rafforza l’efficacia. Essa non sarebbe possi-
bile se le leggi non fossero metaforicamente rappresentate
come una corona.
Rispondono al medesimo criterio anche i seguenti pre-
cetti:
«“Non mangiare il cuore”, ossia non addolorare se stessi
con afflizioni» (fr. 7). Posto che l’addolorare se stessi sta
all’afflizione come il mangiare sta al cuore, in luogo del pri-
mo rapporto (addolorare se stessi con un’afflizione) si
enuncia il secondo (mangiare il cuore), dicendo il terzo ter-
mine (mangiare) in luogo del primo (addolorare se stessi)
e il quarto (il cuore) in luogo del secondo (afflizione). Il
divieto di addolorare se stessi con un’afflizione diviene al-
lora il divieto di mangiare il cuore (s’intende, il proprio
cuore), con l’esito di rafforzarne l’incisività grazie al pathos
che la metafora produce.
«“Non stare seduto sul chenice”, ossia non vivere inope-
roso» (fr. 7). Posto che il vivere sta all’inoperosità come lo
stare seduti sta al chenice (un misurino di alimenti solidi
SUI PITAGORICI 317

come l’orzo e il grano), anche qui in luogo del primo rap-


porto (vivere nell’inoperosità) si enuncia il secondo (stare
sul chinice), dicendo il terzo termine (stare) in luogo del
primo (vivere) e il quarto (il chinice) in luogo del secondo
(inoperosità). Il divieto di vivere nell’inoperosità diviene
allora il divieto di stare sul chinice, divieto di cui il pathos
prodotto dalla metafora accresce l’incisività.
«“Non volgersi indietro quando si parte”, vale a dire
non stare, morenti, attaccati alla vita» (fr. 7). Posto che lo
stare attaccati alla vita sta al morire come il volgersi indie-
tro sta al partire, in luogo del primo rapporto (stare attac-
cati alla vita quando si muore) si enuncia il secondo (vol-
gersi indietro quando si parte), dicendo il terzo termine
(volgersi indietro) in luogo del primo (stare attaccati alla
vita) e il quarto (partire) in luogo del secondo (morire). Il
divieto di stare attaccati alla vita quando si muore diviene
allora il divieto di volgersi indietro quando si parte. La me-
tafora del partire e del voltarsi a guardare il luogo che si
lascia, conferisce un pathos al precetto, il quale ne accresce
l’incisività.
Anche i precetti riferiti da Geronimo (Adv. Libros Rufi-
ni, III, 39 = fr. 7) e mancanti nel resoconto di Porfirio sono
costruiti secondo la medesima logica. L’analisi di uno solo
basta a provarlo. Il secondo suona: «“Non ferire il fuoco
con la spada”, ossia non provocare un animo gonfio d’ira
con parole piene di malevolenza». L’analogia in questo ca-
so è la seguente: il provocare un animo gonfio d’ira sta alle
parole maledicenti come il ferire il fuoco sta alla spada. Eb-
bene, in luogo del primo rapporto (provocare un animo
gonfio d’ira), nel precetto si enuncia il secondo (ferire il
fuoco con la spada), dicendo il terzo termine (ferire il fuo-
co) in luogo del primo (provocare un animo gonfio d’ira) e
il quarto (spada) in luogo del secondo (parole maledicen-
ti). Il divieto di non provocare chi ha l’animo gonfio d’ira
diviene allora il divieto di non ferire il fuoco con la spada.
318 OPERE FILOSOFICHE

Quest’ultima espressione, dovuta alla metafora, è carica di


un pathos superiore alla prima, cosicché il precetto risulta
rafforzato nella sua incisività.

8. L’uso della metafora in funzione di strategia intesa a far


convivere il momento propriamente razionale, che caratte-
rizza la metafora stessa in modo basilare e primario, col
momento tabuico e magico, non sta alla base, nel comples-
sivo orizzonte del pitagorismo presentato da Aristotele,
della sola prescrizione dei divieti, ma investe anche la lettu-
ra di proprietà matematiche. In effetti, proprio sul criterio
della metafora, intesa nel senso stretto della trasposizione
del nome di una cosa a un’altra di natura del tutto diversa,
in virtù di una somiglianza, si regge la denominazione di
«desiderio» (cupido) data all’unità, secondo la testimo-
nianza di Aristotele presentata da Marziano Capella nel fr.
8. L’unità, infatti, definisce in se stessa una situazione di pa-
radigmatica identità a se medesima che, espressa in termini
metaforici, corrisponde al non desiderare altro che sé (quod
se cupiat) e al non rivolgere che a sé i propri ardori (in se
proprios detorquet ardores). Per questo è nominata «desi-
derio» (cupido).
La situazione qui rappresentata è interessante per due
ordini di motivi: innanzitutto perché mette in chiaro l’inter-
pretazione di una proprietà aritmetica – quella per l’ap-
punto dell’assoluta identità a se stessa dell’unità – in termi-
ni animistici. Ond’è che – e tocchiamo così il secondo moti-
vo –, così interpretata ed espressa, tale proprietà permette
il trasferimento del nome «desiderio» alla stessa unità, os-
sia a un’entità matematica.
Come si vede, il duplice registro tabuico e razionale che
abbiamo constatato presiedere allo scandirsi della nozione
del divino e poi, identicamente, alla definizione dei divieti,
presiede altrettanto identicamente alla stessa interpreta-
zione di una proprietà matematica. In essa, infatti, il mo-
SUI PITAGORICI 319

mento tabuico è evidente dal fatto di pensare l’unità come


cosa desiderante, sì da potervi attribuire il nome di «desi-
derio»; ma al contempo in quest’atto, vale a dire in questa
medesima attribuzione, si attesta altresì, in uno con mo-
mento magico, il momento razionale, espresso sia dall’uso
della metafora (che – abbiamo visto – rappresenta in se
stessa un momento cognitivo e dunque razionale), sia dalla
riflessione di natura squisitamente matematica che l’unità
è uguale a se stessa. Questa proprietà – in altri termini – la
cui razionalità non viene minimamente meno, ma resta in-
tatta, è caricata di un’interpretazione tabuica e magica, sic-
ché la metafora che presiede al chiamare l’unità «deside-
rio» lascia trasparire l’uno e l’altro momento.

9. In generale, la convivenza di questi due momenti è visibi-


le nell’intera gamma delle interpretazioni pitagoriche del
mondo naturale e morale in chiave numerica. È questo il
dato emergente del resoconto aristotelico, in tutte le testi-
monianze che ne sono state date.
È subito da mettere in luce che le notizie in merito alla
dottrina del numero raccolte da Ross come riferibili al no-
stro scritto sono assai scarse. Esse si riducono, di fatto, al fr.
9, dove lo studioso riporta un resoconto di Teodoro di Smir-
ne (Math., p. 21, 20; 22, 5-9, Hiler) nel quale si attesta che
nello scritto Sui Pitagorici Aristotele riferisce della divisio-
ne dei numeri in pari e dispari e della particolare natura
dell’unità, considerata da quei filosofi «parimpari», vale a
dire sia pari che dispari, perché, aggiunta a un numero pari
se ne ottiene uno dispari e, aggiunta a un numero dispari,
se ne ottiene uno pari, nonché alle notizie riferite da Dio-
gene Laerzio (In Arist. Metaph., p. 38, 8) nel fr. 13 intorno a
queste stesse dottrine e su quella concernente il carattere
determinato del dispari e il carattere indeterminato del pa-
ri. Le altre notizie sul numero pitagoricamente inteso non
concernono più le sue proprietà strettamente matematiche,
320 OPERE FILOSOFICHE

ma i rapporti tra i numeri e le cose; dottrine, dunque, di


spessore eccedente il livello matematico in quanto tale e
attinenti in senso proprio all’ontologia, come attesta elo-
quentemente il fatto che Aristotele stesso in Metaph., I, 5 le
presenta al fine di mostrare che anche i Pitagorici nel fare
filosofia indagarono le cause e i principi e che tipi di cause
presero in considerazione, e sotto questo stesso profilo le
critica in Metaph., I, 8. Ora, l’indagine eziologia appartiene
di diritto alla ricerca ontologica, non a quella matematica
strettamente intesa, e alla prima occorre dunque riportare,
in essenza, le dottrine pitagoriche sul rapporto tra numeri e
cose nonché sulla prerogativa del numero di essere princi-
pio di tutte le cose.
Con ogni probabilità Ross ha raccolto come frammenti
dello scritto qui a tema soltanto i luoghi in cui, nell’esposi-
zione delle dottrine pitagoriche sul numero, esso viene di-
rettamente citato. Da qui l’esiguità del materiale stretta-
mente matematico. Ma è logico ritenere che nello scritto
Sui Pitagorici lo Stagirita abbia esposto la dottrina pro-
priamente matematica del numero elaborata da questi fi-
losofi per un’ampiezza tale da ripercorrerla interamente, sì
da poter ascrivere con ampio margine di probabilità
all’opera in esame un’informazione su di essa nella sua so-
stanziale completezza, quale cioè ci è nota per via di altre
fonti. Ebbene, sia dai momenti di questa dottrina richiama-
ti nei frr. 9 e 13 che dall’esame di essa ricavabile da altre
fonti, chiaramente appare il suo carattere interamente ra-
zionale. Intendo dire che nessun elemento se non la pura
riflessione matematica interviene nella dottrina pitagorica
del numero.
Non così, invece, per ciò che attiene all’interpretazione
che, sulla base della loro teoria del numero, i Pitagorici da-
vano dell’universo, fisico e morale. In quest’ambito, infatti,
alla dottrina prettamente matematica del numero, che è
sempre riscontrabile nella sua purezza razionale, si con-
SUI PITAGORICI 321

giunge una dimensione magica di esso, la quale costituisce,


al pari della prima, elemento essenziale per il delinearsi
della concezione pitagorica del mondo, tanto nella sua sfe-
ra fisica quanto in quella etica. E, ancora una volta, è l’uso
della metafora a raccordare le due dimensioni. Essa assu-
me perciò presso i Pitagorici il ruolo di strategia basilare
anche nella costruzione della fisica e dell’etica.

9.1 In un passo del suo commento a Metaph., I, 5 Alessan-


dro di Afrodisia (In Arist. Metaph., p. 38, 8 = fr. 13) così
specifica il modo in cui i Pitagorici concepivano il rapporto
tra i numeri e le cose e, in particolare, la logica che si sot-
tende alla loro dottrina che i numeri costituiscono la natu-
ra delle cose. «<i Pitagorici> – scrive il commentatore – so-
stenevano che alcune somiglianze tra i numeri sono in rela-
zione con le cose che sono e divengono». E subito dopo,
richiamando espressamente il fatto che «<Aristotele> lo
fece vedere», illustra l’istanza con un primo, significativo
caso. Esso ripropone una dottrina pitagorica della quale lo
Stagirita stesso dava conto, indicando, in particolare, la
struttura del pensiero che portava i suoi assertori a formu-
larla:

supponendo, infatti, che il proprio della giustizia fossero il con-


traccambio e l’uguale, avendo trovato che ciò si verifica nei nu-
meri, per questo sostenevano anche che il primo numero al
quadrato fosse la giustizia. Infatti, per ciascuna cosa, ciò che si
indica quando viene nominata è fondamentalmente la prima
delle <determinazioni> che hanno il medesimo logos (fr. 9).

Nel caso in oggetto, la «somiglianza del numero con la co-


sa» risiede nel fatto che tanto la giustizia quanto il numero
al quadrato esprimono il rapporto della determinazione
con se stessa. Si ha allora che il numero al quadrato defini-
sce la natura della giustizia (anzi – più precisamente – il
322 OPERE FILOSOFICHE

primo numero al quadrato, giacché in esso si affaccia deter-


minatamente e si specifica la proprietà, che poi i successivi
numeri al quadrato ripropongono) in quanto presenta la
medesima proprietà della giustizia.
Passando da questo specifico caso a un’interpretazione
generale, vige che il numero definisce la natura della cosa
perché possiede la medesima caratteristica o proprietà di
questa. In ciò risiede l’«avere il medesimo logos». Ora, tale
somiglianza, vale a dire siffatta identità del logos si manife-
sta in un’analogia, e precisamente: la proprietà della cosa
sta alla cosa come una proprietà del numero sta al primo
numero che verifica detta proprietà. Nel caso di specie: il
contraccambiare in modo uguale sta alla giustizia come il
moltiplicarsi per se stesso sta al primo numero al quadrato
(si tratti del quattro o del nove).15 Sulla base di quest’analo-
gia i Pitagorici affermano che la giustizia «è» il primo nu-
mero al quadrato. Si tratta in tutta chiarezza della prima
forma della quarta specie di metafora sopra indicata, attri-
buendosi al secondo termine (la giustizia) il nome del quar-
to (il quatto o il nove).
Sennonché nell’affermare che la giustizia «è» il quattro
o il nove quei filosofi non le attribuivano soltanto il nome
di quel numero, ma definivano la sua reale determinazione,
vale a dire la sua natura e la sua «realtà». Per loro, infatti, il
quattro o il nove rappresentano la giustizia nella sua con-
creta e reale consistenza. Ossia: assumono il quattro o il
nove non semplicemente come determinazioni numeriche
con cui chiamare la giustizia, ma come determinazioni nel-
le quali la realtà della giustizia consiste. In generale, assu-
mono la determinazione nella quale si esprime la proprietà
della cosa non come nome con cui chiamarla, ma come ciò
in cui consiste la realtà stessa di quella cosa. Con questo,
essi sostantificano la proprietà; nel caso in oggetto, sostan-
tificano il quattro o il nove, assumendo il loro essere rap-
presentazione numerica, in quanto quadrati (ossia in quan-
SUI PITAGORICI 323

to numeri che primariamente verificano la proprietà di es-


sere il prodotto di se stessi), della proprietà della giustizia
di realizzare il contraccambio, come realtà della giustizia
medesima. In ciò consiste l’aspetto magico e tabuico del lo-
ro modo di concepire il rapporto tra il numero e la cosa.
Un aspetto che, anche in questo caso, trova effettiva possi-
bilità di attuarsi nella metafora, nella forma che abbiamo
illustrata.
A questo livello, la concezione pitagorica del numero si
manifesta in una prospettiva nella quale si assiste a un dia-
metrale capovolgimento, giacché ci si avvede che la sua rap-
presentazione nei termini di una realtà concretamente inte-
sa, e cioè di una cosa, ha il suo radicamento profondo nella
sostantificazione di una proprietà di tipo quantitativo.
Certo, i Pitagorici concepivano i numeri come cose per-
ché li intendevano come aggregati di unità, e ritenevano
che l’unità fosse «dotata di posizione» (mona#v eòcousa qe@
sin), vale a dire un volume minimo. Per cui anche l’aggre-
gato di unità, ossia il numero, risulta essere una realtà spa-
zialmente definita, perché avente un certo volume. Ma
questo modo di raffigurare l’unità, e dunque il numero, in
quanto formato dall’aggregazione di unità, è l’esito della
sostantificazione della proprietà di cui il numero è portato-
re e in cui specificamente consiste la sua natura. Pensata
una tale proprietà come determinazione realmente sussi-
stente, segue che il numero stesso sia una siffatta determi-
nazione. E poiché il numero è costituito da unità, essendo
la somma di una data quantità di esse, anche l’unità viene
conseguentemente concepita nella logica e secondo il crite-
rio della sostantificazione.
Così, in quanto parte del numero, ossia di una «cosa»,
spazialmente definita, è essa stessa una cosa, ossia una real-
tà attestata nello spazio: tale, per l’appunto il suo essere un
volume; in quanto, poi, parte elementare del numero, è la
porzione più piccola di spazio: volume minimo, ossia «co-
324 OPERE FILOSOFICHE

sa» più piccola, per l’appunto, secondo la definizione che


abbiamo richiamato.
A ben vedere, allora, il numero non è una determinazio-
ne realmente sussistente perché è un aggregato di unità in-
tese nel modo che s’è detto, ma vige l’inverso e in tanto
l’unità è pensata come volume minimo e come dotata di
posizione spaziale in quanto è il costitutivo del numero
concepito nell’ottica e sulla base della sostantificazione di
una proprietà quantitativa – quella in cui esso consiste –,
resa possibile grazie a una metafora. È, insomma, la sostan-
tificazione del numero – più determinatamente, della pro-
prietà quantitativa di cui esso è portatore e nella quale esso
consiste – la causa del modo d’intendere l’unità come volu-
me minimo, non questa rappresentazione dell’unità la cau-
sa della concezione del numero nel modo di una determi-
nazione realmente sussistente. In ciò risiede il rovescia-
mento di prospettiva che si diceva. Esso appare al fondo
della riflessione sul rapporto numeri/cose non appena si
consideri che il numero stesso è una cosa in virtù di una
sostantivazione e di un modo metaforico di rappresentare
la sua somiglianza con la cosa.

9.2 La medesima logica presiede all’interpretazione pita-


gorica anche della realtà fisica e cosmologica. Anch’essa,
infatti, è detta consistere nella sua essenza in numeri sulla
base di un processo di sostantificazione di una proprietà
numerica identico a quello che si è or ora riscontrato ope-
rante nell’interpretazione matematica di una realtà morale.
E anche nel caso delle realtà fisiche e cosmologiche è la
metafora, nella forma dell’analogia, a definire la strategia
di una tale sostantificazione.
Il caso del «momento opportuno» (kairo@v), presentato
nel fr. 13, è quanto mai sintomatico. La ragione per la quale
i Pitagorici lo identificavano col numero sette è che impor-
tanti fenomeni naturali, relativi sia al mondo umano che a
SUI PITAGORICI 325

quello cosmico, si scandiscono secondo una frequenza set-


tenaria e in questa scansione raggiungono stati di compiu-
tezza, e cioè di perfezione («le cose naturali – recita testual-
mente il frammento – possiedano i loro tempi opportuni
perfetti, sia della generazione che della fine, secondo perio-
di di sette»). Così l’uomo

è partorito di sette mesi, e per natura gli spuntano i denti ad


altrettanti mesi, ed entra nella pubertà intorno al secondo pe-
riodo di sette anni, e genera intorno al terzo. In questo modo
sostengono che anche il sole, poiché – egli dice – sembra sia
esso la causa dei momenti opportuni, si pone in una posizione
che è conforme al settimo numero, nel quale affermano consi-
stere il momento opportuno. Infatti, esso tiene il settimo posto
dei dieci corpi che si muovono intorno al mezzo, vale a dire la
hestia. Ché, si muove dopo la sfera delle stelle fisse e le cinque
sfere dei pianeti; e dopo questa, come ottava, vi è la luna e, co-
me nona, la terra, dopo della quale vi è l’antiterra.

Ora, l’attuarsi secondo scadenze di sette anni è cosa diver-


sa dal numero sette, per cui se il momento opportuno, vale
a dire lo stato di perfezione, si attua secondo la suddetta
scadenza, è chiaro che non coincide con il numero sette, ma
trova in questo numero la quantità dei suoi ritmi di attua-
zione. Di conseguenza, identificare il momento opportuno
e il sette in tanto è possibile in quanto si identifichi la pro-
prietà aritmetica che regola lo stato di perfezione con que-
sto stato stesso e si ipostatizzi tale proprietà, nella sua coin-
cidenza con lo stato di perfezione, con il sette.
Si è così in presenza di un doppio salto: per un verso,
quello per cui si identifica uno stato (la compiutezza) con
una sua proprietà numerica (l’attuarsi in ritmi settenari) e,
per un altro, quello per il quale si identifica un tale stato,
vale a dire la proprietà numerica che ne ritma il verificarsi,
con un numero secondo cui esso si ritma. Si è, insomma, in
326 OPERE FILOSOFICHE

presenza di una duplice identificazione, e l’una e l’altra si


effettuano sulla base di una metafora, in quanto si scorge
nel sette una somiglianza tra uno stato di perfezione (di un
dato fenomeno) e una sua proprietà e si ipostatizza tale nu-
mero.
Nel prosieguo del suo resoconto sul numero sette, Ales-
sandro informa che con esso i Pitagorici indicavano anche
la dea Atena, sempre in virtù di una somiglianza tra questa
divinità e quel numero. In effetti,

poiché il sette né genera alcuno dei numeri compresi nella de-


cade, né è generato da alcuno di essi, per questo motivo diceva-
no che esso è anche Atena. Infatti, il due genera il quattro, il tre
il nove e il sei, il quattro l’otto e il cinque il dieci e, per conver-
so, il quattro, il sei, l’otto, il nove e il dieci sono generati; invece
il sette né genera qualche <numero>, né è generato da qualcu-
no. Ma tale è anche Atena, che non è madre ed è sempre vergi-
ne (fr. 13).

Qui la somiglianza, individuata nella comune prerogativa


del sette e di Atena di non generare (quella di non essere
generato appartiene soltanto al sette, non anche alla dea,
che invece nella tradizione mitologica greca è nata dalla
mente di Zeus; del resto, lo stesso commentatore richiama
unicamente la sua verginità, senza fare il minimo cenno al
non essere stata generata: evidentemente perché era consa-
pevole che ciò non corrisponde affatto alla storia mitologi-
ca di Atena) è espressa dalla seguente analogia: il non ge-
nerare figli sta ad Atena come il non produrre numeri sta al
sette. Donde, metaforicamente, Atena è il sette, attribuen-
do il quarto termine al secondo, in conformità con la prima
forma della quarta specie di metafora anzi presentata.
Ma in realtà la conclusione di questo procedimento è
ben di più di una semplice metafora, o – meglio – la meta-
fora che così impostata è il mezzo attraverso cui si attua
SUI PITAGORICI 327

un’identificazione che va ben oltre questa figura. La meta-


fora comporterebbe, infatti, che Atena «si nominasse» col
sette, che si attribuisse cioè alla dea il «nome» di questo
numero. Invece non è questo che facevano i Pitagorici, i
quali invece «dicevano che il sette è Atena» (kai# èAqhna#n
eòlegon auèto@n), assimilavano cioè Atena al sette, di modo
che nella struttura matematica dell’esistente la realtà della
dea era ritenuta specificata da quel numero.
Con ciò essi mostravano di intendere la relazione tra la
proprietà di non produrre alcun numero, espressa dal sette,
e quella di non generare figli, espressa da Atena, non come
semplice «somiglianza», ma come vera e propria identità.
Giacché la somiglianza tra le due proprietà avrebbe dato
luogo a una metafora specificamente intesa, vale a dire al
trasferimento del «nome» dal sette alla dea, ovvero alla de-
nominazione di questa seconda con il primo, non all’«iden-
tificazione» di costei col sette. Presupposto di tale identifi-
cazione è l’identificazione stessa del generare figli col pro-
durre numeri, ossia l’attribuzione di una prerogativa dei
viventi a un’entità matematica. E con ciò l’assunzione della
proprietà matematica del sette nell’ottica di una concezio-
ne magica e tabuica è lampante. Il numero sette, che, consi-
derato sotto il profilo strettamente matematico, è fatto og-
getto di considerazioni a pieno titolo razionali, perché
strutturate sulla logica di questa disciplina (né produce al-
cuno dei numeri compresi entro il dieci, né è prodotto da
essi), pensato nell’ottica del rapporto con le cose viene as-
sunto un una connotazione tale che all’elemento stretta-
mente matematico si aggiunge uno di tutt’altra natura.
TESTIMONIUM

FRAGMENTA
TESTIMONIANZA

Arist., Metaph., I, 5, 985b 23: contemporanei a costoro e an-


che prima di costoro,16 i cosiddetti Pitagorici,17 essendosi
applicati alle scienze matematiche,18 per primi le portarono
innanzi e, allevati in esse, credettero che i loro principi fos-
sero i principi di tutte le cose [...] 986a 8-13: e poiché sem-
bra che il dieci sia perfetto e che comprenda in sé tutta la
natura dei numeri,19 anche le cose che si muovono lungo il
cielo sostengono essere dieci, ma poiché ne sono visibili
soltanto nove, per questo pongono come decima l’antiter-
ra.20 Su questi argomenti, da parte nostra sono state date
specificazioni in modo più preciso in altre opere.21

FRAMMENTI

1 (R2 186, R3 191)

Apollon., Mirab., 6: venuto dopo costoro,22 Pitagora, figlio di


Mnesarco, dapprima profuse le sue fatiche nell’ambito delle
conoscenze matematiche e dei numeri, ma in ultimo non si
allontanò dalla creazione di prodigi di Ferecide.23 E infatti a
Metaponto, mentre una nave con un carico entrava nel por-
to e coloro in cui s’imbatteva facevano voto perché arrivasse
sana e salva, per via della merce, egli, fattosi innanzi, disse:
330 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 331

«allora questa nave vi apparirà come un corpo che porta un


cadavere». Un’altra volta in Caulonia,24 come sostiene Ari-
stotele, presagì l’orsa bianca, e il medesimo Aristotele af-
ferma per iscritto di lui anche molti altri prodigi e, dice, egli
uccise a morsi il serpente velenoso che in Tirrenia25 lo mor-
sicava. Preannunciò pure ai Pitagorici la sollevazione che
<poi> avvenne.26 Per questo fece vela alla volta di Meta-
ponto, senza essere visto da alcuno. Ancora, dal fiume Co-
sa,27 mentre lo attraversava, udì assieme ad altri una voce
grande e sovrumana: «salve Pitagora». E coloro che erano
presenti divennero pieni di terrore. Una volta apparve sia a
Crotone che a Metaponto nel medesimo giorno e alla me-
desima ora. Una volta, mentre era seduto in teatro, si solle-
vò, come afferma Aristotele, e a coloro che erano seduti
mostrò la propria coscia come d’oro.28 Di lui si raccontano
anche altri avvenimenti paradossali, ma noi, non volendo
compiere l’opera dei copisti, terminiamo qui il discorso.

Aelian., V. H., II, 26: Aristotele afferma che Pitagora era


chiamato dagli abitanti di Crotone Apollo Iperboreo,29 e il
figlio di Nicomaco (scil. Aristotele stesso) aggiunge anche
queste cose, ossia che una volta, nello stesso giorno e nella
medesima ora, fu visto da molti sia a Metaponto che a Cro-
tone. E a Olimpia, in teatro, durante la gara, Pitagora, solle-
vatosi, mostrò che una delle sue due cosce era d’oro. Il me-
desimo afferma che fu invocato dal fiume Cosa mentre lo
attraversava, e afferma che molti hanno udito quest’invo-
cazione.

Aelian., V. H., IV, 17: Pitagora insegnò agli uomini d’essere


stato generato da semi migliori che secondo la natura mor-
tale. Infatti, egli (scil. Aristotele) dice, nello stesso giorno e
alla medesima ora fu visto a Metaponto e a Crotone. E a
Olimpia mostrò che una delle sue due cosce era d’oro.
Rammentò anche al crotoniate Millia30 che egli era il Frigio
332 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 333

Mida, figlio di Gordia; e accarezzò l’aquila bianca, che ri-


maneva ferma.31 Ma fu anche invocato dal fiume Cosa men-
tre lo attraversava, dicendogli il fiume «salve, Pitagora».

Diog. Laert., VIII, 1, 11 (9): e si dice anche che era molto


dignitoso, e di lui gli allievi diffondevano la fama che era
Apollo venuto dagli Iperborei. Vi è il racconto secondo cui,
eseguendo egli un esercizio quasi nudo, si vide che la sua
coscia era d’oro; ed erano in molti a sostenere che il fiume
Nasso,32 mentre lo attraversava, lo chiamò.

Iambl., V. P., 28, 140-143: ritengono che la credibilità delle


concezioni in vigore presso di loro risieda in questo, ossia
nel fatto che colui che le proferì per primo non era uno
qualsiasi, bensì il dio. Anche questa è una delle cose che si
udivano: «chi sei, Pitagora?». Dicono, infatti, che fosse
Apollo Iperboreo. Ne erano prove che, levatosi nel teatro,
mostrò la sua coscia d’oro, e che accoglieva al suo focolare
l’iperboreo Abaris33 e gli tolse la freccia con cui si dirige-
va.34 Si dice che Abaris venisse dagli Iperborei raccoglien-
do oro per il tempio e predicendo una pestilenza. Alberga-
va nei santuari e non fu mai visto né bere né mangiare al-
cunché. Si dice che anche a Sparta celebrò le cerimonie
impeditive35 e per questo a Sparta in seguito non si verificò
mai più una pestilenza. Avendo dunque accolto questo
Abaris, che aveva una freccia d’oro, senza la quale non era
in grado di trovare le vie, gli fece fare un accordo.36 E a Me-
taponto, poiché taluni facevano voto perché avessero ciò
che si trovava sulla nave che vi faceva vela, «allora – disse
– avrete un cadavere». E mostrò che la nave portava <ef-
fettivamente> un cadavere. E a Sibari afferrò e allontanò il
serpente irsuto che uccideva. Similmente, anche nella Tir-
renia <afferrò e allontanò> il piccolo serpente che uccide-
va a morsi. A Crotone accarezzò l’aquila bianca, che rima-
neva ferma, come si racconta. Poiché un tale voleva ascol-
334 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 335

tarlo, gli disse che non avrebbe parlato in nessun modo


prima che si fosse mostrato un qualche segno, e dopo que-
sti fatti in Caulonia si verificò l’orsa bianca. E a chi stava
per annunciargli la morte del figlio egli la enunciò prima
<ancora che parlasse>. E al crotoniate Millia rammentò
che era Mida, figlio di Gordio, e Millia andò sul continente
per compiere tutte le cose che gli aveva comandato sulla
tomba <di Mida>. Dicono anche che colui che aveva com-
prato la sua casa e aveva scavato, non osò dire a nessuno
ciò che vide, ma per quest’errore fu catturato e condannato
a morte a Crotone per saccheggio di templi. Infatti, fu colto
in flagrante mentre prendeva la barba d’oro che era caduta
dalla statua. Questi fatti, dunque, e altri di tal genere enun-
ciano per la credibilità <delle loro dottrine>.

2 (R2 187, R3 192)

Iambl., V. P., 6, 30: e assieme agli dèi annoverano poi Pita-


gora, convinti che si tratti di un demone buono e filantropo:
gli uni come Apollo Pizio, altri come Apollo Iperboreo, al-
tri come Apollo Peana, altri ancora come uno dei demoni
che abitano la luna [...] 31: pure Aristotele nell’opera Sulla
filosofia pitagorica narra che tra le cose su cui vi è il massi-
mo segreto viene custodita da quegli uomini anche tale di-
stinzione: del vivente razionale fanno parte, da un lato dio,
da un altro l’uomo, da un altro ancora Pitagora.

3 (R2 188, R3 193)

Apul., De deo Socr., 20, 166-167: credo che la maggior parte


di voi creda ciò che in modo alquanto esitante ho appro-
priatamente esposto e ammiri con interesse la forma spes-
so veduta del demone di Socrate. E infatti, se qualcuno di-
cesse di non aver mai visto un demone, Aristotele, come
credo, sarebbe testimone sufficientemente idoneo del fatto
336 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 337

che i Pitagorici erano soliti ammirarla pienamente. Ché, se


a taluno può sopraggiungere la facoltà di contemplare
un’immagine divina, perché non avrebbe potuto toccare
prima di tutto a Socrate [...]?

Clem. Al., Strom., VI, 6, 53, 2-3: Isidoro, figlio di Basileide e


assieme suo discepolo, nel primo dei libri esegetici del pro-
feta Parcore scrive anch’egli alla lettera: «pure gli Attici
affermano che qualcuno ricordava a Socrate che un demo-
ne lo seguiva, e Aristotele afferma che tutti gli uomini si
sono serviti di demoni che li accompagnano per tutto il
tempo dell’incarnazione, assumendo quest’insegnamento
profetico e ponendolo nei suoi libri, senza convenire da do-
ve trasse questo discorso».

4 (R2 189, R3 194)

Gell., 4, 11, 11-13: anche Plutarco, uomo di solida autorità


nella dottrina,37 nel primo dei libri che compose su Omero
scrisse che il filosofo Aristotele aveva messo per iscritto
quelle medesime considerazioni sui Pitagorici, ossia che
non si astennero dal mangiare gli animali se non certa poca
carne <di essi>. Ho scritto qui di seguito le parole stesse di
Plutarco, poiché la cosa è inopinata: «Aristotele sostiene
che i Pitagorici si astengono dalla matrice, dal cuore, dall’or-
tica marina e da alcune altre parti di questo genere, mentre
fanno uso delle altre». L’ortica marina (aèkalh@fh) è un ani-
male marino che viene detto ostrica.

Porph., V.P., 45: invitava ad astenersi anche da altri alimen-


ti, come dalla matrice, dalla triglia, dall’ortica marina e
all’incirca da tutti quanti gli altri animali marini.
338 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 339

Diog. Laert., VIII, 1, 19 (18): ma più d’ogni cosa prescriveva


di non mangiare né il pesce fragolino né il melanuro, e di
astenersi sia dal cuore <degli animali> che dalle fave. Aristo-
tele sostiene che talvolta anche dalla matrice e dalla triglia.

5 (R2 190, R3 195)

Diog. Laert., VIII, 1, 33-36 (19): agli dèi e agli eroi non si
devono tributare onori uguali, ma agli dèi sempre, con paro-
le benedicenti, coperti di bianchi mantelli ed essendo puri;
invece agli eroi dalla metà del giorno. La purezza è causata
dai riti della purificazione, dai lavacri, dalle abluzioni e dal
mantenersi puri da un cadavere, da una puerpera e da ogni
miasma, e dall’astenersi da porzioni di carne di <animali>
morti naturalmente come cibi, da triglie, da melanuri, da uo-
va e dagli animali ovipari, dalle fave e dalle altre cose che
prescrivono anche coloro che nei templi celebrano i riti mi-
sterici. E per ciò che riguarda le fave, Aristotele nell’opera
Sui Pitagorici afferma che egli (scil. Pitagora) proclama di
astenersi dalle fave, o perché sono simili ai sessi, o perché lo
sono alle porte dell’Ade (infatti sono la sola pianta non ar-
ticolata), o perché corrompono, o perché sono cosa simile
alla natura del tutto, o perché sono cosa tendente all’oligar-
chia (in effetti con esse si operano i sorteggi).38 Comandava
loro (scil. ai discepoli) di non raccogliere ciò che cade dalla
tavola, per il motivo di <voler> abituare a non mangiare in
modo incontinente o perché <caduto> a causa della morte
di qualcuno39 [...]; di star distante dal gallo bianco, perché è
sacro al Mese e suo supplice (il che, come sosteniamo, è pro-
prio dei buoni)40 e per il fatto di essere sacro al Mese, giac-
ché indica le ore. E il bianco è proprio della natura del bene,
mentre il nero di quella del male.41 Comandava di star lon-
tani dai pesci, quanti sono sacri. Infatti, non si devono ordi-
nare le stesse cose per gli dèi e per gli uomini, come neppu-
re per i liberi e per gli schiavi. Comandava di non spezzare il
340 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 341

pane, perché su un solo pane si riunivano gli amici dei tempi


antichi, come inoltre anche ora fanno i barbari.42 E coman-
dava di non dividerlo giacché li riunisce. Alcuni riferiscono
<il divieto> al giudizio nell’Ade, altri al fatto di creare viltà
in guerra, altri ancora perché dal pane ha origine l’intero
[...] 36: Tanto Alessandro afferma di aver trovato queste
<dottrine> nelle Memorie pitagoriche, quanto Aristotele
quelle che derivano da esse.

6 (R2 191, R3 196)

Porph., V. P., 41: diceva anche in modo mistico, per simboli,


alcune cose che Aristotele registrò per la maggior parte:
per esempio, chiamava il mare lacrima <di Crono>,43 le or-
se44 mani di Rea, la costellazione delle Pleiadi lira delle
Muse, i pianeti cani di Persefone, e che l’eco che si origina
dal bronzo battuto è la voce di uno dei demoni rinchiuso
nel bronzo.

Aelian., V. P., 4, 17: indicava anche l’origine del terremoto:


non è nient’altro che una riunione dei morti, e diceva che
l’arcobaleno è un raggio del sole, e l’eco che cade molte
volte nelle orecchie è voce dei migliori.

7 (R2 192, R3 197)

Porph., V.P., 42: vi era anche un’altra specie di simboli, di


tal fatta: «non oltrepassare il giogo della bilancia», vale a
dire non pretendere di più. «Non raschiare il fuoco col ra-
soio», il che significava: non muovere colui che è gonfio
d’ira45 con parole provocatorie. «Non strappare la corona»,
vale a dire non corrompere le leggi: queste, infatti, sono co-
rone delle città. E, a loro volta, anche altri <detti>, del ge-
nere seguente: «non mangiare il cuore», ossia non addolo-
rare se stessi con afflizioni; «non stare seduto sul chenice»,46
342 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 343

ossia non vivere inoperoso; «non volgersi indietro quando


si parte», vale a dire non stare, morenti, attaccati alla vita;
«non camminare per le vie maestre», col che distoglieva dal
seguire i pareri della massa e <invitava> invece a inseguire
quelle delle poche persone fornite di cultura; «non acco-
gliere rondini in casa», vale a dire, <non accogliere in casa>
uomini ciarlieri e non rendere le persone che vivono sotto
il medesimo tetto incontinenti nelle lingue; «aiutare ad al-
zare il peso coloro che lo sollevano, non deporlo assieme»,
col che non esortava nessuno a collaborare in vista
dell’ignavia, bensì in vista della virtù; «non portare le im-
magini degli dèi sugli anelli», vale a dire non avere l’opinio-
ne degli dèi e un discorso <su di loro> a portata di mano né
manifesto, e non portarlo a molti;47 «fare libagioni agli dèi
lungo l’orecchio delle coppe». Da qui, infatti, diceva in mo-
do enigmatico di onorare gli dèi e d’inneggiare loro con la
musica, giacché questa passa per le orecchie.

Hieronimus, Adv. Libros Rufini, III, 39: sono pitagorici sia


quei celebri precetti: cioè, le cose degli amici sono comuni
[...], sia quei famosi enigmi, che con molta diligenza Aristo-
tele descrive nei suoi libri, ossia: «non oltrepassare la stade-
ra», vale a dire non andare di là della giustizia; «non ferire
il fuoco con la spada», ossia non provocare un animo gon-
fio d’ira con parole piene di malevolenza; «non si deve
strappare la corona», vale a dire si devono custodire le leg-
gi delle città; «non bisogna mangiare il cuore», ossia si deve
allontanare la tristezza dall’animo; «una volta che tu sia
partito», disse, «non tornare indietro», vale a dire non desi-
derare la vita stessa dopo la morte; «non camminare lungo
la via pubblica», ossia non tener dietro all’andar qua e là
della massa; «non si deve accogliere una rondine in casa»,
ossia non si devono avere sotto il medesimo tetto uomini
ciarlieri e verbosi; «si deve aiutare a portare il peso coloro
che ne sono carichi, non associarsi a coloro che lo depongo-
344 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 345

no», ossia si devono aumentare i precetti a coloro che mar-


ciano verso la virtù, invece si devono abbandonare coloro
che si attardano nel non fare nulla.

8 (R2 193, R3 194)

Mart. Cap., VII, 367-368: d’altro canto Aristotele, uno dei


miei seguaci, dal fatto che essa (scil. l’unità) è l’unico uno e
vuol essere sempre ricercata, asserisce che è stata chiamata
desiderio (cupido) perché desidera (cupiat) se stessa, se in
realtà non ha niente di più e, priva di qualsiasi trasporto o
vincolo, rivolge verso di sé i propri ardori.

9 (R2 194, R3 199)

Theod. Sm., Math., p. 21, 20 (Hiler): operano il primo taglio


dei numeri in due: sostengono, infatti, che alcuni di essi sono
pari, altri dispari [...] 24: alcuni sostennero che la monade è
il primo dei numeri [...] 22, 5-9: Aristotele nel libro Sui Pita-
gorici afferma che l’uno partecipa della natura di entrambi
<i tipi di numero>, giacché, aggiunto a uno pari, ne forma
uno dispari e, aggiunto a uno dispari, ne forma uno pari; il
che non sarebbe possibile se non partecipasse di entrambe
le nature. Per questo l’uno è chiamato anche parimpari.48

10 (R2 195, R3 200)

Simpl., De cael., p. 386, 9: ebbene, i Pitagorici, dopo aver ri-


condotto tutte le antitesi a due serie, una peggiore e l’altra
migliore, ovvero di ciò che è buono e di ciò che è cattivo, e
dopo aver completato ciascuna delle due con la decade, co-
me avesse valore di simbolo per ogni numero, assunsero
ciascuna antitesi del dieci in questa modalità, ossia come se
mostrasse assieme tutte le sue affinità. 49 E come tipiche
delle condizioni di luogo assunsero, dunque, la destra e la
346 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 347

sinistra [...] 19-23: da queste mostrarono anche le altre anti-


tesi di luogo: chiamavano dunque «bene» la destra e l’alto
e il davanti, invece dicevano che la sinistra e il basso e il
dietro sono un male, come lo stesso Aristotele raccontò
nella Raccolta delle cose che piacciono ai Pitagorici.50

11 (R2 196, R3 201)

Stob., I, 18, 1 (Wachsmuth e Hense): nel primo libro


dell’opera Sulla filosofia di Pitagora <Aristotele> scrive
che il celo è uno, che dall’infinito s’immettono il tempo, il
soffio e il vuoto, che sempre delimita le regioni di ogni ge-
nere di cose.51

12 (R2 197, R3 202)

Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 75, 15-17: nel secondo li-


bro dell’opera Sulla dottrina dei Pitagorici <Aristotele> fa
menzione della disposizione nel cielo che i Pitagorici rite-
nevano propria dei numeri.52

13 (R2 198, R3 203)

Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 38, 8: <i Pitagorici> soste-


nevano che alcune somiglianze tra i numeri sono in relazio-
ne con le cose che sono e divengono; <Aristotele> lo fece
vedere: supponendo, infatti, che il proprio della giustizia
fossero il contraccambio e l’uguale, avendo trovato che ciò
si verifica nei numeri, per questo sostenevano anche che il
primo numero al quadrato fosse la giustizia. Infatti, per cia-
scuna cosa, ciò che si indica quando viene nominata è fon-
damentalmente la prima delle <determinazioni> che hanno
il medesimo logos.53 Questo, alcuni sostenevano che è il
quattro, poiché, essendo il primo quadrato, si divide in
<parti> uguali ed è uguale <al loro prodotto> (infatti, è due
348 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 349

volte due), altri invece che è il nove, il quale è il primo qua-


drato a partire da un <numero> dispari, il tre, moltiplicato
per se stesso. A sua volta, sostenevano che il momento op-
portuno è il sette, poiché sembra che le cose naturali pos-
siedano i loro tempi opportuni perfetti, sia della generazio-
ne che della fine, secondo periodi di sette, come nel caso
dell’uomo. E infatti è partorito di sette mesi,54 e per natura
gli spuntano i denti ad altrettanti mesi, ed entra nella pu-
bertà intorno al secondo periodo di sette anni, e genera in-
torno al terzo. In questo modo sostengono che anche il sole,
poiché – egli dice – sembra sia esso la causa dei momenti
opportuni, si pone in una posizione che è conforme al setti-
mo numero, nel quale affermano consistere il momento op-
portuno. Infatti, esso tiene il settimo posto dei dieci corpi
che si muovono intorno al mezzo, vale a dire la hestia.55 Ché,
si muove dopo la sfera delle stelle fisse e le cinque sfere dei
pianeti; e dopo questa,56 come ottava, vi è la luna e, come
nona, la terra, dopo della quale vi è l’antiterra. E poiché il
sette né genera alcuno dei numeri compresi nella decade,
né è generato da alcuno di essi, per questo motivo dicevano
che esso è anche Atena. Infatti, il due genera il quattro, il
tre il nove e il sei, il quattro l’otto e il cinque il dieci e, per
converso, il quattro, il sei, l’otto, il nove e il dieci sono gene-
rati; invece il sette né genera qualche <numero>, né è gene-
rato da qualcuno.57 Ma tale è anche Atena, che non è madre
ed è sempre vergine. Sostenevano che le nozze sono il cin-
que, poiché le nozze sono l’unione di un maschio e di una
femmina, e a loro avviso il dispari è maschio e il pari è fem-
mina, e questo è il primo numero che si genera dal primo
numero pari, ossia dal due e dal primo numero dispari, os-
sia dal tre. Infatti, come abbiamo detto, il dispari per loro è
maschio, mentre il pari femmina.58 E sostenevano che l’uno
è intelletto e sostanza: afferma, infatti, che l’anima è l’in-
telletto, e dicevano che l’intelletto, per il fatto di essere sta-
bile, simile sotto ogni aspetto e atto a comandare, è la mo-
350 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 351

nade e l’uno.59 Ma è anche sostanza, poiché la cosa prima è


sostanza. L’opinione è il due, per il fatto di essere atta a
mutare nell’uno e nell’altro senso. E sostenevano che essa è
anche movimento e aggiunta.60 Ebbene, eleggendo tali so-
miglianze delle cose con i numeri, ipotizzarono che i nume-
ri fossero loro principi, sostenendo <così> che tutte le cose
sono costituite da numeri.
Ma vedendo che anche le armonie sono costituite secon-
do un certo numero, dicevano che i numeri sono principi
anche di queste: infatti, quella di ottava consiste in un rap-
porto doppio (2 : 1), quella di quinta in un rapporto emiolo
(3 : 2), quella di quarta in un rapporto epitrio (4 : 3). E dice-
vano che anche l’intero cielo è costituito secondo una certa
armonia [...] 39, 23-41,15: perciò è costituito di numeri e se-
condo numero e armonia. Poiché, infatti, i corpi che traslano
intorno al mezzo hanno distanze scandite da rapporti pro-
porzionali,61 e alcuni traslano più velocemente, altri più len-
tamente, e poiché nel loro muoversi quelli più lenti produ-
cono anche un suono grave, mentre quelli più veloci un suo-
no acuto, <ebbene>, questi suoni, generandosi secondo la
proporzione delle distanze, rendono armonioso il rumore
che proviene da esse. E dicendo a buon diritto che il numero
è principio di quest’armonia, posero il numero come princi-
pio sia del cielo che del tutto. In effetti, eccoli a dire che la
distanza del sole dalla terra è in un rapporto doppio di quel-
la dalla luna, che la distanza di Venere è in rapporto triplo,
quella di Mercurio in un rapporto quadruplo, e per in cia-
scuno degli atri <corpi> ritenevano che esiste un determina-
to rapporto aritmetico, e che il movimento del cielo è armo-
nioso; e che i <corpi> che si muovono alla distanza massima,
si muovono nel modo più veloce, quelli che si muovono alla
distanza minima, si muovono nel modo più lento, quelli che
si muovono a una distanza intermedia, si muovono secondo
l’analogia della grandezza della circonferenza. 62 Ora, da
queste somiglianze <riscontrabili> negli enti rispetto ai nu-
352 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 353

meri supposero che le cose, ossia gli enti, fossero costituiti


da numeri e che fossero determinati numeri.
Ritenendo che i numeri fossero primi rispetto a tutta la
natura e a tutti gli enti per natura – infatti, indipendente-
mente dal numero non è possibile che qualcuno degli enti
né esista né sia interamente conosciuto, mentre il numero
si conosce anche indipendentemente dalle altre cose –, po-
sero gli elementi e i principi dei numeri anche come princi-
pi di tutti questi63 enti. Essi erano, come s’è detto, il pari e il
dispari, e di questi ritennero che il dispari fosse determina-
to, invece il pari indeterminato; e che principio dei numeri
fosse la monade, costituita sia dal pari che dal dispari. La
monade, infatti, è insieme parimpari;64 il che <Pitagora>
mostrò tramite il suo essere atta a generare sia il numero
dispari che quello pari. Ché, aggiunta a un numero pari ne
genera uno dispari, e a uno dispari, uno pari.
E assumendo senz’altro come evidenti tutte quelle cose
che ritenevano concordanti, nei numeri e nelle unioni con-
formi alle armonie,65 rispetto alle affezioni e alle parti del
cielo, mostravano che il cielo è costituito da numeri e se-
condo armonia. E se risultava che alla sequenza numerica
dei <corpi> che appaiono nel cielo ne mancavano alcuni,
questi li aggiungevano essi stessi, e cercavano di colmare
<l’assenza> affinché tutta la loro trattazione fosse coeren-
te. E in effetti, poiché, per esempio, ritenevano che la deca-
de fosse un numero perfetto, ma tra le cose che appaiono
<nel cielo> vedevano che le sfere in movimento sono nove,
e cioè sette quelle dei pianeti, ottava quella delle stelle fisse
e, nona, la terra – e infatti ritenevano che anche questa si
muovesse in circolo intorno alla hestia, che stava ferma; il
che a loro avviso è fuoco –, essi aggiunsero nelle loro dot-
trine anche una certa antiterra, che supponevano essere
opposta alla terra e per questo essere invisibile a coloro
che sono sulla terra.
<Aristotele> parla di questi argomenti sia nel De caelo66
354 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 355

che, in modo più preciso, nelle Dottrine dei Pitagorici. Poi-


ché pensavano che i corpi in movimento, dai quali è costi-
tuito il cosmo, fossero dieci, ritenevano che la loro posizio-
ne fosse conforme ad armonia, e cioè che fossero lontani
tra loro secondo distanze armoniche, e che si muovessero
conformemente alla proporzione delle distanze, come pri-
ma ha detto, ossia alcuni di essi più velocemente e atri più
lentamente, e che con le loro traslazioni producessero suo-
ni: quelli che traslano più lentamente, suoni più gravi, men-
tre quelli che traslano più velocemente, suoni più acuti, e
che dal prodursi di questi con proporzioni armoniche il
suono diventava armonioso, ma noi non lo udiamo, perché
ne siano avvezzi fin da bambini. Ne ha parlato anche nel
De caelo, e in quest’opera ha mostrato che non è vero. Che
poi il pari costituisca per loro ciò che è indeterminato, men-
tre il dispari ciò che è determinato, e che siano principio
della monade – derivando, infatti, da questi, la monade è
parimpari –, ma anche di ogni numero, se è vero che le mo-
nadi sono, a loro volta, i principi dei numeri, e che l’intero
cielo è numero, ossia che lo sono tutte le cose <contenute>
nel cielo, le quali costituiscono gli enti: ebbene, queste <tesi
Aristotele> espone anche ora,67 ma in modo più ampio ne
ha parlato in quelle opere, concernenti quell’argomento.68

14 (R2 199, R3 204)

Simpl., In Arist. De caelo, p. 511, 25: i Pitagorici affermano il


contrario. Questo, infatti, significa «in modo contrario»
quando dicono che essa (scil. la terra) non <trasla> intorno
al mezzo, ma sostengono che nel mezzo del tutto vi è il fuo-
co;69 sostengono invece che l’antiterra trasla intorno al
mezzo, che è anch’essa terra, ma è chiamata antiterra per il
fatto di essere nella posizione contraria a questa terra.
«Dopo l’antiterra, questa terra che trasla anch’essa intorno
al mezzo; e dopo la terra la luna»: così, infatti, egli (scil. Ari-
356 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 357

stotele) racconta nell’opera Sui Pitagorici [...] 512, 12-14:


per questo alcuni chiamano il fuoco «torre di Zeus», come
egli (scil. Aristotele) narra nell’opera I Pitagorici,70 mentre
altri lo chiamano «guardia di Zeus», come dice in quest’ope-
ra, altri ancora «trono di Zeus», come altri sostengono.

Procl., In Eucl., p. 90, 14 (Friedlein): in realtà i Pitagorici


ritenevano giusto chiamare il polo «sigillo di Rea» [...] p.
90, 17-18: il centro «guardia di Zeus».

15 (R2 200, R3 205)

Simpl., In Arist. Caelo, p. 392, 16-32: com’è che, dice <Ari-


stotele>, i Pitagorici pongono noi sopra e a destra, e quelli
là sotto e a sinistra, se poi, come egli racconta nel secondo
libro della Raccolta delle dottrine pitagoriche, essi afferma-
no che dell’intero cielo vi sono il sopra e il sotto, e che il
sotto del cielo è a destra mentre il sopra a sinistra, e noi
siamo nella parte sotto? Oppure ha affermato che il sopra,
detto allora anche presso coloro che sono a destra, non lo è
secondo quella che è la sinistra per lui, ma secondo i Pita-
gorici. Essi, infatti, disponevano a destra l’alto e il davanti,
e a sinistra il basso e il dietro. Ma Alessandro pensa piutto-
sto che le cose contenute nella Raccolta delle dottrine pita-
goriche siano state trascritte in modo diverso da qualcuno,
dovendo invece essere così: l’alto del cielo è a destra e il
basso a sinistra, e noi siamo nella parte in alto, non in quel-
la in basso, com’è stato scritto. Così, infatti, vi sarà concor-
danza con le cose sostenute colà,71 e cioè che noi, dicendo
di abitare in basso e per ciò anche nelle regioni a sinistra, se
veramente il basso è connesso con la sinistra, diciamo in
modo contrario a come i Pitagorici dicono in alto e a de-
stra. E forse il fatto che la scrittura sia stata diversa ha una
ragione, se Aristotele conosceva che essi connettevano l’al-
to alla destra e il basso alla sinistra.
358 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 359

Them., In Arist. De caelo, p. 96, 17-22: se davvero i Pitagori-


ci sostengono che la parte superiore <del cielo> è quella
che è costituita dalla regione di destra, al modo in cui ab-
biamo trovato che Aristotele lo comprova nei commentari
che scrisse contro le opinioni dei Pitagorici, là dove discute
contro di loro, che per contro sostenevano che la parte su-
periore è la destra.

16

Stob., Ecl., I, 26, 3: secondo il racconto di Aristotele e quel-


lo di Filippo d’Opunte, alcuni Pitagorici affermarono <che
le eclissi di luna si verificano> per la frapposizione talvolta
della terra, talvolta dell’antiterra. Ma tra i <filosofi> più re-
centi72 ve ne sono alcuni cui sembrò giusto che <esse si ve-
rifichino> per dilatazione di una fiamma, la quale si accen-
de a poco a poco in modo ordinato, fino a produrre il pleni-
lunio perfetto, e di nuovo analogamente diminuisce fino
alla congiunzione secondo la quale si spegne completa-
mente.

17 (R2 185, R3 190)

Clem. Al., Strom., I, 14, 62, 2: Pitagora, dunque, figlio di


Mnesarco, era di Samo, come afferma Ippoboto;73 invece,
come sostengono Aristosseno nella Vita di Pitagora,74 Ari-
stotele75 e Teopompo, era tirreno.
360 OPERE FILOSOFICHE

Note
1
Moraux (Listes anciennes, p. 107), sulla base del fatto cheAles-
sandro cita soltanto il Peri# tw^n Puqagorei@wn, ritiene che i due
trattati furono riuniti in una sola opera in due libri prima del II sec.
a.C. Lo studioso sottolinea poi, in modo del tutto persuasivo, come
sia del tutto logico e congruente ritenere che Aristotele scrisse un
trattato sui Pitagorici, giacché a esso rinvia in Metaph., I, 5, 986 a
12-13. E questo varrebbe quand’anche si dovesse ritenere che i
frammenti costituiscano degli pseudoepigrafi. Del resto, anche il
catalogo dell’Anonimo indica al n. 88 un’opera dal titolo Peri# tw^n
Puqagorei@wn.
2
Su questa distinzione tra «acusmatici» e «matematici» si veda
anche ciò che la studiosa dice in Pitagorici, I, p. 6, dove in modo
assai convincente ne rintraccia le radici nel modo d’insegnare di
Pitagora, connettendola al fatto che «Pitagora non diceva tutto a
tutti, ma a ciascuno quello che poteva capire». Ond’è che «il famo-
so segreto pitagorico questo valore appunto aveva, di divieto di
diffondere fra gli estranei, e all’interno della scuola fra i non abba-
stanza preparati, le dottrine più difficili e le più eterogenee rispet-
to al modo di pensare comune».
3
Ossia, sacrifici apotropaici.
4
Cfr. Synes., Dio, X, 48 a = fr. 15 Ross: «come ritiene Aristotele,
gli iniziati non devono imparare alcunché (maqei^n), ma provare
sentimenti e porsi in uno stato d’animo (paqei^n), essendone evi-
dentemente adatti». Per un commento mi permetto di rinviare a
Zanatta, Dialoghi, pp. 438 ss.
5
Delatte, Études, p. 278 ritiene che l’espressione «lacrima di
Crono» non costituisca un’allegoria, ma riproponga un antico mi-
to cosmogonico con cui si spiegava l’origine del mare, mito dal
quale l’espressione deriverebbe (in proposito cfr. Timpanaro Car-
dini, Pitagorici, III, pp. 244 s.). Per parte mia dissento dal discono-
scere valore anche allegorico (e metaforico) all’espressione in og-
getto. La sua valenza allegorica (e assieme metaforica) non esclu-
de quella di simbolo, ma fa tutt’uno con essa, in una strutturale
impossibilità di distinzione concettuale tra l’allegoria, la metafora
e il simbolo che ricalca il modo primigenio di intendere. In esso,
infatti, il dire la cosa non si separa ancora (o non si separa con la
nettezza della mentalità posteriore) dalla cosa stessa, ma l’espres-
sione verbale di una sua prerogativa fa tutt’uno con la prerogativa
stessa. Ond’è che anche il significare la cosa un’altra cosa (tale
propriamente il simbolo) non si distingue dal dire quella cosa per
un’altra cosa (tale propriamente l’allegoria) e dal trasferire la pre-
rogativa nominata in una cosa a un’altra cosa (tale propriamente
SUI PITAGORICI 361

la metafora). In ogni caso, anche ammettendo (e per nulla conce-


dendo) l’ordine concettuale proposto dal Delatte la situazione
non muta: il dio Crono non interessa per se stesso, ma soltanto
perché rinvia simbolicamente al mare, per il fatto, cioè, di dare
spiegazione del suo essersi costituito, non per l’intrinseca portata
religiosa della divinità.
6
Al punto che Delatte, Études, p. 268 ha potuto dire che tale
credenza attesta il sopravvivere di un modo d’intendere animisti-
co assai primitivo. Lo studioso ha però rintracciato la spiegazione
di questa credenza in «uno scolio a Omero II, 408 e in Eustazio, p.
1067, 58, ch’egli ritiene derivi da un commento pitagorico a Ome-
ro: solo il bronzo, delle cose inanimate, sembra avere voce. E i pi-
tagorici dicono che il bronzo risuona a ogni soffio di sopravviven-
za divina» (Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, p. 245).
7
Cfr. Poet., 21, 1457 b 7: «metafora è l’imposizione di un nome
di un’altra cosa (oèno@matov aèllotri@ou eèpifora@)».
8
Cfr. Poet., 23, 1459 a 6 ss.: «è d’importanza massima l’esser
capaci di fare metafore. Ché, questa capacità non si può assumere
da un altro, ma è segno di buona natura. Infatti, il fare buone me-
tafore è vedere ciò che è simile».
9
In realtà, la studiosa riporta anche la seguente spiegazione
addotta dal dossografo: «è igienico l’astenersi dalle fave, perché il
ventre resta più regolato, e le immagini dei sogni più lievi e tran-
quille» (Pitagorici, III, pp. 247 s.); e aggiunge: «in questa motiva-
zione il tabù coincideva col precetto igienico» (Ivi). Ebbene, nella
misura in cui un precetto igienico è pur sempre espressione di ra-
zionalità, perché regola razionalmente una funzione del corpo, si
ritrova anche così quella compresenza del razionale e del magico
di cui si sta dicendo.
10
Tutte le testimonianze antioche su questa pratica sono citate
in Pauly Wissowa, III, 620.
11
Cfr. Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, p. 248, dove peraltro si
fa presente che questa «motivazione, tendente a spiegare il divieto
come un fatto politico, dovette essere conseguente al costituirsi di
governi democratici». Il che è certamente probabile, ma in questa
sede non è su quest’ordine di ragioni, pur molto pertinenti, che in-
teressa porre l’accento, sibbene sul carattere simbolico, e dunque
razionale, della motivazione. In ogni caso, prosegue la studiosa, «da
questa testimonianza di Aristotele appare che la regola dell’asti-
nenza delle fave fosse, a quanto a lui risultava, ancora osservata
alla lettera. Ma già se n’era smarrito il motivo originario, donde la
ricerca di altri motivi seguendo diversi ordini di idee, finché il ra-
zionalista Aristosseno con spirito polemico affermerà la predile-
zione del Maestro per le fave (cfr. Gellio, IV, 11, 1)».
362 OPERE FILOSOFICHE

12
Cfr. fr. 5: «Comandava [...] di star distante dal gallo bianco,
perché è sacro al Mese e suo supplice (il che, come sosteniamo, è
proprio dei buoni) e per il fatto di essere sacro al Mese, giacché
indica le ore. E il bianco è proprio della natura del bene, mentre il
nero di quella del male».
13
In questo propriamente «l’intero» (to# oçlon) differisce da «il
tutto» (to# pa^n), per il fatto cioè di essere un’unità organizzata in
modo tale che lo spostamento o il venir meno di una delle sue
parti comporta un’alterazione dell’insieme, che non è più lo stesso
di prima (cfr. Metaph., V, 26, 1024 a 1 ss.).
14
Precisa inoltre lo Stagirita che la metafora per analogia può
essere usata per denotare ciò che non ha un nome: per esempio,
non vi è un nome che designi il lanciare la fiamma da parte del
sole; ma l’analogia tra un tale lanciare e il sole, da un lato, e il lan-
ciare il grano e il grano stesso, dall’altro, permette di denotare
quel lanciare col nome con cui si indica il lanciare il grano, ossia
«seminare», e denotare perciò quell’anonimo lanciare come «se-
minare la fiamma da parte del sole». Precisa ancora il filosofo che
un quarto modo d’usare la metafora per analogia consiste nell’at-
tribuire alla cosa il nome proprio di un’altra secondo la relazione
base specificata in (a) e nel negare una delle determinazioni che
convengono alla seconda (per esempio, stante che Ares sta allo
scudo come Dioniso sta alla coppa, nel chiamare lo scudo «coppa»
– ossia il secondo termine col nome del quarto – ma precisando
che si tratta di una coppa «senza vino»).
15
In proposito si veda la nota n. 52.
16
Ad avviso di Diels e di Ross, si tratta degli atomisti Leucippo
e Democrito (nominati da Aristotele per ultimi nel precedente
Metaph., I, 4); invece, ad avviso di Timpanaro Cardini (Pitagorici,
III, pp. 57-58), si tratta di quei filosofi (citati dallo Stagirita a parti-
re da Metaph., I, 4, 983 b 6) che avvertirono la necessità di un’altra
causa oltre quella materiale per poter spiegare i fenomeni.
17
Come riferisce Reale (Metaph., III, pp. 45 s.), a quest’espressio-
ne «i cosiddetti Pitagorici» (che ricompare anche in Mertaph., 989 b
29; De caelo, 284 b 7, 13; 293 a 20) sono stati attribuiti fondamental-
mente tre diversi significati: (1) essa denoterebbe l’incertezza di
Aristotele nell’indicare la persona e la dottrina di Pitagora (così
Bonitz, Comm., p. 77; Ross, Metaph., I, p. 143; Tricot, Métaph., I, p. 41,
nota 4); (2) con essa lo Stagirita distinguerebbe i veri Pitagorici da
coloro che a partire dalla seconda metà del VI sec. a.C. si riunivano
in una sorta di setta orfica (Frankl); (3) con essa Aristotele mette-
rebbe in risalto il carattere di équipe della filosofia pitagorica, di
contro alla rilevanza personale di quella degli altri Presocratici
(Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, pp. 9 ss., in particolare p. 13).
SUI PITAGORICI 363

18
Cfr. Proclo, In Euclid., p. 65 Friedl. = Timpanaro Cardini, Pi-
tagorici, III, B 1, pp. 48-49.
19
Il dieci corrisponde alla somma dei primi quattro numeri, a
partire dai quali si formano tutti gli altri. Da qui la ragione della
sua «perfezione».
20
Com’è spiegato da Alessandro d’Afrodisia nel passo riporta-
to come fr. 13, i corpi che si muovono nel cielo sono le stesse fisse,
i cinque pianeti, il sole, la luna, la terra e, per l’appunto, l’antiterra.
21
Il riferimento non è certamente a De caelo, II, 13, 293 a 23 ss.,
come taluni hanno creduto, bensì proprio al trattato Sulle dottrine
pitagoriche (cfr. Reale, Metafisica, III, p. 49, nota 9; Timpanaro
Cardini, Pitagorici, III, pp. 61 s.; Bonitz, Comm., p. 79), coincidente
con ogni verosimiglianza con quello il cui titolo viene indicato co-
me Sui Pitagorici.
22
Si tratta di Epimenide, Aristea, Ermetico, Abaris e Ferecide,
accomunati dall’essere facitori di prodigi.
23
Cfr. Diogene Laurzio, I, 116 ss. = D. K. 7 A 1: «molte e mera-
vigliose cose si tramandano sul suo conto: che passeggiando lungo
la spiaggia di Samo, vedendo una nave che veleggiava con il vento
favorevole, disse che dopo non molto tempo sarebbe affondata.
Ed essa affondò davanti ai suoi occhi. Che, avendo bevuto dell’ac-
qua tratta da un pozzo, predisse che di lì a tre giorni vi sarebbe
stato un terremoto, e questo ci fu. Che, andando da Olimpia a
Messene, consigliò il suo ospite Perilao a sloggiare con tutta la fa-
miglia; questi si rifiutò e Messene fu conquistata». Porfirio, presso
Eusebio, Praep. Evang., X, 3, 6 (= D. K. 7 A 7) riferisce che Andro-
ne nello scritto Tripode (cfr. F. H. G., n. 347) racconta il medesimo
prodigio dell’acqua attinta dal pozzo e della predizione del terre-
moto, ma lo attribuisce a Pitagora. Riferisce inoltre che di questo
e altri prodigi compiuti da Pitagora parlò anche Teopompo (cfr.
Gr. Hist. F., 115 F 70 II 549), che tuttavia, onde evitare il rimprove-
ro d’averli derivati da Androne, li attribuì a Ferecide di Siro e
cambiò il luogo ove furono compiuti.
24
Città della Calabria, sullo Ionio.
25
Espressione equivalente a «in Italia».
26
A riguardo cfr. Diogene Laerzio, II, 46 = D. K. 58 A = Timpa-
naro Cardini, Pitagorici, I: Vita di Pitagora, test. 15, p. 55 e Iambl.,
V. P., 248 = D. K., 44 Aa e 46 = Timpanaro Cardini, Pitagorici, I:
Vita di Pitagora, test. 16.
27
È il nome del fiume che scorreva presso Metaponto (cfr.
Bacchilide, X, 119). Diogene Laerzio, VIII, 1, 11 (infra) indica in-
vece il fiume Nasso (Ne@ssov), in Tracia (cfr. Herod., VII, 126).
28
Come spiega Luciano in uno scolio (p. 124 Rabe), la coscia
d’oro di Pitagora era un segno della sua natura apollinea.
364 OPERE FILOSOFICHE

29
Il culto di Apollo è originario della regione iperborea, un
nord mitico le cui tracce si perdono lungo l’asse danubiano dell’età
del bronzo. Borea è il vento gelido che soffia dai monti della Tra-
cia e sua madre Eos è la splendida «Aurora dalle rosee dita».
30
Fu il marito di Timica di Sparta, filosofa greca vissuta nel IV
sec. a.C. e appartenente assieme a Millia alla scuola pitagorica di
Crotone. È citata da Clemente Alessandrino negli Stromata e da
Giambico nella Vita di Pitagora.
31
Cfr. Iambl., V. P., 142.
32
Nei racconti di Apollonio e di Eliano è invece indicato il fiu-
me Cosa (cfr. supra).
33
Sacerdote di Apollo. In effetti, la maggior parte dei miracoli
ascritti a Pitagora è legata ad Apollo, e questo attesta il loro carat-
tere divinatorio, ossia rivelatore. Ciò s’allinea perfettamente con
quanto dice Diog. Laert., VIII, 8, il quale riferisce la testimonianza
di Aristosseno secondo cui Pitagora ricevette la maggior parte dei
precetti morali dalla sacerdotessa deifica Temistoclea.
34
«Qui occorre dare un significato particolare al verbo aèfei@le-
to, dal momento che in verità la freccia fu donata da Abaris a Pi-
tagora e non sottratta da quest’ultimo. La cosa non cambia, perché
in ogni caso Pitagora privò involontariamente Abaris del benefi-
cio di quell’arnese. Del resto Abaris gliel’aveva consegnata, più
che regalata, perché lo identificava con Apollo Iperboreo» (F. Ro-
mano, in Giambico, Summa pitagorica, a cura di F. Romano, Mila-
no, Bompiani 2006, p. 291, nota n. 77).
35
Ossia, sacrifici apotropaici.
36
L’accordo consisteva nel fatto che Abaris sarebbe rimasto
presso di lui e con lui cooperasse in attività educative, ricevendo in
cambio insegnamenti di particolare importanza (cfr. Iambl., V. P.,
90-93).
37
È opportuno rilevare come doctrina e disciplina indichino il
medesimo oggetto, ossia un contenuto di sapere, ma dal punto di
vista di colui che lo insegna, la prima, e di colui che l’apprende, la
seconda.
38
Era usanza nei governi democratici sorteggiare i magistrati
con una fava bianca (si vedano le testimonianze antiche in propo-
sito in Pauly Wissowa, III, 620). La fava diviene perciò simbolo di
questi regimi, per cui l’astenersene è espressione dell’opposta ten-
denza oligarchica (cfr. Timpanaro Cardini, Pitagorici, III. P. 248).
39
Il significato di questa difficile espressione, che di proposito
si è voluto rendere in modo letterale, è che ciò che cade da tavola
può fungere da alimento a un morto (il quale, albergando nell’Ade,
che è «sotto» terra, abbisogna che il cibo «scenda». Ecco, dunque,
la metafora del cadere). La morte di qualcuno è così la causa della
SUI PITAGORICI 365

caduta del cibo. Un’idea, questa della morte come causa della ca-
duta, espressa da eèpi@ e il dativo (eèpi# teleuth^j tinov).
40
Contrariamente a Timpanaro Cardini (Pitagorici, III, p. 249),
che intende tw^n aègaqw^n come neutro e interpreta il rilievo nel
senso che l’essere supplici appartiene a quelli che, nella lista degli
opposti, sono i beni, propenderei per intendere tw^n aègaqw^n come
maschile: l’essere supplici è proprio delle persone dabbene. La co-
struzione del pensiero è più semplice e la motivazione più imme-
diata. Inoltre, non risulta alcun luogo in cui l’essere supplici sia
annoverato nella lista dei beni, mentre non c’è bisogno di reperire
uno specifico luogo per dar credito a un’affermazione così eviden-
te e generale com’è quella che risulta dall’esegesi proposta.
41
La sacralità del gallo bianco è dunque dovuta al suo stesso
essere bianco, colore che è simbolo della bontà, e al fatto che, co-
me il Mese, anch’esso, con il suo chicchirichì, scandisce le ore. In
tal senso si può anche dire che il gallo è simbolo del Mese, e per
questo gli è sacro. Delatte, Études, p. 290 richiama altresì la circo-
stanza che sulle urne mortuarie trovate a Locri è raffigurato un
gallo, che diviene perciò simbolo funerario. In quanto poi «sacro
(iéero@v)» al Mese (perché suo simbolo), il gallo è altresì suo «sup-
plice (ièke@thv)», giacché la consacrazione a qualcuno è in se stessa
una forma di devozione e di supplica verso costui. Questa seconda
prerogativa del gallo sembra, perciò, subordinata alla prima e
quasi un suo corollario.
42
Come segnala Timpanaro Cardini (Pitagorici, III, p. 249), il
divieto di non spezzare il pane impone di non sbriciolarlo e di-
sperderlo; «amici» (fi@loi) è espressione tecnica e denota propria-
mente la comunità degli adepti al credo pitagorico.
43
«Di Crono» (<Kro@nou>) è integrazione proposta da Stanley,
sulla base di Plutarco, de Is., 364 a e Clemente Alessandrino, Strom.,
V, 49, dove tuttavia si parla delle «lacrime di Zeus» (da@krua Dio@v),
che nel linguaggio simbolico degli Orfici simboleggiavano la piog-
gia (cfr. D. K., 1 B 22; cfr. anche 31 B 6, 3, nonché Timpanaro Car-
dini, Pitagorici, III, p. 244).
44
S’intende, la costellazione dell’orsa maggiore e dell’orsa mi-
nore.
45
Splendida endiadi. Letteralmente, infatti, «colui che è gonfio
ed è irato».
46
Misuratore di sostanze solide, per lo più di farina, o di orzo, o
di grano.
47
In proposito si veda anche Iambl., V. P., 84.
48
Qui, dunque, all’uno è attribuita la funzione di parimpari.
L’istanza non è esente dal porre problemi e, in particolare, solleva
la questione se siamo in presenza di una dottrina pitagorica, o
366 OPERE FILOSOFICHE

dell’interpretazione aristotelica di una dottrina pitagorica, riferita


da Teodoro. In effetti, in Filolao B 5 Timpanaro Cardini (= Stob.
Ecl., I, 21, 7 c, p. 188, 9 W.) il parimpari non coincide più con l’uni-
tà, ma è indicato in una terza specie di numero, oltre il pari e il di-
spari e risultante dalla mescolanza di questi. Parimenti, in Meta-
ph., 987 a 17-19 lo Stagirita attesta che per i Pitagorici l’uno e
l’apeiron costituiscono la sostanza delle cose e che l’uno ha fun-
zione di principio limitante e s’identifica col dispari. Queste di-
screpanze hanno fatto concludere a Cherniss, Criticism, p. 45, nota
173 che la tesi qui presentata non corrisponde affatto a una teoria
pitagorica, bensì all’interpretazione di Aristotele. Anche sullo spe-
cifico punto l’insigne studioso ha seguito la via di dar poco credito
allo Stagirita quale fonte e testimonianza di teorie filosofiche, co-
me ampiamente egli fa a proposito delle indicazioni del filosofo a
proposito delle (presunte) dottrine non scritte di Platone. Per con-
tro, con Timpanaro Cardini, I Pitagorici, II, p. 343 si deve osservare
che in Metaph., 986 a 19 (= D. K. 58 B 5) Aristotele attribuisce ai
Pitagorici la tesi secondo cui l’uno è parimpari. Il che potrebbe ri-
abilitare il valore della testimonianza dello Stagirita in merito
all’effettiva paternità pitagorica della dottrina qui in oggetto e sol-
levare, invece, il problema della sua conciliabilità, all’interno del
pitagorismo, con quella che fa dell’uno il principio limitante. Tra le
possibili ipotesi che si possono avanzare, forse non è priva di plau-
sibilità quella che individua nelle due tesi, due dottrine sostenute
da Pitagorici differenti e, probabilmente, in fasi cronologicamente
differenti.
49
Il significato di questa frase, che nella traduzione di proposi-
to ho voluto mantenere aderente alla lettera del testo greco, è il
seguente: fecero di ciascuna delle antitesi comprese nel dieci, ossia
di ciascuna delle dieci antitesi, l’espressione di tutte quelle affini a
essa.
50
«Tutte le determinazioni di luogo erano comprese nella de-
stra-sinistra, la quale aveva un titolo di preferenza sulle altre, per-
ché conteneva un significato etico-religioso» (Timpanaro Cardini¸
Pitagorici, III, p. 186). Infatti, come lo stesso Simplicio attesta nella
parte lasciata tra parentesi, i Pitagorici assunsero questa coppia di
contrari come espressione delle opposizioni del luogo perché de-
stra e sinistra «esprimono il bene e il male; infatti, usiamo dire
“destra natura” e “destra fortuna” per indicare la natura buona e
la buona fortuna, e sinistra le contrarie». Un’altra ragione della
preferenza data alla coppia destra-sinistra – continua la studiosa
nella sua esegesi del frammento – era che «le cose che hanno una
destra e una sinistra, hanno necessariamente anche un sopra e un
sotto [per parte mia, ho preferito rendere aònw e ka@tw rispettiva-
SUI PITAGORICI 367

mente con alto e basso], un davanti e un dietro; mentre non è vero


l’inverso, come ha ben spiegato Aristotele, perché destra e sinistra
presuppongono il movimento, che non è di tutti gli esseri; infatti la
piante hanno solo il sopra e il sotto (De caelo, 284 b 17). Anche
l’antitesi davanti-dietro suppone il movimento, quindi poteva
anch’essa avere un valore paradigmatico; ma a favore di destra-
sinistra dovevano valere per i Pitagorici le ragioni etico-religiose
anzidette, a cui si deve aggiungere quella del sorgere e tramontare
degli astri». Da qui la critica dello Stagirita: anziché destra-sinistra,
sarebbe stato preferibile assegnare valore paradigmatico all’«op-
posizione sopra-sotto, perché questa l’hanno tutti gli esseri, anche
quelli privi di movimento (es. le piante, che non hanno destra-sini-
stra), e perciò in essa la diafora@ tra i due termini è massima: infat-
ti nel destra-sinistra c’è solo differenza di du@namiv (mano e piede
destri hanno la stessa figura di mano e piede sinistri, solo hanno
più forza), mentre nel sopra-sotto c’è differenza di sch^ma (testa e
piedi differiscono totalmente)» (Ivi, p. 187).
51
Cfr. Aristotele, De caelo, 279 a 11, dove è evidente il richiamo
della dottrina qui menzionata del tempo esterno al cosmo e in es-
so inspirato assieme al soffio e al vuoto. Da questa circostanza
Timpanaro Cardini, I Pitagorici, III, p. 184 giudica la dottrina in
oggetto attendibile nel quadro del pitagorismo.
52
I numeri, dunque, hanno una disposizione e un ordinamento
(ta@xiv) nel cielo. Ecco la notizia che Aristotele dava nel secondo
libro dell’opera perduta Sulla dottrina dei Pitagorici.
53
Ossia, nel caso della giustizia, il primo dei numeri al quadra-
to. Il significato complessivo di quest’articolata frase (che non è
stato possibile tradurre letteralmente) è che la determinazione
della cosa è espressa dal primo dei numeri che ha la medesima
caratteristica o proprietà (logos) di essa. Tale numero è indicato
esso stesso come «cosa» (ecco il neutro to# prw^ton) perché, noto-
riamente, per i Pitagorici i numeri, essendo aggregati di unità, pen-
sate come volumi minimi, erano essi stessi realtà dotate di volume
e, dunque, coincidevano con ta# oònta, le cose; e come «cosa prima»,
ovvero come primo dei numeri aventi la medesima proprietà della
cosa perché, in quanto primo, è presente in tutti i successivi nume-
ri che esprimono la medesima proprietà: nel caso della giustizia, il
primo dei numeri che godono della proprietà di essere quadrati.
Da qui, come si dice nelle righe immediatamente successive, il
problema se il numero che esprime la giustizia sia il quattro, ossia
il primo dei numeri al quadrato, o il nove, ossia il primo dei nume-
ri dispari al quadrato. Si tratta di opinioni differenti maturate con
ogni probabilità da gruppi diversi di Pitagorici intorno a un mede-
simo problema (qual è l’essenza della giustizia). È verisimile cre-
368 OPERE FILOSOFICHE

dere che in tale differenza – e nella registrazione che di essa forni-


sce Aristotele – sia da leggere un dibattito e una discussione inter-
na ai Pitagorici. Interessante notare, poi, come essa rappresenti
un’ennesima occasione atta a rivelare l’opposizione tra il pari e il
dispari, nonché, sotto un certo profilo, la messa in discussione del
primato del dispari sul pari: un aspetto, verosimilmente, esso me-
desimo della discussione. Ché proprio qui il quattro, ossia un nu-
mero pari, ritenuto inferiore al numero dispari per la sua continua
divisibilità, in virtù di questa proprietà di essere divisibile in parti
uguali può contendere col numero dispari nove la capacità di defi-
nire la giustizia.
54
Nel senso che a sette mesi è completo e dunque può essere
partorito (cfr. Hippocr., Peri# eèpt., VII, p. 436 ss. L.).
55
Parimenti in Filolao, 16 B Timpanaro Cardini. La hestia, ossia
il focolare.
56
Ossia quella del sole, la settima.
57
Su questa proprietà del sette cfr. Filolao B 20 Timpanaro
Cardini, Pitagorici, II, p. 238.
58
Si rammenti, infatti, che il dispari per i Pitagorici ha funzione
limitante, ossia determinante e definitoria, e l’elemento maschile,
a loro avviso, era quello che definiva le qualità del nuovo soggetto
umano nella procreazione; per contro, il pari coincide con l’illimi-
tato, ossia con l’indeterminato, e tale sembrava loro l’elemento
femminile, che può essere fecondato da semi maschili diversi e
originare individui connotati da differenti caratteri.
59
Il soggetto sottinteso di «afferma» (eiè^pe) è, ovviamente, Ari-
stotele. In effetti in Metaph., 985 b 30 egli afferma, più sommaria-
mente, che per i Pitagorici yuch@ e nou^v erano un certo numero e
nelle Opinioni dei Pitagorici, l’opera che Alessandro sta ora com-
mentando, identifica l’anima con l’intelletto e questo con l’uno,
dichiarando altresì che l’uno è sostanza (e spiegandone la ragio-
ne). Si tratta, tuttavia, di una dottrina che non tutti i Pitagorici
accettavano, come appare eloquentemente dal fatto che Filolao
(cfr. A 12 Timpanaro Cardini) riportava l’intelletto, assieme alla
salute, al numero sette. In realtà, ciò che più conta è la teoria della
corrispondenza delle cose ai numeri (e, dunque, quella per cui i
principi di questi secondi erano intesi come principi anche delle
prime), mentre le precise corrispondenze delle singole specie di
cose a determinati numeri, potendo essere soggette anche a inter-
pretazioni differenti di identiche proprietà, ma, s’intende, sempre
in chiave numerica, non stupisce che talvolta variassero da filoso-
fo a filosofo.
60
«Aggiunta di uno a uno», precisa Ross nell’apparato critico.
61
Letteralmente, «hanno le distanze nella proporzione».
SUI PITAGORICI 369

62
Ossia, la velocità del movimento è proporzionale all’ampiez-
za delle loro orbite.
63
Ossia, degli enti naturali.
64
L’unità (la monade) ha in sé la natura sia del pari che del di-
spari, ossia è entrambi (parimpari) perché con la sua aggiunta ge-
nera sia l’uno che l’altro. Come si vede, la natura dell’unità è rica-
vata dalla capacità che ha insita.
65
Vale a dire, negli accordi musicali.
66
Cfr. De caelo, II, 13 (293 a 23 ss.).
67
Ossia nei trattati della Metafisica che Alessandro sta com-
mentando.
68
Ossia le Opinioni dei Pitagorici, menzionate da Alessandro
poco prima, e come opera nella quale Aristotele espone le dottri-
ne pitagoriche «in modo più preciso» (aèkribe@steron).
69
Si tratta della hestia (il focolare), di cui si dice nel fr. 13.
70
È la stessa opera che prima è stata citata con il titolo di Sui
Pitagorici.
71
Ossia, nel De caelo, rispetto al quale Simplicio rileva la di-
screpanza indicata nel testo circa la dottrina della destra e della
sinistra che trova esposta nella Raccolta delle dottrine pitagoriche,
come, prima di lui, aveva evidentemente riscontrato Alessandro.
Accettando la soluzione proposta da costui, ossia che si tratti di
una cattiva trascrizione di qualche copista, egli salva l’esposizione
del De caelo dalla possibile accusa di essere erronea.
72
Concordo con Timpanaro Cardini (I Pitagorici, III, pp. 204-
205) nel ritenere improbabile che il riferimento sia ai «Pitagorici»
più recenti, tanto per la difficoltà di individuare chi potrebbero
mai essere, quanto – soprattutto – per la stranezza di ritenere che
essi avrebbero abbandonato la teoria pitagorica della luce per una
che non si vede in che cosa segni un progresso. Con la studiosa ri-
tengo perciò preferibile pensare che l’allusione sia agli Ionici, i
quali, a eccezione di Talete, ritenevano la luna dotata di luce pro-
pria.
73
Vissuto nel I sec. d.C. e autore di un Catalogo dei filosofi.
74
Si tratta con ogni probabilità del medesimo scritto citato da
Diog. Laert., I, 118 col titolo Su Pitagora e le sue dottrine (Peri#
PuqagÒrou kai# tw~n gnwri@mwn auètou^) (cfr. Timpanaro Cardini, I
Pitagorici, III, pp. 35-36)
75
I codici recano èAri@starcov (Aristarco), ma pare da preferir-
si la lezione èAristote@lhv, secondo la correzione proposta dal
Preller e accolta anche da Ross, sulla scorta di Thaeodoret, Graec.
affect. cur., I, 24, dove compare èAristote@lhv.
76
Così anche Herod., II, 51; Plat., Leg., 738 c.
SULLA FILOSOFIA
DEL TRATTATO DI ARCHITA

INTRODUZIONE

1. Lo scritto aristotelico in tre libri Sulla filosofia del trat-


tato di Archita (Peri# th^v èArcutei@ou filoso@fiav a,@ b @, g )@ è
indicato nel catalogo di Diogene Laerzio al n. 92 e compa-
re col titolo Peri# th^v èArcutei@ou filoso@fiav g @ al n. 83 del
catalogo dell’Anonimo. Come giustamente rileva Moraux
(Listes anciennes, p. 201), è impossibile distinguere la le-
zione corretta. Ancora lo studioso (Ivi, p. 106) fa presente
come non vi sia nulla di strano che Aristotele abbia scritto
una monografia sul pensiero di Archita, anche se al filoso-
fo pitagorico egli nelle opere che ci sono rimaste fa allu-
sione una sola volta. Del resto, l’attenzione dello Stagirita
per questo personaggio traspare dal fatto che sulle sue
dottrine, unitamente a quelle di Timeo, egli scrisse un’altra
opera, in un solo libro, riportata da Diogene Laerzio al n.
94 con il titolo ta# eèk tou^ Timai@ou kai# tqn ˆArcutei@wn a @)».1
Uno scritto che è con ogni verosimiglianza altro da quello
Sulla filosofia del trattato di Archita, se è vero che, secondo
quanto ancora Moraux (Ivi, p. 107) fondatamente ritiene,
al primo va riportata l’allusione di Simplicio (In Arist. De
caelo, 379, 14-17) a una su@noyiv hà eèpitomh# tou^ Timai@ou
composta da Aristotele. In tal senso, mentre lo scritto Sul-
la filosofia del trattato di Archita rappresenterebbe una
vera e propria disamina delle teorie del Pitagorico, ta# eèk
372 OPERE FILOSOFICHE

tou^ Timai@ou kai# tw^n èArcutei@wn non sarebbe che una sin-
tetica esposizione delle principali tesi di Timeo e Archita,
presentate sinotticamente attraverso citazioni dirette dal-
le loro opere. Donde, per l’appunto, il carattere di epitome
che compare nel titolo assieme a quello di su@noyiv. Va
inoltre ricordato che nel catalogo di Tolomeo, al n. 9, viene
indicato, in una lista comprendente dialoghi e altri scritti
di dubbia autenticità aristotelica (quelli che Baumstark
indica come scritti ipomnemonici), uno scritto intitolato
¿Arcu@tav.2

2. Ci si potrebbe chiedere perché mai lo Stagirita, già auto-


re di uno scritto Sui Pitagorici, abbia avvertito la necessità
di dedicare al pitagorico Archita uno scritto a parte. La ri-
sposta, in mancanza di una qualsiasi indicazione testuale
che la suffraghi in modo diretto sul piano documentario,
non può che essere congetturale, ma tuttavia, pur nell’am-
bito della congettura, molte considerazioni, benché indiret-
te, lasciano ragionevolmente credere che essa sia da cerca-
re nella forte personalità del soggetto, che le testimonianze
presentano in maniera univoca come individuo di alto pro-
filo, nella schiera dei Pitagorici, dal punto di vista scientifi-
co, etico e politico. Insomma, un soggetto che nell’amorfa
anonimia dei Pitagorici, i quali, com’è noto, in quanto costi-
tuenti una setta, non amavano avere risalto individuale, al-
meno agli inizi della scuola, si staglia per l’eccellenza che lo
connota sia come uomo di stato, sia come scienziato, sia co-
me figura etica.
A questa motivazione, che, comunque, già da sola sem-
bra bastare a fornire una risposta plausibile e convincen-
te, se ne affianca poi una seconda, la quale fa forza sulla
vicinanza tra Archita ed Aristotele circa il modo d’inten-
dere la costruzione del sapere, i riscontri empirici a cui
deve attenersi e il complessivo afflato di cui deve amman-
tarsi, come gli interpreti più accreditati hanno specifica-
SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA 373

mente messo in luce. Ond’è che all’alto apprezzamento


per lo scienziato, oltre che per il politico e la figura etica,
si univa con ogni probabilità in Aristotele anche una sorta
di simpatia personale per il personaggio. Mi riferisco al
fatto che, al pari di Aristotele e a differenza di Platone,
Archita rinunciava a dare al sapere un’intonazione misti-
ca e tale da non disgiungerlo dal senso del divino, dall’al-
legoria e dalla rivelazione; al contrario, Archita «era rivol-
to al mondo sensibile [...] e tutto preso dall’esigenza di
vedere le cose come sono, attraverso l’esperienza» (Tim-
panaro Cardini, Pitagorici, II, p. 263). E ancora: «ciò che
contraddistingue l’opera e il pensiero di Archita è [...] il
suo atteggiamento verso la realtà: egli la guarda con l’oc-
chio dello scienziato, non del metafisico [...] Quello che in
Archita sembra scomparso, è l’afflato mistico verso la ve-
rità, e lo sgomento e il segreto di cui si circondano verità
eterodosse, che potrebbero turbare e dare scandalo (gli
irrazionali, gl’incommensurabili). Questo sentimento che
pure ancora si trova in Platone, sembra assente da Archi-
ta; almeno non ve n’è traccia in quanto ci è rimasto. Egli
rivela una mentalità che diremmo aristotelica e archime-
dea» (Ivi, p. 267).
Prescindiamo dal giudizio sulla visione «metafisica»
della realtà e dalla sua identità o comunque dalla sua com-
plementarietà con la visione mistica di essa, come l’insigne
studiosa sembra lasciare intendere e che in questa sostan-
ziale equivalenza non pare condivisibile, tanto più se rife-
rita per antonomasia ad Aristotele, termine di riferimento
e di commisurazione, ad avviso della Timpanaro, della
stessa concezione della scienza di Archita. Al di là di que-
sta inaccettabile equivalenza è vero, invece e in ogni caso,
che la concezione della realtà di Archita non è metafisica,
in quanto il suo universo concettuale e categoriale è ante-
riore alla genesi storica del pensiero metafisico, ed è vero
che, senza essere metafisica, essa non è affatto ammantata
374 OPERE FILOSOFICHE

da aloni di mistero e da intuizioni allegoriche. Ed è vero


che in questa valenza la vicinanza con Aristotele salta agli
occhi.

3. Forse il miglior ritratto di Archita è stato tracciato nel


Suida (A 2 Timpanaro Cardini), schematico e lapidario,
ma attento a cogliere i momenti salienti della sua polie-
drica personalità di statista, di politico, di uomo stimato,
di scienziato di alta vaglia e di soggetto di forte senso
etico: «Archita di Taranto – vi si legge –, figlio di Estieo,
o di Mnesagete, o di Mnesagora, filosofo pitagorico. Co-
stui salvò Platone dalla morte minacciatagli dal tiranno
Dionisio. Fu a capo della confederazione italiota (scil.,
la lega italiota), essendo stato eletto con pieni poteri dai
concittadini e dai Greci dei paesi limitrofi. Poiché anche
insegnava filosofia, ebbe scolari illustri e scrisse molti
libri».
È subito bene chiarire l’episodio che lo vide in prima
persona nel sottrarre Platone alla pena capitale, cui fa rife-
rimento Suida, perché attesta il prestigio e l’autorevolezza
di cui Archita godette a livello internazionale – si direbbe
oggigiorno –, essendo stimato e accreditato a tal punto
presso Dionisio II di Siracusa da poter intervenire presso
di lui, che aveva condannato a morte il filosofo delle Idee,
e ottenerne la liberazione e il ritorno sano e salvo ad Ate-
ne. Si tratta dello sventurato, terzo e ultimo viaggio di Pla-
tone in Sicilia del 361 a.C.; del resto era stato proprio Ar-
chita – che aveva conosciuto Platone in occasione del suo
primo viaggio in Sicilia (390 a.C.), durante il quale si era
fermato a Taranto, e che per opera e mediazione dello stes-
so Platone, in occasione del secondo viaggio di costui in
Sicilia (366 a.C.), aveva potuto stringere rapporti con Dio-
nisio II di Siracusa – a sollecitare e incoraggiare Platone,
restio a intraprendere una terza avventura siciliana, riu-
scendo alla fine a vincere i suoi dubbi e farlo partire, come
SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA 375

si ricava anche dalla platonica Settima lettera (cfr. A 5 Tim-


panaro Cardini).

3.1 Della statura morale di Archita, dei sentimenti di


umanità e di rispetto per gli uomini, di chiunque si fosse
trattato, perfino dei servi e degli schiavi, nonché del rigi-
do controllo di sé e delle passioni, sono documenti elo-
quenti alcune testimonianze che è bene chiamare all’at-
tenzione.
Cicerone nel Cato maior (12, 39 = A 9 Timpanaro Cardi-
ni) mette in bocca a Catone il riassunto di un discorso di
Archita del quale l’Uticense dichiara d’avere avuto rag-
guagli quando, assieme a Quinto Massimo, si trovava a Ta-
ranto, la patria natale di Archita, nella quale questi rivestì
cariche politiche e militari (ne diremo subito appresso).
Ebbene, in quel discorso Archita condannava i piaceri fisi-
ci, e per converso lodava la sobrietà di vita e il controllo di
sé di fronte ai piaceri, sia sotto il profilo di un’etica perso-
nale che sotto quello di un’etica pubblica e della responsa-
bilità di fronte allo stato.3
Dell’umanità di Archita è testimonianza eloquente ciò
che Giamblico (V. P., 197 = A 7 Timpanaro Cardini) dice
a proposito del suo comportamento verso i famigli del
suo podere: tornato dalla spedizione militare dei Taranti-
ni contro i Messapi e recatosi nei suoi campi per control-
lare i raccolti, accortosi che né il fattore né i servitori
braccianti ne avevano avuto adeguata cura, «preso da ira
e sdegno, per quanto la sua natura lo consentiva, disse ai
servi che avevano avuto fortuna ch’egli fosse adirato con
loro; che se ciò non fosse avvenuto, non sarebbero rima-
sti impuniti per così grave mancanza». Insomma, una du-
ra sgridata verbale aveva tenuto il luogo di una severa
punizione.
È testimonianza, inoltre, l’atteggiamento che egli,
«uomo di stato e filosofo», come espressamente sottoli-
376 OPERE FILOSOFICHE

nea Eliano (V. H., XII, 15 = A 8 Timpanaro Cardini) per


accentuare il fatto, aveva verso i bambini dei suoi servi,
con i quali amava intrattenersi e scherzare, e con i fan-
ciulli in generale, cui donava la raganella (cfr. Suida = A
2 Timpanaro Cardini: «una specie di ordigno che produ-
ceva suono e rumore») perché potessero liberamente
giocare senza danneggiare le suppellettili di casa, nella
piena consapevolezza «che i giovani non possono stare
fermi» (Aristotele, Pol., VIII, 6, 1340 b 25 = A 10 Timpa-
naro Cardini).

3.2 Quanto alla sua attività di uomo politico, in campo di


politica militare, è sufficiente richiamare che per le sue
eccezionali qualità fu eletto per ben sette volte stratega,
in deroga alla stessa legge che proibiva a un cittadino di
essere nominato in questa carica più di una sola volta, e si
tramanda che non ebbe mai subito alcuna sconfitta. Sem-
pre legato alla politica militare, ma con chiare ricadute in
campo di politica civile, a lui si deve l’allestimento di una
potente flotta e di un altrettanto potente esercito con i
quali difendere, rispettivamente, gli interessi commerciali
di Taranto nel golfo e la città dalle possibili incursioni
delle popolazioni appenniniche. Il fatto si è che, com’è
stato ben rilevato, «Archita era un matematico insigne e
dotato di singolare attitudine alla meccanica; onde si può
supporre che creasse nella sua città una vera e propria
scuola di meccanica militare e provvedesse alla difesa
con macchine da guerra» (Timpanaro Cardini, Pitagorici,
II, p. 264).
Inoltre Archita esercitò un’importante opera di media-
zione politica in Taranto tra l’antica classe aristocratica,
legata a Sparta e in declino dopo la sconfitta nella guerra
contro gli Iapigi (471 a.C.) e la nuova classe emergente
dei mercanti, che vieppiù aveva acquistato importanza
grazie alle ricchezze accumulate con i commerci maritti-
SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA 377

mi. Ond’è che la conseguente instaurazione del governo


democratico in Taranto fu caratterizzata, grazie all’opera
di Archita, che a questo si adoperò in modo precipuo, rav-
visandovi la condizione necessaria per la stabilità politica
della città e, di conseguenza, della sua floridezza, da un
sostanziale equilibrio tra le classi. Tanto che Strabone (VI,
p. 280 = A 4 Timpanaro Cardini) ha potuto dire che «una
volta i Tarantini sotto un governo democratico ebbero
grandissima importanza, richiamando contestualmente il
lungo governo di Archita nella città. Né va passato sotto
silenzio il fatto che lo stesso Aristotele in Pol., 1320 b 9,
con una chiara allusione ai meriti politici di Archita, rico-
nosce espressamente che il governo democratico instau-
ratosi in Taranto, dove le cariche erano attribuite sia per
elezione, onde il suffragio venisse dato ai migliori, che per
sorteggio, onde tutti i cittadini vi potessero accedere, e
dove i poveri potevano godere dell’usufrutto dei beni de-
maniali, era senz’altro da imitare.

3.3 Ma la fama principale di Archita è legata anche agli oc-


chi di Aristotele alla sua attività di scienziato e di filosofo, e
in questo campo eccellono le sue qualità di matematico. In
realtà egli si applicò, e con notevole successo, in tutte le
branche della matematica prese in considerazione dai Pita-
gorici, vale a dire nell’aritmetica, nella geometria, nella mu-
sica e nell’astronomia.
In campo aritmetico mette conto ricordare che Archita,
opponendosi all’opinione allora prevalente tra i Pitagorici,
sostenne il primato dell’aritmetica sulla geometria, addu-
cendo come motivazione la capacità di questa disciplina sia
di dar conto anche di entità quali gli irrazionali e gli incom-
mensurabili, sia di fornire dimostrazioni anche là dove la
geometria non riesce.4
In campo geometrico l’invenzione di maggior spicco di
Archita è legata alla soluzione del problema di come in-
378 OPERE FILOSOFICHE

serire fra due grandezze due medie proporzionali in pro-


porzione continua. Un problema al quale Ippone di Chio
aveva ricondotto quello, classico, della duplicazione del
cubo (cfr. Ippone di Chio, test. 4 e 4a Timpanaro Cardini,
in Pitagorici, II, pp. 61 ss.) e al quale Eutocio di Ascalona,
il grande commentatore delle opere di Archimede e, più
tardi, delle Coniche di Apollonio, fiorito nella prima me-
tà del VI sec. d.C., dedicò ampio spazio, richiamando una
soluzione di Archimede da lui mai conosciuta e rico-
struendo invece con molta minuzia quella fornita da Ar-
chita, in un importante testo raccolto come fr. 14 da Tim-
panaro Cardini nel secondo volume dei Pitagorici (pp.
296 ss.).
In campo astronomico Archita s’impegnò in modo parti-
colare a riflettere sull’infinitezza del mondo (e, di conse-
guenza, della materia), asserita sulla base di un ragiona-
mento che suona nei termini seguenti: «se mi trovassi all’ul-
timo cielo, cioè quello delle stelle fisse, potrei stendere la
mano o la bacchetta al di là di quello, o no? Ch’io non pos-
sa, è assurdo; ma se la stendo, allora esisterà un di fuori, sia
corpo sia spazio (non fa differenza, come vedremo). Sem-
pre dunque si procederà allo stesso modo verso il termine
di volta in volta raggiunto, ripetendo la stessa domanda; e
se sempre vi sarà altro a cui possa tendere la bacchetta, è
chiaro che anche sarà infinito. E se è corpo, la proposizione
è dimostrata; se è spazio, spazio dicesi appunto quello in
cui un corpo è o potrebbe essere; ma nelle cose eterne ciò
che esiste in potenza deve essere posto come esistente;
dunque il corpo, anche lo spazio, sarà infinito» (Eudem., In
Arist. Phys., fr. 30 apud Simpl., In Arist. Phys., 467, 26 = A
24 Timpanaro Cardini).
In campo musicale e acustico i contributi di Archita si
segnalano, innanzitutto, per aver egli indicato nel movi-
mento e nell’urto le condizioni da cui si origina il suono, il
quale viene così riportato alla sfera della meccanica, senza
SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA 379

tuttavia perdere, per le prerogative che Archita non man-


ca di precisare e di cui subito diremo, la sua specificità di
fenomeno uditivo. Esso è dovuto, infatti, all’urto di un cor-
po contro un altro, o perché i corpi si muovono in direzioni
opposte, o perché si muovono nella medesima direzione,
ma con velocità diverse (cfr. Porph., In Ptol. Harm., p. 56
Düring = B 1 Timpanaro Cardini: «non può esserci rumore
senza che si produca un urto tra due cose tra loro. E l’urto
avviene [...] quando due cose in movimento battono l’una
contro l’altra. Quando dunque cose che si muovono da di-
rezioni opposte s’incontrano e si frenano a vicenda, oppu-
re quando, muovendosi nella medesima direzione, ma con
velocità diseguale sono raggiunte dalle sopraggiungenti,
allora urtandosi producono un rumore»). Si tratta di una
teoria che Aristotele fece propria, come appare dall’anali-
si di De an., II, 8, 419 b 9 ss., ma approfondendola attraver-
so il rilievo secondo cui il corpo percosso deve essere rigi-
do e liscio.
A partire da queste condizioni Archita deduceva le pro-
prietà tipiche del suono, e innanzitutto quella per la quale
la sua trasmissione nell’aria, per esempio la trasmissione
del suono di una corda che oscilla o di una verga che vibra,
è dovuto al fatto che l’aria stessa viene urtata dalla corda o
dalla verga.
Non soltanto, ma alla velocità del movimento, e dunque
alla forza dell’urto, nonché alla distanza a cui si produce
egli legava l’intensità del suono, e in rapporto all’intensità
determinava la possibilità del suono stesso di essere perce-
pito dall’orecchio umano, avvertendo che questo ha natura
tale da non poter cogliere un suono o troppo lieve o troppo
intenso. «Molti [...] rumori – prosegue Porfirio nel suo reso-
conto (B 1 Timpanaro Cardini) – non possono essere per-
cepiti dalla nostra natura, alcuni per la debolezza dell’urto,
altri per la grande distanza da noi; alcuni anche per l’ecces-
so stesso della loro intensità, giacché non penetrano nel
380 OPERE FILOSOFICHE

nostro orecchio i rumori troppo grandi, così come anche


nel collo stretto di un vaso quando vi si versi qualcosa in
massa, nulla vi entra».
Ancora è da rilevare la vicinanza di queste dottrine di
Archita della trasmissione e della percettibilità dei suoni a
quella aristotelica, la quale, quanto alla trasmissione, fa
espressamente riferimento alla necessità che anche il suo-
no, come del resto ogni altra sensazione, si produca non già
per diretto contatto del sentito col senziente, bensì attra-
verso un mezzo, che nel caso di specie è costituito dall’aria,
innanzitutto, ma anche dall’acqua (De an., II, 8, 420 a 12).
Quanto poi alla caratteristica dei suoni troppo lievi o trop-
po intensi da non essere percepiti, le tesi di Archita colli-
mano perfettamente, nella loro impostazione teorica e nei
loro assunti di fondo, con quelle dello Stagirita, il quale an-
che in virtù di una più raffinata conoscenza anatomica
dell’orecchio determina con più esattezza la fisiologia del
suono attraverso l’urto dell’aria esterna (il mezzo) sull’aria
interna all’orecchio, quella cioè contenuta congenitamente
nel labirinto, e di questa sul sensorio (il timpano) (De an.,
II, 8, 420 a 4 ss.); ond’è che, ove l’urto sia troppo violento, il
sensorio trae un danno che non permette la percezione; op-
pure, ove l’urto sia troppo lieve, il sensorio non ne è affetto
e dunque non percepisce (De an., II, 10, 422 a 25 ss.; 12, 424
a 28 ss.).
Il prosieguo del resoconto di Porfirio pone ulterior-
mente in chiaro l’impianto fondamentalmente meccanico
della teoria del suono elaborata da Archita e al tempo
stesso la sua vicinanza a quella aristotelica. Precisate le
condizioni di udibilità dei suoni, il Tarantino, sempre sul-
la base del movimento e dell’urto, ne determinava l’acu-
tezza e la gravità. «Quelli prodotti da urti rapidi e forti si
sentono acuti, quelli prodotti da urti lenti e deboli si sen-
tono gravi» (B 1 Timpanaro Cardini). Aristotele espli-
cherà, manifestando anche in proposito maggiore esat-
SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA 381

tezza nella descrizione del fenomeno, che i caratteri di


acutezza e di gravità dei suoni dipendono non solo
dall’intensità del movimento e dell’urto, ma anche dal
tempo: il suono acuto, dirà lo Stagirita, deriva da molto
movimento in poco tempo, quello grave da poco movi-
mento in molto tempo, in analogia con l’acutezza e l’ot-
tusità delle sensazioni tattili (420 a 28 ss.). Nella teoria di
Archita questa componente del tempo è certamente ri-
scontrabile come presente, per cui non si è in errore se si
dice che per il grande matematico le caratteristiche del
suono ora in oggetto erano date dal rapporto tra l’inten-
sità dell’urto e il tempo, ma – stando al resoconto di Por-
firio – la dimensione temporale è individuabile in modo
soltanto implicito, e cioè nel riferimento alla rapidità e
alla lentezza del movimento e dell’urto («urti rapidi»,
«urti lenti») – come del resto, a ben vedere, la stessa com-
ponente dell’intensità dell’urto medesimo, ossia della ve-
locità del movimento, è attestata solo implicitamente da-
gli aggettivi «forti» e «deboli».
Dalla testimonianza di Porfirio del modo in cui Archita
dimostrava la suddetta dottrina dell’acutezza e della gravi-
tà dei suoni risulta poi come essa non fosse formulata sol-
tanto sulla base di considerazioni puramente teoriche, ma
si appoggiasse anche sull’analisi di dati empirici ben evi-
denti, come appare dall’esplicito richiamo alle verghe agi-
tate nell’aria, ai flauti, all’emissione della voce nel parlare e
nel cantare, agli auli, ai rombi che si odono nelle cerimonie
misteriche, ai suoni emessi dalle canne quando vi si soffia
dentro. Insomma, la teorizzazione matematica veniva a de-
terminare concettualmente dei dati sperimentalmente ac-
certati e acquisiti.
Peraltro quest’impostazione di tipo meccanico-matema-
tico non era limitata soltanto allo studio dell’acustica, ma
abbracciava, in Archita, ogni campo del sapere, e in partico-
lare lo studio dei fenomeni naturali. «Nel moto naturale –
382 OPERE FILOSOFICHE

diceva Archita, secondo quanto si legge in Aristotele, Pro-


bl., 16, 9, 915 a 25 ss. = A 23a Timpanaro Cardini a proposito
della questione «perché le parti delle piante e degli anima-
li, che non compiono una funzione organica, sono tutte ar-
rotondate: delle piante il tronco e i rami, degli animali le
gambe, le cosce, le braccia, il torace; e invece, né il corpo
intero, né alcuna singola parte è a forma di triangolo o di
poligono» – è insito il rapporto di parità (ché tutto si muo-
ve secondo rapporto), e questo rapporto è il solo che ritor-
na su se stesso, cosicché, quando ha luogo, crea cerchi e su-
perfici rotonde».
Mette conto, da ultimo, richiamare come la scienza ma-
tematica sia stata coltivata da Archita anche in quella
branca di essa costituita dalla musica. E che tale fosse
considerata la musica è ben evidente dal ritenere i Pitago-
rici e, in specie, Archita che le armonie «consistono in rap-
porti numerici», e più precisamente in rapporti numerici
tra movimenti veloci, che danno luogo a suoni acuti, e
movimenti lenti, che danno luogo a suoni gravi (Theo
Smyrn., p. 61, 11 Hill = A 18b Timpanaro Cardini). Ebbe-
ne, su base matematica Archita pose mano alla costruzio-
ne di una teoria delle armonie che prevedeva tre gamme
musicali e il reperimento di nuovi intervalli (se ne veda
l’esposizione in Ptolem., Harm., I, 13, p. 30, 9 Dür. = A 16
Timpanaro Cardini).
Anche il linguaggio, in quanto costituito di suoni, dotati di
un ritmo e convergenti nel definire uno stile, era riportato da
Archita alla musica in quanto teoria di essi e dunque, in ulti-
ma analisi, alla matematica; e – si badi – stando alla testimo-
nianza di Quintiliano (I, 10, 17 = A 19a Timpanaro Cardni)
non il linguaggio poetico, con riferimento alla musicalità dei
versi, bensì il linguaggio in quanto tale. Alla musica, infatti,
dice Quintiliano, egli riteneva soggetta (subiectam) «la
grammatica (grammaticem)», ossia la teoria dei suoni lin-
guistici. Certo, il linguaggio poetico lo era a maggior titolo,
SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA 383

aggiungendo all’essere costituito su base grammaticale la


musicalità del verso. Ond’è che si riporta alla musica per
due ragioni. Ma ciò che qui è innanzitutto interessante è
specificato dal primo motivo.
Ebbene, di fronte a una personalità di tanto e tale spes-
sore dottrinale, rispetto alle cui teorie acustiche Aristotele
non poteva non riscontrare una sostanziale somiglianza
d’impianto con quelle da lui medesimo professate, è com-
prensibile che lo Stagirita abbia avvertito un particolare
fascino, tale da giustificare la dedicazione ad Archita di uno
scritto a parte nel quadro complessivo dell’esposizione dei
Pitagorici.

4. 1 Dei due frammenti che Ross attribuisce ad Archita,


ritengo che il primo, nel quale pur tuttavia non si fa men-
zione del Tarantino, ma di Timeo di Locri e che per questo
Timpanaro Cardini non riferisce al nostro, sibbene al se-
condo personaggio, sia comunque attinente ad Archita. Il
punto sul quale occorre fissare soprattutto l’attenzione mi
sembra essere il richiamo che «Aristotele conosceva que-
ste cose», ossia queste tesi, o queste teorie, fatto in un
contesto dove è a tema la generabilità del mondo, in virtù
della sua natura sensibile. Ora, se si pone mente a che tra
le ragioni che inducono a credere all’esistenza dell’infini-
to lo Stagirita annovera la difficoltà di concepire il limite
(cfr. Phys., III, 1, 203 b 21-23: «ciò che è limitato sempre
ha un limite in rapporto a qualcosa; per cui è necessario
che niente sia limite, se, di necessità, sempre una cosa ha
un limite in rapporto a un’altra») e, «soprattutto e in sen-
so principale», il fatto che «per l’impossibilità per il pen-
siero di sopprimere l’infinito» si ritengono infiniti non
soltanto i numeri e le grandezze geometriche, ma anche
«ciò che è fuori del cielo», ossia lo spazio che si estende
fuori del primo cielo, o cielo delle stelle fisse (Ivi, 23-25), e
che proprio Archita, come abbiamo segnalato, sosteneva
384 OPERE FILOSOFICHE

l’impossibilità di concepire un limite dell’universo e la fi-


nitudine del cielo, ben ci si avvede che il riferimento alle
«cose che Aristotele conosceva», posto in premessa alla
teoria platonica della generabilità, ossia alla finitudine,
del mondo, può ragionevolmente essere il riferimento alle
tesi e alle teorie secondo cui l’universo è infinito; tra le
quali teorie primeggiava quella di Archita, filosofo che,
come abbiamo illustrato, non poteva non suscitare l’inte-
resse di Aristotele e con le cui dottrine Aristotele stesso si
confrontava, in positivo e in negativo, per formulare e
comprovare le proprie.
Ecco pertanto che il frammento è – a me sembra – mol-
to plausibilmente riferibile ad Archita, come per l’appun-
to ha ben visto Ross, e il suo senso complessivo è il se-
guente: Aristotele – attesta Simplicio nel commento al De
caelo –, che ben conosceva le teorie sull’infinitezza del
mondo e, tra esse, in primis, quella di Archita, ha per con-
tro preso in considerazione la tesi platonica secondo cui il
mondo è generato e, dunque, è finito, riassumendo in tal
senso i contenuti del Timeo. Istanza, quest’ultima, che tro-
va conferma nella notizia di Diogene Laerzio (V, 25 =
Timpanaro Cardini, Timeo, A 2; Pitagorici, II, pp. 404 s.) il
quale al n. 94 del catalogo degli scritti di Aristotele ripor-
ta un’opera, in un libro, intitolata Dottrine dal Timeo e dai
libri di Archita (ta# eèk tou^ Timai@ou kai# tw^n èArcutei@wn a/).
Titolo che – fa osservare Timpanaro Cardini (Ivi) – «si ri-
ferisce evidentemente a due opere: il Timeo platonico e i
libri di Archita», contrariamente al titolo dell’opera dello
Stagirita, sempre in un libro, indicata al n. 85 del catalogo
di Esichio (e riportata nella medesima testimonianza):
Dalle dottrine di Timeo e di Archita (eèk tw^n Timai@ou kai#
èArcu@tou a/). Qui, infatti, commenta Timpanaro Cardini
(Ivi), il riferimento «sembra piuttosto essere ai due autori:
Timeo e Archita».
All’esegesi che si è proposta potrebbe essere opposto
SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA 385

che la finitudine del mondo asserita da Platone nel Timeo,


le cui tesi Aristotele riassunse, è una finitudine nel tempo:
in un certo momento il Demiurgo, plasmando la cw@ra se-
condo il modello delle Idee e secondo rapporti matematici,
ha dato origine al mondo; laddove l’infinitudine del mondo
asserita e provata da Archita nel modo che abbiamo visto è
chiaramente di tipo spaziale.
Ma il rilievo, peraltro assai pertinente in senso assoluto,
specificato in riferimento ad Aristotele non sembra scalfi-
re l’interpretazione avanzata. Ché, ove si pensi che per
Aristotele – giacché a lui occorre riportarsi, in quanto è lui
che nella testimonianza di Simplicio poneva comparativa-
mente assieme la tesi platonica della finitudine del mondo
con quella di Archita della sua infinitezza – l’infinito, in
quanto luogo senza corpo, è al tempo stesso sia temporale
che spaziale e che, per converso, stante l’inesistenza dell’in-
finito come entità in atto, sarebbe impensabile che qualco-
sa avesse origine nello spazio ma non nel tempo, perché
ciò significherebbe ammettere che il tempo è attualmente
infinito, e ancor più impensabile sarebbe che qualcosa
avesse avuto origine nel tempo ma non nello spazio, per-
ché ciò comporterebbe l’assurdo di ammettere l’esistenza
di uno spazio, ossia di un luogo, infinito; posto, di conse-
guenza, che l’origine, ossia la finitezza nel tempo comporta
eo ipso anche la finitezza nello spazio, è chiaro che l’obie-
zione viene meno in quanto propone di distinguere un in-
distinguibile.

4.2 Se la sensibilità, legata com’è alla materia, è additata


nel primo frammento come condizione della generabilità
degli enti che ne sono affetti, di contro all’ingenerabilità
quale prerogativa di ciò che è immateriale (ciò che è sensi-
bile e, dunque, materiale è soggetto a generazione, di con-
tro alle Idee, che sono di natura intelligibile, ossia immate-
riale, e come tali sono ingenerabili), nel secondo frammen-
386 OPERE FILOSOFICHE

to la sensibilità nel suo legame con la materia è indicata


come sintomo di mutevolezza. Tra le due determinazioni
cui la sensibilità è riferita, ossia la generabilità e la mutevo-
lezza, sussiste ovviamente uno stretto legame concettuale,
giacché ciò che muta, ove il mutamento sia assunto nel sen-
so – aristotelicamente – più radicale, si genera e si corrom-
pe. Ciò tuttavia non toglie che si tratti di due determinazio-
ni concettuali distinte: tanto nel contesto aristotelico quan-
to in quello platonico, nel quale i due frammenti qui a tema
si collocano. E in entrambi il momento platonico è posto a
confronto con quello pitagorico, in generale, e di Archita,
in particolare. Ond’è che sotto questo profilo tra i due
frammenti sussiste una strutturale compattezza.
Nel secondo la scansione concettuale è la seguente:
Platone indica come «altre cose (ta# aòlla)» gli enti sensi-
bili, che sono materiali, e la materia stessa. Il termine in
riferimento a cui dà loro questa denominazione sono le
Idee, le quali hanno natura non già materiale, bensì intel-
ligibile.
Ma anche Pitagora, secondo quanto Aristotele riferisce
nello scritto Su Archita, qualificava le cose come «altre (¥l-
la)», cosicché questa di rivolgersi a esse con tale qualifica-
zione è consuetudine (sunh@qeia) comune all’uno e all’altro
filosofo; ma la motivazione per cui Pitagora le chiamava
così è diversa – ancorché concettualmente connessa – da
quella per la quale così le indicava Platone. Questi, abbia-
mo detto, usava per esse tale appellativo in quanto «altre»
rispetto alle Idee; Pitagora invece le chiamava «altre» in
riferimento al loro mutare, ossia diventare altre, di contro
all’immutabilità dei loro costituenti numerici, che per lui
costruivano l’aèrch@. Insomma, l’«alterità» delle cose è, per
Platone, relativa alla loro materialità e alla loro sensibilità,
di contro all’intelligibilità delle Idee, laddove per Pitagora
le cose sono «altre» in quanto mutevoli, permanendo inve-
ce i fondamenti di esse, ossia i numeri.
SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA 387

Benché l’identica qualificazione si appoggi, in Platone e


in Pitagora, a determinazioni concettuali diverse, tra esse
sussiste – si diceva – un legame strutturale. Ché, le stesse
cose empiriche, sensibili e materiali di Platone, in quanto
«altre» dall’immutabilità delle Idee, sono soggette a muta-
mento, come per l’appunto sono «altre», perché divenienti,
le cose nella prospettiva di Pitagora.
FRAGMENTA
FRAMMENTI

1 (R3 206)5

Simpl. In Arist. de caelo, p. 296, 16-18: Aristotele conosceva,


dunque, queste cose. Il fatto si è che, riassumendo il Timeo di
Platone, scrive: «<Platone> dice che <il mondo> è generabi-
le, giacché è sensibile; e ipotizza che ciò che è sensibile sia
generabile, mentre ciò che è intelligibile sia ingenerabile».

2 (R2 201, R3 207)6

Damasc., Pr., II, 172, 16-22 (Ruelle): pertanto è meglio ri-


manere saldi nella sua definizione, secondo la consuetudi-
ne pitagorica e quella dello stesso Platone, pensando che
«altre» siano le cose materiali e la stessa materia. Infatti,
nel Fedone le chiama così, «le altre cose»,7 dicendo che, ri-
spetto alle Idee, le cose sensibili sono altre. E Aristotele nel
trattato Su Archita racconta che anche Pitagora chiamava
la materia «altra cosa»,8 in quanto scorrevole e sempre di-
veniente altro.9 Di conseguenza, anche Platone è chiaro
quando definisce così le altre cose.
390 OPERE FILOSOFICHE

Note
1
Sulla connessione in Aristotele tra le dottrine del pitagorico
Timeo e quelle del pitagorico Archita cfr. supra, pp. 383 ss.
2
Moraux (Listes anciennes, p. 301), affiancando nel suo giudi-
zio questo scritto a quello Sui Pitagorici indicato al n. 18, 2° parte
del catalogo di Tolomeo, ritiene che si tratti di opere che, a torto o
a ragione, la pinacografia ha considerato essoteriche. Al tempo di
Tolomeo i dialoghi e le altre opere aristoteliche pubblicate tende-
vano a sparire dalla circolazione a vantaggio dei trattati di scuola.
L’attenzione di Tolomeo si rivolgeva primariamente a questi se-
condi, diversamente da Aristone, che s’interessava invece soprat-
tutto delle prime.
3
Ecco le precise parole di Cicerone: «nessun malanno più rovi-
noso la natura ha dato agli uomini del piacere corporeo, perché gli
appetiti, avidi di esso, spingono gli uomini a procurarselo senza
discernimento né freno. Da qui, diceva, nascono i tradimenti della
patria, da qui i sovvertimenti degli stati, da qui i colloqui clandesti-
ni coi nemici; non c’è, insomma, nessun delitto, non c’è mala azio-
ne al cui compimento non spinga la libidine del piacere. E, invero,
stupri, adulteri e ogni altro cotal malanno da nessun’altra lusinga
son provocati se non da quella del piacere. E mentre all’uomo è
stato dato, sia dalla natura, sia da qualche dio, un bene che non ha
l’uguale: la mente, a questo privilegio e dono nulla è tanto nemico
quanto il piacere. Né infatti, finché domina la libidine, c’è luogo a
temperanza, né in alcun luogo nel regno della volontà può dimo-
rar la virtù. E perché ciò potesse essere meglio compreso, egli con-
sigliava di immaginare un uomo in preda al massimo eccitamento
sensibile che si possa provare: nessuno, egli credeva, poteva essere
in dubbio che costui, finché godeva in tal modo, potesse intendere,
o ragionare, o pensare alcunché. Donde concludeva nulla essere
tanto detestabile e funesto quanto il piacere; che se mai fosse trop-
po intenso e prolungato, estinguerebbe ogni luce dell’anima».
4
Cfr. Stobeo, I, pr., p. 18, 8 Wachsmuth = B 4 Timpanaro Cardi-
ni: «la scienza del calcolo sembra avere, in rapporto alla sapienza,
una netta superiorità sulle altre discipline; poiché anche più effica-
cemente della geometria riesce a trattare ciò che vuole e dove la
geometria a sua volta si dà per vinta, la scienza del calcolo ne sa
fornire anche la dimostrazione, ed egualmente riguardo alle for-
me, ove si possa dare delle forme una qualche dimostrazione
scientifica».
5
Il passo da «Il fatto si è che» fino alla fine è accolto da Timpa-
naro Cardini, Pitagorici, II, pp. 404 s. come testimonianza n. 2b su
Timeo.
SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA 391

6
Il passo da «E Aristotele» alla fine è accolto da Timpanaro
Cardini, Pitagorici, II, pp.294 s. come testimonianza n. 13b su Ar-
chita.
7
Cfr. Phaed., 83 b.
8
Come ha indicato Zeller (Zeller-Mondolfo, II, p. 463, nota n.
2), che per questo riteneva inattendibile la notizia data da Dama-
scio, il riferimento ad Aristotele riguarderebbe Metaph., 1087 b 26,
dove lo Stagirita afferma che alcuni filosofi contrapponevano
all’uno (eçn) il diverso (eçteron) e l’altro (¥llo) come principio ma-
teriale. Notizia che lo Ps. Alessandro, ad loc. riferisce arbitraria-
mente ai Pitagorici, traendo così in errore Damascio. Ma, come ha
osservato Timpanaro Cardini (Pitagorici, II, p. 294), «il riferimen-
to del commentatore ai Pitagorici è in parte spiegabile, perché la
polemica di Aristotele 1087 b 26 non ha un bersaglio univoco, e
qualche allusione non è chiara».
9
Ad avviso di Timpanaro Cardini (Pitagorici, II, p. 295) il con-
cetto di aòllo come ciò che è sempre mutevole si può rintracciare
anche prima di Platone, e precisamente in Eraclito, il cui pensiero
sull’eterno divenire delle cose costituisce in un certo qual senso
l’ambito dove questo specifico motivo si pone. Ora, in questo mo-
tivo stesso della mutevolezza dell’aòllo si potrebbe individuare
addirittura l’origine storica e teorica di «quella dottrina che face-
va generare da un punto scorrente la linea, dalla linea scorrente la
superficie, da questa scorrente il solido (cfr. Erone, def. 2; Simpl.,
Phys., p. 722, 28; Procl., in Eucl., p. 97, 6)». Una dottrina che, relati-
vamente alla generazione della linea e della superficie, rispettiva-
mente, dal punto e dalla linea stessa, è attestata anche da Aristote-
le in De an., 409 a 4 con un generico «fasi@». Come soggetto del
quale, Sesto Empirico, Adv. Math., X, 281 indica in modo esplicito
i Pitagorici.
SU DEMOCRITO

INTRODUZIONE

1. Lo scritto col titolo Su Democrito (Peri# Demokri@tou) non


compare nel catalogo di Diogene Laerzio, che invece reca
al n. 124 uno scritto intitolato Problemi derivanti dalle ope-
re di Democrito (Problh@mata eèk tw^n Dhmokri@tou), in due
o in cinque libri,1 e al n. 154 un altro dal titolo Contro De-
mocrito (Pro#v Dhmo@kriton).

2. Nell’unico frammento riportato da Ross è innanzitutto


da fissare l’attenzione sulle parole con le quali Alessan-
dro, secondo quanto riferisce Simplicio, presenta il pen-
siero di Aristotele su Democrito. Esse sintetizzano quella
che può a buon diritto considerarsi la cifra complessiva
dell’ontologia dell’Abderita: il nascere e il perire delle
cose intramondane non è che l’aggregarsi e il disgregarsi
di enti che né nascono né muoiono, ma eternamente so-
no. Tale intuizione fondamentale, che sta al fondo del
pensiero dei Pluralisti, in generale, e degli Atomisti, in
specie, in riferimento a questi secondi e, in particolare, a
Dmocrito, si carica per Aristotele di una contraddizione,
resa ancor più acuta dal confronto tra il suo delinearsi
nel sistema filosofico democriteo e in quello di Empedo-
cle, un altro Pluralista, ritenuto tale dallo stesso Stagirita,
394 OPERE FILOSOFICHE

che tuttavia qui lo allinea a Eraclito, emblematico soste-


nitore dell’opposta intuizione dei Monisti. Ma vediamo
nel dettaglio.
Va subito fatto presente che Aristotele formula il suo
giudizio – e così Alessandro e Simplicio lo presentano –
entro un quadro teorico complessivo segnato da nozioni
derivate dalla propria dottrina fisica. Tali, espressamente,
le nozioni di «alterazione» (aè l loi@ w siv) e «alterarsi»
(aèlloiou^sqai), contrapposte a quelle di «generazione e
corruzione» (ge@nesiv kai# fqora@), in parallelo con le corri-
spondenti azioni del «generarsi» e del «corrompersi» (gi@-
gnesqai kai# qfei@resqai). È noto che per Aristotele gene-
razione e corruzione, generarsi e corrompersi sono muta-
menti (metabolai@) nei quali ne va del sostrato, mentre
l’alterazione è quel movimento (ki@nhsiv) nel quale il so-
strato permane, cambiando invece le sue affezioni quali-
tative.2

2.1 Su questa base e alla luce di questi concetti si compren-


dono le parole iniziali del commento di Alessandro riferito
da Simplicio, le quali rappresentano un primo livello di
considerazioni: ai filosofi che sostengono che «il tutto tal-
volta è in uno stato e talvolta in un altro» va ascritta una
concezione per la quale esso si altera piuttosto che gene-
rarsi e corrompersi, mentre di generazione e di corruzione
in senso proprio occorre parlare a proposito di quei pensa-
tori, emblematicamente rappresentati da Democritio, per i
quali i mondi, al pari delle singole cose, sono composti di
enti che in se stessi né si generano né si corrompono, ma
permangono, formandosi dalla loro aggregazione e dissol-
vendosi per la loro disgregazione. Insomma, la generazione
sia dei mondi che delle singole cose coincide con l’aggrega-
zione di tali enti (in Democrito, degli atomi) e la corruzio-
ne con la loro disgregazione.
SU DEMOCRITO 395

Non vi è dubbio che la contrapposizione sia tra l’intui-


zione dei pensatori monisti e quella dei pensatori plurali-
sti, di cui l’Abderita è l’espressine più rappresentativa.
Entrambi considerati da Aristotele come «fisici» (fusi-
koi@) o «fisiologi» (fusiologikoi@) per aver fatto coincidere
la totalità dell’esistente con la «natura» (fu@siv), vale a
dire con una realtà in divenire, caratterizzata dall’avere
in sé il principio del movimento e della quiete, e nondi-
meno come «filosofi», perché, in forza di questa identifi-
cazione, parlando della «natura» parlarono per ciò stesso
del tutto, e l’occuparsi di questo segna la cifra della filo-
sofia,3 essi sono, sì, accomunati dall’intuizione che il tutto
è soggetto a perenne divenire, ma si differenziano per il
modo in cui danno forma dottrinale a tale intuizione,
concependo il perenne divenire stesso del tutto secondo
scansioni diverse.

2.1.1 Per i Monisti, il tutto è quell’elemento primordiale


o aè r ch@ (come l’acqua, o il fuoco, o l’aria, o l’apeiron)
che, trasformandosi, dà origine alle cose e le riassorbe in
sé al tempo della loro dissoluzione. Il loro nascere e il
loro perire coincidono con le trasformazioni dell’ele-
mento primordiale e sono, propriamente, «stati» in cui
via via questo, inteso come sostanza/sostrato, si trasfor-
ma. L’elemento primordiale, infatti, per il fatto di non
scadere nel nulla lungo il corso delle sue eterne trasfor-
mazioni, vale a dire di permanere, e di esistere in sé, è
ricondotto da Aristotele alla «propria» nozione della so-
stanza, e gli «stati» che esso assume nel suo divenire
esprimono determinazioni di ordine qualitativo, diverse
l’una dall’altra, di quella (unica) sostanza. Che si tratti di
determinazioni di ordine qualitativo è chiaro dal fatto
che l’elemento primordiale, ossia la sostanza, divenendo,
si trasforma in questo fiore, in questa pietra, in quest’ani-
396 OPERE FILOSOFICHE

male, ecc., e ciascuno di questi enti esprime uno «stato»


dell’eterno trasformarsi dell’unica sostanza diverso qua-
litativamente dall’altro.
E poiché il mondo è la totalità delle cose, del loro na-
scere e del loro perire, ed esse sono stati qualitativamente
diversi assunti dall’unica sostanza nel suo eterno divenire,
vige allora che il mondo, coincidendo con l’essere della
sostanza «talvolta in uno stato e talvolta in un altro», non
è che l’alterarsi di questa e le cose stesse non sono che
alterazioni dell’elemento primordiale pensato come so-
stanza.
A questo livello non si può parlare di generazione e di
corruzione, perché esse, come abbiamo visto, comportano il
mutamento della sostanza, mentre nella situazione rappre-
sentata non è questa a mutare, ma mutano le sue determi-
nazioni qualitative. Per questo stesso motivo bisogna, inve-
ce, parlare di alterazione (aèlloi@wsiv), essendo propria-
mente questa il movimento (ki@nhsiv) nel quale la sostanza
permane e a divenire è la qualità.

2.1.2 Per contro, si può parlare di generazione e corruzio-


ne a proposito della concezione di Democrito e, in genera-
le, dei Pluralisti. Ciò che giustifica questa considerazione è
il fatto che nel movimento degli atomi (così come degli
omeomeri di Anassagora e delle quattro radici di Empe-
docle) ne va, almeno in un certo senso, della sostanza degli
enti, e dunque dei mondi come insieme di enti e aggrega-
zioni di atomi. In un certo senso, s’è detto (ed è il senso
che sorregge le considerazioni di Aristotele a questo pri-
mo livello), considerando cioè come sostanza l’aggregato e
non già i singoli atomi di cui esso è formato. È questo un
primo, basilare livello sul quale è lecito considerare, nei
termini aristotelici, la sostanza delle cose nella concezione
democritea. Ed è una considerazione ampiamente provvi-
SU DEMOCRITO 397

sta di plausibilità, giacché le cose e i mondi sono «sostan-


zialmente» aggregati di atomi e non già semplicemente
atomi. Gli atomi da soli, infatti, non costituiscono ancora
le cose e i mondi, ma ciò che li definisce nella loro «sostan-
zialità», vale a dire nel loro essere in sé, è, per l’appunto,
l’aggregazione degli atomi.
È interessante notare la contrapposizione, carica di va-
lore sintomatico e pregnante, tra «il tutto» che «talvolta è
in uno stato e talvolta in un altro», e in queste fattezze
incentra su di sé il nucleo speculativo della prima conce-
zione, e gli «infiniti mondi» che campeggiano nella secon-
da. «Il tutto», infatti, chiama in causa una pluralità unifi-
cata, ossia un’unità, espressa, nella situazione in oggetto,
dall’unico elemento primordiale; donde la plausibilità di
attribuire la corrispondente concezione del nascere e del
perire delle cose all’ipotesi monistica. Per contro, gli «infi-
niti mondi» alludono già in se stessi a una visione del na-
scere e del perire che non s’attaglia all’ipotesi monistica,
giacché la supposizione che quei processi diano vita a una
pluralità infinita di mondi e al tempo stesso consistano
nel trasformarsi di un’unica sostanza originaria sarebbe
chiaramente stonata, ma fa riferimento all’idea che gli
elementi primordiali sono molti.

2.2 A un secondo, più approfondito livello, però, la stessa


concezione pluralista, in genere, e quella di Democrito,
in specie, del formarsi e del dissolversi dei mondi presen-
ta caratteristiche strutturali per cui non è possibile parla-
re di generazione e corruzione, ma anche a proposito di
essa occorre parlare di alterazione. È una tesi che Aristo-
tele fa valere come critica all’Abderita e ai Pluralisti. Nel
sistema del primo, i termini dell’opposizione sono lam-
panti. In effetti, ciò di cui in ultima analisi sono costituite
le cose e i mondi sono gli atomi, ed essi ne rappresentano
398 OPERE FILOSOFICHE

la vera sostanza, giacché non si generano né si corrom-


pono, ma permangono, e il loro aggregarsi e disgregarsi
sono affezioni locative di queste «sostanze». Le uniche
affezioni cui siano soggetti. E poiché, com’è noto, le dif-
ferenze qualitative delle cose sono dovute, per Democri-
to, all’aggregarsi degli atomi di forma geometrica diver-
sa, e nell’aggregarsi e nel disgregarsi degli atomi consi-
stono la formazione e la dissoluzione dei mondi, anche
nella concezione democritea la formazione di essi corri-
sponde a un’alterazione, e parimenti a un’alterazione
corrisponde la loro dissoluzione, in quanto si tratta di
processi che vedono in causa il mutare non già delle «so-
stanze» (gli atomi), che in se stesse permangono, bensì
delle loro affezioni locative, ossia del loro occupare que-
sta o quella posizione nel vuoto. L’alterazione, ovvia-
mente, non concerne gli atomi, non sono cioè questi ad
alterarsi (diversamente dalla sostanza primordiale
nell’ipotesi monistica), bensì quei loro aggregati che so-
no le cose e dunque i mondi. È esattamente quanto atte-
sta Simplicio, riferendo, attraverso il commento di Ales-
sandro, il pensiero di Aristotele, ed è quanto lo Stagirita
direttamente afferma in un celebre passo della Metafisi-
ca nel quale mette in chiaro che la causa ricercata dai
Naturalisti presocratici è la causa materiale. Per provar-
lo, infatti, così scrive Aristotele:

la stragrande maggioranza dei primi che filosofarono riten-


ne che principi di tutte le cose fossero soltanto quelli nella
forma della materia. Infatti, ciò da cui tutti gli enti derivano,
ossia la cosa prima dalla quale vengono all’essere e nella
quale alla fine si corrompono, permanendo la sostanza ma
mutando nelle sue affezioni, questa sostengono essere ele-
mento e questa essere principio degli enti, e per questo ri-
tengono che niente né si generi né si distrugga, nella convin-
SU DEMOCRITO 399

zione che una tale natura si salvi sempre: come neppure di-
ciamo che Socrate né viene totalmente all’essere quando
diventi bello o musico, né si distrugge quando muti questi
stati, per il fatto che permane il sostrato, ossia Socrate stes-
so, così neppure alcuno degli altri <enti>. Infatti, esiste sem-
pre una certa natura, o una sola o più di una, dalla quale
vengono all’essere gli altri <enti>, mentre essa si salva. 4
(Metaph., I, 3, 983 b 6-18)

Come ho cercato di mostrare nel commento all’edizione


della Metafisica da me redatto (cfr. Zanatta, Metafisica, I,
pp. 387 s.), qui, contrariamente a quanto a tutta prima po-
trebbe sembrare, Aristotele non si riferisce soltanto ai
Monisti, ma ai Naturalisti presocratici (ai fisici o fisiologi)
nel loro complesso, e dunque anche ai Pluralisti. Che l’al-
lusione sia ai Monisti, è del tutto evidente e non c’è neces-
sità di provare il riferimento.5 Che essa si estenda anche ai
Pluralisti appare dal fatto che nell’ipotesi di questi pensa-
tori, e nel caso di specie di Democrito, le affezioni concer-
nenti il mutare degli atomi in quanto sostanze primordiali
di ordine materiale sono quelle locali: gli atomi, infatti,
non si trasformano, ma permangono saldi in se stessi, e il
solo divenire cui sottostanno è quello di aggregazione e di
disgregazione, ossia il mutamento locale. E poiché gli ato-
mi hanno forme geometriche diverse e le qualità delle co-
se e dunque, in ultima analisi, dei mondi dipende dall’ag-
gregarsi degli atomi, ecco pertanto che anche nell’ipotesi
democritea il nascere e il perire corrispondono a processi
di alterazione. Le cose, infatti, mutano nelle loro qualità
pur permanendo la loro «sostanza» atomica di cui sono
costituite.

2.3 Un ultimo aspetto su cui occorre soffermarsi concer-


ne l’assimilazione di Empedocle a Eraclito nell’aver in-
400 OPERE FILOSOFICHE

terpretato la formazione e la dissoluzione dei mondi in


termini di alterazione e non già di generazione e corru-
zione. Si tratta di un’assimilazione che a tutta prima suo-
na per lo meno strana, in quanto pone sullo stesso piano
una concezione monistica dell’elemento primordiale,
qual è quella dell’Efesio, e una concezione pluralistica,
quale quella dell’Agrigentino. Le quattro radici, infatti,
in quanto aèrcai@ sarebbe congruo intendere che perman-
gano ciascuna in se stessa e l’unico movimento a cui so-
no soggette sia quello locale, necessario per la loro ag-
gregazione e disgregazione. Per questo, la condizione
che regola il formarsi e il distruggersi del tutto nell’otti-
ca empedoclea delle quattro radici appare del tutto dif-
ferente da quella del fuoco eracliteo, che si trasforma,
invece, in aria, in terra e persino nell’acqua, il suo con-
trario. Ond’è che, se a proposito di quest’ultima l’invoca-
re il processo di alterazione della sostanza primordiale è
pienamente congruo e comprensibile – il fuoco, infatti,
permane nelle trasformazioni sopraddette, giacché aria,
terra e acqua non sono «sostanze», ossia in sé, ma «stati»
(eçxeiv) che esso di volta in volta assume, ossia sue affe-
zioni, e sue affezioni di ordine chiaramente qualitativo –,
l’invocarlo anche a proposito delle prime è alquanto
strano.
Ma alla luce di quanto Aristotele afferma in Metaph., I,
8, 889 a 22 ss., dove obietta a Empedocle aver inopportuna-
mente indicato nella quattro radici il fondamento, giacché
questo permane in se stesso,6 mentre quelle si mutano l’una
nell’altra, ciò si avvede della vicinanza, agli occhi dello Sta-
girita, della posizione di questo pensatore con quella
dell’Efesio.
Si tratta soltanto di rendersi conto della prospettiva
da cui muove Aristotele: non certamente quella di rico-
struire il pensiero di Empedocle per quello che egli «ha
SU DEMOCRITO 401

veramente detto», sibbene, anche in questa circostanza,


quella di far emergere «la verità di ciò che ha detto». In
questa prospettiva e da questo punto di vista non soltan-
to l’assimilazione di Empedocle a Eraclito, ma altresì
l’assimilazione della posizione di questi due pensatori a
quella di Democrito assumono un rilievo del tutto pri-
mario.
FRAGMENTA
FRAMMENTI

1 (R2 202, R3 208)

Simpl., In Arist. De Caelo, p. 294, 23 – 295, 26: anche questo


aggiunge Alessandro, e cioè che coloro che sostengono che
il tutto talvolta è in uno stato e talvolta in un altro, parlano
di un’alterazione del tutto più che di una sua generazione e
corruzione;7 invece – egli dice – coloro che sostengono che
il mondo è corruttibile come qualunque altro tra i compo-
sti, saranno i seguaci di Democrito.8 In effetti, come, a loro
avviso, ciascuna delle altre cose si genera e si corrompe, eb-
bene, così anche ciascuno degli infiniti mondi. E come nel
caso delle altre cose ciò che nasce non è identico a ciò che si
corrompe se non, dunque, per la specie, così dicono anche
per i mondi.9 Ma se gli atomi permangono identici, essendo
impassibili,10 è chiaro anche che costoro parleranno di alte-
razione ma non di corruzione dei mondi, come in realtà
sembrano sostenere Empedocle ed Eraclito.11 Poche tra-
scrizioni tratte dall’opera di Aristotele Su Democrito mo-
streranno il pensiero di quegli uomini.
«Democrito ritiene che la natura delle cose eterne con-
sista in piccole sostanze infinite di numero;12 come luogo
per esse ipotizza un’altra cosa, infinita per la grandezza; e
chiama il luogo con i nomi del genere seguente: vuoto, nul-
la, infinito, mentre chiama ciascuna delle sostanze con
quello di qualcosa, di solido, di essere.13 Ritiene che le so-
stanze siano così piccole da sfuggire ai nostri sensi,14 e che
vi appartengono forme d’ogni tipo, ossia figure d’ogni tipo
404 OPERE FILOSOFICHE
SU DEMOCRITO 405

e una differenza per grandezza.15 Ebbene, da queste come


già da elementi si generano, ossia si compongono le masse
manifeste allo sguardo, vale a dire sensibili; esse sono insta-
bili e si muovono nel vuoto a causa della loro disomogenei-
tà e delle altre differenze che abbiamo detto, e muovendosi
cadono <una sull’altra> e si compongono in un intreccio
tale da far sì che esse vengano in contatto e siano vicine tra
loro.16 Tuttavia, in verità, da esse non si genera un’unica na-
tura, né una natura qualsiasi, giacché è perfettamente inge-
nuo che due o più cose talvolta diventino un’unica cosa.17
Al fatto che le sostanze permangano assieme l’una con l’al-
tra fino a un certo momento si imputano i mutamenti e gli
scambi dei corpi: giacché alcuni di essi sono scaleni, altri a
forma d’uncino, altri cavi, altri convessi, altri dotati altre in-
numerevoli differenze. Fino a tanto tempo, dunque, <De-
mocrito> ritiene che <le sostanze> restino unite tra loro
stesse e permangano assieme, ossia fino a che una necessità
più forte, derivante da ciò che le contiene,18 le scuota e le
disperda lontano».
Afferma che la generazione e la separazione opposta a
essa non concernono soltanto gli animali, ma anche le pian-
te e i mondi e, in senso complessivo, tutti quanti i corpi sen-
sibili. Se pertanto la generazione è riunione di atomi e la
corruzione separazione <di essi>, anche ad avviso di De-
mocrito la generazione sarà una certa alterazione. E infatti
anche Empedocle sostiene che ciò che diviene non è iden-
tico a ciò che si corrompe se non per la specie, e similmente
Alessandro afferma che egli ipotizza un’alterazione ma
non una generazione.
406 OPERE FILOSOFICHE

Note
1
I codici di Diogene Laerzio oscillano, infatti, tra Problh@mata
eèk tw^n Dhmokri@tou z è e Problh@mata eèk tw^n Dhmokri@tou b è (in
proposito cfr. Moraux, Listes anciennes, p. 280, nota n. 6). In due
libri lo riporta anche il catalogo dell’Anonimo, al n. 116, col titolo
Problema@t wn Dhmokritei@wn b @. Rose (Fragmenta) interpreta
«problemata duo non problematum libri duo, ut Hesychius», ma è
opinione poco condivisibile. Ancora Moraux (Ivi, pp. 210 s.) infor-
ma che i Problh@mata eèk tw^n Dhmokri@tou erano una collazione
d’excerpta tratti dalle opere filosofiche dell’Abderita. Da essi pro-
verrebbero gli oèli@ga eèk tw^n èAristote@louv peri# Dhmokri@tou para-
grafe@nta di cui parla Simplicio (294, 36), sulla base di una notizia
derivata da Alessandro, nel frammento qui riportato. Va da sé che
in tal caso peri# Dhmokri@tou non indicherebbe il titolo dell’opera
aristotelica, ma soltanto il complemento di argomento. Sempre ad
avviso di Moraux (Ivi, p. 121), all’esposizione delle tesi di Demo-
crito sarebbe stato dedicato anche lo scritto, in un libro, Parabo-
lai@, del quale dà notizia Diogene Laerzio al n. 126 del suo catalo-
go delle opere aristoteliche. Lo studioso, infatti, ritiene che para-
bolai@ qui non significhi «comparazioni», bensì «congiunzioni
d’astri», e poiché l’Abderita scrisse un’opera di astronomia mate-
matica intitolata Me@gav eèniauto#v hà ¢stronomi@h, para@phgma (cfr.
Diogene Laerzio, IX, 48) e d’altro canto l’interesse del Peripato
per l’astronomia democritea è attestato anche dall’esistenza di uno
scritto di Teofrasto su questo specifico tema, il Peri# th^v Dhmokri@-
tou ¢strologi@av (cfr. Diogene Laerzio, V, 43), ipotizza che le
Parabolai@ siano una raccolta di excerpta tratti dal para@phgma de-
mocriteo.
2
Mi riferisco alla classificazione di Phys., V, 1-2, dove Aristotele
divide il mutamento (metabolh@), da un lato in generazione e corru-
zione, dall’altro nel movimento (ki@nhsiv), distinto a sua volta
nell’alterazione, nell’aumento e nella diminuzione e nella trasla-
zione. In Phys., V,1, in particolare, egli giustifica l’impossibilità di
ascrivere la generazione e la corruzione – che sono mutamenti (me-
tabolai@) – al movimento (ki@nhsiv) con la ragione per cui esse com-
portano non-essere (si genera ciò che non è e si corrompe ciò che
cessa di essere), e il non-essere non è soggetto a movimento, così
come all’essere in quiete, in nessuno dei sensi in cui il non-essere si
dice: né secondo sintesi e diairesi, né secondo la potenza, né come
non-sostanza individuale. Movimenti (kinh@seiv) sono, invece, sol-
tanto i mutamenti da un sostrato a un sostrato (laddove generazio-
ne e corruzione sono mutamenti da un non-sostrato a un sostrato e
da un sostrato a un non-sostrato, ossia mutamenti secondo la con-
SU DEMOCRITO 407

traddizione), e sono sostrati o i contrari o gli intermedi (225 a 20-


32). Ma in Phys., III, 1 generazione e corruzione, alterazione, au-
mento e diminuzione e traslazione sono considerate quattro specie
del movimento (ki@nhsiv). Qui, infatti, dopo aver definito il movi-
mento come passaggio dalla potenza all’atto o, più precisamente,
come «l’entelechia di ciò che è in potenza, ma solo in quanto è in
potenza» (201 b 4-5) e dopo aver dimostrato che le categorie se-
condo le quali tale passaggio si attua sono quelle della sostanza,
della qualità, della quantità e del luogo (226 a 23-26), Aristotele fa
presente che il passaggio dalla potenza all’atto secondo la sostanza
definisce la generazione e la corruzione (ge@nesiv kai# fqora@), carat-
terizzate dal fatto che, assumendo il sostrato il possesso di una for-
ma, dalla condizione di relativa privazione in cui prima versava
(generazione), o venendo privato della forma che precedentemen-
te possedeva (corruzione), la cosa muta in ciò che essa è (per esem-
pio, l’uomo, morendo, ossia venendo privato della forma di uomo,
cessa di essere tale. Il cadavere, infatti, non è un uomo). Il passag-
gio dalla potenza all’atto secondo la quantità definisce l’accresci-
mento e la diminuzione (auçxhsiv kai# mei@wsiv); quello secondo la
qualità, l’alterazione (aèlloi@wsiv); quello secondo il luogo, la tra-
slazione (fora@), la quale può essere o rettilinea o circolare: la pri-
ma come movimento imperfetto perché finito, la seconda invece
come movimento perfetto perché unico e continuo (la dimostra-
zione che il movimento circolare è unico e continuo occupa l’inte-
ra trattazione di Phys., VIII, 8) e quindi pienamente compiuto. Sui
problemi esegetici sollevati dalle due classificazioni, su una loro
possibile soluzione e, soprattutto, sulle ragioni per le quali la classi-
ficazione di Phys., V, 1-2 è da considerarsi dottrinariamente più
matura, mi permetto di rinviare all’Introduzione di Zanatta, Fisica,
pp. 34 ss.
3
Il che traspare in modo emblematico dalla celeberrima defini-
zione della filosofia come «scienza dell’ente in quanto ente (eèpi-
sth@mh tou^ oòntov hjà oòn)» (cfr. Metaph., IV, 1, 1003 a 21), la quale,
essendo contrapposta alle scienze «particolari», ossia alle scienze
che «ritagliano una parte dell’ente» (cfr. Ivi, 24-25: me@rov auètou^ ti
aèpotemo@menai), facendo così di un determinato aspetto di esso
l’oggetto della loro speculazione, è eo ipso considerata scienza
dell’ente in totalità, ovvero scienza della totalità dell’ente.
4
Qui Aristotele presenta globalmente la dottrina dell’aèrch@ di
quei pensatori che altrove chiama «fisiologi» o «fisici», ossia dei
cosiddetti Naturalisti presocratici: tanto dei Monisti, ai quali dedi-
ca la maggiore attenzione, quanto dei Pluralisti, ai quali fa riferi-
mento alla fine del passo menzionando «più di una» natura. La
«natura» è appunto l’aèrch@, il principio, che lo Stagirita, inquadran-
408 OPERE FILOSOFICHE

dolo nello schema categoriale della propria dottrina, assimila alla


sostanza. In effetti, della sostanza aristotelica l’aèrch@ presocratica,
sia monisticamente che pluralisticamente intesa, presenta la carat-
teristica essenziale: sussiste in sé, mentre le cose che dall’aèrch@ de-
rivano e in essa fanno ritorno al tempo della loro dissoluzione
esistono nell’aè r ch@ , ossia in alio, sono cioè accidenti di essa.
Nell’ipotesi monistica le cose corrispondono alle trasformazioni
dell’aèrch@, la quale è eterna non perché resti sempre uguale a se
medesima (l’acqua sia sempre acqua, l’aria sempre aria), ma per-
ché lungo il corso delle sue eterne mutazioni non scade nel nulla.
Le trasformazioni dell’aèrch@, non comportandone il venire meno,
attengono perciò alle sue affezioni. E le cose, il cui venire all’esse-
re e il cui dissolversi corrispondono al trasformarsi dell’aèrch@,
coincidono esattamente con tali affezioni. Benché Aristotele non
lo espliciti, è tuttavia chiaro che nella concezione monistica del
principio le affezioni che mutano sono di tipo sia qualitativo (l’ac-
qua si trasforma in aria, in terra, in fuoco), che quantitativo (tra-
sformandosi in aria e in terra, l’acqua rispettivamente aumenta e
diminuisce), che locale (trasformandosi in terra, l’acqua occupa
un luogo basso, trasformandosi in aria e in fuoco occupa luoghi
vieppiù alti). Anche sotto questo profilo si può dunque dire che
Aristotele inquadra l’assunto basilare della concezione monistica
del fondamento nello schema della propria dottrina, portandola
perciò alla verità della sua espressione. Nell’ipotesi pluralista le
sole affezioni concernenti il mutare delle aèrcai@ sono quelle locali:
le aèrcai@, infatti, non si trasformano, ma permangono salde in se
stesse, e il solo divenire cui sottostanno è quello di aggregazione e
di disgregazione, ossia il mutamento locale. A un tale divenire si
riconduce anche quello quantitativo, cui Aristotele fa riferimento
più oltre a proposito dei quattro elementi di Empedocle (in pro-
posito cfr. la nota n. 11). Anche in quest’ipotesi le cose, coinciden-
do nel loro nascere e nel loro dissolversi con l’aggregarsi e il di-
sgregarsi delle aèrcai@, sono «affezioni» della sostanza, ossia del
fondamento. Ebbene, entro questo quadro Aristotele legge la
complessiva concezione naturalistica dell’aèrch@ come attestazione
della causa materiale: causa in quanto il principio esplica il «per-
ché» ultimo delle cose; materiale, in virtù del fatto che esso in tut-
te le modalità in cui, monisticmente o pluralisticamente inteso, è
stato pensato, si riporta alla dimensione della sostanza nella va-
lenza di sostrato, e l’essere sostrato è prerogativa della materia (su
quest’aspetto ha fissato particolarmente l’attenzione Tricot, Méta-
ph., I, p. 26, n. 1). Occorre infine porre l’accento sulla circostanza
che il principio viene qui presentato anche come «elemento»
(stoiceĩon): giacché, essendo ciò di cui le cose sono affezioni, non
SU DEMOCRITO 409

è ulteriormente risolvibile (mentre le cose si risolvono nel princi-


pio), e tale è il significato basilare di «elemento».
5
In ogni caso mi permetto di rinviare, a documentazione anche
di questo punto, alla nota n. 43 di Zanatta, Metafisica, I, 3.
6
Il relativo passo è riportato alla nota n. 11.
7
Riferimento all’intuizione fondamentale dei Monisti (i Milesi
ed Eraclito), per i quali il venire all’essere e il perire degli enti non
è che il trasformarsi dell’unico sostrato (identificato o nell’acqua,
o nell’apeiron, o nell’aria, o nel fuoco), che non viene meno nel
corso di tali trasformazioni, ma permane; anzi, il cui permanere
consiste propriamente nel non scadere nel nulla lungo il suo eter-
no trasformarsi (secondo una concezione segnata dall’idea che il
permanere non soltanto non è opposto al divenire, ma coincide
con esso perché si attua in esso). Ond’è che, se il sostrato permane,
non si può parlare di generazione e di corruzione, perché viene
meno la condizione stessa in base a cui queste nozioni si istituisco-
no. Al contrario, poiché le cose nel loro nascere e nel loro distrug-
gersi corrispondono, in quanto trasformazioni dell’elemento/so-
strato, a mutamenti del suo modo d’essere, e a mutamenti che ri-
guardano la sua qualità (il fiore che sboccia dal mutare dell’ele-
mento/sostrato specifica un suo modo d’essere qualitativamente
diverso da quello segnato dal suo trasformarsi in questa pietra, o
in quest’animale, o in questo frutto), si deve parlare di alterazioni.
Come si vede, Aristotele – e Alessandro e Simplicio, che ne pre-
sentano il pensiero – legge così il pensiero dei Monisti nell’ottica
delle sue categorie dottrinali e, in specie, delle nozioni di genera-
zione/corruzione e alterazione da lui istituite. Con ciò, come si è
cercato di mettere in chiaro in altre occasioni e innanzitutto nella
stessa introduzione a questo frammento, lo Stagirita, più che «di-
storcere» il pensiero di questi filosofi, lo riporta alla sua autentica
consistenza, facendo così emergere la verità del loro dire, se non
ciò che essi hanno veramente detto.
8
E, possiamo aggiungere, in generale dei Pluralisti, eccezion fat-
ta per l’aspetto concernente la pluralità infinita dei mondi, che co-
stituisce una tesi dei soli Atomisti (Leucippo e Democrito). Si trat-
ta di un primo livello al quale si pone la riflessione sul modo in cui
questi pensatori concepiscono il formarsi e il dissolversi delle cose.
9
Le cose che si generano e si corrompono sono diverse dal
punto di vista dell’individuo, giacché non sono gli stessi atomi che
concorrono con il loro aggregarsi e il loro disgregarsi alla loro for-
mazione e alla loro dissoluzione, ma atomi diversi; sono invece
identiche dal punto di vista della specie, giacché tutte quelle rag-
gruppabili in una data classe si formano dall’aggregarsi nel mede-
simo modo di atomi della medesima forma e del medesimo peso
410 OPERE FILOSOFICHE

(ancorché non si tratti dei medesimi atomi), e il loro dissolversi


consiste del disgregarsi di tali atomi. Paradigmatico il caso delle
anime: esse sono individualmente diverse perché ognuna è forma-
ta di atomi diversi, ma specificamente identiche perché tutte sono
costituite da atomi che possiedono le medesime caratteristiche
della sfericità, della natura ignea e della mobilità a più elevato
grado. Atomi che, come attesta Cicerone, per queste caratteristi-
che sono detti «divini» (De nat. deor., I, 43, 120 = D. K., 68 A 74:
«principia mentis quae sunt in eodem universo deos esse dicit»).
10
Ossia senza subire alcuna affezione (pa@qov), né di ordine
qualitativo né di ordine quantitativo, a eccezione del muoversi nel
vuoto.
11
Che per il monista Eraclito i processi di formazione e di di-
struzione degli enti, corrispondendo a trasformazioni dell’elemen-
to primordiale o aèrch@, individuato nel fuoco, non consistano in
processi di generazione e corruzione, ma di alterazione, è chiaro.
L’alterazione, infatti, nell’ottica della dottrina aristotelica, entro la
quale va inquadrato il rilievo, comporta il permanere del sostrato
e il mutare delle sue affezioni qualitative. Ora, nel caso in esame, il
sostrato è l’elemento primordiale, che non scade nel nulla, ma per-
mane nel corso del suo eterno trasformarsi: in aria, in terra, persi-
no nell’acqua, che ne è il contrario, e le affezioni qualitative sono
esattamente queste determinazioni. Esse, infatti, in quanto non
sono «in se stesse», ma trasformazioni del fuoco, sono sue affezio-
ni o – come ha asserito Simplicio nel passo introduttivo al fram-
mento – suoi «stati» (eçxeiv), e sono affezioni di ordine qualitativo,
in quanto specificano qualità diverse. Meno chiaro, invece, è che i
processi di formazione e di dissoluzione delle cose quali si scandi-
scono nel pensiero di Empedocle costituiscano anch’essi processi
di alterazione e non già di generazione e corruzione. Se infatti,
queste ultime, come abbiamo richiamato anche poc’anzi, sono ca-
ratterizzate dal venire meno del sostrato e nell’ipotesi pluralista le
aèrcai@, nel caso di specie le quattro radici (aria, acqua, terra e fuo-
co), in quanto costituiscono la sostanza/sostrato, permangono, mu-
tando soltanto locativamente, è difficile comprendere come si
possa assimilare la posizione a quella di Eraclito e parlare di alte-
razione delle radici stesse, giacché di alterazione del fuoco si tratta
nell’Efesio. Ché, l’alterazione, nell’ipotesi empedoclea e, in gene-
rale, pluralista, concerne il composto, non le aèrcai@ o elementi pri-
mordiali, e il caso di Democrito l’ha ben messo in chiaro. Il giudi-
zio su Empedocle si comprende, invece, se si tiene conto di ciò che
Aristotele ha scritto a suo carico in Metaph., I, 8, un capitolo nel
quale, tracciando come una sorta di bilancio complessivo sul mo-
do in cui i Presocratici pensarono la causa, pone in chiaro le apo-
SU DEMOCRITO 411

rie delle loro dottrine a riguardo e formula alle loro ipotesi precise
e articolate critiche. Il giudizio in questione si comprende alla luce
non già della dottrina empedoclea quale Aristotele presenta, ma
alla luce della critica che lo Stagirita muove a tale dottrina. In ef-
fetti, a Empedocle, al quale peraltro in Metaph., I, 4, 985 a 29 ss.
riconosce il merito di aver introdotto come cause del movimento
non un solo principio, ma due principi opposti, egli obietta di aver
fatto derivare gli elementi l’uno dall’altro e perciò di avere mala-
mente indicato in essi i principi, perché il principio resta sempre il
medesimo. «Empedocle – scrive infatti lo Stagirita – afferma che
la materia consiste di quattro corpi. Infatti, necessariamente an-
che a costui capitano da un lato le stesse <conseguenze>, da un
altro <conseguenze> specifiche. Infatti, vediamo che <gli elemen-
ti> si generano gli uni dagli altri, come se il fuoco e la terra non
restassero sempre il medesimo corpo» (Metaph., I, 8, 889 a 22 ss.).
Evidentemente, questa critica, che prende concreta espressione
nella Metafisica, era già stata formulata dallo Stagirita al tempo
della stesura del Su Democrito. Essa, nel quadro tematico e per il
risvolto teorico che qui interessano, fa valere che Empedocle, pur
essendo un pluralista, ha tuttavia trattato le quattro radici alla ma-
niera monistica di concepire l’elemento primordiale. Su questa
base l’assimilazione della sua dottrina a quella di Eraclito è piena-
mente plausibile.
12
Si tratta, in tutta chiarezza, degli atomi, che è opportuno ri-
marcare che qui vengono denominati «sostanze» (ouèsi@ai) in virtù
del loro permanere, ossia dell’essere in sé, essendo questo il carat-
tere basilare della sostanza che interessa, nell’ottica di Aristotele,
la concezione presocratica dell’aèrch@. In parallelo con questa qua-
lificazione degli atomi si colloca quella di esprimere l’essere, di
contro al vuoto, che esprime il non-essere. La sostanza, infatti, per
Aristotele rappresenta il significato primo dell’essere ed è, dun-
que, perfettamente congruo che gli atomi, in quanto essere, siano
sostanze e, viceversa, in quanto sostanze siano essere.
13
Cfr. anche Aristotele, Phys., I, 5, 188 a 22 = D. K. 68 A 45:
«Democrito <pone come principi> il solido [scil., il pieno, ossia gli
atomi] e il vuoto, dei quali considera il primo come essere e il se-
condo come non-essere». In questa identificazione degli atomi
con l’essere e del vuoto con il non-essere è da riscontrarsi la pre-
senza della dimensione propriamente eleatica di Democrito. Spie-
ga bene Reale (Pensiero antico, p. 184 s.) in una pagina che chiama
direttamente in causa Leucippo, in quanto si riferisce in generale
all’atomismo, di cui Leucippo è l’iniziatore e il primo rappresen-
tante, ma che si adatta in tutto e per tutto anche a Democrito, anzi,
ancor più a questo pensatore. «L’intuizione fondamentale del si-
412 OPERE FILOSOFICHE

stema, Leucippo – scrive per l’appunto lo studioso – la dovette


trarre dal grande frammento 8 di Melisso: “se esistessero i molti –
diceva Melisso –, questi dovrebbero essere quali io dico che è
l’Uno” (D. K. 30 B 8); e, così dicendo, egli credeva di ridurre all’as-
surdo il pluralismo in cui gli uomini credono: i molti, per essere,
dovrebbero essere eterni, perché questo è lo statuto dell’essere:
essi dovrebbero durare senza mutare; invece mutano continua-
mente, e dunque non sono. E Leucippo rovesciò contro Melisso
l’argomento, facendo di quello che nell’Eleate era un ragiona-
mento per assurdo il fondamento del proprio sistema: i molti sono,
perché possono essere come l’Uno melissiano, possono durare
sempre ed essere immutabili, ossia essere conformi al supremo
statuto dell’essere. Non si tratta, però, del molteplice empirico da-
toci dai sensi, ma di un molteplice ulteriore, non percettibile, fon-
damento e ragion d’essere dello stesso molteplice sensibile. E co-
me il pluralismo empedocleo e anassagoreo rovesciava in senso
positivo l’ipotesi melissiana di una molteplicità che mantenesse
identica la propria qualità, così il pluralismo degli atomi di Leucip-
po ancor più compiutamente realizzava in senso positivo l’ipotesi
di una molteplicità che, mantenendo identica la propria natura
qualitativamente indifferenziata, fosse ragion d’essere della mol-
teplicità fenomenica qualitativamente differenziata».
14
Viene qui fatto riferimento al carattere intelligibile dell’ato-
mo, carattere sul quale si veda Sesto Empirico, Adv. Math., VIII, 6
= D. K. 68 A 69: «i seguaci di Platone e di Democrito riconobbero
come vero soltanto l’intelligibile, ma Democrito perché la natura,
per lui, non ha alcun sostrato sensibile, essendo gli atomi – che
compongono ogni cosa – privi di ogni qualità sensibile», e cioè
percepibile con i sensi.
15
Aristotele nel passo della Fisica (= fr. 45 D. K.) di cui si è ci-
tata la prima parte nella nota n. 13 informa che per Democrito gli
atomi si distinguono per posizione (qe@sei), figura (sch@mati) e ordi-
ne (ta@xei), precisando subito appresso che per posizione sono da
intendersi i contrari «in alto», «in basso», «davanti», «di dietro»,
mentre la loro figura può essere «angolare», «retta», «circolare»,
ecc.: si tratta, insomma, di figure corrispondenti a forme geometri-
che. Da qui nel passo in oggetto del frammento la precisazione
«forme (morfai@) di ogni tipo, ossia figure (sch@mata) di ogni tipo».
Quanto all’ordine, è intuitivo che, chiamando in causa questa pro-
prietà, Aristotele intendesse far presente che per Democrito una
caratteristica degli atomi era anche il venire a trovarsi di volta in
volta, nel loro volteggiare precosmico (giacché a questo primor-
diale livello del moto se ne specificano le proprietà essenziali; sul
movimento precosmico degli atomi, consistente, per l’appunto, in
SU DEMOCRITO 413

un volteggiare e distinto da loro movimento cosmogonico, che è


invece in forma di vortice, e da quello nel cosmo, secondo il quale
gli atomi si staccano dagli aggregati, si veda Alfieri, Atomos idea,
pp. 84 s.), prima o dopo di altri atomi. Nel frammento in esame
non si indicano la posizione e l’ordine, mentre si indica la grandez-
za, che Aristotele non nomina nel fr. 45 D. K., ma che è attestata
da Aezio (I, 3, 18 = D. K. 68 A 47):«Democrito nomina soltanto
due qualità <degli atomi>: la grandezza e la figura, mentre Epicu-
ro ne aggiunge una terza, e cioè il peso». La grandezza degli atomi
è sì, differente, ma sempre sotto il livello della percettibilità sensi-
bile, come si attesta all’inizio della frase. Per questo probabilmen-
te Aristotele non considerava la prerogativa degli atomi democri-
tei di avere grandezze differenti così rilevante come quella di es-
sere in ogni caso di grandezza tale da non potersi percepire con i
sensi e di avere forme geometriche diverse. Contrariamente ad
Aezio, lo Stagirita attesta che anche gli atomi di Democrito hanno
peso, e pone in rapporto la loro prerogativa ponderale al loro vo-
lume. In effetti, in De gen. corr., I, 8, 326 a 9 (= D. K. A 60) così
scrive: «eppure Democrito dice che l’atomo è più pesante a secon-
da dell’eccedenza <di volume>»; e parallelamente in De caelo, IV,
2, 309 a 1 (= D. K. A 60) scrive: «quelli che affermano che <gli
elementi primi> sono solidi hanno più ragione di dire che, di essi,
quello più grande è anche più pesante. Nei composti, invece, poi-
ché è manifesto che non tutti hanno questa proprietà, anzi, vedia-
mo che molte cose di volume minore pesano di più, come per
esempio il bronzo in confronto con la lana, ecc.». È probabile (no-
nostante il parere decisamente contrario di Alfieri; cfr. Atomos
idea, pp. 88 ss.) che il peso non sia una proprietà originaria degli
atomi, ossia che gli atomi nel movimento precosmico non abbiano
peso, ma ne acquisiscano nel vortice del movimento cosmogonico,
in quanto in questo movimento esercitano una resistenza negli ur-
ti con altri atomi, e in virtù di essa si determinerebbe il loro peso.
Lo proverebbe la testimonianza di Simplicio che, nel commento al
De caelo di Aristotele, dapprima fa presente che per «Democrito e
successivamente per Epicuro [...] gli atomi, i quali sono tutti di
ugual natura, hanno peso» e immediatamente appresso attesta
che «essendovi degli atomi più pesanti, quelli più leggeri vengono
spinti fuori dai più pesanti» (Simpl., In Arist. de caelo, 569, 5 = D.
K. 68 A 61). Il riferimento, in tutta evidenza, qui è al vortice, e nel
vortice si parla di peso degli atomi.
16
Da rimarcare, nella frase «ebbene ... tra loro», dove non si
parla ancora, propriamente, delle cose, bensì di aggregazioni di
atomi tali da formare masse che si muovono nello spazio vuoto e,
incontrandosi e scontrandosi, formano le cose, due istanze. Innan-
414 OPERE FILOSOFICHE

zitutto, la percettibilità di tali aggregazioni, dovuta al fatto di esse-


re somme di corpi sensibili, ancorché di dimensioni infime (gli
atomi, per l’appunto) e, in secondo luogo, il loro murare (l’instabi-
lità), dovuto al fatto che, muovendosi in modo disomogeneo nel
vuoto a causa della diversità delle loro forme e delle loro grandez-
ze (e, di conseguenza, del loro peso; cfr. la nota precedente), si
compongono in corpi di diverse dimensioni.
17
Viene qui rimarcato che le qualità delle cose non sono origi-
narie, ma dipendono dalla forma degli atomi di cui sono costituite
(sferici, cilindrici, conici, ecc.) e dal modo del loro aggregarsi, os-
sia, in ultima analisi, che le qualità (colore, sapore, ecc.) sono epi-
fenomeni di quantità. Paradigmatica la testimonianza di Galeno
(De el. sec. Hipp., I, 2 = D. K. 68 A 49), il quale informa che per
Democrito «tutte quante le qualità sensibili, che egli suppone re-
lative a noi che ne abbiamo sensazione, derivino dalla varia aggre-
gazione degli atomi, ma che per natura non esistano affatto bian-
co, nero, giallo, rosso, dolce, amaro».
18
Riferimento al vortice (di@nh), su cui cfr. Alfieri, Atomos idea,
p. 84: esso «si produce quando, per la presenza di un vuoto, di con-
siderevole ampiezza, si ha un affluire o un concorrere di atomi di
varia forma e di vario peso in quello spazio libero. Quello stesso
concorrere di elementi materiali di massa diversa produce un mo-
vimento turbinoso, in cui, operando la legge primaria dell’aggre-
gazione che è quella dell’attrazione del simile verso il simile, il
vortice opera a guisa di vaglio, sicché gli elementi più pesanti si
dispongono al centro del vortice, quelli più minuti si dispongono
verso il vuoto esteriore».
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452 OPERE FILOSOFICHE

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Salem, La légende = Salem J., La légende de Démocrite, Pa-
ris, Vrin 1996.
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Shorey, Democritus = Shorey P., Democritus on the New
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pp. 179-191.
Strohmaier, Demokrit = Strohmaier G., Demokrit über die
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Stückelberger, Atomphysik = Stückelberger A., Antike
Atomphysik. Texte zur antiken Atomlehre und zu ihrer
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Stückelberger, Vestigia Democritea = Stückelberger
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zin, Basel, Reinhardt 1984.
Susemihl, Aphorismen = Susemihl F., Aphorismen zu De-
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deutsch von Hermann Diels, Bd. II, Berlin, Weidmann
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White, Atomism = White L. L., Essay on Atomism, from
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Zanatta, Fisica = Aristotele, La Fisica, Introduzione, tradu-
zione, note e indici analitici di M. Zanatta, Torino,
U.T.E.T 1999.
Zanatta, Metafisica = Aristotele, La Metafisica, Introduzio-
ne, traduzione, commento e indici analitici di M. Zanat-
ta, 2 voll., Milano, Rizzoli 2009.
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI PRESENTI
NELLE TESTIMONIANZE E NEI FRAMMENTI1

Abluzione (perirranth@rion); la purezza si attua nelle a.:


339.
Acuto (oèxu@v): l’a. si oppone al pesante come ciò che non è
né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un
male: 119.
Aggiunta (eèpi@qesiv): per i Pitagorici l’opinione è a.: 351.
Alterazione (aèlloi@wsiv): coloro per i quali il tutto è ora in
uno stato, ora in un altro, parlano di a. più che di genera-
zione e corruzione: 403; così Empedocle ed Eraclito:
403.
Alterità (eétero@thv): Aristotele stabilì se la contrarietà è
un’a.: 111.
Alto/sopra/parte superiore (aònw, pars superior): per i Pita-
gorici l’a. è un bene: 347; disponevano a destra l’a. e il
davanti: 357; il s. del cielo è a sinistra: 357; la p. s. del cielo
è la regione di destra: 359.
Amico (fi@lov, amicus): gli a. sono un bene esterno: 51; le
cose degli a. sono comuni: 343.
Anello (daktu@liov): non portare le immagini degli dèi sugli
a.: 343.
Anima (yuch@): beni che sono nell’a.: 51; divisione dell’a. in
tre parti: 53; non si ha privazione dei beni dell’a. riguar-
danti la scelta deliberata: 117.
1
In questo indice sono stati introdotti anche quei nomi propri
che denotano nozioni.
456 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

Animale (animal): i Pitagorici si astenevano dal mangiare


a.: 337; l’ortica marina è un a. marino chiamato ostrica:
337.
Antiterra (aènti@cqwn): per far sì che i corpi celesti fossero
dieci, i Pitagorici posero l’a.: 353; l’a. trasla intorno al mez-
zo: 355; è chiamata a. perché occupa una posizione con-
traria alla terra: 355; le eclissi di luna si verificano per la
sovrapposizione talvolta della terra, talvolta dell’a.: 359.
Antitesi (aènti@qesiv): Aristotele paragona l’a. delle priva-
zioni naturali a quella dei contrari: 117; i Pitagorici ri-
condussero ogni a. a due serie e completarono ciascuna
con la decade: 345; fecero delle a. del dieci il simbolo
delle a. di ogni numero: 354; a. del luogo sono la destra e
la sinistra: 345-347.
Apollo Iperboreo ( èApo@llwn éUperbo@reiov): Pitagora era
chiamato A. I. 331, 333; era così considerato: 335.
Aporia (aèpori@a): presenza delle a. nella trattazione di Ari-
stotele sui contrari: 111.
Aquila (aèeto@v): Pitagora accarezzò l’a. bianca, che rimane-
va ferma: 333.
Arcobaleno (iè^riv): Pitagora diceva che l’a. è un raggio del
sole: 341.
Argomento confutativo/oppositivo (eèpicei@rhsiv): è eserci-
zio portato contro ciascuna delle due parti: 31; ma in se-
guito fu usato dalla dialettica per demolire o costruire
una tesi sulla base di opinioni notevoli: 31; Aristotele
non assume il possesso e la privazione negli a. o. concer-
nenti il carattere, ma in quelle per natura: 115.
Armonia (aérmoni@a): per i Pitagorici le a. sono costituite se-
condo certi numeri, per cui i numeri sono loro principi:
351-353; il cielo è costituito secondo a.: 351, 353.
Articolazione (aòrqron): ricerca della categoria linguistica
sotto cui porre le a.: 69; le a. sono come dei connettivi
che in più significano il genere in modo indeterminato:
69.
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 457

Aspro (pikro@v): il dolce si oppone all’a. come ciò che non è


né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un
male: 119.
Atomo (aòtomov): gli a. permangono identici, essendo im-
passibili: 403.
Attività (eène@rgeia): le a. conformi a virtù si annoverano tra
i beni belli e lodevoli: 51.
Atto a dividere (diairetiko@v): la diade è a.a.d.: 199.
Atto a significare (shmantiko@v): i vocaboli e i connettivi so-
no a. a s.: 69.
Autentico (gnh@siov): libri a. di Aristotele: 81, 85.
Avere (eòcein): la privazione si estende a tutti i significati di
a.: 117.
Basso/sotto (ka@tw): per i Pitagorici il b. è un male: 347; di-
sponevano il b. e il dietro a sinistra; il s. del cielo è a de-
stra: 357.
Bellezza (ka@llov): è un bene del corpo: 51.
Bello (kalo@v): sono beni b. le virtù, le attività conformi a
esse e le facoltà che si possono usare bene o male: 51.
Bene (aègaqo@n): divisione dei b. in belli, degni d’onore, lode-
voli e utili: 51; in beni dell’anima, del corpo ed esterni:
51; è proporzione delle parti tra loro: 113; la cecità è pri-
vazione di un b.: 117; nessuna privazione è un b.: 117;
non si ha privazione dei b. dell’anima riguardanti la scel-
ta deliberata: 117; al b. è totalmente contrario il male, ma
al male talvolta è contrario un b., talvolta un male: 119;
talvolta ciò che non è né b. né male è contrario a ciò che
non è né b. né male: 119; gli uditori della lezione sul b.
ritenevano di sentir parlare di b. umani: 189; il b. è l’Uno:
189; il bianco è proprio della natura del b.: 339; per i Pi-
tagorici b. sono la destra, il davanti e l’alto: 347.
Bianco (leuko@v): il b. è colore capace di scindere la visione:
113; si oppone al nero come ciò che non è né un bene né
un male a ciò che non è né un bene né un male: 119; Pi-
tagora presagì l’orsa b.: 331; accarezzò l’aquila b. che ri-
458 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

maneva ferma: 333; comandava di stare distanti dal gallo


b.: 339; in Caulonia apparve l’orsa b. come segno di un
prodigio richiesto da Pitagora per parlare: 335; il b. è
proprio della natura del bene: 339.
Brevità (brevitas): criterio per valutare l’autenticità aristo-
telica delle Categorie: 85.
Bronzo (calko@v): Pitagora diceva che l’eco che si origina
dal b. battuto è la voce di un demone ivi racchiuso: 341.
Buona condizione (euèexi@a): è un bene del corpo: 51.
Buono (aègaqo@v): Pitagora era considerato un demone b. e
filantropo: 335; i Pitagorici ricondussero ogni antitesi al-
la serie di ciò che è b. e di ciò che è cattivo e completaro-
no ciascuna con la decade: 345.
Cadavere (kh^dov): la purezza si attua nel mantenersi puri
da un c.: 339.
Camminare (badi@zein, deambulare): non c. per le vie mae-
stre: 343.
Cane (ku@wn): Pitagora chiamava i pianeti c. di Persefone:
341.
Capace di comporre (sugkritiko@v): il nero è il colore c. d. c.
la visione: 113.
Capace di scindere (diakritiko@v): il bianco è il colore c. d. s.
la visione: 113.
Carattere (eòqov): Aristotele non assume il possesso e la pri-
vazione nelle argomentazioni oppositive concernenti il
c., ma in quelle per natura: 115.
Carne (kre@av): la purezza si attua nell’astenersi da porzioni
di c. di animali morti naturalmente come cibi: 339.
Casa (oièki@a, domus): chi comprò la c. di Pitagora non osò
dire ciò che vide e per questo incorse in una sventura:
335; non accogliere rondini in c.: 343.
Categoria (kathgori@a): presentazione delle c. e delle loro
flessioni: 53; ricerca della c. linguistica sotto cui porre le
articolazioni, le negazioni, le privazioni e le flessioni dei
verbi: 69-71; menzione delle c. linguistiche in scritti ari-
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 459

stotelici o di scolari di Aristotele: 71; due libri sulle c.


trovati nelle biblioteche, ma uno soltanto è di Aristotele:
81, 83.
Cattivo/male (kako@v): non si ha privazione di un m.: 117; al
bene è totalmente contrario il m., ma al m. talvolta è
contrario un bene, talvolta un m.: 119; talvolta ciò che
non è né bene né m. è contrario a ciò che non è né bene
né m.: 119; non esistono le Idee di cose c.: 193; i Pitagori-
ci ricondussero ogni antitesi alla serie di ciò che è buono
e di ciò che è c. e completarono ciascuna con la decade:
345; per i Pitagorici la sinistra, il basso e il dietro sono un
m.: 347.
Causa (aiòtion): sono oggetto di problemi fisici gli enti fisici
di cui si ignorano le c.: 39; Platone ha parlato della c. ef-
ficiente e della c. finale: 209; con la divisione Aristotele
ha mostrato l’esistenza della c. finale anche nelle cose
immobili: 211; i numeri ideali e gli enti matematici sono
c. degli enti fisici: 267.
Cecità (tuflo@thv): è una privazione per natura: 115; è pri-
vazione di un bene: 117.
Chenice (coi^nix): non stare seduti sul c.: 341.
Chiarezza (safh@neia): l’elocuzione di Aristotele ha avuto
in sorte la c.: 109.
Cibo (to# brwto@n): la purezza si attua nell’astenersi da carni
di animali morti naturalmente come c.: 339.
Cielo (ouèrano@v): per i Pitagorici i corpi che si muovono nel
c. sono dieci, anche se soltanto nove sono visibili: 329,
355; il c. è uno: 347; disposizione dei numeri nel c.: 347; il
c. è costituito secondo armonie: 351; da numeri e secon-
do armonie: 353; principio del c. è il numero: 351; il sotto
del c. è a destra, il sopra a sinistra: 357.
Cinque (pe@nte): i Pitagorici identificavano le nozze col c.:
349.
Ciò che è in movimento (to# kinou@menon): è contrario a ciò che
è in quiete per il fatto di partecipare del contrario: 113.
460 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

Ciò che è in quiete (to# eésthko@): è contrario a ciò che è in


movimento per il fatto di partecipare del contrario: 113.
Città (po@liv, urbs): le leggi come corone delle c.: 341; custo-
dire le leggi delle c.: 343.
Colore (crw^ma): il bianco è il c. capace di scindere la visio-
ne, il nero il c. capace di comporla: 113.
Compassione (eòleov): alla stragrande maggioranza delle
privazioni fanno seguito c. e pietà: 117.
Comune (communis): le cose degli amici sono c.: 343.
Connettivo (su@ndesmov): è atto a significare: 69; le articola-
zioni sono come dei c. che in più significano il genere in
modo indeterminato: 69.
Conoscenza matematica/disciplina matematica (ma@qhma): i
Pitagorici si applicarono alle d. m. e le fecero progredire:
329; Pitagora all’inizio si applicò alle c. m.: 329.
Contraccambio (aèntipeponqo@v): per i Pitagorici proprio
della giustizia sono il c. e l’uguale: 347.
Contrarietà (eènantio@thv, eènanti@wsiv): Aristotele indagò se
la differenza può costituire c.: 111; se la c. è un’alterità:
111; la mescolanza comporta c.: 285.
Contrario (eènanti@ov): tutti i c. si riconducono all’uno e al
molteplice come loro principi: 107, 109, 209, 211; differen-
za dei c.: 109; Aristotele ha sviluppato tutte le questioni
sui c.: 109-111; sono c. le cose massimamente distanti nel
genere: 111; quelle che sono massimamente diverse: 111;
gli Stoici seguirono Aristotele nelle definizioni dei c.:111;
la giustizia è c. all’ingiustizia: 113; c. per sé e c. per il fatto
di partecipare di c.: 113; la saggezza è c. alla stoltezza: 113;
una definizione può essere c. a una definizione, ma as-
sunte in unione alle cose c. di cui sono defini-zioni: 113;
un discorso definitorio è c. a un discorso definitorio se
qualcosa è contrario al genere o alle differenze o a en-
trambi: 113; se tra i c. vi sia un medio: 115; Aristotele pa-
ragona l’antitesi delle privazioni naturali a quella dei c.:
117; al bene è totalmente c. il male, ma al male talvolta è
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 461

c. un bene, talvolta un male: 119; talvolta ciò che non è né


bene né male è c. a ciò che non è né bene né male: 119;
l’uno è c. alla diade per essere indivisibile: 197; tutti i c. si
riconducono all’uno e al molteplice come loro principi:
107, 109, 209; tutti i c. sono elementi degli enti e della so-
stanza: 211; l’antiterra è così chiamata perché occupa una
posizione c. a quella della terra: 355.
Coperto di bianco mantello (leuceimonw^n): agli dèi bisogna
rivolgersi coperti di b. m.: 339.
Coppa (eòkpwma): fare libagioni agli dèi lungo l’orecchio
delle c.: 343.
Coraggio (aèndrei@a): è un bene dell’anima: 51.
Corona (stefano@v, corona): non strappare la c.: 341, 343.
Corpo (sw^ma): beni che sono nel c.: 51; se le Idee si mesco-
lano, sono c.: 285; i c. celesti che traslano intorno al mezzo
hanno distanze scandite da rapporti proporzionali: 351.
Corruttibile (fqarto@v): se le Idee si mescolano con le cose,
saranno c.: 287; il mondo è c.: 403.
Corruzione (fqora@): coloro per i quali il tutto è ora in uno
stato, ora in un altro, parlano di alterazione più che di
generazione e c.: 403; così Empedocle ed Eraclito: 403;
per Democrito la c. è separazione di atomi: 405.
Coscia (mhro@v): Pitagora mostrò di avere una c. d’oro: 331, 333.
Costellazione delle Pleiadi (pleia@v): Pitagora chiamava la
c. d. P. lira delle Muse: 341.
Costume (eòqov): la nudità è una privazione relativa al c.:
115.
Creazione di prodigi (teratopoi@a): Pitagora non si allonta-
nò dalla c. d. p.: 329.
Credibilità (pi@stiv): la c. delle dottrine di Pitagora poggiava
sul fatto di essere creduto un Dio: 333.
Cuore (kardi@a, cor): i Pitagorici non mangiano il c.: 337,
339; non mangiare il c.: 341, 343.
Davanti (eòmprosqen): per i Pitagorici il d. è un bene: 347;
disponevano a destra l’alto e il d.: 357.
462 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

Decade/dieci (deka@v): è numero perfetto perché compren-


de in sé tutta la natura dei numeri: 329, 353; per i Pitago-
rici i corpi celesti sono d.: 329, 355; i Pitagorici completa-
rono ogni serie di antitesi con la d.: 345; fecero delle an-
titesi del d. il simbolo delle antitesi di ogni numero: 354.
Definizione (oérismo@v): carattere più razionale degli epi-
cheiremi che procedono dalle d.: 69; il darsi di d.: 69; d. di
contrario e sua correzione da parte di Aristotele: 111; gli
Stoici seguirono Aristotele nelle d. dei contrari: 111; una
d. può essere contraria a una d., ma assunte in unione
alle cose contrarie di cui sono d.: 113; le d. sono realtà
universali e permangono sempre: 267.
Degno d’onore (ti@miov): sono beni d. d. o. Dio, i genitori e
la felicità: 51.
Demone (dai@mwn; daemon): Pitagora era considerato un d.
buono e filantropo: 335; il d. di Socrate: 335; i Pitagorici
ritenevano di poter vedere la forma di un d.: 335-337;
Pitagora diceva che l’eco che si origina dal bronzo battu-
to è la voce di un d. ivi racchiuso: 341.
Denaro (aèrgu@rion): la privazione di d. è una privazione che
sopraggiunge nell’uso: 117.
Desiderio (cupido): l’unità vuole essere chiamata d.: 345.
Destra (to# dexio@n): per i Pitagorici antitesi del luogo sono la
d. e la sinistra: 345-347; disponevano a d. l’alto e il davanti:
357; la d. è un bene: 347; il sotto del cielo è a destra: 357.
Determinato (peperasme@nov): i numeri dispari sono d.: 353,
355.
Diade (dua@v)2: principi del numero sono la monade e la d.:
197; è prima oltre l’uno: 197; ha in sé il molto e il poco:
197; è contraria all’uno per essere divisa: 197; la Diade

2
Vengono registrati i luoghi in cui il termine che compare è
«diade», anche se in alcuni casi si tratta della Diade indefinita (cui
è stata riservata un’apposita voce, sotto la quale si registrano i luo-
ghi in cui specificamente compare quest’espressione) o Diade di
Grande e Piccolo.
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 463

indefinita, definita dall’uno, diventa d.: 197, 207; la d. in


sé è indefinita, ma è definita in quanto è una certa forma
unitaria: 207; è il primo numero: 197, 201; il primo nume-
ro pari: 207; principi della d. sono l’eccedente e l’eccedu-
to: 197; l’Uno e il Grande e il Piccolo: 201; il Grande e il
Piccolo sono suoi elementi; è atta a dividere: 199; per
questo è produttrice del due: 199; è come materia pla-
smata e informante: 199; esprime la natura dell’indeter-
minato: 201; i principi del primo numero, ossia della d.,
sono principi di ogni numero: 201, 207; se esistessero le
Idee, non la Diade indefinita, ma la d., anzi il numero
sarebbe principio: 279; se la Diade indefinita è altra dal-
la d. in sé e dalla d. matematica, la quantità delle d. sarà
sorprendente: 283.
Diade indefinita (aèo@ristov dua@v)3: consiste nel Grande e
Piccolo: 191; perciò assieme all’Uno è principio dei nu-
meri e degli enti: 191; di tutte le cose: 201; è prima oltre
l’uno: 197; ha in sé il molto e il poco: 197, 201; è indefini-
ta perché contiene l’eccedente e l’ecceduto: 197, 201; e
perché procede nella direzione dell’accrescimento e del-
la diminuzione: 205; è costituita dalla monade che proce-
de verso il grande e dalla monade che procede verso il
piccolo: 207; la D. i., definita dall’uno, diventa d.: 197; la
D. è elemento anche dei numeri e precisamente elemen-
to di indeterminazione; principi delle Idee sono l’Uno e
la D. indefinita o D. di Grande e Piccolo: 203, 213; con la
D. indefinita Platone indicava la materia: 203; che essa
sia principio anche delle Idee corrisponde perciò a
un’incongruenza: 203-205; se esistessero le Idee, non la
D. indefinita, ma la diade, anzi il numero sarebbe princi-
pio: 279; l’Uno e la D. indefinita non sarebbero principi:
283; se l’Uno e la D. indefinita fossero principi un’Idea
sarebbe fatta Idea da un’Idea: 283; oppure, se la D. inde-

3
Cfr. la nota n. 2.
464 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

finita non è principio, sarà principio la diade in sé: 293; se


la D. indefinita è altra dalla diade in sé e dalla diade ma-
tematica, la quantità delle diadi sarà sorprendente: 283.
Dialettica (dialektikh@): Aristotele ne ha trattato soprattut-
to nei Topici: 31; all’inizio era esercizio confutatorio por-
tato contro ciascuna delle due parti, ma in seguito diven-
ne argomentazione confutativa intesa a costruire o de-
molire sulla base di opinioni notevoli: 31.
Dialettico (dialektiko@v): questioni non d. poste in modo d.:
39; tutti i problemi d. si riconducono alla ricerca del “che
è” e del “se è”: 39.
Didascalia (didaskali@a): d. delle negazioni e delle espres-
sioni indefinite: 71.
Dietro (oòpisqen): per i Pitagorici il d. è un male: 347; dispo-
nevano il basso e il d. a sinistra: 357.
Differente/distante (diafe@rwn): sono contrarie le cose mas-
simamente d. nel genere: 111.
Differenza (diafora@): d. dell’uno: 107; d. dei contrari: 109;
Aristotele indagò se la d. può costituire contrarietà: 111;
un discorso definitorio è contrario a un discorso definito-
rio se qualcosa è contrario al genere o alle d. o a entrambi:
113.
Differire (diafe@rein): Aristotele stabilì se ogni distanza d.
massimamente: 111; se le cose che d. sono contrarie: 111;
«le cose che d. massimamente» è identico a «le cose che
distano massimamente»: 111.
Dignitoso (semnopreph@v): Pitagora era molto d.: 333.
Dilatazione (eèpine@mhsiv): le eclissi di luna si verificano per
d. di una fiamma: 359.
Dimostrare, operare dimostrazioni (aèpodeiknu@nai): è uomo
chi o. d.: 195.
Dimostrazione (aèpo@deixiv): si dà d.: 69.
Dio (qeo@v): è un bene degno d’onore: 51; Pitagora era rite-
nuto un D.: 333; del vivente razionale fanno parte D.,
l’uomo e Pitagora: 335; agli d. e agli eroi non si devono
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 465

tributare uguali onori: 339; agli d. bisogna rivolgersi con


parole benedicenti, coperti di bianchi mantelli ed essen-
do puri: 339; non si devono ordinare le stesse cose per gli
d. e per gli uomini: 339; non portare le immagini degli d.
sugli anelli: 343; fare libagioni agli d. lungo l’orecchio
delle coppe: 343.
Discorso definitorio (lo@gov oéristiko@v): un d. d. è contrario
a un d. d. se qualcosa è contrario al genere o alle diffe-
renze o a entrambi: 113.
Dispari (peritto@v): i Pitagorici divisero i numeri in pari e d.
345; il d. è maschio: 349; è determinato: 353, 355.
Dissimile (aèno@moiov): si riconduce al molteplice: 211.
Distanza (aèpo@stasiv, dia@stasiv): Aristotele stabilì se ogni
d. differisce massimamente: 111.
Distare (aèpe@cein): «le cose che differiscono massimamen-
te» è identico a «le cose che distano massimamente»:
111.
Distruzione (aèpw@leia): la privazione è uguale a una d.:
117.
Disuguaglianza (aèniso@thv): consiste nel grande e nel picco-
lo.
Disuguale (aònisov): l’uguale e il d. sono principi di tutte le
cose: 197; si colloca sotto l’eccesso e il difetto: 197; si ri-
conduce al molteplice: 211; se vi sono Idee di relativi vi
sarà anche l’Idea di d.: 277.
Diverso (eçterov): Aristotele indagò se sono contrarie le co-
se massimamente d.:111; si riconduce al molteplice: 211.
Divisibile (diaireto@v): se le Idee si mescolano con altre
Idee per una loro parte soltanto, saranno d. pur essendo
impassibili: 285.
Divisione (diai@resiv): con la d. Aristotele ha mostrato l’esi-
stenza della causa finale anche nelle cose immobili: 211.
Dolce (gluku@v): il d. si oppone all’aspro come ciò che non è
né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un
male: 119.
466 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

Due (du@o): i Pitagorici identificavano l’opinione col d.: 351.


Eccedente (uépere@cwn): l’e. e l’ecceduto sono indefiniti e il-
limitati: 197; principi della diade sono l’e. e l’ecceduto:
197.
Ecceduto (uépereco@menov): l’eccedente e l’e. sono indefiniti
e illimitati: 197; principi della diade sono l’eccedente e
l’e.: 197.
Eco (hècw@): Pitagora diceva che l’e. che si origina dal bron-
zo battuto è la voce di un demone ivi racchiuso: 341; che
l’e. che cade molte volte nelle orecchie è voce dei mi-
gliori: 341.
Elemento (stoicei^on): e. della diade sono l’Uno e il Grande
e il Piccolo: 199; i numeri sono e. di tutti gli enti: 201;
l’Uno e la Diade sono e. anche dei numeri, l’Uno come
e. di determinazione e la Diade come e. di indetermina-
tezza: 207; i contrari sono e. degli enti e della sostanza:
211; per i Pitagorici gli e. e i principi dei numeri sono
principi di tutti gli enti: 353.
Elocuzione (le@xiv, oratio): diversità dell’altro libro sulle
categorie dalle Categorie aristoteliche per e.: 85; l’e. di
Aristotele ha avuto in sorte la chiarezza: 109.
Ente (oòn): vi sono tante specie dell’uno quante ve ne sono
dell’e.: 107; è compito di un’unica scienza, identica per
genere, indagare su una determinata specie di e.: 107;
l’Uno e la Diade indefinita sono principi degli e.: 191; le
forme sono prime rispetto agli e.: 195; le Idee sono pri-
me rispetto agli e.: 195; i numeri sono elementi di tutti gli
e.: 201; tutti i contrari sono elementi degli e. e della so-
stanza: 211; i numeri ideali e gli e. matematici sono cause
degli e. fisici: 267.
Epicheirema (eèpicei@rhma): carattere più razionale degli e.
che procedono dalle definizioni: 69.
Eroe (hçrwv): agli dèi e agli e. non si devono tributare ugua-
li onori: 339; agli e. bisogna rivolgersi dopo la metà del
giorno: 339.
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 467

Essere puro (aégneu@ein): agli dèi bisogna rivolgersi essendo


p.: 339.
Esterno (eèkto@v): beni e.: 51.
Eterno (aiòdiov): le cose universali sono eterne: 267; per De-
mocrito la natura di cose e. consiste in piccole sostanze
infinite di numero: 403.
Facoltà (du@namiv): le f. che si possono usare bene o male si
annoverano tra i beni belli e lodevoli: 51.
Fava (ku@amov): Pitagora proibiva di mangiare le f.: 339.
Felicità: (euèdaimoni@a): è un bene degno d’onore: 51; la f. del-
la patria si annovera tra i beni esterni: 51.
Fiamma (flo@x): le eclissi di luna si verificano per dilatazio-
ne di una f. 359.
Figlio (uiéo@v): Pitagora annunciò a un tale la morte del f. an-
cor prima che egli parlasse; 335.
Figura (sch^ma): per Democrito le sostanze hanno f. di ogni
tipo: 403.
Filantropo (fila@nqrwpov): Pitagora era considerato un de-
mone buono e f.: 335.
Fisico (fusiko@v): sono oggetto di problemi f. gli enti f. di cui
si ignorano le cause: 39; anche in merito a problemi f. si
originano problemi dialettici; 39; i numeri ideali e gli en-
ti matematici sono cause degli enti f.: 267.
Fiume (potamo@v): Pitagora fu invocato e salutato dal f. Co-
sa mentre lo attraversava: 331, 333; fu chiamato dal f.
Nasso: 333.
Flessione (ptw^siv): presentazione delle categorie e delle
loro f.: 53; ricerca della categoria linguistica sotto cui
porre le f. dei verbi: 69, 71.
Forma (eiè^dov, morfh@, forma): le f. sono prime rispetto agli
enti: 195; le f. sono numeri: 195, 197; i principi del nume-
ro sono principi delle f.: 197; la diade è un uno per la f.:
197; i Pitagorici ritenevano di poter vedere la f. di un de-
mone: 335-337; per Democrito le sostanze hanno f. di
ogni tipo: 403.
468 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

Forza (ièscu@v): è un bene del corpo: 51.


Freccia (oièsto@v): Pitagora tolse ad Abaris la f. con cui si di-
rigeva: 333.
Fuoco (pu^r, ignis): non raschiare il f. col rasoio: 341; non
ferire il f. con la spada: 343; nel mezzo del tutto vi è il f.:
355; è chiamato torre di Zeus e guardia di Zeus: 357.
Gallo (aèlektruw@n): Pitagora comandava di stare distanti
dal g. bianco: 339.
Generabile (genhto@v): ciò che è sensibile è g.: 389; per cui il
mondo, che è sensibile, è g.: 389.
Generazione (ge@nesiv): coloro per i quali il tutto è ora in
uno stato, ora in un altro, parlano di alterazione più che
di g. e corruzione: 403; per Democrito la g. è riunione di
atomi: 405.
Genere (ge@nov): le articolazioni sono come dei connettivi
che in più significano il g. in modo indeterminato: 69; è
compito di un’unica scienza, identica per g., indagare su
una determinata specie di enti: 105; sono contrarie le co-
se massimamente distanti nel g.: 111.
Genitori (gonei^v): sono un bene degno d’onore: 51.
Giorno (héme@ra): Pitagora apparve a Crotone e a Metapon-
to nel medesimo g. e nella medesima ora: 331; agli eroi
bisogna rivolgersi dopo la metà del g.: 339.
Giustizia (dikaiosu@nh): è un bene dell’anima: 51; è contra-
ria all’ingiustizia: 113; proprio della g. sono il contrac-
cambio e l’uguale: 347; perciò fu identificata col quattro
o col nove: 347-349.
Giusto (di@kaiov): il g. si dispone in modo contrario all’in-
giusto: 113.
Grande e Piccolo (to# me@ga kai# to# mikro@n): Platone chiamò
la materia G. e P.: 191, 193; anche negli intelligibili vi so-
no il G. e P.: 191, 205; coincidono con la Diade indefinita:
191; la disuguaglianza consiste nel g. e p.: 197; elementi
della diade sono il G. e P.: 199; G. e P. sono suoi principi:
201, 205; essi sono principi di ogni numero: 201, 205; e
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 469

principi di tutte le cose: 201, 205; procedono verso l’in-


definito e l’illimitato: 201, 203; verso l’aumento e la dimi-
nuzione: 205, 207; col G. e P. Platone indicava la materia:
203; che essi siano principio anche delle Idee corrispon-
de perciò a un’incongruenza: 203-205; il G. e P. fanno
parte dei relativi: 281.
Grandezza (me@geqov): per Democrito il vuoto è infinito per
g.: 403; le sostanze differiscono per g.: 495.
Idea (eiè^dov, iède@a): la materia accoglie le I.: 189; il vivente in
sé deriva dall’I. dell’uno e dalla prima grandezza, lar-
ghezza e profondità: 193; non esistono le I. di cose catti-
ve: 193; le I. sono prime rispetto agli enti: 195; i principi
del numero sono principi delle I.: 197; per Platone anche
le I. sono numeri: 203; principi delle I. sono l’Uno e la
Diade indefinita o Diade di Grande e Piccolo: 203, 213;
che la Diade indefinita sia principio anche delle I. corri-
sponde a un’incongruenza nel pensiero di Platone: 203-
205; argomenti a favore dell’esistenza delle I. e relative
critiche di Aristotele: formulazioni dell’argomento “dalle
scienze”: 267-269; critiche di Aristotele: gli universali che
le scienze hanno a oggetto non sono le I.: 269; vi sareb-
bero I. anche dei manufatti: 269; vi sarebbero I. anche di
cose delle quali sostengono che non ve ne sono: 269-271;
argomento dell’ “uno sopra i molti”: 171; critiche di Ari-
stotele: si avranno I. anche delle negazioni e delle cose
che non sono: 271-273; ci sarà un’I. unica anche di molte
cose indeterminate: 273; argomento “dal pensare”: 273;
argomento dell’esistenza di I. di relativi: 273-275; critiche
di Aristotele: gli stessi Platonici negavano l’esistenza di I.
di relativi: 275-277; si moltiplica l’I. dell’uguale: 277; si
dovrebbe porre l’I. anche del disuguale, che invece nella
logica dei Platonici è inammissibile: 277; argomento che
porta al “terzo uomo”: formulazioni dell’argomento:
277; prima critica: se il predicato comune è alcunché
d’altro oltre le cose di cui si predica, vi sarà un terzo uo-
470 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

mo: 277; seconda critica: se ciò che è predicato con verità


di più cose esiste come alcunché di diverso e separato da
esse, vi sarà un terzo uomo: 277-279; terza critica: se l’uo-
mo che si predica è diverso da quelli dei quali si predica
e sussiste per proprio conto, e l’uomo si predica degli
uomini individuali e dell’I., vi sarà un terzo uomo: 279; le
I. eliminano i principi: 279, 281; se esistessero le I., non la
Diade indefinita, ma la diade, anzi il numero sarebbe
principio: 279; il numero, ossia un relativo, sarebbe prin-
cipio rispetto a ciò che è per sé: 279-281; oppure una
quantità, se il numero è quantità, sarebbe principio ri-
spetto alla sostanza; 281; le stesse I., in quanto modelli,
sono dei relativi e i relativi sarebbero principi del per sé:
281; e sarebbero maggiormente prive di valore delle co-
se che per esse si producono: 281; l’Uno e la Diade inde-
finita non sarebbero principi: 283; è assurdo che un’I. sia
fatta I. da un’I., cosa che avverrebbe se l’Uno e la Diade
indefinita fossero principi: 283; oppure, se la Diade inde-
finita non è principio, sarà principio la diade in sé: 293; se
le I. sono semplici non possono procedere da principi:
283; incongruenza dell’ammissione di I. anche non di so-
stanze: 283-285; se le I. si mescolano, sono corpi: 285; vi
sarà opposizione tra loro: 285; tanto se un’I. si mescola
tutt’intera con altre I., tanto se vi si mescola soltanto per
una sua parte, si hanno incongruenze: 285; se le I. si me-
scolano con le cose, nella medesima cosa si mescoleran-
no molte I.: 285-287; le I. non saranno più modelli: 287; si
corromperanno assieme alle cose: 297; non sarebbero
separabili, pur essendo in sé: 287; non sarebbero immo-
bili: 287.
Identico (tauèto@n): compete a un’unica scienza indagare
sull’i.: 107; si riconduce all’uno: 107, 211.
Il molto e il poco (to# polu# kai# to# oèli@gon): la diade ha in sé i
m. e i. p.: 197.
Illimitato, indeterminato (aòpeirov): la materia è i.: 191; l’ec-
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 471

cedente e l’ecceduto sono i.: 197; la diade esprime la na-


tura dell’i.: 203; appartiene alla natura dell’i. procedere
verso l’accrescimento e la diminuzione: 205.
Immagine (eièkw@n): non portare le i. degli dèi sugli anelli:
343.
Immobile (aèki@nhtov): con la divisione Aristotele ha mo-
strato l’esistenza della causa finale anche nelle cose i.:
211; se le Idee si mescolano con le cose, non saranno più
i.: 287.
Immutabile (aòtreptov): le cose universali sono i.: 267.
Impassibile (aèpaqh@v): gli atomi permangono identici, es-
sendo i.: 403; se le Idee si mescolano con altre Idee sol-
tanto per una loro parte, saranno divisibili e ripartibili,
pur essendo i.: 285.
In relazione a qualcosa (pro@v ti): enti per sé ed enti i. r. q.:
51.
Incomposto (aèsu@nqetov): i punti sono i.: 195.
Inconoscibile (aògnwstov): l’infinito è i.: 191.
Indefinito/indeterminato/infinito (aèo@ristov): didascalia
delle espressioni i.: 71; ricerca della categoria linguistica
delle espressioni i.: 71; l’eccedente e l’ecceduto sono i.:
197; la Diade è i. perché contiene l’eccedente e l’eccedu-
to: 197; dall’argomento dell’uno sopra i molti segue che
ci sarà un’Idea unica anche di molte cose i.: 273; dall’i. si
immettono il tempo, il soffio e il vuoto: 347; i numeri pa-
ri sono i.: 353, 355.
Indifferente (aèdia@foron): la nudità è privazione di un i.:
117; opposizione di un i. a un i.: 119.
Indivisibile (aèdiai@retov): l’uno è i.: 197.
Infinito (aòpeirov): è inconoscibile: 191; per Democrito la
natura di cose eterne consiste in piccole sostanze i. di
numero: 403; per lui il luogo è i. per grandezza: 403; lo
chiama i.: 403.
Ingenerabile (aège@nhtov): ciò che è intelligibile è i.: 389.
Ingiustizia (aèdiki@a): la giustizia è contraria all’i.: 113.
472 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

Ingiusto (aòdikov): il giusto si dispone in modo contrario


all’i.: 113.
Inintelligibile (aèdiano@htov): una lunghezza senza larghez-
za, come dicono i geometri, è i: 207, 209.
Intelletto (nou^v): per i Pitagorici l’uno è i. e sostanza: 349-
351.
Intelligibile (nohto@v): anche negli i. vi sono il Grande e il
Piccolo: 191; Platone ha posto la Diade indefinita anche
tra le cose i.: 205; ciò che è i. è ingenerabile: 389.
Lacrima (da@kru): Pitagora chiamava il mare l. di Crono:
341.
Lavacro (loutro@n): la purezza si attua nei l.: 339.
Legge (no@mov, lex): le l. come corone delle città: 341; custo-
dire le l. delle città: 343.
Libero (eèleu@qerov): non si devono ordinare le stesse cose
per i l. e per gli schiavi: 339.
Limite (pe@rav): i punti definiscono i l. della linea: 201.
Linea (grammh@): le l. sono prime rispetto alle superfici: 195;
rispetto alle l. sono primi i punti: 195; i punti definiscono
i limiti della l.: 201.
Lira (lu@ra): Pitagora chiamava la costellazione delle Pleia-
di l. delle Muse: 341.
Lodevole (eèèpaineto@v): sono beni l. le virtù, le attività con-
formi a esse e le facoltà che si possono usare bene o ma-
le: 51.
Logico (logiko@v): gli Stoici hanno grandi pensieri nella di-
scussione di argomenti l.: 109.
Lunghezza (mh^kov): una l. senza larghezza, come dicono i
geometri, è inintelligibile: 207, 209.
Luogo (to@pov): lo spazio per Platone è identico al l.: 189; è
un ricettacolo: 191; antitesi del l. sono la destra e la sini-
stra: 345-347; Democrito concepisce il l. come infinito
per grandezza: 403; lo chiama vuoto, nulla, infinito: 403.
Manifesto allo sguardo (oèfqalmofanh@v): per Democrito
dalle sostanze si compongono masse m.a.s.: 405.
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 473

Mano (cei@r): Pitagora chiamava le orse m. di Rea: 341.


Mantenersi puro (kaqareu@ein): la purezza si attua nel m. p.
da un cadavere, da una puerpera e da ogni miasma: 339.
Manufatto (to# uépo# ta#v te@cnav): dall’argomento “dalle
scienze” segue che vi sarebbero Idee anche dei m.: 269.
Mare (qa@latta): Pitagora chiamava il m. lacrime di Crono:
341.
Marino (qala@ssiov; marinus): l’ortica marina è un animale
m. chiamato ostrica: 337; i Pitagorici invitavano a non
mangiare animali m.: 337.
Massa (oògkov): per Democrito dalle sostanze si compongo-
no m. manifeste allo sguardo, cioè sensibili: 405; esse si
muovono nel vuoto e si compongono tra loro: 405.
Matematico (maqhmatiko@v): i m. chiamano i punti monadi:
195; i numeri ideali e gli enti m. sono cause degli enti fi-
sici: 267; se la Diade indefinita è altra dalla diade in sé e
dalla diade m., la quantità delle diadi sarà sorprendente:
283.
Materia (uçlh): identità per Platone di m. e spazio: 189; ac-
coglie le Idee, per partecipazione o per somiglianza: 189;
è chiamata da Platone “ricettacolo” e “grande e picco-
lo”: 191, 193; è indeterminata: 191; con la Diade indefini-
ta Platone indicava la m.: 203; donde un’incongruenza:
203-205; altre sono le cose materiali e la m.: 389; la m.
come “altra cosa”: 389.
Materia plasmata e informante (eèkmagei^on): la Diade è ma-
teria plasmata e informante: 199.
Materiale (eònulov): le cose sensibili hanno natura m.: 191;
altre sono le cose m. e la materia: 389.
Matrice (mh@tra): i Pitagorici non mangiano la m.: 337, 339.
Medio/mezzo/metà (me@sov): se tra i contrari vi sia un m.: 115;
agli eroi bisogna rivolgersi dopo la m. del giorno: 339; i
corpi celesti che traslano intorno al m. hanno distanze
scandite da rapporti proporzionali: 351; nel m. del tutto vi
è il fuoco: 355; l’antiterra trasla intorno al m.: 355.
474 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

Melanuro (mela@nourov): Pitagora proibiva di mangiare il


m.: 339.
Mescolanza (mi^xiv): la m. comporta contrarietà: 285.
Miasma (mi@asma): la purezza si attua nel mantenersi puri
da ogni m.: 339.
Mida (Mi@dav): Pitagora diceva di essere il frigio M.: 331-
333, 335.
Mistico (mistiko@v): Pitagora parlava in modo m. e per sim-
boli: 341.
Mobile (réeutiko@v): le cose sensibili hanno natura m.: 191.
Modello (para@deigma): le Idee, in quanto m., sono dei rela-
tivi e i relativi sarebbero principi del per sé: 281; le Idee
sono m. delle cose: 283; se le Idee si mescolano con le
cose, non saranno più m.: 287.
Moderazione (swfrosu@nh): è un bene dell’anima: 51.
Molteplice/molteplicità/molti/moltitudine (polla@, plh^qov):
si riconducono al m. il diverso, il disuguale e il dissimile:
107, 211; tutti i contrari si riconducono all’uno e al m.
come loro principi: 107, 109, 209, 211; la serie delle cose
che hanno più bisogno dei m. segue quella delle cose che
si riconducono all’uno: 107; argomento dell’ “uno sopra i
m.” e critiche di Aristotele: 171-173; le l’Idea si mescola
tutta intera con altre Idee, l’uno sarà m. cose: 285; nella
cosa si mescolano m. Idee: 285-287.
Momento opportuno (kairo@v): per i Pitagorici il m. o. è il
sette: 349.
Monade (mona@ v ): i Platonici chiamano i punti m.: 195;
principi del numero sono la m. e la diade: 197; l’uguale
si colloca sotto la m.:197; la m. aggiunta a un numero
pari ne genera uno dispari e aggiunta a un numero di-
spari ne genera uno pari: 199; per i Pitagorici la m. è
parimpari: 353, 355; le m. sono i principi dei numeri:
355.
Mondo (ko@smov): per Democrito ciascuno degli infiniti m.
si genera e si corrompe: 403.
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 475

Mortale (qnhto@v): Pitagora diceva d’essere stato generato


dai semi migliori della natura m.: 331.
Morte (qa@natov): Pitagora annunciò a un tale la m. del fi-
glio ancor prima che egli parlasse; 335.
Morto naturalmente (qnhsei@ d iov): la purezza si attua
nell’astenersi da carni di animali m. n. come cibi: 339.
Movimento (ki@nhsiv): è il contrario per sé della stasi: 113; la
quiete si oppone al m. come ciò che non è né un bene né
un male a ciò che non è né un bene né un male: 119; per
i Pitagorici l’opinione è m.: 351.
Muse (mou^sai): Pitagora chiamava la costellazione delle
Pleiadi lira delle M.: 341.
Natura (fu@siv): Aristotele assume il possesso e la privazio-
ne nelle argomentazioni oppositive concernenti la n.:115;
la cecità è una privazione per n.:115; le cose sensibili
hanno n. materiale, indeterminata e mobile: 191; il dieci
è perfetto e comprende in sé tutta la n. dei numeri: 329;
Pitagora diceva d’essere stato generato dai semi migliori
della n. mortale: 331; il bianco è proprio della n. del be-
ne: 339; per i Pitagorici i numeri sono primi rispetto a
tutta la n. e a tutti gli enti per n.: 353; per Democrito la n.
di cose eterne consiste in piccole sostanze infinite di nu-
mero: 403; dal comporsi delle masse democritee non si
genera un’unica n.: 405.
Nave (ploi^on): Pitagora predisse l’affondamento di una n.
che a Metaponto entrava in porto con un carico di mer-
ci: 329-331, 333.
Necessità (aèna@gkh): per Democrito le sostanze restano as-
sieme fino a che una n. più forte le scuota e la disperda:
405.
Negazione (aèpo@fasiv): ricerca della categoria linguistica
sotto cui porre le n.: 69, 71; dall’argomento dell’uno so-
pra i molti segue che si avranno Idee anche delle n.: 271-
273.
Nero (me@lav): è il colore capace di comporre la visione:
476 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

113; il banco si oppone al n. come ciò che non è né un


bene né un male a ciò che non è né un bene né un male:
119.
Nozze (ga@mov): i Pitagorici identificavano le n. col cinque:
349.
Nudità (gumno@thv): è una privazione relativa al costume:
115; è privazione di un indifferente: 117.
Nulla (ouède@n): Democrito chiama il luogo nulla: 403.
Numero (aèriqmo@v): l’Uno e la Diade indefinita sono princi-
pi dei n.: 191; Platone e i Pitagorici ipotizzarono come
principi degli enti i n.: 195, 201, 351; per i Pitagorici il n. è
principio del cielo e del tutto: 351; il cielo è costituito
secondo n. e armonie: 353; i n. sono primi rispetto a tutta
la natura e a tutti gli enti per natura: 353; le forme sono
n.: 195, 197; i principi del n. sono principi delle forme:
197; principi delle Idee: 197; principi del n. sono la mona-
de e la diade: 197, 201; l’Uno e il Grande e il Piccolo: 201;
le monadi sono i principi dei n.: 355; la diade è il primo
n.: 197, 201; la monade è il primo dei n.: 345; aggiunta a
un n. pari ne genera uno dispari e aggiunta a un numero
dispari ne genera uno pari: 199; i n. sono primi rispetto
alle altre cose: 201; i principi del primo numero, ossia
della diade, sono principi di ogni numero: 201; i n. sono
elementi di tutti gli e.: 201; per i Pitagorici gli elementi e
i principi dei n. sono principi di tutti gli enti: 353; per
Platone anche le Idee sono n.: 201; l’Uno e la Diade so-
no elementi anche dei n., l’Uno come elemento di deter-
minazione e la Diade come elemento di indeterminatez-
za: 207; se esistessero le Idee, non la Diade indefinita, ma
la diade, anzi il n. sarebbe principio: 279; il n., ossia un
relativo, sarebbe principio rispetto a ciò che è per sé:
279-281; oppure, se il n. è una quantità, una quantità sa-
rebbe principio rispetto a una sostanza: 281; il dieci è
perfetto e comprende in sé tutta la natura dei n.: 329;
Pitagora all’inizio si applicò allo studio dei n.: 329; i Pita-
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 477

gorici divisero i n. in pari e dispari: 345; fecero delle anti-


tesi del dieci il simbolo delle antitesi di ogni n.: 345; indi-
carono la disposizione dei n. nel cielo: 347; ricondussero
la somiglianza delle cose a quella dei n.: 347; le armonie
sono costituite secondo certi numeri, per cui i n. sono
loro principi: 351-353; i n. pari sono indeterminati, quelli
dispari determinati: 353; per Democrito la natura di cose
eterne consiste in piccole sostanze infinite di n.: 403.
Numero ideale (eièdhtiko#v aèriqmo@v): i n. i. e gli enti mate-
matici sono cause degli enti fisici: 267.
Onore (timh@): agli dèi e agli eroi non si devono tributare
uguali o.: 339.
Opinione (do@xa): talvolta si muta dall’o. falsa nel non avere
alcuna o. nella scienza, non nell’o. vera: 115; le o. dei Pi-
tagorici sono raccontate nel Sul bene: 193; nella sua o. su
Platone, Aristotele ha tralasciato di richiamare che egli
considerò la causa efficiente come causa finale: 209; i Pi-
tagorici identificavano l’o. col due: 351; dicevano che l’o.
è anche movimento e aggiunta: 351.
Opinione notevole (eòndoxon): la dialettica divenne capacità
di argomentare confutativamente per demolire o costrui-
re sulla base di o. n.: 31.
Opposto (aèntikei@menov): dottrina aristotelica degli o.: 109.
Ora (wòra): Pitagora apparve a Crotone e a Metaponto nel
medesimo giorno e nella medesima o.: 331.
Ordine (ta@xiv): criterio per decidere sulla paternità aristo-
telica di uno dei due libri sulle categorie: 83.
Orecchio (ouè^v): fare libagioni agli dèi lungo l’o. delle cop-
pe: 343.
Orsa (aòrktov): Pitagora presagì l’o. bianca: 331; in Caulonia
apparve l’o. bianca come segno di un prodigio richiesto
da Pitagora per parlare: 335; chiamava le o. mani di Rea:
341.
Ortica marina (aèkalh@fh): l’o. m. è un animale marino chiama-
to ostrica: 337; i Pitagorici si astengono dal mangiarla: 337.
478 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

Ostrica (urtica): l’ortica marina è un animale marino chia-


mato o.: 337.
Oviparo (wèjoto@kov): la purezza si attua nell’astenersi da
animali o.: 339.
Pane (aòrtov): Pitagora comandava di non spezzare il p.:
339-341; né di dividerlo: 341.
Pari (aòrtiov): nel p. vi sono eccesso e difetto: 207; i Pitago-
rici divisero i numeri in p. e dispari: 345; il p. è femmina:
349; i numeri p. sono indeterminati: 353, 355.
Parimpari (aèrtiope@rittov): la monade è p.: 353, 355.
Parola benedicente (euèfhmi@a): agli dèi bisogna rivolgersi
con p. b.: 339.
Parte (me@rov): il bene è proporzione delle p. tra loro: 113; se le
Idee si mescolano con altre Idee soltanto per una loro p.,
saranno divisibili e ripartibili, pur essendo impassibili: 285;
tutte saranno incongruentemente costituite di p. simili: 295.
Partecipare (mete@cein): cose contrarie per il fatto di p. di
contrari: 113; se l’Idea si mescola con altre Idee per una
sua parte soltanto, sarà uomo ciò che p. soltanto di una
parte dell’uomo: 285.
Partecipazione (me@texiv): la materia accoglie le Idee per p.:
189.
Particolare (meriko@v): tutte le cose p. mutano: 267.
Partire (aèpodhmei^n, proficisci): non volgersi indietro quan-
do si p.: 343; una volta p. non tornare indietro: 343.
Patria (patri@v): la felicità della p. si annovera tra i beni
esterni: 51.
Per sé (kaq è eéauta@/ kaq è auéta@): enti p. s. ed enti in relazione
a qualcosa: 51; contrari p. s.: 113; se esistessero le Idee, il
numero, ossia un relativo, sarebbe principio rispetto a
ciò che è p. s.: 279-281; le stesse Idee, in quanto modelli,
sono dei relativi e dunque un relativo sarebbe principio
del p. s.: 281.
Per simboli (sumbolikw^v): Pitagora parlava in modo misti-
co e p. s.: 341.
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 479

Perfetto (te@leiov): il dieci è p. e comprende in sé tutta la


natura dei numeri: 329, 353.
Pesante (baru@v): l’acuto si oppone al p. come ciò che non è
né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un
male: 119.
Pesce (iècqu@v): Pitagora comandava di star lontano dai p.:
339.
Pesce fragolino (eèruqi@nov): Pitagora proibiva di mangiare
il p. f.: 339.
Peso (forti@on, onus): aiutare ad alzare il p. coloro che lo
sollevano e non deporlo assieme: 343.
Pianeta (planh@thv): Pitagora chiamava i p. cani di Persefo-
ne: 341.
Pietà (oiè^ktov): alla stragrande maggioranza delle privazio-
ni fanno seguito compassione e p.: 117.
Polo (po@lov): i Pitagorici chiamano il p. sigillo di Rea: 357.
Posizione (qe@siv): i punti sono monadi dotate di p.: 201.
Possesso (eçxiv): Aristotele non assume il p. e la privazione
nelle argomentazioni oppositive concernenti il caratte-
re, ma in quelle per natura: 115.
Principio (aèrch@): tutti i contrari si riconducono all’uno e al
molteplice come loro p.: 107, 109, 209, 211; i p. del primo
numero, ossia della diade, sono p. di ogni numero: 201; p.
della diade sono l’Uno e il Grande e il Piccolo: 201;
l’Uno e la Diade indefinita, o Diade di Grande e Piccolo,
sono p. dei numeri e di tutti gli enti: 191, 201, 203; Plato-
ne e i Pitagorici ipotizzarono come p. degli enti i numeri:
195, 351; per i Pitagorici il n. è p. del cielo e del tutto: 351;
p. del numero sono la monade e la diade: 197, 201; le
monadi sono i p. dei numeri: 355; i p. del numero sono p.
delle forme: 197; e p. delle Idee: 197; per i Pitagorici gli
elementi e i p. dei numeri sono p. di tutti gli enti: 353;
l’uno è p. di tutte le cose: 197; le forme sono p. delle cose:
197; l’uguale e il disuguale sono p. di tutte le cose: 197; p.
della diade sono ciò che eccede e ciò che è ecceduto:
480 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

197; che la Diade indefinita sia p. anche delle Idee corri-


sponde a un’incongruenza nel pensiero di Platone: 203-
205; p. delle stesse Idee per Platone sono l’Uno e la Dia-
de indefinita: 213; le Idee eliminano i p.: 279, 281; se esi-
stessero le Idee, non la Diade indefinita, ma la diade sa-
rebbe p., anzi il numero: 279; il numero, ossia un relativo,
sarebbe p. rispetto a ciò che è per sé: 279-281; oppure la
quantità sarebbe p. rispetto alla sostanza: 281; le stesse
Idee, in quanto modelli, sono dei relativi e dunque un
relativo sarebbe p. del per sé: 281; l’Uno e la Diade inde-
finita non sarebbero p.: 283; se l’Uno e la Diade indefini-
ta fossero p., un’Idea sarebbe fatta Idea da un’Idea: 283;
oppure, se la Diade indefinita non è p., sarà p. la diade in
sé: 293; se le Idee sono semplici non possono procedere
da p.: 283.
Privazione (ste@rhsiv): ricerca della categoria linguistica
sotto cui porre le p.: 69, 71; Aristotele non assume il pos-
sesso e la p. nelle argomentazioni oppositive concernen-
ti il carattere, ma in quelle per natura: 115; la cecità è una
p. per natura: 115; la nudità è una p. relativa al costume:
115; la p. di denaro è una p. che sopraggiunge nell’uso:
117; la p. si estende a tutti i significati di avere: 117; è
uguale a una distruzione: 117; non si ha p. di un male:
117; la cecità è p. di un bene: 117; la nudità è p. di un in-
differente: 117; nessuna p. è un b.: 117; non si ha p. dei
beni dell’anima riguardanti la scelta deliberata: 117; alla
stragrande maggioranza delle p. fanno seguito compas-
sione e pietà: 117; Aristotele paragona l’antitesi delle p.
naturali a quella dei contrari: 117.
Privo di valore (aòtimov): le Idee, se esistessero, sarebbero mag-
giormente p. d. v. delle cose che per esse si producono: 281.
Problema (pro@blhma): sono oggetto di p. fisici gli enti fisici
di cui si ignorano le cause: 39; anche in merito a p. fisici
si originano p. dialettici; 39; tutti i p. dialettici si ricondu-
cono alla ricerca del “che è” e del “se è”: 39.
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 481

Produttrice del due (duopoio@v): la diade è p. d. d.: 199.


Proporzione (summetri@a): il bene è p. delle parti tra loro:
113.
Puerpera (le@cov): la purezza si attua nel mantenersi puri
da una p.: 339.
Punto (stigmh@): sono primi rispetto alle linee: 195; i mate-
matici li chiamano segni, i Platonici monadi: p, 195; i p.
sono monadi dotate di posizione: 201.
Purezza (aègnei@a): condizioni della purezza: 339.
Quantità (poso@n): se esistessero le Idee, una q. sarebbe
principio rispetto alla sostanza: 281.
Quiete/stasi (sta@siv): è contraria per sé del movimento: 113; la
q.. si oppone al movimento come ciò che non è né un bene
né un male a ciò che non è né un bene né un male: 119.
Raggio (auègh@): Pitagora diceva che l’arcobaleno è un r. del
sole: 341.
Rasoio (ma@caira): non raschiare il fuoco col r.: 341.
Razionale (logiko@v): carattere più r. degli epicheiremi che
procedono dalle definizioni: 69; del vivente r. fanno par-
te Dio, l’uomo e Pitagora: 335.
Relativo (pro@v ti): argomento dell’esistenza di Idee di r. e
critiche di Aristotele: 273-277; se esistessero le Idee, il
numero, ossia un r., sarebbe principio rispetto a ciò che è
per sé: 279-281.
Ricchezza (plou^^tov): si annovera tra i beni esterni: 51.
Ricettacolo (metalhptiko@n): per Platone lo spazio è un r.:
189, 191; la materia è un r.: 191; il luogo è un r.: 191.
Ripartibile (meristo@v): se le Idee si mescolano con altre
Idee soltanto per una loro parte, saranno r., pur essendo
impassibili: 285.
Rito di purificazione (kaqarmo@n): la purezza si attua nel
praticare r. d. p.: 339.
Riunione (su@gkrisiv, su@nodov): per Democrito la genera-
zione è r. di atomi: 405; Pitagora diceva che il terremoto
è una r. di morti: 341.
482 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

Rondine (celidw@n, hirundo): non accogliere r. in casa: 343.


Saggezza (fro@nhsiv): è un bene dell’anima: 51; è contraria
alla stoltezza: 113.
Salute (uégi@eia): è un bene del corpo: 51.
Scelta deliberata (proai@resiv): non si ha privazione dei be-
ni dell’anima riguardanti la s. d.: 117.
Schiavo (dou^lov): non si devono ordinare le stesse cose per
i l. e per gli s.: 339.
Scienza (eèpisth@mh): è compito di un’unica s., identica per
genere, indagare su una determinata specie di enti: 107;
indagare sull’identico, sull’uguale, sul simile e sui loro
contrari, cioè sul diverso, sul disuguale e sul dissimile:
107; talvolta si muta dall’opinione falsa nel non avere
alcuna opinione o nella s., non nell’opinione vera: 115;
argomento “dalle s.” e critica di Aristotele: 267-269.
Segno (shmei^on): i Platonici chiamavano i punti s.: 195; in
Caulonia apparve l’orsa bianca come s. di un prodigio
richiesto da Pitagora per parlare: 335.
Seme (spe@rma): Pitagora diceva d’essere stato generato dai
s. migliori della natura mortale: 331.
Sensibile (aièsqhto@v): tutte le cose s. sono avvolte dall’infi-
nito e inconoscibili per il fatto di avere natura materiale,
indeterminata e mobile: 191; Platone ha posto l’Uno e la
Diade indefinita come principi anche delle cose s.: 205;
ciò che è s. è generabile: 389; per Democrito dalle so-
stanze si compongono masse s.: 405.
Senso (aiòsqhsiv): per Democrito le sostanze sono così pic-
cole da sfuggire ai nostri s.: 403.
Senza larghezza (aèplath@v): una lunghezza s. l., come dico-
no i geometri, è inintelligibile: 207, 209.
Separabile (cwristo@v): se le Idee si mescolano con le cose,
non saranno s., pur essendo in sé: 287.
Separazione (dia@krisiv): per Democrito la corruzione è s.
di atomi: 405.
Serie (sustoici@a): la s. delle cose migliori si riconduce
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 483

all’uno: 107; i Pitagorici ricondussero ogni antitesi a due


s. e completarono ciascuna con la decade: 345.
Serpente (oòfiv): Pitagora uccise a morsi un s. velenoso che
lo morsicava: 331, 333; e un s. irsuto che uccideva: 333.
Sette (eépta@): i Pitagorici identificavano Atena con il s.: 349.
Simbolo (su@mbolon): simboli pitagorici: 341-343; i Pitagori-
ci fecero delle antitesi del dieci il s. delle antitesi di ogni
numero: 354.
Simile (oçmoiov): compete a un’unica scienza indagare sul
s.:107; si riconduce all’uno: 107, 211; se le Idee si mesco-
lano con altre Idee soltanto per una loro parte, tutte sa-
ranno incongruentemente costituite di parti s.: 285.
Sinistra (aèristero@n): per i Pitagorici, antitesi del luogo sono
la destra e la s.: 345-347; disponevano a s. il basso e il
dietro: 357; la s. è un male: 347; il sopra del cielo è a s.:
357.
Soffio (pnoh@): dall’infinito si immette il s.: 347.
Sole (hçliov): Pitagora diceva che l’arcobaleno è un raggio
del s.: 341; per i Pitagorici ha affinità col sette: 349.
Solido (nasto@v): Democrito chiama ciascuna delle sostanze
“s.”: 403.
Sollevazione (sta@siv): Pitagora preannunciò una s.: 331.
Somiglianza (oémoi@wsiv): la materia accoglie le Idee per s.:
189; i Pitagorici ricondussero la s. delle cose a quella dei
numeri: 347.
Sostanza (ouèsi@a): i contrari sono elementi degli enti e della
s.: 211; se esistessero le Idee, una quantità sarebbe prin-
cipio rispetto alla s.: 281; incongruenza dell’ammissione
di Idee anche non di s.: 283-285; per i Pitagorici l’uno è
intelletto e s.: 349-351; per Democrito la natura di cose
eterne consiste in piccole s. infinite di numero: 403; egli
chiama ciascuna delle s. “qualcosa”, “solido”, “essere”:
403; ritiene che le s. siano così piccole da sfuggire ai no-
stri sensi: 403; hanno forme e figura d’ogni tipo: 403; dif-
feriscono per grandezza: 405.
484 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

Sottigliezza (subtilitas): criterio per valutare l’autenticità


aristotelica delle Categorie: 85.
Sovrapposizione (aènti@fraxiv): le eclissi di luna si verifica-
no per la s. talvolta della terra, talvolta dell’antiterra:
359.
Spada (gladium): non ferire il fuoco con la s.: 343.
Spazio (cw@ra): identità per Platone di materia e s.: 189; lo s.
è un ricettacolo: 189, 191; è identico al luogo: 189.
Specie (eiè^dov): vi sono tante s. dell’uno quante ve ne sono
dell’ente: 107; è compito di un’unica scienza, identica
per genere, indagare su una determinata s. di enti: 107;
per Empedocle ciò che diviene non è identico a ciò che
si corrompe se non per s.: 405.
Sproporzione (aèsummetri@a): è contraria alla proporzione
delle parti tra loro: 113.
Stadera (statera): non oltrepassare la s.: 343.
Stile (le@xiv): tanto le Categorie aristoteliche quanto l’altro
libro sulle categorie sono succinti nello s.: 83.
Stoltezza (aèfrosu@nh): è contraria alla saggezza: 113.
Superficie (eèpi@pedon): le s. sono prime rispetto ai corpi: 195;
le linee sono prime rispetto alle s.: 195.
Svolgere le difficoltà (diaporei^n): il solo s. l. d. non è inutile:
195.
Tavola (tra@peza): Pitagora comandava di non raccogliere
ciò che cade dalla t.: 339.
Tempo (cro@nov): dall’infinito si immette il t.: 347.
Terra (gh^): l’antiretta è così chiamata per occupare una po-
sizione contraria a quella della t.: 355; le eclissi di luna si
verificano per la sovrapposizione talvolta della t., talvol-
ta dell’antiterra: 359.
Terremoto (seismo@v): Pitagora diceva che il t. è una riunio-
ne di morti: 341.
Tesi (qe@siv): la dialettica divenne esercizio di argomenta-
zione confutativa in vista della demolizione o della co-
struzione di una t. a partire da opinioni notevoli: 31; in
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 485

Aristotele e in Teofrasto si trovano i modelli di come


esercitarsi nelle t.: 31.
Tornare indietro (redire): una volta partiti, non t. i.: 343.
Triglia (tri@glh, trigli@v): Pitagora invitava ad astenersi dal
mangiare le t.: 337, 339.
Uguale (iòsov): compete a un’unica scienza indagare sull’u.:
107; si riconduce all’uno: 107, 211; l’u. e il disuguale sono
principi di tutte le cose: 197; si colloca sotto la monade:
197; se vi sono Idee di relativi si moltiplica l’Idea
dell’uguale: 277; agli dèi e agli eroi non si devono tribu-
tare u. onori: 339; per i Pitagorici propri della giustizia
sono il contraccambio e l’u.: 347.
Unità (unitas): l’u. è l’unico uno e vuol essere chiamata de-
siderio: 345.
Universale (kaqo@lou): le definizioni sono realtà u. e per-
mangono sempre: 267; le cose u. sono immutabili ed
eterne: 267; gli u. che le scienze hanno a oggetto non so-
no le Idee: 269.
Uno (eçn): vi sono tante specie dell’u. quante ve ne sono
dell’ente: 107; tutti i contrari si riconducono all’u. e al
molteplice come loro principi: 107, 109, 209, 211; all’u. si
riconducono l’identico, l’uguale e il simile: 107, 211; vi si
riconduce la serie delle cose migliori: 107; differenze
dell’uno: 107; la serie delle cose che hanno più bisogno
dei molti segue quella delle cose che si riconducono
all’u.: 107; il bene è l’U.: 189; assieme alla Diade indefini-
ta è principio dei numeri e degli enti: 191; il vivente in sé
deriva dall’Idea dell’u. e dalla prima grandezza, larghez-
za e profondità: 193; l’u. è principio di tutte le cose: 197;
la diade è prima oltre l’u.: 197; l’u. è indivisibile: 197; per
questo è contrario alla diade: 197; la Diade indefinita,
definita dall’u., diventa diade: 197; elementi della diade
sono l’U. e il Grande e il Piccolo: 199; l’U. e il Grande e il
Piccolo (o Diade indefinita) sono principi della diade:
201; e di ogni numero: 201; e di tutte le cose: 201, 203; l’U.
486 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

è elemento anche dei numeri, e precisamente come ele-


mento di determinazione: 207; principi delle stesse Idee
per Platone sono l’U. e la Diade indefinita: 213; argo-
mento dell’ “u. sopra i molti” e critiche di Aristotele:
171-173; se esistessero le Idee, l’U. e la Diade indefinita
non sarebbero principi: 283; se l’Idea si mescola tutta in-
tera con altre Idee, l’u. sarà molte cose: 285; l’unità è
l’unico u.: 345; l’u. aggiunto a un numero pari dà luogo a
un numero dispari e aggiunto a un numero dispari dà
luogo a un numero pari: 345; il cielo è u.: 347; l’u. è intel-
letto e sostanza: 349-351.
Uomo (aè n@ qrwpov): è u. non solo chi ha successo, ma anche
chi opera dimostrazioni: 195; argomento che porta al
“terzo u.” e critiche di Aristotele: 277-279; se l’Idea si
mescola con altre Idee per una sua parte soltanto, sarà u.
ciò che partecipa soltanto di una parte dell’u.: 285; del
vivente razionale fanno parte Dio, l’u. e Pitagora: 335;
non si devono ordinare le stesse cose per gli dèi e per gli
u.: 339.
Uovo (wjèo@n): la purezza si attua nell’astenersi dalle u.: 339.
Utile (wèfe@limov): sono u. i beni atti a produrre cose che si
possono usare bene o male: 51.
Verbo (réh^ma): ricerca della categoria linguistica sotto cui
porre le flessioni dei v.: 69.
Via maestra/pubblica (lewfo@rov, via publica): non cammi-
nare per le v. m.: 343.
Virtù (aèreth@): è un bene bello e lodevole: 51; è contraria
per sé del vizio: 113.
Visibile (fanero@v): i corpi v. del cielo: 329.
Visione (oòyiv): il bianco è il colore capace di scindere la v.:
113.
Vivente (zwj^on): del v. razionale fanno parte Dio, l’uomo e
Pitagora: 335.
Vivente in sé (auèto# to# zwj^on): deriva dall’Idea dell’uno e
dalla prima grandezza, larghezza e profondità: 193.
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 487

Vizio (kaki@a): è il contrario per sé della virtù: 113.


Vocabolo (le@xiv): i v. sono atti a significare: 69.
Voce (fwnh@): Pitagora udì una v. grande e sovrumana che
lo salutava mentre attraversava il fiume Cosa: 331; dice-
va che l’eco che si origina dal bronzo battuto è la v. di un
demone ivi racchiuso: 341; che l’eco che cade molte vol-
te nelle orecchie è v. dei migliori: 341.
Volgersi indietro (eèpistre@fesqai): non v. i. quando si parte:
343.
Vuoto (keno@v): dall’infinito si immette il v.: 347; Democrito
chiama il luogo v.: 403; le masse si muovono nel v. e si
compongono tra loro: 405;
GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI
E DELLE EQUIVALENZE CON L’ITALIANO1

aèeto@v: aquila aèndrei@a: coraggio


aègaqo@n: bene aèniso@thv: disuguaglianza
aègaqo@v: buono aèno@moiov: dissimile
aège@nhtov: ingenerabile aè n@ qrwpov: uomo
aègnei@a: purezza animal: animale
aègneu@ein: essere puro aònisov: disuguale
aògnwstov: inconoscibile aènti@qesiv: antitesi
aèdia@foron: indifferente aèntikei@menov: opposto
aèdiai@retov: indivisibile aèntipeponqo@v: contraccam-
aèdiano@htov: inintelligibile bio
aèdiki@a: ingiustizia aènti@cqwn: antiterra
aòdikov: ingiusto aènti@fraxiv: sovrapposizione
aèkalh@fh: ortica marina aònw: alto
aiòdiov: eterno aèo@ristov: indefinito
aiòsqhsiv: senso aèo@ristov dua@v: Diade inde-
aièsqhto@v: sensibile finita
aiòtion: causa aòpeirov: indefinito, indeter-
aèki@nhtov: immobile minato, infinito
aèlektruw@n: gallo aèpaqh@v: impassibile
aèlloi@wsiv: alterazione aèpe@cein: distare
amicus: amico aèplath@v: senza larghezza
aèna@gkh: necessità aèpo@deixiv: dimostrazione

1
In questo indice sono stati introdotti anche quei nomi propri
che denotano nozioni.
490 GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI

aèpo@fasiv: negazione corona: corona


aèpo@stasiv: distanza cupido: desiderio
aè p odeiknu@ n ai: dimostrare,
operare dimostrazioni ga@mov: nozze
aèpodhmei^n: partire ge@nesiv: generazione
è A po@ l lwn é U perbo@ r eiov: ge@nov: genere
Apollo Iperboreo genhto@v: generabile
aèpori@a: aporia gh^: terra
aèpw@leia: distruzione gladium: spada
aèreth@: virtù gluku@v: dolce
aèrgu@rion: denato gnh@siov: autentico
aèriqmo@v: numero gonei^v: genitori
aèristero@n: sinistra grammh@: linea
aérmoni@a: armonia gumno@thv: nudità
aèrtiope@rittov: parimpari
aòrqron: articolazione daemon: demone
aòrktov: orsa dai@mwn: demone
aòrtiov: pari da@kru: lacrima
aòrtov: pane daktu@liov: anello
aèrch@: principio deambulare: camminare
aèsu@nqetov: incomposto deka@v: dieci, decade
aèsummetri@a: sproporzione dexio@n: destra
aòtimov: privo di valore di@kaiov: giusto
aòtomov: atomo dia@krisiv: separazione
aòtreptov: immutabile dia@stasiv: distanza
auègh@: raggio diai@resiv: divisione
auèto# to# zwj^on: vivente in sé diairetiko@v: atto a dividere
aèfrosu@nh: stoltezza diaireto@v: divisibile
diakritiko@v: capace di scin-
badi@zein: camminare dere
baru@v: pesante dialektikh@: dialettica
brevitas: brevità dialektiko@v: dialettico
diaporei^n: svolgere le diffi-
communis : comune coltà
cor: cuore diafe@rein: differire
GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI 491

diafe@rwn: differente, distan- eèpi@qesiv: aggiunta


te eèpi@pedon: superficie
diafora@: differenza eèpine@mhsiv: dilatazione
didaskali@a: didascalia eèpisth@mh: scienza
dikaiosu@nh: giustizia eèpistre@fesqai: volgersi in-
domus: casa dietro
do@xa: opinione eèpicei@rhma: epicheirema, ar-
dou^lov: schiavo gomento oppositivo,
dua@v: diade obiezione
du@namiv: facoltà eèpicei@rhsiv: argomento con-
du@o: due futativo/oppositivo
duopoio@ v ; produttrice del eépta@: sette
due eèruqi^nov: pesce fragolino
eçterov: diverso
eòqov: carattere, costume eétero@thv: alterità
eiè^dov: forma, idea, specie euèdaimoni@a: felicità
eièdhtiko#v aèriqmo@v: numero euèexi@a: buona condizione
ideale euèfhmi@a: parola benedicente
eòkpwma: coppa eòcein: avere
eièkw@n: immagine
eèkmagei^on: materia plasma- hçliov: sole
ta e informante héme@ra: giorno
eèkto@v: esterno hçrwv: eroe
eòleov: compassione hècw@: eco
eèleu@qerov: libero
eòmprosqen: davanti qala@ssiov: marino
eçn: uno qa@latta: mare
eènanti@ov: contrario qa@natov: morte
eènanti@wsiv: contrarietà qe@siv: posizione, tesi
eènantio@thv: contrarietà qeo@v: Dio
eòndoxon: opinione notevole qnhsei@diov: morto natural-
eène@rgeia: attività mente
eònulov: materiale qnhto@v: mortale
eçxiv: possesso
eèèpaineto@v: lodevole hirundo: rondine
492 GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI

iède@a: idea le@cov: puerpera


ignis: fuoco lewfo@rov: via maestra
iè^riv: arcobaleno logiko@v: logico, razionale
iòsov: uguale lo@ g ov oé r istiko@ v : discorso
ièscu@v: forza definitorio
iècqu@v: pesce loutro@n: lavacro
lu@ra: lira
kaqareu@ein: mantenersi puro
kaqarmo@n: rito di purifica- ma@qhma: conoscenza, scien-
zione za matematica
kaq è eéauto@: per sé maqhmatiko@v: matematico
kaqo@lou: universale marinus: marino
kairo@v: momento opportu- me@geqov: grandezza
no me@lav: nero
kaki@a: vizio mela@nourov: melanuro
kako@n: male meriko@v: particolare
kako@v: cattivo meristo@v: ripartibile
ka@llov: bellezza me@rov: parte
kalo@v: bello me@sov: medio, mezzo, metà
kardi@a: cuore metalhptiko@n: ricettacolo
kathgori@a: categoria me@texiv: partecipazione
ka@tw: in basso mete@cein: partecipare
keno@v: vuoto mh^kov: lunghezza
kh^dov: cadavere mh@tra: matrice
ki@nhsiv: movimento mhro@v: coscia
ko@smov: mondo mi@asma: miasma
kre@av: carne Mi@dav: Mida
ku@amov: fava mi^xiv: mescolanza
ku@wn: cane mistiko@v: mistico
mona@v: monade
le@xiv: elocuzione, stile, vo- mou^sa: musa
cabolo
leuko@v: bianco nasto@v: solido
leuceimonw^n: coperto di un no@mov: legge
bianco mantello nohto@v: intelligibile
GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI 493

nou^v: intelletto pleia@v: costellazione delle


PLeiadi
oògkov: massa plh^qov: molteplice/molte-
oièki@a: casa plicità/moltitudine
oiè^ktov: pietà ploi^on: nave
oièsto@v; freccia plou^^tov: ricchezza
oçmoiov: simile pnoh@: soffio
oémoi@wsiv: somiglianza po@liv: città
oèxu@v: acuto po@lov: polo
oòn: ente polla@: (i) molti
onus: peso poso@n: quantità
oòpisqen: dietro potamo@v; fiume
oratio: elocuzione proai@resiv: scelta delibera-
oérismo@v: definizione ta
ouède@n: nulla pro@blhma: problema
ouèrano@v: cielo proficisci: partire
ouè^v: orecchio pro@v ti: in relazione a qual-
ouèsi@a: sostanza cosa, relativo
oè f qalmofanh@ v : manifesto ptw^siv: flessione
allo sguardo pu^r: fuoco
oòfiv: serpente
oòyiv: visione redire: tornare indietro
réeutiko@v: mobile
para@deigma: modello réh^ma: verbo
pars superior: parte superio-
re safh@neia: chiarezza
patri@v: patria seismo@v: terremoto
pe@nte: cinque semnopreph@v: dignitoso
peperasme@nov: determinato shmantiko@v: atto a significa-
pe@rav: limite re
perirranth@rion: abluzione shmei^on: segno
peritto@v: dispari spe@rma: seme
pikro@v: aspro sta@siv: quiete/stasi, solleva-
pi@stiv: credibilità zione
planh@thv: pianeta statera: stadera
494 GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI

ste@rhsiv: privazione to@pov: luogo


stefano@v: corona to# uépo# ta#v te@cnav: manufat-
stigmh@: punto to
stoicei^on: elemento tra@peza: tavola
subtilitas: sottigliezza tri@glh: triglia
su@gkrisiv: riunione trigli@v: triglia
sugkritiko@v: capace di com- tuflo@thv: cecità
porre
sumbolikw^v: per simboli uégi@eia: salute
su@mbolon: simbolo uiéo@v: figlio
summetri@a: proporzione uçlh: materia
su@ndesmov: connettivo unitas: unità
su@nodov: riunione uépereco@menov: ecceduto
sustoici@a: serie uépere@cwn: eccedente
sch^ma: figura urbs: città
sw^ma: corpo urtica: ostrica
swfrosu@nh: moderazione
calko@v: bronzo
ta@xiv: ordine cei@r: mano
tauèto@: identico celidw@n: rondine
te@leiov: perfetto coi^nix: chenice
teratopoi@ a : creazione di cro@nov: tempo
prodigi crw^ma: colore
ti@miov: degno d’onore cw@ra: spazio
timh@: onore cwristo@v: separabile
to# brwto@n: cibo
to# eésthko@: ciò che è in quie- fanero@v: visibile
te fqarto@v: corruttibile
to# kinou@menon: ciò che è in fqora@: corruzione
movimento fi@lov: amico
to# me@ g a kai# to# mikrio@ n : fila@nqrwpov: filantropo
Grande e Piccolo flo@x: fiamma
to# polu# kai# to# oè l i@ g on: il forti@on: peso
molto e il poco fro@nhsiv: saggezza
GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI 495

fusiko@v: fisico wèjoto@kov: oviparo


fu@siv: natura wjèo@n: uovo
fwnh@: voce wòra: ora
wèfe@limov: utile
via publica: via pubblica

yuch@: anima

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