52
Appendice lità, di integrazione sociale e culturale, inclusione/esclusione sia dall’interno
(le comunità religiose) sia dall’esterno (le istituzioni pubbliche e i cittadini).
L’attività di mappatura dei luoghi di culto a Torino, iniziata dalla Fondazione
Benvenuti in Italia nel 2011, viene portata avanti in collaborazione con il
Centro Interculturale della città. Da questa collaborazione è nato il laborato-
rio “Vivere le Religioni a Torino”. Il laboratorio ha un duplice obiettivo: da un
lato l’aggiornamento di schede e mappe già esistenti, dall’altro l’implemen-
tazione della documentazione, attraverso la realizzazione di nuovi materiali.
Ai partecipanti vengono forniti gli strumenti e le metodologie per rilevare
dati quantitativi e qualitativi delle comunità religiose a Torino e i contatti per
avviare il proprio progetto di mappatura.
Un nostro obiettivo è, dunque, diffondere tra gli attori sociali educativi e
culturali del territorio, consapevolezza sulla ricchezza legata alle diversità e
fornire competenze per un’efficace gestione della diversità e del rischio di
radicalizzazione, nei rispettivi contesti di intervento. Nonché facilitare, so-
prattutto tra i giovani, l’acquisizione di conoscenze sul pluralismo religioso,
promuovere attivamente valori di cittadinanza che nella diversità, offrano
una cornice comune di convivenza civile.
Islam e prevenzione dei radicalismi violenti nuove strategie e best practices
53
Il ritardo italiano nella prevenzione
della radicalizzazione: la resilienza
di Luca Guglielminetti
Membro del poll di esperi della Radicalisation Awareness Network, del Direttivo dell’As-
sociazione L. B. Alberti ed ex consulente dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo
LA RAN
La “Rete sulla consapevolezza del problema della radicalizzazione”, Radical-
isation Awareness Network (RAN) è stata creata dalla Commissione europea
nel quadro legislativo fondato sulla EU Strategy on Radicalisation adottata nel
2005 e rivista nel 2008 e nel 2014. Questa strategia, pur riconoscendo che le
azioni contro la radicalizzazione e il terrorismo rientrano principalmente nelle
competenze e le responsabilità degli Stati membri dell’Unione europea, rilevava
l’importanza e il valore aggiunto sia di creare una struttura a livello Europeo, sia di
sviluppare un ruolo attivo della società civile e delle comunità (“Programma di Stoc-
colma per il periodo 2010-2014”). Tale struttura prese la forma della RAN nel 2011,
prefiggendosi l’obiettivo di sostenere il coordinamento delle politiche, lo scambio
d’informazioni, la determinazione di buone pratiche e lo sviluppo di nuove idee tra
gli Stati membri, offrendo loro anche servizi di formazione per il personale dei minis-
teri e, oggi, anche per quello delle organizzazioni della società civile. Nel settembre
del 2011 sono stato cooptato dalla Commissione Europea - Unità dell’antiterroris-
mo della Direzione Generale “Affari Interni e Immigrazione”, nel network, sia perché
da alcuni anni ero tra le 2/3 persone operative nella rete promossa dell’UE tra le
associazioni delle vittime del terrorismo dei paesi europei; sia perché fu apprezzata
la mia proposta di alimentare il ruolo che la memoria e la testimonianza pubblica
Appendice
delle vittime del terrorismo potevano esprimere in termini di contro-narrativa e
pedagogia verso la fascinazione del terrorismo.1
In occasione del lancio pubblico della RAN a Bruxelles nel settembre 2011,
che concretamente costruiva una rete di reti tra chi operava sul terreno nei vari
settori (carceri, scuola, servizi socio-sanitari, polizia locale, etc) della lotta e il
contrasto alla radicalizzazione violenta, ci si poteva subito accorgere dello iato
esistente tra paesi europei nella cultura della sicurezza.
1. Si vedano i siti web NAVT http://www.europeanvictims.net/ e RAN https://ec.europa.eu/home-af-
fairs/what-we-do/networks/radicalisation_awareness_network_en
12°quaderno
 54
Appendice
Poche settimane prima, a luglio, avevamo assistito alle stragi al quartiere min-
isteriale di Oslo e sull’isola norvegese di Utøya al campus estivo dei giovani
laburisti, perpetrati da Anders Breivik dove morirono, nel primo, otto persone e
209 rimasero ferite, e nel secondo 69 giovani con 110 feriti. Non fui certamente
l’unico italiano ad aver pensato che nel nostro paese, il secondo attentato al ra-
duno sull’isola, sarebbe stato assai difficile potesse raggiungere la dimensione
di tale carneficina. Non c’è infatti manifestazione politica in Italia che non sia
presidiata dalle nostre forze dell’ordine, al di là di qualsiasi allerta contingente.
Viceversa, l’approccio alla sicurezza dei paesi nordici che andavo scoprendo
riguardava una prevenzione a noi pressoché sconosciuta, quella che utilizza
termini quali prevenzione della radicalizzazione e resilienza. La cultura della si-
curezza dell’allora commissario di quella Direzione generale della Commissione
europea, la svedese Cecilia Malmström, e quella alla base della RAN, consis-
tono infatti nella prevenzione del crimine (crime prevention): sono le politiche e
le pratiche che intervengono alle radici dei reati, tipiche di una cultura delle pre-
venzione in cui le forze di sicurezza, collaborando con servizi sociali, sistema
educativo e comunità locali, agiscono prima che il soggetto assuma un profilo
criminale. Assai diversa dalla concezione italiana, e in generale dei paesi latini,
in cui per prevenzione si considera l’intervento delle sole forze di sicurezza, col
supporto dell’intelligence, prima che sia commesso l’atto criminale.
La cultura della prevenzione ‘nordica’ ha però scoperto i limiti del suo impianto
culturale con gli attentati di Londra del 2005 e di Breivik, quando il crimine ha
assunto la forma del terrorismo e quindi ha iniziato a lavorare per aggiornarlo
alle sfide dei nuovi “radicalismi violenti”.
Il concetto di ‘radicalizzazione’ è nato dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001,
quando sono iniziate a comparire, sempre più numerose, ricerche e analisi
delle biografie dei terroristi da cui sono stati tratti dei modelli che cercano di
descrivere la pluralità di concause e gli stadi successivi per cui un soggetto
si radicalizza fino a giungere ad unirsi ad un gruppo terrorista ed esercitare la
violenza: quello che viene definito il processo di radicalizzazione violenta. Da tali
studi, soprattutto da quelli di psicologia sociale, sono poi generati programmi in
diversi paesi del mondo, finalizzati ad intervenire nelle fasi di tale processo; sia
per prevenire il reclutamento, o auto-reclutamento (prevenzione della radicaliz-
zazione violenta), sia in quelle successiva al reclutamento (deradicalizzazione).
L’intento pratico della rete europea RAN era, ed è tutt’ora quello, di far incon-
Islam e prevenzione dei radicalismi violenti nuove strategie e best practices
55
trare gli operatori che seguono le pratiche adottate sulla base delle ricerche,
delle politiche e delle strategie locali e nazionali di prevenzione della radicaliz-
zazione violenta. Incontri di operatori dei vari ambiti, settori e paesi finalizzati a
presentare, discutere e valutarne l’efficacia delle pratiche, e quindi con l’intento
di renderle disponibili pubblicamente come raccolta di best practices e come
documenti di politiche d’indirizzo della Commissione UE per gli Stati membri, in
un circolo virtuoso dal basso per ottimizzare l’efficacia di politiche e strategie. Il
tutto in un quadro che presentava però quella divaricazione di approcci e cul-
tura della sicurezza sopra menzionata, che avrebbe inficiato gli esiti nei diversi
Stati con conseguenti polemiche. Qui sarà trattato però solo il caso dell’Italia.
PROBLEMATICHE
Per il sottoscritto, che si è trovato ad essere l’unico italiano nel Comitato di
pilotaggio e a dirigere un gruppo di lavoro della RAN nei suoi primi quattro anni,
le difficoltà sono state fin da subito notevoli. La prima nasceva dalla percezione
sociale delle vittime del terrorismo presenti sia in taluni funzionari della Commis-
sione europea che in colleghi del Comitato pilotaggio della RAN, posti a presie-
dere altri gruppi di lavoro. Domandavano quale attività potessero mai svolgere
le vittime nei confronti di chi si sta radicalizzando. Consideravano le vittime
troppo parte in causa, sottintendendo un atteggiamento negativo o vendicativo
o comunque inefficace, per avere un ruolo propositivo di prevenzione.2(2)
La seconda emergeva dalla dal gap culturale sul concetto di prevenzione. In
Italia tutta la partita del contrasto e prevenzione del terrorismo era monopolio
esclusivo delle forze dell’ordine, dell’intelligence e della magistratura. Il Parla-
mento ha continuato, fino al 2015, a legiferare in materia solo dal punto di vista
penale per allargare gli strumenti d’intervento del potere giudiziario ai nuovi
ambiti di attività dei gruppi terroristici, come attesta il decreto legge 18 febbraio
2015, n. 7, convertito nella legge 17 aprile 2015, n. 43 intitolato “Misure urgenti
per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale”. Il nostro paese
Appendice
ha sì legiferato, su indicazioni delle stesse Direttive europee, introducendo una
serie di reati prodromici, atti cioè a permettere di configurare la natura terror-
istica di alcune attività precedenti il reclutamento o l’auto-reclutamento e la
violenza praticata dal terrorismo internazionale (come l’istigazione e l’apologia
del terrorismo sul Web o la preparazione di viaggi verso scenari bellici in cui
siano attivi gruppi terroristici). Assai più arduo è risultato per l’Italia accogliere le
2 Si veda L. Guglielminetti, La percezione sociale delle vittime del terrorismo, in Rassegna Italiana
di Criminologia, n.4, Bari, 2017: https://www.academia.edu/36164029/La_percezione_socia-
le_delle_vittime_del_terrorismo
12°quaderno
 56
Appendice politiche di prevenzione delle radicalizzazione promosse dalla RAN. Cioè quegli
interventi soft che l’Europa consigliava di affiancare a quelli hard.
Il senso di utilizzare anche un approccio soft emerge da due considerazioni
non solo europee. La prima è che le ricerche sui profili dei terroristi svolte in-
ternazionalmente hanno determinato che le fase di radicalizzazione violenta
avvengono in una fascia di età ben precisa: tra la preadolescenza e i 25 anni.
Questo significa che, individuando dei fattori di protezione o di rischio, una
serie di soggetti come familiari, scuole a servizi sociali possono intervenire ad
interrompere il processo.
Il secondo, di natura più politica, è stato ben sintetizzato nella dichiarazione
del febbraio 2015 del The White House Summit to Counter Violent Extremism
Ministerial Meeting Statement:
«Reaffirmed that intelligence gathering, military force, and law enforcement
alone will not solve – and when misused can in fact exacerbate – the prob-
lem of violent extremism and reiterated that comprehensive rule of law and
community-based strategies are an essential part of the global effort to
counter violent extremism and, like all measures aimed at addressing the
terrorist threat, should be developed and implemented in full compliance
with international law, in particular international human rights law, interna-
tional refugee law, and international humanitarian law, as well as with the
principles and purposes of the UN Charter».3
La consapevolezza dei limiti del solo approccio hard, con le note derive in
termini di violazioni dei Diritti umani, come il caso di Guantanamo, è chiara-
mente evidenziata e viene proposta una strategia basata sulle comunità e
lo stato di Diritto.
RISPOSTE
Alla difficoltà di far riconoscere in seno alla RAN l’utilità di un gruppo di lavoro
dedicato alla “voce” delle vittime del terrorismo – nelle pratiche di contro-nar-
rativa e di didattica nelle scuole di cui si stava, tra le altre cose, occupando la
RAN per contrastare la propaganda dei gruppi estremisti violenti – feci fronte
segnalando come l’attività di contro-memoria condotta delle associazione delle
vittime del terrorismo fosse configurabile come il più coerente e informato dei
messaggi da opporre a quelli dell’estremismo violento che necessitano sempre
di deumanizzare il nemico, per poi, degradato a simbolo negativo, poterlo
3 Si veda: https://2009-2017.state.gov/j/ct/cvesummit/releases/237673.htm
Islam e prevenzione dei radicalismi violenti nuove strategie e best practices
57
attaccare anche fisicamente senza remore morali. In altre parole, la testimoni-
anza delle vittime possedeva una capacità pedagogica così come ampiamente
mostrato nel caso della Shoà dalle lezioni di Primo Levi e Tzvetan Todorov.4
C’era però un’altra criticità: la necessità dei programmi di prevenzione del-
la radicalizzazione di avere ed utilizzare counter-narrative recenti, voci che si
levassero contro la propaganda parlando anche il linguaggio del terrorismo
“jihadista” che ha nel Corano e nella lingua araba i suoi fulcri narrativi. Il prob-
lema risiedeva nel fatto che le vittime del terrorismo dei paesi come il nostro,
la Spagna, l’Irlanda del Nord o la Germania, esattamente come accadde per
quelle della Shoà, per la maggior parte dei casi iniziavano a testimoniare 30
anni dopo i fatti (che si tratti di superstiti o di figli di vittime decedute), in uno
scenario politico in cui le sfide sono considerate, a torto o a ragione, mutate o
radicalmente diverse. La criticità era quindi il tempo necessario per arrivare a
testimoniare e le dinamiche per creare contro-memorie e percorsi didattici da
parte di associazioni e singole vittime in Europa, capaci di affrontare tutte le
sfide presenti.
Eppure negli Stati Uniti è stato possibile. L’associazione di vittime Families of
September 11 nel 2012 si trasformò in For Action Initiative, cioè un’organizzazi-
one completamente concentrata sull’attività di spiegare il terrorismo nelle scu-
ole di ogni ordine e grado con moduli didattici studiati per le capacità cognitivi
delle diverse fasce d’età.
Dopo solo dieci anni, l’attività dei familiari del 11 settembre, abbandonava i
precedenti obiettivi per concentrarsi sulla necessità:
«di far crescere la consapevolezza degli effetti del trauma pubblico e del ter-
rorismo sulle persone, sulle società e sul mondo e di educare gli insegnanti
e la nostra gioventù sulla storia del terrorismo, delle relazioni internazionali,
della sicurezza globale e delle politiche nazionali e internazionali. Per ispi-
rare i giovani ad agire - come individui e come parte della loro comunità - e
Appendice
sostenere gli sforzi che un giorno potrebbero impedire i futuri atti del terror-
ismo globale».5
Come mai in Italia, e più in generale in Europa, si arrivava solo dopo 30 anni a
perseguire analogo obiettivo? La risposta risiede nel concetto di resilienza.
4 Si veda L. Guglielminetti, Il ruolo delle vittime del terrorismo nella prevenzione della radicalizzazione
che conduce al terrorismo: l’esperienza italiana, Bruxelles, 2011 http://www.vittimeterrorismo.it/iniziati-
ve/11-marzo-2011-vii-giornata-europea-in-ricordo-delle-vittime-del-terrorismo/ o https://www.acade-
mia.edu/36936864/Il_ruolo_delle_vittime_del_terrorismo_nella_prevenzione_della_radicalizzazione
5 Si veda il sito: http://www.foractioninitiative.org/mission
12°quaderno
 58
Appendice Alla seconda difficoltà, in Italia, quella di far comprende alle autorità e la politica
nazionali l’importanza di affiancare alla lotta tradizione al terrorismo quella con
i metodi soft della prevenzione durante le fasi di radicalizzazione col sostegno
di comunità e società civile, feci fronte provando a promuovere gruppi locali
di “RAN Italia”; cioè a partire dai pochi italiani che con qualche continuità fre-
quentavano la RAN sono state create delle rete informali cittadine che - coin-
volgendo associazioni, scuole, amministratori locali, quelle penitenziarie e forze
di sicurezza - iniziassero ad affrontare i temi della prevenzione e del contrasto
della radicalizzazione. Si sono quindi convocati incontri diversi nel corso dei
ultimi anni a Torino, Udine, Milano e Reggio Emilia.
C’è poi stato l’interesse verso la RAN di alcune testate giornalistiche del mondo
cattolico e di quello scientifico che hanno a loro volta agevolato un crescente
interesse e una sempre maggiore consapevolezza sull’importanza di affiancare
l’approccio soft in un paese come il nostro che non si trova ancora in una situ-
azione emergenziale con molteplici attentati e numeri alti di soggetti a rischio
radicalizzazione o già radicalizzati, come ad esempio accade in Francia.
L’estate del 2016 ha segnato una svolta. È iniziata la discussione e poi le
audizioni della proposta di legge Dambruoso-Manciulli alla commissione Affari
Costituzionali della Camera; ad agosto, è stata istituita, promossa dall’allora
sottosegretario Marco Minniti, una commissione di studio indipendente sul
fenomeno della radicalizzazione jihadista presieduta da Lorenzo Vidino, cioè il
primo ricercatore ad aver pubblicato sul tema nella dimensione italiana.6
Ho avuto occasione di collaborare con entrambe le commissioni e l’inizio del
2017 si è aperto - il 5 gennaio - con la conferenza stampa da Palazzo Chigi
del nuovo presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, del ministro agli
Interni Minniti e da Lorenzo Vidino che hanno presentato il risultato dei lavori
della Commissione.
Il vulnus di quell’operazione è che non ci sono documenti per i giornalisti. La
relazione finale della Commissione, che contiene nella sua seconda parte, per
la prima volta in italiano, la descrizione delle politiche e degli approcci pro-
mosse dalla RAN, comprese la poche attività svolte a livello locale dai suoi
membri, viene secreta e, i giorni seguenti, distribuito solo un breve sunto assai
generico. Si giunge così al paradosso che, mentre la Camera dei Deputati nei
mesi a venire avrebbe discusso e approvato un legge in materia, il documento
6 L. Vidino, L’Italia e il terrorismo in casa: che fare? ISPI, 2014
https://www.ispionline.it/it/EBook/L%27italia%20e%20il%20terrorismo%20in%20casa.040315.pdf
Islam e prevenzione dei radicalismi violenti nuove strategie e best practices
59
governativo che avrebbe potuto informare i parlamentari sull’argomento è loro
occultato e fatto divieto ai membri della Commissione di distribuirla a chicches-
sia, poiché contiene notizie “riservate” fornite dal Ministero degli Interni.
Il risultato è stato che, senza un dibattito pubblico e informato e nel disinteresse
del mondo politico, ad eccezione di pochi addetti ai lavori, la Camera iniziò la
discussione il 3 aprile 2017 della Pdl “Misure per la prevenzione della radical-
izzazione e dell’estremismo jihadista” (atto 3558), che approvò e trasmise al
Senato il 19 luglio 2017.7
Anche in questo caso forse l’elemento chiave che è venuto a mancare è quel-
lo di comprendere il valore e il ruolo della resilienza. È evidente che la cultura
politica italiana, posta di fronte a quelle politiche mix di welfare e sicurezza,
considerava la seconda ampiamente predominante al punto di impedire che si
creasse un dibattito pubblico e informato.
RESILIENZA
Incontrai il concetto di resilienza per la prima volta nel 2006. Nel quadro degli
incontri tra associazioni europee di vittime del terrorismo. L’Olanda, che non ha
associazioni, era presente con un’organizzazione di psicologi, Impact Dutch
knowledge & advice centre for post-disaster psychosocial care, che si occupa
del supporto alle vittime di diversi traumi e che mi fornisce una copia di un loro
manuale intitolato Citizens and Resilience. The Balance between Awareness
and Fear, “Cittadini e resilienza. L’equilibrio tra consapevolezza e paura”, frutto
di un progetto europeo sulle vittime di atti terroristici.
Nella prefazione si legge:
«Uno degli intenti del terrorismo è di distruggere la vita comunitaria tramite
azioni violente. Perciò è importante mettere in atto interventi mirati alla co-
munità nel suo complesso. Questi interventi intendono rinforzare la coesi-
one e il sostegno sociale in una comunità. In questo modo, gli effetti di un
Appendice
attacco possono essere mitigati e la capacità di resilienza della comunità
può essere aumentata».8
La resilienza è la capacità sociale di una comunità, cioè di una collettività terri-
toriale, di resistere e reagire positivamente a tutti i fatti traumatici che ne incri-
nano la coesione. Seppur il manuale non evidenzi come sia il terrorismo, tra le
catastrofi, quello che maggiormente incrina tale coesione per l’impatto politico
7 Si veda http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/48213.htm
8 Si veda la versione digitale: https://www.academia.edu/35369518/Cittadini_e_Resilienza._Le-
quilibrio_tra_sensibilizzazione_e_paura
12°quaderno
 60
Appendice sul contratto sociale, pur tuttavia indica una serie di interventi psicosociali da
attuare subito dopo un attentato per limitarne i danni nei tempi brevi, medi e
lunghi. Presenta quindi un’articolazione delle azioni da attuare per contenere e
curare il trauma e le patologia annesse (Disturbo da Stress Post Traumatico),
come organizzarle tra personale specializzato e volontari, e come comunicare
con i cittadini colpiti.
Nello stesso anno 2006, a marzo, aderendo alla proposta giunta dall’Associ-
azione Italiana Vittime del Terrorismo, l’Azienda ospedaliera dell’Università di
Siena, ha istituito, presso il dipartimento di Neuroscienze, l’Osservatorio nazio-
nale a cui possono rivolgersi le vittime per affrontare il Disturbo da Stress Post
Traumatico.
L’anno successivo in occasione della Giornate Europa in Memoria delle vit-
time del terrorismo, istituita dal Parlamento europeo l’11 Marzo, in coincidenza
con il più grave attentato occorso in Europa a Madrid nel 2004, proposi al
presidente di AIVITER, Maurizio Puddu, di pubblicare la traduzione italiana del
manuale olandese su cittadini e resilienza. L’idea in nuce era quella di portare
all’attenzione dell’agenda dell’associazione le politiche e prassi d’intervento ivi
contenute per non lasciare il tema della cura del trauma alla sola prospettiva
dell’Osservatorio di Siena che ne affrontava la cura sui tempi lunghi di un ter-
rorismo che aveva colpito 3/4 decenni prima, nei cosiddetti “anni di piombo”.
Del resto l’ultima legge italiana dedicata ai diritti delle vittime del terrorismo, appro-
vata pochi anni prima, nel 2004, non contempla alcuna misura di pronto intervento
per affrontale eventuali nuovi traumi ed emergenze da terrorismo. L’unico arti-
colo dedicato alle cure psicologiche è il secondo comma dell’art. 6 che recita:
«Alle vittime di atti di terrorismo e delle stragi di tale matrice e ai loro familiari
è assicurata assistenza psicologica a carico dello Stato. A tale fine è autor-
izzata la spesa di 50.000 euro a decorrere dall’anno 2004».9
Seppur la legge si rivolga a tutte le vittime dei vari terrorismi del passato e del
presente, dal punto di vista psicoterapeutico, si limita a garantire il rimborso
spese delle cure attivate e sostenute dalle singole vittime. Nelle dinamica sotte-
sa di scrittura del testo legislativo, le associazioni e i parlamentari avevano pen-
sato solo alle vittime del passato e alla loro eventuale iniziativa individuale, nulla
prevedendo in termini d’intervento pubblico garantito per la comunità trauma-
tizzata in caso di nuovi attacchi, sul modello descritto dal manuale olandese.
Angeles Pedraza, che ha perso la figlia negli attentati del 2004 alle stazioni
9 Si veda il testo della legge n. 206/2004: http://www.camera.it/parlam/leggi/04206l.htm
Islam e prevenzione dei radicalismi violenti nuove strategie e best practices
61
madrilene, tra i dirigenti della maggiora associazione spagnola (AVT), ospite
a Torino, nel suo intervento del 2007 raccontò l’importanza di tale attività di
resilienza nell’emergenza:
«Ricordo molte volte di come mi sorprese, in mezzo alla follia dell’attentato e
al dolore che sentivamo, il modo in cui si erano organizzate la polizia, i medi-
ci, il 112, i pompieri e spontaneamente tutta Madrid affinché tutto questo ci
risultasse meno doloroso, meno traumatico. Continuo a non rendermi conto
come, dopo pochi minuti, la situazione era sotto controllo ed avevamo a nostra
disposizione tutto quello di cui avevamo bisogno. In meno di un’ora avevamo
tutto, assistenti sociali, psicologi per aiutarci, ricordo che anche i taxisti di tutta
Madrid smisero di lavorare e si misero spontaneamente a nostra disposizione
giorno e notte.
Io dovetti passare un giorno ed una notte cercando in tutti gli ospedali mia
figlia, dovetti affrontare cose terribili e vi assicuro che senza l’aiuto di profes-
sionisti non c’è l’avrei mai fatta».10
Il tema della resilienza post attentato non emerse mai più in seguito in Italia. Il pres-
idente dell’associazione Maurizio Puddu morì pochi mesi dopo. Provai a rilanciarlo
nella conferenza stampa di presentazione della mostra, a lui dedicata, “Anni di
piombo. Le voci delle vittime per non dimenticare”, l’8 settembre 2008:
«Nel nostro paese la sindrome da stress post-traumatico, che affligge la
maggior parte delle vittime e dei famigliari, ha iniziato ad essere curata con
lo stesso ritardo trentennale dai fatti e non esiste, ancora oggi, un unità
operativa di pronto intervento a sostegno delle vittime e dei loro famigliari in
caso di nuovi attacchi terroristici».11
Quanto occorso a Madrid nel 2004 era intervenuto a New York nel 2001.
La presenza di misure di resilienza post attentato spiegano come sia stato
possibile che le vittime americane, superando il trauma più velocemente, as-
sumessero il ruolo di testimoni e sviluppassero la loro pedagogia nel giro di
Appendice
un decennio. L’assenza in Italia di tali misure ha la gravissima conseguenza
di perpetuare il ritardo nella cura e quindi nella capacità di testimonianza, cioè
quella tempistica trentennale che è stata necessaria sia alle vittime degli “anni
di piombo” che a quella della Shoà, sia delle decine di vittime italiane già colpite
dai recenti attentati in tutto il mondo, sia quelle che potrebbero essere colpite
10 Si veda: http://www.vittimeterrorismo.it/iniziative/iii-giornata-europea-delle-vittime-del-terrorismo/
11 Si ea http://www.vittimeterrorismo.it/iniziative/intervento-del-curatore-luca-guglielminetti/
12°quaderno
 62
Appendice lo sventurato giorno in cui capitasse un attacco sul suolo del nostro paese.
Ho ritrovato il termine solamente dopo il 2011, sempre in ambito europeo,
quando sono stato coinvolto nella RAN.
La strategia dell’Unione Europea in materia di prevenzione del terrorismo e
contrasto alla radicalizzazione ha tre ambiti di azioni; quello sul quale poggia la
base politica della RAN recita: «the Commission promotes actions empowering
communities and key groups ... and to strengthen individual and community
resilience against radicalization».12
La resilienza in questo contesto (pre-attentato) cambia indirizzo: nella RAN,
come in tutte le politiche in materia promosse dalle organizzazioni internazion-
ali (UN, OSCE), assume il senso di: «Valorizzare gli sforzi delle comunità locali
che intervengono consentendo di interrompere il processo di radicalizzazione
violenta prima che un individuo si impegni in attività criminali».
Gli interventi nei tre ambiti principali di prevenzione: primaria, o di consapevolez-
za generale sul problema radicalizzazione; secondaria, indirizzata ai soggetti o
gruppi potenzialmente a rischio di radicalizzazione o in fase di radicalizzazione;
e terziaria, verso i soggetti che sono già estremisti violenti, vengono affrontati
con un approccio che la RAN definisce multy-agency, cioè con l’apporto mul-
tidisciplinare che investe su attori diversi che collaborano fattivamente e in rap-
porto di fiducia: da una parte le varie forze di sicurezza; dall’altra la società civile
con le istituzioni locali. Docenti, educatori, assistenti socio-sanitari, psicologi,
volontari, famiglie, comunità, vittime o ex radicalizzati garantiscono una rispos-
ta al fenomeno come recupero, atto resiliente, da affiancare alla repressione,
atto securitario, delle forze dell’ordine, con quell’efficacia che troviamo nelle
migliori pratiche di paesi come Danimarca e Olanda.
CONCLUSIONE
La resilienza dopo l’attacco, richiede interventi sulla vittime e sulla comunità
colpite e traumatizzate; la resilienza prima dell’attacco, richiede interventi di
prevenzione su soggetti e gruppi nelle comunità a rischio. L’Italia è l’unico paese
europeo privo ad oggi di misure su entrambi i versanti di tali forme di resilienza.
La proposta di legge “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’es-
tremismo jihadista”, privata dell’approvazione del Senato, è rimasta lettera
morta con la fine della scorsa legislatura. Nonostante le sue lacune13 avrebbe
12 Si veda: https://ec.europa.eu/home-affairs/what-we-do/policies/crisis-and-terrorism/radicalisation_en
13 L. Bodrero, Terrorismo, la legge anti-radicalizzazione italiana ai raggi X, Lettera43 09 maggio 2017:
https://www.lettera43.it/it/articoli/cronaca/2017/05/09/terrorismo-la-legge-anti-radicalizzazione-italia-
Islam e prevenzione dei radicalismi violenti nuove strategie e best practices
63
almeno sortito l’effetto di evitare che il nostro paese esprimesse la prevenzione del-
la radicalizzazione con il solo strumento delle espulsioni amministrative: cioè quelle
deportazioni di individui, privi della cittadinanza italiana, ordinate dall’esecutivo sulla
base di indagini sulla pericolosità sociale, senza passare da nessuna verifica e ga-
ranzia giudiziaria, la cui efficacia e legittimità è però messa in dubbio. Il ricercatore
dell’ISPI Francesco Marone, ad esempio, sottolinea come, a fronte delle centinai
di espulsione del Ministro degli Interni, si assista a uno scarso dibattito sul tema
e precisa, nelle sue conclusioni, che: “Altri strumenti sono necessari, soprattutto
a lungo termine. In particolare, vale la pena ricordare che, a differenza di molti altri
paesi europei, l’Italia non ha ancora sviluppato programmi di contro-radicalizzazi-
one e de-radicalizzazione a pieno titolo.”14
Infine, la carenza di politiche connesse a queste forme di resilienza hanno un
punto di intersezione critico di fronte al flusso di migranti e rifugiati minori, spes-
so non accompagnati dai genitori, che giungono in Italia da aree di conflitto, o
da esperienze traumatiche durante il tragitto dai paesi d’origine, per non parlare
dei casi specifici dei figli di foreign fighter e dei bambini soldato del Daesh, nor-
malizzati alla violenza fin dalla più giovane età. Costoro sono percepiti a metà
tra vittime e potenziali terroristi e la loro cura è lasciata alla volontà o capacità
d’intervento della ONG e dei volontari che li prendono in carico. Tuttavia, anche
solo limitandosi alle migliaia di minori non accompagnati (18mila giovani ospitati
presso famiglie e strutture di accoglienza su tutto il territorio nazionale al 30
settembre 2017 secondo i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche So-
ciali), questi restano privati di un piano di assistenza specifico sui tempi medio
lunghi che garantirebbe tanto la cura del trauma che la prevenzione di possibili
percorsi di devianza, tra i quali quello possibile di radicalizzazione violenta.
Le Nazioni Unite stimano che ci siano oltre un miliardo di bambini che crescono
in contesti di violenza politica. Queste forme di conflitto hanno portato a 60
milioni di sfollati, il più grande dalla seconda guerra mondiale, metà dei quali
Appendice
sono bambini o adolescenti. Gli esiti negativi legati all’esposizione alla violenza
politica sono documentati da decenni e costruire resilienza è l’opzione politica
per affrontarli seriamente con costrutto. Certamente richiede un prospettiva di
lungo temine e se il ceto politico italiano non è all’altezza della sfida, la società
civile dovrà farla propria per prima.
na-ai-raggi-x/210488/
14 F. Marone, The Use of Deportation in Counter-Terrorism: Insights from the Italian Case, ICCT, 2017:
https://icct.nl/publication/the-use-of-deportation-in-counter-terrorism-insights-from-the-italian-case/
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