Nel mondo magico viene eliminata la distinzione cartesiana tra res extensa
e res cogitans: esiste un solo e unico mondo nel quale siamo immersi e nel
quale viviamo. 1)Si effettuano mescolanze e connessioni. [Cervantes, Don
Quixote]. 2) È una realtà animata e vivente.
Esiste quindi un senso delle cose, cose che noi consideriamo viventi o
morte e una tendenza a conservare la forma presente; il senso delle cose
serve a individuare i nemici, cioè quanto rimette in discussione e rende
insicura la forma attuale.
1
De sensu rerum et magia di Campanella: mondo degli stimoli; gli animali
hanno senso, determinato dalla vis animistica infusa da Dio negli elementi.
Il cielo e la terra e il mondo sentono e così gli animali che stanno dentro la
Terra, come i vermi che stanno nell’intestino dell’uomo. Quei vermi non
sanno che gli uomini sentono perché il loro piccolo intelletto è
sproporzionato alla conoscenza dell’uomo. Così gli uomini ignorano che
l’universo sente: ma antropomorfizzazione dell’universo. Riso e pianto non
sono prettamente umani, giacché sono presenti negli stessi elementi, l’uno
come dilatazione degli spiriti (fuoco), mentrre il pianto è costringimento di
spiriti (spremere l’umidore dalla terra). L’horror vacui: le cose si
precipitano a riempirlo, per mantenere la vicinanza, uno scambievole
contatto che è vita comune. Il mondo è un animale tutto senziente e tutte le
sue parti godono della vita comune. Così il mondo: l’aria che riempie i
vuoti per toccare altri corpi.
L’anima è spirito sottile, caldo e mobile, quindi patisce e sente.
Formazione spontanea della vita: la putrefazione. Come nelle acque
piovane calde i crini di cavallo si avvivati e divenuti “sottilissime serpi”
(Campanella, Del senso delle cose), l’anima è prodotta da calore e da
materia attenuata. [implicazioni teologiche]. Ma anche la morte non è
discrimine, giacché molte delle qualità del vivo restano nel morto: gli
uomini uccisi, in presenza dell’assassino emettono sangue e “bollono quasi
d’ira o di timore”; ciò può valere per scoprire l’assassino (Campanella).
Non ci sono due mondi, quello del pensiero e quello delle cose
materiali. C’è un solo mondo, dotato di senso e dove tutto è connesso. Ci
sono solo cose vicine, Vicinanza e lontananza sono meramente soggettive,
ciò che è lontano è tale secundum sensum. Si può quindi cominciare
l’operazione a un punto qualsiasi, poiché secundum rem ci sono solo cose
vicine, giacché tutte le cose partecipano dell’anima universale, per
communionem spiritus universalis, qui est totus in toto et qualibet mundi
2
parte. Ma l’essere dei corpi materiali è definito dalla loro superficie e dal
loro contorno, per cui occupano innumerevoli luoghi diversi, perciò nessun
corpo può agire su un altro corpo o sulla materia, ma ogni azione proviene
dall’anima: essa muta le disposizioni e queste mutano i corpi; un corpo
agisce su un corpo attraverso una specie di consenso (copula) che
provengono dalla forma.
Nulla è dunque privo di spirito e di intelletto: non c’è luogo dove lo spirito
abbia raggiunto la sua eterna sede, quindi la materia fluttua da uno spirito
all’altro e lo spirito fluttua dall’una all’altra materia. Alterazione,
mutamento, passione. La morte è lo scioglimento di legami. Nessuno
spirito muore e nessun corpo muore.
Lo spazio del mondo sublunare e l’infinito spazio aldilà di esso sono pieni
di esseri semidivini e popolato di spiriti e demoni. Il mondo degli spiriti è
ordinato secondo una gerarchia; gli spiriti agiscono sui pensieri e insinuano
pensieri nelle menti. I demoni sono corporei perché provano sentimenti
come gli uomini; i corpi degli spiriti: più puri o dei, corpo igneo; spiriti
d’aria, aria mista a fuoco; spiriti di terra, acqua e aria, con il fuoco. Spiriti
di terra o di acqua possono, condensando il proprio corpo, rendersi visibili.
Forme di comunicazione degli spiriti: raggiungono il senso interno, fanno
udire voci e suscitare visioni, anche in stato di veglia.
3
distinzione tra segno e significato, ma il segno esprime immediatamente
l’essenza e la natura delle cose, a differenza di quanto avviene nelle lingue
di istituzione umana, che si reggono per convenzione. La scrittura degli
egizi, non alfabetica, ma costituita di immagini di cose (Kircher,
emblematica: Alciati), era un linguaggio divino. Con la creazione delle
lingue alfabetiche, gli uomini hanno perduto la possibilità di parlare con gli
dei. Giacché le intelligenze occulte non ascoltano né comprendono i
linguaggi degli umani: odono le voci naturali assai meglio di quelle frutto
di convenzione. Come gli antichi egizi, i maghi si servono di immagini,
gesti, lingua divina, la quale rimane perennemente identica. Questo culto
delle origini si evidenzia nella particolare filosofia della storia della
Weltanschauung magica: la storia non è crescita, progresso, ché il
progresso è un ritorno: revolutio. C’è una verità che è stata sepolta dal
tempo, e si deve operare per la rinascita di questo sapere remoto, questa
antica sapienza precristiana nata sulle rive del Nilo e che ha ispirato e
Pitagora e Platone. Si tratta dei testi ermetici che adombrano le verità
cristiane.
4
maghi sono indagatori della natura, proseguono e portano a compimento
processi già in presenza, anticipano i tempi, con un moto di accelerazione
del normale processo naturale. Dimensione pratica della magia/dimensione
storica del sapere magico: per Campanella, ciò che risulta magia agli inizi,
quando le cause sono ancora sconosciute, poi diventa in seguito “volgare
scienza”. La stessa distinzione compare nei confronti dell’alchimia: esiste
un’alchimia falsa, che promette l’istantanea guarigione dalle malattie, la
costruzione di mirabilia [statue parlanti, automi], è un mondo della
falsificazione, lontano dalla pratica ascetica a cui si sottopone il vero
alchimista: Benedetto Varchi nella Questione sull’alchimia:
Se sei un uomo imbevuto del sacro spirito della religione, se hai sentimenti di pietà, se
fede senza dubbi, se l’autorità delle cose sacre e la natura ti hanno conferito quella
dignità che le divinità non disdegnano – invocando, consacrando, sacrificando – potrai
attrarre le virtù spirituali e celesti e informare le cose e dare anima e vita a qualunque
opera magica. Ma chi presumerà di compiere opere di magia senza la potenza
5
dell’ufficio, senza mneriti di santità o di dottrina, senza digità naturali o di educazione,
lavorerà invano, ingannerà se stesso e i suoi discepoli, provocherà l’indignazione degli
dei esponendosi ai più grandi pericoli [De occulta philosophia, III, 3].
Gli Egiziani non affidavano i loro misteri ai primi venuti, e tanto meno divulgavano tra i
profani la conoscenza delle cose divine, ma soltanto a coloro che sarebbero assurti al
regno e, fra i sacerdoti, a quelli particolarmente provati.
6
“Una cosa si dice e un’altra è tenuta nascosta alla moltitudine”. Un esempio
di questa dottrina nella contemporaneità: Julius Evola:
Nello stesso 1934, in cui Evola stendeva queste righe, René Guénon
muoveva contro il moderno:
[…] la concezione “profana” delle scienze e delle arti, quale oggi è invalsa in
Occidente, è un fenomeno molto moderno e implica una degenerazione rispetto a uno
stato anteriore in cui sia le une che le altre avevano un carattere del tutto diverso [René
Guénon, in “Voile d’Isis”, aprile 1934].
[…] il vero significato dell’iniziazione è che questo mondo visibile in cui viviamo è un
simbolo e un’ombra, che questa vita che conosciamo tramite i sensi è una morte e un
sonno, o […] cje quanto vediamo è un’illusione. L’iniziazione è il dissolversi […] di
questa illusione. […] l’iniziazione non è una conoscenza, ma una vita […] [Fernando
Pessoa, Saggio sull’iniziazione].
[…] oggi viviamo in quell’impero, il quarto, il cui simbolo incarnato ed esemplare […]
è ancora Jacques de Molay […] Dal momento in cui acquisì completezza mistica, il
Cristianesimo si modellò a due facce, una rivolta alla Luce, che è la menzogna, l’altra
rivolta all’Ombra, che è la verità. Dalla prima ebbero origine […] le tre Chiese cristiane:
quella di Roma, quella cosiddetta Ortodossa, e quella, frammentaria e scoordinata […]
Protestante. Dalla seconda faccia ebbe orgine un’unica Chiesa, la Chiesa Gnostica,
detentrice delle chiavi dei misteri più nascosti; quella che si sarebbe poi chiamata, nel
linguaggio dei Rosacroce, Chiesa Mistica [Fernando Pessoa, Paganesimo Superiore.
Teorie del Paganesimo].
Ma anche Evola, ne Il mistero del Graal del 1937. Un moderno che vive
da sempre? Platone, dal mito della caverna alla Lettera IX :
7
[…] ciascuno di noi non è nato solo per se stesso, ma […] della nostra vita una parte
appartiene alla patrria, un’altra ai genitori, un’altra agfli altri amici; […] Quando la
patria stessa ci chiama ai pubblici affari, non è bene, credo, rifiutarle il proprio aiuto
[Platone, Lettera nona].
La sesta parte della nostra opera […] racchiude infine e propone quella filosofia che
viene ricavata e costituita dalla ricerca legittima, casta e severa che abiamo insegnato e
preparato precedentemente. […] Noi speriamo di aver dato ad essa un avvio non
disprezzabile: l’esito è affidato alle fortuna edel genere umano ed esso può esser tale
che gli uomini, nella presente situazione delle cose e degli animi, non riescono neppure
a concepirlo ed immaginarlo. Qui non si tratta solo della beatitudine della
contemplazione, ma del destino e delle fortune del genere umano e di tutta la potenza
delle opere. Infatti l’uomo, ministro e interprete della natura, opera e intende solo per
quanto, con la pratica o con la teoria, avrà appreso dell’ordine della natura; di più non sa
né può.
[…].
Ma l’uomo, quando si volse a guardare le opere realizzate dalle sue mani, vide che tutto
era solo vanità e tormento dello spirito; e non riposò in alcun modo. Se dunque
bagneremo del nostro sudore le opere da Te create, rendici partecipi della Tua visione e
del Tuo sabato. Ti supplichiamo perché la nostra mente stia ben salda su queste cose
perché Tu voglia, mediante le nostre mani e la mani di coloro ai quali avrai donato la
stessa intenzione, dispensare nuove elemosine alla famiglia umana [Francis Bacon, La
grande instaurazione].
Considerando poi i desideri e la ambizioni degli uomini, Bacone distingueva tre specie
di ambizione, anche se una di esse non è forse degna di questo nome. La prima è quella
di coloro che lavorano senza posa per aumentare la loro personale potenza nella loro
patria: questa è volgare e degenere. La seconda è quella di coloro che cercano di
aumentare la potenza della loro patria nel mondo: questa ha in sé più dignità, ma non
minore cupidigia. La terza è quella di coloro che cercano di instaurare ed esaltare la
potenza e il dominio dell’uomo stesso, o di tutto il genere umano, sull’universo:
quest’ambizione è senza dubbio più sana e più nobile delle due precedenti. Il dominio
dell’uomo consiste solo nella conoscenza: l’uomo tanto può quanto sa; nessuan forza
8
può spezzare la catena delle cause naturali; la natura infatti non si vince se non
ubbidendole [Francis Bacon, Cogitata et visa].
Bacon sulla magia: essa è empia, ma non perché i maghi stipulino contratti
con il demonio, ma perché il potere che la magia vuole acquistare è frutto
di parole (il mondo fantasmatico) non di lavoro:
L’essenziale è di non staccare mai gli occhi della mente dalle cose stesse e di ricevere le
loro immagini così com’esse sono. Dio non ci permetta di offrire i sogni della nostra
fantasia al posto di una copia fedele del mondo, ma piuttosto consenta benignamente a
che noi possiamo scrivere un’apocalisse e una vera visione dei vestigi e dei caratteri che
il Creatore ha impresso sulle creature [Francis Bacon, La grande instaurazione].
9
religione, morale, poltica. Ritorniamo a Bruno: Bruno rifiuta, insieme alla
tradizione cristiana, la connessione stabilita tra quella tradizione e gli ideali
del bene pubblico (machiavellismo di Bruno, la religione civile). De gli
eroici furori:
[…] il sursum corda non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene
che mai la pedantaria è stata più in exaltazione per governare il mondo, che a’ tempi
nostri; la quale fa tanti camini de vere specie intelligibili ed oggetti de l’unica vceritade
infallibile, quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno
esser isvegliati gli ben nati spiriti, armati dalla verità ed illustrati dalla divina
intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su l’alta rocca ed
eminente torre della contemplazione [Giordano Bruno, De gli eroici furori, Parte II,
dialogo II].
Prima che fusse questa filosofia conforme al vostro cervello, fu quella degli caldei,
egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima memoria, conforme al nostro capo; da’
quali prima si ribbellorno questi insensati e vani logici e matematici, nemici non tanto
de la antiwquità, quanto alieni da la verità [Giordano Bruno, La cena de le Ceneri,
dialogo I].
Bruno come Mercurio.
10
Bacon, Novum organum: “L’uomo, ministro e interprete della natura, opera
e intende solo per quanto, con la pratica o con la teoria, avrà appreso
dell’ordine della natura: di più non sa né può”.
“La luce, che credevamo tanto pura, è piena dei figli della notte. Il cielo
pieno d’inferno”. Così concludeva nel primo libro de La sorcière di Jules
Michelet, pubblicato nel 1862. In questo testo, Michelet – che dichiarava di
essersi soprattutto fondato su fonti di archivio giudiziario – stabiliva un
nesso forte tra fenomeno stregonico e realtà femminile, muovendo
dall’affermazione dell’inquisitore Jacob Sprenger, coautore, con Heinrich
Institor, del Malleus maleficarum, secondo cui “si deve dire l’eresia delle
streghe, non degli stregoni, questi contano poco”. Nella icastica
affermazione di Michelet, che vede una continuità tra la sibilla e la strega,
“la Donna è tutto”. Per proseguire:
11
proprio questa segregazione l’ha preservata, ne ha cristallizzato le strutture,
ha rafforzato le capacità di resistenza dei suoi adepti, attraverso i
meccanismi complementari del mistero e dell’assurdo. Nella visione “alta”
del sapere, mancherebbe, alla cultura stregonica, quella visione della
magia, dalle origini tardoantiche al Rinascimento, di un mondo tutto
percorso da intime corrispondenze. La stregoneria, in quanto non integrata
nella società, rappresenta una lacerazione, una natura irreparabile, ma non
per il suo carattere criminale, quanto piuttosto per il suo carattere
peccaminoso: l’avvento del cristianesimo ha rotto la integrazione tra
società e mondo stregonico, e la chiesa procede alla sua “demonizzazione”
(equivalenza con l’eresia, quindi ricaduta sotto l’attenzione della
inquisizione): l’accostamento tra stregoneria ed eresia è una manovra
ecclesiastica (pontificia, teologica e canonistica) per giustificare
l’estensione del meccanismo repressivo.
12
ebrei; ebrei; ebrei-streghe. L’immagine del complotto ordito contro la
società. Da un gruppo sociale circoscritto – i lebbrosi – si passa a un
gruppo più ampio, definito religiosamente ed etnicamente – gli ebrei – fino
a sfociare nell’immagine di una setta potenzialmente indefinita (streghe e
stregoni). Tutti ispirati da un nemico esterno: il diavolo.
Un giorno, essendo stato ospitato in una casa, vide che dopo aver cenato di nuovo
preparavano le tavole: molto meravigliato ne chiese il perché. Gli fu risposto che si
preparava da mangiare per quelle brave persone che durante la notte si trovavano in
cammino. Il santo stabilì di rimanere sveglio ed ecco che vide una moltitudine di diavoli
assidersi a mensa sotto forma di uomini e donne. Comandò ai diavoli si non andarsene,
poi svegliò tutti i membri di quella famiglia per chiedergli se conoscessero i convitati.
Gli ospiti risposero che i convitati erano i loro vicini e vicine di casa.
Allora Germano rinnovò ai demoni la proibizione di andarsene; poi ordinò ai suoi ospiti
di recarsi nelle case dei vicini che furono trovati addormentati nel letto. Allora i demoni
furono costretti a rivelare il loro essere e a confessare che così agivano per ingannare gli
uomini [Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, San Germano].
13
barche, che appaiono cariche pur non vedendosi nessuno, e che percorrono
in brevissimo tempo il traghetto:
Gli uomini che sanno di dover andare a compiere tale lavoro durante la notte, dando il
cambio ai precedenti, appena scendono le tenebre si ritirano nelle proprie case e si
mettono a dormire, in attesa di chi dovrà venire a chiamarli per questra incombenza. A
tarda ora della notte, infatti, essi sentono battere alla porta e odono una voce soffocata
che li chiama all’opera; senza esitazione saltano giù dal letto e si recano sulla riva del
mare, senza rendersi conto di quale forza misteriosa li spinga ad agire così, ma
sentendosi comunque trascinati a farlo [Procopio di Cesarea, De bello Gotico, IV, 20].
14
lupi. Credeva nella realtà fisica della trasformazione. La sete
inestinguibile dei morti.
15
a partire dal XVI secolo, le apparizioni erano divenute sempre più rare. 3)
abitudine di Francoforte: giovani pagati perché conducessero la sera di
porta in porta un carro ricoperto di fronde, mentre intonavano canzoni e
vaticini. Era una rappresentazione depotenziata dell’ “esercito furioso” – la
sua trasformazione in rituale. Carnevalizzazione. Charivari. Halloween (i
morti in questua). Questue infantili, tavole apparecchiate per le divinità
notturne e travestimenti animaleschi rappresentavano modi diversi di
entrare in contatto con i morti, dispensatori di prosperità, nel momento di
fine dell’anno vecchio e di inizio del nuovo. Ma ancora va detto qualcosa
sul travestimento animalesco: vediamo alcune testimonianze. Cesario di
Arles: i contadini – nella notte delle calende – allestiscono tavole imbandite
per avere un anno di prosperità. Burcardo di Worms: la tavola veniva
apparecchiata con tre coltelli, destinati alle Parche, le bonae dominae.
Ancora Cesario di Arles: ci sono individui che si travestono da cervi
(“cervulum facientes”) o indossano maschere animalesche (“alii vestiuntur
pellibus pecudum, alii assumunt capita bestiarum”), godendo del fatto di
non apparire più come uomini (“gaudentes et exsultantes, si taliter se in
ferinas species transformaverint, ut homines non esse videantur”):
Ginzburg: “un correlativo rituale delle metamorfosi di animali vissute in
estasi” (sciamanismo). A metà del XVII secolo il francescano Marco
Bandini, arcivescovo di Marcianopoli descrive le prodezze degli incantatori
e delle incantatrici della Moldavia, ai quali la gente si rivolge per conoscere
il futuro, guarire dalle malattie e ritrovare oggetti rubati. a) delimitazione di
uno spazio appropriato (“certo loci spatio”), b) convulsioni e bisbigli, c)
transes. Propensione all’estasi prevalentemente femminile. Contemporanea
alla testimonianza di Bandini, al descrizione della Moldavia del principe
Cantemir: i caluczenii, uomini che travestono da donna, fingendo voce
femminea. Lotta dei c lu ari contro le femminili rusaliile. I salti dei
c lu ari imitano il volo estatico e il salto dei cavalli: la società di questi è
modellata sulla società dei sântoaderi (cavalieri di san Teodoro, santo
associato ai morti:
Avendo ricevuto l’ordine di sacrificare agli dei il santo entrò di notte nel tempio di
Marte e gli dette fuoco. Allora fu chiuso in carcere e condannato a morirvi di fame: ed
ecco che il Signore gli apparve e gli disse: “Abbi fiducia in me, perché io sono teco”.
Subito dopo una gran folla di uomini biancovestiti entrò nel carcere e cominciò a
salmodiare insieme a Teodoro. A tal vista, atterriti, i carcerieri si dettero alla fuga. Il
giorno dopo il santo fu di nuovo invitato a sacrficare agli idoli ma quegli disse: “Voi
potrete bruciare la mia carne e destinarmi ad ogni genere di supplizi ma io non
rinnegherò mai il mio Dio!” [Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, San Teodoro].
16
I sântoaderi hanno figura di cavalieri provvisti di coda e zoccoli equini
che, durante il Carnevale, girano di notte suonando il tamburo.
Finicella, una delle vittime di Bernardino, mandata al rogo: “una fra l’altre
disse e confessò senza niuno martorio che aveva uccisi da xxx fanciulli col
17
succhiare il sangue loro [vampirismo]; et anco disse che n’aveva liberati lx
… E più ancora confessò che ella aveva morto el suo proprio figliuolo, et
avevane fatto pòlvare, de la quale dava mangiare per tali faccende”.
E sònne di queste tali genti qua in Piemonte, e sôvi andati già cinque inquisitori per
levar via questa maladizione, e’ quali so’ stati morti da queste male genti. E più, che
non si trova inquisitore che vi voglia andare per méttarvi mano. E sai come si chiamano
questi tali? Chiamansi quelli del barilotto. E questo nome si è perché eglino pigliaranno
un tempo dell’anno uno fanciullino, e tanto il gittano fra loro de mano in mano che elli
si muore. Poi che è morto, ne fanno pólvare e mettono la pólvare in uno barilotto, e
dánno poi bere di questo barilotto a ognuno; e questo fanno perché dicono che poi non
possono manifestar niuna cosa che elli faccino [Bernardino da Siena, Le prediche
volgari].
18
genus”, d) eccezionalità della figura del mago, diverso dai profani e non
rigenerati.
La rigenerazione coincide con la purificazione dai vizi. “Vi sono due tipi di
uomo: l’uomo materiale e l’uomo essenziale”. Questi testi risalgono al II
secolo d. C., furono tradotti parzialmente da Marsilio ficino ed ebbero vasta
circolazione (16 edizioni tra il 1471 e la fine del Cinquecento). Nello
stesso periodo ebbe altrettanto larga diffusione il Picatrix latinus (secolo
XI, il testo arabo). “At laudem et gloriam altissimi et omnipotentis Dei,
cuius est rivelare suis praedestinatis secreta scientiarum”. I filosofi hanno
celato agli uomini il sapere magico, e lo fecero per il loro bene, giacché “si
haec scientia hominibus esset discoperta, confunderent universum”. Per cui
di tale scienza parlarono solo figuraliter: “figuraliter fuerunt loquuti de ea,
ad hoc ut aliquis ad ipsam attingere non valeret, nisi esset scientia
illustratus ut ipsi”. Lo scopo del Picatrix è quello di esplicare le “viae et
regulae” mediante cui i sapienti possono attingere alla scienza, di “mostrare
con mezzi e termini più chiari ciò che nei loro libri essi occultarono
mediante l’uso di termini peregrini”. Esclusione dell’insipiente:
Rivogliamo le nostre preghiere a Dio non solo perché illumini il tuo cuore e il tuo
spirito, perché ti protegga e difenda dalle insidie degli uomini nocivi, ma affinché tu
non riveli i tuoi segreti a nessuno che non sa, perché ciò provocherebbe la distruzione
dei santi e dei profeti [Picatrix].
19
attingerà vedrà aprirsi il mondo occulto. Segretezza e difficoltà si
coniugano: i filosofi parlano una lingua solo a essi nota. Come scrive Bono
da Ferrara, nella Margarita novella,
Prego e scongiuro tutti coloro che comprendono queste cose e nelle cui mani giungerà
questa preziosa gemma, di comunicarla agli uomini che si dedicano a questi problemi,
che bramano ardentemente l’arte e che sono dotti nei principi naturali. La occultino
invece agli indotti e ai fanciulli poiché essi ne sono indegni [Pietro Bono da Ferrara,
Introductio in artem chemiae integra, ab ipso autore inscripta Margarita Preciosa
Novella].
I segreti debbono essere comunicati solo verbalmente attraverso una schiera esigua di
sapienti e i sacri arcani debbono essere custoditi da un numero esiguo di eletti […].
Ogni esperienza di magia abborre il pubblico, vuol essere nascosta, si fortifica nel
silenzio e viene distrutta ove venga dichiarata [Agrippa, De occulta philosophia, III, 2].
Per tutti gli esponenti della cultura magica e alchimistica i testi dell’antica
sapienza si configurano come libri sacri nei quali sono racchiusi segreti
aperti solo a pochi uomini. Due direzioni del segreto: nel profondo e nel
passato. È necessario andare oltre la lettera, sottoporre i testi al lavoro
ermeneutico. Magia e alchimia sono dunque riservate a uomini
d’eccezione: la diffusione della verità coincide con la sua distruzione, ma
tale segretezza è legata altresì alla difficoltà dell’arte, alla necessità di un
preliminare processo di purificazione dell’adepto, che trasforma l’ “uomo
naturale” (re-natus) e lo rende “complice degli spiriti celesti”. L’arte esiste
“per modum miraculi” e l’adeptio deve avvenire attraverso la voce vivente
o per ispirazione divina: “videtur mihi eius adeptio quasi impossibilis nisi
aut per vocem viventem aut per inspirationem divinam”. Così Bono da
Ferrara. La ragione non vi perviene ed è necessaria la fede:
20
Diciamo e veracemente affermiamo che dal primo fino all’ultimo uomo, nessuno potrà
mai scoprire il divino segreto di quest’arte mediante l’ingegno naturale o la sola ragione
naturale o l’esperienza. Quel segreto, infatti, come qualcosa di divino e di occulto, sta al
di sopra della ragione e dell’esperienza. Il glorioso Iddio, elargitore di grazie, lo rivelò
ai fedeli sapienti che erano timorosi di Lui [Pietro Bono da Ferrara, Margarita Preciosa
Novella].
Le mente pura e divina […] dopo aver raggiunto il vertice della sapienza umana, attira a
sé la verità e nella stessa verità divina, come in uno specchio dell’eternità, vede le cose
mortali e quelle immortali, la loro essenza e le loro cause e comprende il tutto. In
questo stato di purezza ed elevazione, possiamo conoscere le cose che sono al di sopra
della natura e scrutare tutto ciò che è presente nel nosrtro mondo […] Mediante gli
oracoli e le divinazioni possiamo conoscere anc he quanto accadrà in epoche lontane.
Una mente di questo tipo acquista una virtù divina non solo nelle scienze e negli
oracoli, ma acquista anche una potenza miracolosa in tutto ciò che può essere mutato
mediante la vlontà. Perciò talora noi, pur appartenendo alla natura, la dominiamo e
realizziamo opere miracolose ed elevatissime tali da rendere calmi i mari, mutare le
stelle, piegare le divinità e asservire gli elementi [Agrippa, De occulta philosophia, III,
6].
Confine indefinibile tra la figura del mago e quella del sacerdote. Noi
abbiamo ricevuto lo spirito che proviene da Dio, non quello di questo
mondo, per questo – afferma Robert Fludd – non parliamo con le parole
della dottrina umana, ma con la dottrina dello spirito: “loquimur non in
doctis humanae sapientiae verbis, sed in doctrina spiritus, spiritualibus
spiritualia comparantes”, nella Philosophia Moysaica. Scrive sempre Fludd
a Kepler, “i chimici e gli ermetici non si volgono alle ombre quantitative
dei matematici volgari, ma abbracciano il midolo vero dei corpi naturali”.
21
sapere e le scienze. Capace di riso e di pianto, ha in sé la virtù di Dio e la
scienza della giustizia per governare politicamente, conosce il giovamento
e il danno, opera mediante arte e industria. Egli ha tutte le cose del mondo
al suo servizio e non è servo di nessuna. La sua posizione di “medietà” è
fondata sulla sua essenza fisica (compresenza di corpo denso e di spirito
sottile) In lui sono presenti le caratteristiche degli elementi (grossezza della
terra, sottigliezza dell’aria, calore del fuoco e freddo dell’acqua). La sua
nobiltà (dignitas) sono riflesso della scala dell’essere alla quale è riuscito a
innalzarsi. Ma tale ascesa non è connessa solo alla volontà dell’uomo, al
suo arbitrio; esistono anche un’inclinazione naturale e una favorevole
congiunzione degli astri. La sua dignitas è conseguenza del suo livello di
sapere. La scienza magica, continua Picatrix, “est quid valde nobile et
altum et qui studet in ea et per eam operatur, sua recipit nobilitatem et
altitudinem”, Giunge alla perfezione del “grado ultimo della scienza”. La
figura del mago coincide con quella dell’uomo perfetto e del perfetto
filosofo (Gesù come homo perfectus), in un abisso incolmabile rispetto agli
uomini bestiali (“a bestialibus hominibus sunt natura remoti”). Gli
“homines imbecilles et intellectu carantes” che “ad praedicta attingere
nequeunt nec venire” hanno solo forma e figura di uomo: “homo appellari
non debet nisi nomine, forma et figura hominis” (Picatrix).
22
A opera della magia naturale nascono spesse volte stupendi miracoli non tanto per
l’arte, quanto per la natura alla quale quest’arte si dà per ministra. Perciocché i maghi
come diligentissimi esploratori della natura, conducendo quelle cose che sono preparate
da lei […] spessissime volte inanzi al tempo ordinato dalla natura producono effetti i
quali dal volgo sono ritenuti per miracoli, sendo però opre naturali non v’intervenendo
altro che la sola anticipazione del tempo: come s’alcuno facesse nascer rose nel mese di
marzo o crescer l’uve mature […]. Perciò s’ingannano quelli che stimano [le operazioni
della magia] al di sopra della natura o contro natura, mentre provengono dalla natura e
son fatte secondo natura [Agrippa, Della vanità delle scienze, 1527].
23
2. La magia come dominio sulla natura.
24
di elusione è quella che abbiamo esperito nella sezione dedicata alla
stregoneria: la soluzione – a prima vista di alta comprensione umana e
umanistica – della illusione e dell’autoillusione: ma proprio il fallimento
delle pretese della magia cela un nodo di problemi. Quindi ora dobbiamo
cominciare con il porre in discussione la questione della illusorietà. Una
prima proposta di soluzione: illusorietà dei poteri magici nella loro
relazione con lo sguardo “esterno” e insieme loro realtà nel vissuto
esistenziale del praticante la magia. Con de Martino: “l’indagine coinvolge
non soltanto il soggetto del giudizio (i poteri magici), ma anche la stessa
categoria giudicante (il concetto di realtà)”. Elaborazione di un pensiero in
atto, che assume lo scandalo.
In stato di grande concentrazione gli sciamani [tungusi], come altre persone, possono
entrare in comunicazione con altri sciamani e con individui comuni. Presso tutti i
gruppi tungusi questo si fa del tutto intenzionalmente per necessità di carattere pratico,
specialmente in casi urgenti […] [S. M. Širokogorov, The Psychomental Complex of the
Tungus, 1935].
Dai tungusi deriva il termine shaman, dal verbo sa, e significa “uno che
sa”. Come ha notato James Dow, The Shaman’s Touch: Otomi Indian
Symbolic Healing [1986], risalendo a un sapere antichissimo, gli sciamani
“furono i primi specialisti del mondo … sono forse gli specialisti più
versatili del mondo”. Sulle tracce dello studioso russo, Širokogorov, de
Martino evidenziava ulteriori aspetti della pratica sciamanica, nella
distinzione tra “metodi comuni” - “semplici metodi di natura logica, e
intuizione” – e “metodi speciali” – “lettura del pensiero, comunicazione a
distanza, direzione autosuggestiva dei sogni, ed estasi”. Metodi che
possono essere utilizzati dai membri ordinari della comunità, ma che per
gli sciamani sono “condizione essenziale della loro arte”.
Fenomeni analoghi si rinvengono presso i pigmei dell’Africa Equatoriale,
gli zulu e i figiani. Ma ora esaminiamo un altro elemento che si adatta alla
nostra ricerca di interconnessioni tra le culture: da un lato, come si è
accennato, la possibilità di funzionare dei procedimenti sciamanici è legato
alla presenza di una comunità, di un’entità umana che si riconosce in un
universo di valori condivisi. E ciò anche in assenza della fisica contiguità.
Si veda l’esempio ricordato da R. G. Trilles:
Tutti i clan pigmei che abbiamo incontrato si ignorano quasi a vicenda, fatta eccezione
di quelli che sono abbastanza vicini, prodotto relativamente recente di un identico ramo.
25
È tuttavia da notare che questa unione e questa conoscenza degli altri clan potrebbe
essere molto più completa di quello che crediamo, mantenuta dagli stregoni, dai maghi e
dai cantori che vanno di clan in clan, rintracciandoli e visitandoli, chiamati non si sa
come se non forse in virtù della loro scienza misteriosa [R. G. Trilles, Les pygmées de la
forêt equatoriale, 1932].
La notte del nostro arrivo alcuni indios si recarono da Castillo e lo implorarono affinché
li curasse, poiché erano afflitti da forti dolori alla testa. Non appena Castillo li ebbe
benedetti e raccomandati a Dio, gli indios dissero che il dolore era scomparso.[…]
Presto la notizia si diffuse nell’intero villaggio. […] Non appena cessammo di
prodigare le nostre cure, ebbero inizio le loro danze e i loro riti di ringraziamento, che si
prolungarono fino all’alba del giorno successivo [Alvar Núñez Cabeza de Vaca,
Naufragi, XXI].
Questi Tiquie non erano gli allocchi della vecchia scuola, pronti a buttarsi a terra ad
adorare i fiammiferi o a divinizzare la polvere da sparo. Ma pensai che tra le nostre
trappole varie dovesse esserci una magia che avrebbe impressionato lo stregone […]
Così […] deposi davanti a lui una magia portentosa, un grande disco rotondo di vetro
trasparente, con entrambe le superfici convesse, come quello che gli snervati uomini
bianchi dalla vista debole adoperano per ingrandire i caratteri a stampa […] Questa
magia, dissi, è la più utile di tutte le magie dell’uomo bianco. Te la mostrerò sotto la
luce del sole […] Davanti alla porta dello stregone […] presi una foglia secca e ci
puntai sopra la lente […] In un secondo il puntino di calore concentrato cominciò a far
26
fumo e prese fuoco. Il mago si tappò la bocca con la mano. “Ammmu! Questa è una
magia eccellente”, disse [Gordon MacCreagh, White Waters and Black, 1926].
Ma siccome ora (per la natura delle noste umane menti, troppo ritirata dai sensi nel
medesimo volgo con le tante astrazioni di cui son piene le lingue con tanti vocaboli
astratti, e di troppo assottigliata con l’arte dello scrivere, e quasi spiritualezzata con la
pratica de’ numeri, che volgarmente sanno di conto e ragione) ci è naturalmente niegato
di poter formare la vasta immagine di cotal donna che dicono ‘natura simpatetica’ (che
mentre con la bocca dicono, non hanno nulla in loro mente, perocché la lor mente è
dentro il falso, ch’è nulla, né sono soccorisi dalla fantasia a poterne formare una vasta
potentissima immagine): così ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta
immaginativa di que’ primi uomini, le menti de’ quali di nulla erano astratte, di nulla
erano assottigliate, di nulla spiritualezzate, tutte rintuzzate nelle passioni, tutte seppellite
ne’ corpi: onde dicemmo sopra ch’or appena intender si può, affatto immaginar non si
può, come pensassero i primi uomini che fondarono l’umanità gentilesca [Giovan
Battista Vico, La scienza nuova, § 378].
Gli scienziati […] hanno buona ragione di non avventurarsi sul terreno della
fenomenologia paranormale. Queste ragioni si trovano, secondo me, nei risultati della
ricerca parapsicologica […] Supponiamo che tutti gli esperimenti descritti […] abbiano
avuto esito positivo, al punto di obbligarci ad ammettere azioni magiche a distanza in
quei casi in cui l’autore stesso le ritiene probabili: quale conclusione ne ricaveremo noi?
Evidentemente il mondo che ci circonda diverrebbe in realtà composto di due mondi
assoutamente diversi. Da una parte quello di Copernico, di Newton, di Leibnitz e di
27
Kant: e cioè l’universo retto da da leggi eternamente immutabili, e per cui il più piccolo
come il più grande si uniscono in un tutto armonico. Dall’altra parte, accanto a questo
grandioso universo che suscita sempre più la nostra meraviglia e la nostra ammirazione
ad ogni passo che in esso muoviamo, vi sarebbe un altro piccolo mondo, un mondo di
spiriti folletti, di maghi e di ‘medi’, il quale sarebbe il completo rovescio del primo, del
grandioso e sublime universo, le cui leggi immutabili si troverebbero sospese a profitto
di persone fra le più volgari e spesso isteriche [Wilhelm Wundt, Hypnotismus und
Suggestion, in “Philosophische Studien”, 1893].
28
Pietre unciniformi per trattenere l’anima. Il pericolo – che nella cultura
occidentale permane, seppure rimosso – è quello della rottura del vincolo
con il mondo. Di qui, la rilevanza del mito: “L’angoscia … è intenzionalità
della coscienza senza un oggetto”. Così Hans Blumenberg, Arbeit am
Mythos [1979]. E, ancora, “Il mito è un modo di esprimere il fatto che il
mondo e le potenze che dominano in esso non restano abbandonate alla
pura arbitrarietà”. Ma “il mito non è antropocentrico … coinvolge l’uomo
nella storia degli dei solo al margine”. Per concludere: “I miti non
rispondono a doamde; le rendono indomandabili”. Il rito è la fuoriuscita dal
tempo, giacché la reiterazione degli atti che consentono la presenza del
mondo e l’esserci nel mondo, prescinde dal fluire del tempo o, meglio,
presuppone un tempo ciclico, sempre uguale. Il riscatto, presupposto del
mito e azione del rito, per de Martino “sta nello sperimentare e nel
rappresentare l’oggetto come alter ego, col quale si stabiliscono rapporti
regolati e durevoli”. Un compromesso. L’atai come duplicazione del sé,
secondo R. H. Codrington:
La parola atai sembra aver avuto a Mota il senso proprio e originario di designare
qualche cosa legata in modo particolare e intimo a una persona, e sacro per essa che ,
qualche cosa ha colpito la sua immaginazione nel momento in cui è stata percepita, in
guida che le è apparsa meravigliosa, o che altri le abbiano fatto apparire la cosa come
tale. Quale che sia questa cosa, l’uomo ha creduto trattarsi del riflesso della propria
persona: essa e il suo atai prosperano, patiscono, vivono e muoiono insieme [R. H.
Codrington, The Melanesians, 1871].
[…] agli occhi della mentalità primitiva non si verificano, propriamente, accidenti. Ciò
che sembra accidentale a noi Europei, è sempre, in realtà, la manifestazione d’una forza
mistica che in tal modo si rende palese all’individuo o al gruppo sociale [Lucien Lévy-
Bruhl, La mentalità primitiva, 1922].
“Il mondo è un linguaggio che gli spiriti parlano a uno spirito”. Così Lèvy-
Bruhl. a) processo di disintegrazione della persona sia in occasione di
29
eventi emozionanti, sia in rapporto con una intensificazione della labilità
psichica; b) visione plasmata con temi mitici e magici tradizionali; c)
padroneggiamento graduale della visione, in guisa da raggiungere la sua
produzione a volontà, soprattutto nel sogno; d) chiarimento del significato
della visione, che si palesa come invito da parte degli spiriti a diventare un
mago; e) elezione di uno spirito adiutore, e istituzione con esso di rapporti
regolati, culturalmente significativi, socialmente utili:
Attraverso questi momenti del dramma esistenziale magico la situazione iniziale (il
rischioso e angosciante insorgere di una dissoluzione della presenza) è riscattata.
L’istituto magico della vocazione, del sentirsi chiamato, dell’identificazione degli
spiriti, del loro padroneggiamento attraverso uno sforzo assiduo, la presenza di una
trama tradizionale di temi e figurazioni, di riti e di pratiche che aiutano a interpretare la
chiamata, a leggere, per così dire, nel caos minaccioso il cosmo di forme culturalmente
significative; tutto ciò arresta nel fatto la dissoluzione, ha un’efficacia soterica reale.
L’esserci nasce dal conflitto uno in più, o più in uno, ma in guisa che l’uno non si perde
nei più, e in guisa che i più ubbidiscono all’uno [Ernesto de Martino, Il mondo magico,
p. 108].
30
psichico e l’accettazione della vocazione significa guarigione [Czaplicka, Aboriginal
Siberia. A Study in Social Anthropology, 1914].
Ancora, Širokogorov:
Lo sciamano padroneggia gli spiriti e libera dalla loro attività i membri della comunità.
Quando manca lo sciamano, allora gli spiriti divengono liberi: poiché nessuno più li
controlla, essi cominciano ad entrare nei membri del clan e a produrre vari effetti
dannosi […]. Gli incidenti si susseguiranno agli incidenti e molte persone possono
trovare la morte. La comunità è come paralizzata, la sua esistenza è messa in pericolo.
Lo squilibrio può essere vinto – e lo è nel fatto - , se un uomo o una donna possono
riprendere il controllo degli spiriti e sciamanizzare [S. M. Širokogorov, The
Psychomental Complex of the Tungus, 1934].
Al centro del mondo culturale magico, come sintesi viva di iniziativa e di tradizione, sta
il mago, che si apre al dramma esistenziale proprio del magismo, e consegue sul rischio
una vittoria che ha significarto non solo per sé ma anche per gli altri. L’angoscia, che
per gli altri può segnalare un rischio senza compenso, acquista per il mago la funzione
di uno stimolo e il significato di un problema. Il non esserci, in cui gli altri possono
smarrire la loro presenza, si riplasma nel mago in un ordine di “spiriti” identificati e
padroneggiati. Il “perdersi”, che per gli altri può essere definitivo, si trasforma per il
mago in un momento del processo che conduce alla “salvezza” [Ernesto de Martino, Il
mondo magico, p. 121].
31
Lo stregone riplasma i momenti critici dell’esserci nella coraggiosa e
drammatica decisione di porsi nel mondo. Il suo esserci come dato rischia
di dissolversi. Attraverso l’istituto della vocazione e della iniziazione, il
mago disfà questo dato per rifarlo in una seconda nascita (come evento
non più biologico, ma culturale: re-natus). La trance esprime questo esserci
che si disfà per rifarsi: “colui che ha tolto a proprio oggetto il limite della
propria presenza può anche andare oltre a questo limite”: Cristo magico,
mediatore per tutta la comunità dell’esserci nel mondo come rischio di non
esserci. Culturale: le esperienze si plasmano in tradizione, forniscono le
espressioni ideologiche e istituzionali per entro le quali si muoveranno le
nuove esperienze individuali, e in virtù delle quali riceverà unità di
svolgimento la vicenda di rischi che caratterizza il mondo magico
(racconto, mito): sistemazione della rischiosa labilità in più esistenze
psicologiche simultanee, una delle quali – quella storica – mantiene il
controllo sulle altre. a) sollevazione di realtà psichiche che sommerge la
presenza; b) la crisi si modella secondo uno schema (racconto) e accede a
un significato culturale; c) la presenza riemerge, riconosce il maligno e si
apre al dramma della nuova nascita. Un equilibrio totalmente nuovo (nuovi
cieli, nuova terra).
“Un altro grande motivo istituzionale della magia è dato dalla imitazione”.
Secondo Frazer, la magia imitativa deriva da false associazioni per
somiglianza, mentre la magia contagiosa deriva da false associazioni per
contiguità. Una scuola antropologica tedesca, quella di Alfred Vierkandt
[1907], pone a base della magia i “moti espressivi”, “impulsi con i quali ci
si libera dai moti del sentimento”. Gli atti imitativi non sono meramente
simbolici o analogici rispetto al risultato mirato, ma la somiglianza
dell’azione imitativa e di quella desiderata conclude in identità: nella
danza del bufalo dei dakota, per gli osservatori estranei la presenza del
bufalo rappresentata dal danzatore e la presenza effettiva del bufalo
rappresentano due fatti indipendenti (per quanto speculari, in una tensione
drammatica alla somiglianza), laddove nella coscienza del danzatore dakota
la qualità della presenza impregna il desiderio tanto da cancellare la
32
diversità: “i due processi, in virtù della pura presenza vissuta, diventano
una sola e stessa cosa”. Ha scritto Ernst Cassirer:
Dove noi scorgiamo una mera analogia, cioè un mero rapporto, il mito ha da fare con la
realtà nella sua concretezza e immediatezza, ha da fare con l’immediata presenza [Ernst
Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, II, 1925].
33
Al pari dell’anima esterna, del padroneggiamento degli spiriti, della fattura e
dell’imitazione, la forza magica è un istituto in cui si esprime il dramma esistenziale
dell’esseerci esposto al rischio di non esserci, e che si riscatta da questo rischio […]. Il
dramma storico della magia si inizia […] con l’angosciosa esperienza di una presenza
che non riesce a mantenersi di fronte al mondo, e quindi di un rischio estremo e
definitivo, rispetto al quale tutti gli altri che sono connessi al vivere umano perdono il
loro significato e il loro rilievo. Ora è per entro quest’angosciosa esperienza che si
costituiscono le prime più semplici rappresentazioni magiche segnalatrici del rischio:
prima fra tutte quella di una influenza maligna a cui si è sottoposti, di una estraneità che
fa violenza, di una forza demoniaca che costringe l’esserci ad abdicare. La presenza,
non più mantenuta come tale, si manifesta come una tensione che minaccia di scaricarsi,
di fuggir via. D’altra parte la dissoluzione dell’esserci rappresentata e sentita come una
forza maligna indica già una resistenza: in quanto l’esserci resiste, la dissoluzione è una
forza, una malignità angosciosamente insidiatrice [Ernesto de Martino, Il mondo
magico, p. 141].
Mentre originariamente ogni singola parte del corpo contiene in sé l’essenza della
persona, in fasi più elevate di sviluppo del pensiero vediamo formarsi una articolazione
34
di parti magicamente importanti e magicamente non importanti, una centralizzazione e
una subordinazione nel senso di un nocciolo e di una scorza della persona [Heinz
Werner, Einführung in die Entwicklungspsychologie, 1933].
Ma il contenuto storico della forza magica non è esaurito con ciò: il rischio
della irruzione del mondo nell’io e del deflusso dell’io nel mondo implica
anche un rischio per l’oggettività del mondo. Crisi delle due sfere distinte:
35
Jaensch, Der Aufbau der Wahrnehumungswelt und ihre Struktur im
Jugendalter [1923]: eidetismo visivo: il soggetto ha la capacità di
visualizzare materialmente una certa immagine, dopo averne avuta la
sensazione e dopo che lo stimolo è stato tolto. L’immagine eidetica è
vivace come la sensazione, e può mescolarsi con le sensazioni, ma al pari
della rappresentazione è soggetta alla volontà, cioè può essere modificata
secondo fantasia; l’eidetismo è normale fino ai quattordici anni. Nel caso
dei “primitivi”, l’attualmente sensibile non è ancora deciso, ma è incluso
ancora nella decisione umana. L’oggetto che non riesce a essere proiettato
come datum, viene riscattato nell’istituto dell’ “ombra”. Ma il riscatto
dell’oltre può avvenire anche grazie alla rappresentazione della sua forza,
che da esso promana e che può venire utilizzata dall’uomo. Oppure è
interpretato come una tensione pericolosa che minaccia di scaricarsi e che
va trattenuta tramite l’osservanza del tabu: divieto di modificare la forma di
oggetti: l’alterazione del loro profilo significa profanare gli oggetti (zuni);
la modificazione di un paesaggio è avvertito come turbamento del suo
equilibrio magico (loango). Il tabu dell’incesto: come modificazione del
paesaggio del pool sessuale della comunità: l’oltre di determinate qualità
riceve orizzonte nella totalità: la parte è il tutto (sineddoche); l’oltre di una
certa totalità, sia attraverso l’analogia dei caratteri sia quella degli effetti, è
fatta partecipare ad altre totalità, in un sistema di simpatie (un universo
linguistico). Il caos è vinto. Nasce un cosmo, padroneggiato dall’azione
demiurgica dell’uomo. Esempio degli huichol: identità tra il cervo e il
peyote. Quando fa giorno, le stelle sono cacciate e catturate, perciò sono
identiche al cervo; ogni prospera crescita del pool alimentare dipende da
questa caccia di stelle/cervi. In tutte le feste il cervo è il principale animale
sacrificale. Il peyote, per le sue proprietà allucinatorie, è divenuto un
oggetto interessante, quando gli huichol arrivano nella zona del pelote,
nella terra della luce (all’alba) il primo peyote viene colpito da frecce, come
un cervo. “Solo un equivoco polemico - scrive de Martino – maturato nel
corso delle lotte millenarie che la nostra civiltà ha dovuto sostenere per
distinguersi dalla magia e per determinarsi quale è, ha potuto mantenere fin
oggi l’ostinato pregiudizio che questo riscatto magico dell’oggettività in
crisi metta capo a un mondo assolutamente immaginario, contesto di idee
deliranti e di esperienze allucinatorie”:
In una civiltà come la nostra, in cui la decisione di sé e del mondo non forma più
problema culturale dominante e caratterizzante, noi siamo dati a noi stessi senza rischio
sostanziale, e gli oggetti e gli eventi del mondo si presentano alla coscienza empirica
come “dati” sottratti al dramma dell’umano produrre. Anche se noi, nella ricerca
trascendentale, recuperiamo mediatamente la trama delle condizioni a priori della
pensabilità in generale e della osservabilità sperimentale dell’esperienza, resta il fatto
36
che questa stessa ricerca di condizioni è a sua volta condizionata da un’esperienza
storica attuale in cui “presenza al mondo” e “mondo che si fa presente” sono costituiti
come dualità decisa e garantita. Ora nella magia è in causa proprio questa esperienza,
nel senso che la dualità presenza-mondo forma un problema dominante e
caratterizzante. Nella magia la presenza è ancora impegnata a raccogliersi come unità
in cospetto del mondo, a trattenersi e a limitarsi, e correlativamente il mondo non è
ancora allontanato dalla presenza, gettato davanti ad essa e ricevuto come indipendente.
In questa situazione storica, in questo dramma culturale, “presenza al mondo” e “mondo
che si fa presente” sono in continua contesa per la definizione delle reciproche frontiere,
una con tesa che implica atti di guerra, sconfitte e vittorie, come anche tregue e
compromessi. Da ciò discende una conseguenza importante. La realtà come
indipendenza del dato, come farsi presente di un mondo osservabile, come alterotà
decisa e garantita, è una formazione storica correlativa alla nostra civiltà, correlativa
cioè, alla presenza decisa e garantita che la caratterizza. Questa realtà, che potremmo
anche chiamare “naturalità”, si palesa come trovarmi dato nel mondo e come mondo che
trovo nel suo farsi presente a me, senza che questo duplice ritrovamento formi problema
culturale [Ernesto de Martino, Il mondo magico, p. 155].
La buona fede dei maghi: la teoria della menzogna non fa altro che tenere
in piedi la tesi illuministica antireligiosa (Cicerone, Storia dei tre
impostori). La trama ngwel: condizione psichica dove si avverte reale la
presenza di una realtà psichica; “oltre ala realtà paranormale c’è la realtà
37
ngwel … Assunti nella trama della realtà ngwel, i nostri oggetti subiscono
una totale trasfigurazione, acquistano un significato affatto diverso e sono
ricompresi in rapporti per noi (…) insussistenti. Noi vediamo solo le
coordinate del realissimo sogno magico, e quelle coordinate giudichiamo
come se non facessero, attualmente, parte della trama ngwel, e come se
continuassero a essere oggetti e rapporti della nostra realtà storicamente
determinata”. Possibilità della frode: anche qui, la dimensione storica; in un
universo in mutazione storica, laddove la magia è in decadenza, ciò che un
tempo si poneva ome vero e proprio potere ora invece si svolge sul piano
ngwel del reale (decadenza a mero spettacolo – teatralizzazione del mondo
- ; i vari piani come luoghi di transizione). La cristianizzazione del mondo
magico (addomesticamento); nella realtà storica la stessa operazione
sviluppata da Agostino nei confronti degli dei pagani (evemerismo), ma –
si badi – Jean Seznec, La survivance des dieux antiques [1929, recensito da
Croce]. Consapevolezza degli stessi uomini del mondo magico: i tungus
ricordati da Širokogorov, Gusinde sui fuegini. La individuazione
storiografica del dramma magico come rischio di non esserci e come
riscatto da questo rischio. Corroborato dai lavori di Storch sui nessi tra
schizofrenia e mentalità mitico-magica [Die Welt der beginnenden
Schizophrenie und die arcaische Welt [1930]: nella schizofrenia si
manifesta una dissociazione della personalità e quindi la soppressione della
distinzione tra soggetto e oggetto, io e tu, io e mondo; la crisi della
presenza è avvertita come forza occulta e maligna, la crisi della oggettività
del mondo si appalesa come se le cose perdessero consistenza e venissero
meno i contorni di esse. “La catastrofe della propria presenza è avvertita
come una catastrofe cosmica [cfr. Ernesto de Martino, La fine del mondo]:
il rischio estremo della condizione schizofrenica (precipitare delle stelle,
frantumazione del sistema planetario, perché il mio corpo è così lacerato)
è la polarizzazione tra 1) la passività della condizione catalettica e 2)
l’insorgenza caotica di impulsi incontrollati. In 1), qualsiasi atteggiamento
imposto all’infermo, viene mantenuto: automatismo imitativo o speculare;
donde 2) il malato sbarra la sua volontà, non si concede al mondo – lo
“stupore catatonico”:
38
sbarrata può da un momento all’altro aprirsi una breccia la folla degli impulsi
incontrollati [Ernesto de Martino, Il mondo magico, p. 178].
L’irrompere del mondo ambientale nell’io, il defluire dell’io nel mondo ambientale
provocano un’immagine demoniaca del mondo, in cospetto della quale l’unica
possibile salvezza è data dalla demonia dell’io e dalla magia delle sue operazioni [Heinz
Werner, Einführung in die Entwicklungspsychologie, 1933].
“Il magismo come epoca storica appartiene … alla fisiologia della vita
spirituale”, laddove la schizofrenia investe un dramma individuale che resta
privato, “non si inserisce organicamente nella vita culturale”. “Nel mondo
magico la salvezza si compie per uno sforzo che non è monadistico …, ma
è dell’individuo in quanto partecipe di un dramma culturale, a carattere
pubblico”. La tesi che le psicosi siano ripetizione di un’età arcaica dello
sviluppo psichico fu avanzata nel 1831 da Carl Gustav Carus, nelle sue
Vorlesungen über Psychologie, e ripresa alla fine del XIX secolo da
Eugenio Tanzi: la mentalità delirante propria in assoluto dell’uomo
primitivo, può riprodursi nell’uomo moderno come “sopravvivenza
arcaica” [cfr. Euclydes da Cunha, Os sertões e l’immagine di António
Conselheiro]. Ma Morselli osservava come l’uomo malato non è lo stesso
dell’uomo preistorico o dell’infante, perché in mezzo c’è “tutto il decorso
storico dello sviluppo umano”. Tuttavia valgono le osservazioni degli
etnologi sul campo, per tutti Širokogorov:
I Tungusi sono impegnati, nella loro attività quotidiana, con numerosissime situazioni
psichiche superficialmente considerate dagli osservatori come patologiche o come follia
vera e propria, e che in realtà non lo sono. Un gran numero di questi casi non
rappresenta altro che un diverso fenomeno etnografico, sconosciuto nell’ambito del
gruppo etnico di cui l’osservatore fa parte [S. M. Širokogorov, The Psychomental
Complex of the Tungus, 1935].
39
Il malato moderno non riesce a reinventare tutto il mondo culturale
necessario per vincere il rischio. Di qui, il tragico della sua inanità.
40
magia, La terra del rimorso]. Il vichismo “radicale” di de Martino. La
risposta di Croce :
[…] noterò un unico punto nel quale dissento da lui, che è quello in cui si afferma che le
categorie speculative che ora reggono l’interpretazione storica sono correlative all’età
della “mente tutta spiegata” o della civiltà o della “civiltà occidentale”, ma non si
applicano alle età primitive; venendosi così a negare la perpetuità delle categorie con lo
storicizzarle, laddove storicizzare non si può se non in virtù di quell’aristotelico “motore
immoto” che sono le categorie. C’è qui una svista o scambio delle “categorie” coi
“fatti” storici, che esse generano e cangiano e svolgono informandoli tutti di sé e
rendendoli solo mercè di esse intelligibili; né altrimenti che per la loro perpetuità o
costanza il de Martino ha potuto schiarire il fatto storico del magismo [Benedetto Croce,
recensione a Il mondo magico, in “Quaderni della Critica”, 1948].
41
sarebbero stati ancora poca cosa se non fosse sorto l’eroe della presenza, il Cristo
magico, cioè lo stregone. Attraverso lo stregone il rischio della labilità viene
deliberatamente riassorbito nella demiurgica umana, diventa un momento del dramma
culturale. E attraverso lo stregone tutta la comunità si apre con rinnovata intensità al
dramma del rischio e del riscatto [Ernesto de Martino, Il mondo magico, pp. 195-196].
Dopo aver rivendicato allo studio del magismo una sua posizione per entro
l’orizzonte dello storicismo vichiano-crociano (tendenza del vichismo di de
Martino, rispetto alla sistemazione crociana), e aver riscattato questa
regione del sapere dal predominio delle filosofie positivistiche e della
psicologia, de Martino procede a una ricognizione del ruolo del magismo
nella disciplina etnologica, in un rapporto dialettico tra le acquisizioni della
disciplina etnologica e le fondazioni concettuali dello storicismo: “Non sarà
mai tenuta abbastanza presente l’importante avvertenza metodologica che
l’arcaico … si dichiara alla ragione storica non soltanto mercé un continuo
rapporto con le sue forme storiche … ma altresì mercé un continuo
rapporto con noi stessi, con l’orientamento del nostro sapere”. Questo
compito, per lo storiografo, assume un rilievo superiore al lavoro sul
campo e alla analisi dei documenti: “il problema decisivo per lo storiografo
non è tanto il leggere o il vedere o l’udire, quanto piuttosto il saper leggere,
il saper vedere, il saper udire”. L’approccio attraverso la scienza
etnologica permette di cogliere la reazione della nostra Einstellung di
fronte allo scandalo dei poteri magici. Un “esperimento mentale”.
“La storia dell’atteggiamento della etnologia di fronte al problema dei
poteri magici si risolve in gran parte nella storia dei rapporti tra etnologia e
psicologia paranormale”, storia che ha inizio con l’opera di Edward Burnett
Tylor, Primitive Culture. Researches into the Development of Mythology,
Philosophy, Religion, Language, Art and Custom [1871]. Rapporto con lo
spiritismo, su cui, nello stesso 1871, erano uscite le Experimental
Investigations on the Psychic Forces di Crookes. Tylor muove da una
dichiarazione di intenti metodologici: distinguere il dominio della scienza
da quello della fede, e in tale direzione, giungere “a separare … i fatti mal
conosciuti e spiegabili scientificamente da ciò che è pura illusione,
superstizione e soperchieria”. Ma questo proposito non venne mantenuto
fino in fondo, giacché Tylor trascorreva a considerare “subiettiva” e
“superstiziosa” l’ideologia magica e animistica dei selvaggi, alla quale
apparentava la ideologia spiritistica dei moderni. Lungo questa prospettiva
(ci appare sconcertante ciò che, pur avendo una spiegazione scientifica, non
la vede proposta per l’inadeguatezza delle nostre attuali conoscenze, quindi
in futuro diventerà tranquillo oggetto di scienza), Tylor riduceva i
procedimenti magici a fenomeni che si basavano su “associazioni subiettive
42
di idee scambiate per relazioni obiettive”. Il fondatore della disciplina
antropologica è uomo di parte, che intende denunciare la genesi delle idee
superstiziose e liberare l’umanità dal loro dominio oscurantista: in tal senso
procede a svalutare il magismo-spiritismo moderno riconoscendone la culla
barbarica e selvaggia: “una reviviscenza di forme ideologiche appartenenti
per la maggior parte alla filosofia delle età primitive e alle tradizioni
folcloristiche”.
Il Tylor, come gli altri antropologi, quali l’Huxley e lo Spencer, e i loro seguaci e
volgarizzatori, costruiscono, su fondamenti etnologici, una teoria sulla origine della
religione. Tale origine è spiegata dall’etnologia come risultato di primitivi e fallaci
ragionamenti su un certo numero di fatti biologici e psicologici, sia normali, sia (per
quel che affermano i primitivi) supernormali. Questi ragionamenti condussero alla
creenza nelle anime e negli spiriti. Ora […] se i fenomeni supernormali
(chiaroveggenza, telepatia, fantasmi di morti e di moribondi, ecc.) sono effettiva materia
di esperienza, le illazioni che da tale esperienza trae la filosofia primitiva possono essere
in certa misura erronee. Ma le illazioni tratte dai materialisti che respingono i fenomeni
supernormali saranno alla loro volta – ci sia contentito il dirlo – forse incomplete
[Andrew Lang, The Making of Religion, 1900].
43
“la considerazione naturalistica dei fatti paranormali … rischia di trasferire
nei ‘primitivi’ il nostro atteggiamento di ‘osservatori’ … dimenticando …
che le condizioni culturali che rendono possibile il loro prodursi sono
storicamente estranee all’atteggiamento naturalistico”. Atteggiamento della
scienza, l’attacco di Clodd [1895] contro la “Society for Psychical
Research”:
Analizzata alla luce meridiana dell’etnologia [la psicologia paranormale], appare essere
soltanto il reduplicato della filosofia spiritistica barbarica […] Essa traveste l’antico
animiamo sotto certe vaghe e altisonanti frasi, come la “coscienza subliminale”, la
“energia telepatica”, la “immortalità del principio psichico”, la “temporanea
materializzazione dei supposti spiriti” e simili [Clodd, in “Folk-Lore”, 1895].
raccolto con zelo esemplare un materiale illimitato, ed ha fornito con mirabile sagacia
classificazioni della magia: tuttavia difficilmente si troverà uno studioso che abbia
diretto la sua attenzione su quel che effettivamente è vissuto e sperimentato nel corso di
queste azioni magiche. Eppure è proprio questo il problema più importante e
fondamentale, poiché è il problema della interna realtà di tutto questo complesso di
azioni straordinarie. Troppo leggermente sono state considerate come illusorie le forme
44
magiche e le credenze che ne costituiscono il fondamento, e pertanto non è stato posto
in generale il problema della verità: neppure una volta almeno ci si è posto seriamente il
problema della realtà delle affermate esperienze. Ora è d’uopo che questa situazione
muti se la ricerca storico-religiosa ha da considerare non solo le forme, ma anche la
fluente vita della evoluzione religiosa [J. W. Hauer, Die Religionen, ihr Werden, ihr
Sinn, ihre Wahrheit, 1923].
Ci siamo spinti fino alle dimensioni della storia e della filosofia delle
religioni, muovendo dalle sistemazioni positivistiche . Ora si tratta di
esaminare l’atteggiamento di alcuni filosofi moderni e contemporanei
rispetto alla questione della magia. Si intende dire di Georg Wilhelm
Friedrich Hegel e di Ernst Cassirer: in polemica con la sensibilità
romantica, che coltiva le dimensioni oniriche e estatiche, che conducono
alle “verità superiori” e alla “elevazione dello spirito”; a queste posizioni
Hegel replicava:
Con questa sfera della mediazione, si apre nella magias l’immensa porta della
superstizione. Tutto diviene possibile, tutte le particolarità dell’esistenza divengono
significative; poiché ogni circostanza ha delle conseguenze e degli scopi; ognuna media
ed è mediata. Tutto domina ed è dominato [Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni
sulla filosofia della religione, 1832].
45
desiderio, l’uomo si afferma, contrapponendosi alle cose e se ne dichiara
indipendente. Nel tentativo di dominare le cose e piegarle a sé, l’Io si rivela
dominato e posseduto dalle cose e la facoltà dell’Io vengono proiettate
all’esterno (alienazione, Entäusserung): le parole e il linguaggio si
configurano come essenze demoniache. Quando l’uomo va ad agire sulle
cose con strumenti e non con parole, incontra una crisi: l’uso degli
strumenti fa sì che l’agire sia subordinato a condizioni oggettive e quindi il
mondo esterno acquista un’esistenza determinata (Gegenstand, dato). Gli
oggetti si contrappongono al desiderio.
46
fossero emersi studi che sottolineavano questa nuova dimensione: si
intende dire di Nina Rodrigues, Os Africanos no Brasil [1906] e di Donald
Pierson, Negroes in Brazil [1942].
47
spiritismo non vi sono misteri, solo una fede razionale che si fonda sui
fatti, tende alla illuminazione e si muove verso la chiarezza”. In Brasile,
tuttavia, il kardecismo doveva assumere curvature più nettamente mistiche,
mentre assumevano rilevanza gli aspetti ritualistici, che Kardec aveva
minimizzato, puntando sulla dimensione dottrinaria della sua religione,
aspetti ritualistici volti ad assicurare la salute spirituale. La carità, un
precetto meramente morale nel kardecismo europeo, doveva diventare una
tendenza umanitaria volta ad assicurare anche l’assistenza materiale ai
bisognosi. Alla fine del XIX secolo il kardecismo si organizzava nella
“Federação Espírita Brasileira”, assai potente. Se il positivismo può essere
indicato come scaturigine della curvatura razionalistica e scientistica del
kardecismo, al cattolicesimo brasiliano va ascritta la responsabilità del
misticismo spiritista. Il cattolicesimo “popolare” si caratterizza per una
ridotta attenzione ai fatti dottrinali ed etici, con una vigorosa sottolineatura
della dimensione del rituale e delle credenze pertinenti al culto e alla
propiziazione dei santi, intesi come entità benevole e miracolose. Il rituale
è rivolto ai santi per piegarli alle richieste dei loro devoti in occasione di
crisi o di difficoltà. Malattia, infelicità e malasorte risultano
dall’atteggiamento dei santi, dispiaciuti del comportamento del fedele. La
tensione escatologica (individuale) del cristianesimo viene invece
subordinata a fini terapeutici, in coerenza con quanto sviluppato dal
kardecismo. (Posizione difficile della chiesa cattolica in Brasile: molti
kardecisti sono cattolici e non vedono contraddizione tra le due fedi). Ma, a
differenza del cattolicesimo “popolare” – in cui malattia, sofferenza e
difficoltà sono ascrivibili a cause remote e spesso sovrannaturali – nel
kardecismo questi stati di sofferenza vengono ascritte alle vite passate
dell’individuo o all’azione di spiriti “sofferenti” o “ignoranti” che vagano
in un limbo prossimo alla terra e che possono ritornare per perturbarne gli
abitanti. Ma il concetto di “evoluzione” introduce nel kardecismo molte
idee aliene al cristianesimo: l’evoluzione si riferisce a uno stato di
progresso morale e intellettuale degli individui, dalla ignoranza
all’illuminazione, raggiunta grazie allo studio della dottrina kardecista: uno
spirito può essere considerato evoluido, oppure essere baixo, sem luz o
ignorante. Le incarnazioni forniscono allo spirito la possibilità di cogliere
opportunità di procedere nel progresso spirituale attraverso lo studio e la
realizzazione di buone opere. In ciò possiamo cogliere aspetti della dottrina
del karma: ogni azione ha le sue inevitabili conseguenze, e una vita degna
conduce alla reincarnazione in una forma umana assai più evoluta, mentre
una vita inutile o immorale rallenta il processo e richiede espiazione. Gli
spiriti che sono passati oltre lo stadio di reincarnazione in vite terrene
proseguono la loro ascesa ritornando sulla terra per possedere i corpi di
48
medium particolarmente dotati e per fornire istruzione morale e salute
spirituale a quanti seguono i rituali kardecisti.
49
internazionale: tra questi si ricorda José Arigó, un funzionario statale di
basso rango che, sotto la guida spirituale di un ipotetico medico tedesco del
XIX secolo, Doktor Fritz, operava agli occhi con coltelli da tavola e
restituiva la vista ai ciechi: centri ex-voto in Congonhas, Minas Gerais. Alla
fine del XIX secolo, la caridade kardecista aveva assunto proporzioni
rilevanti e aveva sviluppato servizi medici e di benessere, non immemori
delle forme di intervento della chiesa cattolica. Inoltre, i kardecisti hanno
assunto le dottrine e le pratiche omeopatiche introdotte in Brasile alla fine
dell’Ottocento, e già negli anni 1840 avevano aperto cliniche per la cura dei
poveri, in nome di “Dio, Cristo e Carità”. Oggi forniscono gratuitamente –
sostenuti da contributi di membri e dall’azione di volontari – cure mediche,
dentali e psichiatriche.
50
milioni di africani, negli ultimi venti anni mezzo milione. Migliaia di
africani all’anno venivano introdotti in Brasile e rappresentavano una
sempre fresca infusione di culture e di pratiche religiose africane. Quindi
una continuità di queste conoscenze tra le componenti del mondo afro-
brasiliano. Le popolazioni africane erano concentrate nelle grandi città
della costa, Rio, Recife, Salvador, Porto Alegre. Questo insediamento
urbano consentiva alle genti africane a) libertà di movimento e b)
disponibilità di tempo rispetto alle condizioni delle piantagioni dell’interno.
La chiesa cattolica contribuì a mantenere vive la tradizioni africane, per
una contraddizione: sebbene ci fosse il desiderio di convertire i nuovi
arrivati, la crescente perdita di influenza e potere della chiesa durante il
XIX secolo (repubblicanesimo e positivismo) ne ridusse le possibilità. Nei
principali centri urbani la chiesa operò attraverso le irmandades
(confraternite) che adempivano a funzioni di aggregazione sociale e di
mutuo soccorso. Poiché le irmandades funzionavano lungo una distinzione
non meramente sociale, ma anche etnica (nações), valsero a mantenere le
distinzioni originarie tra i gruppi etnici di origine africana: l’accesso della
chiesa cattolica al mondo africano significò – da parte di questa – la
imposizione di una vernice cattolica alle pratiche religiose degli schiavi. Le
confraternite rappresentarono quindi un momento di sostegno e di
conservazione dell’organizzazione degli schiavi lungo gruppi che
mantenevano un certo grado di unità etnica. Documenti sull’emergenza di
centri religiosi afro-brasiliani come istituzioni indipendenti risalgono al
periodo dell’indipendenza del Brasile dal Portogallo (1822), e concludono
con il declino delle confraternite cattoliche come forme di aggregazione,
frutto anche – come si è detto – del generale declino del potere della chiesa
cattolica in un ambiente culturalmente ostile (“Ordem e progresso”). Le
grandi città, centri di importazione degli schiavi, conservarono alte densità
di popolazione africana e di ascendenza africana, dove si incontravano
salariati, liberti e fuggiaschi, in una situazione che consentiva libertà di
movimento e anonimato.
51
e lo sviluppo capitalistico. Sviluppo di Rio come capitale della repubblica
dal 1822 e centro della nuova economia brasiliana nel suo movimento
dall’agricoltura del Nordeste e dalle miniere di Minas Gerais alla
produzione di caffè in Rio e São Paulo, con l’introduzione di numerosa
forza lavoro schiava dal Nordeste nelle piantagioni di caffè. Come
anticipazioni della Macumba possiamo segnalare la pratica del Candomblé
dos Cambindas (Cambinda era un importante porto schiavistico nel Congo
e per estensione veniva a indicare una nazione di schiavi bantu), variante
del bahiano Candomblé da Nação): è indicato come un gruppo che
esperimenta la possessione da parte degli spiriti accompagnata da canzoni
che riecheggiano le condizioni di vita quotidiana, con una innovazione di
grande momento rispetto alle forme tradizionali afro-brasiliane di Bahia,
nell’uso della lingua portoghese:
Maria Muçangué
Lava roupa de sinhá
Lava camisa de chitá
Nao é dela, é de iáiá [João do Rio, As religiões no Rio, 1904].
52
africane tra loro e sulla successiva contaminazione di queste con altrettanto
eclettiche tradizioni europee. Né era assente la influenza di tradizioni degli
índios. Queste credenze e pratiche erano penetrate nel tessuto sociale di Rio
de Janeiro, in un intreccio di divisioni di classe, razziali ed etniche. La
stregoneria era divenuta una forma di commercio: laddove il kardecismo si
radicava nelle classi superiori, che nella forma della carità mantenevano
rigorosa la distinzione sociale, in queste forme religiose assistiamo a una
redistribuzione della ricchezza che dalle classe superiori scende ai livelli
più bassi della popolazione, lungo uno scambio che presuppone che i
settori più bassi esigano pagamenti per servizi forniti sulla base di una
condivisa credenza nella stregoneria e nella necessità di proteggersene.
L’Umbanda rappresenta un compromesso tra queste due forme
contraddittorie di potere.
53
secondarie – la letteratura critica – vengono soppiantate dalla tecnica
sociologica dell’intervista (pratica che contraddistingue la attuale
antropologia, volta ad attenuare lo “sguardo esteriore” dell’antropologo
classico).
Non esiste una realtà univoca sotto il termine di umbanda. Come ha scritto
Diana DeGroat Brown, “Umbanda si è sviluppata come une religione
eterodossa attraverso un processo dialettico che ha espresso le
contraddizioni e le competizioni fra i vari gruppi di interesse che vi sono
identificati, ciascuno di questi volto ad assicurare la propria posizione e ad
accrescere la propria influenza su altri gruppi concorrenti”. Queste
contraddizioni hanno generato uno stato di controversia intestina
permanente, che si è rivelato come l’elemento principale del dinamismo
dell’umbanda. Secondo la studiosa ora citata, possiamo distinguere tre
posizioni ideologiche all’interno del mondo umbanda: a) l’umbanda pura,
un’umbanda deafricanizzata; b) l’umbanda africanizzata; c) le
interpretazioni nazionalistiche dell’umbanda.
54
dell’umbanda rivelava la composizione razziale: su 17 persone, 15 erano
bianchi, due mulatti. Non c’era nessun negro. Comunque, se la distanza
critica nei confronti del kardecismo era forte, non altrettanto nei confronti
della macumba, di cui veniva riconosciuta la valenza terapeutica e la
capacità di affrontare una più vasta gamma di malattie e disgrazie, forte
dell’appoggio di spiriti e divinità africane e caboclo. Un altro elemento di
attrazione era la dimensione drammatica del rito macumba, rispetto a
quello compassato del kardecismo. Ma alcuni aspetti della macumba erano
difficilmente assimilabili da parte degli ex kardecisti: ripugnavano dal
sacrificio di animali, dalla rozzezza di un ambiente che prevedeva bevute e
comportamenti rozzi; inoltre, la collocazione dei terreiros macumba nelle
periferie urbane delle favelas significava entrare nel territorio di classi
sociali considerate pericolose. Infine, la clandestinità, per evitare la
riprovazione dei ceti sociali di appartenenza. La costituzione, a partire da
elementi kardecisti, della nuova religione, stava finalmente a indicare il
fallimento, e la coscienza di questo, delle classi medie brasiliane nel
conrtrollare il mondo sociale del nuovo stato e di far fronte a masse vitali,
per quanto immiserite. La confluenza nell’umbanda di tradizioni cattoliche
(iberiche), africane e índias rappresentava la costituzione di una identità
nazionale brasiliana entro la quale l’umbanda si voleva come nuove a
autoctona religione brasiliana.
Sebbene siano presi per semplici caboclos e pretos velhos, e sebbene per questo siano
scherniti e disprezzati da alcuni […] kardecisti, questi [spiriti] mostrano un grado di
evoluzione culturale e spirituale superiore a quello della civiltà occidentale, acquisito
con ogni evidenza in incarnazioni precedenti […] Le entità che dirigono l’Umbanda
sono stati in tempi remoti caboclos o pretos velhos […] ma sotto le apparenze di
semplicità e umiltà […] ardono spiriti altamente evoluti impegnati nella nobile missione
di risvegliare in noi [mortali]il desiderio di superare le miserie delle nostre vite
[Primeiro Congresso Brasileiro do Espiritismo de Umbanda, 1942].
55
congresso emergevano comunque due principali linee di tendenza: a) la
deafricanizzazione delle origini dell’umbanda e b) la purificazione e la
“imbiancatura” delle pratiche. Lungo questa prospettiva, si negava una
etimologia bantu allo stesso termine umbanda: se ne cercava un’origine
nelle antichità indoeuropee, fino a fare derivare il termine dal sanscrito, in
una fantasiosa etimologia “aum+bhanda”, cioè “il limite nell’illimitato”;
altri si spingevano a rinvenire una origine adamica al termine stesso.
L’umbanda era visto quindi come “una prosecuzione della condizione
mistica che si rinviene presso gli antichi hindu, egizi, greci, aztechi e inka”
[cfr. gli spiriti superiori dell’ortodossia kardecista]. Da queste origini
nell’antica India, si diceva che la dottrina umbanda si era spostata in
America attraverso il continente scomparsi di Lemuria, situato nell’Oceano
Indiano. Da qui era trascorso in Africa, per subirvi un processo di
embruticimento a contatto con i selvaggi africani, per degenerare nel
feticismo, la forma con cui era approdato in Brasile. Gli esponenti
dell’umbanda deafricanizzata si rifacevano quindi alle “teorie diffusioniste
e evoluzioniste del XIX secolo, sottoposte a una reinterpretazione teosofica
che prospettava antichi cataclismi, continenti perduti, e periodi ciclici di
progresso e degenerazione “. Rispettabilità delle origini nella grande
tradizione mistica orientale; catastrofe della contaminazione africana.
Quindi alcuni esponenti proposero di “purificare l’umbanda dai riti
essenzialmente africani praticati dopo che la prima ondata di schiavi fu
portata in Brasile dai portoghesi” (cfr. ruolo negativo dei portoghesi
nell’immaginario brasiliano bianco). Si veniva così parlando di Umbanda
Pura, Umbanda Limpa, Umbanda Branca. Il suo scopo era la pratica della
kardecista caridade. Ma accanto a termini positivi, i congressisti coniarono
altresì un termine negativo: Quimbanda. In essa si assommavano magia
negra e prática do mal. Quimbanda era il doppio sotterraneo dell’umbanda,
abitata da Exús, entità associate con il diavolo e praticanti di forme
stregoniche fraudolente. Veniva così negata l’origine europea della pratiche
stregoniche che venivano invece attribuite all’Africa, luogo di origine di
religioni feticiste e barbare. Quimbanda quindi incarnava le nozioni di
magia nera, male e immoralità e collegava, nell’immaginario dei fautori
dell’umbanda deafricanizzata, Africa, classi inferiori e male. Era un altro
nome della Macumba. I pretos velhos vennero egualmente deafricanizzati:
schiavi acculturati, addomesticati e inseriti nella cultura brasiliana: l’Africa
esorcizzata era l’Africa preschiavismo, barbarica, laddove si riprendeva la
tematica del “fardello dell’Uomo Bianco”. La “bianchizzazione”
dell’umbanda comunque ha contribuito a far assumere a questa religione
una crescente rispettabilità per entro la società brasiliana e ne ha assicurato
l’accettazione presso ceti colti e superiori.
56
Questa forma di umbanda ebbe un notevole iniziale successo, tanto che al
1947 si attribuisce la creazione della prima radio umbanda. Ma si ebbe
altresì la reazione degli sconfitti, nel corso degli anni 1950, da parte cioè di
esponenti dei settori inferiori, legati alla cultura e alle origini africane. È il
fenomeno dell’umbanda africanizzata. Nel 1956 Byron Torres de Freitas e
Tancredo da Silva Pinto pubblicavano Fundamentos de Umbanda, dove
possiamo leggere:
Gente che ritiene di essere versata in questioni religiose in realtà non sa nulla della
nostra religione, e altri ancora non si preoccupano di nascondere il loro disprezzo per
essa, perché è stata recata [in Brasile] da schiavi [Byron Torres de Freitas – Tancredo da
Silva Pinto, Fundamentos de Umbanda, 1956].
E ancora:
57
sostanziare le esperienze letterarie del modernismo brasiliano, con le tesi
di Menotti del Picchia:
[…] il Brasile ha bisogno, senza dubbio, di alimentare il culto di tutte le sue fulgide
tradizioni, di tutelare il patriottismo sacrosanto della lingua e di preconizzare una
politica di instancabile difesa del suo spirito nazionale, il quale deve essere l’ideale
costante di tutti i buoni brasiliani […].
Il primitivismo, che in Francia appariva come esotismo, era per noi in Brasile autentico
primitivismo. Fu allora che pensai di fare una poesia di esportazione e non più di
importazione sulla base del nostro habitat geografico, storico e sociale. E siccome il
“pau-brasil” era stato la prima ricchezza brasiliana esportata, chiamai il movimento
“Pau-Brasil”.
58
In questa complessiva riscoperta delle origini si inserisce dunque anche
l’umbanda nazionalista (un nazionalismo negro), di cui è espressione Uma
religião genuinamente brasileira, testo steso nei primi anni 1940:
Figlio di tre razze: il Bianco, il Negro, l’Indio, al Brasiliano era destinata una religione
eclettica, le cui caratteristiche principali sono la carità, l’umiltà e la tolleranza verso
l’immensa ignoranza dell’umanità, e tale da unificare l’esperienza del Bianco, la
tradizione dell’Indiano e la magia del Negro. Chiunque conosca il folklore brasiliano sa
che come il Negro è convinto che le acque, le foreste, le pietraie sono governate da
entità sovrannaturali, anche gli Indiani condividono la stessa credenza […] [Uma
religião genuinamente brasileira, primi anni 1940].
Temi che, in testo del 1944, si venivano coniugando con le espressioni del
nativismo:
Dato il sostrato razziale del nostro popolo, il cui sostrato psichico è formato dal
totemismo degli indigeni, dal feticismo degli Africani e dal medievalismo Iberico,
dobbiamo realizzare che il meticciato religioso ha obbedito alle stesse leggi del
meticciato etnico [O culto de Umbanda em face de lei, 1944].
59
Contemporaneamente, si è sviluppata un’immagine dell’umbanda come
contrapposta alle pratiche nefaste del quimbanda:
Umbanda è giunto come messaggio universale dal cuore del Brasile, un paese ancora
arretrato in preda all’egoismo, all’ambizione, al male e alla falsa fede, come antidoto a
queste pratiche nefande [magia nera, Quimbanda], condotte da uomini degli strati
sociali più bassi. Il male che hanno commesso nei confronti delle basse classi sociali
brasiliane è profondo. Queste vaste, non libere e indifese masse, ignoranti,
spiritualmente cieche e analfabete, prive di ogni difesa religiosa che non fosse quella del
fanatismo – un male identico – si consegnanoe nelle mani di questi criminali religiosi
con i loro inganni, le loro illusioni, le loro vane promesse e dissipano le loro magre
finanze per nulla. Loro sola difesa è Umbanda, l’altro polo del misticismo, che fornisce
un antidoto [João de Freitas, Oxum-Maré, 1965].
60
evoluzione realizzando caridade. Anche spiriti malvagi e ignoranti, la cui
residenza è il mondo sotterraneo possono visitare la terra, dove sono causa
di sventura e di male, che caboclos e pretos velhos debbono contrastare. Il
mondo sotterraneo quindi è il luogo di questi spiriti pericolosi, gli Exús e le
forze del quimbanda.
61
ciascuna guidata da Exús. I medium, categoria di semi-specialisti,
conoscono gli spiriti che essi ricevono nei loro centri.
62
cattolicesimo popolare: non a caso i santi cattolici sono presenti nel
pantheon umbanda, come patroni e insieme come modelli per caboclos e
pretos velhos, che sono loro intermediari. Vi sono sintonie con la pratica
cattolica dei pellegrinaggi, affinità sottolineata dalla presenza degli
omologhi dei santi, gli orixás: ma, mentre l’intervento sovrannaturale del
santo è visto come miracoloso, quello dell’orixá mantiene genuinamente
l’aspetto del magico. La curvatura cattolico-popolare si contrappone a
quella kardecista , anche se la plurisecolare tradizione caritativa del
cattolicesimo può essere rinvenuta alla base e dell’umbanda e del
kardecismo. Un ulteriore aspetto è la rigidità delle funzioni e delle
posizioni nel cosmo burocratico umbanda di curvatura kardecista, dove la
benevolenza deriva dall’adempimento scrupoloso del rituale: è la
dimensione utopica dell’umbanda kardecista, il sogno di una società
funzionante sulla base di una rigorosa struttura burocratica [un Brasile di
sogno]. Tale tendenza tuttavia rimane minoritaria nel mondo umbanda, in
quanto è scarsamente accettata anche dai seguaci dell’Umbanda Pura: fa
aggio la visione realistica e pragmatica del mondo brasiliano. Come ha
scritto Diana DeGroat Brown, “le due interpretazioni insieme esprimono la
fondamentale contraddizione della odierna società brasiliana, tra lo sforzo
consapevole di modernizzare e burocratizzare la politica economica”, e la
realtà dove si opera sulle basi del clientelismo, del soggiacente retaggio
patriarcale.
63
Tupinambá, Tapirapé, Guaraní. Altri nomi derivano dall’onomastica della
letteratura nativistica brasiliana del XIX secolo, in particolare dai romanzi
di José de Alencar; così Ubirajara [dal romanzo omonimo del 1874, che
riprende una leggenda tupí], Iracema [ leggenda del Ceará]:
Dracma, la vergine dalle labbra di miele, che aveva i capelli più neri delle ali della
“graúna” e più lunghi della sua profilata figura di palma.
Il favo della jati non era dolce come il suo sorriso, né la vaniglia olezzava nel bosco
come il suo alito profumato.
Più rapida dell’ema selvaggia, la vergine bruna percorreva il sertão e le foreste dell’Ipu,
dove stava accampata la sua tribù guerriera, della grande nazione tabajara. Il piede esile
e nudo, sfiorandolo appena, premeva lievemente il verde velluto che rivestiva la terra
con le prime acque [José de Alencar, Iracema, 1865].
Un altro autore nativista del XIX secolo, Gonçalves Días, vede i suoi versi
utilizzati nei pontos. Un altro ponto coniuga al leggendario indigeno la
biblica storia di Mosè:
64
sia di caboclos che di pretos velhos. Il processo di civilizzazione è ben
descritto in un’intervista rilasciata a Freitas:
Preto Velho […] non può veder piangere senza piangere anche lui e quasi sempre aiuta
il bisognoso senza essere interpellato. È pieno di pietà, pensando alle difficoltà che i
cattivi sentimenti procurano a chi li coltiva [João de Freitas, Umbanda, 1939].
Eu é preto feitiçeiro
Eu chego pra trabaiá
Eu é filho de Angola
O meu pai é da Guiné
Minha Mãe é de Carangola
Eu me chamo Pai José [ 600 pontos riscados e cantados na Umbanda e Candomblé,
1969].
65
Durante il periodo romantico, l’índio divenne simbolo della nazione eroica
e indipendente: gli índios rappresentati nell’umbanda non risultano da un
lungo contatto con le popolazioni autoctone, bensì sono concrezioni di
recente formazione, dell’indianismo popolare. Altri modelli letterari sono
andati a costituire lo stereotipo del preto velho. Tra tutti, ricordiamo
Joaquim Maria Machado de Assis, che in più luoghi doveva esprimere il
rifiuto dell’indigenismo:
[…] la poesia indigena, barbara, la poesia del boré e del tup non è la poesia nazionale.
Che abbiamo noi da spartire con quella razza, con quei primitivi abitanti del paese se i
loro costumi non sono il volto caratteristico della nostra società? [Joaquim Maria
Machado de Assis, O passado, o presente e o futuro da literatura, 1858].
È certo che la civiltà brasiliana non è legata all’elemento indio e che da esso non ha
ricevuto alcun influsso; e questo basta perché non si vada a cercare fra le tribù vinte i
titoli della nostra personalità letteraria. Ma se questo è vero, non è meno certo che tutto
è materia di poesia, una volta che possegga le condizioni del bello e gli elementi di cui
esso si compone[…] [Joaquim Maria Machado de Assis, Instinto de nacionalidade,
1878].
66
offrire, dietro compenso, cure e altri servizi. È l’inizio dell’Arraial dos
Pretos Velhos: dopo la loro morte, i loro spiriti, identificati con i loro nomi
da schiavi, cominciarono ad apparire in vari centri religiosi afrobrasiliani in
Rio e a proseguire le loro opere. Un’altra interpretazione sottolinea la
capacità dei pretos velhos di sopportare e trascendere le proprie sofferenze:
è il riferimento all’umbanda come possibilità di superare il male e i
problemi del vivere. In conclusione: se i pretos velhos simboleggiano la
trascendenza di varie forme di sofferenza – schiavitù, oppressione e
malattia – i caboclos rappresentano l’altra faccia del Brasile non europeo:
l’indipendenza di quelli che non hanno mai sperimentato la schiavitù, o il
giogo della colonizzazione straniera, con la sequela di malattie,
oppressione. Due figure complementari: a) l’immagine utopistica di
gioventù, vigore, salute, indipendenza, orgoglio; b) l’immagine realistica di
un mondo di oppressione e sofferenza.
67
I caboclos rivelano talune affinità con gli Orixás: i loro poteri promanano
dalle forze della natura – si può vedere nel rapporto con le divinità africane
come uno slittamento dal mondo dell’Africa a una realtà squisitamente
indigena. Lo stesso può riscontrarsi per quanto riguarda i santi cattolici,
anch’essi percepiti come stranieri. Per quanto attiene i pretos velhos, la
distanza dagli Orixás è interna alla parabola storica dei negri africani: le
divinità rappresentano gli africani prima del loro arrivo in Brasile, laddove
i pretos velhos ne sono la sequela addomesticata, deafricanizzata,
schiavizzata: un processo di civilizzazione / brasilianizzazione. La
marginalizzazione degli Exús sta a indicare la marginalizzazione del male e
dell’amoralità: Exú nel pantheon africano è una divinità messaggera, un dio
briccone, ma a contatto con la presenza del cattolicesimo ha assunto le
connotazioni del diavolo, acquisendo anche una controparte femminile,
collettiva, Pomba Gira (il nome deriverebbe dalla divinità congolese
Bombonjira). Nella statuaria umbanda, Exú viene raffigurato di color rosso,
dotato di corna e di tridente. L’equivalente femminile, pure rosso, ha vesti e
atteggiamenti sessualmente tentatori. Di qui l’assimilazione a Satana e
Lucifero, e a Jezebel. Nei riti umbanda, gli Exús, dopo esser stati placati,
vengono esortati a disertare le cerimonie, anche se rimane sempre
l’eventualità di non richiesti né graditi interventi. Smascherati comunque
come spiriti che provocano sofferenza e turbamento nei fedeli, vengono
esorcizzati. Sono tuttavia destinatari di omaggi rituali, resi loro nei
crocevia: queste offerte (despachos) consistono in sigarette [cfr. ritualità
aymara dei morti], cachaça, e sacrifici di polli neri. La prevalenza di Exús
nei riti tende a trasformare un rito dell’umbanda pura in rito quimbanda.
68
versione dei terreiros. Negli anni 1980, in Rio de Janeiro si annoveravano
almeno 20.000 centros umbanda. Gli spiriti discendono sulla terra, si
impossessano dei corpi dei medium e forniscono consigli spirituali ai
membri della congregazione. I riti hanno luogo generalmente la sera due o
tre volte per settimana, dalle 8.30 di sera fino alla mezzanotte, in edifici
predisposti, in luoghi affittati o in case private. Il centro è un edificio a un
piano, costruito appositamente e situato in un quartiere periferico:
esternamente non si distingue dalle case vicine, e solo un’insegna (ponto
riscado) sul muro esterno ne identifica la funzione. La stanza dove si
realizzano le cerimonie è rettangolare, imbiancata, con dipinti di spiriti
caboclo e preto velho. L’area rituale comprende un piano ligneo per le
danze e un altare che ostenta statue dei principali spiriti umbanda, caboclos
(índios guerrieri), pretos velhos (negri anziani con vesti dimesse), Orixás
(santi cattolici). L’altare è adornato da bicchieri d’acqua e da fiori. Verso le
8.00 i membri del corpo rituale cominciano ad arrivare, recando sacche con
i propri abiti rituali. Si ritirano per indossare le vesti rituali di color bianco.
Arrivano i membri della congregazione che si genuflettono davanti
all’altare e poi prendono posto nei sedili lignei che fronteggiano l’area
rituale e l’altare, le donne a destra, gli uomini a sinistra. Chi vuole, ritira
una ficha, che gli consentirà di interpellare lo spirito di sua scelta. Il rito si
apre con la defumação, un incensiere acceso per la purificazione. Gli
iniziati, cantano un ponto de defumação, segue un ponto di apertura del
servizio: “Abrimos a nossa gira, com Deus e a Nossa Senhora”. Il canto
prosegue con grazie al pantheon: vengono lette una preghiera cattolica e un
breve testo di Kardec. Ora i membri del corpo rituale si alzano e insieme ai
membri della congregazione intonano un ponto che invita la presenza degli
spiriti caboclo (“vem trabalhar”). I pontos sono accompagnati dal battito
delle mani e i membri del corpo rituale iniziano a muoversi attorno all’area
rituale in un lento circolo, in una versione modificata dei passi del samba.
Mentre danzano, gli spiriti cominciano ad apparire, ciascuno si impossessa
di un medium particolare, solito essere posseduto da quello spirito. I
medium, una volta posseduti, cessano di danzare e assumono, nel
linguaggio facciale e corporeo caratteristiche dello spirito che hanno
ricevuto. Gli spiriti avviano una serie di ringraziamenti rituali, abbracciano
gli altri spiriti e lasciano l’area rituale per incontrare personalità di rango
della congregazione. Per poi rientrare nell’area rituale dove rimangono in
piedi, fumano il sigaro e lanciano grida che segnano la presenza degli
spiriti caboclo. Il capo del centro riceve Pai João, uno spirito preto velho,
che si muove con difficoltà e si appoggia a un bastone di legno. Canto e
batter di mani si interrompono. L’area rituale è il luogo di un incessante
movimento: è il momento delle consultas, quando i membri della
69
congregazione possono interpellare gli spiriti sui propri problemi. I servi
del rito forniscono agli spiriti sigari sempre nuovi (l’aria si addensa) e
ricopiano le ricette di infusi per le preparazioni rituali raccomandati ai
clienti affinché risolvano i propri problemi. Hanno anche la funzione di
interpretare i responsi degli spiriti, bene spesso espressi in linguaggio
codificato di difficile comprensione e inoltre aiutano quei clienti che
vengono posseduti durante la cerimonia. Possessioni che si realizzano
spontaneamente: a differenza della possessione controllata di medium
esperti, la possessione del cliente è spesso violenta e i clienti devono esser
protetti da se stessi. Il momento drammatico è quando occorre tirar lo
spirito malvagio che perseguita il cliente: quattro o cinque iniziati
circondano il cliente, gli impongono le mani e uno alla volta divengono
posseduti, prorompendo in risate, oscenità o pose di invito sessuale
caratteristiche di Exú. Oppure cadono rigidi al suolo privi di sensi: hanno
assorbito le forze pericolose per entro i propri corpi. Le consultas
proseguono ad esaurimento delle fichas. Verso la mezzanotte i banchi della
congregazione risultano semivuoti (dopo aver ottenuto il responso, i clienti
si allontanano). Alla fine, rimane solo Pai João: una volta terminato il ciclo
delle consultas, anch’egli si allontana. Il capo riemerge e intona una serie
di pontos, con cui si chiude il servizio.
70
3. Il ritorno di Calibano: immagini del cannibale nella cultura del
Moderno.
[…] l’omicidio intergruppo organizzato [può] non aver fatto parte delle culture dei
nostri antenati dell’età della pietra. Così pare. Eppure la maggior parte delle prove
dimostrano il contrario [Marvin Harris, Cannibali e re, p. 43].
71
un altro gruppo. Ma nelle società primitive, prestatuali, l’espansione
politica non può spiegare la guerra perché la logica secondo cui queste
comunità si muovono non è quella dello stato occidentale. La non
espansione come condizione per preservare un equilibrio favorevole tra
popolazione e risorse. Dispersione della popolazione in più ampi territori:
la creazione di “terre di nessuno”, che si pongono come riserva di cibo.
Occorre non espandersi: le morti di maschi combattenti – come il
gerontocidio – allentano la pressione temporaneamente, ma poiché siamo in
presenza di società poliginiche, i maschi sopravvissuti continuano ad
accoppiarsi con l’immutato pool di donne feconde. Joseph Birdsell: la
fertilità di un gruppo è determinata dal numero delle sue donne adulte,
piuttosto che da quello dei suoi maschi adulti. “Il numero di donne
determina … il tasso di fertilità”. Nelle società statuali, la guerra può
disperdere popolazioni, ma raramente ne riduce il tasso di crescita. Crescita
demografica europea, nonostante le guerre che – negli ultimi tre secoli –
hanno imperversato con cadenza decennale, anzi hanno favorito una rapida
crescita-ripresa demografica. Nelle società prestatuali la guerra contribuiva
a frenare la crescita demografica con l’infanticidio delle femmine:
incoraggiava l’allevamento di figli maschi, e svalutava la presenza delle
femmine, che non sono combattenti (salvo rare eccezioni: fenomeno
dell’amazzonismo). Senza la pressione demografica né la guerra né
l’infanticidio delle femmine si sarebbero diffusi. È un trionfo della cultura
sulla natura, giacché la guerra fornisce la giustificazione dell’infanticidio.
Preparazione al combattimento: la caccia, la lotta, la corsa, il duello, da cui
sono escluse le donne. Prove fisiche di preparazione-iniziazione:
mutilazioni rituali, lotte con mostri soprannaturali frutto di allucinazioni da
droghe. Le prove che vengono somministrate alle ragazze vertono
soprattutto sulla noia. Il silenzio dei maschi e il chiacchiericcio delle donne
(caccia e controllo del territorio).
Gli yanomamö che vivono nel bacino dell’Orinoco e del Rio Negro:
Napoleon Chagnon li definì un popolo crudele, dove il 33% dei decessi
maschili va fatto risalire a ferite di guerra:
Tra un villaggio e l’altro vi sono vaste estensioni di territorio, in gran parte coltivabili e
ricche di selvaggina […] Tra tutti i vari fattori che si possono menzionare quali cause
della “guerra” fra i villaggi, la competizione per le risorse non è uno dei più
convincenti. I tipi di guerra, generalmente intensiva, rilevati fra le culture aborigene
delle foreste tropicali non presentano valide correlazioni con carenze di risorse o rivalità
territoriali o per aree di caccia […] Le recenti teorie etnologiche sono sempre più
orientate verso l’idea che la guerra […] sia sempree spiegabile in termini di densità
della popolazione, scarsità di risorse strategiche quali il territorio o le “proteine” o una
combinazione di entrambi i fattori. Gli Yanomamö costituiscono un caso significativo,
72
proprio in quanto la guerra non può essere spiegata in questo modo [Napoleon
Chagnon, Yanomamö Social Organization and Warfare, in War: The Anthropology of
Armed Conflict and Aggression, a cura di Morton Fried – Marvin Harris – R. Murphy,
1968].
Gli insediamenti indigeni sorgevano tradizionalmente lontano dai fiumi navigabili e per
scoprirli occorrevano molti giorni di cammino attraverso fitte foreste inesplorate […]
Solo di recente, seguendo la loro considerevole espansione in zone non popolate –
espansione dovuta tanto alle scissioni, alla guerra e alle contese – alcuni gruppi si sono
stabiliti, intorno al 1950, lungo il fiume Orinoco e i suoi affluenti [Jacques Lizot,
Aspects économiques et sociaux du changement culturel chez les Yanomanis, in
“L’Homme”, 1971].
73
africana alla manioca autoctona), nutrendo un maggior numero di bambini.
A indicare la novità di questa nuova coltivazione, è il fatto che è
appannaggio dei maschi, mentre le donne hanno compiti di trasporto dei
carichi. Come osservava William Smole [1976], ciò distingue gli
yanomano da altre popolazioni indigene sudamericane, dove la coltivazione
delle piante è “esclusivo appannaggio delle donne”. Ciclo: nuova
tecnologia > intensificazione delle sfruttamento delle risorse > crescita
della popolazione > esaurimento delle risorse > rinnovata pressione
demografica > declino della razione di proteine pro capite. Nelle
condizioni della foresta tropicale, come ha rilevato Smole, “possono
trascorrere anche intere giornate durante le quali nessun uomo di uno
shabono va a caccia e di carne se ne vede poca o niente”. Necessità quindi
di percorrere sempre più lunghe distanze. Il rientro a mani vuote ingenera
insubordinazione delle mogli e dei fratelli più giovani: adulterio e
stregoneria aumentano, si consolidano le fazioni. “… la guerra fra bande e
tra villaggi è parte di un sistema per disperdere le popolazioni e per ridurre
il loro tasso di crescita demografica”.
Gli istituti della supremazia maschile sono il portato della guerra, del
monopolio maschile delle armi e dell’uso del sesso quale stimolo di
personalità maschili aggressive (lo stupro delle donne di altri gruppi come
corollario dello scontro bellico). La critica femminista: negare che la
supremazia maschile sia esistita in bande e villaggi; si è quindi presentata
la teoria di un’età dell’oro matriarcale. [Bachofen]. Le istituzioni
sessualmente asimmetriche sono un derivato della guerra e del monopolio
maschile delle armi. La guerra richiede l’organizzazione di comunità
attorno a un nucleo residente di padri, fratelli e dei loro figli; a) controllo
delle risorse da parte di gruppi di interessi paterni-fraterni e allo scambio di
sorelle e figlie fra tali gruppi (patrilinearità, patrilocalità e “prezzo della
sposa”); b) spartizione delle donne come ricompensa per l’aggressività
maschile e quindi poligamia; c) assegnazione del lavoro faticoso alle donne
e loro rituale subordinazione e svalutazione, che comportano la
considerazione della impurità della donna durante il periodo mestruale
[Cabeza de Vaca], le minacce a donne e bambini con raganelle, maschere e
altri strumenti la cui natura viene tenuta segreta alle donne. Tutto ciò in
circoli maschili da cui le donne sono rigorosamente escluse, per preservarsi
dal loro contagio. Ma militarismo anche in alcune società patrilineari, come
per gli irochesi (guerre incessanti, abitudine a sopportare il dolore,
trattamento spietato dei prigionieri di guerra, cannibalismo); ma gli irochesi
erano dotati di una cultura patrilineare, matrilocale, non conoscevano il
“prezzo della sposa”, erano monogami, né isolavano e spaventavano le
74
donne con complessi rituali religiosi. Diversità della guerra praticata da
comunità patrilineari e comunità patrilineari: le comunità patrilineare
praticano “guerre esterne”, scorribande nei territori di nemici distanti e
diversi, etnologicamente e linguisticamente. La “guerra interna”
(yanomamö) è condotta contro gruppi vicini. Matrilocalità: cementa una
cooperazione tra gli uomini per costituire grossi gruppi di combattimento
per nemici distanti. E proprio la distanza implica l’assunzione da parte
delle donne di ruoli maschili: i maschi assenti trasferiscono le
responsabilità alle sorelle rimaste in casa, piuttosto che alle mogli, sensibili
agli interessi di gruppi di interesse paterno. I fratelli inoltre sollecitano
matrimoni nel loro stesso gruppo, per evitare interferenze. I mariti nella
matrilocalità divengono residenti temporanei con privilegi sessuali e
possono venire rimandati al minimo conflitto.
Il re era visto sia come il supremo ricevitore di beni e servizi, che come il supremo
donatore […] I grandi capi, che ricevevano tributi dai loro sudditi, dovevano cedere al
mukama una parte del prodotto delle loro proprietà nella forma di raccolti, bestiame,
75
birra o donne […] Ma tutti hanno l’obbligo di dare qualcosa al re, non solo i capi […] Il
ruolo del mukama in quanto dispensatore, era, di conseguenza, non meno gravoso.
Molti dei suoi appellativi speciali esaltano la sua magnanimità e tradizionalmente era
previsto che egli dispensasse molte cose attraverso feste e doni a singoli individui [John
Beattie, Bunyoro: An African Kingdom, 1960].
Trasformazioni: il mukama usa gran parte delle sue entrate per rafforzare il
proprio potere di coercizione. Mantiene una guardia di palazzo permanente
e premia i suoi fedeli. Investe parte del reddito per le pubbliche relazioni.
Viaggi nel suo territorio. Parallelo con Guglielmo il Conquistatore
nell’Inghilterra del XII secolo: viaggi permanenti, per controllare i propri
capi e usufruire della loro ospitalità. Tre grandi feste all’anno durante le
quali metteva la corona. Svanire del ruolo di grande dispensatore, in
Occidente. Robert Briffault, The Mothers [1960], sostiene che le antiche
società statuali possedevano una struttura matrilineare al momento del
raggiungimento della forma statuale; Flinders Petrie sosteneva che i nomi
(partizioni) dell’Antico Egitto fossero stati clan matrilineari. Strabone
ricorda come a Creta si adoravano divinità femminili (la dea dei serpenti) e
le donne ricevevano un ruolo preminente e si praticava la matrilocalità;
Plutarco sostiene che a Sparta il matrimonio era matrilocale e “le donne
comandavano sugli uomini”. Erodoto scrive dei lici: “hanno un’usanza
singolare che li distingue da tutti gli altri paesi del mondo: ricevono il nome
dalle loro madri, non dai loro padri”. Nella Germania, Tacito afferma che
“i figli di una sorella hanno la stessa posizione tanto riguardo al loro zio
quanto riguardo al loro padre”, laddove “alcuni si sentono addirittura più
legati al primo”.
Così Bernal Diaz del Castillo ritrae l’impresa messicana di Hernán Cortés:
Il giorno appresso ci mettemmo per una strada molto ampia su un argine ched
conduceva a Itzapalapa, e pssavamo di meraviglia in meraviglia vedendo tanti apesi e
città, alcune costruite sull’acqua, altre in terraferma, e quel grande argine che portava al
Messico, così dritto e piano. Vaste città, edifici e templi smisurati sorgevano dall’acqua,
tutti fatti di pietra, come negli incantesimi della storia di Amadigi. I soldati si
domandavano se quello non fosse tutto un sogno [Bernal Diaz del Castillo, La conquista
del Messico, 1517-1521].
76
cima alla piramide più alta di Tenochtitlán, e gli spagnoli scoprono un
panorama di santuari e di templi “tutti di un bianco splendente”; ma la
cima della piramide contiene le “grandi pietre su cui essi ponevano i poveri
indiani da sacrificare”. Le pareti e il tempio di Uitzilopochtli erano
“talmente macchiati e incrostati di sangue da apparire neri”, mentre
aleggiava un “lezzo insopportabile”. Lo stesso nel tempio di Tlaloc, dove
erano coperti di sangue “sia le pareti che l’altare, e vi era un tal lezzo che
non vedevamo l’ora di uscirne”. Le divinità azteche mangiavano le
persone, ne divoravano il cuore e ne bevevano il sangue. La funzione del
clero azteco era quella di procurare cuori e sangue umani freschi, affinché
questi dei implacabili non si incollerissero e mettessero a distruzione il
mondo. Il cibo degli dei erano i prigionieri di guerra, ai quali veniva
strappato e bruciato il cuore, secondo la descrizione lasciataci da Diego
Durán:
I cinque preti entrarono e chiamarono il primo prigioniero della fila […] Ciascun
prigioniero veniva condotto davanti al re, e, dopo averlo costretto a rimanere in piedi
sopra la pietra, che raffigurava il sole, ve lo stendevano di schiena. Uno lo afferrava per
il braccio destro, un altro per il sinistro, uno per il piede sinistro, un altro per quello
destro, mentre il quinto prete lo bloccava con una corda al collo affinché non potesse
muoversi. Il re alzava quindi il coltello e squarciava il suo petto, poi ne estraeva il cuore
e lo innalzava sulla sua mano come offerta al sole. Quando il cuore si era raffreddato, lo
gettava in una buca circolare, raccogliendo un po’ di sangue nella sua mano e
spruzzandolo in direzione del sole [Diego Durán, Historia de las Indias de Nueva
España y Islas de tierra firme, 1579-1581].
Il corpo veniva fatto rotolare giù per i gradini della piramide, per essere
recuperato dal suo catturatore, che lo portava a casa per approntare un
banchetto con i parenti – fatta salva una quota per il re. Ma venivano
sacrificati anche schiavi: giovani e giovanette venivano scelti per
impersonare dei e dee. Nell’anno precedente la loro esecuzione venivano
trattati con grande riguardo e dolcezza. Ecco il sacrificio di una fanciulla
che impersona la dea Uixtochuatl:
Dopo che ebbero uccisi i prigionieri, solo [allora] venne il turno di Uixtochuatl; ella
venne solo alla fine. Quando finirono con tutti gli altri rimaneva solo lei. La distesero
sorpa la pietra votiva, riversa sulla schiena. La tennero ben ferma tirandola per le
braccia e le gambe; poi sollevarono in alto il suo petto, premendo verso il basso le sue
spalle e tenendo ferma la sua testa sulla terra. E le premettero contro la gola la bocca di
un pesce spada con i suoi denti aguzzi da entrambi i lati. Di fronte a lei stava il suo
giustiziere, che le squarciò il petto. Quando lo aprì sgorgarono fiotti caldi di sangue che
zampillarono lontano. Poi egli sollevò il suo cuore come un’offerta e lo pose nella giara
verde di pietra. Poi squillarono alte le trombe. E quando tutto ebbe fine, deposero il
77
corpo e il cuore di Uixtochuatl, coprendolo con un manto prezioso [cit. in Marvin
Harris, Cannibali e re, p. 113].
[…] vi erano pile di teschi umani allineati in modo talmente ordinato che li si poteva
contare. Secondo i miei calcoli ve n’erano più di centomila. Sì, proprio come ho detto,
più di centomila [Diego Durán, Historia de las Indias de Nueva España y Islas de
tierra firme, 1579-1581].
Dopo aver strappato i loro cuori e versato il sangue in un vaso di zucca che veniva
offerto all’officiante, il corpo delle vittime veniva fatto ruzzolare giù per i gradini della
piramide e andava a finire in una piazzola antistante. Alcuni vecchi lo sollevavano e lo
trasportavano nel loro tempio tribale, dove veniva smembrato e diviso per essere
mangiato [Bernardino de Sahagún, Historia general de las cosas de Nueva España,
1547-1562].
Una volta strappato, il cuore veniva offerto al sole e il sangue sprizzava verso la divinità
solare. Imitando la discesa del sole verso occidente, il corpo veniva gettato giù dai
78
gradini della piramide. Dopo il sacrificio, i guerrieri celebravano una grande festa con
danze, cerimoniali e pastri cannibalici [Diego Durán, Historia de las Indias de Nueva
España y Islas de tierra firme, 1579-1581].
79
frustra. Mimesi del rapporto amore-odio nei confronti dei padri. La guerra
come sacrificio rituale, per far felici gli antenati o gli dei della guerra.
80
“A Settentrione, oltre il deserto che si stende dopo le terre degli Sciti,
abitano gli Androfagi. Presso di essi si praticano le usanze più selvagge del
mondo, ed è popolo senza giustizia e senza legge alcuna. Sono nomadi,
vestono in modo simile agli Sciti, parlano una lingua particolare, e soli
tra questi popoli mangiano carne umana”. Così Erodoto, nelle Storie, IV,
106.
E per tal motivo torno a ripetere quel che già altre volte ho detto, che Canina non è altro
che il popolo del Gran Can, i cui domini debbono trovarsi molto vicini e che egli sarà in
possesso di navi che giungeranno fin qui per catturare questi isolani e siccome i
81
prigionieri non tornano più indietro, ritengono che sono stati divorati [Cristoforo
Colombo, Giornale di bordo, martedì 11 dicembre 1492].
Assim, Senhor, a inocência desta gente é tal, que a de Adão não seria maior [Pero Vaz
de Caminha, Carta a el-rei Dom Manuel sobre o achamento do Brasil, 1 maggio 1500].
Una vita che viene vista e narrata dall’interno qualche decennio dopo nella
Warhaftig Historia di Hans von Staden, il quale mette in risalto la natura
cerimoniale del rito cannibalico:
Non lo fanno per fame, ma per grande odio e gelosia; e quando in guerra si battono in
scaramucce si gridano l’un l’altro con profondo astio: “Debe mara pá, xe remiuram,
begué” (Capiti ogni disgrazia a te che sei il mio cibo). “Nde akanga juká aipotá kuri ne”
(Voglio oggi stesso fracassarti la testa). “Xe anama pepita re xe aju” (Sono qui per
vendicare su di te la morte dei miei amici). “Nde roó, xe makaen será, kuarasy ar eyma
riré” (Oggi stesso, prima del tramonto del sole, la tua carne sarà il mio arrosto). E così
via. Tutto questo essi fanno per grande inimicizia [Hans von Staden, La mia prigionia
tra i cannibali, 1553-1555, 1557].
Colui che colpiva la vittima, al quale era vietato di toccarne la carne, si
rifugiava nella capanna e quel giorno osservava un digiuno completo.
Comportamento penitenziale, fatto per scongiurare la vendetta dell’ucciso,
ma anche per indicare la nascita di una nuova vita. Gli stessi temi
ritroviamo nel testo di Pero de Magalhães Gandavo
82
Se il prigioniero è uomo coraggioso, e non si perde d’animo in tale frangente, come
fanno alcuni, risponde con orgoglio e fierezza: “Avete ragione di uccidermi; perché io
ho trattato alla stessa stregua i vostri parenti e amici e, se essi sono vendicati dalla mia
morte, ricordatevi che i miei parenti e amici mi vendicheranno alla loro volta, e
tratteranno voi e i vostri discendenti alla stessa maniera”. Quando ha detto tutto ciò e
altre cose simili, l’esecutore gli si avvicina, tenendo levata la spada con le due mani e fa
più volte finta di colpirlo. La miserabile vittima, vedendo la spada tra le mani del suo
mortale nemico, fissa gli occhi su quest’arma spaventevole e si difende meglio che può.
Capita a volte che essi combattano a corpo a corpo e che ferisce l’esecutore conla sua
stessa spada. Ma ciò è raro, poiché gli astanti si affrettano a toglierglielo dalle mani.
L’esecutore […] gli rompe la testa d’un colpo solo. Immediatamente, una vecchia
Indiana, che si tiene pronta con una zucca in mano, accorre per raccogliere il sangue e il
cervello. Non appena morto, viene fatto a pezzi, e tutti i capi presenti ne prendono uno
per offrirlo alle genti del proprio vilaggio. Fanno cuocere e arrostire tutto, e non resta
nulla che non sia divorato dalle genti del paese […] Fanno affumicare un braccio, una
gamba o qualche altra parte del corpo del prigioniero e li conservano per molti mesi.
Quando vogliono mangiarne, celebrano le stesse feste e rinnovano con le stesse
cerimonie il ricordo della loro vendetta. Una volta che hanno mangiato della carne dei
loro nemici, l’odio diviene eterno; poiché è un’offesa che non perdonano e cercano di
vendicarsi reciprocamente […]. [Pero de Magalhães Gandavo, Storia della Provincia di
Santa Cruz, 1576].
Il topos del duello verbale tra vittima e carnefice ritorna nella Historia de
las Indias di Bartolomé de Las Casas, che riporta documenti di missionari
portoghesi vissuti tra i tupinamba, mettendo in rilievo il fatto che la vittima
rinfaccia al carnefice “che anche lui uccise molti suoi nemici, e che
rimanevano i suoi parenti per vendicare la morte”. Ancora il francese
André Thevet, che fu tra i tupinamba e ne lasciò un resoconto steso nel
1568, ricorda: “Io ho ucciso e mangiato i genitori di colui che mi tiene
prigioniero e i margaiates non lasceranno che la mia morte resti
invendicata”. Stessa curvatura nel racconto di Jean de Léry: “Non sei tu
della gente detta margaias, che è nostra nemica? Non hai tu stesso ucciso e
mangiato i nostri genitori?”. L’inglese Knivet riferisce delle asserzioni di
un tupinamba a un portoghese: “Sono colui che ha ucciso molti della tua
83
nazione e ucciderò anche te”. In Montaigne abbiamo la contaminazione del
mito dell’età dell’oro e la rappresentazione dell’antropofago colta secondo
la letteratura che abbiamo testé visto:
[…] quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrapass[a] non solo tutte le
descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro, e tutte le sue immagini atte a
raffigurare una felice condizione umana, ma anche la concezione e il desiderio
medesimo della filosofia. Essi non poterono immaginare una ingenuità tanto pura e
semplice quale noi vdiamo per esperienza; né poterono credere che la nostra società
potesse mantenersi con così pochi artifici e legsami umani. È un popolo, direi a Platone,
nel quale non esiste nessuna sorta di traffici; nessuna conoscenza delle lettere; nessuna
scienza dei numeri; nessun nome di magistrato, né di gerarchia politica; nessuna usanza
di servitù, di ricchezza o di povertà; nessun contratto; nessuna successione; nessuna
spartizione; nessuna occupazione se non dilettevole; nessun rispetto della parentela oltre
a quello ordinario; nesun vestito; nessuna agricoltura; nessun metallo; nessun uso di
vino o di grano. Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione,
avarizia, invidia, diffamazione, perdono, non si sono mai udite.
[…]
Essi fanno guerra contro i popoli che sono al di là delle loro montagne, più addentro
nella terraferma, e vanno in guerra tutti nudi, senza altre armi che archi o spade di
legno, appuntite da un capo, come le punte dei nostri spiedi. Straordinaria è la loro
tenacia nei combattimenti, che non finiscono altro che con strage e spargimento di
sangue; poiché fughe e panico non sanno che siano. Ognuno riporta come proprio trofeo
la testa del nemico che ha ucciso, e l’appende all’ingresso della propria casa. Per molto
tempo trattano bene i loro prigionieri, e con tutte le comodità che possono immaginare,
poi quello che ne è il capo riunisce in una grande assemblea i suoi conoscenti; attacca
una corda a un braccio del prigioniero e lo tiene per un capo di essa, lontano di qualche
passo per paura di esserne colpito, e dà da tenere alla stessa maniera l’altro braccio al
suo più caro amico: e tutti e due, alla presenza di tutta l’assemblea, l’ammazzano a colpi
di spada. Fatto ciò, lo arrostiscono e lo mangiano tutti insieme, e nei mandano dei pezzi
ai loro amici assenti. Non lo fanno […]per nutrirsene, come facevano anticamente gli
Sciti; ma per esprimere una suprema vendetta.
[…]
Io posseggo una canzone composta da un prigioniero, in cui si trova questo tratto
saliente: che vengano pure arditamente tutti quanti e si radunino per mangiarlo;
mangeranno, così, al tempo stesso, i loro padri e i loro avi, che hanno servito di
alimento e di nutrimento al suo corpo. “Questi muscoli” dice “questa carne e queste
vene sono i vostri, poveri pazzi che siete; non vi rendete conto che dentro vi è ancora la
sostanza delle membra dei vostri antenati: assaporateli bene, vi troverete il sapore della
vostra stessa carne”. Idea questa che non ha niente di barbarico [Michel de Montaigne,
Essais, I, xxxi, “Dei cannibali”].
84
La realtà del cannibalismo nella Francia delle guerre di religione è
multiforme: a) cannibalismo di carestia, frequente nelle campagne provate
dalle cattive annate e vittime delle razzie delle bande armate; b)
cannibalismo di vendetta a contenuto simbolico negli episodi più cruenti
della repressione antiprotestante (“fricassea di orecchie umane”; la Notte di
San Bartolomeo, dove si mangiano “fegati, cuori e altre parti del corpo”
degli ugonotti massacrati, secondo quanto riporta Jean de Léry, Histoire
d’un vouage faict en la terre de Brésil, 1578); c) cannibalismo
consuetudinario, come in certe regioni della Francia; d) cannibalismo
criminale. Due le caratteristiche principali di questi cannibalismi: a)
cannibalismo di costrizione e b) cannibalismo di violenza dalla forte
valenza simbolica. Da quest’ultima forma promanano i “riti di violenza”
che si osservano nel corso delle guerre di religione. Immediatamente, il
cannibalismo è percepito come segno di un disordine dell’ordine
universale, di cui è responsabile l’uomo peccatore: “monde abesty”, “siecle
lamentable”, “age de fer consumé de rouillure”, alcuni temi legati al motivo
del mondo alla rovescia di cui l’atto cannibalico – rottura di un tabu,
analogo a quello dell’incesto (si veda quanto detto degli indiani) – è la
manifestazione estrema. Scandalo insuperabile, l’atto cannibalico è
suscettibile solo di una spiegazione che rinvii al mito: il mito di Tieste che
ritroviamo in Agrippa d’Aubigné, Les Tragiques, I, 543-544: “On dit que le
manger de Thyeste pareil / Fit norcir et fuir et cacher le soleil”; o ancora,
profezie apocalittiche. Il cannibalismo permette di rendersi conto del
disordine dell’epoca in termini di simbolica religiosa: mette in
comunicazione la confusione di quaggiù con una volontà suprema, di cui il
mito riporta la parola velata.
Questa proliferazione dell’immagine è sensibile nel seno del discorso
protestante, suscitato all’origine dal sangue dei martiri e la cui componente
teologica doveva per molti decenni cristallizzarsi nella critica del dogma
della presenza reale e corporale del cristo nell’eucarestia. Si vede costituirsi
una vera e propria ermeneutica cannibale, che denuncia i riti
dell’avversario cattolico come crimini di sangue. L’episodio dell’assedio di
Sancerre (1572-1573) narrato da Jean de Léry: l’atto, una volta consumato
da una madre sul figlio, conclude e spiega la storia delle sventure della
città. La narrazione si interrompe e si procede all’invocazione a Dio:
Mais, ô Dieu eternel! Voicy ancore le comble de toute misere et du jugement de Dieu.
Car comme il proteste en sa Loy qu’il reduira ceux qui n’obeirent à ses Commandemens
en tel estat, que durant le siege il fera que les meres mangeront leurs enfants [Jean de
Léry, Histoire memorabile de la ville de Sancerre, 1574].
85
Orrore incomprensibile sul piano terrestre, il delitto alimentare può essere
illuminato solo da uno sguardo che ascende al cielo: il cannibalismo, in
questa messa a distanza, ninete perde del suo carattere atroce, mostruoso,
ma rientra in uno schema di esplicazione teologica. La cucina papale non si
nutre solo dell’estorsione delle decime o della vendita delle indulgenze, ma
anche di “Chrestiens bouillis, roustis, trainez / Jusques aux cendres”. Roghi
dell’inquisizione, fuochi della cucina. In un testo satirico di Lione 1563, gli
inquisitori promettono di fare bollire, arrostire gli eretici, finché “on sentire
d’une lieue à la ronde / Le puanteur de leur charongne immonde”.
L’immagine del malvagio, consegnata nelle prefoezie di Michea, si applica
ai malvagi di questo mondo. La profezia di Ezechiele che compara i
principi malvagi ai bestie feroci che penetrano nel gregge per succhiare il
sangue degli agnelli durante il sonno. Così, il Cardinale di Lorena è detto
da François Hotman “tigre de France”, nella Epistre envoyée au Tigre de
France del 1561. Un epiteto che ritorna più volte nell’immaginario
protestante:
86
fatto dell’assedio: conseguenza e riflesso analogico”: “C’est en ces sièges
lents, ces sièges sans pitié / Que des seins plus aimants s’envole l’amitié”
[Agrippa d’Aubigné, Les Tragiques, I 499-500]. Il cannibalismo compare
al culmine di una escalation della fame: la fame divorante si impossessa
degli alimenti più inattesi, pergamene, libri. Il richiamo al libro divorato
assume connotazioni apocalittiche: Apc 10, 10: “Presi il libro dalla mano
dell’angelo e lo inghiottii: nella bocca era dolce come il miele, ma dopo
che l’ebbi inghiottito, le mie viscere si riempirono d’amarezza”. Nella
Histoire memorable de la ville de Sancerre, Jean de Léry prepara una
climax alimentare verso la catastrofe cannibalica: asini, cavalli, gatti, cani,
topi poi il sego delle candele, il cuoio di cinture, scarpe, finimenti. Per
finire con l’erba e gli escrementi. Le molteplici variazioni della cucine di
fame tendono a una prossimità sempre crescente in rapporto all’oggetto
ultimo: il cibo-limite, la carne umana. L’imminenza del cannibalismo si
evidenzia nella scelta di animali intimi e prossimi all’uomo, quasi a
significare un assottigliarsi della distanza tra mangiatore e mangiato, per
concludere all’identità mostruosa dell’atto manducatorio, nella mostruosità
di una forma di autofagia (madre-figlio, rovesciamento del mito di Cronos):
87
assimilata a un festino “où sont mangez les morts et vifz”. La putredine
delle ossa divorate dai preti si colloca alla polarità opposta della cottura
cannibale e rappresenta la forma più radicale di antropofagia. Questa stessa
tensione al nutrimento crudo sostanzia la teofagia, secondo l’ottica
protestante: l’ostia fatta carne di Cristo non è consumata dopo cottura,
come testimonia la presenza di “vers” e di “souris”. È appunto di questa
“chair corrompe et pourrie”, che le genti di chiesa “font traffique et fort
grosse marchandise”. Così Jean-Baptiste Trento, Histoire de la Mappe-
Monde papistique, 1566-1567. Due punti fermi dell’immaginario del
cattolico cannibale: 1) mentre il cannibalismo degli ugonotti veniva fatto
risalire alla figura della restrizione autofagica, l’antropofagia cattolica è
una sindrome divorante che ingloba morti e vivi, fino allo stesso creatore.
2) questo cannibalismo sfida ogni dettame alimentare, in quanto preferisce
la carne cruda, e bene spesso putrescente. Un appetito preumano e bestiale.
La teofagia partecipa dell’antropofagia poiché Gesù è detto “Figlio
dell’Uomo”. La polemica ugonotta, aldilà degli scherni culinari e
scatologici, risale alla distinzione calvinista tra il significante “pane e vino”
e il significato “corpo e sangue”. Da una parte la realtà irraggiungibile e
lontana di un corpo nel più alto dei cieli, con una imprendibile presenza
spirituale quaggiù; dall’altro segni commestibili che passano di mano in
mano prima di venire inghiottititi in silenzio. Due le vie della polemica
protestante: a) si finge di ridurre il simbolo eucaristico al solo significante
concreto, il “Dieu rondelet de la messe”. È la prosecuzione della critica
veterotestamentaria delle religioni idolatriche. b) ricorrendo a un’iperbole
del significato, si colpisce la superstizione cattolica e il grano macinato e
cotto diviene realmente carne e sangue sull’altare del prete antropofago.
Siamo al Mappe-Monde papistique, dove questi “bouchers”
“s’ensanglantent le museau” sulle loro “tables toute appareillés”. I due
percorsi sono bene spesso coniugati. Così la Légende de Jean le Blanc,
dove l’accento è posto sulla panificazione del dio, conclude con uno
slittamento sull’altro percorso:
Ne m’appelez plus le blanc;
Appelez moy le vermeil
En cruauté nompareil [Simon Goulart].
88
nelle pratiche dei popoli recentemente scoperti. Così Jean de Léry poteva
fare accostamenti tra i cattolici della colonia franco-brasiliana e i selvaggi,
meno feroci nei loro riti antropofagici. La polemica protestante tende a
proiettare sull’altro, bestializzato, la propria angoscia endocannibalica
determinata dalle condizioni di assedio: l’endocannbalismo si rovescia
nell’antropofagia che comprende tutte le perversioni; i cattolici, che
mangiano “cru et vivant”, non sono nemmeno dei cannibali, ma “affamez
bestes”, secondo uno Chansonnier de 1555.
et mesmes les François, qui ont frequenté icelles regions, n’ont jamais parlé un seul mot
du Seigneur Jesus Christ aux povres gens de ce pays-la [Jean Crespin – Simon Goulart,
Histoire des Martyrs, 1564].
89
Il Brasile rimane comunque una terra ripugnante, un “sauvage lieu” che
forma, al bordo meridionale dell’ecumene, un orizzonte inquietante: “Des
bestes du Bresil aux solitaires bords” [Agrippa, IV, 344]. Questa
concezione di un Brasile infernale, più abitato dal belve che da uomini, e
dove si aggirano le creature di satana. Così Jean de Léry, che pure esalta i
tupinamba come figure del nobile selvaggio, vede nella terra il dominio del
demonio “visiblement et actuellement”, in una attesa apocalittica di
plenitudo gentium: “Afin qu’il n’y ait ni amen i sauvage / Dont l’oreille il
n’ait peu frapper de son langage” [Agrippa, IV, 345-346]. Ma per Jean de
Léry – per la cultura calvinista – i selvaggi d’America sono destinati alla
perdizione, come figli di Cam.
Nel 1598 viene pubblicata a Francoforte, a cura dei figli di uno stampatore
di Liegi esule in questa città, Jean-Théodore e Jean-Israël de Bry, la
traduzione latina della lascasiana Brevissima relazione sulla distruzione
delle Indie: gli indios prendono il psto degli ugonotti perseguitati in
Francia. La Narratio offre un’iconografia dove si respira un’atmosfera
opprimente, ossessiva, con la ripetizione di alcuni motivi di base: assassini
di massa, massacro di innocenti, bambini fatti a pezzi e gettati in pasto ai
cani, incendi delle capanne indigene, grigliate dei maggiorenti delle
comunità, sfruttamento dei corpi attraverso il lavoro forzato, fino
all’esaurimento. Gli stampatori e illustratori ugonotti proiettano quindi le
crudeltà dell’avversario cattolico nel gran quadro di un teatro senza confini,
pru risparmiando le scene più sadiche e oscene di precedenti pubblicazioni,
come quelle presenti nel testo di parte cattolica, Theatre des cruautez des
hereticques de notre temps, pubblicato da Richard Verstegan nel 1588, ad
Anversa. Non c’è alcun dubbio sulla natura mostruosa della distruzione
delle Indie, ma una barriera sottile è fissata al dicibile, un limite è posto alla
curiosità morbosa dello spettatore: non a caso le torture risparmiano le parti
ignobili del corpo umano, ventre e basso ventre, laddove erano questi i
luoghi preferiti nel testo di Verstegan. Si rispetta il segreto del corpo, si
stabilisce un tabu delle viscere. Si trascorre dalla realtà al simbolo. La
ricerca del sensazionale, che aveva abitato l’impresa di Verstegan, ne aveva
indebolito la portata: dopo il successo immediato, la moda delle
rappresentazioni eccessive trascorse ben presto, come si trascorre dalla
prima arte gesuitica – alla quale Verstegan si ricollega – tutta agonia,
morbosità e provocazione carnale, a un’estetica più disciplinata: i corpi
dolenti dei martiri erano sempre presenti, ma integrati in un ordine e in
un’armonia dove la dilacerazione delle carni era riscattata dalla potenza
della fede trionfante e le grida di sofferenza coperte dai cori angelici. La
90
raffigurazione di Verstegan si inseriva nel programma egemonico della
giovane Compagnia di Gesù, che intendeva esaltare, attraverso le immagini
dei propri martiri, la propria funzione di combattere radicalmente, e
insieme di dialogare, con gli eretici. Ma, alla lunga, dovevano essere le
figure dei de Bry che fondavano la “leggenda nera” antispagnola. Nel
teatro dei de Bry cristiani sono i carnefici mentre il clero è presente nelle
ambigue figure dei monaci che benedicono l’agonia degli indios.
Nell’incisione che raffigura il cacicco Hatuey sul rogo, il gesto del
francescano che tende al suppliziato il crocefisso e il breviario appare come
l’accolito dei torturatori, che aggiunge al supplizio fisico un supplizio
morale. In impressionate affinità con i roghi levati dall’Inquisizione in
Europa. A questo risponde il gesto sdegnoso del cacicco che rifiuta di
raggiungere gli spagnoli nel loro paradiso e preferisce i tormenti
dell’inferno. In un’altra scena, uno spagnolo tiene in mano i due tronconi di
un bambino, che egli offre ai suoi cani, in presenza di una madre disperata.
Accantol, un frate si rivolge al bambino e lo battezza. La chiesa cattolica
viene vista mentre coniuga al delitto l’ipocrisia. Un cristianesimo
meramente formale. In contraddizione con il testo stesso del domenicano
Las Casas, per il quale salvare un’anima rimaneva pur sempre un compito
più essenziale che salvare un corpo. Laddove gli interpreti ugonotti vedono
una eguale condanna colpire e il corpo e l’anima, giacché il battesimo è
mero gesto, non risultato di una scelta consapevole e di coscienza. I gesti
dei religiosi bagnano in una tartuferia brutale. Nelle illustrazioni dei de Bry
gli indios vengono assimilati ai primi martiri cristiani, a Gesù agonizzante e
sofferente, alla strage degli innocenti. Gli indios sono agnelli preda di lupi
sanguinari. I tiranni hanno traviato l’appello di Dio alla conversione e alla
salvezza delle anime di quella nuova umanità, hanno distrutto e disperso la
nuova Gerusalemme, che si rivela un’altra tremenda Babilonia. Ma le
trombe dell’Apocalisse già risuonano: una serie di sventure si è abbattuta
sul Nuovo Mondo e colpisce la stessa Spagna, che verrà distrutta per
l’enormità dei peccati. Gli indios sono le vittime di una violenza assurda e
incomprensibile. Il cattolico spagnolo rivela la sua reale natura di
cannibale: ma compie il gesto innominabile per delega. Così, riprendendo il
racconto di Las Casas, un tiranno trascina nelle sue spedizione “dieci o
ventimila indiani”, ai quali non somministra cibo alcuno, “autorizzandoli a
mangiare, per sopravvivere, tutti quelli che catturavano”. Un mercato
d’inferno, secondo i de Bry, giacché soldati scambiano pezzi di carne
umana in cambio di collane che loro presentano indias nude. Storicamente,
il protagonista di questa scena è Pedro de Alvarado, compagno di Cortés,
colpevole di siffatte atrocità durante la campagna in Guatemala, negli anni
1530. Lo spagnolo viene qui presentato come un “professore di
91
antropofagia” – giusta la locuzione di Frank Lestringant – giacché insegna
all’indigeno a tagliare la carne e ritrae beneficio finanziario da questo
commercio. Nello sfondo, scene che ripropongono le torture del Golgotha,
con quattro indios schiacciati dal peso di un cannone, mentre un altro si
piega sotto un’ancora, come Gesù sotto la croce. La bulimia di carne, che
aveva stupito gli indigeni al primo contatto con gli europei, si trasforma in
uno sfruttamento radicale dell’uomo da parte dell’uomo, in una fame
canina e della carne e della forza dell’altro.
92
mercantili nello sfondo e la brutalità degli armati rivelano la vera essenza
della Conquista. Doveva commentare Chauveton: “L’ambition et la
cupidité foulent aux pieds toutes choses non seulement profanes mais
sacrées”. Si denuncia insieme la tendenza all’idolatria degli spagnoli e la
loro fides punica, cioè il disprezzo dei patti sanciti. Dio è doppiamente
offeso da un giuramento prestato sull’idolo di pasta e dalla trasgressione
del giuramento prestato in suo nome. Fondato su un delitto di sangue, al
quale si coniuga l’adorazione idolatrica, il giuramento sull’ostia scatena un
disordine sanguinario, esemplificato dalle scene del massacro di Atahualpa
e degli indios. La religione dell’ostia ha dunque rivelato la sua vera natura:
invece di instaurare il regno della concordia e di aprire le vie della
redenzione, ha scatenato una barbarie infinita, coniugato all’ipocrisia del
gesto del domenicano Vicente Valverde nei confronti dell’inca Atahualpa:
in questo momento della conquista, allorché il libro sacro si rivela muto ai
sensi di Atahualpa, lo scontro si scatena tra due universi simbolici non
comunicanti. Il messaggio evangelico si denuncia come non un atto di
pace, ma una dichiarazione di guerra, dove l’unico amore dei
conquistadores è rivolto all’oro e alle ricchezze.
93
generalizzata allelofagia. Ancora Montaigne: “[…] ilz se sont entremagez
entre eux, et la plupart s’enterrerent sur les lieux, sans aucun fruict de leur
victoire” [III, vi]. Jacques de Miggrode, nella prefazione al testo lascasiano,
si chiedeva come Dio avesse potuto lasciare che tale un diluvio di calamità
s’abbattesse sull’umanità: dall’Europa delle guerre di religione
all’America. Si tratta di un giudizio abissale di Dio, di fronte al quale, alla
sua insensatezza, non si può rispondere se non con lo stupore e il dubbio:
[…] car c’est peu de chose de dire que les méchants affligent les hommes meilleurs
qu’ils ne sont […], mais de voir toute une gent, voire infinie, périr si misérablement et,
comme il semble, sans aucune raison, c’est ce qui rend plusieurs étonnés, et les rend
comme stupides, examinant tels effets par la règle de leur raison [Jacques de Miggrode,
1579].
Quattro secoli dopo, in quello stesso Brasile che era stato il luogo delle
efferatezze cannibaliche, l’antropofagia entra in scena con segno
rovesciato, come affermazione di identità culturale.
94
Finanziata dall’alta borghesia paulista, la Settimana si apriva con una
conferenza di Graça Aranha sull’Emozione estetica nell’arte moderna. Ma
ben presto il pubblico doveva rendersi conto che la manifestazione andava
ben oltre quanto prospettato, e reagiva alle provocazioni. Per esempio,
quella di Menotti del Picchia, che esprimeva la nuova estetica del
movimento, ma insieme rifiutava l’etichetta di futurismo:
La nostra estetica è di reazione. Come tale, è guerriera. Il termine futurista, con cui
l’hanno ingiustamente etichettata, l’abbiamo accettato perché era un cartello di sfida.
Nella ghiacciaia di marmo di Carrara del Parnassianesimo dominante, la punta
aggressiva di quella prora verbale si ergeva come un ariete. Io, personalmente, abomino
il dogmatismo e la liturgia della scuola di Martinetti. Il suo capo è per noi un precursore
illuminato, che veneriamo come un generale della gran battaglia della riforma, che
allarga il suo fronte in tutto il mondo. In Brasile non c’è, tuttavia, ragione logica e
sociale per il futurismo ortodosso, poiché il prestigio del nostro passato non è tale da
togliere la libertà dei modi futuri. Inoltre, al nostro individualismo estetico ripugna la
gabbia di una scuola. Cerchiamo, ciascuno, di agire d’accordo col nostro temperamento,
entro la più tmeraria sincerità [Cit. in Luciana Stegagno Picchio, Storia della letteratura
brasiliana, 1997, pp. 425-426].
[…] il Brasile ha bisogno, senza dubbio, di alimentare il culto di tutte le sue fulgide
tradizioni, di tutelare il patriottismo sacrosanto della lingua e di preconizzare una
politica di instancabile difesa del suo spirito nazionale, il quale deve essere l’ideale
costante di tutti i buoni brasiliani […][Cit. in Luciana Stegagno Picchio, Storia della
letteratura brasiliana, 1997, p. 430].
95
manhã” di Rio de Janeiro chiede una poesia di esportazione, in luogo di
quella importata dall’Europa. Concetti ribaditi l’anno dopo, 1925, nel
volume Pau Brasil. Oswald si pone come promotore di tutti i movimenti
nativisti che si oppongono da sinistra al verdamarelismo nazionalista, fino
ad aderire al partito comunista, di cui sembra apprezzare soprattutto gli
aspetti anarchici e distruttivi e da cui si allontanerà dopo il 1945. Nel 1928
veniva pubblicato nella “Revista de antropofagia”, fondata – tra altri – da
Oswald de Andrade, il Manifesto antropofago, dove all’esigenza di liberare
il presente dalla tradizione accademica (il passato) si affianca quella di
ricostruire e reinterpretare il passato alla luce della modernità. Tenendo
conto che alla dialettica passato-presente si sovrappone un’altra dialettica,
quella tra estero-nazionale. Si tratta quindi di indicare un nuovo punto di
vista dal quale analizzare il problema della originalità nazionale (del
presente). La chiave prescelta è quella dell’ironia, che troviamo espressa
nei Poemas da colonização:
In Pau Brasil la storia del Brasile si presenta come una successione di fasi
economiche determinate, ciascuna identificabile con un particolare ciclo
produttivo, evidenziato anche dalla spazializzazione: una lettura della storia
del Brasile che torna nell’opera di Celso Furtado, Formação econômica do
Brasil, 1959. Quando era stata pubblicata a Parigi la raccolta Pau Brasil,
Paulo Prado aveva scritto nella prefazione: “Oswald de Andrade, in un
viaggio a Parigi, dall’alto del suo atelier della Place Clichy – ombelico del
mondo – ha scoperto, esterrefatto, la sua terra”. Una terra che i disegni di
Tarsila de Amaral immettevano in una dimensione mitica, di religione
arcaica, pre-europea. L’antropofagia come metafora culturale era stata
anticipata nel Manifeste cannibale Dada, del marzo 1920. Nell’aprile dello
stesso anno Francis Picabia fondava la rivista “Cannibale”. Al movimento
Dada apparteneva George Ribemont-Dessaignes che si poneva la domanda:
“posséder par le coeur ou par le estomac?” Domanda che implode, giacché
il processo di assimilazione culturale in Occidente, fin dai tempi medievali
(si ricordi la monastica ruminatio dei testi), veniva metaforizzato sotto
forma corporea-alimentare. L’immagine “intestinale” dell’identità
latinoamericana veniva espressa dall’argentino Oliverio Girondo nel 1922:
la bocca infernale rappresentata dal Brasile assume le dimensione di un
continente stomaco, capace di metabolizzare ogni apporto:
96
capaz de digerir y de digerir bien, tanto unos arenques septentrionales o un kouskous
oriental, como u na becasina cocinada en la llama o uno de esos chorizos épicos de
Castilla [Cit. in Ettore Finazzi-Agrò, L’identità mangiata. Considerazioni
sull’antropofagia, in La cultura cannibale. Oswald de Andrade: da Pau-Brasil al
Manifesto antropofago].
Così aveva scritto de Andrade già nel 1925. E la frase più notevole del
Manifesto antropofago dove divenire “Tupy or not tupy, that is the
question”. Scriverà nel 1950, in un saggio, La crisi della filosofia
messianica, che l’antropofagia appartiene, “in quanto atto religioso al ricco
97
mondo spirituale dell’uomo primitivo”, è un’operazione metafisica legata
“alla trasformazione del tabù in totem. Dal valore opposto, al valore
favorevole”. Nel Manifesto: “La trasfigurazione del Tabù in totem.
Antropofagia”. Il Freud di Totem e tabù viene digerito, insieme ai teorici
della mentalità “pre-logica”, per riattingere al Nietzsche de La genealogia
della morale, che aveva avversato la “morale del gregge” imposta dal
cristianesimo alla legge naturale. Ecco allora che del cannibalismo delle
popolazioni native viene valorizzato l’aspetto ritualistico, la ingestione del
nemico per conservarne e farne rivivere forza e virtù; il senso della
sacralizzazione del proibito, l’assunzione di ciò che non appartiene al
proprio ambito: “Mi interessa solo ciò che non è mio. Legge dell’uomo.
Legge dell’antropofago”. E ancora:
Non siamo mai stati catechizzati. Quel che abbiamo fatto è il Carnevale. […] Contro le
storie dell’uomo che cominciano a Capo Finisterra. […] Contro le sublimazioni
antagoniche. Portate nelle caravelle [Oswald de Andrade, Manifesto Antropófago, in
“Revista de Antropofagia”, 1 maggio 1928].
98
Il significato dell’utopia selvaggia è la riflessione più profonda che potessi fare sulla
nostra identità, sul nostro sangue, chi siamo noi se non siamo indios né europei? Siamo
una terza cosa. Questa la perplessità di Bolívar che cercava se stesso. E più tardi di
Mário de Andrade, di Oswald de Andrade. Così suppongo che Utopia selvaggia sia una
riflessione basata sulla rilettura di tanti testi. Una riflessione e una rivalutazione del
nostro sapere. Una lettura delle mie letture. Una ricostruzione parodia, di quello che
chiamiamo cultura. Con una buona dose di ironia, prendendo un po’ in giro
l’antropologia, i teologi, il marxismo. Con lo stile del carnevale, di quello che è il
carnevale come dramma umano [Darcy Ribeiro, intervista rilasciata a Daniela Ferioli,
nel luglio 1986, pubblicata come postfazione a Darcy Ribeiro, Utopia selvaggia, 1987,
p. 165].
Già nel suo primo romanzo, Maíra, del 1967, Darcy Ribeiro metteva in
scena la vita comunitaria degli índios minacciata dall’avanzata del
progresso tecnologico. In Utopia selvagem il mondo dei cannibali è
soppiantato da quello altrettanto inquietante delle amazzoni, le compagne –
nell’immaginario occidentale della conquista – del cannibale. Il negro
Pitum viene catturato dalle amazzoni e usato come oggetto sessuale.
Attraverso l’assimilazione dell’atto sessuale all’atto del mangiare vive una
esperienza di prigionia cannibalica, con il ricordo dei testi di von Staden e
di Pero de Magalhães (che aveva costituito un plesso dove il mito
amazzonico si coniugava alla indicazione di comunità di donne
omosessuali nella selva brasiliana):
Sarebbe meglio dire che fu ingoiato […] Non ero io a mangiare, ero mangiato.
Mangiato bene, per la verità, ma mangiato nel loro stile [Darcy Ribeiro, Utopia
selvagem, 1982].
Il cannibale è anche all’inizio (ed è l’inizio) del grande affresco storico, che
copre tre secoli, di João Ubaldo Ribeiro, Viva o povo brasileiro, del 1984.
Il protagonista collettivo è il popolo del Recôncavo bahiano, metafora del
popolo brasiliano tutto, contrapposto alla borghese nação. Il cannibale è il
caboclo Capiroba che, nell’ingestione di personaggi diversi che popolano il
territorio del Recôncavo, diviene protagonista collettivo, in quanto nella
trama della scrittura riemergono questi – a partire dai prigionieri olandesi
deglutiti nel 1647:
Al caboclo Capiroba piaceva mangiare gli olandesi. All’inizio non faceva differenza fra
olandesi e qualsiasi altro straniero che comparisse in circostanze propizie, anche perché
aveva cominciato a mangiare carne dopo una certa età, forse verso la trentina. […] E
che il caboclo mangi gli uomini, che a volte ne ingrassi qualcuno nel suo recinto, è
risaputo, pur essendo questa una cosa iniziata per caso [João Ubaldo Ribeiro, Viva o
povo brasileiro, 1984].
99
Per concludere veniamo ad una famosa rappresentazione contemporanea
del cannibale, presente nel cinema e nella letteratura che viene considerata
di intrattenimento o “popolare”. Si intende parlare della figura di Hannibal
Lecter, presente nei romanzi di Thomas Harris, in particolare in Red
Dragon, che ha conosciuto una versione filmica come Manhunter di
Michael Mann (1986), e Il silenzio degli innocenti, da cui il film omonimo
di Jonathan Demme (1991). Fissiamo alcuni punti fermi di questa
raffigurazione del cannibale moderno: in primo luogo, il nome di Hannibal
“the Cannibal”, con la sistemazione in rima, tende a immettere il
personaggio in una dimensione favolistica, irrealistica. Ancora, la
presentazione fisica del dottor Lecter, con il volto ricoperto da una
maschera che – mentre impedisce l’esplosione della sua attività
antropofagica – al contempo, con la esasperazione della bocca dove i denti
sono rappresentati da spuntoni metallici ne esalta la dimensione di voracità
e capacità di dilaniare. Più importante la caratura intellettuale del
personaggio, un medico psichiatra che divora i propri pazienti -vittime,
dove vanno sottolineati due movimenti: a) il rapporto di dominazione che si
instaura in un rapporto psicanalitico tra medico e paziente; b) la natura
delle pulsioni cannibaliche che vivono nel profondo, nell’inconscio, dove
possono emergere distruttivamente. Come dire che in ciascuno abita un
cannibale. Cannibale come forma estrema di crimine che tuttavia si fa
utilizzare dai tutori dell’ordine proprio per combattere il male. Un male che
assume le forme estreme, disumane, dei delitti per i quali viene chiamato il
dottor Lecter; a sua volta luogo di transito per l’identificazione della forma
mentis, della psiche criminale. Ancora, ne Il silenzio degli innocenti il
criminale che viene ricercato opera una vera e propria “cannibalizzazione”
delle vittime: nel senso odierno, banalizzato, del termine, dove si indica la
fruizione di pezzi di vari manufatti (automobili) assemblati a costituire un
nuovo individuo: nel caso in questione, per costruire un corpo femminile
che il criminale intende indossare per identificarsi appieno con la madre.
Come nel caso dell’informatico californiano che intendeva modificare il
proprio corpo (pelle compresa) per farsi tigre. Una prequel, Hannibal
Rising (2006) rappresenta un’attenuazione del messaggio consegnato nei
primi romanzi di Thomas Harris, nella asserzione che il male è dentro di
noi e può sempre, e a ogni momento insorgere: la storia di Hannibal Lecter
come erede di una famiglia nobile baltica, vittima di fuorilegge legati alle
truppe naziste di occupazione, prigioniero e costretto – dalla violenza ma
anche dalla fame – a nutrirsi del corpo della sorella e che in seguito inizia
un cammino di vendetta con riti cannibalici a spese dei colpevoli, attenua la
radicalità del primo messaggio, poiché ne situa nella storia, in un tempo
100
eccezionale, l’origine e le cause. Negando la valenza metafisica della prima
rappresentazione.
101