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MAGHI E CANNIBALI

1. Percorsi dalla magia alla scienza

Il testo di riferimento è: Paolo Rossi, Il tempo dei maghi. Rinascimento


e modernità. Cortina, Milano 2006.

La Tempesta: rito di espiazione, un mondo di armonia, quello di Prospero,


retto sulle arti magiche, ma è un mondo di illusione (“materia dei sogni”),
che si dissolve: 1) nello svolgimento del plot (per entro la dimensione
scenica), 2) nella fuoriuscita dalla magia della scena, nell’epilogo.

Il mondo magico (De Martino) e il mondo di un mago del Rinascimento


(prospettiva storica): la magia come contemporaneità – la magia come
persistenza del passato: un altro presente.

Nel mondo magico viene eliminata la distinzione cartesiana tra res extensa
e res cogitans: esiste un solo e unico mondo nel quale siamo immersi e nel
quale viviamo. 1)Si effettuano mescolanze e connessioni. [Cervantes, Don
Quixote]. 2) È una realtà animata e vivente.

Esiste quindi un senso delle cose, cose che noi consideriamo viventi o
morte e una tendenza a conservare la forma presente; il senso delle cose
serve a individuare i nemici, cioè quanto rimette in discussione e rende
insicura la forma attuale.

Le cose sono reciprocamente a) attive e b) passive; acqua con acqua, ma


acqua e olio. c) non tutto è mescolabile con tutto; d) trasmissioni:
riscaldare, raffreddare, ma anche trasmissioni psicologiche, come rallegrare
e intristire.

Continuità (v. Prospero): ogni anima ha continuità con lo spirito


dell’universo, che è diffuso nella immensità dello spazio. L’anima è
vincolata al corpo, ma non è connessa al corpo al quale dà vita, per cui
l’anima può abbandonare il corpo singolo, ma non il corpo universale.

Le cose hanno presente uno spirito (senso) che consente il riconoscimento


delle cose e delle situazioni pericolose.

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De sensu rerum et magia di Campanella: mondo degli stimoli; gli animali
hanno senso, determinato dalla vis animistica infusa da Dio negli elementi.
Il cielo e la terra e il mondo sentono e così gli animali che stanno dentro la
Terra, come i vermi che stanno nell’intestino dell’uomo. Quei vermi non
sanno che gli uomini sentono perché il loro piccolo intelletto è
sproporzionato alla conoscenza dell’uomo. Così gli uomini ignorano che
l’universo sente: ma antropomorfizzazione dell’universo. Riso e pianto non
sono prettamente umani, giacché sono presenti negli stessi elementi, l’uno
come dilatazione degli spiriti (fuoco), mentrre il pianto è costringimento di
spiriti (spremere l’umidore dalla terra). L’horror vacui: le cose si
precipitano a riempirlo, per mantenere la vicinanza, uno scambievole
contatto che è vita comune. Il mondo è un animale tutto senziente e tutte le
sue parti godono della vita comune. Così il mondo: l’aria che riempie i
vuoti per toccare altri corpi.
L’anima è spirito sottile, caldo e mobile, quindi patisce e sente.
Formazione spontanea della vita: la putrefazione. Come nelle acque
piovane calde i crini di cavallo si avvivati e divenuti “sottilissime serpi”
(Campanella, Del senso delle cose), l’anima è prodotta da calore e da
materia attenuata. [implicazioni teologiche]. Ma anche la morte non è
discrimine, giacché molte delle qualità del vivo restano nel morto: gli
uomini uccisi, in presenza dell’assassino emettono sangue e “bollono quasi
d’ira o di timore”; ciò può valere per scoprire l’assassino (Campanella).

Continuità con lo spirito dell’universo: “hoc est praecipuum principium et


radix omnium principiorum ad reddendam causam omnium mirabilium
quae sunt in natura”. Tutte le cose sono piene di divinità e ovunque
l’intelletto e l’anima sono presenti. È un principio pitagorico:

Il Sole e la Terra sono i primi esseri animati; le piante, le pietre e la Terra


sono dotati div ene, nervi, carne, come gli uomini: il mondo è un animale
santo, sacro e venerabile qualunque cosa presente in tale essere animato è
animata (De immenso).Non si tratta di metafore, l’immagine del mondo
come animal magnum è effettiva.

Non ci sono due mondi, quello del pensiero e quello delle cose
materiali. C’è un solo mondo, dotato di senso e dove tutto è connesso. Ci
sono solo cose vicine, Vicinanza e lontananza sono meramente soggettive,
ciò che è lontano è tale secundum sensum. Si può quindi cominciare
l’operazione a un punto qualsiasi, poiché secundum rem ci sono solo cose
vicine, giacché tutte le cose partecipano dell’anima universale, per
communionem spiritus universalis, qui est totus in toto et qualibet mundi

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parte. Ma l’essere dei corpi materiali è definito dalla loro superficie e dal
loro contorno, per cui occupano innumerevoli luoghi diversi, perciò nessun
corpo può agire su un altro corpo o sulla materia, ma ogni azione proviene
dall’anima: essa muta le disposizioni e queste mutano i corpi; un corpo
agisce su un corpo attraverso una specie di consenso (copula) che
provengono dalla forma.

Nulla è dunque privo di spirito e di intelletto: non c’è luogo dove lo spirito
abbia raggiunto la sua eterna sede, quindi la materia fluttua da uno spirito
all’altro e lo spirito fluttua dall’una all’altra materia. Alterazione,
mutamento, passione. La morte è lo scioglimento di legami. Nessuno
spirito muore e nessun corpo muore.

Assioma di ogni operazione magica: esiste un’influenza che discende a


partire da Dio verso il mondo e di un’ascesa dell’animato verso Dio.
Dio>dei, dei>corpi celesti; demoni degli astri >elementi, elementi>corpi
misti, corpi misti>sensi, sensi>anima, anima>universo, animal magnum. Il
processo di ascesa riconduce all’Uno.

Lo spazio del mondo sublunare e l’infinito spazio aldilà di esso sono pieni
di esseri semidivini e popolato di spiriti e demoni. Il mondo degli spiriti è
ordinato secondo una gerarchia; gli spiriti agiscono sui pensieri e insinuano
pensieri nelle menti. I demoni sono corporei perché provano sentimenti
come gli uomini; i corpi degli spiriti: più puri o dei, corpo igneo; spiriti
d’aria, aria mista a fuoco; spiriti di terra, acqua e aria, con il fuoco. Spiriti
di terra o di acqua possono, condensando il proprio corpo, rendersi visibili.
Forme di comunicazione degli spiriti: raggiungono il senso interno, fanno
udire voci e suscitare visioni, anche in stato di veglia.

Gerarchia degli spiriti: 1) demoni bruti o animaleschi, che operano senza


ragione, al disotto del sapere umano, sono dannosi, non riconoscono
preghiere e comandi e si nutrono della melanconia, si possono controllare
con astinenza e farmaci; 2) demoni sospettosi e creduli: sono scacciati da
minacce di morte, fuoco; 3) demoni conoscitori delle lingue e delle scienze,
dispettosi si fanno giuoco degli umani e non si piegano a preghiere; 4)
demoni eterei, buoni; 5) spiriti aerei, amici o nemici: acqua e terra, fanno
volentieri il male; ignei (dei).

Espressione della unità armonica primigenia, la lingua delle origini, nella


quale – lingua naturale (la lingua di Adamo, la lingua prebabelica) non c’è

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distinzione tra segno e significato, ma il segno esprime immediatamente
l’essenza e la natura delle cose, a differenza di quanto avviene nelle lingue
di istituzione umana, che si reggono per convenzione. La scrittura degli
egizi, non alfabetica, ma costituita di immagini di cose (Kircher,
emblematica: Alciati), era un linguaggio divino. Con la creazione delle
lingue alfabetiche, gli uomini hanno perduto la possibilità di parlare con gli
dei. Giacché le intelligenze occulte non ascoltano né comprendono i
linguaggi degli umani: odono le voci naturali assai meglio di quelle frutto
di convenzione. Come gli antichi egizi, i maghi si servono di immagini,
gesti, lingua divina, la quale rimane perennemente identica. Questo culto
delle origini si evidenzia nella particolare filosofia della storia della
Weltanschauung magica: la storia non è crescita, progresso, ché il
progresso è un ritorno: revolutio. C’è una verità che è stata sepolta dal
tempo, e si deve operare per la rinascita di questo sapere remoto, questa
antica sapienza precristiana nata sulle rive del Nilo e che ha ispirato e
Pitagora e Platone. Si tratta dei testi ermetici che adombrano le verità
cristiane.

Il tema della sapienza riposta e dell’antichità che coincide con la verità:


Vico (che contesta l’assenza di errori in quelle opere di “cotanto sterminate
antichità”, per avanzare una dimensione evolutiva della storia
dell’umanità). Francis Bacon, nel De sapientia veterum, afferma che le
favole antiche, i miti del mondo classico, altro non erano se “sacre reliquie
e arie lievi spiranti da tempi migliori, tratte dalle tradizioni di nazioni più
antiche e trasmesse ai flauti e alle trombe dei greci”. Riforma del sapere
come interpretazione del cristianesimo e riconquista di ciò che il peccato ci
ha tolto (instauratio): cammino di riconquista di ciò che si è perduto.
Ancora Descartes, nelle Regulae ad directionem ingenii. Tempo ciclico e
tempo lineare.

Va detto ancora che la magia non è un sapere contemplativo, ma è un


sapere che è anche un operare, come definito nel De occulta philosophia di
Cornelio Agrippa. La magia di cui parlano i maghi del Rinascimento
[perché analizzare il fenomeno magico nel periodo rinascimentale?
Protomoderno, sistema complesso e raffinato] è la magia naturale, non
quella demoniaca [D. P. Walker]. Distinzione tra risultato della operazione
magica e il miracolo [non c’è contrapposizione/concorrenza]. Il mago non
compie veri miracoli, ché il miracolo è un evento straordinario, estraneo
all’ordine naturale, bensì opera a seconda della natura, né compie cose
impossibili. Per Agrippa, questi portenti non sono miracoli, bensì sono
opera della natura rispetto alla quale la magia si pone come ministra. I

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maghi sono indagatori della natura, proseguono e portano a compimento
processi già in presenza, anticipano i tempi, con un moto di accelerazione
del normale processo naturale. Dimensione pratica della magia/dimensione
storica del sapere magico: per Campanella, ciò che risulta magia agli inizi,
quando le cause sono ancora sconosciute, poi diventa in seguito “volgare
scienza”. La stessa distinzione compare nei confronti dell’alchimia: esiste
un’alchimia falsa, che promette l’istantanea guarigione dalle malattie, la
costruzione di mirabilia [statue parlanti, automi], è un mondo della
falsificazione, lontano dalla pratica ascetica a cui si sottopone il vero
alchimista: Benedetto Varchi nella Questione sull’alchimia:

non l’arte o l’archimista genera o produce l’oro, ma la natura disposta et aiutata


dall’archimista e dall’arte, non altramente che la sanità di un corpo malato non si rende
né dalla medicina né dal medico, ma dalla natura disposta et aiutata dal medico e dalla
medicina.

Lo stesso in Giordano Bruno: “Magus significat hominem sapientem cum


virtutem agendi”. Varie declinazioni di magia: 1) magia naturale, compiere
cose mirabili grazie all’applicazione degli attivi e dei passivi, come nelle
scienze mediche e farmaceutiche; servirsi della simpatia/antipatia delle
cose, quindi con riferimento all’anima delle cose. 2) magia come sapienza:
sapere arcano, condiviso da conventicole misteriche. 3) magia
prestigiatoria, arte delle cose apparenti. 4) magia matematica [Ruggero
Bacone], o filosofia occulta, se si aggiungono parole, canti, immagini. 5)
magia metafisica o teurgia, quando si aggiungono invocazioni e preghiere
rivolte a potenze esterne, dei, demoni. 6) se l’invocazione ai demoni è volta
a evocare le anime dei defunti, abbiamo la negromanzia, 7) laddove la
magia che presuppone l’invasamento da parte delle potenze spirituali è la
magia pitonica. Confini con la stregoneria, che se realizzata a fin di bene
appartiene alla medicina, mentre 8) magia venefica è quella diretta a
provocare danni o morte. 9) magia divinatoria è quella che tende a cogliere
cose lontane nel tempo (futuro) e nello spazio. Confini con il mondo
criminale.

Comunque, per la magia rinascimentale, vale la distinzione tra magia


demoniaca e magia naturale. I maghi del Rinascimento dichiarano di
seguire la seconda. Agrippa:

Se sei un uomo imbevuto del sacro spirito della religione, se hai sentimenti di pietà, se
fede senza dubbi, se l’autorità delle cose sacre e la natura ti hanno conferito quella
dignità che le divinità non disdegnano – invocando, consacrando, sacrificando – potrai
attrarre le virtù spirituali e celesti e informare le cose e dare anima e vita a qualunque
opera magica. Ma chi presumerà di compiere opere di magia senza la potenza

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dell’ufficio, senza mneriti di santità o di dottrina, senza digità naturali o di educazione,
lavorerà invano, ingannerà se stesso e i suoi discepoli, provocherà l’indignazione degli
dei esponendosi ai più grandi pericoli [De occulta philosophia, III, 3].

Il dominio sugli altri si realizza quando lo spirito è esaltato da una passione


capace di superare quanto deve essere sottomesso. Poiché le passioni
dell’anima [Descartes] sono aiutate dai corpi celesti, è utile ricevere i
benefici del cielo e porsi in concordanza con essi e riceverne gli influssi . Il
grado superiore lega quello inferiore. Considerazione della parola e dei
discorsi: le parole si trascinano dietro le virtù del parlante: per i maghi i
nomi delle cose sono come raggi che emanano dalla cosa. Dio che conduce
Adamo davanti alle cose perché le nomini: ogni voce significa quindi a) per
influenza della divina armonia celeste e b) per convenzione e imposizione
umana. Quando a e b coincidono il nome riunisce in sé poteri straordinari.
Potenza del discorso, che contiene la virtù della verità (sintassi): sapere
formulaico.

Nel De magia naturali Bruno evidenzia quella che è la massima


potenzialità della magia: il dominio totale sulle anime e sui corpi, e la
possibilità di influire sui comportamenti altrui. Il mago (il vincolante) è
venator animarum. La condizione per il vincolo è nell’essenza stessa
dell’uomo, nella sua filautia (amor di sé) [Erasmo, Encomium Moriae,
Rousseau]: la filautia è il desiderio di ogni cosa di conservarsi come è al
presente; la filautia è il desiderio di ogni cosa di attingere la propria
perfezione. Una volta accesa la filautia, tutte le cose possono essere avvinte
dal tipo di vincoli loro naturali. Il dominio totale: “quando un soggetto è
avvinto in tutte le sue facoltà e parti”. La dottrina dei vincoli si muove nello
spazio tra l’indifferenza e la riduzione in schiavitù. E nella teoria dei
vincoli “omnis magiae doctrina continebitur”.

Mancanza di filantropia della magia: la magia serve a raggiungere scopi


personali, e l’occultista non lavora pro bono publico. La magia è una realtà
misteriosa, riservata a pochi e a pochi trasmessa [segretezza]. Opera della
trasformazione: solo una metamorfosi totale consente di riattingere l’ordine
metafisico, una tradizione e un sapere perduti, di ritornare a quell’antico
sapere, riscattandolo dall’oblio. La magia come disperata lotta contro il
tempo divoratore. Clemente Alessandrino, Stromata:

Gli Egiziani non affidavano i loro misteri ai primi venuti, e tanto meno divulgavano tra i
profani la conoscenza delle cose divine, ma soltanto a coloro che sarebbero assurti al
regno e, fra i sacerdoti, a quelli particolarmente provati.

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“Una cosa si dice e un’altra è tenuta nascosta alla moltitudine”. Un esempio
di questa dottrina nella contemporaneità: Julius Evola:

Vi è un ordine fisico e un ordine metafisico. Vi è la natura mortale e vi è la natura degli


immortali. Vi è la regione superiore dell’essere e quella infera del divenire. Più in
generale: vi è un visibile eun tangibile e, prima e al di là di esso, vi è un invisibile e un
non tangibile quale sovramondo, principio e vita vera. Dovunque, nel mondo della
Tradizione, in Oriente e in Occidente, in una forma o nell’altra, è stata sempre presente
questa conoscenza, come un asse incrollabile intorno al quale tutto il resto era ordinato
[Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno].

Nello stesso 1934, in cui Evola stendeva queste righe, René Guénon
muoveva contro il moderno:

[…] la concezione “profana” delle scienze e delle arti, quale oggi è invalsa in
Occidente, è un fenomeno molto moderno e implica una degenerazione rispetto a uno
stato anteriore in cui sia le une che le altre avevano un carattere del tutto diverso [René
Guénon, in “Voile d’Isis”, aprile 1934].

Come degenerazione. L’iniziazione: Fernando Pessoa:

[…] il vero significato dell’iniziazione è che questo mondo visibile in cui viviamo è un
simbolo e un’ombra, che questa vita che conosciamo tramite i sensi è una morte e un
sonno, o […] cje quanto vediamo è un’illusione. L’iniziazione è il dissolversi […] di
questa illusione. […] l’iniziazione non è una conoscenza, ma una vita […] [Fernando
Pessoa, Saggio sull’iniziazione].

I Templari. Ancora Pessoa:

[…] oggi viviamo in quell’impero, il quarto, il cui simbolo incarnato ed esemplare […]
è ancora Jacques de Molay […] Dal momento in cui acquisì completezza mistica, il
Cristianesimo si modellò a due facce, una rivolta alla Luce, che è la menzogna, l’altra
rivolta all’Ombra, che è la verità. Dalla prima ebbero origine […] le tre Chiese cristiane:
quella di Roma, quella cosiddetta Ortodossa, e quella, frammentaria e scoordinata […]
Protestante. Dalla seconda faccia ebbe orgine un’unica Chiesa, la Chiesa Gnostica,
detentrice delle chiavi dei misteri più nascosti; quella che si sarebbe poi chiamata, nel
linguaggio dei Rosacroce, Chiesa Mistica [Fernando Pessoa, Paganesimo Superiore.
Teorie del Paganesimo].

Ma anche Evola, ne Il mistero del Graal del 1937. Un moderno che vive
da sempre? Platone, dal mito della caverna alla Lettera IX :

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[…] ciascuno di noi non è nato solo per se stesso, ma […] della nostra vita una parte
appartiene alla patrria, un’altra ai genitori, un’altra agfli altri amici; […] Quando la
patria stessa ci chiama ai pubblici affari, non è bene, credo, rifiutarle il proprio aiuto
[Platone, Lettera nona].

Un testo di Francis Bacon, dalla Instauratio magna:

La sesta parte della nostra opera […] racchiude infine e propone quella filosofia che
viene ricavata e costituita dalla ricerca legittima, casta e severa che abiamo insegnato e
preparato precedentemente. […] Noi speriamo di aver dato ad essa un avvio non
disprezzabile: l’esito è affidato alle fortuna edel genere umano ed esso può esser tale
che gli uomini, nella presente situazione delle cose e degli animi, non riescono neppure
a concepirlo ed immaginarlo. Qui non si tratta solo della beatitudine della
contemplazione, ma del destino e delle fortune del genere umano e di tutta la potenza
delle opere. Infatti l’uomo, ministro e interprete della natura, opera e intende solo per
quanto, con la pratica o con la teoria, avrà appreso dell’ordine della natura; di più non sa
né può.
[…].
Ma l’uomo, quando si volse a guardare le opere realizzate dalle sue mani, vide che tutto
era solo vanità e tormento dello spirito; e non riposò in alcun modo. Se dunque
bagneremo del nostro sudore le opere da Te create, rendici partecipi della Tua visione e
del Tuo sabato. Ti supplichiamo perché la nostra mente stia ben salda su queste cose
perché Tu voglia, mediante le nostre mani e la mani di coloro ai quali avrai donato la
stessa intenzione, dispensare nuove elemosine alla famiglia umana [Francis Bacon, La
grande instaurazione].

La scienza dev’essere distinta dalla magia: entrambe si rivolgono alla


natura, e anche la scienza deve vexare la natura, ma con una differenza
teleologica fondamentale: laddove la magia ha a che fare con l’orgoglio e
l’ambizione personali (frutto del serpente: scientia inflat, Paolo, Francesco
d’Assisi), il fine della scienza è la carità, il benessere dell’umanità. Quindi
l’instauratio è la cristianizzazione del mondo, un “tentativo di riconquistare
ciò che il peccato ci ha tolto … un ritorno a un lontano e perduto passato,
ad antiche felici condizioni di vita”. Cogitata et visa:

Considerando poi i desideri e la ambizioni degli uomini, Bacone distingueva tre specie
di ambizione, anche se una di esse non è forse degna di questo nome. La prima è quella
di coloro che lavorano senza posa per aumentare la loro personale potenza nella loro
patria: questa è volgare e degenere. La seconda è quella di coloro che cercano di
aumentare la potenza della loro patria nel mondo: questa ha in sé più dignità, ma non
minore cupidigia. La terza è quella di coloro che cercano di instaurare ed esaltare la
potenza e il dominio dell’uomo stesso, o di tutto il genere umano, sull’universo:
quest’ambizione è senza dubbio più sana e più nobile delle due precedenti. Il dominio
dell’uomo consiste solo nella conoscenza: l’uomo tanto può quanto sa; nessuan forza

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può spezzare la catena delle cause naturali; la natura infatti non si vince se non
ubbidendole [Francis Bacon, Cogitata et visa].

Il passato è quello dell’uomo tutto, prima della caduta, in luogo della


visione magico-ermetica in cui il passato è il luogo dove è consegnata una
verità che si è venuta dimenticando per la degenerazione dell’umanità. Due
paradigmi, quello cristiano e quello non-cristiano (o, come in Pessoa, di un
cristianesimo gnostico, sotterraneo). Per Bacon, in ciò lontano dalle
concezioni luterane, la redenzione dell’uomo interviene attraverso le opere:
come nella religione, dove la fede deve essere dimostrata dalle opere, così
anche nella scienza. Lungo questa prospettiva, ritorna il motivo della
caccia: ma laddove il venator bruniano è venator animarum, la venatio
baconiana è la penetrazione in territori ignoti per lo stabilirsi del regnum
hominis (frontespizio del Novum organum: Daniele, “Multi pertransibunt et
augebitur scientia”). Certo, gli uomini possono pervertire il dono divino, e
fare “strumenti di vizio e di morte” della luce della scienza; ma ciò non
macchia la luce della scienza.

Bacon sulla magia: essa è empia, ma non perché i maghi stipulino contratti
con il demonio, ma perché il potere che la magia vuole acquistare è frutto
di parole (il mondo fantasmatico) non di lavoro:

L’essenziale è di non staccare mai gli occhi della mente dalle cose stesse e di ricevere le
loro immagini così com’esse sono. Dio non ci permetta di offrire i sogni della nostra
fantasia al posto di una copia fedele del mondo, ma piuttosto consenta benignamente a
che noi possiamo scrivere un’apocalisse e una vera visione dei vestigi e dei caratteri che
il Creatore ha impresso sulle creature [Francis Bacon, La grande instaurazione].

La magia sostiene che sia possibile il passaggio da spirito a spirito, senza


la mediazione dei sensi: di qui, le dottrine delle influenze, del malocchio,
ma anche – se si accetta la presenza di spiriti benevoli – la pretesa del
cattolicesimo che le immagini fissino i pensieri ed elevino la devozione. “si
oppongono al primo editto che Dio impose all’uomo: ‘Mangerai il pane con
il sudore della tua fronte’ “ [Advancement of Learning]. La polemica
antimagica di Bacon: mossa da motivazioni etiche e religiose identifica la
magia con un sapere sempre privato, inaccessibile agli uomini comuni,
volto a sollecitare ammirazione per imprese straordinarie, senza interesse
per il bene pubblico. È la linea che, come si è accennato, muove da Platone,
Aristotele, Cicerone, nelle opzioni rinascimentali per la vita activa
(Salutati, Palmieri), da Erasmo (Enchiridion militis cristiani). Non potere
affrancatore della scienza qua tali (Horkheimer-Adorno, Dialettica
dell’illuminismo, Heidegger), ma risoluzione in un ambito dove compaiono

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religione, morale, poltica. Ritorniamo a Bruno: Bruno rifiuta, insieme alla
tradizione cristiana, la connessione stabilita tra quella tradizione e gli ideali
del bene pubblico (machiavellismo di Bruno, la religione civile). De gli
eroici furori:

[…] il sursum corda non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene
che mai la pedantaria è stata più in exaltazione per governare il mondo, che a’ tempi
nostri; la quale fa tanti camini de vere specie intelligibili ed oggetti de l’unica vceritade
infallibile, quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno
esser isvegliati gli ben nati spiriti, armati dalla verità ed illustrati dalla divina
intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su l’alta rocca ed
eminente torre della contemplazione [Giordano Bruno, De gli eroici furori, Parte II,
dialogo II].

Ammirazione per gli egizi, superiori a ebrei e cristiani (le divinità


mostruose, come espressione di una esatta concezione della natura). La
cena de le Ceneri:

Prima che fusse questa filosofia conforme al vostro cervello, fu quella degli caldei,
egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima memoria, conforme al nostro capo; da’
quali prima si ribbellorno questi insensati e vani logici e matematici, nemici non tanto
de la antiwquità, quanto alieni da la verità [Giordano Bruno, La cena de le Ceneri,
dialogo I].
Bruno come Mercurio.

Siamo in presenza di un paradigma prevalente e sussistente nella cultura


europea: tesi di un sapere segreto delle cose essenziali, con la distinzione
tra un’esigua schiera di sapienti o “veri uomini” e il promiscuum hominum
genus. Bruno non crede che il termine di “uomo” si applichi
indiscrimintamente a tutti coloro che hanno figura umana (Paracelo, De
nymphis, i selvaggi americani). De immenso: la terra “produsse molte
specie di esseri animati; pochi, tuttavia, hanno assunto forma umana e
pochissimi sono veri uomini” (Lucrezio, Piero di Cosimo), laddove gli
uomini veri hanno natura di dei: “La luce chiarissima del Sole non
risplende per tutti, né brilla in maniera uguale per tutti coloro a cui giunge”
(De monade): per venire illuminati, non occorrono le opere, basta una
disposizione: “Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza di
immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore
verso una meta stabilita da un ordine eccelso: in nome del quale è possibile
disprezzare la fortuna e la morte” (De immenso).

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Bacon, Novum organum: “L’uomo, ministro e interprete della natura, opera
e intende solo per quanto, con la pratica o con la teoria, avrà appreso
dell’ordine della natura: di più non sa né può”.

Abbiamo esaminato un percorso in fondo lineare che muoveva da credenze


magiche a convinzioni e immagini scientifiche, come la contrapposizione
di due paradigmi, che si confrontavano in una prospettiva orizzontale. Ma
l’universo culturale ha anche una dimensione verticale, dove sussistono il
fenomeno della permanenza e dell’insorgenza. Di questo verremo a trattare
parlando di un fenomeno per molti aspetti affine alla magia. Si intende dire
della stregoneria, che appunto nell’età rinascimentale conosce una vasta
fama, soprattutto grazie ai processi e alle persecuzioni. Con esse si
delimitano complessi di credenze, ma anche fasce sociali che vengono
depotenziati, ridotte all’inesistenza, alla devianza. Un mito storiografico: il
grande renfermement di Michel Foucault. L’assenza del soggetto nella
prospettiva strutturalista: la società come macchina acefala.

“La luce, che credevamo tanto pura, è piena dei figli della notte. Il cielo
pieno d’inferno”. Così concludeva nel primo libro de La sorcière di Jules
Michelet, pubblicato nel 1862. In questo testo, Michelet – che dichiarava di
essersi soprattutto fondato su fonti di archivio giudiziario – stabiliva un
nesso forte tra fenomeno stregonico e realtà femminile, muovendo
dall’affermazione dell’inquisitore Jacob Sprenger, coautore, con Heinrich
Institor, del Malleus maleficarum, secondo cui “si deve dire l’eresia delle
streghe, non degli stregoni, questi contano poco”. Nella icastica
affermazione di Michelet, che vede una continuità tra la sibilla e la strega,
“la Donna è tutto”. Per proseguire:

Da quando data la Strega? […] “Dai tempi negati alla speranza”.


Dalla profonda disperazione prodotta dal mondo della Chiesa. […] “La Strega è il suo
delitto” [Jules Michelet, La strega, Introduzione].

La dilacerazione tra mondo della natura e il mondo imposto dalla chiesa


crea lo spazio perché l’antica religione della natura sopravviva sotto le
forme di una ribellione che travalica le questioni di scuole filosofiche, di
dispute del mondo dei dotti. La opposizione micheletiana è opposizione
radicale tra il mondo della donna (amore, focolare, sentimento) e il mondo
della ragione maschile. Ma proprio questa chiusura che circoscrive il
mondo stregonico, soprattutto nella sua pretesa illuministica, fallisce, in
quanto si è verificato un falso processo di superamento della mentalità
stregonica, relegata sempre più nella sfera dell’assurdo e dell’impossibile:

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proprio questa segregazione l’ha preservata, ne ha cristallizzato le strutture,
ha rafforzato le capacità di resistenza dei suoi adepti, attraverso i
meccanismi complementari del mistero e dell’assurdo. Nella visione “alta”
del sapere, mancherebbe, alla cultura stregonica, quella visione della
magia, dalle origini tardoantiche al Rinascimento, di un mondo tutto
percorso da intime corrispondenze. La stregoneria, in quanto non integrata
nella società, rappresenta una lacerazione, una natura irreparabile, ma non
per il suo carattere criminale, quanto piuttosto per il suo carattere
peccaminoso: l’avvento del cristianesimo ha rotto la integrazione tra
società e mondo stregonico, e la chiesa procede alla sua “demonizzazione”
(equivalenza con l’eresia, quindi ricaduta sotto l’attenzione della
inquisizione): l’accostamento tra stregoneria ed eresia è una manovra
ecclesiastica (pontificia, teologica e canonistica) per giustificare
l’estensione del meccanismo repressivo.

Tra il 1435 e il 1437 il domenicano Johannes Nider stendeva a Basilea il


dialogo Formicarius, dove un teologo traccia un parallelo tra i vizi e le
virtù degli uomini e i costumi delle formiche. Il quinto libro è dedicato alla
magia, alla stregoneria e alle superstizioni: fonti di Nider il giudice Peter
von Greyertz, castellano di Blanckenburg, nel Bernese, e dell’inquisitore
domenicano di Evian, oltre a Gregorio Magno e Vincenzo di Beauvais.
Malefizi tradizionali: volti a procurare malattia e morte, a procacciare
amore. Ma si presenta anche un’altra immagine: quella di una setta di
streghe e stregoni, ben lontana dalle immagini isolate (crisi di complotto
dopo la Peste Nera):
esistono dei “malefici” di entrambi i sessi che divorano gli infanti. Nella
regione di Losanna alcuni di questi stregoni avevano cucinato e mangiato
i propri figli, inoltre, riunitisi, avevano evocato il demonio, comparso in
forma di uomo. (Ambiguità): a9 rinuncia alla fede cristiana, b) rifiuto di
venerare l’ostia consacrata, c) calp’estare di nascosto la croce in ogni
occasione possibile. Sono gli elementi costitutivi di quella che diverrà
l’ossessione del sabba.
Lo stesso genere di accuse che erano state mosse ai primi cristiani:
Giustino, nella seconda Apologia, scritta attorno al 150, respinge le accuse
di sgozzamento di un bambino, di cui veniva bevuto il sangue; indi, spente
le luci,aveva luogo un’orgia incestuosa: (Jo 6, 54: “se non mangiate la
carne del figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la
vita”).
Ai primi del ‘500, l’inquisitore Bernardo Rategno nel Tractatus de
strigibus aveva ascritto l’emergere della setta stregonica attorno alla metà
del XIV secolo. Ondate persecutorie, con bersaglio modificato: lebbrosi-

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ebrei; ebrei; ebrei-streghe. L’immagine del complotto ordito contro la
società. Da un gruppo sociale circoscritto – i lebbrosi – si passa a un
gruppo più ampio, definito religiosamente ed etnicamente – gli ebrei – fino
a sfociare nell’immagine di una setta potenzialmente indefinita (streghe e
stregoni). Tutti ispirati da un nemico esterno: il diavolo.

Le donne scellerate . Il Canon episcopi. Sibilia, moglie di Lombardo de


Fraguliati di Vicomercato, inquisita dal domenicano fra’ Ruggero da
Casale, inquisitore della Lombardia superiore nel 1384; processata di
nuovo nel 1390 dal nuovo inquisitore, il domenicano fra ‘ Beltramino da
Cernuscullo, con condanna a morte: Sibilia fin da giovane era andata ogni
settimana, la notte del giovedì, con Oriente (Erodiade) e la sua società. A
Oriente aveva reso omaggio: abbassava il capo in segno di reverenza
dicendo, “Ben stage, Madona Horiente”, e questa rispondeva “Bene
veniatis, filie mee” (femminile). Alla società venivano tutte le specie di
animali, due per specie, salvo gli asini (portatori della croce); se ne fosse
mancato uno, il mondo sarebbe andato distrutto (arca, mantenimento in
essere del mondo – funzione dei sacerdotes). Oriente prediceva cose future
ed occulte. La cena diabolica di Jacopo di Varazze, Legenda aurea:

Un giorno, essendo stato ospitato in una casa, vide che dopo aver cenato di nuovo
preparavano le tavole: molto meravigliato ne chiese il perché. Gli fu risposto che si
preparava da mangiare per quelle brave persone che durante la notte si trovavano in
cammino. Il santo stabilì di rimanere sveglio ed ecco che vide una moltitudine di diavoli
assidersi a mensa sotto forma di uomini e donne. Comandò ai diavoli si non andarsene,
poi svegliò tutti i membri di quella famiglia per chiedergli se conoscessero i convitati.
Gli ospiti risposero che i convitati erano i loro vicini e vicine di casa.
Allora Germano rinnovò ai demoni la proibizione di andarsene; poi ordinò ai suoi ospiti
di recarsi nelle case dei vicini che furono trovati addormentati nel letto. Allora i demoni
furono costretti a rivelare il loro essere e a confessare che così agivano per ingannare gli
uomini [Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, San Germano].

Nei Sermones del domenicano Johannes Herolt, redatti attorno al 1418, si


parla di coloro che credono che “Diana, detta in lingua volgare Unholde,
ossia die selige Frawn, vada in giro la notte con il suo esercito percorrendo
grandi distanze”. Jeanne d’Arc. È la ripresa del tema dell’ “esercito
furioso”: in queste schiere viene riconosciuta la schiera dei morti, alla cui
guida si alternano personaggi mitici (Herlechinus, Wotan, Odino, Artù, il re
Teodorico: cfr.il Mister Harley Queen di Agatha Christie). Procopio di
Cesarea, nella Guerra gotica, ricorda gli abitanti situati di fronte a Brittia,
isola dei morti, che vengono convocati per il trasporto dei defunti in

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barche, che appaiono cariche pur non vedendosi nessuno, e che percorrono
in brevissimo tempo il traghetto:

Gli uomini che sanno di dover andare a compiere tale lavoro durante la notte, dando il
cambio ai precedenti, appena scendono le tenebre si ritirano nelle proprie case e si
mettono a dormire, in attesa di chi dovrà venire a chiamarli per questra incombenza. A
tarda ora della notte, infatti, essi sentono battere alla porta e odono una voce soffocata
che li chiama all’opera; senza esitazione saltano giù dal letto e si recano sulla riva del
mare, senza rendersi conto di quale forza misteriosa li spinga ad agire così, ma
sentendosi comunque trascinati a farlo [Procopio di Cesarea, De bello Gotico, IV, 20].

Ma questo nucleo mitico alimentò nel Medioevo anche un’altra tradizione,


cortese: si intende dire dei romanzi del ciclo arturiano: Artù a cavallo di un
caprone (mosaico di Otranto, del 1163-1165), alla testa della caccia
selvaggia; Perceval, Erec, Lancelot che si recano al regno dei morti
(Limors, Schastel le mort). La contrapposizione mitica tra la corte di Artù e
l’universo circostante, popolato di presenze magiche e ostili significa anche
l’irrigidirsi dei cavalieri in un ceto chiuso, di fronte a una società in rapida
trasformazione (Cervantes).

Nel 1585 compariva a Basilea un trattato, Christlich Beckenden und


Erinnerung von Zauberey, di cui era autore Hermann Witekind: “se le
streghe e i maghi si trasformino in gatti, cani, lupi, asini”. Rispondeva che
si trattava di illusione diabolica, mentre tra i dotti valeva anche la tesi che si
trattasse di un reale fenomeno fisico. Witekind poneva nel testo il
resoconto di un colloquio che aveva avuto con un lupo mannaro
incarcerato: “L’uomo si comportava come un matto, rideva, saltellava,
come se venisse da un luogo di piaceri e non da una prigione”. Il tema
viene ripreso da Caspar Peucer nel suo Commentarius de praecipuis
generibus divinationum, che riporta la relazione di Witekind: a) i lupi
mannari tengono lontane e combattono le streghe quando si sono
trasformate in farfalle (maschile e femminile); b) assumono la forma di
lupo nei dodici giorni tra Natale e l’epifania, indotti dall’apparizione di un
bambino zoppo (la zoppia, Shakespeare); c) vengono spinti da un uomo
alto verso le sponde di un grande fiume che superano all’asciutto, perché le
acque si dividono sotto la sferza di ferro dell’uomo; d) assaltano il
bestiame, ma non possono far male agli uomini. Di questi argomenti
doveva parlare Filippo Melantone, suocero di Peucer, a Wittenberg. Nella
sua Historia de gentibus septentionalibus (1555), Olao Magno parla delle
imprese dei lupi mannari nella notte di Natale: “entrano nei depositi di
birra, vuotano le botti di vino e di idromele e poi collocano in mezzo alla
cantina, l’uno sull’altro, i recipienti vuoti”, ciò li contraddistingue dai veri

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lupi. Credeva nella realtà fisica della trasformazione. La sete
inestinguibile dei morti.

Un altro umanista, Leone Allacci, ci parla dei kallikantzaroi: bambini nati


tra la vigilia di Natale e l’ultimo dell’anno che sono predestinati a diventare
esseri quasi bestiali, soggetti a furie periodiche (l’ultima settimana di
dicembre) dove corrono scarmigliati senza trovar requie: non appena
vedono qualcuno, gli saltano addosso, lo schiacciano e con le unghie gli
segnano il viso, chiedendo “stoppa o piombo?”. Se “stoppa” viene lasciato
andare, se “piombo” lo malmenano. Per evitare che un bambino diventi un
kallikantzaros, bisogna metterlo sul fuoco e scottargli le piante dei piedi:
Così le unghie vengono accorciate. I kallikantzaroi segano sisifescamente
l’albero del mondo.

Possiamo stabilire un primo elemento di discrimine tra il mondo magico e


quello stregonico: laddove nel primo vige la convinzione di una
onnipervadente influenza, di una corrispondenza tra le varie parti del tutto,
e quindi la categoria prevalente è quella di metamorfosi, nel mondo
stregonico il rapporto tra le varie parti del mondo è quello della liminarità,
della contiguità, e la categoria prevalente è quella della contaminazione,
dell’indefinito. Nella nostra percezione storica del fenomeno stregonico
dobbiamo tener conto altresì che, a differenza dei testi dei maghi
rinascimentali, i quali ci forniscono in prima persona la voce diretta dei
protagonisti, i documenti del mondo stregonico ci pervengono attraverso il
filtro di voci altre (inquisitori, cronisti) e anche quando – come nei verbali
dei processi di inquisizione (ma ciò vale per tutto questo genere di
documentazione) – ci sembra che ci venga offerta la voce dell’inquisito,
questa è modellata sul ritmo e la struttura del processo di domande, si
presenta come risposta. Anche nel caso della confessione “spontanea” è
ovviamente il ricorso alla tortura e la insopportabilità di questa che
determinano forme e contenuti della risposta. Così la questione che
abbiamo visto drammaticamente fondamentale del sabba viene soprattutto
determinato dall’intervento di vescovi, predicatori e inquisitori che fanno
confluire nell’immagine del sabba tutto un pulviscolo di credenze relative
al mondo dei morti e ai loro rapporti con i vivi. Le ritraducono. Così,
ancora, dopo la metà del XVII secolo, l’alone diabolico viene attenuandosi,
con l’attenuarsi della persecuzione della stregoneria: nel 1688 il pastore
luterano Hilscher dà alle stampe il suo De exercitu furioso, che indica uno
slittamento significativo nella concezione della “corsa selvaggia”. 1) le
testimonianze più antiche di tale rito risalgono ai tempi di una Germania
cristiana che già veniva corrompendosi sotto l’influsso nefasto di Roma. 2)

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a partire dal XVI secolo, le apparizioni erano divenute sempre più rare. 3)
abitudine di Francoforte: giovani pagati perché conducessero la sera di
porta in porta un carro ricoperto di fronde, mentre intonavano canzoni e
vaticini. Era una rappresentazione depotenziata dell’ “esercito furioso” – la
sua trasformazione in rituale. Carnevalizzazione. Charivari. Halloween (i
morti in questua). Questue infantili, tavole apparecchiate per le divinità
notturne e travestimenti animaleschi rappresentavano modi diversi di
entrare in contatto con i morti, dispensatori di prosperità, nel momento di
fine dell’anno vecchio e di inizio del nuovo. Ma ancora va detto qualcosa
sul travestimento animalesco: vediamo alcune testimonianze. Cesario di
Arles: i contadini – nella notte delle calende – allestiscono tavole imbandite
per avere un anno di prosperità. Burcardo di Worms: la tavola veniva
apparecchiata con tre coltelli, destinati alle Parche, le bonae dominae.
Ancora Cesario di Arles: ci sono individui che si travestono da cervi
(“cervulum facientes”) o indossano maschere animalesche (“alii vestiuntur
pellibus pecudum, alii assumunt capita bestiarum”), godendo del fatto di
non apparire più come uomini (“gaudentes et exsultantes, si taliter se in
ferinas species transformaverint, ut homines non esse videantur”):
Ginzburg: “un correlativo rituale delle metamorfosi di animali vissute in
estasi” (sciamanismo). A metà del XVII secolo il francescano Marco
Bandini, arcivescovo di Marcianopoli descrive le prodezze degli incantatori
e delle incantatrici della Moldavia, ai quali la gente si rivolge per conoscere
il futuro, guarire dalle malattie e ritrovare oggetti rubati. a) delimitazione di
uno spazio appropriato (“certo loci spatio”), b) convulsioni e bisbigli, c)
transes. Propensione all’estasi prevalentemente femminile. Contemporanea
alla testimonianza di Bandini, al descrizione della Moldavia del principe
Cantemir: i caluczenii, uomini che travestono da donna, fingendo voce
femminea. Lotta dei c lu ari contro le femminili rusaliile. I salti dei
c lu ari imitano il volo estatico e il salto dei cavalli: la società di questi è
modellata sulla società dei sântoaderi (cavalieri di san Teodoro, santo
associato ai morti:

Avendo ricevuto l’ordine di sacrificare agli dei il santo entrò di notte nel tempio di
Marte e gli dette fuoco. Allora fu chiuso in carcere e condannato a morirvi di fame: ed
ecco che il Signore gli apparve e gli disse: “Abbi fiducia in me, perché io sono teco”.
Subito dopo una gran folla di uomini biancovestiti entrò nel carcere e cominciò a
salmodiare insieme a Teodoro. A tal vista, atterriti, i carcerieri si dettero alla fuga. Il
giorno dopo il santo fu di nuovo invitato a sacrficare agli idoli ma quegli disse: “Voi
potrete bruciare la mia carne e destinarmi ad ogni genere di supplizi ma io non
rinnegherò mai il mio Dio!” [Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, San Teodoro].

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I sântoaderi hanno figura di cavalieri provvisti di coda e zoccoli equini
che, durante il Carnevale, girano di notte suonando il tamburo.

Lo charivari: rito volto a controllare i costumi sessuali del villaggio:


schiere di giovani come schiera dei morti, guidati da esseri mitici come
Hellequin. Miti rivissuti nell’estasi e riti connessi con il ciclo dei dodici
giorni o la Pentecoste. Identificazione simbolica con i morti.

Le vie dell’antropologia: la metafora ha una posizione speciale tra tutte le


figure retoriche. Assimilando fenomeni che appartengono a sfere i
esperienza e a codici diversi, la metafora sovverte il mondo ordinato e
gerarchizzato della ragione. Claude Lévi-Strauss sul concetto di
dédoublement:

[…] anche se le ricostruzioni più ambiziose della scuola diffusionistsa risultassero


verificate, si porrebbe ancora un problema essenziale, che non pertiene al campo della
storia. Perché un tratto culturale, mutuato o diffuso attraverso un lungo periodo storico,
s’è conservato intatto? Perché la stabilità non è meno misteriosa del cambiamento […]
Connessioni esterne possono spiegare la trasmissione; ma solo delle connessioni interne
possono dar conto della persistenza. Vi sono due ordini di problemi del tutto differenti,
e applicarsi all’uno non pregiudica in nulla la soluzione che deve essere apportata
all’altro [Claude Lévi-Strauss, Antropologie structurale].

Il 23 marzo 1440, durante il concilio di Firenze, papa Eugenio IV lanciò


l’anatema contro l’antipapa Felice V (Amedeo di Savoia): egli si era levato
contro l’autorità della chiesa perché sedotto dagli incanti di “uomini
sciagurati e connette che, abbandonato il Salvatore, si sono volti a Satana:
streghette (stregulae) stregoni o Waudenses, particolarmente diffusi nella
sua terra di origine”. Un contributo decisivo alla lotta contro la stregoneria
venne dall’attività di Bernardino da Siena. La devozione al nome di Gesù
gli aveva attirato l’accusa di eresia. Nel 1427 papa Martino V impose a
Bernardino di sospendere la predicazione e da Gubbio, dove si trovava, di
venire a Roma. Gli venne imposto di sospendere l’ostensione del
monogramma del nome di Gesù. “Avendo io predicato di questi
incantamenti e streghe e malie, el mio dire era loro come se io sognasse”.
Dopo l’iniziale distanza, “mi venne detto che qualunque persona sapesse
niuno o niuna che sapesse far tal cosa, che, non acusandola, elli sarebbe nel
medesimo peccato … E come io ebbi predicato, furono accusate una
moltitudine di streghe e di incantatori”.

Finicella, una delle vittime di Bernardino, mandata al rogo: “una fra l’altre
disse e confessò senza niuno martorio che aveva uccisi da xxx fanciulli col

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succhiare il sangue loro [vampirismo]; et anco disse che n’aveva liberati lx
… E più ancora confessò che ella aveva morto el suo proprio figliuolo, et
avevane fatto pòlvare, de la quale dava mangiare per tali faccende”.

L’umanista agostiniano Andrea Biglia attaccò Bernardino, sostenendo che


la devozione al nome di Gesù implicava - non diversamente dall’attività di
maghi, indovini e incantatori – uno scambio sacrilego tra simbolo e realtà
simboleggiata. Niccolò Cusano doveva sostenere che rivolgersi a Gesù e ai
santi per ottenere vantaggi materiali significava commettere atto di idolatria
(Erasmo, Lutero). Bernardino ebbe successo perché combatteva maghi e
incantatori con le loro stesse armi, ponendosi su un terreno similare. 1427:
Bernardino si rivela assai aggiornato sui nuovi fenomeni di stregoneria:

E sònne di queste tali genti qua in Piemonte, e sôvi andati già cinque inquisitori per
levar via questa maladizione, e’ quali so’ stati morti da queste male genti. E più, che
non si trova inquisitore che vi voglia andare per méttarvi mano. E sai come si chiamano
questi tali? Chiamansi quelli del barilotto. E questo nome si è perché eglino pigliaranno
un tempo dell’anno uno fanciullino, e tanto il gittano fra loro de mano in mano che elli
si muore. Poi che è morto, ne fanno pólvare e mettono la pólvare in uno barilotto, e
dánno poi bere di questo barilotto a ognuno; e questo fanno perché dicono che poi non
possono manifestar niuna cosa che elli faccino [Bernardino da Siena, Le prediche
volgari].

Nell’universo della magia la scienza e la verità non sono accessibili a tutti


gli uomini: contrapposizione tra metodo e iniziazione. Quest’ultima
implica che alle doti umane si aggiunga anche qualcosa di sovrumano,
ottenuto grazie alla partecipazione dell’uomo a un principio superiore alla
sua natura. Analogia con il concetto cristiano di grazia, secondo la
definizione di Tommaso d’Aquino, Summa teologica, III, 9. 2 a. 10:
“quaedam similitudo divinitatis partecipata in homine”. Statuto liminare e
indefinito della magia, che può sempre trasformarsi in altre realtà
protocollari. Le tecniche magiche sono a) una via per operare sul mondo e
b) un processo di rigenerazione. Quindi una conoscenza che è anche
salvezza. Il raggiungimento della perfezione individuale è presupposto del
dominio sulla natura. Quindi non è un sapere aperto a tutti gli uomini,
giacché il sapere magico presuppone a) disciplina ascetica, b) distacco dal
mondo, c) istruzione da parte del maestro per le vie dell’illuminazione, d)
capacità di sollevarsi a un livello inattingibile da parte degli altri uomini. Di
qui: a) carattere segreto del sapere e riiuto di una divulgazione che avrebbe
conseguenze nefaste, b) complessità e difficoltà dei procedimenti e dei
rituali, c) distinzione tra la schiera dei sapienti e il “promiscuum hominum

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genus”, d) eccezionalità della figura del mago, diverso dai profani e non
rigenerati.

Un testo ermetico: Asclepio:

“Ma allora, o Trismegisto, l’intelletto non è uguale in tutti gli uomini?”


“Non tutti, o Asclepio, hanno ottenuto la conoscenza vera, ma, nella loro foga temeraria,
senza avere visto la vera natura di nessuna cosa, si lasciano ingannare seguendo una
vana immagine, che genera nelle menti la malizia, e trasforma il più nobile dei viventi,
facendogli assumere la natura di un animale selvaggio, con comportamenti di una belva.
[…] L’uomo, in effetti, è l’unico vivente di natura duplice, e una delle parti che lo
compongono è semplice, quella che i Greci chiamano ousiódes, ‘essenziale’; e che noi
chiamiamo ‘formata a somiglianza di Dio’; l’altra parte invece è quadruplice, quella che
i Greci chiamano hylikón, ‘materiale’, e che noi denominiano ‘mondana, terrena’: da
essa è stato fatto il corpo, che circonda e custodisce quella parte che nell’uomo abbiamo
appena detto essere divina, dove la divinità della pura mente, protetta, sola con ciò che è
ad essa affine, ossia i sensi della pura mente, possa riposarsi con se stessa, come
circondata dalle mura del corpo” [Corpus Hermeticum, Asclepio, 5].

La rigenerazione coincide con la purificazione dai vizi. “Vi sono due tipi di
uomo: l’uomo materiale e l’uomo essenziale”. Questi testi risalgono al II
secolo d. C., furono tradotti parzialmente da Marsilio ficino ed ebbero vasta
circolazione (16 edizioni tra il 1471 e la fine del Cinquecento). Nello
stesso periodo ebbe altrettanto larga diffusione il Picatrix latinus (secolo
XI, il testo arabo). “At laudem et gloriam altissimi et omnipotentis Dei,
cuius est rivelare suis praedestinatis secreta scientiarum”. I filosofi hanno
celato agli uomini il sapere magico, e lo fecero per il loro bene, giacché “si
haec scientia hominibus esset discoperta, confunderent universum”. Per cui
di tale scienza parlarono solo figuraliter: “figuraliter fuerunt loquuti de ea,
ad hoc ut aliquis ad ipsam attingere non valeret, nisi esset scientia
illustratus ut ipsi”. Lo scopo del Picatrix è quello di esplicare le “viae et
regulae” mediante cui i sapienti possono attingere alla scienza, di “mostrare
con mezzi e termini più chiari ciò che nei loro libri essi occultarono
mediante l’uso di termini peregrini”. Esclusione dell’insipiente:

Rivogliamo le nostre preghiere a Dio non solo perché illumini il tuo cuore e il tuo
spirito, perché ti protegga e difenda dalle insidie degli uomini nocivi, ma affinché tu
non riveli i tuoi segreti a nessuno che non sa, perché ciò provocherebbe la distruzione
dei santi e dei profeti [Picatrix].

Prerequisito: l’acquisizione del sapere. La scienza si divide in due parti,


l’una segreta e l’altra manifesta. La parte nascosta è profonda, ma chi la

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attingerà vedrà aprirsi il mondo occulto. Segretezza e difficoltà si
coniugano: i filosofi parlano una lingua solo a essi nota. Come scrive Bono
da Ferrara, nella Margarita novella,

Prego e scongiuro tutti coloro che comprendono queste cose e nelle cui mani giungerà
questa preziosa gemma, di comunicarla agli uomini che si dedicano a questi problemi,
che bramano ardentemente l’arte e che sono dotti nei principi naturali. La occultino
invece agli indotti e ai fanciulli poiché essi ne sono indegni [Pietro Bono da Ferrara,
Introductio in artem chemiae integra, ab ipso autore inscripta Margarita Preciosa
Novella].

Heinrich Agrippa, nel De occulta philosophia:

I segreti debbono essere comunicati solo verbalmente attraverso una schiera esigua di
sapienti e i sacri arcani debbono essere custoditi da un numero esiguo di eletti […].
Ogni esperienza di magia abborre il pubblico, vuol essere nascosta, si fortifica nel
silenzio e viene distrutta ove venga dichiarata [Agrippa, De occulta philosophia, III, 2].

Un tema, questo, che ritorna con ossessionanti uniformità e ripetizione.


Ritorno degli stessi autori, delle stesse formule, degli stessi termini e degli
stessi concetti. Ancora nel 1584, scriveva Paracelso, che si trattasse e
conservasse “in segreto questo divino mistero”: la sublimazione del
mercurio che diviene oro, argento, rame, ferro, si fonde come la cera e si
liquefà come neve e ritorna allo stato primitivo è un segreto che dev’essere
tenuto ben celato, giacché “un’oca preferirà una rapa a una gemma; perciò
il volgo non è degno di conoscere questo segreto e Dio ha espressamente
vietato di dare perle ai porci”.

Per tutti gli esponenti della cultura magica e alchimistica i testi dell’antica
sapienza si configurano come libri sacri nei quali sono racchiusi segreti
aperti solo a pochi uomini. Due direzioni del segreto: nel profondo e nel
passato. È necessario andare oltre la lettera, sottoporre i testi al lavoro
ermeneutico. Magia e alchimia sono dunque riservate a uomini
d’eccezione: la diffusione della verità coincide con la sua distruzione, ma
tale segretezza è legata altresì alla difficoltà dell’arte, alla necessità di un
preliminare processo di purificazione dell’adepto, che trasforma l’ “uomo
naturale” (re-natus) e lo rende “complice degli spiriti celesti”. L’arte esiste
“per modum miraculi” e l’adeptio deve avvenire attraverso la voce vivente
o per ispirazione divina: “videtur mihi eius adeptio quasi impossibilis nisi
aut per vocem viventem aut per inspirationem divinam”. Così Bono da
Ferrara. La ragione non vi perviene ed è necessaria la fede:

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Diciamo e veracemente affermiamo che dal primo fino all’ultimo uomo, nessuno potrà
mai scoprire il divino segreto di quest’arte mediante l’ingegno naturale o la sola ragione
naturale o l’esperienza. Quel segreto, infatti, come qualcosa di divino e di occulto, sta al
di sopra della ragione e dell’esperienza. Il glorioso Iddio, elargitore di grazie, lo rivelò
ai fedeli sapienti che erano timorosi di Lui [Pietro Bono da Ferrara, Margarita Preciosa
Novella].

L’adepto deve subire un processo di dignificatio: elevamento dal piano del


puro intelletto, dominato dal corpo, e quindi distacco dalle affezioni della
carne (dimensione sacerdotale), del senso e della materia. La disposizione
celeste come condizione della realizzazione dell’adeptio. Le operazioni
sacre, che permettono di superare l’ostacolo di una non buona disposizione
celeste, valgono a riempire l’uomo della presenza divina – anche se non
comprese. La religiosa “imposizione delle mani”. Dalla coincidenza di
dignità,sapienza, potenza, perfezione morale trae vita la figura del mago:
Agrippa, De occulta philosophia:

Le mente pura e divina […] dopo aver raggiunto il vertice della sapienza umana, attira a
sé la verità e nella stessa verità divina, come in uno specchio dell’eternità, vede le cose
mortali e quelle immortali, la loro essenza e le loro cause e comprende il tutto. In
questo stato di purezza ed elevazione, possiamo conoscere le cose che sono al di sopra
della natura e scrutare tutto ciò che è presente nel nosrtro mondo […] Mediante gli
oracoli e le divinazioni possiamo conoscere anc he quanto accadrà in epoche lontane.
Una mente di questo tipo acquista una virtù divina non solo nelle scienze e negli
oracoli, ma acquista anche una potenza miracolosa in tutto ciò che può essere mutato
mediante la vlontà. Perciò talora noi, pur appartenendo alla natura, la dominiamo e
realizziamo opere miracolose ed elevatissime tali da rendere calmi i mari, mutare le
stelle, piegare le divinità e asservire gli elementi [Agrippa, De occulta philosophia, III,
6].

Confine indefinibile tra la figura del mago e quella del sacerdote. Noi
abbiamo ricevuto lo spirito che proviene da Dio, non quello di questo
mondo, per questo – afferma Robert Fludd – non parliamo con le parole
della dottrina umana, ma con la dottrina dello spirito: “loquimur non in
doctis humanae sapientiae verbis, sed in doctrina spiritus, spiritualibus
spiritualia comparantes”, nella Philosophia Moysaica. Scrive sempre Fludd
a Kepler, “i chimici e gli ermetici non si volgono alle ombre quantitative
dei matematici volgari, ma abbracciano il midolo vero dei corpi naturali”.

L’immagine dell’uomo appare strettamente connessa alla rappresentazione


di un universo strutturato gerarchicamente secondo un ordine costituito per
gradi. L’uomo è “separato da tutte le cose del mondo e da tutti gli animali”:
è simile agli animali per le cose naturali, ed è separato da essi per il suo

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sapere e le scienze. Capace di riso e di pianto, ha in sé la virtù di Dio e la
scienza della giustizia per governare politicamente, conosce il giovamento
e il danno, opera mediante arte e industria. Egli ha tutte le cose del mondo
al suo servizio e non è servo di nessuna. La sua posizione di “medietà” è
fondata sulla sua essenza fisica (compresenza di corpo denso e di spirito
sottile) In lui sono presenti le caratteristiche degli elementi (grossezza della
terra, sottigliezza dell’aria, calore del fuoco e freddo dell’acqua). La sua
nobiltà (dignitas) sono riflesso della scala dell’essere alla quale è riuscito a
innalzarsi. Ma tale ascesa non è connessa solo alla volontà dell’uomo, al
suo arbitrio; esistono anche un’inclinazione naturale e una favorevole
congiunzione degli astri. La sua dignitas è conseguenza del suo livello di
sapere. La scienza magica, continua Picatrix, “est quid valde nobile et
altum et qui studet in ea et per eam operatur, sua recipit nobilitatem et
altitudinem”, Giunge alla perfezione del “grado ultimo della scienza”. La
figura del mago coincide con quella dell’uomo perfetto e del perfetto
filosofo (Gesù come homo perfectus), in un abisso incolmabile rispetto agli
uomini bestiali (“a bestialibus hominibus sunt natura remoti”). Gli
“homines imbecilles et intellectu carantes” che “ad praedicta attingere
nequeunt nec venire” hanno solo forma e figura di uomo: “homo appellari
non debet nisi nomine, forma et figura hominis” (Picatrix).

In un testo dell’umanista Charles de Bouelles, il Liber de sapiente del


1510, questi motivi si coniugano con l’idea che la sapienza sia frutto di
conquista, di un farsi dell’uomo e che ciò radichi la distanza tra l’uomo
sapiente e l’uomo naturale: “La natura ha dato al sapiente il semplice
essere; da sé il sapiente si è dato l’essere compiuto, cioè la vita bella e
felice”. Visione prometeica dell’uomo, dove il sapiente, strappando il fuoco
dal cielo, “conquista se stesso, si possiede, rimane sua proprietà”. È uomo
per umanità, non per semplice natura, laddove il non sapiente è un uomo
“incompleto, indefinito, imperfetto” per cui è qualcosa di disarmonico, “un
principio senza fine, una potenza senza oggetto, una forza senza attività”. I
sapienti sono la “veracissima anima del mondo”, i “veri signori del mondo,
i semidei”.

“L’uomo è un grande miracolo, un essere degno di reverenza e di onore”:


Pico della Mirandola richiamandosi all’Asclepius. Il sapiente trascorre nella
figura di un essere eccezionale, semidemoniaco e semidivino: la magia di
Agrippa (elementi demoniaci, negromantici ed esorcistici) si contrappone
alla magia di Ficino, pia e contemplativa, che aspira a operazioni magiche
solo nel mondo elementare. Ma ancora, Agrippa, nel 1527:

22
A opera della magia naturale nascono spesse volte stupendi miracoli non tanto per
l’arte, quanto per la natura alla quale quest’arte si dà per ministra. Perciocché i maghi
come diligentissimi esploratori della natura, conducendo quelle cose che sono preparate
da lei […] spessissime volte inanzi al tempo ordinato dalla natura producono effetti i
quali dal volgo sono ritenuti per miracoli, sendo però opre naturali non v’intervenendo
altro che la sola anticipazione del tempo: come s’alcuno facesse nascer rose nel mese di
marzo o crescer l’uve mature […]. Perciò s’ingannano quelli che stimano [le operazioni
della magia] al di sopra della natura o contro natura, mentre provengono dalla natura e
son fatte secondo natura [Agrippa, Della vanità delle scienze, 1527].

Le opere della magia vengono presentandosi come mirabilia. Ripeterà


Campanella, ciò che appare magico agli inizi, quando le cause sono
sconosciute, diventa poi “volgare scienza”. La figura del mago sembra
anticipare o trascolorare in quella dello scienziato di Bacon, nel cui
Advancement of Learning cogliamo insieme i retaggi di posizioni ficiniano-
pichiane e la formulazione di un diverso, nuovo, concetto di scienza.

Per chi volesse condurre ulteriori letture:

Giuseppina e Eugenio Battisti, La civiltà delle streghe, Lerici, Milano


1964;

Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi,


Torino 1989;

Jules Michelet, La strega, BUR, Milano 1977;

Saverio Ricci, Giordano Bruno nell’Europa del Cinquecento, Salerno,


Roma 2000;

Fernando Pessoa, Pagine esoteriche, Adelphi, Milano 2001;

Paola Zambelli, L’ambigua natura della magia, Il Saggiatore, Milano


1991.

23
2. La magia come dominio sulla natura.

Il testo di riferimento è: Ernesto de Martino, Il mondo magico.


Prolegomeni a una storia del magismo, Boringhieri, Torino 1973.

L’itinerario che abbiamo finora seguito si è scandito nel seguente modo: 1)


il pensiero magico nella sua versione colta rinascimentale; 2) le altre forme
del pensiero magico: il “radicalismo magico” del mondo della stregoneria e
la sua domesticazione da parte del mondo intellettuale, in un duplice
processo di rimozione-repressione (processi) e di traduzione in termini di
cultura alta (ermetismo); 3) la presenza di queste forme di magismo alle
origini del pensiero scientifico. Si tratta ora invece di esaminare il
fenomeno della magia al di fuori dell’ambito culturale dell’Occidente
medievale e moderno, e vederne la natura di aspetto culturale costante di un
sapere diverso da quello occidentale. Diverso, ma insieme contemporaneo.

Perciò partiamo da un lavoro del 1948 di Ernesto de Martino, Il mondo


magico. Per de Martino, legato all’insegnamento di Benedetto Croce, “il
compito dell’etnologia storicistica consiste nella possibilità di porre
problemi la cui soluzione conduca all’allargamento dell’autocoscienza
della nostra civiltà”. Proseguiva: “una interpretazione storicistica del
magismo deve costituirsi come reale incremento della nostra
consapevolezza storiografica in generale, e pertanto deve essere pronta e
aperta alla conquista di nuove dimensioni spirituali, e alla ulteriore
articolazione o addirittura alla totale riplasmazione della metodologia
storiografica alla luce delle nuove esperienze”. E non a caso si rifaceva
proprio alla esperienza del Rinascimento, dove il ritorno del mondo
classico doveva mediare la scoperta di un’umanità assai più complessa e
consapevole di quella che pur aveva alimentato il Medioevo. [problema
della continuità e delle periodizzazioni storiografiche: le “monadi
storiografiche” sono rappresentazione della realtà o non invece forme
linguistiche in cui dire una realtà per altri versi inclassificabile?] Infine,
caratteristica unificante del problema del magismo, dove la costellazione
tradizionale dei saperi umanistici può incontrarsi con la psicologia, con la
psichiatria [di de Martino, La fine del mondo]. Tutto l’universo in cui può
essere detto il fenomeno umano. Allora ben venga la citazione in exergo:
“There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in
your philosophy” [William Shakespeare, The Tragedy of Hamlet, I, 5].

Il problema di fondo, attorno al quale abbiamo girato nelle precedenti


lezioni, è da porsi brutalmente: il problema dei poteri magici. Una forma

24
di elusione è quella che abbiamo esperito nella sezione dedicata alla
stregoneria: la soluzione – a prima vista di alta comprensione umana e
umanistica – della illusione e dell’autoillusione: ma proprio il fallimento
delle pretese della magia cela un nodo di problemi. Quindi ora dobbiamo
cominciare con il porre in discussione la questione della illusorietà. Una
prima proposta di soluzione: illusorietà dei poteri magici nella loro
relazione con lo sguardo “esterno” e insieme loro realtà nel vissuto
esistenziale del praticante la magia. Con de Martino: “l’indagine coinvolge
non soltanto il soggetto del giudizio (i poteri magici), ma anche la stessa
categoria giudicante (il concetto di realtà)”. Elaborazione di un pensiero in
atto, che assume lo scandalo.

Scriveva l’etnografo russo Širokogorov:

In stato di grande concentrazione gli sciamani [tungusi], come altre persone, possono
entrare in comunicazione con altri sciamani e con individui comuni. Presso tutti i
gruppi tungusi questo si fa del tutto intenzionalmente per necessità di carattere pratico,
specialmente in casi urgenti […] [S. M. Širokogorov, The Psychomental Complex of the
Tungus, 1935].

Dai tungusi deriva il termine shaman, dal verbo sa, e significa “uno che
sa”. Come ha notato James Dow, The Shaman’s Touch: Otomi Indian
Symbolic Healing [1986], risalendo a un sapere antichissimo, gli sciamani
“furono i primi specialisti del mondo … sono forse gli specialisti più
versatili del mondo”. Sulle tracce dello studioso russo, Širokogorov, de
Martino evidenziava ulteriori aspetti della pratica sciamanica, nella
distinzione tra “metodi comuni” - “semplici metodi di natura logica, e
intuizione” – e “metodi speciali” – “lettura del pensiero, comunicazione a
distanza, direzione autosuggestiva dei sogni, ed estasi”. Metodi che
possono essere utilizzati dai membri ordinari della comunità, ma che per
gli sciamani sono “condizione essenziale della loro arte”.
Fenomeni analoghi si rinvengono presso i pigmei dell’Africa Equatoriale,
gli zulu e i figiani. Ma ora esaminiamo un altro elemento che si adatta alla
nostra ricerca di interconnessioni tra le culture: da un lato, come si è
accennato, la possibilità di funzionare dei procedimenti sciamanici è legato
alla presenza di una comunità, di un’entità umana che si riconosce in un
universo di valori condivisi. E ciò anche in assenza della fisica contiguità.
Si veda l’esempio ricordato da R. G. Trilles:

Tutti i clan pigmei che abbiamo incontrato si ignorano quasi a vicenda, fatta eccezione
di quelli che sono abbastanza vicini, prodotto relativamente recente di un identico ramo.

25
È tuttavia da notare che questa unione e questa conoscenza degli altri clan potrebbe
essere molto più completa di quello che crediamo, mantenuta dagli stregoni, dai maghi e
dai cantori che vanno di clan in clan, rintracciandoli e visitandoli, chiamati non si sa
come se non forse in virtù della loro scienza misteriosa [R. G. Trilles, Les pygmées de la
forêt equatoriale, 1932].

Entra in azione la funzione dello “straniero”: molti viaggiatori hanno avuto


accesso a luoghi dove hanno esercitato un potere grazie al fatto che
venivano identificati come sciamani. Si veda il racconto di Alvar Núñez
Cabeza de Vaca:

La notte del nostro arrivo alcuni indios si recarono da Castillo e lo implorarono affinché
li curasse, poiché erano afflitti da forti dolori alla testa. Non appena Castillo li ebbe
benedetti e raccomandati a Dio, gli indios dissero che il dolore era scomparso.[…]
Presto la notizia si diffuse nell’intero villaggio. […] Non appena cessammo di
prodigare le nostre cure, ebbero inizio le loro danze e i loro riti di ringraziamento, che si
prolungarono fino all’alba del giorno successivo [Alvar Núñez Cabeza de Vaca,
Naufragi, XXI].

Scrive Eric J. Leed, Shores of Discovery [1995], che nell’impatto tra


universi culturali, “il guaritore tradizionale viene visto attraverso gli occhi
di osservatori occidentali di formazione scientifica come uno che opera
sulla base di un genere di conoscenza inferiore, caratteristico d’altri tempi,
‘prescientico’ “ Si tratta di rovesciare la prospettiva, e “far rientrare il ruolo
occidentale dello ‘scienziato’ in una categoria generale che attraversa i
confini fra culture, quella dello sciamano: cantore di canti, cantilene e
formule magiche, distributore di farmaci e droghe, profeta estatico
dell’avvenire, ha familiarità con i morti, conosce ciò che sta oltre i confini
del visibile, parla lingue straniere e sacre”. Non è necessario che
nell’incontro di culture i rappresentanti dei due universi “credano” alla
realtà l’uno dell’altro. Emblematico il caso di Gordon Mac Creagh che
negli anni 1920-1930 si rovinò la salute nell’alto Guaporé, con l’assunzione
di droghe in cui non credeva. Come racconta in White Waters and Black:

Questi Tiquie non erano gli allocchi della vecchia scuola, pronti a buttarsi a terra ad
adorare i fiammiferi o a divinizzare la polvere da sparo. Ma pensai che tra le nostre
trappole varie dovesse esserci una magia che avrebbe impressionato lo stregone […]
Così […] deposi davanti a lui una magia portentosa, un grande disco rotondo di vetro
trasparente, con entrambe le superfici convesse, come quello che gli snervati uomini
bianchi dalla vista debole adoperano per ingrandire i caratteri a stampa […] Questa
magia, dissi, è la più utile di tutte le magie dell’uomo bianco. Te la mostrerò sotto la
luce del sole […] Davanti alla porta dello stregone […] presi una foglia secca e ci
puntai sopra la lente […] In un secondo il puntino di calore concentrato cominciò a far

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fumo e prese fuoco. Il mago si tappò la bocca con la mano. “Ammmu! Questa è una
magia eccellente”, disse [Gordon MacCreagh, White Waters and Black, 1926].

Mac Creagh attribuiva alla cerimonia jurupary lo stesso valore che lo


sciamano attribuiva alla lente di ingrandimento: un sapere “straniero” in
contrasto con il suo. Il valore generato dal contrasto era più importante
della inferiorità della “magia” rispetto alla “scienza”: un involucro di cause
sconosciute di effetti visibili. Il compito dell’etnostoriografo, è per de
Martino compendiato in un testo di Vico ne La scienza nuova:

Ma siccome ora (per la natura delle noste umane menti, troppo ritirata dai sensi nel
medesimo volgo con le tante astrazioni di cui son piene le lingue con tanti vocaboli
astratti, e di troppo assottigliata con l’arte dello scrivere, e quasi spiritualezzata con la
pratica de’ numeri, che volgarmente sanno di conto e ragione) ci è naturalmente niegato
di poter formare la vasta immagine di cotal donna che dicono ‘natura simpatetica’ (che
mentre con la bocca dicono, non hanno nulla in loro mente, perocché la lor mente è
dentro il falso, ch’è nulla, né sono soccorisi dalla fantasia a poterne formare una vasta
potentissima immagine): così ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta
immaginativa di que’ primi uomini, le menti de’ quali di nulla erano astratte, di nulla
erano assottigliate, di nulla spiritualezzate, tutte rintuzzate nelle passioni, tutte seppellite
ne’ corpi: onde dicemmo sopra ch’or appena intender si può, affatto immaginar non si
può, come pensassero i primi uomini che fondarono l’umanità gentilesca [Giovan
Battista Vico, La scienza nuova, § 378].

“Il documento etnologico non consente la negazione del problema”. Così


de Martino, che allarga il campo della strumentazione concettuale
inglobando le ricerche di psicologia del paranormale. In primo luogo,
esaminando quel “raggio di azione paranormale della rappresentazione e
della volontà” che “non si estende oltre quella parte dell’universo fisico che
designamo empiricamente col nome di ‘corpo’. Ma l’efficacia paranormale
di taluni soggetti sembra estendersi anche al di fuori del proprio corpo,
nell’universo fisico o natura in senso stretto”. Per concludere che “I
risultati della psicologia paranormale sembrano dunque autorizzare una
soluzione almeno parzialmente positiva del problema della realtà dei poteri
magici”. Il contrasto tra i due universi era stato limpidamente definito nel
1893 da Wilhelm Wundt:

Gli scienziati […] hanno buona ragione di non avventurarsi sul terreno della
fenomenologia paranormale. Queste ragioni si trovano, secondo me, nei risultati della
ricerca parapsicologica […] Supponiamo che tutti gli esperimenti descritti […] abbiano
avuto esito positivo, al punto di obbligarci ad ammettere azioni magiche a distanza in
quei casi in cui l’autore stesso le ritiene probabili: quale conclusione ne ricaveremo noi?
Evidentemente il mondo che ci circonda diverrebbe in realtà composto di due mondi
assoutamente diversi. Da una parte quello di Copernico, di Newton, di Leibnitz e di

27
Kant: e cioè l’universo retto da da leggi eternamente immutabili, e per cui il più piccolo
come il più grande si uniscono in un tutto armonico. Dall’altra parte, accanto a questo
grandioso universo che suscita sempre più la nostra meraviglia e la nostra ammirazione
ad ogni passo che in esso muoviamo, vi sarebbe un altro piccolo mondo, un mondo di
spiriti folletti, di maghi e di ‘medi’, il quale sarebbe il completo rovescio del primo, del
grandioso e sublime universo, le cui leggi immutabili si troverebbero sospese a profitto
di persone fra le più volgari e spesso isteriche [Wilhelm Wundt, Hypnotismus und
Suggestion, in “Philosophische Studien”, 1893].

a)dissoluzione della fisica classica, b) presenza, nel protocollo scientifico,


del dato: che l’individuo empirico non può darsi a piacere; e anche se
l’epistemologo scopre la parte del soggetto nella costruzione dell’immagine
fisica del mondo, l’uomo di scienza resta fedele al precetto baconiano. c) lo
scandalo: “ciò che caratterizza il dominio paranormale è proprio la
sospensione della legalità naturale a profitto di singoli individui”. Scrive de
Martino: “L’applicazione del metodo naturalistico ai fenomeni
paranormali, e il tentativo di provarli sul piano in cui si muove la scienza
sperimentale della natura, svela pertanto a un certo punto il suo limite, e più
esattamente una interna contraddizione: per provarli occorre considerarli
come se fossero fenomeni dati, mentre il loro carattere è appunto
questo, di essere ancora immediatamente inclusi nella sfera della
decisione umana e quindi alegali o plurilegali in virtù della libera
demiurgia di rappresentazioni, di affetti e di intenzioni umane”. La
scienza sperimentale della natura, scrive ancora de Martino,

si è costituita togliendo a proprio ideale una natura purificata da tutte le “proiezioni”


psichiche della magia: ora i fenomeni paranormali accennano proprio a una natura
ancora contesta di queste “proiezioni”, e non solo nella mera credenza, sebbene proprio
nella realtà. Da ciò risulta che la semplice possibilità di fenomeni paranormali ripugna
intimamente alla storia interna del moto scientifico moderno: per accettare tale
possibilità esso o deve negare le proprie origini storiche, istituendo una sorta di
crittogamia con la magia, ovvero deve superare la sua propria storia, attingendo un
punto di vista più alto, una visione prospettica più comprensiva. La scienza è nata
ritirando gradualmente e in modo sempre più consapevole la psichicità dalla naturalità:
la possibilità di fenomeni paranormali significa per essa un vero e proprio “segno di
contraddizione”, uno “scandalo”, in quanto la paranormalità è, in generale, di nuovo
psichicità che torna nella natura, e natura che si carica di psichicità [Ernesto de Martino,
Il mondo magico, p. 69].

Necessità di superare il contrasto, la polemica, e soppressione del segno di


contraddizione, in nome di un punto di vista più alto.

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Pietre unciniformi per trattenere l’anima. Il pericolo – che nella cultura
occidentale permane, seppure rimosso – è quello della rottura del vincolo
con il mondo. Di qui, la rilevanza del mito: “L’angoscia … è intenzionalità
della coscienza senza un oggetto”. Così Hans Blumenberg, Arbeit am
Mythos [1979]. E, ancora, “Il mito è un modo di esprimere il fatto che il
mondo e le potenze che dominano in esso non restano abbandonate alla
pura arbitrarietà”. Ma “il mito non è antropocentrico … coinvolge l’uomo
nella storia degli dei solo al margine”. Per concludere: “I miti non
rispondono a doamde; le rendono indomandabili”. Il rito è la fuoriuscita dal
tempo, giacché la reiterazione degli atti che consentono la presenza del
mondo e l’esserci nel mondo, prescinde dal fluire del tempo o, meglio,
presuppone un tempo ciclico, sempre uguale. Il riscatto, presupposto del
mito e azione del rito, per de Martino “sta nello sperimentare e nel
rappresentare l’oggetto come alter ego, col quale si stabiliscono rapporti
regolati e durevoli”. Un compromesso. L’atai come duplicazione del sé,
secondo R. H. Codrington:

La parola atai sembra aver avuto a Mota il senso proprio e originario di designare
qualche cosa legata in modo particolare e intimo a una persona, e sacro per essa che ,
qualche cosa ha colpito la sua immaginazione nel momento in cui è stata percepita, in
guida che le è apparsa meravigliosa, o che altri le abbiano fatto apparire la cosa come
tale. Quale che sia questa cosa, l’uomo ha creduto trattarsi del riflesso della propria
persona: essa e il suo atai prosperano, patiscono, vivono e muoiono insieme [R. H.
Codrington, The Melanesians, 1871].

Pratiche che esprimono il bisogno di allontanare, separare, decidere


l’oggetto che insidia la presenza. Così la figura dei morti. In primo piano,
come problema storico caratterizzante, la presenza che non riesce a
mantenersi davanti all’evento della morte. Trattenere il cadavere, e insieme
impedirgli di tornare tra i viventi. “In generale il dramma magico, cioè la
lotta dell’esserci attentato e minacciato, e il relativo riscatto, insorge in
determinati momenti critici dell’esistenza, quando la presenza è chiamata a
uno sforzo più alto del consueto”: esigenza di una riparazione
riequilibratrice. Lucien Lévy-Bruhl:

[…] agli occhi della mentalità primitiva non si verificano, propriamente, accidenti. Ciò
che sembra accidentale a noi Europei, è sempre, in realtà, la manifestazione d’una forza
mistica che in tal modo si rende palese all’individuo o al gruppo sociale [Lucien Lévy-
Bruhl, La mentalità primitiva, 1922].

“Il mondo è un linguaggio che gli spiriti parlano a uno spirito”. Così Lèvy-
Bruhl. a) processo di disintegrazione della persona sia in occasione di

29
eventi emozionanti, sia in rapporto con una intensificazione della labilità
psichica; b) visione plasmata con temi mitici e magici tradizionali; c)
padroneggiamento graduale della visione, in guisa da raggiungere la sua
produzione a volontà, soprattutto nel sogno; d) chiarimento del significato
della visione, che si palesa come invito da parte degli spiriti a diventare un
mago; e) elezione di uno spirito adiutore, e istituzione con esso di rapporti
regolati, culturalmente significativi, socialmente utili:

Attraverso questi momenti del dramma esistenziale magico la situazione iniziale (il
rischioso e angosciante insorgere di una dissoluzione della presenza) è riscattata.
L’istituto magico della vocazione, del sentirsi chiamato, dell’identificazione degli
spiriti, del loro padroneggiamento attraverso uno sforzo assiduo, la presenza di una
trama tradizionale di temi e figurazioni, di riti e di pratiche che aiutano a interpretare la
chiamata, a leggere, per così dire, nel caos minaccioso il cosmo di forme culturalmente
significative; tutto ciò arresta nel fatto la dissoluzione, ha un’efficacia soterica reale.
L’esserci nasce dal conflitto uno in più, o più in uno, ma in guisa che l’uno non si perde
nei più, e in guisa che i più ubbidiscono all’uno [Ernesto de Martino, Il mondo magico,
p. 108].

Contraddizione (apparente?): a) rischio e riscatto, b) dissoluzione


dell’esserci sembra acquistare il rilievo di un fine dominante perseguito
volontariamente: la trance. L’indebolimento e l’attenuazione dell’esserci è
legato all’indebolimento e all’attenuazione del mondo nel quale l’esserci è
immerso. Tecniche magiche volte a combattere il mondo come alterità che
si fa presente alla coscienza [tenebre: “gli spiriti vengono meglio al buio”,
secondo i tungus ricordati da Širokogorov]. Ma ancora: artificiale
provocazione del trauma psichico. Utilizzazione della coscienza onirica e
impiego di sostanze narcotiche o tossiche: “queste tecniche sono
semplicemente un mezzo per entrare in rapporto con il rischio della propria
angosciosa labilità, per ordinare e plasmare il caos psichico insorgente, per
leggere in questo caos le forme o figure di ‘spiriti’, per evocare questi
spiriti padroneggiandoli”. Lo stregone si avventura nel nulla, in tenzone
con esso nulla. Ma qui lo stregone trova qualcosa, se stesso in rapporto
regolato con gli spiriti adiutori. “Questa è la sua vittoria, questo è il suo
riscatto”. Scrive Czaplicka:

Lo sciamano possiede un grande potere di padroneggiarsi fra i veri e propri attacchi


[…]. Egli deve sapere come e quando avere i suoi attacchi di ispirazione, che talora
giungono fino alla follia […]. Fin tanto che lo sciamano esercita la sua vocazione non
passa mai la soglia della follia, ma si danno casi di sciamani che perdono il controllo dei
loro spiriti, diventndo socialmente dannosi per un periodo più o meno lungo. D’altra
parte la vocazione dello sciamano si annunzia nella forma esteriore di uno squilibrio

30
psichico e l’accettazione della vocazione significa guarigione [Czaplicka, Aboriginal
Siberia. A Study in Social Anthropology, 1914].

Ancora, Širokogorov:

Durante l’estasi il grado di sdoppiamento della personalità e l’eliminazione degli


elementi coscienti sono varianbilio, ma, in ogni caso, vi sono dei limiti nei due sensi,
cioè lo stato dello sciamano non deve trasformarsi in una crisi isterica incontrollata, né
d’altra parte l’estasi deve essere soppressa: infatti sia l’accesso isterico incontrollato, sia
la soppressione dell’estasi non consentono la regolata attività della personalità seconda
e la relativa autonomia del pensiero intuitivo [S. M. Širokogorov, The Psychomental
Complex of the Tungus, 1934].

“Il rischio ed il riscatto dello stregone non costituiscono un dramma


strettamente individuale. Attraverso la figura dello stregone, attraverso il
suo dramma esistenziale, è la comunità nel suo complesso … che si apre
alla vicenda dell’esserci che si smarrisce e si ritrova”. Lo sciamano è un
eroe, che ha saputo portarsi fino alle porte del caos e stipulare un patto con
esso. “attraverso il riscatto dello sciamano un analogo riscatto è reso
possibile per tutti i membri della comunità”:

Lo sciamano padroneggia gli spiriti e libera dalla loro attività i membri della comunità.
Quando manca lo sciamano, allora gli spiriti divengono liberi: poiché nessuno più li
controlla, essi cominciano ad entrare nei membri del clan e a produrre vari effetti
dannosi […]. Gli incidenti si susseguiranno agli incidenti e molte persone possono
trovare la morte. La comunità è come paralizzata, la sua esistenza è messa in pericolo.
Lo squilibrio può essere vinto – e lo è nel fatto - , se un uomo o una donna possono
riprendere il controllo degli spiriti e sciamanizzare [S. M. Širokogorov, The
Psychomental Complex of the Tungus, 1934].

Il contagio e lo sciamano come psicoterapeuta: “Il mago conferisce


dunque alla magia il carattere di un grande dramma soteriologico
collettivo”.

Al centro del mondo culturale magico, come sintesi viva di iniziativa e di tradizione, sta
il mago, che si apre al dramma esistenziale proprio del magismo, e consegue sul rischio
una vittoria che ha significarto non solo per sé ma anche per gli altri. L’angoscia, che
per gli altri può segnalare un rischio senza compenso, acquista per il mago la funzione
di uno stimolo e il significato di un problema. Il non esserci, in cui gli altri possono
smarrire la loro presenza, si riplasma nel mago in un ordine di “spiriti” identificati e
padroneggiati. Il “perdersi”, che per gli altri può essere definitivo, si trasforma per il
mago in un momento del processo che conduce alla “salvezza” [Ernesto de Martino, Il
mondo magico, p. 121].

31
Lo stregone riplasma i momenti critici dell’esserci nella coraggiosa e
drammatica decisione di porsi nel mondo. Il suo esserci come dato rischia
di dissolversi. Attraverso l’istituto della vocazione e della iniziazione, il
mago disfà questo dato per rifarlo in una seconda nascita (come evento
non più biologico, ma culturale: re-natus). La trance esprime questo esserci
che si disfà per rifarsi: “colui che ha tolto a proprio oggetto il limite della
propria presenza può anche andare oltre a questo limite”: Cristo magico,
mediatore per tutta la comunità dell’esserci nel mondo come rischio di non
esserci. Culturale: le esperienze si plasmano in tradizione, forniscono le
espressioni ideologiche e istituzionali per entro le quali si muoveranno le
nuove esperienze individuali, e in virtù delle quali riceverà unità di
svolgimento la vicenda di rischi che caratterizza il mondo magico
(racconto, mito): sistemazione della rischiosa labilità in più esistenze
psicologiche simultanee, una delle quali – quella storica – mantiene il
controllo sulle altre. a) sollevazione di realtà psichiche che sommerge la
presenza; b) la crisi si modella secondo uno schema (racconto) e accede a
un significato culturale; c) la presenza riemerge, riconosce il maligno e si
apre al dramma della nuova nascita. Un equilibrio totalmente nuovo (nuovi
cieli, nuova terra).

La fattura e la malia. Lo stregone è chiamato non soltanto a combattere la


labilità insorgente in varie congiunture della vita quotidiana, ma anche a
combattere quella suscitate intenzionalmente da altri maghi attraverso le
loro malie.

“Un altro grande motivo istituzionale della magia è dato dalla imitazione”.
Secondo Frazer, la magia imitativa deriva da false associazioni per
somiglianza, mentre la magia contagiosa deriva da false associazioni per
contiguità. Una scuola antropologica tedesca, quella di Alfred Vierkandt
[1907], pone a base della magia i “moti espressivi”, “impulsi con i quali ci
si libera dai moti del sentimento”. Gli atti imitativi non sono meramente
simbolici o analogici rispetto al risultato mirato, ma la somiglianza
dell’azione imitativa e di quella desiderata conclude in identità: nella
danza del bufalo dei dakota, per gli osservatori estranei la presenza del
bufalo rappresentata dal danzatore e la presenza effettiva del bufalo
rappresentano due fatti indipendenti (per quanto speculari, in una tensione
drammatica alla somiglianza), laddove nella coscienza del danzatore dakota
la qualità della presenza impregna il desiderio tanto da cancellare la

32
diversità: “i due processi, in virtù della pura presenza vissuta, diventano
una sola e stessa cosa”. Ha scritto Ernst Cassirer:

Dove noi scorgiamo una mera analogia, cioè un mero rapporto, il mito ha da fare con la
realtà nella sua concretezza e immediatezza, ha da fare con l’immediata presenza [Ernst
Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, II, 1925].

Critiche alle teorie suesposte: 1) la tesi associazionistica sottolinea la


finalità dell’imitazione magica (essa è azione diretta a un fine – la danza
della pioggia). Assume questo carattere come essenziale della imitazione,
ma rimuove la coinonia affettiva che si realizza. 2) La tesi psicologico-
evolutiva riduce la imitazione al motivo originario del moto espressivo, ma
in tal maniera riduce la imitazione diretta a un fine a mera sovrapposizione
ideologica a posteriori. 3) Quello che va mantenuto è a) imitazione magica
come presenza immediata e b) azione diretta a un fine. Il latah: finché c’è
imitazione passiva (ecocinesia) dello stormire delle foglie c’è fusione
affettiva del soggetto e dell’oggetto, ma finché non abbiamo la direzione
dell’imitazione verso un fine immediato, non c’è imitazione magica:
imitazione dello stormire delle foglie e dei rami per produrre il vento. La
imitazione magica è “immediata presenza, ma in atto di riscattarsi mercé
la finalità dell’azione personale”. [dialettica di presenza – esserci – e
riscatto]. Recessione della passività dell’ecopsichismo. Come fenomeno
culturale, come volontà soggettiva, come non mera subordinazione alla
dinamica del mondo naturale [Francis Bacon].

Il “quadro del dramma esistenziale magico”. 1) rischio della presenza,


presentarsi di una realtà emozionante in cospetto del quale la presenza non
si mantiene e rischia di diventare “l’oggetto emozionante”, nella “passività
dell’ecopsichismo”; 2) momenti critici dell’esistenza, una presenza che
cade in soggezione ed è “costretta” alla partecipazione. [Esempio della
catalessia, da Pierre Janet, L’automatisme psychologique]; 3) la mimesi si
riplasma in attiva e demiurgica: si tratta di imitare il fuoco per ravvivarlo,
di imitare l’animale commestibile per aumentare il pool alimentare. “tale
demiurgia sorge come riscatto di una malignità originaria”.

Il tema della forza, collegato ai temi fondamentali del dramma esistenziale


magico. Non si tratta né della forza “morale”, attributo della persona, né
della forza “fisica”, attributo delle cose. Entrambi questi concetti
presuppongono la contrapposizione della presenza al mondo, laddove
nell’ordine magico tale contrapposizione non sta come pre-supposto, ma
come problema:

33
Al pari dell’anima esterna, del padroneggiamento degli spiriti, della fattura e
dell’imitazione, la forza magica è un istituto in cui si esprime il dramma esistenziale
dell’esseerci esposto al rischio di non esserci, e che si riscatta da questo rischio […]. Il
dramma storico della magia si inizia […] con l’angosciosa esperienza di una presenza
che non riesce a mantenersi di fronte al mondo, e quindi di un rischio estremo e
definitivo, rispetto al quale tutti gli altri che sono connessi al vivere umano perdono il
loro significato e il loro rilievo. Ora è per entro quest’angosciosa esperienza che si
costituiscono le prime più semplici rappresentazioni magiche segnalatrici del rischio:
prima fra tutte quella di una influenza maligna a cui si è sottoposti, di una estraneità che
fa violenza, di una forza demoniaca che costringe l’esserci ad abdicare. La presenza,
non più mantenuta come tale, si manifesta come una tensione che minaccia di scaricarsi,
di fuggir via. D’altra parte la dissoluzione dell’esserci rappresentata e sentita come una
forza maligna indica già una resistenza: in quanto l’esserci resiste, la dissoluzione è una
forza, una malignità angosciosamente insidiatrice [Ernesto de Martino, Il mondo
magico, p. 141].

La forza magica assume un aspetto necessario: resistenza al rischio di


dissoluzione, sforzo per debellare la malignità, per rendere efficace la
misura protettiva. Per evitare che l’anima si dissolva: alla forza maligna
che tende alla dissoluzione dell’anima si oppone la forza magica delle
pietre unciniformi che la trattengono. È una concezione magica
profondamente radicata nella dimensione fisico-corporea: funzione degli
orifizi del corpo (il corpo come luogo delle finitezza e della delimitazione
dell’esserci). Ma così il rischio è fissato nella sua duplice direzione, di
fuoriuscita e di penetrazione: reintegrazione immediata della forza in via di
perdita, ma anche traduzione della forza maligna in forza benigna: gli
ornamenti degli orifizi sono custodi del deflusso della forza vitale.
Rilevantissimo è il ruolo dell’atto sessuale: le intense esperienze
emozionali legate agli organi genitali, l’orgasmo che conclude l’atto
sessuale, la coinonia che esso comporta sono assunti come rischio di
dispersione della presenza: “forme mediate di liberazione e di riscatto da un
rischio di dissoluzione della presenza a cui la particolare intensità emotiva
della sessualità dà un rilievo particolare (peccato di Onan, Gn, 38, 9. Le
accuse rivolte ancora dalla medicina del XIX secolo alla masturbazione,
cfr. Jean-Paul Aron-Roger Kempf, Le pénis et la démoralisation de
l’Occident [1978], Michel Foucault, e la sua storia della sessualità). D’altro
canto, la fissazione della forza personale in una parte specifica del corpo
costituisce una “pedagogia della presenza”, toglie l’esserci dallo stato di
diffusività illimitata e apre la via a una “centralizazione e subordinazione
unitaria”. Scriveva Heinz Werner:

Mentre originariamente ogni singola parte del corpo contiene in sé l’essenza della
persona, in fasi più elevate di sviluppo del pensiero vediamo formarsi una articolazione

34
di parti magicamente importanti e magicamente non importanti, una centralizzazione e
una subordinazione nel senso di un nocciolo e di una scorza della persona [Heinz
Werner, Einführung in die Entwicklungspsychologie, 1933].

Questa rappresentazione magica di una presenza che rischia di scaricarsi e


deve essere trattenuta è all’origine delle tematiche del “doppio”, oltre della
presenza. Con il doppio la dissoluzione viene arrestata e la presenza
riprende se stessa in una fissazione in un oggetto.

Ma il contenuto storico della forza magica non è esaurito con ciò: il rischio
della irruzione del mondo nell’io e del deflusso dell’io nel mondo implica
anche un rischio per l’oggettività del mondo. Crisi delle due sfere distinte:

[…] come la resistenza dell’esserci alla propria dissoluzione genera la rappresentazione


e la esperienza della “influenza maligna” a cui la presenza è esposta e della “forza
personale magica” attraverso cui tale influenza è combattuta e debellata, così la
resistenza dell’esserci alla dissoluzione del mondo genera in primo luogo la
rappresentazione e l’esperienza di un “oltre” pericoloso delle cose e degli eventi, di una
loro tensione o forza, di una folla di oscure possibilità che ne travaglia l’orizzonte, e in
secondo luogo la rappresentazione e l’esperienza di un ordine pragmatico, rituale, in
forza del qaule esplorare, esprimere e padroneggiare quell’oltre, arrestare il processo di
dissoluzione, decidere l’oggettività in crisi e mantenere così su un piano definito
l’ordine del mondo [Ernesto de Martino, Il mondo magico, p. 144].

La mentalità dell’Occidente parte dal presupposto che ci sia un mondo


come datum, per cui la magia si configura come scienza falsa; ma il
problema del magismo non è quello di conoscere o modificare il mondo
[linea baconiano-marxiana], ma di garantire un mondo a cui un esserci si
rende presente. “Nella magia il mondo non è ancora deciso, e la presenza è
ancora impegnata in quest’opera di decisione di sé e del mondo”.

Rischio magico di perdere l’anima/rischio magico di perdere il mondo.


Un’anima che fugge dalla sua sede, insidiata, vulnerata e
sottratta/rappresentazione di oggetti che si sottraggono ai propri limiti e
precipitano nel caos. Tutto può diventare tutto. La magia, segnalatrice del
rischio, interviene per arrestare il caos insorgente, per ricollocarlo in un
ordine. Restauratrice di orizzonti in crisi, la magia – grazie alla demiurgica
– “recupera per l’uomo il mondo che si sta perdendo”. L’oltre può
manifestarsi come persistenza dell’oggetto oltre la sua attualità sensibile:
come il melanesiano nunuai, in relazione con il niniai (doppio). Una
persistenza attenuata: “un grido mi risuona ancora nelle orecchie”
(esistenza psichica). È il caso delle esperienze eidetiche di cui parla E. R.

35
Jaensch, Der Aufbau der Wahrnehumungswelt und ihre Struktur im
Jugendalter [1923]: eidetismo visivo: il soggetto ha la capacità di
visualizzare materialmente una certa immagine, dopo averne avuta la
sensazione e dopo che lo stimolo è stato tolto. L’immagine eidetica è
vivace come la sensazione, e può mescolarsi con le sensazioni, ma al pari
della rappresentazione è soggetta alla volontà, cioè può essere modificata
secondo fantasia; l’eidetismo è normale fino ai quattordici anni. Nel caso
dei “primitivi”, l’attualmente sensibile non è ancora deciso, ma è incluso
ancora nella decisione umana. L’oggetto che non riesce a essere proiettato
come datum, viene riscattato nell’istituto dell’ “ombra”. Ma il riscatto
dell’oltre può avvenire anche grazie alla rappresentazione della sua forza,
che da esso promana e che può venire utilizzata dall’uomo. Oppure è
interpretato come una tensione pericolosa che minaccia di scaricarsi e che
va trattenuta tramite l’osservanza del tabu: divieto di modificare la forma di
oggetti: l’alterazione del loro profilo significa profanare gli oggetti (zuni);
la modificazione di un paesaggio è avvertito come turbamento del suo
equilibrio magico (loango). Il tabu dell’incesto: come modificazione del
paesaggio del pool sessuale della comunità: l’oltre di determinate qualità
riceve orizzonte nella totalità: la parte è il tutto (sineddoche); l’oltre di una
certa totalità, sia attraverso l’analogia dei caratteri sia quella degli effetti, è
fatta partecipare ad altre totalità, in un sistema di simpatie (un universo
linguistico). Il caos è vinto. Nasce un cosmo, padroneggiato dall’azione
demiurgica dell’uomo. Esempio degli huichol: identità tra il cervo e il
peyote. Quando fa giorno, le stelle sono cacciate e catturate, perciò sono
identiche al cervo; ogni prospera crescita del pool alimentare dipende da
questa caccia di stelle/cervi. In tutte le feste il cervo è il principale animale
sacrificale. Il peyote, per le sue proprietà allucinatorie, è divenuto un
oggetto interessante, quando gli huichol arrivano nella zona del pelote,
nella terra della luce (all’alba) il primo peyote viene colpito da frecce, come
un cervo. “Solo un equivoco polemico - scrive de Martino – maturato nel
corso delle lotte millenarie che la nostra civiltà ha dovuto sostenere per
distinguersi dalla magia e per determinarsi quale è, ha potuto mantenere fin
oggi l’ostinato pregiudizio che questo riscatto magico dell’oggettività in
crisi metta capo a un mondo assolutamente immaginario, contesto di idee
deliranti e di esperienze allucinatorie”:

In una civiltà come la nostra, in cui la decisione di sé e del mondo non forma più
problema culturale dominante e caratterizzante, noi siamo dati a noi stessi senza rischio
sostanziale, e gli oggetti e gli eventi del mondo si presentano alla coscienza empirica
come “dati” sottratti al dramma dell’umano produrre. Anche se noi, nella ricerca
trascendentale, recuperiamo mediatamente la trama delle condizioni a priori della
pensabilità in generale e della osservabilità sperimentale dell’esperienza, resta il fatto

36
che questa stessa ricerca di condizioni è a sua volta condizionata da un’esperienza
storica attuale in cui “presenza al mondo” e “mondo che si fa presente” sono costituiti
come dualità decisa e garantita. Ora nella magia è in causa proprio questa esperienza,
nel senso che la dualità presenza-mondo forma un problema dominante e
caratterizzante. Nella magia la presenza è ancora impegnata a raccogliersi come unità
in cospetto del mondo, a trattenersi e a limitarsi, e correlativamente il mondo non è
ancora allontanato dalla presenza, gettato davanti ad essa e ricevuto come indipendente.
In questa situazione storica, in questo dramma culturale, “presenza al mondo” e “mondo
che si fa presente” sono in continua contesa per la definizione delle reciproche frontiere,
una con tesa che implica atti di guerra, sconfitte e vittorie, come anche tregue e
compromessi. Da ciò discende una conseguenza importante. La realtà come
indipendenza del dato, come farsi presente di un mondo osservabile, come alterotà
decisa e garantita, è una formazione storica correlativa alla nostra civiltà, correlativa
cioè, alla presenza decisa e garantita che la caratterizza. Questa realtà, che potremmo
anche chiamare “naturalità”, si palesa come trovarmi dato nel mondo e come mondo che
trovo nel suo farsi presente a me, senza che questo duplice ritrovamento formi problema
culturale [Ernesto de Martino, Il mondo magico, p. 155].

Tradizioni magiche presso le popolazioni contadine; stati psicopatici:


schizofrenia, psicastenia, paranoia; circoli spiritistici.

Ed eccoci di nuovo di fronte al problema dei poteri magici reali. La realtà


paranormale non è la realtà “positiva” del naturalista: si tratta di un’altra
forma di realtà, estranea al carattere individuante della nostra civiltà, per la
quale la presenza sta garantita in un mondo di data. La nostra limitazione.
Nel ricercatore, si è operata una metànoia, contro l’ingenuità del mondo di
Wundt: in autenticità del ricercatore, diviso tra un’accettazione inquietante
e un rifiuto impossibile. Crisi radicale della boria dei dotti e del
fondamentale antistoricismo che vi è connesso. Triplicità del personaggio
nel mondo magico: a) il personaggio inserito nella storicità della nostra
cultura e che non può compiere azioni nel sogno di un altro; b) ricompreso
nel rapporto magico e che può intervenire nel sogno “reale”; c) il
personaggio “in sé” esiste in una sorta di concrezione metafisica, che
dev’essere sciolta dalla ragione storica. “Si verifica … nell’ordine
storiografico, un mutamento analogo a quello avvenuto nell’ordine della
scienza fisica: i principi della fisica classica, ritenuti dapprima assoluti,
sono stati poi riconosciuti validi solo relativamente al mondo
macroscopico”.

La buona fede dei maghi: la teoria della menzogna non fa altro che tenere
in piedi la tesi illuministica antireligiosa (Cicerone, Storia dei tre
impostori). La trama ngwel: condizione psichica dove si avverte reale la
presenza di una realtà psichica; “oltre ala realtà paranormale c’è la realtà

37
ngwel … Assunti nella trama della realtà ngwel, i nostri oggetti subiscono
una totale trasfigurazione, acquistano un significato affatto diverso e sono
ricompresi in rapporti per noi (…) insussistenti. Noi vediamo solo le
coordinate del realissimo sogno magico, e quelle coordinate giudichiamo
come se non facessero, attualmente, parte della trama ngwel, e come se
continuassero a essere oggetti e rapporti della nostra realtà storicamente
determinata”. Possibilità della frode: anche qui, la dimensione storica; in un
universo in mutazione storica, laddove la magia è in decadenza, ciò che un
tempo si poneva ome vero e proprio potere ora invece si svolge sul piano
ngwel del reale (decadenza a mero spettacolo – teatralizzazione del mondo
- ; i vari piani come luoghi di transizione). La cristianizzazione del mondo
magico (addomesticamento); nella realtà storica la stessa operazione
sviluppata da Agostino nei confronti degli dei pagani (evemerismo), ma –
si badi – Jean Seznec, La survivance des dieux antiques [1929, recensito da
Croce]. Consapevolezza degli stessi uomini del mondo magico: i tungus
ricordati da Širokogorov, Gusinde sui fuegini. La individuazione
storiografica del dramma magico come rischio di non esserci e come
riscatto da questo rischio. Corroborato dai lavori di Storch sui nessi tra
schizofrenia e mentalità mitico-magica [Die Welt der beginnenden
Schizophrenie und die arcaische Welt [1930]: nella schizofrenia si
manifesta una dissociazione della personalità e quindi la soppressione della
distinzione tra soggetto e oggetto, io e tu, io e mondo; la crisi della
presenza è avvertita come forza occulta e maligna, la crisi della oggettività
del mondo si appalesa come se le cose perdessero consistenza e venissero
meno i contorni di esse. “La catastrofe della propria presenza è avvertita
come una catastrofe cosmica [cfr. Ernesto de Martino, La fine del mondo]:
il rischio estremo della condizione schizofrenica (precipitare delle stelle,
frantumazione del sistema planetario, perché il mio corpo è così lacerato)
è la polarizzazione tra 1) la passività della condizione catalettica e 2)
l’insorgenza caotica di impulsi incontrollati. In 1), qualsiasi atteggiamento
imposto all’infermo, viene mantenuto: automatismo imitativo o speculare;
donde 2) il malato sbarra la sua volontà, non si concede al mondo – lo
“stupore catatonico”:

La presenza cerca di salvarsi sottraendosi drammaticamente a tutti gli stimoli,


imponendo un vero generale a tutti gli atti. Ogni invito all’azione è una insidia alla
presenza: attraverso ogni atto l’esserci fugge via, è rubato, entre in crisi. Ingerendo il
cibo penetrano influenze maligne, defecando o urinando esce, con le feci o con l’urina,
la forza della presenza, ecc. Pertanto, nello stupore catatonico e nel negativismo che lo
accompagna, la volontà si sbarra: onde la immobilità statuaria, la ritenzione delle feci e
dell’urina, il mutacismo, la sitofobia. E tuttavia attraverso questa muraglia della volontà

38
sbarrata può da un momento all’altro aprirsi una breccia la folla degli impulsi
incontrollati [Ernesto de Martino, Il mondo magico, p. 178].

Irruzione della magia, come evidenziato da Heinz Werner:

L’irrompere del mondo ambientale nell’io, il defluire dell’io nel mondo ambientale
provocano un’immagine demoniaca del mondo, in cospetto della quale l’unica
possibile salvezza è data dalla demonia dell’io e dalla magia delle sue operazioni [Heinz
Werner, Einführung in die Entwicklungspsychologie, 1933].

“Il magismo come epoca storica appartiene … alla fisiologia della vita
spirituale”, laddove la schizofrenia investe un dramma individuale che resta
privato, “non si inserisce organicamente nella vita culturale”. “Nel mondo
magico la salvezza si compie per uno sforzo che non è monadistico …, ma
è dell’individuo in quanto partecipe di un dramma culturale, a carattere
pubblico”. La tesi che le psicosi siano ripetizione di un’età arcaica dello
sviluppo psichico fu avanzata nel 1831 da Carl Gustav Carus, nelle sue
Vorlesungen über Psychologie, e ripresa alla fine del XIX secolo da
Eugenio Tanzi: la mentalità delirante propria in assoluto dell’uomo
primitivo, può riprodursi nell’uomo moderno come “sopravvivenza
arcaica” [cfr. Euclydes da Cunha, Os sertões e l’immagine di António
Conselheiro]. Ma Morselli osservava come l’uomo malato non è lo stesso
dell’uomo preistorico o dell’infante, perché in mezzo c’è “tutto il decorso
storico dello sviluppo umano”. Tuttavia valgono le osservazioni degli
etnologi sul campo, per tutti Širokogorov:

I Tungusi sono impegnati, nella loro attività quotidiana, con numerosissime situazioni
psichiche superficialmente considerate dagli osservatori come patologiche o come follia
vera e propria, e che in realtà non lo sono. Un gran numero di questi casi non
rappresenta altro che un diverso fenomeno etnografico, sconosciuto nell’ambito del
gruppo etnico di cui l’osservatore fa parte [S. M. Širokogorov, The Psychomental
Complex of the Tungus, 1935].

La psicopatologia astrae dalla storicità nella quale, invece, bagna il


fenomeno magico, la dialettica drammatica tra presenza nel mondo e
riscatto-rischio. Quindi a) si tronca il rapporto con la situazione storica
concreta in cui si muove il malato e b) si valuta in maniera astratta il
contesto storico-culturale in cui opera il mondo magico. Valore meramente
euristico della comparazione: discorso delle forme: “tutto il sistema di
compensi liberatori attraverso i quali lo psicastenico cerca di riscattarsi
dalla sua angoscia esistenziale ci richiama alla memoria il sistema di
guarentige attraverso le quali la presenza magica si salva dal suo rischio”.

39
Il malato moderno non riesce a reinventare tutto il mondo culturale
necessario per vincere il rischio. Di qui, il tragico della sua inanità.

L’autonomia della persona come tratto distintivo della civiltà occidentale:


dalla Repubblica di Platone, X: “Non è il demone che vi salva, ma sarete
voi a scegliere in vostro demone … La colpa è di colui che sceglie: il dio è
incolpevole”. È con il cristianesimo comunque che si avvia il grande
processo culturale costituito dalla scoperta della persona: Mt, 12, 8: “Il
figlio dell’uomo è padrone del sabato”. “Un’altra epoca, un mondo storico
diverso dal nostro, il mondo magico, furono impegnati … nello sforzo di
fondare la individualità, l’esserci nel mondo, la presenza, onde ciò che per
noi è un dato o un fatto, in quell’epoca, in quell’età storica, stava come
compito e maturava come risultato”. Così de Martino. Problemi della
lettura storicistica integrale: le categorie storiografiche impegnate nel
giudizio storico per comprendere le formazioni storiche della nostra civiltà
si rivelano inadeguate per entro il mondo magico. Donde l’immagine
meramente negativa di esso mondo magico, “da cui ci si spoglia nel
processo della ragione”. Non c’è storia del mondo magico? Del negativo
non si dà storia. Così Adolfo Omodeo [1941]: “ a rigore di logica la storia
del magismo non esiste, perché la storia si può fare del positivo e non del
negativo: il magismo è una potenza di cui ci si spoglia nel processo della
ragione, appunto perché si rivela inadeguata, e non creativa”.
Rudimentalità delle forme dello spirito nel mondo magico (Carlo Antoni,
1941) e suo essere ostacolo al progresso (René Allier, Le non civilisé et
nous. Différence irréductible ou identité foncière, 1927). Ma diverso è
l’obiettivo fondamentale del mondo magico: non la realizzazione delle
forme particolari della vita spirituale, bensì la conquista e il
consolidamento dell’esserci elementare. “Difetto di volontà di storia” =
aspetto del mondo magico sottoposto alla categoria del divenire. Anche le
quattro forme crociane rappresentano “il momento metodologico di una
esperienza storiografica limitata alla civiltà occidentale”, a un umanesimo
circoscritto. “In tal guisa un difetto di umanità della coscienza
storiografica, un suo limite interno, viene ipostatizzato nel magico: invede
di scoprire il lato negativo di un pensiero che non riesce a comprendere, si
considera come negativo, come non dotato di vera realtà storiografica,
l’oggetto incompreso”. Quale allora l’obiettivo del lavoro di de Martino?
“Il ritorno al magico restituisce … alla linfa storicistica quella libertà di
movimento che la pigrizia metafisica e la facile retorica congiunta alla
prosopopea dello Spirito rischiano di compromettere. Mercé questo ritorno
rialziamo a potenza di voce chiara e distinta la fievole eco di antiche lotte
umane che avevano smarrito, per noi, il loro esatto significato”. [Sud e

40
magia, La terra del rimorso]. Il vichismo “radicale” di de Martino. La
risposta di Croce :

[…] noterò un unico punto nel quale dissento da lui, che è quello in cui si afferma che le
categorie speculative che ora reggono l’interpretazione storica sono correlative all’età
della “mente tutta spiegata” o della civiltà o della “civiltà occidentale”, ma non si
applicano alle età primitive; venendosi così a negare la perpetuità delle categorie con lo
storicizzarle, laddove storicizzare non si può se non in virtù di quell’aristotelico “motore
immoto” che sono le categorie. C’è qui una svista o scambio delle “categorie” coi
“fatti” storici, che esse generano e cangiano e svolgono informandoli tutti di sé e
rendendoli solo mercè di esse intelligibili; né altrimenti che per la loro perpetuità o
costanza il de Martino ha potuto schiarire il fatto storico del magismo [Benedetto Croce,
recensione a Il mondo magico, in “Quaderni della Critica”, 1948].

Per contro, si veda quanto aveva scritto de Martino:

La radice di tale mondo storico affonda in una esperienza fondamentale: la presenza in


rischio, che insorge a difesa della insidia che la travaglia. La presenza non resiste allo
sforzo di esserci: fugge, si scarica, è sottoposta a influenze maligne, è rubata, è
mangiata, e simili. Fugge e si scarica per le aperture del corpo, è rubata nelle
peregrinazioni solitarie, è attratta dal cadavere, cade in soggezione per l’apparizione di
qualche evento nuovo, emozionante, che rompe l’abitudine, che attrae comunque
l’attenzione. In date circostanze, la perdita di orizzonte della presenza si spinge sino al
punto che si diventa una eco del mondo, ovvero un posseduto, in preda a impulsi
incontrollati. Vi è un oltre rischioso della presenza, un angoscioso travaglio del suo
orizzonte condendo: e, correlativamente, anche il mondo entra continuamente in crisi di
orizzonte, e trapassa continuamente nell’oltre angosciante. Al limite, ogni rapporto della
presenza col mondo diventa un rischio, una caduta di orizzonte, un non mantenersi, un
abdicare senza compenso: qualcosa di simile alla situazione che costringe lo
schizofrenico alla immobilità statuaria dello stupore catatonico, cioè alla volontà
sbarrata, spasmodicamente chiusa all’insidia del mondo. La magia risale questa china e
si oppone risolutamente al processo dissolvitore. Essa mette capo a una serie di istituti
attraverso i quali il rischio è segnalato e combattuto. Un sistema di compensi, di
compromessi, di guarentige sorgono a rendere possibile, in forme più o meno mediagte,
il riscatto della presenza. In virtù di questa plasmazione culturale, di questa creazione di
istituti, il dramma esistenziale di ciascuno non resta isolato, irrelartivo, ma si inserisce
nella tradizione e si avvale delle esperienze che la tradizione conserva e tramanda. La
presenza che fugge è agganciata, è trattenuta: mercè l’istituto dell’alter ego essa
riprende drammaticamente se stessa nel compromesso dell’oggetto associato nel destino
personale. Il morto che succhia l’anima è separato, allontanato, fissato, consolidato. La
presenza si concede all’azione, ma muovendosi tra una fitta rete di domini interdetti o
accessibili a condizioni determinate. I momenti critici dell’esistenza connessi con il
lungo peregrinare, con la solitudine, la notte, ecc., sono riplasmati in orizzonti definiti
con i quali la presenza entra in rapporti regolati. Il mondo è rialzato dalla sua caduta
mercè il novus ordo delle partecipazioni. Le aperture del corpo sono vigilate, e la forza
che ne esce è padroneggiata, controllata, diretta, convertendosi in mezzo di potenza.
Eppure tutti questi temi del riscatto magico, e gli altri infiniti di cui consta la magia,

41
sarebbero stati ancora poca cosa se non fosse sorto l’eroe della presenza, il Cristo
magico, cioè lo stregone. Attraverso lo stregone il rischio della labilità viene
deliberatamente riassorbito nella demiurgica umana, diventa un momento del dramma
culturale. E attraverso lo stregone tutta la comunità si apre con rinnovata intensità al
dramma del rischio e del riscatto [Ernesto de Martino, Il mondo magico, pp. 195-196].

Dopo aver rivendicato allo studio del magismo una sua posizione per entro
l’orizzonte dello storicismo vichiano-crociano (tendenza del vichismo di de
Martino, rispetto alla sistemazione crociana), e aver riscattato questa
regione del sapere dal predominio delle filosofie positivistiche e della
psicologia, de Martino procede a una ricognizione del ruolo del magismo
nella disciplina etnologica, in un rapporto dialettico tra le acquisizioni della
disciplina etnologica e le fondazioni concettuali dello storicismo: “Non sarà
mai tenuta abbastanza presente l’importante avvertenza metodologica che
l’arcaico … si dichiara alla ragione storica non soltanto mercé un continuo
rapporto con le sue forme storiche … ma altresì mercé un continuo
rapporto con noi stessi, con l’orientamento del nostro sapere”. Questo
compito, per lo storiografo, assume un rilievo superiore al lavoro sul
campo e alla analisi dei documenti: “il problema decisivo per lo storiografo
non è tanto il leggere o il vedere o l’udire, quanto piuttosto il saper leggere,
il saper vedere, il saper udire”. L’approccio attraverso la scienza
etnologica permette di cogliere la reazione della nostra Einstellung di
fronte allo scandalo dei poteri magici. Un “esperimento mentale”.
“La storia dell’atteggiamento della etnologia di fronte al problema dei
poteri magici si risolve in gran parte nella storia dei rapporti tra etnologia e
psicologia paranormale”, storia che ha inizio con l’opera di Edward Burnett
Tylor, Primitive Culture. Researches into the Development of Mythology,
Philosophy, Religion, Language, Art and Custom [1871]. Rapporto con lo
spiritismo, su cui, nello stesso 1871, erano uscite le Experimental
Investigations on the Psychic Forces di Crookes. Tylor muove da una
dichiarazione di intenti metodologici: distinguere il dominio della scienza
da quello della fede, e in tale direzione, giungere “a separare … i fatti mal
conosciuti e spiegabili scientificamente da ciò che è pura illusione,
superstizione e soperchieria”. Ma questo proposito non venne mantenuto
fino in fondo, giacché Tylor trascorreva a considerare “subiettiva” e
“superstiziosa” l’ideologia magica e animistica dei selvaggi, alla quale
apparentava la ideologia spiritistica dei moderni. Lungo questa prospettiva
(ci appare sconcertante ciò che, pur avendo una spiegazione scientifica, non
la vede proposta per l’inadeguatezza delle nostre attuali conoscenze, quindi
in futuro diventerà tranquillo oggetto di scienza), Tylor riduceva i
procedimenti magici a fenomeni che si basavano su “associazioni subiettive

42
di idee scambiate per relazioni obiettive”. Il fondatore della disciplina
antropologica è uomo di parte, che intende denunciare la genesi delle idee
superstiziose e liberare l’umanità dal loro dominio oscurantista: in tal senso
procede a svalutare il magismo-spiritismo moderno riconoscendone la culla
barbarica e selvaggia: “una reviviscenza di forme ideologiche appartenenti
per la maggior parte alla filosofia delle età primitive e alle tradizioni
folcloristiche”.

L’etnologia ufficiale doveva assumere come propria coordinata la


posizione di Tylor; ma uno sviluppo della disciplina doveva venire
dall’intervento della psicologia. Così alla fine del XIX secolo usciva The
Making of Religion di Andrew Lang: la posizione di Lang era quella di un
avversario dell’evoluzionismo e del materialismo che occupavano il
pensiero scientifico del periodo: a) scoperta della origine autoctona degli
“esseri supremi” dei primitivi; b) segnalazione di fatti paranormali che
potevano porsi a origine delle credenze animistiche e spiritistiche. Con a) si
voleva dimostrare l’inconsistenza del dogma evoluzionistico; con b),
stabilire una genesi della religione “da fatti che forse non si accordano col
materialismo nella sua presente forma dogmatica”. Critica a Huxley,
Spencer e allo scientismo positivista:

Il Tylor, come gli altri antropologi, quali l’Huxley e lo Spencer, e i loro seguaci e
volgarizzatori, costruiscono, su fondamenti etnologici, una teoria sulla origine della
religione. Tale origine è spiegata dall’etnologia come risultato di primitivi e fallaci
ragionamenti su un certo numero di fatti biologici e psicologici, sia normali, sia (per
quel che affermano i primitivi) supernormali. Questi ragionamenti condussero alla
creenza nelle anime e negli spiriti. Ora […] se i fenomeni supernormali
(chiaroveggenza, telepatia, fantasmi di morti e di moribondi, ecc.) sono effettiva materia
di esperienza, le illazioni che da tale esperienza trae la filosofia primitiva possono essere
in certa misura erronee. Ma le illazioni tratte dai materialisti che respingono i fenomeni
supernormali saranno alla loro volta – ci sia contentito il dirlo – forse incomplete
[Andrew Lang, The Making of Religion, 1900].

Quindi, come etnologo, Lang pone in evidenza il valore della prova


etnologica a favore della credenza dei primitivi nei fenomeni paranormali;
come psicologo, rivendica il valore della prova parapsicologica a favore
della realtà di tali fenomeni. Coniugando i due ambiti disciplinari, infine, la
uniformità etnologica della fenomenologia paranormale e la sua
concordanza con la corrispondente fenomenologia colta ci vietano di
ridurci alla constatazione di una mera analogia ideologica.

43
“la considerazione naturalistica dei fatti paranormali … rischia di trasferire
nei ‘primitivi’ il nostro atteggiamento di ‘osservatori’ … dimenticando …
che le condizioni culturali che rendono possibile il loro prodursi sono
storicamente estranee all’atteggiamento naturalistico”. Atteggiamento della
scienza, l’attacco di Clodd [1895] contro la “Society for Psychical
Research”:

Analizzata alla luce meridiana dell’etnologia [la psicologia paranormale], appare essere
soltanto il reduplicato della filosofia spiritistica barbarica […] Essa traveste l’antico
animiamo sotto certe vaghe e altisonanti frasi, come la “coscienza subliminale”, la
“energia telepatica”, la “immortalità del principio psichico”, la “temporanea
materializzazione dei supposti spiriti” e simili [Clodd, in “Folk-Lore”, 1895].

Si ricorda la credenza nello spiritismo di Arthur Conan Doyle. Frattanto,


Otto Stoll elaborava la Völkerpsychologie. Senza dare credito alla
psicologia paranormale, che si confonde con lo spiritismo, la teosofia,
riduce il tutto alla categoria di “suggestione”, che produrrebbe fenomeni
così variati come licantropia, fattura, terapia magica, ordalia, apparizioni.
Così segnalava Wilhelm Wundt, in Völkerpsychologie:

Il nemico perforato in effigie patisce danno non simbolicamente ma in realtà, anche se


la freccia con cui la sua immagine è trafitta non può colpire il suo corpo reale. Ma la
trafittua colpisce però la sua anima, e pertanto mediante questa può arrecare malattia e
morte al suo corpo. A giusta ragione è stato qui messo in rilievo che la suggestione
sostiene una parte molto importante nella diffusione di rappresentazioni di questo tipo.
Essa può contribuire al consolidamento di ogni sorta di credenze magiche, in quanto la
ferma convinzione di essere affatturato può alla fine far ammalare e paralizzare la
resistenza contro il pericolo, producendo quindi in tal modo realmente gli effetti a cui
mira la fattura [Wilhelm Wundt, Völkerpsychologie, 1910].

Wundt tuttavia spinge la regione dell’indagine psicologica nel profondo e


nell’intimo. Una posizione più articolata quella di J. W. Hauer [1923], che
muove dalla considerazione del fatto religioso e dalla dimensione di vissuto
esistenziale: necessità di penetrare l’Erlebnis religioso e di affrontare la
Wahrheitsfrage dell’esperienza del soprannaturale: secondo la sua analisi,
la ricerca etnologica e storico-religiosa ha

raccolto con zelo esemplare un materiale illimitato, ed ha fornito con mirabile sagacia
classificazioni della magia: tuttavia difficilmente si troverà uno studioso che abbia
diretto la sua attenzione su quel che effettivamente è vissuto e sperimentato nel corso di
queste azioni magiche. Eppure è proprio questo il problema più importante e
fondamentale, poiché è il problema della interna realtà di tutto questo complesso di
azioni straordinarie. Troppo leggermente sono state considerate come illusorie le forme

44
magiche e le credenze che ne costituiscono il fondamento, e pertanto non è stato posto
in generale il problema della verità: neppure una volta almeno ci si è posto seriamente il
problema della realtà delle affermate esperienze. Ora è d’uopo che questa situazione
muti se la ricerca storico-religiosa ha da considerare non solo le forme, ma anche la
fluente vita della evoluzione religiosa [J. W. Hauer, Die Religionen, ihr Werden, ihr
Sinn, ihre Wahrheit, 1923].

Lo Hauer non parlava alla ragione storica e si affidava al sentimento onde


penetrare il mistero delle esperienze arcaiche e riprovare il brivido del
“numinoso” (Rudolf Otto).

Ci siamo spinti fino alle dimensioni della storia e della filosofia delle
religioni, muovendo dalle sistemazioni positivistiche . Ora si tratta di
esaminare l’atteggiamento di alcuni filosofi moderni e contemporanei
rispetto alla questione della magia. Si intende dire di Georg Wilhelm
Friedrich Hegel e di Ernst Cassirer: in polemica con la sensibilità
romantica, che coltiva le dimensioni oniriche e estatiche, che conducono
alle “verità superiori” e alla “elevazione dello spirito”; a queste posizioni
Hegel replicava:

Con questa sfera della mediazione, si apre nella magias l’immensa porta della
superstizione. Tutto diviene possibile, tutte le particolarità dell’esistenza divengono
significative; poiché ogni circostanza ha delle conseguenze e degli scopi; ognuna media
ed è mediata. Tutto domina ed è dominato [Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni
sulla filosofia della religione, 1832].

Ma Hegel si muove non solo contro il vagheggiamento romantico, bensì


ancora, contro gli “uomini di buon senso”. La comprensione del mondo
magico è possibile come estensione approfondimento della critica al
dogmatismo realistico. Eppure, rileva de Martino, in Hegel si fa valere
ancora la “limitazione tradizionale”, laddove le attitudini paranormali sono
ricondotte al “mero simpatetismo”. Il testo ricordato delle Lezioni sulla
filosofia della religione ritornerà nella Filosofia delle forme simboliche di
Ernst Cassirer (un’opera nota allo stesso de Martino): il confine tra l’io e la
realtà non è fissato una volta per tutte, e ognuna delle forme simboliche
pone il confine in modo diverso. Per il mito – che parte da se medesimo per
formare un concetto di io o di anima e un concetto di mondo dell’accadere
oggettivo – l’anima è un elemento fluido e plasmabile, inizio e fine del
pensiero mitico. Il nucleo dal quale prende avvio l’organizzazione
spirituale della realtà non è il conoscere, ma l’agire: e l’azione è al centro
della visione magica del mondo, la magia è satura di azione. Con il

45
desiderio, l’uomo si afferma, contrapponendosi alle cose e se ne dichiara
indipendente. Nel tentativo di dominare le cose e piegarle a sé, l’Io si rivela
dominato e posseduto dalle cose e la facoltà dell’Io vengono proiettate
all’esterno (alienazione, Entäusserung): le parole e il linguaggio si
configurano come essenze demoniache. Quando l’uomo va ad agire sulle
cose con strumenti e non con parole, incontra una crisi: l’uso degli
strumenti fa sì che l’agire sia subordinato a condizioni oggettive e quindi il
mondo esterno acquista un’esistenza determinata (Gegenstand, dato). Gli
oggetti si contrappongono al desiderio.

Per de Martino, sfugge a Hegel la grande battaglia di libertà che il mondo


magico combatte, “la cultura e la umanità che esso viene fondando”.
Quello che al pensiero hegeliano appare una indiscriminata coinonia (testo
precedente), è il “dramma di una presenza esposta al rischio di non esserci
… una situazione esistenziale storicamente determinata, da cui rampollano
forme di realtà che sono estranee a una situazione storica in cui la presenza
sia garantita in cospetto di un mondo allontanato e ricevuto come dato”. In
fondo, de Martino, pur accettando le sfalsature di livelli di civiltà, tenta di
comporre queste sfalsature in una storia veramente contemporanea
dell’umanità, una umanità che unitariamente si pone un compito epocale:
“la lotta moderna contro ogni forma di alienazione dei prodotti del lavoro
umano presuppone come condizione storica l’umana fatica per salvare la
base elementare di questa lotta, la presenza che sta garantita nel mondo”.

C’è uno spazio culturale che nell’analisi di de Martino compare solo


parzialmente: si intende dire del mondo magico dell’America meridionale,
che è presente sostanzialmente nelle relazioni degli antropologi. Laddove
quanto qui ci interessa è la funzione di laboratorio che questo immenso
spazio fisico-antropico-culturale riveste, giacché se lo esaminiamo,
possiamo cogliere a) il patrimonio di credenze – anche nel loro costituirsi
in concomitanza con l’impatto con il mondo europeo; b) la trasformazione
dell’ambiente in cui queste credenze si vengono mantenendo, cioè la
transizione dalla realtà rurale alla dimensione urbana, bene spesso
ipertrofica; c) l’adattamento che il mondo magico sviluppa per mantenersi
nella nuova realtà. Per de Martino, poiché il mondo magico, in una visione
storicistica, veniva riscattato come mondo umano, ma per altro verso
confinato in una dimensione irrimediabilmente arretrata (mondo dei vinti),
ecco che questa dimensione veniva trascurata, non percepita, per quanto già

46
fossero emersi studi che sottolineavano questa nuova dimensione: si
intende dire di Nina Rodrigues, Os Africanos no Brasil [1906] e di Donald
Pierson, Negroes in Brazil [1942].

Prendiamo l’esempio di un fenomeno religioso-mitologico brasiliano:


l’Umbanda, che sorge attorno agli anni 1920 e si sviluppa ancora oggi in
Rio de Janeiro: alle origini della religione umbanda sono due tradizioni: a)
il kardecismo, b) la macumba. La dinamica sociale che possiamo
individuare immediatamente è la seguente: il kardecismo – per entro una
popolazione urbana – si stabilisce in settori medioborghesi e professionisti,
laddove la macumba è riservata agli strati inferiori della società. Il
fenomeno umbanda si caratterizzerà non soltanto in sincretismo culturale,
ma anche sociale, in quanto rappresenta il veicolo di una diffusione e di
un’ascesa della religione popolare.

Nel 1855, Léon Rivail, maestro di scuola parigino, cominciò a ricevere


messaggi da uno spirito, che pretendeva di essere un druido di nome Allan
Kardec. Le comunicazioni dovevano durare una quindicina di anni e
concludere nella stesura di una serie di volumi, a partire dal Livre des
Esprits [1855], cui seguivano Le livre des médiums [1861], Il Vangelo
secondo lo spiritismo [1864], Il Cielo e l’Inferno [1865] e Il Genesi [1868].
Le Livre des Esprits perveniva in Brasile nel 1857, e le opere di Kardec
dovevano venire tradotte nel giro di un trentennio. Rio de Janeiro divenne
la capitale del kardecismo in Brasile. Nel 1950, un censimento religioso
indicava nei centri più densamente urbanizzati (São Paulo e Rio de Janeiro)
la concentrazione del 26% degli spiritisti brasiliani; ma alla fine degli anni
1960, analoghi censimenti indicano una tendenza al declino del
kardecismo, a favore della religione umbanda.

Nella “filosofia” kardecista confluiscono gran parte delle movenze della


filosofia francese del XIX secolo: la credenza nella comunicazione tra
spiriti disincarnati e i viventi si inquadra nella Weltanschauung positivista
di Auguste Comte ed evoluzionista, insieme a elementi della tradizione
hindu e della legge del karma. Né mancano aspetti dell’etica cristiana. Il
comtismo forniva una struttura razionalistica e scientistica, giacché Kardec
vedeva lo studio dei fenomeni spirituali come un’estensione degli studi
scientifici di curvatura positivistica: i fenomeni spirituali erano fatti che si
potevano apprendere con i sensi e sottoporre a prove empiriche: lo
spiritismo è presentato come una scienza, poiché procede esattamente nella
stessa maniera della scienza positiva, con l’applicazione del metodo
sperimentale a questioni metafisiche. Kardec aveva asserito: “nello

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spiritismo non vi sono misteri, solo una fede razionale che si fonda sui
fatti, tende alla illuminazione e si muove verso la chiarezza”. In Brasile,
tuttavia, il kardecismo doveva assumere curvature più nettamente mistiche,
mentre assumevano rilevanza gli aspetti ritualistici, che Kardec aveva
minimizzato, puntando sulla dimensione dottrinaria della sua religione,
aspetti ritualistici volti ad assicurare la salute spirituale. La carità, un
precetto meramente morale nel kardecismo europeo, doveva diventare una
tendenza umanitaria volta ad assicurare anche l’assistenza materiale ai
bisognosi. Alla fine del XIX secolo il kardecismo si organizzava nella
“Federação Espírita Brasileira”, assai potente. Se il positivismo può essere
indicato come scaturigine della curvatura razionalistica e scientistica del
kardecismo, al cattolicesimo brasiliano va ascritta la responsabilità del
misticismo spiritista. Il cattolicesimo “popolare” si caratterizza per una
ridotta attenzione ai fatti dottrinali ed etici, con una vigorosa sottolineatura
della dimensione del rituale e delle credenze pertinenti al culto e alla
propiziazione dei santi, intesi come entità benevole e miracolose. Il rituale
è rivolto ai santi per piegarli alle richieste dei loro devoti in occasione di
crisi o di difficoltà. Malattia, infelicità e malasorte risultano
dall’atteggiamento dei santi, dispiaciuti del comportamento del fedele. La
tensione escatologica (individuale) del cristianesimo viene invece
subordinata a fini terapeutici, in coerenza con quanto sviluppato dal
kardecismo. (Posizione difficile della chiesa cattolica in Brasile: molti
kardecisti sono cattolici e non vedono contraddizione tra le due fedi). Ma, a
differenza del cattolicesimo “popolare” – in cui malattia, sofferenza e
difficoltà sono ascrivibili a cause remote e spesso sovrannaturali – nel
kardecismo questi stati di sofferenza vengono ascritte alle vite passate
dell’individuo o all’azione di spiriti “sofferenti” o “ignoranti” che vagano
in un limbo prossimo alla terra e che possono ritornare per perturbarne gli
abitanti. Ma il concetto di “evoluzione” introduce nel kardecismo molte
idee aliene al cristianesimo: l’evoluzione si riferisce a uno stato di
progresso morale e intellettuale degli individui, dalla ignoranza
all’illuminazione, raggiunta grazie allo studio della dottrina kardecista: uno
spirito può essere considerato evoluido, oppure essere baixo, sem luz o
ignorante. Le incarnazioni forniscono allo spirito la possibilità di cogliere
opportunità di procedere nel progresso spirituale attraverso lo studio e la
realizzazione di buone opere. In ciò possiamo cogliere aspetti della dottrina
del karma: ogni azione ha le sue inevitabili conseguenze, e una vita degna
conduce alla reincarnazione in una forma umana assai più evoluta, mentre
una vita inutile o immorale rallenta il processo e richiede espiazione. Gli
spiriti che sono passati oltre lo stadio di reincarnazione in vite terrene
proseguono la loro ascesa ritornando sulla terra per possedere i corpi di

48
medium particolarmente dotati e per fornire istruzione morale e salute
spirituale a quanti seguono i rituali kardecisti.

Le entità spirituali che abitano il kosmos kardecista comprendono a) figure


eccezionali del passato, b) personaggi minori della storia umana, c) spiriti
dagli spazi astrali, d) spiriti di morti recenti, tra cui parenti e amici dei
viventi. Un pantheon ordinato gerarchicamente. Tra i più distinti spiriti si
annoverano Confucio, Giovanni Battista, Abraham Lincoln e Getúlio
Vargas; gli spiriti sono altresì ordinati secondo il concetto evoluzionista
ottocentesco delle culture: Cinesi, Egizi, Aztechi e Inka sono rappresentanti
di “alte” culture, mentre di basso rango sono gli spiriti di africani e índios
brasiliani.

I rituali kardecisti (sessões) hanno luogo più volte la settimana, di sera.


Medium particolarmente addestrati siedono attorno a una tavola per essere
posseduti da vari spiriti che discendono dagli spazi astrali per comunicare
ai fedeli-astanti attraverso questi medium; i fedeli siedono in un’area
definita. Gli spiriti comunicano i loro messaggi con passes (movimenti
delle mani) o con vibrações, procedimenti terapeutici derivati dal
mesmerismo e volti a condurre fluidi benefici nell’individuo e a espellerne
le forze negative. Gli spiriti inoltre forniscono istruzioni morali ai mortali e
agli spiriti sofferenti (espíritus sofredores) - che per la loro ignoranza
potrebbero causare danni ai mortali.

Una netta composizione razziale del kardecismo: rigide frontiere tra i


kardecisti e quelle altre figure religiose che hanno accolto le influenze afro-
brasiliane, che alla fine del XIX secolo venivano raggruppate nel cosiddetto
baixo espiritismo. Lo stesso atteggiamento ritroviamo nei confronti della
religione umbanda. La religione degli africani e degli índios viene
qualificata come priva di cultura, generatrice di atteggiamenti bene spesso
violenti; l’umbanda viene qualificata come animistica e folkloristica,
“religioni inferiori che operano con spiriti inferiori” [Cândido Procôpio
Ferreira de Camargo, Kardecismo e Umbanda, 1961].

La caridade è una pietra angolare della costruzione kardecista: nel rituale


assume la figura del passe (imposizione delle mani), come una pulizia
spirituale; i centri della “Federação Espírita Brasileira” di Rio vengono
descritti come “banche della caridade”, dove masse di malati e tormentati
ricevono gratuitamente consulti e cure spirituali. Il centro della FEB di São
Paulo, negli anni 1950, forniva tali servizi a 10.000 persone la settimana. I
curandeiros sono medium che hanno raggiunto fama nazionale e

49
internazionale: tra questi si ricorda José Arigó, un funzionario statale di
basso rango che, sotto la guida spirituale di un ipotetico medico tedesco del
XIX secolo, Doktor Fritz, operava agli occhi con coltelli da tavola e
restituiva la vista ai ciechi: centri ex-voto in Congonhas, Minas Gerais. Alla
fine del XIX secolo, la caridade kardecista aveva assunto proporzioni
rilevanti e aveva sviluppato servizi medici e di benessere, non immemori
delle forme di intervento della chiesa cattolica. Inoltre, i kardecisti hanno
assunto le dottrine e le pratiche omeopatiche introdotte in Brasile alla fine
dell’Ottocento, e già negli anni 1840 avevano aperto cliniche per la cura dei
poveri, in nome di “Dio, Cristo e Carità”. Oggi forniscono gratuitamente –
sostenuti da contributi di membri e dall’azione di volontari – cure mediche,
dentali e psichiatriche.

Lungo la seconda parte del XIX secolo il kardecismo in Brasile ha


acquisito settori di classe media e professionisti. Lungo questa prospettiva,
cominciava a entrare in frizione con la chiesa cattolica, che lo vedeva come
eresia. Come protestantesimo, massoneria, positivismo e repubblicanesimo.
Il kardecismo può essere visto come parte di un più ampio fenomeno
sociale di emergenza ed espansione di nuovi gruppi sociali urbani.
Ritorniamo ai rapporti con il positivismo: come ha sottolineato Diana
DeGroat Brown nel 1986, “l’infusione delle idee positiviste dominanti nei
settori dominanti della popolazione gettò le basi per l’accoglimento della
cosmologia e della filosofia kardeciste, mentre il kardecismo funzionò
come veicolo per introdurre una versione popolare dell’ideologia
positivista per entro una gamma più ampia di settori delle classi medie”.

Nel 1904 il giornalista Paulo Barreto, con lo pseudonimo di João do Rio,


pubblicava su un quotidiano di Rio de Janeiro una indagine (As religiões
do Rio )dove si trattava anche della “macumba”: un fenomeno su cui
esistono pochi documenti e sparsi, tra i quali rapporti di polizia e sentenze
di tribunali. A differenza del kardecismo, le religioni afro-brasiliane
coinvolgono settori sociali non alfabetizzati, popolari e bassi, ma traggono
origine da una remota tradizione orale. La vitalità delle religioni afro-
brasiliane nel XX secolo può essere interpretata solo alla luce delle
condizioni degli schiavi brasiliani: desiderio di conservare le forme
tradizionali di culto, resistenza alla religione dei dominatori. A differenza
dei livelli di schiavitù degli Stati Uniti, dove l’importazione massiccia
diede ben presto luogo a una numerosa massa schiavizzata (afro-
americani), in Brasile l’importazione di schiavi durò fino al 1851, quando
la schiavitù venne soppressa. Dal 1530 al 1850 entrarono dai tre ai cinque

50
milioni di africani, negli ultimi venti anni mezzo milione. Migliaia di
africani all’anno venivano introdotti in Brasile e rappresentavano una
sempre fresca infusione di culture e di pratiche religiose africane. Quindi
una continuità di queste conoscenze tra le componenti del mondo afro-
brasiliano. Le popolazioni africane erano concentrate nelle grandi città
della costa, Rio, Recife, Salvador, Porto Alegre. Questo insediamento
urbano consentiva alle genti africane a) libertà di movimento e b)
disponibilità di tempo rispetto alle condizioni delle piantagioni dell’interno.
La chiesa cattolica contribuì a mantenere vive la tradizioni africane, per
una contraddizione: sebbene ci fosse il desiderio di convertire i nuovi
arrivati, la crescente perdita di influenza e potere della chiesa durante il
XIX secolo (repubblicanesimo e positivismo) ne ridusse le possibilità. Nei
principali centri urbani la chiesa operò attraverso le irmandades
(confraternite) che adempivano a funzioni di aggregazione sociale e di
mutuo soccorso. Poiché le irmandades funzionavano lungo una distinzione
non meramente sociale, ma anche etnica (nações), valsero a mantenere le
distinzioni originarie tra i gruppi etnici di origine africana: l’accesso della
chiesa cattolica al mondo africano significò – da parte di questa – la
imposizione di una vernice cattolica alle pratiche religiose degli schiavi. Le
confraternite rappresentarono quindi un momento di sostegno e di
conservazione dell’organizzazione degli schiavi lungo gruppi che
mantenevano un certo grado di unità etnica. Documenti sull’emergenza di
centri religiosi afro-brasiliani come istituzioni indipendenti risalgono al
periodo dell’indipendenza del Brasile dal Portogallo (1822), e concludono
con il declino delle confraternite cattoliche come forme di aggregazione,
frutto anche – come si è detto – del generale declino del potere della chiesa
cattolica in un ambiente culturalmente ostile (“Ordem e progresso”). Le
grandi città, centri di importazione degli schiavi, conservarono alte densità
di popolazione africana e di ascendenza africana, dove si incontravano
salariati, liberti e fuggiaschi, in una situazione che consentiva libertà di
movimento e anonimato.

Le pratiche locali condussero all’emergere di tradizioni locali: Candomblé


a Bahia, Xangô in Pernambuco e Alagoas, Casa das Minas nel Maranhão,
Batguque a Porto Alegre e Belém, Macumba a Rio. Le caratteristiche di
queste varie religioni vanno ascritte al predominio di particolari gruppi
culturali africani: gli Yorubà in Salvador, i Dahomiani in São Luís,
influenze degli indigeni brasiliani in Amazzonia. La caratteristica
principale ascritta alla Macumba è il suo eclettismo, attribuito sia al
predominio di schiavi bantu (sud dell’Equatore, Congo, Angola,
Mozambico) sia all’intervento di forze disgregatrici come l’urbanizzazione

51
e lo sviluppo capitalistico. Sviluppo di Rio come capitale della repubblica
dal 1822 e centro della nuova economia brasiliana nel suo movimento
dall’agricoltura del Nordeste e dalle miniere di Minas Gerais alla
produzione di caffè in Rio e São Paulo, con l’introduzione di numerosa
forza lavoro schiava dal Nordeste nelle piantagioni di caffè. Come
anticipazioni della Macumba possiamo segnalare la pratica del Candomblé
dos Cambindas (Cambinda era un importante porto schiavistico nel Congo
e per estensione veniva a indicare una nazione di schiavi bantu), variante
del bahiano Candomblé da Nação): è indicato come un gruppo che
esperimenta la possessione da parte degli spiriti accompagnata da canzoni
che riecheggiano le condizioni di vita quotidiana, con una innovazione di
grande momento rispetto alle forme tradizionali afro-brasiliane di Bahia,
nell’uso della lingua portoghese:

Maria Muçangué
Lava roupa de sinhá
Lava camisa de chitá
Nao é dela, é de iáiá [João do Rio, As religiões no Rio, 1904].

All’uso della lingua portoghese si accompagnava il fatto che gli Orixás,


cioè le divinità yorubá, insieme ai santi cattolici, ricevevano nomi bantu.

João do Rio rilevava altresì la numerosa presenza di singoli specialisti


magico-religiosi (feitiçeiros), a cui si rivolgevano anche personalità
politiche e di alto rango della società di Rio; “noi siamo terrificati dalla
stregoneria africana”, scriveva il giornalista, che dava voce alla paura di un
ingresso inquietante delle arti magiche nel quotidiano dei brasiliani di
origine europea, in un mondo dove gli stregoni erano “onnipresenti in Rio
come formiche”. I feitiçeiros operavano con l’aiuto di entità malvagie e
demoniache, come Exú e preparavano pozioni dove all’uso della cachaça si
accompagnavano materiali immondi, dalle feci alle penne di pappagallo, al
sangue e la somministrazione di formule magiche. Una mostruosa
controparte del satanismo di origine europea (Rio le faceva risalire
all’Europa del XVII secolo, a fenomeni come vampirismo, patti con il
demonio e messe nere: il patrimonio della stregoneria europea). Il clero
cattolico cercava di contrapporsi a questa realtà sviluppando le pratiche
esorcistiche, ma anche queste contribuivano a rafforzare l’avversario, in
quanto andavano a convalidare l’esistenza della stregoneria.

Se ne può inferire: varietà ed eterogeneità delle pratiche religiose, nella


diffusione di forme religiose fondate sulla contaminazione di tradizioni

52
africane tra loro e sulla successiva contaminazione di queste con altrettanto
eclettiche tradizioni europee. Né era assente la influenza di tradizioni degli
índios. Queste credenze e pratiche erano penetrate nel tessuto sociale di Rio
de Janeiro, in un intreccio di divisioni di classe, razziali ed etniche. La
stregoneria era divenuta una forma di commercio: laddove il kardecismo si
radicava nelle classi superiori, che nella forma della carità mantenevano
rigorosa la distinzione sociale, in queste forme religiose assistiamo a una
redistribuzione della ricchezza che dalle classe superiori scende ai livelli
più bassi della popolazione, lungo uno scambio che presuppone che i
settori più bassi esigano pagamenti per servizi forniti sulla base di una
condivisa credenza nella stregoneria e nella necessità di proteggersene.
L’Umbanda rappresenta un compromesso tra queste due forme
contraddittorie di potere.

Nel 1934 Artur Ramos pubblicava O Negro Brasileiro: vi si descriveva la


macumba, descritta come un rituale pubblico in un centro di Niteroi. Il
capo e gli iniziati, rivestiti di indumenti bianchi, danzano e cantano
accompagnati da tamburi, canzoni in portoghese, che tuttavia abbandonano
la descrizione e il risentimento legati alla vita quotidiana e parlano del
mondo degli spiriti. Lo spirito ricevuto dal capo, “Pai Joaquim”, è lo spirito
di uno schiavo negro morto, che appare come spirito “Preto Velho”. Lo
spirito fornisce consigli agli inziati e ai membri della congregazione.

Se abbiamo visto una fondamentale distinzione di classe nel magismo


urbano (nel senso di una separazione verticale), l’immagine che ci viene
fornita dallo sguardo europeo del magismo dei ceti inferiori si polarizza in
due figure: da un lato, il feitiçeiro, di cui abbiamo già visto le capacità di
penetrazione per entro il tessuto della società, capacità che lo rende
appunto pericoloso agli occhi delle classi colte, che vi vedono la irruzione
di credenze e pratiche stregoniche ben più inquietanti delle convinzioni
kardeciste, di curvatura scientistico-positivistica e quindi europea;
dall’altro, l’umbanda che ha immediatamente una dimensione societaria,
rispetto all’individualismo della pratica del feitiçeiro. Un documento che
bene illustra questa dimensione societaria – di mutuo soccorso – e insieme
la contaminazione e commistione delle religioni nel crogiuolo brasiliano è
consegnato nella ricerca di Liana S. Trindade [Liana S. Trindade, Exú:
reinterpretações individualizadas de um mito, in “Religião e sociedade”,
1982]. Proprio questo documento ci consente di ribadire la tesi di fondo: la
valenza sociale del magismo (coesione, dinamica) che - a differenza del
mondo magico e stregonico d’Occidente – fa della propria marginalità un
fondamento di protagonismo sociale. Questione delle fonti: le fonti

53
secondarie – la letteratura critica – vengono soppiantate dalla tecnica
sociologica dell’intervista (pratica che contraddistingue la attuale
antropologia, volta ad attenuare lo “sguardo esteriore” dell’antropologo
classico).

Non esiste una realtà univoca sotto il termine di umbanda. Come ha scritto
Diana DeGroat Brown, “Umbanda si è sviluppata come une religione
eterodossa attraverso un processo dialettico che ha espresso le
contraddizioni e le competizioni fra i vari gruppi di interesse che vi sono
identificati, ciascuno di questi volto ad assicurare la propria posizione e ad
accrescere la propria influenza su altri gruppi concorrenti”. Queste
contraddizioni hanno generato uno stato di controversia intestina
permanente, che si è rivelato come l’elemento principale del dinamismo
dell’umbanda. Secondo la studiosa ora citata, possiamo distinguere tre
posizioni ideologiche all’interno del mondo umbanda: a) l’umbanda pura,
un’umbanda deafricanizzata; b) l’umbanda africanizzata; c) le
interpretazioni nazionalistiche dell’umbanda.

L’Umbanda Pura o Umbanda Branca trova ragion d’essere nella


contaminazione di posizioni kardeciste e di religiosità africana. Nergli anni
1920, a Niteroi, è attivo Zélio de Moraes: allora ventenne, Zélio venne
colpito da paralisi. Il padre, funzionario pubblico era un kardecista, che
dopo consulti medici andati a vuoto, si rivolse alla Federação Espírita
Brasileira di Rio. Qui, Zélio fu visitato dalla spirito di un gesuita che gli
rivelò come la sua malattia fosse di natura spirituale e fosse segno di una
missione a lui conferita: dove fondare una nuova religione dedita al culto
degli spiriti brasiliani (quelli tenuti in dispregio dalla ortodossia
kardecista): caboclos (spiriti di índios brasiliani) e pretos velhos (spiriti di
schiavi africani). La nuova religione doveva assicurare loro il rango e il
rispetto che il kardecismo aveva negato. (Non priva di significato la
presenza di un gesuita, in quanto la Compagnia si era contraddistinta per il
ruolo di protettrice degli índios e di altre popolazioni subalterne nei primi
tempi della colonizzazione: si v. António Vieira). Guarito, Zélio riceveva
la visita del suo spirito mentore, o caboclo das sete encruzilhadas (valenza
del crocevia), che gli rivelava la missione: fondare la religione
dell’umbanda. Così Zélio diede vita al Centro Espírita Nossa Senhora da
Piedade, che doveva raggiungere una posizione di rilievo nel panorama
religioso di Rio de Janeiro. I primi aderenti all’umbanda di Zélio de Moraes
erano appartenenti alle classi medie: commercianti, burocrati di governo,
ufficiali dell’esercito, giornalisti, insegnanti, uomini di legge. Una
fotografia ufficiale del 1941 dei fondatori e dei principali rappresentanti

54
dell’umbanda rivelava la composizione razziale: su 17 persone, 15 erano
bianchi, due mulatti. Non c’era nessun negro. Comunque, se la distanza
critica nei confronti del kardecismo era forte, non altrettanto nei confronti
della macumba, di cui veniva riconosciuta la valenza terapeutica e la
capacità di affrontare una più vasta gamma di malattie e disgrazie, forte
dell’appoggio di spiriti e divinità africane e caboclo. Un altro elemento di
attrazione era la dimensione drammatica del rito macumba, rispetto a
quello compassato del kardecismo. Ma alcuni aspetti della macumba erano
difficilmente assimilabili da parte degli ex kardecisti: ripugnavano dal
sacrificio di animali, dalla rozzezza di un ambiente che prevedeva bevute e
comportamenti rozzi; inoltre, la collocazione dei terreiros macumba nelle
periferie urbane delle favelas significava entrare nel territorio di classi
sociali considerate pericolose. Infine, la clandestinità, per evitare la
riprovazione dei ceti sociali di appartenenza. La costituzione, a partire da
elementi kardecisti, della nuova religione, stava finalmente a indicare il
fallimento, e la coscienza di questo, delle classi medie brasiliane nel
conrtrollare il mondo sociale del nuovo stato e di far fronte a masse vitali,
per quanto immiserite. La confluenza nell’umbanda di tradizioni cattoliche
(iberiche), africane e índias rappresentava la costituzione di una identità
nazionale brasiliana entro la quale l’umbanda si voleva come nuove a
autoctona religione brasiliana.

Nel 1941 si tenne a Rio il Primo Congresso dello Spiritismo di Umbanda: i


partecipanti, provenienti per lo più da Rio, dovevano ribadire l’importanza
dei testi kardecisti come “la base fondamentale dell’umbanda, e di tutte le
forme dello spiritismo brasiliano”. Si venivano riconoscendo debiti altresì
nei confronti della teosofia e del rosacrucianesimo, nel tentativo – evidente
nella discussione sui rituali – di dissociarsi dalle radici africane e
macumba: ma veniva ribadita – fortemente – la origine da caboclos e
pretos velhos:

Sebbene siano presi per semplici caboclos e pretos velhos, e sebbene per questo siano
scherniti e disprezzati da alcuni […] kardecisti, questi [spiriti] mostrano un grado di
evoluzione culturale e spirituale superiore a quello della civiltà occidentale, acquisito
con ogni evidenza in incarnazioni precedenti […] Le entità che dirigono l’Umbanda
sono stati in tempi remoti caboclos o pretos velhos […] ma sotto le apparenze di
semplicità e umiltà […] ardono spiriti altamente evoluti impegnati nella nobile missione
di risvegliare in noi [mortali]il desiderio di superare le miserie delle nostre vite
[Primeiro Congresso Brasileiro do Espiritismo de Umbanda, 1942].

Le concezioni evoluzionistiche presenti nello spiritismo kardecista


divengono un’arma contro la kardecista distinzione di classe. Dal

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congresso emergevano comunque due principali linee di tendenza: a) la
deafricanizzazione delle origini dell’umbanda e b) la purificazione e la
“imbiancatura” delle pratiche. Lungo questa prospettiva, si negava una
etimologia bantu allo stesso termine umbanda: se ne cercava un’origine
nelle antichità indoeuropee, fino a fare derivare il termine dal sanscrito, in
una fantasiosa etimologia “aum+bhanda”, cioè “il limite nell’illimitato”;
altri si spingevano a rinvenire una origine adamica al termine stesso.
L’umbanda era visto quindi come “una prosecuzione della condizione
mistica che si rinviene presso gli antichi hindu, egizi, greci, aztechi e inka”
[cfr. gli spiriti superiori dell’ortodossia kardecista]. Da queste origini
nell’antica India, si diceva che la dottrina umbanda si era spostata in
America attraverso il continente scomparsi di Lemuria, situato nell’Oceano
Indiano. Da qui era trascorso in Africa, per subirvi un processo di
embruticimento a contatto con i selvaggi africani, per degenerare nel
feticismo, la forma con cui era approdato in Brasile. Gli esponenti
dell’umbanda deafricanizzata si rifacevano quindi alle “teorie diffusioniste
e evoluzioniste del XIX secolo, sottoposte a una reinterpretazione teosofica
che prospettava antichi cataclismi, continenti perduti, e periodi ciclici di
progresso e degenerazione “. Rispettabilità delle origini nella grande
tradizione mistica orientale; catastrofe della contaminazione africana.
Quindi alcuni esponenti proposero di “purificare l’umbanda dai riti
essenzialmente africani praticati dopo che la prima ondata di schiavi fu
portata in Brasile dai portoghesi” (cfr. ruolo negativo dei portoghesi
nell’immaginario brasiliano bianco). Si veniva così parlando di Umbanda
Pura, Umbanda Limpa, Umbanda Branca. Il suo scopo era la pratica della
kardecista caridade. Ma accanto a termini positivi, i congressisti coniarono
altresì un termine negativo: Quimbanda. In essa si assommavano magia
negra e prática do mal. Quimbanda era il doppio sotterraneo dell’umbanda,
abitata da Exús, entità associate con il diavolo e praticanti di forme
stregoniche fraudolente. Veniva così negata l’origine europea della pratiche
stregoniche che venivano invece attribuite all’Africa, luogo di origine di
religioni feticiste e barbare. Quimbanda quindi incarnava le nozioni di
magia nera, male e immoralità e collegava, nell’immaginario dei fautori
dell’umbanda deafricanizzata, Africa, classi inferiori e male. Era un altro
nome della Macumba. I pretos velhos vennero egualmente deafricanizzati:
schiavi acculturati, addomesticati e inseriti nella cultura brasiliana: l’Africa
esorcizzata era l’Africa preschiavismo, barbarica, laddove si riprendeva la
tematica del “fardello dell’Uomo Bianco”. La “bianchizzazione”
dell’umbanda comunque ha contribuito a far assumere a questa religione
una crescente rispettabilità per entro la società brasiliana e ne ha assicurato
l’accettazione presso ceti colti e superiori.

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Questa forma di umbanda ebbe un notevole iniziale successo, tanto che al
1947 si attribuisce la creazione della prima radio umbanda. Ma si ebbe
altresì la reazione degli sconfitti, nel corso degli anni 1950, da parte cioè di
esponenti dei settori inferiori, legati alla cultura e alle origini africane. È il
fenomeno dell’umbanda africanizzata. Nel 1956 Byron Torres de Freitas e
Tancredo da Silva Pinto pubblicavano Fundamentos de Umbanda, dove
possiamo leggere:

Gente che ritiene di essere versata in questioni religiose in realtà non sa nulla della
nostra religione, e altri ancora non si preoccupano di nascondere il loro disprezzo per
essa, perché è stata recata [in Brasile] da schiavi [Byron Torres de Freitas – Tancredo da
Silva Pinto, Fundamentos de Umbanda, 1956].

E ancora:

È divertente sentire costoro [i fondatori dell’Umbanda] dire che “l’Umbanda ha subito


un’infleunza africana”. No, miei cari compagni, Umbanda è africana, è il retaggio
culturale della razza negra, ed è assai differente dal […] kardecismo [Byron Torres de
Freitas – Tancredo da Silva Pinto, Fundamentos de Umbanda, 1956].

Freitas e Pinto parlavano sdegnosamente degli esponenti della Umbanda


Pura come di “meri kardecisti che si chiamano umbandistas senza capire
niente dell’Umbanda”. Questi rispondevano, dalle pagine del “Jornal de
Umbanda” contro gli “pseudoumbandisti che in realtà praticano
Quimbanda e Candomblé”: Si tratta di distinzioni non meramente
religoose, ma di classe e razziali. Quando Diana DeGroat Brown scriveva il
suo volume, Umbanda. Religion and Politics in Urban Brazil [1986],
poteva riscontrare una forma di coesistenza pacifica, controllata e sorniona,
tra le due espressioni del fenomeno umbanda.

Vediamo ora la risposta sotto forma di un’umbanda africanizzata. Si fonda


sulla ripresa del mito di Zélio de Moraes – delle origini brasiliane
autoctone della religione – come rivolta alla popolazione oppressa sotto la
guida del cattolicesimo brasiliano. Ci riferiamo ad alcuni scritti comparsi
alla metà degli anni 1940: queste prime affermazioni nazionalistiche sono
state ispirate dalla grande opera di Gilberto Freyre, Casa-grande e senzala
[1933] che, muovendo dall’analisi della famiglia patriarcale nel Brasile
coloniale, concludeva nell’affermazione della democracia racial come
caratteristica della società brasiliana e come progetto di ricostruzione-
ricompattamento di questa. Già nel 1923 si erano avute le prime
manifestazioni di impronta nazionalistica, nazionalismo che doveva

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sostanziare le esperienze letterarie del modernismo brasiliano, con le tesi
di Menotti del Picchia:

[…] il Brasile ha bisogno, senza dubbio, di alimentare il culto di tutte le sue fulgide
tradizioni, di tutelare il patriottismo sacrosanto della lingua e di preconizzare una
politica di instancabile difesa del suo spirito nazionale, il quale deve essere l’ideale
costante di tutti i buoni brasiliani […].

L’anno successivo, 1924, è l’anno del manifesto primitivista Pau-Brasil di


Oswald de Andrade, pubblicato il 18 marzo sul “Correio da Manhã” di Rio
de Janeiro: vi si postulava una lingua “senza arcaismi. Senza erudizione.
Naturale e neologica”. Così Oswald de Andrade avrebbe illustrato il senso
della sua scelta:

Il primitivismo, che in Francia appariva come esotismo, era per noi in Brasile autentico
primitivismo. Fu allora che pensai di fare una poesia di esportazione e non più di
importazione sulla base del nostro habitat geografico, storico e sociale. E siccome il
“pau-brasil” era stato la prima ricchezza brasiliana esportata, chiamai il movimento
“Pau-Brasil”.

Ma la situazione si rivelava assai più complessa: nel 1925 si contrapponeva


al “Pau-Brasil di de Andrade il movimento “Verdamarelo” di Menotti del
Picchia, Cassiano Ricardo, Plínio Salgano, Cândido da Mota Filho,
movimento che doveva contemplare esiti fascisti, in congruenza con il
movimento “Anta” [tapiro], assunto come simbolo nativista. Il color giallo,
assunto come il colore simbolo dei fuorilegge – cortigiane, ebrei – si
coniugava al verde degli alberi-foreste-pianure del Brasile. Nel 1926 al
congresso di Recife parte il manifesto regionalista di Gilberto Freyre,
pubblicato solo nel 1952, ma che sarà fondamentale per la costituzione
ideologica del modernismo brasiliano: Freyre, nato a Recife, aveva studiato
negli Stati Uniti, e nel manifesto gettava le basi per uno studio non più
utopistico, ma concreto del Brasile multirazziale, indagato nelle sue
dimensioni concrete, dalla lingua alla cucina, alla religione, alla
superstizione e alla stregoneria. Era la riscossa del Nordeste, polemico nei
confronti del modernismo meridionale, paulista, di de Andrade. La
proposta di Freyre avrebbe sostanziato una tendenza letteraria, il
regionalismo nordestino, di cui massimi esponenti sono stati José Lins do
Rego e Graciliano Ramos. La democracia racial in Jorge Amado.

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In questa complessiva riscoperta delle origini si inserisce dunque anche
l’umbanda nazionalista (un nazionalismo negro), di cui è espressione Uma
religião genuinamente brasileira, testo steso nei primi anni 1940:

Figlio di tre razze: il Bianco, il Negro, l’Indio, al Brasiliano era destinata una religione
eclettica, le cui caratteristiche principali sono la carità, l’umiltà e la tolleranza verso
l’immensa ignoranza dell’umanità, e tale da unificare l’esperienza del Bianco, la
tradizione dell’Indiano e la magia del Negro. Chiunque conosca il folklore brasiliano sa
che come il Negro è convinto che le acque, le foreste, le pietraie sono governate da
entità sovrannaturali, anche gli Indiani condividono la stessa credenza […] [Uma
religião genuinamente brasileira, primi anni 1940].

Temi che, in testo del 1944, si venivano coniugando con le espressioni del
nativismo:

Dato il sostrato razziale del nostro popolo, il cui sostrato psichico è formato dal
totemismo degli indigeni, dal feticismo degli Africani e dal medievalismo Iberico,
dobbiamo realizzare che il meticciato religioso ha obbedito alle stesse leggi del
meticciato etnico [O culto de Umbanda em face de lei, 1944].

Lungo queste prospettive, i temi del nazionalismo etnico, del primitivismo


e del nativismo 1) hanno legittimato l’umbanda come una religione
squisitamente brasiliana (scorre ancora la polemica nei confronti dei
portoghesi); 2) saldandosi ai temi del nazionalismo letterario, l’umbanda
nazionalistica ha potuto superare i limiti razziali e di classe per divenire
patrimonio delle classi colte; 3) in tal modo, il retaggio africano è stato
legittimato e ha potuto inserirsi pienamente nella definizione della
costellazione umbanda; 4) il richiamo al nazionalismo è divenuto uno
strumento di penetrazione politica, con il richiamo a un’unità
onnicomprensiva di molteplici posizioni, tanto da venire impiegato –
durante le crisi nazionalistiche della politica brasiliana – da politici interni
ed esterni all’umbanda per raccogliere i voti dei seguaci della religione.

La questione delle origini dell’umbanda continua a essere un problema: a)


origini nell’Estremo Oriente: è un’interpretazione ristretta a gruppi di
cultori di una dimensione esoterica della religione; b) le origini africane
dell’umbanda, che ora vengono generalmente accettate, tanto che al
congresso umbanda del 1961, lo storico Armando Cavalcanti Bandiera,
autore di Umbanda: Evolução histórico-religiosa, faceva risalire il termine
alla lingua kimbundu, del ceppo bantu, con il significato di “arte di curare”.

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Contemporaneamente, si è sviluppata un’immagine dell’umbanda come
contrapposta alle pratiche nefaste del quimbanda:

Umbanda è giunto come messaggio universale dal cuore del Brasile, un paese ancora
arretrato in preda all’egoismo, all’ambizione, al male e alla falsa fede, come antidoto a
queste pratiche nefande [magia nera, Quimbanda], condotte da uomini degli strati
sociali più bassi. Il male che hanno commesso nei confronti delle basse classi sociali
brasiliane è profondo. Queste vaste, non libere e indifese masse, ignoranti,
spiritualmente cieche e analfabete, prive di ogni difesa religiosa che non fosse quella del
fanatismo – un male identico – si consegnanoe nelle mani di questi criminali religiosi
con i loro inganni, le loro illusioni, le loro vane promesse e dissipano le loro magre
finanze per nulla. Loro sola difesa è Umbanda, l’altro polo del misticismo, che fornisce
un antidoto [João de Freitas, Oxum-Maré, 1965].

Nell’ambito di questa lettura politica del fenomeno, si ricordano altre due


definizioni della religione: 1) nel 1969, si sostiene che “nella lingua
africana umbanda significa la riunione di varie tribù a fini religiosi” per
proseguire che in Brasile egualmente non deve significare un culto o una
religione particolari, ma “l’unificazione di tutti i rituali dei culti afro-
brasiliani, che nella sua liturgia intende rispettare tutte le varie differenti
consuetudini tribali delle varie nazioni dei popoli bantu”; 2) una
definizione più recente, e più diffusa, fa risalire il termine al portoghese
“uma banda” [un gruppo], sottolineando la prospettiva di unificazione e di
unità degli imbandisti.

Veniamo ora a esaminare le dottrine dell’umbanda, la sua concezione del


mondo. Tenendo presente, come momento metodologico, che abbiamo a
che fare con un plesso concettuale a geometria variabile, dove elementi
singoli prendono rilievo a seconda delle esigenze al momento prevalenti.
Ancora una volta, il carattere di laboratorio, in quanto fenomeni di
slittamento di importanza e di significati, o di permanenze degli stessi, che
per fenomeni europei dobbiamo ricostruire nel corso di uno sviluppo
plurisecolare, li vediamo realizzarsi – e quindi li possiamo studiare – in un
lasso di tempo controllabile. Il cosmo umbanda è un complesso sistema
formale che comprende tre livelli: a) gli spazi astrali [influenze kardeciste];
b) la terra; c) il sottomondo. Personaggi potenti – dotati di identità duplice,
cattolica e africana – abitano gli spazi astrali, che dividono con i caboclos, i
pretos velhos e altri spiriti minori, meno evoluti. La terra forma un luogo
intermedio che fornisce ospitalità temporanea a numerosi spiriti che
trascorrono attraverso le successive incarnazioni umane negli stadi inferiori
del processo evolutivo. È altresì visitata da spiriti superiori, caboclos e
pretos velhos che ritornano nelle cerimonie che si svolgono nei centri
umbanda per visitare i viventi e proseguire ulteriormente la propria

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evoluzione realizzando caridade. Anche spiriti malvagi e ignoranti, la cui
residenza è il mondo sotterraneo possono visitare la terra, dove sono causa
di sventura e di male, che caboclos e pretos velhos debbono contrastare. Il
mondo sotterraneo quindi è il luogo di questi spiriti pericolosi, gli Exús e le
forze del quimbanda.

Dio, una lontana astrale figura di creatore che ricopre ormai


prevalentemente il ruolo di deus otiosus, presiede il mondo astrale degli
spiriti. Sotto di lui, gli abitanti degli altri luoghi sono organizzati in un
complesso sistema gerarchico che si scandisce lungo il mistico numero 7.
Si ha una divisione verticale, nelle Sete linhas de Umbanda, i cui capi sono
potenti personaggi dotati di duplice personalità, come Orixás [divinità
africane] e santi cattolici: Oxalá / Gesù ha il primo rango; poi, in ordine:
Xangô, il tuono e il lampo / san Gerolamo; Ogum, la guerra / san Giorgio;
Oxôssi, la caccia / san Sebastiano; Yemanjá, il mare, l’acqua salata / Nossa
Senhora da Conceição, Nossa Senhora da Glória; Oxum, l’acqua pura,
l’amore sensuale / santa Barbara; Yansã, la tempesta / N. S. da Conceição,
N. S. da Glória; Exú, messaggero, spirito malvagio / Satana, Lucifero,
Jezebel. La settima linea è la Linha das Almas, guidata da san Michele, non
ha controparti africane. Questa settemplice divisione è a sua volta
attraversata da un sistema settemplice di “sottolinee” e in sette legioni: le
legioni si suddividono i sub-legioni, le sub-legioni in falanges, le falanges
in sub-falanges, ciascuna con il suo capo. La concezione del cosmo come
una struttura militare era già espressa al primo congresso dell’umbanda,
che descriveva questo pantheon come “un esercito spirituale al comando di
Gesù Cristo o Oxalá, sua controparte africana”. Come ha scritto Diana
DeGroat Brown, il sistema presenta una “struttura impersonale, razionale,
burocratica”. Caboclos e pretos velhos si situano nei livelli più bassi delle
Sete linhas de Umbanda, come comandanti delle legioni, ma mentre i
caboclos sono stati incorporati a formare i ranghi più bassi delle linee degli
Orixás / santi, i pretos velhos vanno a costituire il settimo e più basso
rango, la Linha das Almas ( i morti), nota anche come Linha Africana (il
riferimento è agli schiavi). Questo perché caboclos e pretos velhos non
sono Orixás, ma spiriti disincarnati di persone vissute durante il periodo
coloniale e schiavistico del Brasile. La loro affinità è giustificata dalla loro
esperienza, da vivi, come genti schiavizzate, anche se i pretos velhos sono
meno evoluti dei caboclos a causa della loro morte più recente. Sotto di
questi, sono annoverati spiriti non identificati, indicati come guias e
espíritos protetores. Il mondo sotterraneo, il regno di quimbanda, speculare
al cosmo umbanda, è il luogo delle forze negative e malvagie guidate dagli
Exús, ed è anch’esso scandito in sette linee divise in maniera settemplice,

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ciascuna guidata da Exús. I medium, categoria di semi-specialisti,
conoscono gli spiriti che essi ricevono nei loro centri.

La partecipazione nei rituali pubblici dell’umbanda ha concluso nella


formulazione di un cosmo meno formale; questa interpretazione “laica” o
“profana” ha modificato il cosmo umbanda a) concentrando l’attenzione
dai personaggi più potenti e lontani a personaggi più accessibili; b)
ignorando il formale sistema gerarchico e riconoscendo solo le principali
distinzioni di stato: così, gli Orixás/santi sono, vicini a Dio, le più potenti
ed elevate figure del cosmo umbanda; ma hanno concluso alla figura di
divinità lontane dall’attività degli umani. Spiriti evoluti aldilà del punto di
ritorno sulla terra, sono divenuti abitanti permanenti degli spazi astrali e
non scendono per visitare i centros umbanda, dove inviano i loro emissari
di basso rango, caboclos e pretos velhos. Questi ultimi sono le figure più
importanti e attive nei rituali dei centros umbanda, dove identificano le
cause delle sventure umane e forniscono contromisure e cure, divenendo
intermediari, situati nello spazio centrale dei rituali umbanda, tra gli uomini
e le più potenti entità spirituali. Quindi possiamo individuare due sistemi
umbanda: a) la interpretazione degli specialisti, la struttura formale,
burocratica, impersonale, corrisponde alla componente kardecista del
fenomeno umbanda: vi è presente la stessa legge dell’evoluzione e della
reincarnazione, con spiriti che muovono ineluttabilmente verso gli stadi
superiori dall’ignoranza spirituale fino all’illuminazione, attraverso la
vicissitudine delle incarnazioni e il progressivo allontanarsi dall’ambito
terrestre. Come nel kardecismo, la virtù cristiana della carità costituisce il
motore del processo evolutivo. La complessa struttura settemplice, già
presente al primo congresso del 1941, deriva dalla teosofia e dal
rosicrucianesimo, lungo una prospettiva strategica dei primi esponenti
dell’umbanda, che intendevano connetterla alle tradizioni religiose
esoteriche del mondo occidentale. Si esprimeva così l’intenzione di tenere
le distanze dai settori sociali inferiori e dall’Africa. Al contempo, questo
cosmo presenta anche un sogno utopico: una società burocratica ordinata
razionalmente: si basa su una visione illuministica di un progresso
inevitabile anche se lento, che muove secondo le leggi scientifiche e
razionali, dall’ignoranza alla conoscenza.

Il sistema cosmologico umbanda informale, invece, sottolinea le relazioni


personali tra postulanti e soccorritori, relazioni che assumono la forma del
patronato, con omaggi rituali offerti in cambio di cure e consigli [la
tradizione brasiliana del conselheiro]. Questa interpretazione dell’umbanda
la avvicina fortemente al rapporto tra postulanti e santi patroni del

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cattolicesimo popolare: non a caso i santi cattolici sono presenti nel
pantheon umbanda, come patroni e insieme come modelli per caboclos e
pretos velhos, che sono loro intermediari. Vi sono sintonie con la pratica
cattolica dei pellegrinaggi, affinità sottolineata dalla presenza degli
omologhi dei santi, gli orixás: ma, mentre l’intervento sovrannaturale del
santo è visto come miracoloso, quello dell’orixá mantiene genuinamente
l’aspetto del magico. La curvatura cattolico-popolare si contrappone a
quella kardecista , anche se la plurisecolare tradizione caritativa del
cattolicesimo può essere rinvenuta alla base e dell’umbanda e del
kardecismo. Un ulteriore aspetto è la rigidità delle funzioni e delle
posizioni nel cosmo burocratico umbanda di curvatura kardecista, dove la
benevolenza deriva dall’adempimento scrupoloso del rituale: è la
dimensione utopica dell’umbanda kardecista, il sogno di una società
funzionante sulla base di una rigorosa struttura burocratica [un Brasile di
sogno]. Tale tendenza tuttavia rimane minoritaria nel mondo umbanda, in
quanto è scarsamente accettata anche dai seguaci dell’Umbanda Pura: fa
aggio la visione realistica e pragmatica del mondo brasiliano. Come ha
scritto Diana DeGroat Brown, “le due interpretazioni insieme esprimono la
fondamentale contraddizione della odierna società brasiliana, tra lo sforzo
consapevole di modernizzare e burocratizzare la politica economica”, e la
realtà dove si opera sulle basi del clientelismo, del soggiacente retaggio
patriarcale.

Duplice figura di caboclos e pretos velhos: compaiono attraverso un


processo di marginalizzazione delle controparti – santi e exús – come punto
di scelta di un’identità brasiliana, in luogo di una straniera, e di un processo
di civilizzazione delle forze del selvaggio e della barbarie, e lo sforzo di
controllare l’incontrollabile. La tradizione su queste figure muove da: a)
tradizioni orali, b) testi scritti, tra i quali si annoverano i pontos [canti
rituali], diffusi attraverso raccolte a stampa economiche. In questo contesto,
accanto a nomi collettivi, emergono anche singole prepotenti individualità.
I caboclos sono individuati collettivamente come índios acculturati, abitanti
della foresta amazzonica: uomini e donne nel pieno delle forze, cacciatori e
guerrieri, arroganti e coraggiosi. Nei centros umbanda sono descritti come
pieni di força, arroganti, aggressivi, mandãos, specializzati nella cura e
nella soluzione dei problemi. Traggono la loro força dalle forze naturali:
cascate, fiumi, foreste vergini, sole, luna e dalle creature della foresta, in
particolare i serpenti. Di qui i loro nomi: Caboclo Mata Virgem, Caboclo
da Lua, Caboclo do Vento, Cobra Coral. Vengono altresì descritti dai loro
ornamenti: Caboclo Pena Branca, Caboclo Sete Flechas, Caboclo Pedra
Azul. Oppure, ostentano nomi di tribù degli autoctoni brasiliani, come

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Tupinambá, Tapirapé, Guaraní. Altri nomi derivano dall’onomastica della
letteratura nativistica brasiliana del XIX secolo, in particolare dai romanzi
di José de Alencar; così Ubirajara [dal romanzo omonimo del 1874, che
riprende una leggenda tupí], Iracema [ leggenda del Ceará]:

Dracma, la vergine dalle labbra di miele, che aveva i capelli più neri delle ali della
“graúna” e più lunghi della sua profilata figura di palma.
Il favo della jati non era dolce come il suo sorriso, né la vaniglia olezzava nel bosco
come il suo alito profumato.
Più rapida dell’ema selvaggia, la vergine bruna percorreva il sertão e le foreste dell’Ipu,
dove stava accampata la sua tribù guerriera, della grande nazione tabajara. Il piede esile
e nudo, sfiorandolo appena, premeva lievemente il verde velluto che rivestiva la terra
con le prime acque [José de Alencar, Iracema, 1865].

Un altro autore nativista del XIX secolo, Gonçalves Días, vede i suoi versi
utilizzati nei pontos. Un altro ponto coniuga al leggendario indigeno la
biblica storia di Mosè:

Com sete mêses de nascido


A minha mãe me abandonou
Salve o nome de Oxossi
Foi Tupi quem me criou [600 pontos riscados e cantados na Umbanda e Candomblé,
1969].

Troviamo altresì la assimilazione al serpente nel ponto di Beira-Mar, dove


riecheggiano movenze di sette ofiurolatriche del Nordeste:

Era na beiro do rio


Quando eu ouvi uma cobra piar
Era uma linda jiboia
meu Deus
No bodoque so Seu Beira-Mar.

I caboclos vengono quindi identificati con gli abitanti del mato, ma


talvolta si afferma che essi vivono nella Cidade da Jurema, una mitica e
paradisiaca terra remota all’interno del mato, come nel ponto che inizia:
“Ele vem de longe da Cidade de Jurema …” Talaltra si afferma come loro
toponomastico Aruanda, corruzione del bantu Luaanda, uno dei principali
porti di imbarco degli schiavi in Angola. Ma anche Aruanda - perduta la
connotazione storica reale – è un luogo collocato negli spazi astrali, patria

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sia di caboclos che di pretos velhos. Il processo di civilizzazione è ben
descritto in un’intervista rilasciata a Freitas:

Il caboclo, poiché proviene dal mato, è pieno di entusiasmo intollerante, come un


cristão novo, è intransigente e indica i nostri difetti. Dopo avedr ascoltato le lamentele
di quelli che soffrono, replica rabbiosamente che lo Spiritismo non è inteso per aiutare
qualcuno rispetto ai problemi della sua vita terrena, e ascrive le nostre sofferenze ai
nostri stessi errori e difetti per i quali dobbiamo pagare. Ma dopo due o tre anni di
contatti con le amare miserie della nostra vita si addolcisce e finisce con il fornirci
aiuto materiale [intervista, in João de Freitas, Umbanda, 1939].

I pretos velhos si distinguono nettamente dai caboclos: sono gli spiriti di


africani resi schiavi in Brasile, generalmente nella zona di Bahia. Sono
persone anziane, alle quali ci si rivolge con termini affettuosi: Vovó
[nonna], Vovô [nonno], Tia e Tio, Mãe e Pai. Sono caratterizzati come
umili, pazienti, capaci di sopportare e buoni. Le virtù loro attribuite sono
humilidade, bontade e caridade:

Preto Velho […] non può veder piangere senza piangere anche lui e quasi sempre aiuta
il bisognoso senza essere interpellato. È pieno di pietà, pensando alle difficoltà che i
cattivi sentimenti procurano a chi li coltiva [João de Freitas, Umbanda, 1939].

I nomi dei pretos velhos riecheggiano la consuetudine dei tempi della


schiavitù, dove il nome era seguito dalla indicazione tribale, come Maria
Congo; talvolta sono interpellati collettivamente come Povo da Bahia, o
Povo do Congo o Povo de Moçambique. I pontos che li riguardano
contengono riferimenti alla cultura africana o afrobrasiliana, alla feitiçaria
e alle miserie della schiavitù e della povertà:

Eu é preto feitiçeiro
Eu chego pra trabaiá
Eu é filho de Angola
O meu pai é da Guiné
Minha Mãe é de Carangola
Eu me chamo Pai José [ 600 pontos riscados e cantados na Umbanda e Candomblé,
1969].

In questa prospettiva, i pretos velhos si contrappongono ai caboclos -


vecchi, umili, pazienti contrapposti a giovani, arroganti. Giacché i caboclos
possono essere visti come una incarnazione del selvaggio “nobile”, laddove
lo stereotipo del preto velho è il servo paziente [Issacar. Uncle Tom].

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Durante il periodo romantico, l’índio divenne simbolo della nazione eroica
e indipendente: gli índios rappresentati nell’umbanda non risultano da un
lungo contatto con le popolazioni autoctone, bensì sono concrezioni di
recente formazione, dell’indianismo popolare. Altri modelli letterari sono
andati a costituire lo stereotipo del preto velho. Tra tutti, ricordiamo
Joaquim Maria Machado de Assis, che in più luoghi doveva esprimere il
rifiuto dell’indigenismo:

[…] la poesia indigena, barbara, la poesia del boré e del tup non è la poesia nazionale.
Che abbiamo noi da spartire con quella razza, con quei primitivi abitanti del paese se i
loro costumi non sono il volto caratteristico della nostra società? [Joaquim Maria
Machado de Assis, O passado, o presente e o futuro da literatura, 1858].

E ancora, anni dopo:

È certo che la civiltà brasiliana non è legata all’elemento indio e che da esso non ha
ricevuto alcun influsso; e questo basta perché non si vada a cercare fra le tribù vinte i
titoli della nostra personalità letteraria. Ma se questo è vero, non è meno certo che tutto
è materia di poesia, una volta che possegga le condizioni del bello e gli elementi di cui
esso si compone[…] [Joaquim Maria Machado de Assis, Instinto de nacionalidade,
1878].

Ma a sostanziare l’immagine dell’Issacar negro doveva venire la fortuna di


Uncle Tom’s Cabin, di Henrietta Beecher Stowe, ben presto tradotto in
portoghese e diffuso in Brasile. Così Freitas doveva scrivere: “Amo
l’umiltà dei pretos velhos, …, con le loro pelli nere e le loro anime
bianche”. La enfasi nazionalistica del XIX secolo si incentrava soprattutto
sugli índios, che rappresentavano la deriva esotica dell’immaginario
europeo, laddove gli africani e i loro discendenti rappresentavano il ruolo
dello schiavo melanconico. “La forte affinità di questi spiriti umbanda – ha
scritto Diana DeGroat Brown – con i ritratti letterari dei secoli XIX e inizi
del XX suggerisce che questi stereotipi nazionalistici romantici abbiano
influenzato la caratterizzazione di questi spiriti” nell’umbanda. Tuttavia, va
rilevato come questi traggano origine nei settori inferiori della società, per
entro le tradizioni religiose afrobrasiliane. Diana DeGroat Brown avanza
l’ipotesi di un’altra fonte dell’origine dell’immagine del preto velho:
cominciamo con la legge del 1886 che liberava tutti gli schiavi di 60 e più
anni (Lei dos sexagenários), dove schiere di schiavi vecchi venivano
abbandonati alla libertà senza mezzi di sostentamento; molti di questi
misero a frutto le proprie abilità di curatori e stregoni per farne fonte di
sostentamento, come a Rio de Janeiro alla svolta del secolo: molti di questi
si insediarono in una terra nullius nello stato di Rio e cominciarono a

66
offrire, dietro compenso, cure e altri servizi. È l’inizio dell’Arraial dos
Pretos Velhos: dopo la loro morte, i loro spiriti, identificati con i loro nomi
da schiavi, cominciarono ad apparire in vari centri religiosi afrobrasiliani in
Rio e a proseguire le loro opere. Un’altra interpretazione sottolinea la
capacità dei pretos velhos di sopportare e trascendere le proprie sofferenze:
è il riferimento all’umbanda come possibilità di superare il male e i
problemi del vivere. In conclusione: se i pretos velhos simboleggiano la
trascendenza di varie forme di sofferenza – schiavitù, oppressione e
malattia – i caboclos rappresentano l’altra faccia del Brasile non europeo:
l’indipendenza di quelli che non hanno mai sperimentato la schiavitù, o il
giogo della colonizzazione straniera, con la sequela di malattie,
oppressione. Due figure complementari: a) l’immagine utopistica di
gioventù, vigore, salute, indipendenza, orgoglio; b) l’immagine realistica di
un mondo di oppressione e sofferenza.

Una profonda modificazione dell’Umbanda Pura si è concretata nella


assunzione di una posizione di centralità, nel pantheon umbanda, di
caboclos e pretos velhos, con una conseguente marginalizzazione degli
Orixás/santi e di Exú. Con ciò, si cerca di stabilire un’identità brasiliana
legata a un’immagine “bianchizzata”, addomesticata dell’Africa e a una
panoplia di pratiche benevole e caritatevoli. Si allontana lo spettro di
un’identità africana barbarica. Gli Orixás dell’umbanda sono modellati
sulle omonime divinità del Candomblé bahiano: va segnalato a) che i
pontos sono cantati in portoghese, b) che – per quanto legati all’Africa – gli
Orixás dell’umbanda possono essere considerati specificamente yorúbá, ma
in alcuni centros portano nomi bantu o angolani. La principale distinzione
comunque si coglie nel rituale: a) nel Candomblé, gli Orixás rappresentano
l’unico oggetto di culto, sia nei riti pubblici, quando discendono per
possedere gli iniziati sia in riti privati; b) nell’Umbanda Pura, la presenza è
ridotta a dimensioni meramente simboliche. Nella statuaria umbanda sono
rappresentati sia nella versione africana sia in quella cattolica, secondo le
preferenze di ogni centro; Sono celebrati nei pontos umbanda durante le
fasi iniziali del rito pubblico, ma gli Orixás sono oggetto di elaborate forme
di omaggio rituale (obrigações) che hanno luogo al difuori dei riti pubblici,
ma si realizzano nei giorni del santo al quale l’orixá è associato, realizzato
in luoghi particolari che rimandano alle forze naturali alle quali è legata la
divinità. Si tratta comunque di riti che coinvolgono solo il personale
specializzato del centro, giacché nei riti dell’Umbanda Pura gli Orixás non
compaiono, a differenza di quanto avviene nei terreiros di orientamento
africano.

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I caboclos rivelano talune affinità con gli Orixás: i loro poteri promanano
dalle forze della natura – si può vedere nel rapporto con le divinità africane
come uno slittamento dal mondo dell’Africa a una realtà squisitamente
indigena. Lo stesso può riscontrarsi per quanto riguarda i santi cattolici,
anch’essi percepiti come stranieri. Per quanto attiene i pretos velhos, la
distanza dagli Orixás è interna alla parabola storica dei negri africani: le
divinità rappresentano gli africani prima del loro arrivo in Brasile, laddove
i pretos velhos ne sono la sequela addomesticata, deafricanizzata,
schiavizzata: un processo di civilizzazione / brasilianizzazione. La
marginalizzazione degli Exús sta a indicare la marginalizzazione del male e
dell’amoralità: Exú nel pantheon africano è una divinità messaggera, un dio
briccone, ma a contatto con la presenza del cattolicesimo ha assunto le
connotazioni del diavolo, acquisendo anche una controparte femminile,
collettiva, Pomba Gira (il nome deriverebbe dalla divinità congolese
Bombonjira). Nella statuaria umbanda, Exú viene raffigurato di color rosso,
dotato di corna e di tridente. L’equivalente femminile, pure rosso, ha vesti e
atteggiamenti sessualmente tentatori. Di qui l’assimilazione a Satana e
Lucifero, e a Jezebel. Nei riti umbanda, gli Exús, dopo esser stati placati,
vengono esortati a disertare le cerimonie, anche se rimane sempre
l’eventualità di non richiesti né graditi interventi. Smascherati comunque
come spiriti che provocano sofferenza e turbamento nei fedeli, vengono
esorcizzati. Sono tuttavia destinatari di omaggi rituali, resi loro nei
crocevia: queste offerte (despachos) consistono in sigarette [cfr. ritualità
aymara dei morti], cachaça, e sacrifici di polli neri. La prevalenza di Exús
nei riti tende a trasformare un rito dell’umbanda pura in rito quimbanda.

Ma Exú può assumere un’altra identità: incrociato con un preto velho,


acquisisce una identità africana; nel quimbanda diviene una figura
fondamentale nell’immaginario brasiliano, il feitiçeiro. I feitiçeiros,
storicamente, furono attivi nel contrapporsi ai padroni e nel fomentare
rivolte di schiavi. La sottomissione dell’umile schiavo a Exú incarna una
delle paure del mondo brasiliano: la trasformazione del docile schiavo in
rivoltoso, laddove la supremazia del preto velho su Exú ha la funzione
tranquillizzante di vedere nell’africano uno schiavo brasiliano acculturato.
Nel 1966 Emilio Willems ha suggerito che la presenza di caboclos e pretos
velhos nell’umbanda stia a significare il rovesciamento simbolico
dell’ordine sociale, dove “índios e africani occupano i livelli più alti della
perfezione spirituale, … laddove i padroni sono relegati ai più bassi”.

L’ideologia umbanda trova espressione precipua nei riti pubblici (sessões),


che hanno luogo nei centros, sia nella versione delle tendas sia nella

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versione dei terreiros. Negli anni 1980, in Rio de Janeiro si annoveravano
almeno 20.000 centros umbanda. Gli spiriti discendono sulla terra, si
impossessano dei corpi dei medium e forniscono consigli spirituali ai
membri della congregazione. I riti hanno luogo generalmente la sera due o
tre volte per settimana, dalle 8.30 di sera fino alla mezzanotte, in edifici
predisposti, in luoghi affittati o in case private. Il centro è un edificio a un
piano, costruito appositamente e situato in un quartiere periferico:
esternamente non si distingue dalle case vicine, e solo un’insegna (ponto
riscado) sul muro esterno ne identifica la funzione. La stanza dove si
realizzano le cerimonie è rettangolare, imbiancata, con dipinti di spiriti
caboclo e preto velho. L’area rituale comprende un piano ligneo per le
danze e un altare che ostenta statue dei principali spiriti umbanda, caboclos
(índios guerrieri), pretos velhos (negri anziani con vesti dimesse), Orixás
(santi cattolici). L’altare è adornato da bicchieri d’acqua e da fiori. Verso le
8.00 i membri del corpo rituale cominciano ad arrivare, recando sacche con
i propri abiti rituali. Si ritirano per indossare le vesti rituali di color bianco.
Arrivano i membri della congregazione che si genuflettono davanti
all’altare e poi prendono posto nei sedili lignei che fronteggiano l’area
rituale e l’altare, le donne a destra, gli uomini a sinistra. Chi vuole, ritira
una ficha, che gli consentirà di interpellare lo spirito di sua scelta. Il rito si
apre con la defumação, un incensiere acceso per la purificazione. Gli
iniziati, cantano un ponto de defumação, segue un ponto di apertura del
servizio: “Abrimos a nossa gira, com Deus e a Nossa Senhora”. Il canto
prosegue con grazie al pantheon: vengono lette una preghiera cattolica e un
breve testo di Kardec. Ora i membri del corpo rituale si alzano e insieme ai
membri della congregazione intonano un ponto che invita la presenza degli
spiriti caboclo (“vem trabalhar”). I pontos sono accompagnati dal battito
delle mani e i membri del corpo rituale iniziano a muoversi attorno all’area
rituale in un lento circolo, in una versione modificata dei passi del samba.
Mentre danzano, gli spiriti cominciano ad apparire, ciascuno si impossessa
di un medium particolare, solito essere posseduto da quello spirito. I
medium, una volta posseduti, cessano di danzare e assumono, nel
linguaggio facciale e corporeo caratteristiche dello spirito che hanno
ricevuto. Gli spiriti avviano una serie di ringraziamenti rituali, abbracciano
gli altri spiriti e lasciano l’area rituale per incontrare personalità di rango
della congregazione. Per poi rientrare nell’area rituale dove rimangono in
piedi, fumano il sigaro e lanciano grida che segnano la presenza degli
spiriti caboclo. Il capo del centro riceve Pai João, uno spirito preto velho,
che si muove con difficoltà e si appoggia a un bastone di legno. Canto e
batter di mani si interrompono. L’area rituale è il luogo di un incessante
movimento: è il momento delle consultas, quando i membri della

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congregazione possono interpellare gli spiriti sui propri problemi. I servi
del rito forniscono agli spiriti sigari sempre nuovi (l’aria si addensa) e
ricopiano le ricette di infusi per le preparazioni rituali raccomandati ai
clienti affinché risolvano i propri problemi. Hanno anche la funzione di
interpretare i responsi degli spiriti, bene spesso espressi in linguaggio
codificato di difficile comprensione e inoltre aiutano quei clienti che
vengono posseduti durante la cerimonia. Possessioni che si realizzano
spontaneamente: a differenza della possessione controllata di medium
esperti, la possessione del cliente è spesso violenta e i clienti devono esser
protetti da se stessi. Il momento drammatico è quando occorre tirar lo
spirito malvagio che perseguita il cliente: quattro o cinque iniziati
circondano il cliente, gli impongono le mani e uno alla volta divengono
posseduti, prorompendo in risate, oscenità o pose di invito sessuale
caratteristiche di Exú. Oppure cadono rigidi al suolo privi di sensi: hanno
assorbito le forze pericolose per entro i propri corpi. Le consultas
proseguono ad esaurimento delle fichas. Verso la mezzanotte i banchi della
congregazione risultano semivuoti (dopo aver ottenuto il responso, i clienti
si allontanano). Alla fine, rimane solo Pai João: una volta terminato il ciclo
delle consultas, anch’egli si allontana. Il capo riemerge e intona una serie
di pontos, con cui si chiude il servizio.

Per chi volesse condurre ulteriori letture:

Roger Bastide, Le Americhe nere. Le culture africane nel Nuovo Mondo,


Sansoni, Firenze 1970;

Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle


apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977;

Lucien Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, Einaudi, Torino 1981;

Gilberto Mazzoleni, Maghi e messia del Brasile, Bulzoni, Roma 1993;

Religione e magia. Culti di possessione in Brasile, UTET, Torino 1997;

Luciana Stegagno Picchio, Storia della letteratura brasiliana, Einaudi,


Torino 1997.

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3. Il ritorno di Calibano: immagini del cannibale nella cultura del
Moderno.

Il testo di riferimento è: Marvin Harris, Cannibali e re. Le origini delle


culture, Feltrinelli, Milano 1979.

[…] l’omicidio intergruppo organizzato [può] non aver fatto parte delle culture dei
nostri antenati dell’età della pietra. Così pare. Eppure la maggior parte delle prove
dimostrano il contrario [Marvin Harris, Cannibali e re, p. 43].

Su origini, cause e forme della guerra (l’ “omicidio intergruppo


organizzato”) si sono avanzate alcune teorie, che si possono riassumere
nelle seguenti tipologie: a) la guerra come solidarietà; b) la guerra come
giuoco; c) la guerra come espressione della natura umana; d) la guerra
come politica.

a) la guerra come solidarietà: la guerra è il prezzo da pagare per ottenere la


coesione del gruppo, la sua unità. La figura del nemico esterno. In un
gruppo soggetto a pressioni, come ipersfruttamento delle risorse,
rendimento decrescente della produzione e aumento delle pratiche
anticoncezionali (aborti) per sollevare dalla pressione demografica, il
comportamento aggressivo, che potrebbe sfociare in violenza intestina,
viene convogliato sull’esterno, come valvola di sicurezza.

b) la guerra come giuoco: la guerra viene ricondotta alle attività


competitive sportive di gruppo, in una curvatura squisitamente maschile – i
crow e altri pellirosse delle Grandi Pianure vestivano i “pacifisti” con abiti
femminili e li adibivano al servizio dei combattenti come loro attendenti.
Comunque, necessità di fomentare il coraggio e lo sprezzo della morte con
droghe ( i liquori forti durante la prima guerra mondiale).

c) la guerra come espressione della natura umana: esistenza di un “istinto


omicida”, legato alla lotta per la sopravvivenza.

d) la guerra come politica: è la logica conseguenza del tentativo di un


gruppo di mantenere i propri vantaggi sociali, economici, politici a spese di

71
un altro gruppo. Ma nelle società primitive, prestatuali, l’espansione
politica non può spiegare la guerra perché la logica secondo cui queste
comunità si muovono non è quella dello stato occidentale. La non
espansione come condizione per preservare un equilibrio favorevole tra
popolazione e risorse. Dispersione della popolazione in più ampi territori:
la creazione di “terre di nessuno”, che si pongono come riserva di cibo.
Occorre non espandersi: le morti di maschi combattenti – come il
gerontocidio – allentano la pressione temporaneamente, ma poiché siamo in
presenza di società poliginiche, i maschi sopravvissuti continuano ad
accoppiarsi con l’immutato pool di donne feconde. Joseph Birdsell: la
fertilità di un gruppo è determinata dal numero delle sue donne adulte,
piuttosto che da quello dei suoi maschi adulti. “Il numero di donne
determina … il tasso di fertilità”. Nelle società statuali, la guerra può
disperdere popolazioni, ma raramente ne riduce il tasso di crescita. Crescita
demografica europea, nonostante le guerre che – negli ultimi tre secoli –
hanno imperversato con cadenza decennale, anzi hanno favorito una rapida
crescita-ripresa demografica. Nelle società prestatuali la guerra contribuiva
a frenare la crescita demografica con l’infanticidio delle femmine:
incoraggiava l’allevamento di figli maschi, e svalutava la presenza delle
femmine, che non sono combattenti (salvo rare eccezioni: fenomeno
dell’amazzonismo). Senza la pressione demografica né la guerra né
l’infanticidio delle femmine si sarebbero diffusi. È un trionfo della cultura
sulla natura, giacché la guerra fornisce la giustificazione dell’infanticidio.
Preparazione al combattimento: la caccia, la lotta, la corsa, il duello, da cui
sono escluse le donne. Prove fisiche di preparazione-iniziazione:
mutilazioni rituali, lotte con mostri soprannaturali frutto di allucinazioni da
droghe. Le prove che vengono somministrate alle ragazze vertono
soprattutto sulla noia. Il silenzio dei maschi e il chiacchiericcio delle donne
(caccia e controllo del territorio).

Gli yanomamö che vivono nel bacino dell’Orinoco e del Rio Negro:
Napoleon Chagnon li definì un popolo crudele, dove il 33% dei decessi
maschili va fatto risalire a ferite di guerra:

Tra un villaggio e l’altro vi sono vaste estensioni di territorio, in gran parte coltivabili e
ricche di selvaggina […] Tra tutti i vari fattori che si possono menzionare quali cause
della “guerra” fra i villaggi, la competizione per le risorse non è uno dei più
convincenti. I tipi di guerra, generalmente intensiva, rilevati fra le culture aborigene
delle foreste tropicali non presentano valide correlazioni con carenze di risorse o rivalità
territoriali o per aree di caccia […] Le recenti teorie etnologiche sono sempre più
orientate verso l’idea che la guerra […] sia sempree spiegabile in termini di densità
della popolazione, scarsità di risorse strategiche quali il territorio o le “proteine” o una
combinazione di entrambi i fattori. Gli Yanomamö costituiscono un caso significativo,

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proprio in quanto la guerra non può essere spiegata in questo modo [Napoleon
Chagnon, Yanomamö Social Organization and Warfare, in War: The Anthropology of
Armed Conflict and Aggression, a cura di Morton Fried – Marvin Harris – R. Murphy,
1968].

Dimensioni ridotte dei loro insediamenti: si tratta di “fossili sociali”, come


ha sostenuto Donald Lathrap: “relitti” di società più evolute, “scacciati
dalle fertili pianure verso ambienti meno favorevoli”? Rapporto maschi-
femmine; per Chagnon 148 contro 100, secondo Jacques Lizot, il rapporto
era di 270:100. Tensioni determinate dalla carenza di donne, secondo
Chagnon.

La carenza di donne, conseguenza indiretta di un atteggiamento di ammirazione per la


mascolinità, finisce per provocare una profonda rivalità e rafforza così l’intero
complesso waiteri accentuando ancor più l’aggressività e lo spirito combattivo. In
pratica, la disgregazione di quasi ciascun villaggio da me studiato derivava da feroci
antgagonismi interni per le donne, e in molti casi i gruppi finivano per combattersi
dopo essersi separati [Napoleon Chagnon, Yanomamö Social Organization and
Warfare, in War: the Anthropology of Armed Conflict and Aggression, 1968].

Fenomeni contraddittori: 1) dimensioni ridotte dei villaggi e scarsa densità


di popolazione, nonostante l’abbondanza di risorse; 2) intensità della guerra
e del complesso waiteri nelle zone centrali dell’insediamento yanomano; 3)
infanticidio di neonate nonostante l’esigenza di una popolazione femminile.
Innovazione tecnologica recente, secondo Lizot:

Gli insediamenti indigeni sorgevano tradizionalmente lontano dai fiumi navigabili e per
scoprirli occorrevano molti giorni di cammino attraverso fitte foreste inesplorate […]
Solo di recente, seguendo la loro considerevole espansione in zone non popolate –
espansione dovuta tanto alle scissioni, alla guerra e alle contese – alcuni gruppi si sono
stabiliti, intorno al 1950, lungo il fiume Orinoco e i suoi affluenti [Jacques Lizot,
Aspects économiques et sociaux du changement culturel chez les Yanomanis, in
“L’Homme”, 1971].

L’apice della guerra deriva dalla spinta a mantenere lo standard di vita


mediante lo sfruttamento di zone più ampie o più produttive in
competizione con i villaggi vicini; l’apice dell’infanticidio femminile
deriva dalla spinta a porre un limite alle dimensioni del villaggio,
massimizzando al contempo l’efficienza bellica. L’innovazione tecnologica
di cui si è detto: circa un centinaio di anni fa gli yanomano cominciarono a
ottenere asce e machetes d’acciaio da altri índios in contatto con mercanti e
missionari bianchi: produssero quindi più cibo (sostituzione della banana

73
africana alla manioca autoctona), nutrendo un maggior numero di bambini.
A indicare la novità di questa nuova coltivazione, è il fatto che è
appannaggio dei maschi, mentre le donne hanno compiti di trasporto dei
carichi. Come osservava William Smole [1976], ciò distingue gli
yanomano da altre popolazioni indigene sudamericane, dove la coltivazione
delle piante è “esclusivo appannaggio delle donne”. Ciclo: nuova
tecnologia > intensificazione delle sfruttamento delle risorse > crescita
della popolazione > esaurimento delle risorse > rinnovata pressione
demografica > declino della razione di proteine pro capite. Nelle
condizioni della foresta tropicale, come ha rilevato Smole, “possono
trascorrere anche intere giornate durante le quali nessun uomo di uno
shabono va a caccia e di carne se ne vede poca o niente”. Necessità quindi
di percorrere sempre più lunghe distanze. Il rientro a mani vuote ingenera
insubordinazione delle mogli e dei fratelli più giovani: adulterio e
stregoneria aumentano, si consolidano le fazioni. “… la guerra fra bande e
tra villaggi è parte di un sistema per disperdere le popolazioni e per ridurre
il loro tasso di crescita demografica”.

Gli istituti della supremazia maschile sono il portato della guerra, del
monopolio maschile delle armi e dell’uso del sesso quale stimolo di
personalità maschili aggressive (lo stupro delle donne di altri gruppi come
corollario dello scontro bellico). La critica femminista: negare che la
supremazia maschile sia esistita in bande e villaggi; si è quindi presentata
la teoria di un’età dell’oro matriarcale. [Bachofen]. Le istituzioni
sessualmente asimmetriche sono un derivato della guerra e del monopolio
maschile delle armi. La guerra richiede l’organizzazione di comunità
attorno a un nucleo residente di padri, fratelli e dei loro figli; a) controllo
delle risorse da parte di gruppi di interessi paterni-fraterni e allo scambio di
sorelle e figlie fra tali gruppi (patrilinearità, patrilocalità e “prezzo della
sposa”); b) spartizione delle donne come ricompensa per l’aggressività
maschile e quindi poligamia; c) assegnazione del lavoro faticoso alle donne
e loro rituale subordinazione e svalutazione, che comportano la
considerazione della impurità della donna durante il periodo mestruale
[Cabeza de Vaca], le minacce a donne e bambini con raganelle, maschere e
altri strumenti la cui natura viene tenuta segreta alle donne. Tutto ciò in
circoli maschili da cui le donne sono rigorosamente escluse, per preservarsi
dal loro contagio. Ma militarismo anche in alcune società patrilineari, come
per gli irochesi (guerre incessanti, abitudine a sopportare il dolore,
trattamento spietato dei prigionieri di guerra, cannibalismo); ma gli irochesi
erano dotati di una cultura patrilineare, matrilocale, non conoscevano il
“prezzo della sposa”, erano monogami, né isolavano e spaventavano le

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donne con complessi rituali religiosi. Diversità della guerra praticata da
comunità patrilineari e comunità patrilineari: le comunità patrilineare
praticano “guerre esterne”, scorribande nei territori di nemici distanti e
diversi, etnologicamente e linguisticamente. La “guerra interna”
(yanomamö) è condotta contro gruppi vicini. Matrilocalità: cementa una
cooperazione tra gli uomini per costituire grossi gruppi di combattimento
per nemici distanti. E proprio la distanza implica l’assunzione da parte
delle donne di ruoli maschili: i maschi assenti trasferiscono le
responsabilità alle sorelle rimaste in casa, piuttosto che alle mogli, sensibili
agli interessi di gruppi di interesse paterno. I fratelli inoltre sollecitano
matrimoni nel loro stesso gruppo, per evitare interferenze. I mariti nella
matrilocalità divengono residenti temporanei con privilegi sessuali e
possono venire rimandati al minimo conflitto.

Tre i centri in cui si svilupparono i primi stati: a) la Mesopotamia (intorno


al 3300 a. C.), b) il Perú (attorno all’epoca di Gesù), c) l’America centrale
(attorno al 300 d. C.). Causa, l’intensificazione della produzione agricola:
produzione di cibo per alleviare la pressione demografica; i “grandi
uomini”, tenaci lavoratori, ambiziosi e socialmente responsabili, che
sollecitano parenti e vicini a lavorare per loro promettendo di organizzare
una grande festa con il cibo supplementare prodotto. Nella grande festa
(potlatch) il “grande uomo” distribuisce cibo e doni senza conservare
niente per sé. Il potere effettivo di un capo era comunque limitato:
poggiava sulla sua capacità di “grande dispensatore”, che dipendeva dai
legami di parentela e matrimoniali piuttosto che dal controllo di armi e
risorse. La redistribuzione costituisce la chiave per comprendere numerosi
monumenti e strutture antichi: capacità di organizzare il lavoro per imprese
di comune interesse: monumenti come luogo delle feste redistributive, di
rituali comunitari rivolti al controllo delle forze della natura e da
testimonianze delle prodezza dei “grandi uomini”. Quanto più larga e densa
è la popolazione, tanto più larga è la rete distributiva e più potente il capo
guerriero redistributore: squilibrio dei poteri tra il redistributore e i suoi
seguaci e la comune gente, cosicché i primi divengono la principale forza
coercitiva della società. Contributi divengono tasse. Accesso ai terreni
agricoli diviene concessione. I redistributori cessano di essere capi.
Divengono re.

John Beattie scriveva dei bunyoro:

Il re era visto sia come il supremo ricevitore di beni e servizi, che come il supremo
donatore […] I grandi capi, che ricevevano tributi dai loro sudditi, dovevano cedere al
mukama una parte del prodotto delle loro proprietà nella forma di raccolti, bestiame,

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birra o donne […] Ma tutti hanno l’obbligo di dare qualcosa al re, non solo i capi […] Il
ruolo del mukama in quanto dispensatore, era, di conseguenza, non meno gravoso.
Molti dei suoi appellativi speciali esaltano la sua magnanimità e tradizionalmente era
previsto che egli dispensasse molte cose attraverso feste e doni a singoli individui [John
Beattie, Bunyoro: An African Kingdom, 1960].

Trasformazioni: il mukama usa gran parte delle sue entrate per rafforzare il
proprio potere di coercizione. Mantiene una guardia di palazzo permanente
e premia i suoi fedeli. Investe parte del reddito per le pubbliche relazioni.
Viaggi nel suo territorio. Parallelo con Guglielmo il Conquistatore
nell’Inghilterra del XII secolo: viaggi permanenti, per controllare i propri
capi e usufruire della loro ospitalità. Tre grandi feste all’anno durante le
quali metteva la corona. Svanire del ruolo di grande dispensatore, in
Occidente. Robert Briffault, The Mothers [1960], sostiene che le antiche
società statuali possedevano una struttura matrilineare al momento del
raggiungimento della forma statuale; Flinders Petrie sosteneva che i nomi
(partizioni) dell’Antico Egitto fossero stati clan matrilineari. Strabone
ricorda come a Creta si adoravano divinità femminili (la dea dei serpenti) e
le donne ricevevano un ruolo preminente e si praticava la matrilocalità;
Plutarco sostiene che a Sparta il matrimonio era matrilocale e “le donne
comandavano sugli uomini”. Erodoto scrive dei lici: “hanno un’usanza
singolare che li distingue da tutti gli altri paesi del mondo: ricevono il nome
dalle loro madri, non dai loro padri”. Nella Germania, Tacito afferma che
“i figli di una sorella hanno la stessa posizione tanto riguardo al loro zio
quanto riguardo al loro padre”, laddove “alcuni si sentono addirittura più
legati al primo”.

Così Bernal Diaz del Castillo ritrae l’impresa messicana di Hernán Cortés:

Il giorno appresso ci mettemmo per una strada molto ampia su un argine ched
conduceva a Itzapalapa, e pssavamo di meraviglia in meraviglia vedendo tanti apesi e
città, alcune costruite sull’acqua, altre in terraferma, e quel grande argine che portava al
Messico, così dritto e piano. Vaste città, edifici e templi smisurati sorgevano dall’acqua,
tutti fatti di pietra, come negli incantesimi della storia di Amadigi. I soldati si
domandavano se quello non fosse tutto un sogno [Bernal Diaz del Castillo, La conquista
del Messico, 1517-1521].

Il mondo del romanzo cavalleresco, quello che doveva abitare la fantasia di


Don Quijote, si rivela un mondo dominato dal senso della violenza, della
malattia, della corruzione e della morte. Moctezuma invita Cortés e i suoi a
salire i 114 scalini dei templi gemelli di Uitzilopochtli e di Tlaloc, situati in

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cima alla piramide più alta di Tenochtitlán, e gli spagnoli scoprono un
panorama di santuari e di templi “tutti di un bianco splendente”; ma la
cima della piramide contiene le “grandi pietre su cui essi ponevano i poveri
indiani da sacrificare”. Le pareti e il tempio di Uitzilopochtli erano
“talmente macchiati e incrostati di sangue da apparire neri”, mentre
aleggiava un “lezzo insopportabile”. Lo stesso nel tempio di Tlaloc, dove
erano coperti di sangue “sia le pareti che l’altare, e vi era un tal lezzo che
non vedevamo l’ora di uscirne”. Le divinità azteche mangiavano le
persone, ne divoravano il cuore e ne bevevano il sangue. La funzione del
clero azteco era quella di procurare cuori e sangue umani freschi, affinché
questi dei implacabili non si incollerissero e mettessero a distruzione il
mondo. Il cibo degli dei erano i prigionieri di guerra, ai quali veniva
strappato e bruciato il cuore, secondo la descrizione lasciataci da Diego
Durán:

I cinque preti entrarono e chiamarono il primo prigioniero della fila […] Ciascun
prigioniero veniva condotto davanti al re, e, dopo averlo costretto a rimanere in piedi
sopra la pietra, che raffigurava il sole, ve lo stendevano di schiena. Uno lo afferrava per
il braccio destro, un altro per il sinistro, uno per il piede sinistro, un altro per quello
destro, mentre il quinto prete lo bloccava con una corda al collo affinché non potesse
muoversi. Il re alzava quindi il coltello e squarciava il suo petto, poi ne estraeva il cuore
e lo innalzava sulla sua mano come offerta al sole. Quando il cuore si era raffreddato, lo
gettava in una buca circolare, raccogliendo un po’ di sangue nella sua mano e
spruzzandolo in direzione del sole [Diego Durán, Historia de las Indias de Nueva
España y Islas de tierra firme, 1579-1581].

Il corpo veniva fatto rotolare giù per i gradini della piramide, per essere
recuperato dal suo catturatore, che lo portava a casa per approntare un
banchetto con i parenti – fatta salva una quota per il re. Ma venivano
sacrificati anche schiavi: giovani e giovanette venivano scelti per
impersonare dei e dee. Nell’anno precedente la loro esecuzione venivano
trattati con grande riguardo e dolcezza. Ecco il sacrificio di una fanciulla
che impersona la dea Uixtochuatl:

Dopo che ebbero uccisi i prigionieri, solo [allora] venne il turno di Uixtochuatl; ella
venne solo alla fine. Quando finirono con tutti gli altri rimaneva solo lei. La distesero
sorpa la pietra votiva, riversa sulla schiena. La tennero ben ferma tirandola per le
braccia e le gambe; poi sollevarono in alto il suo petto, premendo verso il basso le sue
spalle e tenendo ferma la sua testa sulla terra. E le premettero contro la gola la bocca di
un pesce spada con i suoi denti aguzzi da entrambi i lati. Di fronte a lei stava il suo
giustiziere, che le squarciò il petto. Quando lo aprì sgorgarono fiotti caldi di sangue che
zampillarono lontano. Poi egli sollevò il suo cuore come un’offerta e lo pose nella giara
verde di pietra. Poi squillarono alte le trombe. E quando tutto ebbe fine, deposero il

77
corpo e il cuore di Uixtochuatl, coprendolo con un manto prezioso [cit. in Marvin
Harris, Cannibali e re, p. 113].

Il tratto distintivo della religione azteca non è tanto l’introduzione del


sacrificio umano, quanto piuttosto la sua manifestazione in forme
distruttive specifiche: si evidenzia il passaggio dal caso fortuito della
cattura di un prigioniero in battaglia a una pratica ordinaria di sacrifici
umani quotidiani. Caratteristica di massa del massacro azteco:

[…] vi erano pile di teschi umani allineati in modo talmente ordinato che li si poteva
contare. Secondo i miei calcoli ve n’erano più di centomila. Sì, proprio come ho detto,
più di centomila [Diego Durán, Historia de las Indias de Nueva España y Islas de
tierra firme, 1579-1581].

La spiegazione di Jacques Soustelle sulla dimensione religiosa del ciclo


guerra-sacrificio nella cultura azteca: “Dove si potevano trovare altre
vittime? Queste erano essenziali a fornire agli dei il loro nutrimento …
dove si poteva trovare il sangue prezioso senza il quale il sole e l’intera
struttura dell’universo erano condannati a scomparire? Era essenziale
rimanere in uno stato di guerra … La guerra non era solamente uno
strumento politico: era soprattutto un rito religioso, una guerra santa”
[1962]. Sherburne Cook rifiuta un approccio sentimentale all’enigma dei
sacrifici aztechi, nel 1946: “nessuna tendenza puramente religiosa può
sussistere se in contrasto con fondamentali esigenze economiche”; perciò,
guerra e sacrifici facevano parte di un sistema atto a regolare la crescita
demografica, nella congiunzione di morti in battaglia e di vittime
sacrificate, fino a raggiungere il 25% del tasso di mortalità. Michael
Harner, nel 1970, avanzava una nuova tesi, fondata sulle descrizioni di
Bernardino de Sahagún.

Dopo aver strappato i loro cuori e versato il sangue in un vaso di zucca che veniva
offerto all’officiante, il corpo delle vittime veniva fatto ruzzolare giù per i gradini della
piramide e andava a finire in una piazzola antistante. Alcuni vecchi lo sollevavano e lo
trasportavano nel loro tempio tribale, dove veniva smembrato e diviso per essere
mangiato [Bernardino de Sahagún, Historia general de las cosas de Nueva España,
1547-1562].

La conferma in Diego Durán:

Una volta strappato, il cuore veniva offerto al sole e il sangue sprizzava verso la divinità
solare. Imitando la discesa del sole verso occidente, il corpo veniva gettato giù dai

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gradini della piramide. Dopo il sacrificio, i guerrieri celebravano una grande festa con
danze, cerimoniali e pastri cannibalici [Diego Durán, Historia de las Indias de Nueva
España y Islas de tierra firme, 1579-1581].

Ciascun prigioniero aveva dunque un padrone o, meglio, un proprietario –


chi aveva effettuato la sua cattura, nella cui casa era ospitato e nutrito fino
al momento del sacrificio; il corpo, da cui era stato estirpato il cuore,
veniva riconsegnato al padrone, che lo riconduceva nel recinto, dove
veniva smembrato e cotto. Marvin Harris: “il cannibalismo azteco non
consisteva in una degustazione casuale di leccornie cerimoniali”, bensì
l’uso delle carni era affine a quello prescritto per gli animali domestici. “I
sacerdoti aztechi si possono definire … come macellatori rituali di un
sistema statalistico dedito alla produzione e redistribuzione di sostanziose
quantità di proteine animali nella froma di carne umana”. Secondo Harner,
seguito da Harris, la risposta al quesito: perché per le grandi divinità del
Vecchio Mondo il consumo di carne umana era tabu – a differenza di
quanto avveniva nella Mesoamerica? A) esaurimento dell’ecosistema
mesoamericano, sotto l’impatto di secoli di produzione intensiva e di
crescita demografica, b) rapporto positivo costi-benefici nell’uso della
carne umana come fonte di proteine animali più facilmente raggiungibile
rispetto ad altre opzioni. La Mesoamerica, alla fine dell’era glaciale, si era
trovata di fronte a un esaurimento delle risorse di carne animale più grave
che altrove: la crescita demografica costante e l’intensificarsi della
produzione sotto l’azione coercitiva degli antichi imperi eliminarono la
carne animale dalla dieta della gente comune, laddove il ceto dominante
continuò a nutrirsi di cani, tacchini, anitre, cervi, conigli e pesci. Cereali e
fagioli fornivano gli aminoacidi essenziali, ma ricorrenti crisi di produzione
lungo il secolo XV abbassarono le percentuali di proteine in maniera
allarmante. Ma quel che va ancora sottolineato è che il rapporto costi-
benefici del controllo politico migliorava sensibilmente in seguito all’uso di
carne umana per ricompensare determinati gruppi. Azzardiamo l’ipotesi
contraria: la disponibilità di specie animali domestiche svolse un ruolo
decisivo nella proibizione del cannibalismo e di religioni umanitarie nel
Vecchio Mondo.
Accanto alla lettura del fenomeno da parte di Marvin Harris, e della sua
teoria del “materialismo culturale”, possiamo collocare l’interpretazione
freudiana: Eli Sagan, Human Aggression, Cannibalism, and Cultural Form,
1974, sostiene che il cannibalismo è “la forma più fondamentale di
aggressività umana”, poiché implica un compromesso, una negoziazione
tra l’amore per la vittima, che si esprime nel fatto di mangiarla, di
introiettarla, di farla parte di noi, e l’ucciderla – perché al contempo essa ci

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frustra. Mimesi del rapporto amore-odio nei confronti dei padri. La guerra
come sacrificio rituale, per far felici gli antenati o gli dei della guerra.

L’addomesticamento degli animali ebbe luogo in seguito alla distruzione


della megafauna , per fornire razioni di carne: agli inizi, i villaggi erano
circondati da riserve di foreste e di pascoli non necessarie alle piantagioni
di grano e orzo; ma quando la densità della popolazione umana si
accrebbe, la superficie di foreste e prati non coltivati ma adibiti
all’allevamento degli animali decrebbe. Scelte alternative: aumento della
coltivazione di piante commestibili oppure allevamento di un maggior
numero di animali. Si predilesse la prima scelta, poiché il rendimento
calorico della produzione di piante è superiore a quello di animali. Ma le
specie addomesticate si rivelavano utili anche per altri servizi: forza di
trazione, produttori di fibre e di fertilizzanti. Con l’impiego di latte e
latticini, gli animali domestici diventarono più utili da vivi che da morti.
Scomparsa della carne dalla dieta della gente comune. Il consumo di
aminoacidi necessari comporta l’ingestione (e la produzione) di numerose
piante, laddove il consumo di carne diviene un mezzo efficiente di rifornire
l’organismo degli aminoacidi necessari. I tabu alimentari. Eric Ross [1977]
sostiene che il ruolo ecologico di particolari specie non è stabilito una volta
per tutte, ma è parte di un processo dinamico: le culture tendono a imporre
sanzioni di ordine sovrannaturale, tabuizzare, quando il rapporto tra
benefici comuni e costi connessi all’uso di una particolare specie subisce
uno squilibrio. L’allevamento dei maiali comportava costi tali da costituire
un centro di squilibrio per il sistema di sussistenza delle regioni del Medio
Oriente: il maiale è una creatura che vive nelle foreste, lungo le rive dei
fiumi e i bordi delle paludi, fisiologicamente inadatto alla luce solare forte
e alle alte temperature. Se nutrito con piante ad alto contenuto di cellulosa,
perde i vantaggi sulle altre specie animali come convertitore di piante in
carne e grassi. Agli inizi della sua domesticazione, la regione era piena di
foreste che, comunque, si trasformarono nel tempo in praterie per la
diffusione di economie agricole e pastorali al contempo. Irruzione del
deserto. La integrazione della dieta dei maiali con i cereali, li rese
competitivi con gli uomini. Il divieto di Levitico, 11, 7:

il maiale, perché ha lo zoccolo spaccato e l’ungvhia divisa ma non è un ruminante, è


impuro per voi.

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“A Settentrione, oltre il deserto che si stende dopo le terre degli Sciti,
abitano gli Androfagi. Presso di essi si praticano le usanze più selvagge del
mondo, ed è popolo senza giustizia e senza legge alcuna. Sono nomadi,
vestono in modo simile agli Sciti, parlano una lingua particolare, e soli
tra questi popoli mangiano carne umana”. Così Erodoto, nelle Storie, IV,
106.

Iniziava così, con il padre delle storie, il lungo cammino dell’immagine


dell’antropofago, che avrebbe abitato il plesso concettuale del mondo
civilizzato, come segno della più radicale inumanità. In una ampia rassegna
dei popoli della terra, contenuta nel libro IX delle Etymologiae [composto
tra il 624 e il 636], Isidoro di Siviglia accenna agli “Anthropophagi”,
assieme ad altre popolazioni stravaganti per la scelta del nutrimento
(“Pamphagi”, “Icthyophagi”), collocati a meridione della Cina e nei pressi
degli Antipodi: “Gli Antropofagi sono un popolo estremamente rude che
vive a sud della regione dei Seri: sono così chiamati in quanto si nutrono di
carni umane”. Ma l’immagine dell’antropofago doveva ritornare in un
ciclo romanzesco dalle origini classiche: si intende dire del romanzo
ellenistico di Alessandro Magno dello PseudoCallistene, nutrito della
cultura geografica di Etico. Si tratta ora di indicare alcune linee di
discendenza del mito degli antropofagi, giacché da Etico possiamo fare
discendere da un lato la leggenda di Alessandro, ma dall’altro la
dimensione geografica, di descriptio mundi che in tale leggenda viene
contenuta, come nelle carte di Hereford (XIII secolo) e di Erbstorf. A un
testo collegato, la Epistola Premonis regis ad Traianum imperatorem sulle
meraviglie dell’Oriente, reiterato altresì nel De rebus in Oriente
mirabilibus, testi che confluiranno poi nel Liber monstrorum del IX-X
secolo; alla efferatezza gli antropofagi uniscono il colore nero e le
proporzioni gigantesche.

Finora abbiamo parlato di Antropofagi e Androfagi. È solo con l’impatto


con il Nuovo Mondo che queste popolazioni assumono il nome di
“cannibali”, grazie a Colombo e ai suoi fraintendimenti. Sino alla fine del
XV secolo, il termine “antropofago” indicava quindi quei selvaggi ai
margini della società occidentale; con la confusione appunto tra carib
(caraibo) e canib doveva nascere la nuova gente dei cannibali. Colombo
cercava di coniugare la realtà cannibalica con il suo sogno dell’Asia:

E per tal motivo torno a ripetere quel che già altre volte ho detto, che Canina non è altro
che il popolo del Gran Can, i cui domini debbono trovarsi molto vicini e che egli sarà in
possesso di navi che giungeranno fin qui per catturare questi isolani e siccome i

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prigionieri non tornano più indietro, ritengono che sono stati divorati [Cristoforo
Colombo, Giornale di bordo, martedì 11 dicembre 1492].

La visione edenica del selvaggio in Pero Vaz de Caminha:

Assim, Senhor, a inocência desta gente é tal, que a de Adão não seria maior [Pero Vaz
de Caminha, Carta a el-rei Dom Manuel sobre o achamento do Brasil, 1 maggio 1500].

Ma pochi anni dopo, all’Eden si sostituisce l’orrore, come nella silografia


del 1505 che rappresenta momenti tipici della vita degli indigeni brasiliani:

Questa figura ci rappresenta la popolazione e l’isola scoperte dal re cristiano del


Portogallo o dai suoi sudditi. Si tratta di una gente nuda, ben fatta, scura di carnagione,
di corporatura ben proporzionata, con il capo, il collo, le braccia, gli organi sessuali, i
piedi […] sommariamente coperti da piume. Gli uomini hanno anche il volto e il petto
ornati di pietre preziose. Nessuno possiede beni suoi propri, ma tuttoè in comune; e gli
uomini hanno come mogli le donne che piacciono loro, siano esse loro madri, sorelle o
amiche, non facendo essi riguardo a ciò alcuna distinzione. Combattono anche tra di
loro, e si mangiano pure l’uno con l’altro, persino quelli che sono assassinati, e mettono
le loro carni ad affumicare. Vivono fino a centocinquanta anni e non hanno alcuna
forma di governo [cit. in W. Eames, Description of a Wood Engraving Illustrating the
South American Indians (1505), in “Bulletin of the New York Public Library”, 1922].

Una vita che viene vista e narrata dall’interno qualche decennio dopo nella
Warhaftig Historia di Hans von Staden, il quale mette in risalto la natura
cerimoniale del rito cannibalico:

Non lo fanno per fame, ma per grande odio e gelosia; e quando in guerra si battono in
scaramucce si gridano l’un l’altro con profondo astio: “Debe mara pá, xe remiuram,
begué” (Capiti ogni disgrazia a te che sei il mio cibo). “Nde akanga juká aipotá kuri ne”
(Voglio oggi stesso fracassarti la testa). “Xe anama pepita re xe aju” (Sono qui per
vendicare su di te la morte dei miei amici). “Nde roó, xe makaen será, kuarasy ar eyma
riré” (Oggi stesso, prima del tramonto del sole, la tua carne sarà il mio arrosto). E così
via. Tutto questo essi fanno per grande inimicizia [Hans von Staden, La mia prigionia
tra i cannibali, 1553-1555, 1557].
Colui che colpiva la vittima, al quale era vietato di toccarne la carne, si
rifugiava nella capanna e quel giorno osservava un digiuno completo.
Comportamento penitenziale, fatto per scongiurare la vendetta dell’ucciso,
ma anche per indicare la nascita di una nuova vita. Gli stessi temi
ritroviamo nel testo di Pero de Magalhães Gandavo

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Se il prigioniero è uomo coraggioso, e non si perde d’animo in tale frangente, come
fanno alcuni, risponde con orgoglio e fierezza: “Avete ragione di uccidermi; perché io
ho trattato alla stessa stregua i vostri parenti e amici e, se essi sono vendicati dalla mia
morte, ricordatevi che i miei parenti e amici mi vendicheranno alla loro volta, e
tratteranno voi e i vostri discendenti alla stessa maniera”. Quando ha detto tutto ciò e
altre cose simili, l’esecutore gli si avvicina, tenendo levata la spada con le due mani e fa
più volte finta di colpirlo. La miserabile vittima, vedendo la spada tra le mani del suo
mortale nemico, fissa gli occhi su quest’arma spaventevole e si difende meglio che può.
Capita a volte che essi combattano a corpo a corpo e che ferisce l’esecutore conla sua
stessa spada. Ma ciò è raro, poiché gli astanti si affrettano a toglierglielo dalle mani.
L’esecutore […] gli rompe la testa d’un colpo solo. Immediatamente, una vecchia
Indiana, che si tiene pronta con una zucca in mano, accorre per raccogliere il sangue e il
cervello. Non appena morto, viene fatto a pezzi, e tutti i capi presenti ne prendono uno
per offrirlo alle genti del proprio vilaggio. Fanno cuocere e arrostire tutto, e non resta
nulla che non sia divorato dalle genti del paese […] Fanno affumicare un braccio, una
gamba o qualche altra parte del corpo del prigioniero e li conservano per molti mesi.
Quando vogliono mangiarne, celebrano le stesse feste e rinnovano con le stesse
cerimonie il ricordo della loro vendetta. Una volta che hanno mangiato della carne dei
loro nemici, l’odio diviene eterno; poiché è un’offesa che non perdonano e cercano di
vendicarsi reciprocamente […]. [Pero de Magalhães Gandavo, Storia della Provincia di
Santa Cruz, 1576].

Una modificazione di immagine: dal territorio edenico all’immagine


infernale indicata dal gesuita Nóbrega: “uma boca infernal de comer a
tantos cristãos, quantos se perdem em barcos e navios por toda a costa”.
Tra coloro che fecero naufragio sulle coste del Brasile vi fu anche Pero
Fernandes Sardinha, primo vescovo del Brasile, catturato e divorato dai
caetés.

Il topos del duello verbale tra vittima e carnefice ritorna nella Historia de
las Indias di Bartolomé de Las Casas, che riporta documenti di missionari
portoghesi vissuti tra i tupinamba, mettendo in rilievo il fatto che la vittima
rinfaccia al carnefice “che anche lui uccise molti suoi nemici, e che
rimanevano i suoi parenti per vendicare la morte”. Ancora il francese
André Thevet, che fu tra i tupinamba e ne lasciò un resoconto steso nel
1568, ricorda: “Io ho ucciso e mangiato i genitori di colui che mi tiene
prigioniero e i margaiates non lasceranno che la mia morte resti
invendicata”. Stessa curvatura nel racconto di Jean de Léry: “Non sei tu
della gente detta margaias, che è nostra nemica? Non hai tu stesso ucciso e
mangiato i nostri genitori?”. L’inglese Knivet riferisce delle asserzioni di
un tupinamba a un portoghese: “Sono colui che ha ucciso molti della tua

83
nazione e ucciderò anche te”. In Montaigne abbiamo la contaminazione del
mito dell’età dell’oro e la rappresentazione dell’antropofago colta secondo
la letteratura che abbiamo testé visto:

[…] quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrapass[a] non solo tutte le
descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro, e tutte le sue immagini atte a
raffigurare una felice condizione umana, ma anche la concezione e il desiderio
medesimo della filosofia. Essi non poterono immaginare una ingenuità tanto pura e
semplice quale noi vdiamo per esperienza; né poterono credere che la nostra società
potesse mantenersi con così pochi artifici e legsami umani. È un popolo, direi a Platone,
nel quale non esiste nessuna sorta di traffici; nessuna conoscenza delle lettere; nessuna
scienza dei numeri; nessun nome di magistrato, né di gerarchia politica; nessuna usanza
di servitù, di ricchezza o di povertà; nessun contratto; nessuna successione; nessuna
spartizione; nessuna occupazione se non dilettevole; nessun rispetto della parentela oltre
a quello ordinario; nesun vestito; nessuna agricoltura; nessun metallo; nessun uso di
vino o di grano. Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione,
avarizia, invidia, diffamazione, perdono, non si sono mai udite.
[…]
Essi fanno guerra contro i popoli che sono al di là delle loro montagne, più addentro
nella terraferma, e vanno in guerra tutti nudi, senza altre armi che archi o spade di
legno, appuntite da un capo, come le punte dei nostri spiedi. Straordinaria è la loro
tenacia nei combattimenti, che non finiscono altro che con strage e spargimento di
sangue; poiché fughe e panico non sanno che siano. Ognuno riporta come proprio trofeo
la testa del nemico che ha ucciso, e l’appende all’ingresso della propria casa. Per molto
tempo trattano bene i loro prigionieri, e con tutte le comodità che possono immaginare,
poi quello che ne è il capo riunisce in una grande assemblea i suoi conoscenti; attacca
una corda a un braccio del prigioniero e lo tiene per un capo di essa, lontano di qualche
passo per paura di esserne colpito, e dà da tenere alla stessa maniera l’altro braccio al
suo più caro amico: e tutti e due, alla presenza di tutta l’assemblea, l’ammazzano a colpi
di spada. Fatto ciò, lo arrostiscono e lo mangiano tutti insieme, e nei mandano dei pezzi
ai loro amici assenti. Non lo fanno […]per nutrirsene, come facevano anticamente gli
Sciti; ma per esprimere una suprema vendetta.
[…]
Io posseggo una canzone composta da un prigioniero, in cui si trova questo tratto
saliente: che vengano pure arditamente tutti quanti e si radunino per mangiarlo;
mangeranno, così, al tempo stesso, i loro padri e i loro avi, che hanno servito di
alimento e di nutrimento al suo corpo. “Questi muscoli” dice “questa carne e queste
vene sono i vostri, poveri pazzi che siete; non vi rendete conto che dentro vi è ancora la
sostanza delle membra dei vostri antenati: assaporateli bene, vi troverete il sapore della
vostra stessa carne”. Idea questa che non ha niente di barbarico [Michel de Montaigne,
Essais, I, xxxi, “Dei cannibali”].

L’ingestione dell’altro ha a che fare con una strana forma di potere, un


potere che si rovescia paradossalmente nel suo contrario: un depotere che
espone all’altro e lo sacralizza, lo trasforma in totem. L’incorporazione
dell’altro finisce per configurarsi come un modo di dare corpo all’altro.

84
La realtà del cannibalismo nella Francia delle guerre di religione è
multiforme: a) cannibalismo di carestia, frequente nelle campagne provate
dalle cattive annate e vittime delle razzie delle bande armate; b)
cannibalismo di vendetta a contenuto simbolico negli episodi più cruenti
della repressione antiprotestante (“fricassea di orecchie umane”; la Notte di
San Bartolomeo, dove si mangiano “fegati, cuori e altre parti del corpo”
degli ugonotti massacrati, secondo quanto riporta Jean de Léry, Histoire
d’un vouage faict en la terre de Brésil, 1578); c) cannibalismo
consuetudinario, come in certe regioni della Francia; d) cannibalismo
criminale. Due le caratteristiche principali di questi cannibalismi: a)
cannibalismo di costrizione e b) cannibalismo di violenza dalla forte
valenza simbolica. Da quest’ultima forma promanano i “riti di violenza”
che si osservano nel corso delle guerre di religione. Immediatamente, il
cannibalismo è percepito come segno di un disordine dell’ordine
universale, di cui è responsabile l’uomo peccatore: “monde abesty”, “siecle
lamentable”, “age de fer consumé de rouillure”, alcuni temi legati al motivo
del mondo alla rovescia di cui l’atto cannibalico – rottura di un tabu,
analogo a quello dell’incesto (si veda quanto detto degli indiani) – è la
manifestazione estrema. Scandalo insuperabile, l’atto cannibalico è
suscettibile solo di una spiegazione che rinvii al mito: il mito di Tieste che
ritroviamo in Agrippa d’Aubigné, Les Tragiques, I, 543-544: “On dit que le
manger de Thyeste pareil / Fit norcir et fuir et cacher le soleil”; o ancora,
profezie apocalittiche. Il cannibalismo permette di rendersi conto del
disordine dell’epoca in termini di simbolica religiosa: mette in
comunicazione la confusione di quaggiù con una volontà suprema, di cui il
mito riporta la parola velata.
Questa proliferazione dell’immagine è sensibile nel seno del discorso
protestante, suscitato all’origine dal sangue dei martiri e la cui componente
teologica doveva per molti decenni cristallizzarsi nella critica del dogma
della presenza reale e corporale del cristo nell’eucarestia. Si vede costituirsi
una vera e propria ermeneutica cannibale, che denuncia i riti
dell’avversario cattolico come crimini di sangue. L’episodio dell’assedio di
Sancerre (1572-1573) narrato da Jean de Léry: l’atto, una volta consumato
da una madre sul figlio, conclude e spiega la storia delle sventure della
città. La narrazione si interrompe e si procede all’invocazione a Dio:

Mais, ô Dieu eternel! Voicy ancore le comble de toute misere et du jugement de Dieu.
Car comme il proteste en sa Loy qu’il reduira ceux qui n’obeirent à ses Commandemens
en tel estat, que durant le siege il fera que les meres mangeront leurs enfants [Jean de
Léry, Histoire memorabile de la ville de Sancerre, 1574].

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Orrore incomprensibile sul piano terrestre, il delitto alimentare può essere
illuminato solo da uno sguardo che ascende al cielo: il cannibalismo, in
questa messa a distanza, ninete perde del suo carattere atroce, mostruoso,
ma rientra in uno schema di esplicazione teologica. La cucina papale non si
nutre solo dell’estorsione delle decime o della vendita delle indulgenze, ma
anche di “Chrestiens bouillis, roustis, trainez / Jusques aux cendres”. Roghi
dell’inquisizione, fuochi della cucina. In un testo satirico di Lione 1563, gli
inquisitori promettono di fare bollire, arrostire gli eretici, finché “on sentire
d’une lieue à la ronde / Le puanteur de leur charongne immonde”.
L’immagine del malvagio, consegnata nelle prefoezie di Michea, si applica
ai malvagi di questo mondo. La profezia di Ezechiele che compara i
principi malvagi ai bestie feroci che penetrano nel gregge per succhiare il
sangue degli agnelli durante il sonno. Così, il Cardinale di Lorena è detto
da François Hotman “tigre de France”, nella Epistre envoyée au Tigre de
France del 1561. Un epiteto che ritorna più volte nell’immaginario
protestante:

Jusques à quand, François, baisserez-vous les testes


Pour vous laisser manger à ces estranges bestes
Qui meurent tous les jours d’insatiable faim
Et baillent alterés après le sang humain? [Le tygre, satire sur les gestes memorables des
Guisards, 1561].

Un’immagine che si colora di venature di critica sociale, laddove –


riprendendo l’apologo di Menenio Agrippa – si vede lo sfruttamento del
popolo: “Ton chef mange tes bras” (Agrippa). L’immagine è quella di un
corpo gigantesco, macroantropo, che si autodivora; la testa come vampiro,
omofago.

Il cannibalismo presuppone, come già si è detto, una sostanziale affinità tra


il mangiatore e il mangiato (una complicità, come nel caso delle sfide dei
tupinamba); la cottura della vivanda, che presuppone un inserimento
dell’atto estremo, radicale, nella categoria della cultura (v. Lévi-Strauss) è
presente nello stato di assedio, nella ossessione di uno spazio
claustrofobico, chiuso (controutopia). Esempi biblici: IIRe, 28-29 [assedio
di Samaria]: “ ‘Questa donna mi ha detto: - Dammi tuo figlio perché lo
mangiamo oggi; mio figlio lo mangeremo domani. Così abbiamo fatto
cuocere mio figlio e l’abbiamo mangiato ‘ ”. La maledizione di Levitico 26,
29: “Mangerete la carne dei vostri figli e la carne delle vostre figlie”. Come
ha notato Frank Lestringant, “il cannibalismo appare doppiamente legato al

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fatto dell’assedio: conseguenza e riflesso analogico”: “C’est en ces sièges
lents, ces sièges sans pitié / Que des seins plus aimants s’envole l’amitié”
[Agrippa d’Aubigné, Les Tragiques, I 499-500]. Il cannibalismo compare
al culmine di una escalation della fame: la fame divorante si impossessa
degli alimenti più inattesi, pergamene, libri. Il richiamo al libro divorato
assume connotazioni apocalittiche: Apc 10, 10: “Presi il libro dalla mano
dell’angelo e lo inghiottii: nella bocca era dolce come il miele, ma dopo
che l’ebbi inghiottito, le mie viscere si riempirono d’amarezza”. Nella
Histoire memorable de la ville de Sancerre, Jean de Léry prepara una
climax alimentare verso la catastrofe cannibalica: asini, cavalli, gatti, cani,
topi poi il sego delle candele, il cuoio di cinture, scarpe, finimenti. Per
finire con l’erba e gli escrementi. Le molteplici variazioni della cucine di
fame tendono a una prossimità sempre crescente in rapporto all’oggetto
ultimo: il cibo-limite, la carne umana. L’imminenza del cannibalismo si
evidenzia nella scelta di animali intimi e prossimi all’uomo, quasi a
significare un assottigliarsi della distanza tra mangiatore e mangiato, per
concludere all’identità mostruosa dell’atto manducatorio, nella mostruosità
di una forma di autofagia (madre-figlio, rovesciamento del mito di Cronos):

Ton sang retournera où tu as pris le laict,


Au sein qui t’allactoit r’entre contre nature;
Ce sein qui t’a nourri sera ta sepulture [Agrippa d’Aubigné, Les Tragiques, I, 524-526].
Le leggi di natura sono violate, a) rovesciamento del cammino dei fluidi:
dal latte materno all’assunzione del sangue del figlio; b) un ciclo
regressivo, un’identificazione morbosa. Funzione simbolica del
cannibalismo di assedio: la città costituisce una sorta di microcosmo
insulare nel quale le varie circolazioni di alimenti, di fluidi e di persone si
aggirano in tondo. Città bloccata – spazio chiuso dove non regna se non
uno scambio tautologico. Relazione forzata dell’identico con se stesso. La
situazione dei protestanti del XVI secolo si raffronta a quella del popolo
eletto, minoritario e rinchiuso in mezzo ai suoi nemici: tuttavia, il pericolo
che pesa sul gregge di Dio proviene meno dal pericolo esterno che dalla
reclusione stessa.

Un’antropofagia perpetrata esplicitamente caratterizza l’avversario


cattolico: al cannibalismo della cottura (massacri dell’agosto-settembre
1572, ma già anticipati nel 1562) – “ces canailles … ont rosti e masché,
/Savouré, avalé, tels coeurs en plain marché” [Agrippa, V, 683-684] – si
accompagna il cannibalismo applicato alle carni crude. L’assenza di ogni
preparazione culinaria è implicita nella necrofagia metaforica dei teofagi,
denunciati nella Apologie pour Hérodote di Henri Estienne [1566]. La
messa, che consuma la ricchezza dei defunti e dei loro eredi, viene

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assimilata a un festino “où sont mangez les morts et vifz”. La putredine
delle ossa divorate dai preti si colloca alla polarità opposta della cottura
cannibale e rappresenta la forma più radicale di antropofagia. Questa stessa
tensione al nutrimento crudo sostanzia la teofagia, secondo l’ottica
protestante: l’ostia fatta carne di Cristo non è consumata dopo cottura,
come testimonia la presenza di “vers” e di “souris”. È appunto di questa
“chair corrompe et pourrie”, che le genti di chiesa “font traffique et fort
grosse marchandise”. Così Jean-Baptiste Trento, Histoire de la Mappe-
Monde papistique, 1566-1567. Due punti fermi dell’immaginario del
cattolico cannibale: 1) mentre il cannibalismo degli ugonotti veniva fatto
risalire alla figura della restrizione autofagica, l’antropofagia cattolica è
una sindrome divorante che ingloba morti e vivi, fino allo stesso creatore.
2) questo cannibalismo sfida ogni dettame alimentare, in quanto preferisce
la carne cruda, e bene spesso putrescente. Un appetito preumano e bestiale.
La teofagia partecipa dell’antropofagia poiché Gesù è detto “Figlio
dell’Uomo”. La polemica ugonotta, aldilà degli scherni culinari e
scatologici, risale alla distinzione calvinista tra il significante “pane e vino”
e il significato “corpo e sangue”. Da una parte la realtà irraggiungibile e
lontana di un corpo nel più alto dei cieli, con una imprendibile presenza
spirituale quaggiù; dall’altro segni commestibili che passano di mano in
mano prima di venire inghiottititi in silenzio. Due le vie della polemica
protestante: a) si finge di ridurre il simbolo eucaristico al solo significante
concreto, il “Dieu rondelet de la messe”. È la prosecuzione della critica
veterotestamentaria delle religioni idolatriche. b) ricorrendo a un’iperbole
del significato, si colpisce la superstizione cattolica e il grano macinato e
cotto diviene realmente carne e sangue sull’altare del prete antropofago.
Siamo al Mappe-Monde papistique, dove questi “bouchers”
“s’ensanglantent le museau” sulle loro “tables toute appareillés”. I due
percorsi sono bene spesso coniugati. Così la Légende de Jean le Blanc,
dove l’accento è posto sulla panificazione del dio, conclude con uno
slittamento sull’altro percorso:
Ne m’appelez plus le blanc;
Appelez moy le vermeil
En cruauté nompareil [Simon Goulart].

Gli ugonotti sono riscattati da questa tragedia cruenta, che è la messa


cattolica: non c’è affatto bisogno “que le prestre sans cesse / Resacrifie
encor Jesus Christ en la messe” [Agrippa, IV, 661-662]. Ai cattolici quindi
viene rimproverato il carattere primitivo, precistiano, dei loro riti: la chiesa
cattolica si configura come la prosecuzione e la conservazione dei riti di
sangue banditi dal Nuovo Testamento, e di cui si ritrovano tracce proprio

88
nelle pratiche dei popoli recentemente scoperti. Così Jean de Léry poteva
fare accostamenti tra i cattolici della colonia franco-brasiliana e i selvaggi,
meno feroci nei loro riti antropofagici. La polemica protestante tende a
proiettare sull’altro, bestializzato, la propria angoscia endocannibalica
determinata dalle condizioni di assedio: l’endocannbalismo si rovescia
nell’antropofagia che comprende tutte le perversioni; i cattolici, che
mangiano “cru et vivant”, non sono nemmeno dei cannibali, ma “affamez
bestes”, secondo uno Chansonnier de 1555.

La France Antarctique del Brasile (1555-1560) ha visto un tentativo di


concordia tra protestanti e cattolici, che proprio sulla questione eucaristica
doveva fallire. Risultato della contesa era tra l’altro una Refutation des
folles resveries, execrables blasphemes, erreurs et mensonges de Nicolas
Durand, qui se nomme Villegagnon, opera di Pierre Richer. Tre temi
percorrono questa polemica: a) il Brasile, b) l’eucarestia, c) la repressione
degli ugonotti sotto l’accusa di eresia. L’attacco a Villegagnon, comparato
a un Ciclope, coniuga l’accusa di antropofagia (le torture inflitte ai
resistenti) alla teofagia:

Ce Cyclops inhumain de la celeste place


Faict venir Jesuschrist, pour aux dents le briser,
Et le mange tout vif, pour sa faim appaiser [Pierre Richer, Refutation des folles
resveries, execrables blasphemes, erreurs et mensonges de Nicolas Durand, qui se
nomme Villegagnon, 1576].

Nel Renversement de la grande marmite, Villegagnon viene rappresentato


come un re indigeno, piumato e dotato di mazza come un tupinamba.

Un testo che già abbiamo citato è la Histoire de la Mappe-Monde


papistique, pubblicato da Giovan Battista Trento nel 1566 a Ginevra: vi si
vede la città di Roma contenuta nella bocca del diavolo, mentre i
protestanti armati di bibbie in fiamme assaltano le muraglie della città.
Identificazione della Roma papale con il Brasile antropofago.

La questione della conversione: i portoghesi

et mesmes les François, qui ont frequenté icelles regions, n’ont jamais parlé un seul mot
du Seigneur Jesus Christ aux povres gens de ce pays-la [Jean Crespin – Simon Goulart,
Histoire des Martyrs, 1564].

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Il Brasile rimane comunque una terra ripugnante, un “sauvage lieu” che
forma, al bordo meridionale dell’ecumene, un orizzonte inquietante: “Des
bestes du Bresil aux solitaires bords” [Agrippa, IV, 344]. Questa
concezione di un Brasile infernale, più abitato dal belve che da uomini, e
dove si aggirano le creature di satana. Così Jean de Léry, che pure esalta i
tupinamba come figure del nobile selvaggio, vede nella terra il dominio del
demonio “visiblement et actuellement”, in una attesa apocalittica di
plenitudo gentium: “Afin qu’il n’y ait ni amen i sauvage / Dont l’oreille il
n’ait peu frapper de son langage” [Agrippa, IV, 345-346]. Ma per Jean de
Léry – per la cultura calvinista – i selvaggi d’America sono destinati alla
perdizione, come figli di Cam.

Nel 1598 viene pubblicata a Francoforte, a cura dei figli di uno stampatore
di Liegi esule in questa città, Jean-Théodore e Jean-Israël de Bry, la
traduzione latina della lascasiana Brevissima relazione sulla distruzione
delle Indie: gli indios prendono il psto degli ugonotti perseguitati in
Francia. La Narratio offre un’iconografia dove si respira un’atmosfera
opprimente, ossessiva, con la ripetizione di alcuni motivi di base: assassini
di massa, massacro di innocenti, bambini fatti a pezzi e gettati in pasto ai
cani, incendi delle capanne indigene, grigliate dei maggiorenti delle
comunità, sfruttamento dei corpi attraverso il lavoro forzato, fino
all’esaurimento. Gli stampatori e illustratori ugonotti proiettano quindi le
crudeltà dell’avversario cattolico nel gran quadro di un teatro senza confini,
pru risparmiando le scene più sadiche e oscene di precedenti pubblicazioni,
come quelle presenti nel testo di parte cattolica, Theatre des cruautez des
hereticques de notre temps, pubblicato da Richard Verstegan nel 1588, ad
Anversa. Non c’è alcun dubbio sulla natura mostruosa della distruzione
delle Indie, ma una barriera sottile è fissata al dicibile, un limite è posto alla
curiosità morbosa dello spettatore: non a caso le torture risparmiano le parti
ignobili del corpo umano, ventre e basso ventre, laddove erano questi i
luoghi preferiti nel testo di Verstegan. Si rispetta il segreto del corpo, si
stabilisce un tabu delle viscere. Si trascorre dalla realtà al simbolo. La
ricerca del sensazionale, che aveva abitato l’impresa di Verstegan, ne aveva
indebolito la portata: dopo il successo immediato, la moda delle
rappresentazioni eccessive trascorse ben presto, come si trascorre dalla
prima arte gesuitica – alla quale Verstegan si ricollega – tutta agonia,
morbosità e provocazione carnale, a un’estetica più disciplinata: i corpi
dolenti dei martiri erano sempre presenti, ma integrati in un ordine e in
un’armonia dove la dilacerazione delle carni era riscattata dalla potenza
della fede trionfante e le grida di sofferenza coperte dai cori angelici. La

90
raffigurazione di Verstegan si inseriva nel programma egemonico della
giovane Compagnia di Gesù, che intendeva esaltare, attraverso le immagini
dei propri martiri, la propria funzione di combattere radicalmente, e
insieme di dialogare, con gli eretici. Ma, alla lunga, dovevano essere le
figure dei de Bry che fondavano la “leggenda nera” antispagnola. Nel
teatro dei de Bry cristiani sono i carnefici mentre il clero è presente nelle
ambigue figure dei monaci che benedicono l’agonia degli indios.
Nell’incisione che raffigura il cacicco Hatuey sul rogo, il gesto del
francescano che tende al suppliziato il crocefisso e il breviario appare come
l’accolito dei torturatori, che aggiunge al supplizio fisico un supplizio
morale. In impressionate affinità con i roghi levati dall’Inquisizione in
Europa. A questo risponde il gesto sdegnoso del cacicco che rifiuta di
raggiungere gli spagnoli nel loro paradiso e preferisce i tormenti
dell’inferno. In un’altra scena, uno spagnolo tiene in mano i due tronconi di
un bambino, che egli offre ai suoi cani, in presenza di una madre disperata.
Accantol, un frate si rivolge al bambino e lo battezza. La chiesa cattolica
viene vista mentre coniuga al delitto l’ipocrisia. Un cristianesimo
meramente formale. In contraddizione con il testo stesso del domenicano
Las Casas, per il quale salvare un’anima rimaneva pur sempre un compito
più essenziale che salvare un corpo. Laddove gli interpreti ugonotti vedono
una eguale condanna colpire e il corpo e l’anima, giacché il battesimo è
mero gesto, non risultato di una scelta consapevole e di coscienza. I gesti
dei religiosi bagnano in una tartuferia brutale. Nelle illustrazioni dei de Bry
gli indios vengono assimilati ai primi martiri cristiani, a Gesù agonizzante e
sofferente, alla strage degli innocenti. Gli indios sono agnelli preda di lupi
sanguinari. I tiranni hanno traviato l’appello di Dio alla conversione e alla
salvezza delle anime di quella nuova umanità, hanno distrutto e disperso la
nuova Gerusalemme, che si rivela un’altra tremenda Babilonia. Ma le
trombe dell’Apocalisse già risuonano: una serie di sventure si è abbattuta
sul Nuovo Mondo e colpisce la stessa Spagna, che verrà distrutta per
l’enormità dei peccati. Gli indios sono le vittime di una violenza assurda e
incomprensibile. Il cattolico spagnolo rivela la sua reale natura di
cannibale: ma compie il gesto innominabile per delega. Così, riprendendo il
racconto di Las Casas, un tiranno trascina nelle sue spedizione “dieci o
ventimila indiani”, ai quali non somministra cibo alcuno, “autorizzandoli a
mangiare, per sopravvivere, tutti quelli che catturavano”. Un mercato
d’inferno, secondo i de Bry, giacché soldati scambiano pezzi di carne
umana in cambio di collane che loro presentano indias nude. Storicamente,
il protagonista di questa scena è Pedro de Alvarado, compagno di Cortés,
colpevole di siffatte atrocità durante la campagna in Guatemala, negli anni
1530. Lo spagnolo viene qui presentato come un “professore di

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antropofagia” – giusta la locuzione di Frank Lestringant – giacché insegna
all’indigeno a tagliare la carne e ritrae beneficio finanziario da questo
commercio. Nello sfondo, scene che ripropongono le torture del Golgotha,
con quattro indios schiacciati dal peso di un cannone, mentre un altro si
piega sotto un’ancora, come Gesù sotto la croce. La bulimia di carne, che
aveva stupito gli indigeni al primo contatto con gli europei, si trasforma in
uno sfruttamento radicale dell’uomo da parte dell’uomo, in una fame
canina e della carne e della forza dell’altro.

La cristallizzazione dell’orrore nel carnaio cannibalico delle campagne di


Guatemala era stata preparata da una campagna editoriale orchestrata
contro la Spagna, campagna dovuta non solo ai protestanti, ma anche a
forze avverse alla potenza iberica, come i “Politiques” di Francia. Nel
1589, l’anno in cui il monaco Jacques Clément assassinava Enrico III, il
Manifeste de la France minaccia la deportazione nelle Indie, “pour y
gratter les mines”, di tutti quelli che fossero scesi a patti con gli spagnoli.
L’autore anonimo immagina l’orrore di una Francia desolata, dove fossero
passati gli emuli dei conquistadores lasciando dietro di sé una scia di
“quartiers d’hommes detranchez, […] corps empallez, […] piloris
regorgeans de sang et de carnage”. Era il quadro che Verstegan aveva
descritto come risultato delle “cruautés machiavéliques exercées en
Angleterre et Irlande par les protestants calvinistes, sous le règne
d’Élisabeth, à présent régnante”. Una regina che assumeva i tratti
ripugnanti di Jezabel e di Medea. Così, nello stesso 1589, La Contre Ligue
si esercita a preconizzare il trasferimento di massa dei francesi nelle Indie
Occidentali: ai francesi gli spagnoli riservano la stessa sorte dei “sauvages
des Indes, de la chair desquels ils ont tenu boucherie ouverte pour nourrir
leurs chiens”. Il padre dei nostri illustratori, Théodore de Bry, aveva
avviato nel 1590 la collezione dei Grands Voyages, dove la storia della
conquista veniva sistemata in un grande quadro storico, che si apriva con
un’immagine di Eden, abitata dai pacifici algonchini e dai timucua,
adoratori del sole, per concludere in una decadenza brutale, con l’incontro
con i tupinamba antropofagi del Brasile e la Conquista spagnola: era la
descrizione del declino accelerato di un mondo passato in breve torno
d’anni dall’infanzia felice all’agonia. Ma va rilevato un altro elemento: i
Grands Voyages di Théodore de Bry riprendono la polemica
sull’eucarestia. Un’incisione mostra la riconciliazione di Pizarro e Almagro
al momento di imbarcarsi per il Perú; un francescano ostenta l’ostia che i
due si apprestano a ricevere. Come scrive Frank Lestringant, si tratta di
un’allegoria morale: l’atto religioso pone l’impresa sotto il segno
dell’annuncio del cristianesimo a tutti i popoli della terra, ma i gesti

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mercantili nello sfondo e la brutalità degli armati rivelano la vera essenza
della Conquista. Doveva commentare Chauveton: “L’ambition et la
cupidité foulent aux pieds toutes choses non seulement profanes mais
sacrées”. Si denuncia insieme la tendenza all’idolatria degli spagnoli e la
loro fides punica, cioè il disprezzo dei patti sanciti. Dio è doppiamente
offeso da un giuramento prestato sull’idolo di pasta e dalla trasgressione
del giuramento prestato in suo nome. Fondato su un delitto di sangue, al
quale si coniuga l’adorazione idolatrica, il giuramento sull’ostia scatena un
disordine sanguinario, esemplificato dalle scene del massacro di Atahualpa
e degli indios. La religione dell’ostia ha dunque rivelato la sua vera natura:
invece di instaurare il regno della concordia e di aprire le vie della
redenzione, ha scatenato una barbarie infinita, coniugato all’ipocrisia del
gesto del domenicano Vicente Valverde nei confronti dell’inca Atahualpa:
in questo momento della conquista, allorché il libro sacro si rivela muto ai
sensi di Atahualpa, lo scontro si scatena tra due universi simbolici non
comunicanti. Il messaggio evangelico si denuncia come non un atto di
pace, ma una dichiarazione di guerra, dove l’unico amore dei
conquistadores è rivolto all’oro e alle ricchezze.

Il delitto dello spagnolo cattolico è peggiore di quello del cannibale


brasiliano, giacché ha tra le mani i segni della salvezza, il crocefisso, le
scritture – ma se ne serve come di segni ingannevoli. È l’opposto del
cristiano riformato, poiché perverte il discorso del cristianesimo. Non è che
accettando quel cristianesimo gli indios si salvino. Ancora Chauveton: “Les
bonnes gens ne s’avisent pas qu’en chassant un Diable, ils en mettent un
autre, voire cinquanta, en sa place”. Lo spagnolo idolatra non condanna
solo se stesso, ma mette in pericolo anche le anime degli altri, le folle senza
Dio che egli tortura e sfrutta. Dell’indio mangia corpo e anima. I taino di
Hispaniola temevano i loro vicini carib: ma “il leur vint des Cannibales
d’ailleurs et de plus loing qu’ils ne pensoyent pas: qui accomplirent de mot
à mot le contenu de cest Oracle”.

Quando riceve il sacramento dell’eucarestia, il cattolico spagnolo mangia


realmente il corpo di Gesù, quando beve il vino, beve il sangue del Figlio
dell’uomo. Ma lo spagnolo non controlla più il proprio codice: la violenza
che egli scatena gli si ritorce contro. L’episodio dei tre soldati di Pedro de
Manchosa che rubano un cavallo e lo mangiano illustra questo movimento
di pensiero: il cavallo è un animale sacro, tabuizzato, da consumare solo in
caso di necessità. Perciò i tre vengono impiccati; ma ecco che tre loro
compagni, spinti dalla fame che infuria nell’accampamento, tagliano cosce
e braccia dei tre cadaveri. Si apre una spirale che conduce a una

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generalizzata allelofagia. Ancora Montaigne: “[…] ilz se sont entremagez
entre eux, et la plupart s’enterrerent sur les lieux, sans aucun fruict de leur
victoire” [III, vi]. Jacques de Miggrode, nella prefazione al testo lascasiano,
si chiedeva come Dio avesse potuto lasciare che tale un diluvio di calamità
s’abbattesse sull’umanità: dall’Europa delle guerre di religione
all’America. Si tratta di un giudizio abissale di Dio, di fronte al quale, alla
sua insensatezza, non si può rispondere se non con lo stupore e il dubbio:

[…] car c’est peu de chose de dire que les méchants affligent les hommes meilleurs
qu’ils ne sont […], mais de voir toute une gent, voire infinie, périr si misérablement et,
comme il semble, sans aucune raison, c’est ce qui rend plusieurs étonnés, et les rend
comme stupides, examinant tels effets par la règle de leur raison [Jacques de Miggrode,
1579].

Nel microsmo della Francia Antartica, l’America dei tupinamba è servita


come rivelatore della question eucaristica. In termine di parabola,
nell’America delle Indie spagnole, l’eucarestia ha rivelato la sua potenza
devastatrice.

Quattro secoli dopo, in quello stesso Brasile che era stato il luogo delle
efferatezze cannibaliche, l’antropofagia entra in scena con segno
rovesciato, come affermazione di identità culturale.

Cominciamo con la “semana de arte moderna”, 11-18 febbraio 1922: era


concepita come antimanifestazione delle celebrazioni ufficiali
dell’indipendenza , tenute a Rio de Janeiro, e venne ideata in São Paulo con
l’avallo di un intellettuale della vecchia generazione, Graça Aranha, che nel
1924 metterà in giuoco il suo seggio all’Academia Brasileira de Letras con
un violento discorso, O espírito moderno. Matura così un’esperienza
intellettuale che parla di dissonanze musicali e di cubismo, contro “os
matutos da terra”. È un modernismo nazionalista, che a) rivendica la
funzione della cultura di definire una nazione brasiliana, b) una cultura
nuova, che fuoriesca dalle angustie del repubblicanesimo positivista su cui
si era venuto costituendo il Brasile del XIX secolo. Il quotidiano “Estado
de São Paulo” dava così notizia dell’avvenimento:

Per iniziativa dell’applaudito scrittore, signor Graça Aranha dell’Academia Brasileira de


Letras, si terrà a São Paulo una settimana di Arte Moderna cui prenderanno parte gli
artisti che nel nostro ambiente rappresentano le correnti più avanzate [“Estado de São
Paulo”, 29 gennaio 1922].

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Finanziata dall’alta borghesia paulista, la Settimana si apriva con una
conferenza di Graça Aranha sull’Emozione estetica nell’arte moderna. Ma
ben presto il pubblico doveva rendersi conto che la manifestazione andava
ben oltre quanto prospettato, e reagiva alle provocazioni. Per esempio,
quella di Menotti del Picchia, che esprimeva la nuova estetica del
movimento, ma insieme rifiutava l’etichetta di futurismo:

La nostra estetica è di reazione. Come tale, è guerriera. Il termine futurista, con cui
l’hanno ingiustamente etichettata, l’abbiamo accettato perché era un cartello di sfida.
Nella ghiacciaia di marmo di Carrara del Parnassianesimo dominante, la punta
aggressiva di quella prora verbale si ergeva come un ariete. Io, personalmente, abomino
il dogmatismo e la liturgia della scuola di Martinetti. Il suo capo è per noi un precursore
illuminato, che veneriamo come un generale della gran battaglia della riforma, che
allarga il suo fronte in tutto il mondo. In Brasile non c’è, tuttavia, ragione logica e
sociale per il futurismo ortodosso, poiché il prestigio del nostro passato non è tale da
togliere la libertà dei modi futuri. Inoltre, al nostro individualismo estetico ripugna la
gabbia di una scuola. Cerchiamo, ciascuno, di agire d’accordo col nostro temperamento,
entro la più tmeraria sincerità [Cit. in Luciana Stegagno Picchio, Storia della letteratura
brasiliana, 1997, pp. 425-426].

Il gruppo modernista che doveva risultare vincitore della Semana era un


gruppo composito, che ospitava moderati ed estremisti, cattolici e marxisti;
ma l’etichetta “modernista” ha un comune denominatore: la libertà. Libertà
dal passato portoghese; libertà dal passato europeo. Nel 1922 veniva
pubblicata la Paulicéia desvairada di Mário de Andrade, dove si leggeva
l’omaggio all’emigrante:

Heróico sucessor da raça heril dos bandeirantes


Passa galhardo um filho de imigrantes
Loiramente domando um automóvel!

Già nel 1923 erano cominciate le prese di posizione ideologiche. Menotti


del Picchia dava il tono nazionalista al movimento (diffuso in tutto il
Brasile, con un fiorire di riviste):

[…] il Brasile ha bisogno, senza dubbio, di alimentare il culto di tutte le sue fulgide
tradizioni, di tutelare il patriottismo sacrosanto della lingua e di preconizzare una
politica di instancabile difesa del suo spirito nazionale, il quale deve essere l’ideale
costante di tutti i buoni brasiliani […][Cit. in Luciana Stegagno Picchio, Storia della
letteratura brasiliana, 1997, p. 430].

Frattanto Oswald de Andrade elaborava la dottrina del primitivismo in Pau


Brasil; in un manifesto pubblicato il 18 marzo 1924 sul “Correio da

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manhã” di Rio de Janeiro chiede una poesia di esportazione, in luogo di
quella importata dall’Europa. Concetti ribaditi l’anno dopo, 1925, nel
volume Pau Brasil. Oswald si pone come promotore di tutti i movimenti
nativisti che si oppongono da sinistra al verdamarelismo nazionalista, fino
ad aderire al partito comunista, di cui sembra apprezzare soprattutto gli
aspetti anarchici e distruttivi e da cui si allontanerà dopo il 1945. Nel 1928
veniva pubblicato nella “Revista de antropofagia”, fondata – tra altri – da
Oswald de Andrade, il Manifesto antropofago, dove all’esigenza di liberare
il presente dalla tradizione accademica (il passato) si affianca quella di
ricostruire e reinterpretare il passato alla luce della modernità. Tenendo
conto che alla dialettica passato-presente si sovrappone un’altra dialettica,
quella tra estero-nazionale. Si tratta quindi di indicare un nuovo punto di
vista dal quale analizzare il problema della originalità nazionale (del
presente). La chiave prescelta è quella dell’ironia, che troviamo espressa
nei Poemas da colonização:

Lá fora o luar continua


E o trem divide o Brasil
Como um meridiano.

In Pau Brasil la storia del Brasile si presenta come una successione di fasi
economiche determinate, ciascuna identificabile con un particolare ciclo
produttivo, evidenziato anche dalla spazializzazione: una lettura della storia
del Brasile che torna nell’opera di Celso Furtado, Formação econômica do
Brasil, 1959. Quando era stata pubblicata a Parigi la raccolta Pau Brasil,
Paulo Prado aveva scritto nella prefazione: “Oswald de Andrade, in un
viaggio a Parigi, dall’alto del suo atelier della Place Clichy – ombelico del
mondo – ha scoperto, esterrefatto, la sua terra”. Una terra che i disegni di
Tarsila de Amaral immettevano in una dimensione mitica, di religione
arcaica, pre-europea. L’antropofagia come metafora culturale era stata
anticipata nel Manifeste cannibale Dada, del marzo 1920. Nell’aprile dello
stesso anno Francis Picabia fondava la rivista “Cannibale”. Al movimento
Dada apparteneva George Ribemont-Dessaignes che si poneva la domanda:
“posséder par le coeur ou par le estomac?” Domanda che implode, giacché
il processo di assimilazione culturale in Occidente, fin dai tempi medievali
(si ricordi la monastica ruminatio dei testi), veniva metaforizzato sotto
forma corporea-alimentare. L’immagine “intestinale” dell’identità
latinoamericana veniva espressa dall’argentino Oliverio Girondo nel 1922:
la bocca infernale rappresentata dal Brasile assume le dimensione di un
continente stomaco, capace di metabolizzare ogni apporto:

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capaz de digerir y de digerir bien, tanto unos arenques septentrionales o un kouskous
oriental, como u na becasina cocinada en la llama o uno de esos chorizos épicos de
Castilla [Cit. in Ettore Finazzi-Agrò, L’identità mangiata. Considerazioni
sull’antropofagia, in La cultura cannibale. Oswald de Andrade: da Pau-Brasil al
Manifesto antropofago].

Nel Manifesto antropofago il rapporto tradizionale con l’Europa viene


capovolto: non un semplice ribaltamento, ma assunzione e trasformazione
dell’ottica altrui. Il recupero non deve eliminare la coscienza del processo
storico della colonizzazione (tradurre il fenomeno nei termini
dell’esotismo, dove il mondo nuovo, altro, diviene mera riserva della
“naturalità”), bensì integrarlo in una visione complessiva della nazione.
Esempio di Andrade: “i caseggiati zafferano o ocra contro i verdi della
favela, sotto l’azzurro cabralino”, dove il riferimento coloristico trascorre
nel fatto che il celeste del cielo è tale perché così fu visto per la prima volta
dagli uomini di Pedro Alvares Cabral. Questa ingenuità (inocência) viene
detta dalla lingua, lingua “naturale e neologica”, “l’innocenza costruttiva”:
vanno ricongiunte “la foresta e la scuola”. Per cui “abbiamo eruditato
tutto”. Una visione fotografica o cinematografica della scrittura, come
Oswald aveva sperimentato nel romanzo Os condenados del 1922, che
condurrà alle poesie-cronache o poesie-elenco: laddove le prime sono
costruite a partire da testi cinquecenteschi, mentre le seconde sono semplici
elencazioni di oggetti.

Il testo del Manifesto Antropofago viene ironicamente datato dall’anno


“374 della deglutizione del Vescovo Sardinha”. In esso l’autore divora le
citazioni colte inglobando elementi disparati della cultura occidentale. È la
riattualizzazione, in un contesto ormai pienamente urbanizzato,
dell’incontro tra il civilizzato e il primitivo:

Quando o português chegou


Debaixo duma bruta chuva
Vestiu o índio.
Que pena!
Fosse uma manhã de sol
O índio tinha despido
O português. [Oswald de Andrade. Cit. in Luciana Stegagno Picchio, Storia della
letteratura brasiliana, p. 13].

Così aveva scritto de Andrade già nel 1925. E la frase più notevole del
Manifesto antropofago dove divenire “Tupy or not tupy, that is the
question”. Scriverà nel 1950, in un saggio, La crisi della filosofia
messianica, che l’antropofagia appartiene, “in quanto atto religioso al ricco

97
mondo spirituale dell’uomo primitivo”, è un’operazione metafisica legata
“alla trasformazione del tabù in totem. Dal valore opposto, al valore
favorevole”. Nel Manifesto: “La trasfigurazione del Tabù in totem.
Antropofagia”. Il Freud di Totem e tabù viene digerito, insieme ai teorici
della mentalità “pre-logica”, per riattingere al Nietzsche de La genealogia
della morale, che aveva avversato la “morale del gregge” imposta dal
cristianesimo alla legge naturale. Ecco allora che del cannibalismo delle
popolazioni native viene valorizzato l’aspetto ritualistico, la ingestione del
nemico per conservarne e farne rivivere forza e virtù; il senso della
sacralizzazione del proibito, l’assunzione di ciò che non appartiene al
proprio ambito: “Mi interessa solo ciò che non è mio. Legge dell’uomo.
Legge dell’antropofago”. E ancora:

Non siamo mai stati catechizzati. Quel che abbiamo fatto è il Carnevale. […] Contro le
storie dell’uomo che cominciano a Capo Finisterra. […] Contro le sublimazioni
antagoniche. Portate nelle caravelle [Oswald de Andrade, Manifesto Antropófago, in
“Revista de Antropofagia”, 1 maggio 1928].

La società occidentale viene rifiutata in quanto autoritarismo intransigente


ed esclusivista: mondo del “patriarcato” contrapposto al mitico regno
matriarcale di Pindorama:

Contro la realtà sociale, vestita e opprimente, schedata da Freud – la realtà senza


complessi, senza follia, senza prostituzioni e senza penitenziari del matriarcato di
Pindorama [Oswald de Andrade, Manifesto Antropófago, in “Revista de Antropofagia”,
1 maggio 1928].

Contro un mondo che si regge su un ideale di vita improntato all’utile ma


coperto da falsi pudori – la “madre dei Gracchi”. All’índio irreale creato
dal romanticismo brasiliano ( “figurando nelle opere di Alencar pieno di
buoni sentimenti portoghesi”) si deve contrapporre l’índio autentico (“Non
siamo mai stati catechizzati. Quel che abbiamo fatto è il Carnevale …
Avevamo già il comunismo. Avevamo già la lingua surrealista. L’età
dell’oro”). Conclude, il Manifesto antropofago, nella visione utopica,
edenica, del Pindorama, il “paese delle palme”, visto dalla prospettiva del
Perú.

Alla stessa dimensione utopica attinge il romanzo dell’antropologo, rettore


dell’università di Brasília, Darcy Ribeiro, Utopia selvagem:

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Il significato dell’utopia selvaggia è la riflessione più profonda che potessi fare sulla
nostra identità, sul nostro sangue, chi siamo noi se non siamo indios né europei? Siamo
una terza cosa. Questa la perplessità di Bolívar che cercava se stesso. E più tardi di
Mário de Andrade, di Oswald de Andrade. Così suppongo che Utopia selvaggia sia una
riflessione basata sulla rilettura di tanti testi. Una riflessione e una rivalutazione del
nostro sapere. Una lettura delle mie letture. Una ricostruzione parodia, di quello che
chiamiamo cultura. Con una buona dose di ironia, prendendo un po’ in giro
l’antropologia, i teologi, il marxismo. Con lo stile del carnevale, di quello che è il
carnevale come dramma umano [Darcy Ribeiro, intervista rilasciata a Daniela Ferioli,
nel luglio 1986, pubblicata come postfazione a Darcy Ribeiro, Utopia selvaggia, 1987,
p. 165].

Già nel suo primo romanzo, Maíra, del 1967, Darcy Ribeiro metteva in
scena la vita comunitaria degli índios minacciata dall’avanzata del
progresso tecnologico. In Utopia selvagem il mondo dei cannibali è
soppiantato da quello altrettanto inquietante delle amazzoni, le compagne –
nell’immaginario occidentale della conquista – del cannibale. Il negro
Pitum viene catturato dalle amazzoni e usato come oggetto sessuale.
Attraverso l’assimilazione dell’atto sessuale all’atto del mangiare vive una
esperienza di prigionia cannibalica, con il ricordo dei testi di von Staden e
di Pero de Magalhães (che aveva costituito un plesso dove il mito
amazzonico si coniugava alla indicazione di comunità di donne
omosessuali nella selva brasiliana):

Sarebbe meglio dire che fu ingoiato […] Non ero io a mangiare, ero mangiato.
Mangiato bene, per la verità, ma mangiato nel loro stile [Darcy Ribeiro, Utopia
selvagem, 1982].

Il cannibale è anche all’inizio (ed è l’inizio) del grande affresco storico, che
copre tre secoli, di João Ubaldo Ribeiro, Viva o povo brasileiro, del 1984.
Il protagonista collettivo è il popolo del Recôncavo bahiano, metafora del
popolo brasiliano tutto, contrapposto alla borghese nação. Il cannibale è il
caboclo Capiroba che, nell’ingestione di personaggi diversi che popolano il
territorio del Recôncavo, diviene protagonista collettivo, in quanto nella
trama della scrittura riemergono questi – a partire dai prigionieri olandesi
deglutiti nel 1647:

Al caboclo Capiroba piaceva mangiare gli olandesi. All’inizio non faceva differenza fra
olandesi e qualsiasi altro straniero che comparisse in circostanze propizie, anche perché
aveva cominciato a mangiare carne dopo una certa età, forse verso la trentina. […] E
che il caboclo mangi gli uomini, che a volte ne ingrassi qualcuno nel suo recinto, è
risaputo, pur essendo questa una cosa iniziata per caso [João Ubaldo Ribeiro, Viva o
povo brasileiro, 1984].

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Per concludere veniamo ad una famosa rappresentazione contemporanea
del cannibale, presente nel cinema e nella letteratura che viene considerata
di intrattenimento o “popolare”. Si intende parlare della figura di Hannibal
Lecter, presente nei romanzi di Thomas Harris, in particolare in Red
Dragon, che ha conosciuto una versione filmica come Manhunter di
Michael Mann (1986), e Il silenzio degli innocenti, da cui il film omonimo
di Jonathan Demme (1991). Fissiamo alcuni punti fermi di questa
raffigurazione del cannibale moderno: in primo luogo, il nome di Hannibal
“the Cannibal”, con la sistemazione in rima, tende a immettere il
personaggio in una dimensione favolistica, irrealistica. Ancora, la
presentazione fisica del dottor Lecter, con il volto ricoperto da una
maschera che – mentre impedisce l’esplosione della sua attività
antropofagica – al contempo, con la esasperazione della bocca dove i denti
sono rappresentati da spuntoni metallici ne esalta la dimensione di voracità
e capacità di dilaniare. Più importante la caratura intellettuale del
personaggio, un medico psichiatra che divora i propri pazienti -vittime,
dove vanno sottolineati due movimenti: a) il rapporto di dominazione che si
instaura in un rapporto psicanalitico tra medico e paziente; b) la natura
delle pulsioni cannibaliche che vivono nel profondo, nell’inconscio, dove
possono emergere distruttivamente. Come dire che in ciascuno abita un
cannibale. Cannibale come forma estrema di crimine che tuttavia si fa
utilizzare dai tutori dell’ordine proprio per combattere il male. Un male che
assume le forme estreme, disumane, dei delitti per i quali viene chiamato il
dottor Lecter; a sua volta luogo di transito per l’identificazione della forma
mentis, della psiche criminale. Ancora, ne Il silenzio degli innocenti il
criminale che viene ricercato opera una vera e propria “cannibalizzazione”
delle vittime: nel senso odierno, banalizzato, del termine, dove si indica la
fruizione di pezzi di vari manufatti (automobili) assemblati a costituire un
nuovo individuo: nel caso in questione, per costruire un corpo femminile
che il criminale intende indossare per identificarsi appieno con la madre.
Come nel caso dell’informatico californiano che intendeva modificare il
proprio corpo (pelle compresa) per farsi tigre. Una prequel, Hannibal
Rising (2006) rappresenta un’attenuazione del messaggio consegnato nei
primi romanzi di Thomas Harris, nella asserzione che il male è dentro di
noi e può sempre, e a ogni momento insorgere: la storia di Hannibal Lecter
come erede di una famiglia nobile baltica, vittima di fuorilegge legati alle
truppe naziste di occupazione, prigioniero e costretto – dalla violenza ma
anche dalla fame – a nutrirsi del corpo della sorella e che in seguito inizia
un cammino di vendetta con riti cannibalici a spese dei colpevoli, attenua la
radicalità del primo messaggio, poiché ne situa nella storia, in un tempo

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eccezionale, l’origine e le cause. Negando la valenza metafisica della prima
rappresentazione.

Per chi volesse condurre ulteriori letture:

William E. Arens, Il mito del cannibale. Antropologia e antropofagia,


Bollati Boringhieri, Torino 2001;

Gilberta Golinelli, “Orrore e meraviglia: percezioni europee del selvaggio


antropofago”, in Il primitivismo e le sue metamorfosi. Archeologia di un
discorso culturale, a cura di Gilberta Golinelli, Clueb, Bologna 2007.

Frank Lestringant, Une sainte horreur ou le voyage en Eucharistie.


XVIème-XVIIIème siècle, PUF, Paris 1996;

Hans Staden, La mia prigionia tra i cannibali 1553-1555, Longanesi,


Milano 1970;

Luciana Stegagno Picchio, Storia della letteratura brasiliana, Einaudi,


Torino 1997;

Angelo Tartabini, Cannibalismo e antropofagia, Mursia, Milano 1997.

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