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Caro amico,

ti (de)scrivo
PROTAGONISTE LE PERSONE
NEGLI ARTICOLI DEL NOSTRO LUCIANO DE MAJO
NELL’8° ANNIVERSARIO DELLA SCOMPARSA

a cura di Mauro Zucchelli


PERSONE,
NON PERSONAGGI

Come tutti gli anni, in occasione dell’anniversario


della sua scomparsa, ricordiamo il nostro
collega Luciano De Majo, morto a 40 anni,
facendone parlare il lavoro quotidiano:
gli articoli che ha pubblicato sulle colonne
del Tirreno. Negli anni scorsi abbiamo riproposto
il racconto che ha fatto del mondo
della sinistra, dell’universo delle cantine, del
microcosmo dello sport: l’emblema di una curiosità
spalancata sulle varie pieghe della società. Stavolta,
guardiamo l’attenzione che portava alla persona:
il racconto di personaggi che però restavano persone,
senza tramutarsi in macchiette o bozzetti, tanto per
compiacere gli schematismi e l’ansia catalogatoria
della quale siamo tutti vittime. Normali articoli di cronaca che
diventano ritratti: nei più differenti contesti, nelle
più varie declinazioni.
Ps: in copertina abbiamo messo il ritratto che di
Luciano aveva fatto Roberto Colonnacchi, altro
nostro collega scomparso troppo presto:
è un modo per ricordare anche lui
(m.z.)
Il monsignore nei guai anche in Svizzera
Luciano De Majo

Toscano fino al midollo, nato 66 anni fa nel cuore del Mugello, monsignor Fabio Fabbri, indagato dalla
Procura nell'ambito della maxi-inchiesta sulla truffa internazionale con le carte clonate, non è sconosciuto
neppure alla giustizia degli altri paesi. Risulta, infatti, che sia indagato in Svizzera per riciclaggio. E' da qui,
probabilmente, che ha origine il suo legame con Mario Maggiolo, che aveva scelto come avvocato difensore
per i suoi procedimenti.

Di lui, del prete indagato, si ricorda il rapporto strettissimo con monsignor Cesare Curioni, per oltre
trent'anni cappellano capo al carcere milanese di San Vittore, il tentativo di condurre in porto una
difficilissima trattativa con le Br per salvare la vita a Aldo Moro, e anche il fatto che lo stesso Fabbri abbia
fatto parte del Consiglio pastorale nazionale dei cappellani carcerari, ricoprendone il ruolo di segretario. Un
personaggio importante e conosciuto, dunque, anche nella mappa del potere interno agli istituti di pena.

Maggiolo aveva rapporti con lui, inizialmente per motivi solo professionali e successivamente, a detta della
Procura livornese, anche per operazioni di altro tipo, e con un'altra lunga serie di persone coinvolte
nell'inchiesta. A cominciare da Michel Azzam Mansour, detto Mitch, l'americano di 64 anni che vive in
Grecia e che, secondo gli inquirenti, era la base operativa ad Atene dell'attività dell'organizzazione. Proprio
nella capitale greca sono stati trovati, negli ambienti che venivano frequentati da Maggiolo, alcuni quadri
che appartenevano a Bruno Lenzi. Una curiosità, più che un particolare rilevante ai fini di quest'indagine,
dalla quale però potrebbero partire altri accertamenti riguardanti il passaggio delle opere d'arte trovate a
Atene un po' a sorpresa. I rapporti fra Maggiolo e Lenzi sono conosciuti: l'ex presidente della Porto di
Livorno 2000, indagato per peculato insieme ad altre persone che collaboravano con lui nella società del
porto passeggeri, ha scelto l'avvocato attualmente agli arresti domiciliari come suo difensore. Non è da
escludere, dunque, che queste opere siano finite a Maggiolo, e da lui ad Atene, nell'ambito di questo
rapporto.

Frattanto, è stato completato il giro degli interrogatori di garanzia. Nessuno ha risposto alle domande della
giudice Elsa Iadaresta, a parte Maggiolo, il cui avvocato Giuseppe Conti sembra sul punto di chiedere la
scarcerazione. Resta da decidere se presentare istanza all'ufficio del gip del tribunale di Livorno (una cui
componente, la giudice Elsa Iadaresta, ha firmato l'ordinanza di custodia cautelare eseguita nei giorni
scorsi) o se ricorrere, invece, al tribunale del riesame di Firenze, scelta che garantirebbe tempi certi nella
fissazione della discussione e nell'emissione del pronunciamento.

17 luglio 2008
Oriano Niccolai, il creativo rosso
Luciano De Majo

Una volta l'inconfondibile eleganza del suo scrivere prese forma in un cartello che affisse al muro, dietro la
sua scrivania. «In questa stanza si prega di non rompere con il "quant'altro" di moda». Era la fine degli
anni'80 e l'espressione «quant'altro» riempiva i documenti politici con frequenza eccessiva per il suo
spirito, sempre saggiamente critico e mai adagiato sulle tendenze in atto e sulle maggioranze che si
componevano e si scomponevano alla velocità della luce. E' un personaggio straordinario, Oriano Niccolai.
Domani compie ottant'anni e lui la prende con la filosofia che gli è propria. «Sì - dice - sono sessant'anni che
ho vent'anni», e sorride. Farà festa assieme alla sua Marna, moglie e compagna di una vita, ai figli Gianni e
Gianna e ai cinque nipoti che questi gli hanno dato.

Non solo grafico. Oriano Niccolai è stato una colonna della sinistra, non solo livornese. Dirigente del Pci e
della sua organizzazione giovanile fin dagli anni '50, definirlo semplicemente "grafico" è forse la più grande
delle ingiustizie che gli si possa fare. Perché è vero che dalla sua mano e dal suo ingegno sono nate le parole
d'ordine del vecchio Partito comunista e, successivamente, dei partiti che hanno preso corpo dalla sua
trasformazione, ma a ben vedere il suo impegno politico si è accompagnato a una professionalità
indiscussa. Niccolai, nella sua lunga vita lavorativa, è stato, sì, anche grafico, ma ha fatto il giornalista mai
iscritto all'Ordine («Non ho nessuna patente, neanche quella di guida», ironizza lui), il comunicatore. E'
stato, per la federazione livornese del Pci quello che oggi si definirebbe "il creativo". Ciò che nella
comunicazione politica di oggi si chiama "headline" a quell'epoca veniva chiamata "parola d'ordine", ma la
sostanza è la stessa. La sola differenza si ritrova, casomai, nei super-ingaggi che gli esperti delle agenzie di
comunicazione oggi chiedono, rispetto allo stipendio di funzionario di partito che nel Pci veniva calcolato
sulla base di quello dei metalmeccanici di quinto livello.

«Una scuola di vita». Gli ottant'anni di Oriano Niccolai sono, così, l'occasione per raccontare alcuni degli
episodi da lui vissuti, che si intrecciano anche con la storia politica del paese. Originario della Maremma,
l'infanzia trascorsa ad ascoltare le storie del bandito Righini per il quale qualcuno della sua famiglia aveva
fatto il tifo, Niccolai studiò a Livorno dai Salesiani prima di incontrare il Pci. Ed è qui che cominciano i
racconti del "Nido delle aquile", il bugigattolo dove aveva sede la Federazione giovanile comunista guidata
da Nelusco Giachini. «Non era soltanto una scuola di politica - racconta Oriano - ma anche di cultura. Con
Nelusco e con Bino Raugi si discuteva di tutto: non c'era possibilità che non avessero letto Proust e che si
fossero lasciati sfuggire le critiche cinematografiche degli ultimi film. Ma questa era la grandezza del Pci:
essere il partito delle masse lavoratrici e dei più grandi intellettuali».

Amico degli intellettuali. E tanti sono stati gli intellettuali con cui Oriano Niccolai ha avuto modo di
collaborare, o che almeno ha conosciuto. Gente del calibro di Nanni Loy e di Renato Guttuso, oppure uno
scrittore come Gianni Rodari che si dice gli abbia dedicato una delle sue storie per ragazzi, disegnando a sua
immagine e somiglianza il personaggio di Giovannino Perdigiorno. Lui, Oriano, ricorda e sorride. E sorride
ancora di più quando pensa alle isole. Sì, perché alla fine degli anni'60 il Pci lo manda in Sardegna e all'inizio
dei'70 in Sicilia. «In Sardegna girai gran parte dell'isola a dorso di mulo - racconta - con una cinepresa,
realizzando un documentario sull'isola per conto del partito.

E' lì che iniziò anche il mio rapporto con Enrico Berlinguer. Una volta, dopo una riunione al Comitato
regionale sardo, terminata in piena notte, mi disse che non aveva sonno e mi invitò a fare due passi con lui.
Percorremmo due o tre volte la via Roma, la strada più bella di Cagliari, coi portici a due passi dal mare. Io
parlavo e avevo l'impressione che lui pensasse ad altro. Arrivai a chiedergli se lo annoiavo o no e lui mi
chiese di andare avanti. L'indomani, nella riunione successiva che facemmo, ebbi la conferma che aveva
seguito tutto e che, senza prendere appunti, ricordava perfettamente ciò che gli avevo detto».

Più intensa, e anche più difficile, l'avventura in Sicilia. Dove le federazioni del Pci di Livorno e Pisa erano
gemellate con quella di Caltanisetta. A Palermo, dove a guidare il Pci siciliano c'è il giovane Achille
Occhetto, Oriano Niccolai conosce personaggi come Emanuele Macaluso e come Pio La Torre. «Conoscevo
anche Rosario Di Salvo, l'autista che fu ucciso insieme a Pio. Per molto tempo - ricorda Niccolai - portò in
giro anche me per la Sicilia. Era una persona straordinaria».

L'attività di Oriano Niccolai si ricorda anche per l'allestimento delle grandi feste de «l'Unità». Sia a Livorno,
sia in altre città. Ha curato la propaganda per iniziative nazionali: il Festival nazionale che si svolse
all'ippodromo "Caprilli" nel 1969, con la presenza dell'allora segretario del partito Luigi Longo, e la Festa
nazionale di Tirrenia, datata 1982, realizzata in collaborazione con i "cugini" pisani.

I manifesti in mostra. Accanto alle feste, la produzione di Oriano Niccolai si trova nei manifesti realizzati
per la federazione del Pci. Un patrimonio che adesso è stato passato all'Istituto storico della Resistenza che
lo sta catalogando e che sta pensando ad allestire una mostra con questi materiali. «Sono contento che
questa roba sia stata salvata», dice Niccolai, che dopo tanti anni la passione per la politica non l'ha ancora
persa. Quando rivendica di aver passato una vita nel Pci, cita una frase di Alessandro Natta: «In una
riunione sulla campagna referendaria sull'aborto, disse che dovevamo guardarsi dalla vischiosità delle
ideologie».
Il Pd? Una speranza. Pur con tutti i mal di pancia del caso, oggi Oriano Niccolai ha deciso di stare col Partito
democratico. «Stenta a nascere - dice - ma vedo che ci sono alcuni giovani che possono fare qualcosa di
buono. E' uno strumento da adeguare, ma senza un partito vero non ci sarà possibilità di creare alternative
alla destra che governa e al berlusconismo».

17 maggio 2010
Achille Fornari, il ragioniere garibaldino
che racconta i Mille
Luciano De Majo

Aveva 24 anni Achille Fornari, ragioniere livornese, quando si unì ai garibaldini e partì per la Sicilia. Era il
luglio del 1860 e si imbarcò sul vapore "Medea" insieme ad altri 480 toscani. Una spedizione della quale
nessuno aveva mai avuto notizia. Da Livorno a Palermo: partenza il 7 luglio e arrivo il 9.

E' proprio il diario di Fornari a raccontare questo viaggio e, successivamente, le gesta compiute dall'esercito
meridionale al comando di Garibaldi, nella risalita dell'Italia, fino alla battaglia del Volturno. Un personaggio
minore, eppure autore di un lavoro importante, proprio perché ripercorre sensazioni e umori del ventre
dell'armata garibaldina.

Fra qualche settimana, le memorie di Achille Fornari diventeranno un libro promosso dal Comune
nell'ambito delle celebrazioni per l'anno garibaldino, e curato da Libero Michelucci, l'uomo che ha avuto il
manoscritto quasi per caso, da un amico rigattiere. «Memorie, A.F.», c'è scritto sulla copertina. E lui,
Michelucci, geologo livornese, ha fatto un lavoro certosino, scoprendo prima l'identità dell'autore del diario
e ricostruendone le caratteristiche, il profilo, la vita. «Una ricerca fatta col rigore che si deve a un'indagine
scientifica», la qualifica l'assessore alle culture del Comune di Livorno, Mario Tredici.

Ciò che emerge da questo diario è la figura di un livornese autentico, combattuto fra l'amore per la sua
Amorfedia, la donna che poi riuscirà a sposare una volta tornato dall'impresa di Garibaldi, e la causa
dell'Italia unita. Un uomo che non sopporta i soprusi, e per questo rischia di essere punito sotto le armi.
Repubblicano, massone, fin dal 1857 si avvicina ai ribelli e, pur non combattendo, finisce nel corpo dei
"Cacciatori dell'Appennino" nelle Romagne. Poi, nel 1860, la scelta di partire per la Sicilia. Se finora la storia
narra di tre spedizioni (quella dei Mille, partita il 5 maggio da Quarto; quella di Giacomo Medici, del mese di
giugno, cui si uniscono i livornesi partiti al comando di Malenchini dal Calambrone; quella di Cosenz, che
leva le ancore da Genova il 2 luglio), non è azzardato definire il viaggio del piroscafo "Medea" come
l'appendice alla terza spedizione, più che una quarta spedizione vera e propria. Ma un'appendice del tutto
inedita, della quale non ai era mai avuta notizia. Fornari lo scrive subito, nelle prime righe del suo diario: «A
ore 10 e mezza, imbarcatomi sul piroscafo a vapore "Medea" unito a 480 compagni toscani, presentato al
sig. ex colonnello polacco Langé». E subito un richiamo all'amore: «L'Italia sola poteva farmi abbandonare
colei che è la mia vita». In 102 facciate, Fornari descrive le fasi della sua permanenza in Sicilia e il cammino
verso la Campania. A Palermo il piroscafo livornese giunge in due giorni di navigazione, grazie anche al
mare calmo incontrato. E lì, il 10 luglio, Garibaldi che ha già assunto la dittatura a Palermo passa in rassegna
la truppa della quale fa parte anche il ragioniere livornese.

Michelucci, l'autore di questa paziente opera di ricostruzione, riferisce di un diario scritto in buona
calligrafia, a testimonianza che siamo di fronte a un uomo dalla cultura relativamente alta, rapportata ai
tempi. «Il suo nome - dice Michelucci - l'ho scoperto grazie a un passaggio del diario nel quale il
protagonista racconta di aver trovato una persona, in Calabria, che era stato ospite di casa sua a Livorno. La
citazione del suo cognome mi ha aiutato: ma che emozione sentir dire, da un'impiegata dell'anagrafe che
sfogliava un librone polveroso, che un Fornari aveva sposato una certa Amorfedia. In quel momento ho
capito che avevo trovato l'uomo che stavo cercando».

Un uomo che non finisce la sua attività con la seconda guerra d'indipendenza: nel 1867 si adopera per
aiutare i livornesi quando scoppia l'epidemia del colera, nel 1870 corre in aiuto dei moti repubblicani a
Roma. E dal 1883 al 1885 è consigliere comunale a Livorno, nello schieramento democratico. Senza contare
che perfino durante la prima guerra mondiale (morirà nel 1919), scrive al Ministero della guerra per
chiedere di essere impegnato, nonostante abbia superato gli ottant'anni.

Achille Fornari, ufficiale furiere, che mostra buone doti di organizzatore, rischia di lasciare la pelle al
Volturno. Racconta, nelle pagine del suo diario, che quella fu una battaglia vera, nella quale si trovò faccia a
faccia con un capitano borbonico, costretto a un duello a colpi di sciabola. Gli salvò la vita un altro
garibaldino livornese, il soldato Pietro Bartorelli, capace di stendere il nemico con un colpo di carabina. Il
diario si interrompe bruscamente il 6 ottobre, quando Fornari riposa, ferito. «Ho pensato che quella fine
così netta fosse dovuta alla morte dell'uomo», dice Michelucci. Invece no: un po' di lieto fine c'è. Fornari
torna nella sua Livorno, dove sposa la sua amata Amorfedia, che di cognome fa Montelatici e che gli dà
sette figli fra il 1865 e il 1878: Anita, Odoacre, Giuseppa, Ugo, Olga, Fornaro e Orizia. Un discendente di
quest'ultima, Romano Saraff, vive alle porte di Lucca e conosce la storia del suo antenato. Mentre Sergio,
figlio di Fornaro Fornari, nato nel 1916, si è distinto per imprese ardite nella guerra d'Africa come pilota
d'aereo, rinverdendo la vocazione dei Fornari di Livorno. Quella di gente eclettica e schietta, pronta a
concedersi con grande slancio alle passioni della propria vita.

27 aprile 2010
Andrei Orul, il biondino del mistero
Luciano De Majo

Passerà alla storia della città come il delitto del biondino. Anche se lui, l'assassino che ha un volto ma un
nome vero ancora no, ormai ha i capelli ampiamente ingrigiti. E' definitiva la condanna a 27 anni nei
confronti di colui che si fa chiamare Andrei Orul.

La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha infatti rigettato il ricorso presentato dalla difesa del
"biondino", confermando la condanna a 27 anni comminata dalla Corte d'Assise d'Appello di Firenze, che a
sua volta aveva parzialmente riformato il verdetto della Corte d'Assise di Livorno, la cui condanna era stata
a trent'anni di reclusione. Il procuratore generale Antonello Mura ha chiesto che la condanna fosse
confermata, confermando così la bontà dell'impianto accusatorio sulla base del quale il giovane straniero
era stato condannato per due volte.

Gli avvocati Eraldo Stefani e Ferdinando Imposimato hanno provato a portare avanti le loro ragioni scritte
nelle quasi 60 pagine del ricorso in Cassazione, ma alla fine, quando la Suprema Corte ha emesso il suo
verdetto, hanno alzato bandiera bianca. «A questo punto - dice l'avvocato fiorentino Eraldo Stefani -
dobbiamo solo prendere atto di quello che hanno deciso i giudici, specialmente dopo che ci sono state
sentenze dal primo all'ultimo grado». Stefani aveva assunto la difesa di Orul insieme al professor
Ferdinando Imposimato a pochi mesi dal processo in Appello. E dopo il verdetto maturato a Firenze, per la
difesa negativo, aveva annunciato l'intenzione di voler andare fino in fondo, scomodando perfino le
istituzioni europee. Adesso, invece, quella volontà sembra sfumare. A meno di un ulteriore ripensamento e
di clamorose sorprese, insomma, non ci sarà il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo.

Andrei Orul continua comunque a costituire un enigma vivente. Sta scontando la sua pena nel carcere
fiorentino di Sollicciano. Che fosse in quella pineta di Chioma il giorno del delitto e che abbia sparato, lo
dice lui stesso. Ma su chi sia davvero, sulla sua provenienza, perfino su quale sia la sua identità reale, il
mistero è ancora fitto. Non ha mai raccontato niente di preciso sul suo passato. Sui documenti processuali
c'è scritto che è nato nel 1978 ad Angarchk (Russia), ma non si esclude neppure che possa essere nato in
Grecia nel 1976. E il fatto che quando la polizia tedesca comunicò che era suo il dna diffuso per la ricerca
del killer lui fosse in carcere in quella che una volta era la Germania Est, non è forse un fatto che alimenta
ulteriormente i dubbi sulla sua nazionalità? Il colpevole del delitto di Chioma, in ogni caso, adesso c'è ed è
stato condannato in via definitiva. Ma con ogni probabilità non sapremo mai il suo vero nome. Un killer
senza storia, in effetti, non si era mai visto.

4 marzo 2010
Giovanni, marinaio e amico di tutti
Luciano De Majo e Roberto Cestari

Giovanni Iacomino aveva 57 anni e una gran voglia di vivere. L'ha fulminato un infarto, all'alba di ieri,
mentre si trovava nel suo letto. Una morte improvvisa, che lo ha strappato ai suoi cari e agli amici.
Pensionato da una decina d'anni, anche a causa di alcuni piccoli problemi di salute, dopo aver lavorato
come trasfertista all'Ansaldo Breda, Giovanni era un volto conosciutissimo del moletto Nazario Sauro, dove
da tempo si dava da fare come marinaio tuttofare. Il moletto era ormai diventato la sua seconda casa, per
lui che abitava a poche decine di metri dal porticciolo, in via dei Mulinacci, a pochi passi dal liceo Enriques.
Lascia la moglie Gabriella e due figli, Roberto e Romina, oltre a Irene, la nipote che adorava.

Proprio dal moletto è partito, ieri, il tam tam della solidarietà. Il "Nazario Sauro" ha aperto infatti una
sottoscrizione a favore della famiglia di Giovanni Iacomino. Il funerale si svolgerà stamani alle 10,30, con
rito religioso nella chiesa del cimitero dei Lupi, dopo di che la salma verrà cremata.

Giovanni era davvero l'amico di tutti al moletto Nazario Sauro. Sia al circolo della pesca sia al Circolo
nautico. Tutte e due le sedi ieri mattina hanno esposto la bandiera a mezz'asta in segno di lutto. Da quando
aveva lasciato il lavoro e poteva dedicare il suo tempo libero alle attività del moletto, Giovanni Iacomino
era diventato una sorta di istituzione per il "Nazario Sauro". Grazie all'attività sua e di tanti altri
frequentatori l'ambiente del moletto è stato migliorato. Insieme agli altri condivideva la preoccupazione
per alcuni atti vandalici che, nei mesi scorsi, hanno colpito le strutture e alcune barche ormeggiate al
moletto e continuava a lavorare per fare del "Nazario Sauro" un luogo sempre migliore e anche sempre più
aperto alla città.

Chi ha conosciuto Giovanni piange oggi un uomo generoso e dalla grande disponibilità, sempre pronto a
dare una mano a chi si trovava in difficoltà con la barca, sempre pronto a partecipare alle iniziative nelle
quali il moletto si tuffava con entusiasmo. Fra queste, la pulizia organizzata in collaborazione con
Legambiente e effettuata coi ragazzi di alcune scuole livornesi. «Una perdita improvvisa e gravissima -
dicono i soci del circolo della pesca e e quelli del Circolo nautico - Giovanni era un punto di riferimento
prezioso per tutti noi. Pensiamo alla famiglia e ci stringiamo con affetto attorno alla moglie, alla figlia e alla
nipote. Per noi è davvero un giorno di grande dolore».

18 novembre 2010
L'omicida racconta al giudice
vent'anni di dolore e solitudine
Luciano De Majo

E' rimasto più di un'ora davanti al giudice. E ha parlato, compiendo uno sforzo imponente nel rispondere
alle domande che gli sono state poste. Giovanni Scotti, l'uomo di 66 anni che tre giorni fa in casa, in via
Mondolfi, ha ucciso la moglie Licia Lambertini con un martello, rimane in carcere.

L'udienza di convalida si è conclusa con un esito forse scontato: tecnicamente, l'arresto non è stato
convalidato dal giudice per le indagini preliminari Gianmarco Marinai, il quale comunque ha disposto per
l'omicida la custodia cautelare in carcere.

Erano ancora incerti, ieri mattina, i legali di Scotti sulla posizione da tenere in udienza. L'avvocato Vinicio
Vannucci era andato a fargli visita in carcere prima che l'uomo fosse portato in tribunale. Una volta iniziata
l'udienza, poi, Scotti ha deciso di rispondere. E le cose che ha detto sono servite - questo è il fatto nuovo
rispetto a quanto accaduto nei giorni scorsi - a ricostruire il contesto nel quale è maturato il delitto, ancor
prima che a ribadirne la dinamica e le modalità con le quali si è svolto, che d'altra parte l'omicida aveva già
chiarito quando si è presentato ai carabinieri, subito dopo aver commesso il fatto.

Giovanni Scotti si è forse liberato di un fardello troppo pesante da tener dentro, parlando davanti al giudice
e ai due pubblici ministeri che hanno seguito il caso, Fiorenza Marrara e Massimo Mannucci. Ha ripercorso
gli ultimi vent'anni passati accanto alla compagna della sua vita che ha visto soffrire per tanto, troppo
tempo. Fino ad arrivare all'episodio di tre giorni fa, quando forse la disperazione dell'uomo ha toccato il
punto più alto.

È ancora presto, forse, per parlare di arresti domiciliari per Scotti, anche perché la sua casa, cioè la scena
del delitto, è stata messa sotto sequestro dagli inquirenti. È però opinione dei suoi difensori, gli avvocati
Aurora Matteucci e Vinicio Vannucci, che per una persona in queste condizioni l'ambiente del carcere non
sia l'ideale. Nelle prossime settimane, una volta valutata la situazione nel suo complesso, forse sul tavolo
del giudice arriverà anche l'istanza per la concessione dei domiciliari, che rappresenterebbero una misura
più attenuata rispetto alla detenzione carceraria e, al tempo stesso, un modo per garantire a Scotti
l'assistenza di cui ha bisogno.

Sempre ieri mattina, mentre l'omicida era impegnato nell'udienza di convalida dell'arresto, la Procura ha
rilasciato il nullaosta per i funerali di Licia Lambertini, la donna uccisa. La cerimonia funebre si svolgerà,
dunque, al cimitero dei Lupi questa mattina alle 11, con il rito religioso che sarà officiato nella chiesetta del
cimitero stesso. Nel procedimento che è stato aperto dagli inquirenti, le parti offese sono le due sorelle
della donna, il fratello e l'anziana madre.

6 novembre 2010
Paolo Castignoli, storico galantuomo
innamorato della città
Luciano De Majo

Addio, storico galantuomo. Se n'è andato a 74 anni Paolo Castignoli, ucciso da una crisi cardiaca che non gli
ha lasciato scampo. Castignoli è stato la colonna portante dell'Archivio di Stato di Livorno, che ha diretto a
lungo. Ma il ricordo che lascia è anche quello di un amministratore specchiato, in grado di mettere le sue
conoscenze di storico al servizio dello sviluppo futuro della città.

Piacentino d'origine, Castignoli ha saputo amare la città di Livorno come pochi altri. Anche perché alla
storia cittadina ha dedicato grande impegno e passione. Nel suo lavoro di storico, alla guida dell'Archivio di
Stato che assunse nel lontano 1973, ma anche una volta arrivato alla pensione, coltivando il gusto della
riscoperta delle radici della città e della loro messa in comune con la popolazione.

Uomo di sinistra, Paolo Castignoli ha saputo dare un contributo importante anche all'amministrazione della
città. Eletto consigliere comunale nel 1990, come indipendente nelle liste del Pci, nel 1994 divenne
assessore all'urbanistica in una giunta di transizione guidata dal sindaco Gianfranco Lamberti dopo la crisi
fra il neonato Pds e il Psi. Seppe interpretare quel ruolo col rigore che lo ha sempre contraddistinto in una
fase delicatissima, quella che portò alla sostanziale definizione del nuovo Piano strutturale del Comune,
operazione che seguì con passione autentica, traendo slancio proprio dalle sue competenze storiche. Poi,
nel 1995, terminata l'esperienza in giunta, Castignoli tornò al suo lavoro all'Archivio di Stato, che ha lasciato
nel 2001, col pensionamento. In quella occasione, fu pubblicata una raccolta dei suoi scritti sulla storia della
città edita da Belforte, il regalo migliore che gli amici potessero fargli. Con Paolo Castignoli Livorno perde un
uomo di cultura vero e una persona straordinaria.

30 ottobre 2010
Nonna Lina, 112 anni pensando a Chopin
Luciano De Majo

«Vi voglio bene, voglio bene a tutti». Rotto il muro dell'emozione e anche del disorientamento, nel vedersi
la casa invasa da giornalisti e telecamere e Lina Grotta ha vissuto un bel compleanno, il numero 112. Ha
sorriso e scherzato, ha ripensato al film della sua straordinaria vita, accettando di buon grado il ruolo di
nonna della città di Livorno.

Il bacio dell'assessore. Nella casa di via Ravizza, a due passi dal mare d'Ardenza, entra l'assessore al sociale
del Comune, Alfio Baldi. Lei, nonna Lina, parla a lungo con lui e poi gli chiede un bacio. Che naturalmente
arriva. L'assessore sorride ed è visibilmente emozionato. La signora Lina domanda anche notizie sul primo
cittadino. «Sta bene il sindaco?», dice. E Baldi risponde: «Sì, la saluta e le manda questo», ovvero un mazzo
di fiori con un biglietto d'auguri. «Ma che cos'ho fatto per meritarmi tutta questa attenzione? Io non ho
fatto proprio niente...». Ma l'assessore è prontissimo: «Siamo tutti qui perché le vogliamo bene. La città le
vuole bene».

Il pianoforte. Attorno a nonna Lina ci sono i figli Paolo e Giuliana, con i rispettivi coniugi. Poi arriva Carlo,
uno dei nipoti. E' a lui che la nonna chiede, ogni settimana, quale sia il risultato del Livorno. Fino a qualche
anno fa riusciva a seguire meglio le partite, soprattutto quelle della nazionale, ora si limita a chiedere
notizie, ma l'amore per la maglia amaranto è sempre lo stesso. Nonna Lina è in vena di rivivere l'epoca in
cui suonava il pianoforte. «Il compositore che amavo di più? Chopin. I suoi notturni erano pieni di
sentimento», dice tutto d'un fiato, col sorriso di chi in un attimo torna indietro di decenni. «Davanti a
queste parole - commenta l'assessore Baldi - vorrà dire che anch'io comincerò ad ascoltare Chopin».

Le origini. Da quel 1896 nel quale Lina Grotta vide la luce sono passati 112 anni. Lei ha attraversato tre
secoli: l'ultimo scorcio dell' 800 e questo primo spezzone del terzo millennio. Ma soprattutto non si è persa
neanche un attimo del grande e terribile '900. Ha vissuto la tragedia delle due guerre, ha fatto la fila
insieme alle altre donne che per la prima volta votavano nel 1946 («Votai per la monarchia», dichiarò due
anni fa), ha fatto parte di una famiglia livornese molto importante, quella dei Ciano. Sua madre era Maria
Ciano, sorella di quello «zio Costanzo» che fu un ras del regime fascista. Lina nacque in via del Convento
(oggi via Quilici), nel cuore di Borgo Cappuccini. Il celebre zio a pochi metri, in via della Vecchia Casina. Lei ci
pensa, dice che «la vita è fatta di tante cose belle e di tante cose brutte». E chiede solo di pregare per lei.
«Perché il Signore possa accogliere la mia anima: è quella che conta, non il mio corpo», precisa. Tanti
auguri, cara nonna Lina. E arrivederci: quota 113 non è poi così lontana.

23 novembre 2008
Due colpi a bruciapelo per l'eredità
Lara Loreti e Luciano De Majo

Gliel'aveva giurata. «Tanto ti ammazzo», gli aveva detto in un'aula di tribunale, durante una delle udienze
per la delicata e controversa questione dell'eredità del padre. E' per questo, probabilmente, che Salvatore
Inghilleri, 69 anni, ha sparato due cartucce al fratello Vito, ammazzandolo sulla soglia di casa. L'uomo ucciso
era uno degli imprenditori più conosciuti della città di Livorno, capace di creare un'affermata impresa di
insegne luminose e di cartellonistica. L'assassino viveva a pochi metri di distanza da lui, in una casa di
campagna alla periferia livornese.

Salvatore si è consegnato alla polizia dopo essere sfuggito alla caccia all'uomo durante le ore notturne,
nonostante fosse a piedi, privo di mezzi e totalmente disarmato. Ieri mattina, verso le 7,30, ha fatto ritorno
a casa e i familiari hanno chiamato le forze dell'ordine. Era in stato confusionale, probabilmente sotto
l'effetto dei medicinali che lui, affetto da problemi psichici, aveva portato con sé dopo aver freddato il
fratello con una doppietta a canne mozze, un fucile da caccia che aveva a casa insieme ad altre armi, alcune
delle quali (un paio di pistole) probabilmente non denunciate. L'arma del delitto è stata trovata vicino a
casa, poche ore dopo l'omicidio.

Nel pomeriggio, poi, Salvatore Inghilleri ha deciso di non rispondere alle domande del pubblico ministero
Carmen Santoro che sta coordinando l'indagine per la Procura della Repubblica. E' stato portato, dunque,
nel carcere delle Sughere, dove ha trascorso la notte. Nel giro di un paio di giorni, il giudice per le indagini
preliminari dovrà decidere sulla richiesta di custodia cautelare in carcere che la Procura farà partire quasi
sicuramente questa mattina. Al momento, Inghilleri è ufficialmente indagato e l'ipotesi di reato è quella di
omicidio volontario premeditato, con l'aggravante del vincolo di parentela della persona uccisa.

Domani, invece, sarà affidato l'incarico per l'esecuzione dell'autopsia: la salma si trova adesso all'istituto di
medicina legale di Pisa. E lì verrà effettuata l'autopsia: gli inquirenti, infatti, vogliono che siano compiuti
accertamenti particolari, anche di carattere radiografico per chiarire fino in fondo la dinamica della
sparatoria.
Dubbi sul movente del delitto vengono espressi dall'avvocato Marco Vitalizi, che assiste l'indagato. Anche
perché, spiega lo stesso legale, «il contenzioso tra fratelli si era concluso con un accordo sancito davanti al
giudice lo scorso 22 gennaio: non si era dovuti arrivare neppure alla sentenza e la questione era stata
chiusa con soddisfazione da parte di tutti». Secondo Vitalizi, insomma, le radici di questo omicidio
affondano in anni di rapporti non idilliaci fra Salvatore Inghilleri e il fratello Vito: «Quella dell'eredità può
essere stata la causa scatenante, il casus belli, ma non di più». Ci sono versioni contrastanti sulle
personalità e i comportamenti, fra i parenti e gli amici della vittima. C'è gente che dice che si tratta di una
morte annunciata, c'è chi sostiene che la ragione fosse da una parte e chi dall'altra. Dice Vita Inghilleri, la
sorella dei due, che vive a Altopascio: «Vito è sempre stato una brava persona. Salvatore? Risponderà di ciò
che ha fatto davanti a Dio. Ma anche lui è mio fratello».

9 aprile 2008
Il grande cuore di Alessandra non batte più
Luciano De Majo

Uno dei suoi ragazzi in carrozzella, uno dei bambini d'un tempo che nel frattempo s'è fatto uomo, non ce
l'ha fatta a dirle quanto stava meglio dopo l'ultimo corso di «autonomia» a Friburgo. Chissà quanto avrebbe
dato per parlare un'ultima volta ad Alessandra Neri, uccisa dalla leucemia in tre-quattro mesi. Lei era stata
un'atleta, una nuotatrice. Poi, lasciata l'attività agonistica, si era dedicata all'insegnamento del nuoto ai
bambini, ma soprattutto ai disabili.

Il cuore di Alessandra ha cessato di battere ieri mattina. Aveva compiuto 49 anni nel mese di novembre. Era
una donna conosciuta, stimata, apprezzata. Da tutti coloro (ed erano tanti) che hanno trascorso il
pomeriggio di ieri alla camera mortuaria dell'ospedale, e da quelli che l'hanno conosciuta per la sua attività.
La ricordano come una donna generosa e garbata, che ha trascorso tutta la sua vita (breve, troppo breve)
nell'ambiente delle piscine.

Nata sportivamente ai tempi del «mitico» Circolo nuoto Livorno, Alessandra era stata un'ottima dorsista.
Terminata l'epoca dell'agonismo, si è dedicata all'insegnamento, attraversando tutta la parabola delle
società livornesi di nuoto. Nel frattempo, si era sposata (e successivamente separata) con Massimo
Mancini, anche lui personaggio più che conosciuto nell'ambiente sportivo, vogatore di lungo corso nel Palio
Marinaro, fra i simboli del Venezia degli anni '80.

In lei, la passione per il nuoto non è mai venuta meno. Neanche quando, lavorando sotto le insegne del
Nuoto Livorno negli ultimi mesi, finita l'estate nella quale ha fatto la bagnina alla spiaggia dei Tre ponti, ha
cominciato ad accusare i primi dolori alla schiena. Prima leggeri, poi sempre più forti. I controlli medici non
le hanno dato speranze. Lei ha provato a farsi forza, come al solito. Fino all'ultimo ha detto agli amici che ce
l'avrebbe fatta, ma alla fine ha dovuto arrendersi, sfinita da un male terribile e ingiusto. Oggi alle 15 i
funerali, dalla camera mortuaria al cimitero dei Lupi.
Alessandra lascia Iris e Matteo, i suoi due figli dei quali andava fiera. Era orgogliosa anche di Federico, il
nipote di vent'anni (figlio della sorella Ilaria e di Fabio, altro vogatore del Venezia), che nuotando si è
conquistato la convocazione in azzurro. Sarà lui a raccogliere, in piscina, l'eredità di questa donna dal cuore
grande così. E di questa storia tutta livornese interrotta troppo presto perché possa considerarsi finita.

12 gennaio 2008
Alì Nannipieri, sindaco galantuomo
Luciano De Majo

Se n'è andato in punta di piedi, come ha sempre vissuto. Schivo, lontano dai riflettori e dalla ribalta.
Impresa difficile per un sindaco, ma Alì Nannipieri, che è stato al timone della città dal 1975 al 1985, ha
sempre fatto della riservatezza un valore assoluto. Nannipieri si è spento ieri sera, in una stanza
dell'ospedale di Livorno, dove era ricoverato ormai da diversi giorni. Ha dovuto conquistarsi anche la morte,
degno finale della parabola di una vita nient'affatto scontata ma comunque intensa, caratterizzata dalla
costante necessità di battersi per qualcosa.

Alì Nannipieri era nato a San Giuliano, nel giorno di San Lorenzo del 1925, il 10 agosto. A 19 anni si iscrisse
al Pci, del quale divenne funzionario. L'ingresso nelle istituzioni è datato 1956, in Provincia, da assessore.
Della Provincia fu vicepresidente nel 1970 e poi, due anni dopo, presidente. Nel 1975 raccolse il testimone
di Bino Raugi, divenendo sindaco di Livorno, incarico mantenuto per due mandati. Erano gli anni nei quali il
Partito comunista otteneva grandi consensi: proprio nel 1975 il massimo storico alle amministrative, la
maggioranza assoluta dei voti e dei consiglieri comunali, ripetuta anche nel 1980 e nel 1985.

In quei dieci anni Nannipieri dedicò tutto se stesso all'amministrazione della città, lasciando un'impronta
indelebile. I suoi collaboratori dell'epoca lo ricordano come un uomo capace di dare lezioni a chiunque, in
termini amministrativi, a cominciare dai capi della tecnostruttura. Non è azzardato affermare che la
battaglia per la quale è passato davvero alla storia fu quella per la sopravvivenza del nostro giornale.
Trent'anni fa, nel febbraio del 1977, quando l'editore del Telegrafo Attilio Monti ne decretò la chiusura, fu
lui, il sindaco Alì Nannipieri, a requisire il giornale, che poi avrebbe mutato il suo nome chiamandosi
nuovamente Tirreno, consegnandolo a giornalisti e poligrafici che avevano formato una cooperativa. Un
atto dirompente, non solo perché metteva in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma
anche per il fatto di considerare l'informazione un bene pubblico, e per questo assolutamente prezioso, e
non una merce qualsiasi.

Era lui, Nannipieri, il sindaco che organizzò le celebrazioni per il centenario dell'Accademia Navale. Era il
1981 e, in quella occasione, consegnò a Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, la Livornina d'oro.
Meno di un anno dopo, era il marzo del 1982, accolse papa Wojtyla insieme a una città da sempre rossa e
mangiapreti tutta riunita nell'abbraccio di una piazza della Repubblica gremita.
Poi, nel 1985, venne il momento dell'addio al Comune. Nannipieri fu eletto in Consiglio regionale. A Firenze
venne nominato assessore agli affari generali e al personale nella giunta guidata da Gianfranco Bartolini.
Uscì dalla giunta nel 1988, rimanendo in consiglio fino al 1990. Rinunciò alla seconda legislatura,
allontanandosi da una politica che forse non apprezzava più.

25 novembre 2007
Carlo Vivaldi, dirigente amaranto amico di Picchi
Luciano De Majo

Era uno che sapeva soffrire, Carlo Vivaldi. Come gli sportivi veri. E il destino, terribile, le sofferenze non
gliele ha risparmiate davvero. Vivaldi si è spento ieri, a 74 anni non ancora compiuti (era nato il 14
novembre del 1936), nella sua abitazione di via Grande, sfinito dalla Sla, che l'aveva attaccato anche alle
corde vocali. La beffa delle beffe: lui, uomo col calcio nel cuore, ucciso dalla malattia che rappresenta il
nemico pubblico numero uno per i calciatori.

L'uomo degli arbitri. Carlo è stato un vero signore, qualità difficile da mantenere quando si frequenta
l'ambiente calcistico per così tanto tempo. Per un quarto di secolo è stato dirigente addetto agli arbitri del
Livorno calcio, salendo di categoria fianco a fianco della squadra, assaporando insieme ai giocatori le gioie
per le promozioni conquistate e le amarezze per quelle sfumate d'un niente: dai primi anni '90 in
Eccellenza, quando le trasferte erano Perignano, Borgo San Lorenzo e Venturina, al magico 2004, quello del
trionfo nel campionato di B e del debutto nella massima divisione a San Siro, contro quel Milan - e vai coi
corsi e ricorsi storici - di cui Vivaldi è sempre stato un sincero tifoso.

Amico di Picchi. Quel cuore rossonero, però, per tanti anni ha saputo resistere alla passione, diventando un
super-esperto delle questioni dell'Inter per l'amicizia che lo legava a Armando Picchi. Un'amicizia vera,
profonda, che portò Carlo Vivaldi a seguire il capitano della grande Inter in tutte le imprese più importanti
compiute dalla squadra di Herrera a metà degli anni '60. Poi, quando "Armandino" smise di giocare e
intraprese la carriera di allenatore, nel 1970 i due andarono insieme ai Mondiali del Messico, quelli passati
alla storia per Italia-Germania 4-3 e per l'incoronazione di "o rey" Pelé.

Carlo Vivaldi ha lavorato all'esattoria, prima di raggiungere la meritata pensione. Una volta ha riposo, ha
dedicato il suo tempo alla passione che aveva per il calcio, lui che in gioventù era stato anche una buona
mezz'ala da serie D: aveva giocato nel Labrone, guadagnandosi il soprannome di "Schiaffino", per estro ed
eleganza. Entrò, così, nei quadri dirigenti del Livorno, occupandosi del rapporto coi direttori di gara.
Compito delicato, che ha sempre portato avanti nel migliore dei modi, con misura e compostezza, dando
alla classe arbitrale l'immagine di una società seria, intenzionata a riprendersi quel posto che le spettava
anche nei periodi più bui degli anni '90, quando non riusciva a tirarsi fuori dalle pastoie della serie C2.

La salma allo stadio. Fino a quando le condizioni di salute glielo hanno permesso, Carlo Vivaldi è rimasto
accanto al "suo" Livorno. Già nello scorso campionato non ce l'ha fatta a continuare nella sua attività di
addetto agli arbitri, perché la malattia avanzava inesorabile. Vivaldi lascia la moglie Giovanna e la figlia
Veronica, che lavora come operatrice turistica a Barcellona. La salma da ieri è esposta nell'atrio dello stadio,
dove è stata allestita la camera ardente in mezzo ai busti di Armando Picchi e Mario Magnozzi, mentre sul
pennone del piazzale Montello la bandiera del Livorno calcio sventolava a mezz'asta. Oggi ci saranno i
funerali: alle 15,30 la messa sarà celebrata all'interno dello stadio, dopo di che la salma verrà portata al
cimitero dei Lupi per la cremazione. Vivaldi riposa adesso nel raso amaranto, addosso ha la divisa ufficiale
della società, come lui avrebbe voluto.

La commozione. In tanti ieri hanno voluto rendere omaggio alla salma e salutare la moglie: fra loro, l'ex
arbitro Paolo Bergamo, l'amico strettissimo Romano Vivaldi, a lungo collaboratore di Giampaglia nella
Nazionale Under 21, ma anche altri personaggi, come Mauro Lessi, recordman delle presenze con la maglia
del Livorno, oppure Franco Ferretti, storica voce radio-televisiva al seguito degli amaranto. Hanno versato
lacrime vere, nel ricordare un amico che non c'è più e che merita davvero le parole migliori, per la
generosità d'animo e la signorilità che ha sempre mostrato. Legati a Carlo Vivaldi ci sono episodi, fatti
grandi e piccoli entrati ormai nella storia del calcio livornese: gli aneddoti raccontati agli amici nei
pomeriggi trascorsi al bar Folletto di piazza Cavour accanto al chiosco Balloni, le trasferte oceaniche fra
autogrill e code ai caselli e anche la nostalgia per un calcio che non c'è più.

27 settembre 2010
Lido Pini, poeta della boxe e comparsa sul set
Luciano De Majo

«Era un guascone. Un guascone livornese. Mio padre ricordatelo così alla sua città della quale è sempre
stato orgoglioso», dice Monica, respingendo a fatica i singhiozzi di pianto. Suo padre è Lido Pini, morto ieri
mattina a 85 anni all'ospedale di Cecina, dove era stato ricoverato da pochi giorni. Nome e cognome
tipicamente livornesi, come tipicamente livornese era lui. Nato a Fiorentina nel 1925, non è stato un
semplice testimone della città, ma un suo interprete autentico, portatore di uno spirito corsaro e
scanzonato, forgiato nei tempi duri dell'infanzia trascorsa in strada.

Noble art. Lido fu, prima di tutto, un appassionato di pugilato. La "noble art", quando lui era ragazzo,
poteva essere un modo per tirare avanti e perfino per fare fortuna quando si proveniva dagli ambienti
popolari. E lui quella carriera provò a imboccarla. Fu un buon peso massimo e arrivò a tirare per il titolo
tricolore dilettanti, dove non superò l'ostacolo del grande Franco Cavicchi. E se non fosse stato per il limite
fisico che aveva - la narcolessia, una malattia che d'improvviso lo faceva crollare addormentato - forse la
vita sportiva gli avrebbe regalato qualche soddisfazione e un bel po' di soldi in più. Però lui, Pini, l'amore
per la boxe non l'ha mai abbandonato. Gli piaceva respirare l'aria degli spogliatoi, la polvere di bordoring. E
fino a quando ha potuto, ha frequentato le palestre e i combattimenti nei quali erano impegnati i giovani
livornesi, a cominciare dal nipote.

L’amico Walter. Il pugilato, però, ha fatto conoscere a Lido Pini uno degli amici più sinceri: l'attore milanese
Walter Chiari. Fra i due nacque un rapporto autentico, che portò il livornese sul set di una ventina di film. Il
suo ingresso nel mondo dello spettacolo, come comparsa, si concretizzò in un'attività che lo vide presente
in diverse pellicole, interpretate dal suo amico Walter: "Walter e i suoi cugini" è uno di questi, ma anche "La
grande vallata" e "Cleopatra".
All'amicizia con Chiari è legato anche un ricordo che forse è più leggenda che storia. Piace raccontare agli
amici di Pini che il giorno del suo matrimonio, nel 1961, Lido aspettasse a gloria l'arrivo dell'attore per fargli
pagare il conto del rinfresco e che lui, Walter Chiari, senza batter ciglio accettò di offrire a tutti quella festa
di nozze. Di certo, al di là della leggenda sul pagamento del banchetto, ci fu che Chiari era fra i testimoni di
nozze e l'altro testimone era il console dei portuali, l'onorevole Vasco Jacoponi.

Il pallone. Il calcio era un'altra grande passione di Pini, sempre pronto a sostenere i colori amaranto sugli
spalti, non disdegnando di tirare qualche cazzotto anche allo stadio. Altri tempi, quando le litigate sugli
spalti, magari fra livornesi e pisani, finivano con un maglione strappato e un cerotto e dei coltelli non c'era
neppure l'ombra. Ma anche la frequentazione degli ambienti calcistici gli valse amicizie importanti: su tutte
quella di Nils Liedholm, il "barone" svedese. Prima calciatore e poi allenatore del Milan e della Roma, lo
ospitò più volte nella tenuta piemontese dove produceva vino.

Con Pini scompare una figura di una Livorno che non c'è più e che amava vivere alla giornata lontana anni
luce dall'ossessione del programmare tutto, lui che si vantava di non aver mai avuto un lavoro
"tradizionale" pur essendo riuscito nell'impresa di tirare avanti la carretta in famiglia, con la moglie Pia e i
due figli David e Monica, portati fino alla laurea.

Oggi l'addio. I funerali di Lido Pini, gigante dai modi bruschi eppure generosi, si svolgeranno questa mattina
alle 11 nella chiesa di San Matteo, a Fiorentina, dove lui era nato, per espressa volontà dei familiari. Poi la
salma verrà tumulata nella cappella di famiglia al camposanto della Purificazione.

28 agosto 2010
Saida e Amira sono con la mamma
Luciano De Majo

Questo sì che è un regalo di compleanno. Nel giorno in cui la piccola Saida ha compiuto sei anni, ha potuto
riabbracciare la madre insieme alla sorellina Amira, che di anni ne ha tre. E' successo al tribunale di Ben
Arous, alla periferia di Tunisi, dove ieri mattina Laura Dini, livornese di 36 anni, le ha strette a sé dopo quasi
un anno e mezzo di attesa, visto che il padre le aveva fatte sparire nell'aprile del 2009.

Fino a ieri non erano servite a niente sentenze italiane e tunisine che affidavano le bambine alla mamma,
rimaste pezzi di carta senza alcun effetto concreto. Nessuno sapeva dove fossero Saida e Amira. Solo lei,
Laura, madre coraggio livornese, non ha mai perso la speranza di poterle rivedere e per questo motivo
aveva deciso di trasferirsi in Tunisia, sicura che le figlie fossero ancora lì, in qualche villaggio nei pressi di
Tunisi, dove erano andate per la prima volta alla fine del 2008, in un viaggio che doveva essere di pochi
giorni ma che poi, per loro e per la madre, si era trasformato in un vero e proprio incubo. Da quel
momento, le piccole non hanno mai più fatto ritorno in Italia.

Secondo le prime ricostruzioni, avrebbero vissuto in diversi posti, andando da una casa a un'altra, sempre
controllate dal "clan" di Nabil Zakraoui, l'ex marito di Laura, che le aveva prelevate dall'asilo dove
andavano, nell'aprile del 2009, aggredendo le insegnanti. L'arresto ha fermato lui, ma non i suoi parenti,
che hanno continuato a tenere Saida e Amira ben distanti dalla madre, che nel frattempo si è rivolta
all'ambasciata italiana e alle istituzioni tunisine.

E' servito un vero e proprio blitz della polizia tunisina per restituire le bambine alla mamma. Un blitz
maturato nel pomeriggio di giovedì: nel quartiere di Tunisi dove è avvenuto, ci sono stati anche scontri,
perché chi custodiva le piccole non vedeva certo di buon occhio l'intervento degli agenti. E così, allo stesso
modo, ieri mattina l'incontro fra Laura, Saida e Amira è avvenuto in un contesto quasi blindato: la madre è
stata scortata da 25 poliziotti al tribunale di Ben Arous. «Sì, le bimbe sono qui con me - diceva ieri Laura
Dini, raggiunta per telefono a Tunisi - potete immaginare la mia gioia. Come le ho trovate? Un po'
frastornate, non è che ci siamo dette molto perché parlano solo arabo. Solo Saida, la più grande, capisce e
parla un po' in italiano. Mi ha chiesto dove ero stata in tutti questi mesi, perché non ero con loro. Ho
risposto che ero qui che le ho cercate tanto e in ogni quartiere di Tunisi e dei villaggi vicini».

Frastornate e anche un po' provate dai continui spostamenti escogitati da chi le custodiva per sfuggire alla
polizia che stava indagando. Saida ha raccontato alla mamma che spesso lei e la sorellina venivano portate
da un posto all'altro e quando uscivano le camuffavano con cappelli e sciarpe perche nessuno le
riconoscesse.

La battaglia di Laura Dini è andata avanti per mesi e mesi (un anno e tre mesi per l'esattezza) fra Tunisia e
Italia. In Tunisia, perché lei è rimasta nel paese africano per non perdere i contatti con l'ambasciata e coi
luoghi dove le piccole si trovavano. In Italia, perché sono state coltivate altre relazioni con esponenti delle
istituzioni locali e nazionali. Laura, insieme ai genitori Elio e Cinzia, è stata ricevuta dal sindaco Alessandro
Cosimi e dal senatore livornese Marco Filippi, che ha aperto altri canali di confronto col ministero degli
Esteri. Il caso ha trovato una dimensione anche politica dalla fine del 2009, quando un inviato del Tirreno
trascorse alcuni giorni a Tunisi, affiancando la madre nelle ricerche. Da lì, dalle pagine dei giornali e dalle
televisioni, l'approdo nelle aule parlamentari. Tanto che anche la vicepresidente del gruppo Pd alla Camera,
Rosa Villecco Calipari e la presidente della Commissione infanzia Alessandra Mussolini hanno presentato,
non più di quattro o cinque mesi fa, una interpellanza al ministro Frattini. Intanto, la donna livornese ha
potuto continuare a rimanere a Tunisi grazie ai sacrifici dei suoi genitori, che sono arrivati a mettere in
vendita la loro casa.

Se è stato difficile liberare le bambine e restituirle alla madre, non è stato facile neppure il primo incontro
fra Saida, Amira e Laura. La più grande, Saida, ha stentato a riconoscerla, mentre la più piccola si è sciolta
prima e ha finito con l'addormentarsi in braccio alla madre.

«Non mi sono mai rassegnata a vivere lontana da loro - ha detto ancora Laura Dini - ho fatto di tutto, ma
non sarei mai riuscita a rivedere le mie bambine senza l'aiuto di molti: il governo italiano, l'ambasciatore, gli
avvocati, i miei amici e mio padre Elio che ha lanciato numerosi appelli perché le sue nipotine fossero
ritrovate e restituite alla mamma».

L'ambasciata italiana ha anche fatto in modo di trovare a Laura Dini una casa e un lavoro, per consentirle di
mantenere se stessa e le bambine a Tunisi, dove per il momento deve rimanere, come afferma anche la
sentenza emessa dai giudici tunisini che assegna le bambine in affidamento alla madre a condizione che lei
si impegni a vivere in Tunisia. Del rientro in Italia, a Livorno, ancora, non è possibile parlare, ma intanto le
bambine sono con la madre. Laura sarà seguita ancora dalla polizia tunisina, ma lei spera davvero di aver
voltato pagina definitivamente. «Non ho più paura - ha concluso Laura - è tutto cambiato, anche il mio ex
marito e la sua famiglia hanno capito. Per comunicare non mi preoccupo, i gesti parlano più delle parole, le
bambine impareranno presto l'italiano».

17 luglio 2010
Simone, giovane vita già segnata dal dolore
Luciano De Majo

Un diploma al Nautico, qualche esperienza da marittimo sulle navi interrotta dalla malattia che cinque mesi
fa gli ha strappato la madre. Poi Simone, come fanno tanti ragazzi di buona volontà, si era messo alla
ricerca di un altro lavoro. E l'aveva trovato, da stagionale alla Corsica Ferries: la sua estate l'avrebbe passata
sui piazzali del porto a controllare passeggeri e auto in partenza per le isole. E anche al bagno Maddalena di
Tirrenia, dove ogni tanto dava una mano al bar, all'ora dell'aperitivo.

Simone Talani viveva col padre Gianpaolo, in via Toscana, nel cuore del rione Coteto. Un condominio
tranquillo, dove le famiglie si conoscono davvero e, se c'è bisogno, non dimenticano il sentimento di
solidarietà che sorgeva naturale nei quartieri popolari che sanno farsi comunità. Un condominio nel quale
Simone era benvoluto da tutti. «Avrebbe fatto amicizia anche con un mattone», dice Peter Sighieri, un
vicino di casa. Neppure lui riesce a trattenere le lacrime. «Quando stamani (ieri per chi legge, ndr) è arrivata
la polizia a casa nessuno di noi voleva crederci», racconta.

Simone era tornato da poco da Roma, dove aveva assistito al concerto di Ligabue all'Olimpico. Era un fan
del cantautore emiliano. Gli piaceva la musica e amava il calcio. La Roma e il Livorno le sue passioni. Aveva
giocato nell'Orlando e da qualche tempo aveva cominciato a giocare a calcetto. «Abbiamo giocato insieme
e posso dire che era un ragazzo straordinario, buono come il pane», dice Adriano Tramonti, giovane
consigliere comunale del Pd, cresciuto a Salviano.

«Ciò che aveva davvero di particolare era il rapporto coi bambini - prosegue Peter - quando arrivava dal
lavoro lo aspettavano a gloria e lui si metteva a giocare con loro, in cortile. In questi mesi, dopo la
scomparsa della madre, aveva costruito un rapporto splendido col padre», anche lui uomo di sport,
dirigente di società giovanili. E strettissimo era il rapporto coi cugini Alice e Michael. Erano come fratelli, da
quando il destino infame si portò via la loro mamma, in un incidente avvenuto proprio dove è morto
Simone.

12 luglio 2010
Umberto Martinelli, il ragazzo
che incontrò gli americani
Luciano De Majo

E' morto ieri all'ospedale, dove era ricoverato da alcuni giorni, Umberto Martinelli. Imprenditore
conosciutissimo, titolare della tipografia Benvenuti & Cavaciocchi, proprio domani avrebbe compiuto 82
anni.

Martinelli era persona schietta e generosa, come i livornesi d'una volta. E in città era conosciuto anche
perché gli era capitato di intrecciare la sua piccola storia personale con la grande storia, quella con la s
maiuscola. Sì, perché fu lui, a 16 anni appena, il primo livornese a incontrare gli americani ormai pronti a
entrare in città e a liberarla dalle ultime truppe tedesche. Era l'alba del 17 luglio 1944 - due giorni prima
della liberazione - e Umberto, insieme all'amico Silvio Paoletti, si era messo in cammino verso Ardenza,
dove avrebbe dovuto comprare del pane. I due camminavano sul viale 28 ottobre: oggi si chiama viale della
Libertà, ma all'epoca c'era ancora da omaggiare l'anniversario della marcia su Roma. Videro, da lontano,
alcuni militari ma non capirono subito che si trattava di americani. Né loro, i soldati, compresero subito che
si trattava di due civili in cerca di cibo.

Quando i due giunsero vicini ai soldati, scoccò la scintilla dell'amicizia. E Umberto Martinelli continuò a
rimanere legato al tenente Ray Smith, che comandava la pattuglia. Non solo perché il ragazzo di allora si
rivelò una guida preziosa per individuare le mine disseminate per la città, ma anche perché i due
continuarono a scriversi e a frequentarsi anche dopo la fine della guerra. Smith è scomparso recentemente,
nella sua città del New Jersey. E Martinelli non mancò di mandare un messaggio alla famiglia.

La storia di Umberto Martinelli è la storia di un uomo che ha dedicato grande parte della sua vita a
un'impresa importante della città: la tipografia di famiglia, che negli anni ha fatto crescere dal punto di vista
professionale e tecnologico, grazie anche all'entusiasmo dei suoi collaboratori. Un'azienda divenuta punto
di riferimento per l'editoria, in città, sempre aperta a tutti anche negli anni '50 e '60, in cui le libertà
costituzionali erano seriamente minacciate.

Alla famiglia sono arrivate le condoglianze del segretario della Cgil Maurizio Strazzullo e del segretario del
Pd Marco Ruggeri, che parla di Umberto Martinelli come di un «intelligente imprenditore, che nel mondo
dell'editoria e della stampa livornese, raccogliendo l'eredità della professione familiare, ha saputo
coniugare la preziosa cultura dell'impresa artigiana con il coraggio della costante innovazione tecnologica».
Appassionato collezionista di armi, Umberto Martinelli ha avuto due figlie, Veronica e Camilla. Quest'ultima
lo ha affiancato nella direzione della tipografia.

I funerali si svolgeranno domani alle 15,15, con rito religioso alla camera mortuaria dell'ospedale. La salma
verrà cremata, dopo di che le ceneri riposeranno al camposanto della Misericordia, imsieme alla madre.

13 giugno 2010
Italo Piccini, il padre del porto
Luciano De Majo

E’ morto Italo Piccini, anima e corpo dei portuali livornesi. Se ne va l’uomo delle battaglie in banchina, ma
anche l’imprenditore che ebbe l’intuizione del container e di tante altre innovazioni che fecero della
Compagnia portuali un caso unico in Italia.

Piccini era ammalato da tempo, ma la sua fine è stata comunque improvvisa. E’ spirato nel letto di casa,
trovato dal figlio Roberto, presidente dell’Autorità portuale livornese. La grande comunità portuale
livornese è già in lutto. La salma di Italo Piccini è stata portata, ieri mattina, nella sala del consiglio della
Compagnia portuale, il luogo dove ha lavorato una vita, nel palazzone rosso di via San Giovanni che lui
stesso ha contribuito a tirar su, negli anni d’oro della Compagnia.

E subito è cominciato a scorrere un fiume silenzioso e commosso di livornesi che volevano rendere l’ultimo
omaggio a Italo Piccini, livornese schietto e verace, sempre pronto a dar battaglia per le ragioni dei portuali,
ma anche a disegnare alleanze e strategie per rafforzare e consolidare la presenza della Compagnia.
Militante storico della sinistra, Italo Piccini è stato consigliere comunale del Pci a Livorno dal 1964 al 1980 e
adesso era iscritto al Partito democratico. Alla famiglia di Roberto Piccini è arrivato un telegramma del
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
«Partecipo al cordoglio dei lavoratori portuali e della cittadinanza di Livorno - è il testo del telegramma - per
la scomparsa di Italo Piccini, che ha rappresentato per lungo tempo la causa dei diritti dei lavoratori e
l’impegno per un porto moderno e competitivo. Al figlio Roberto e a tutti i famigliari le mie sentite
condoglianze». A rendere omaggio alla salma di Italo Piccini anche Massimo D’Alema. L’ex premier era in
città perché doveva partecipare a una iniziativa elettorale, che ha deciso di annullare in segno di lutto per la
scomparsa del vecchio console.

«Piccini - ha detto D’Alema - è stato il capo storico dei portuali, colui che ha saputo coniugare lo sviluppo
economico e la difesa dei valori di solidarietà, riuscendo a costruire uno dei porti più importanti del
Mediterraneo. E’ stato un uomo che ha mantenuto una straordinaria autorevolezza morale e un
grandissimo prestigio, prima di tutto fra i lavoratori». «Italo Piccini ha sempre messo al centro il bene
comune della città, ci mancheranno la sua personalità e la sua autorevolezza», ha detto il sindaco
Alessandro Cosimi, mentre il presidente della Provincia di Livorno, Giorgio Kutufà, lo ha descritto come un
uomo che «ha rappresentato la capacità dei lavoratori livornesi di proiettarsi nella competizione
internazionale ». I funerali di Italo Piccini si svolgeranno lunedì alle 10, al Palazzo dei Portuali. Tutto il porto
si fermerà per il lutto per un’ora.

20 marzo 2010
Dino Cecchi, maestro d'ascia e scarronzone
Luciano De Majo

Schivo come tutti quelli abituati a creare in solitudine. E lui che era un maestro d'ascia d'altri tempi aveva
conservato questa dote. Eppure di storie da raccontarne ne aveva, Dino Cecchi. Era uno sportivo vero, che
aveva avuto il privilegio di far parte di quell'armo ormai entrato nella leggenda del canottaggio, gli
Scarronzoni. Dino se n'è andato a 91 anni compiuti da un paio di mesi. E ieri a salutarlo c'erano i parenti e
gli amici: i tre figli con le famiglie, il fratello, il nipote, tutti coloro che in qualche modo l'hanno conosciuto.

Nato sul Pontino, in un palazzo degli scali delle Cantine all'angolo con via Solferino, Dino Cecchi aveva
imparato dal padre, proveniente da Limite sull'Arno, il mestiere di maestro d'ascia. Giovanissimo, a
diciott'anni appena compiuti, salì sull'otto dell'Unione canottieri livornesi. Era il 1937 e quell'equipaggio era
già un mito. Aveva rappresentato l'Italia ai Giochi olimpici del 1932 (Los Angeles) e del 1936 (Berlino),
impressionando il mondo e portando a casa medaglie. I successi in Italia e in Europa non si contavano più:
quegli otto livornesi, dallo stile un po' sgraziato che valse loro l'appellativo di Scarronzoni, avevano fatto
uscire malconci tanti avversari dai campi di regata.

Nel 1937, dunque, anche Dino Cecchi entrò a far parte dell'élite del remo nazionale e internazionale.
Conquistò titoli italiani, vestì la maglia azzurra e si impose anche in numerose competizioni internazionali.
In Italia, il duello più abituale era quello fra Livorno e i Canottieri Aniene di Roma. E quasi sempre a vincere
erano gli Scarronzoni. Come nel 1941, quando sulle acque del lago Maggiore a Pallanza Cecchi ottenne la
vittoria insieme ai suoi compagni di voga. La passione per il remo, Dino Cecchi la condivise con il fratello
Renato, che dell'otto fece parte dopo la seconda guerra mondiale, quando però la parabola gloriosa era alla
fine. Ed è lui, il più giovane dei due atleti (è nato nel 1920), «Cecchino» come lo chiamavano all'Unione
canottieri livornesi, ad aver conservato e tramandato la memoria di famiglia sotto il profilo sportivo.

Dino e Renato Cecchi lavorarono anche insieme, nella costruzione di barche in legno. A loro si deve, fra
l'altro, alla fine degli anni '40, la realizzazione dei primi gozzi del dopoguerra, coi quali fu possibile la ripresa
del Palio Marinaro, datata 1951. Con Dino Cecchi scompare sicuramente un altro componente di primo
piano della grande famiglia dei canottieri livornesi, capaci di conquistare gloria in tutto il mondo.

27 gennaio 2010
Tullio Montano, il signore della scherma
Luciano De Majo

Si è spento ieri, nel suo appartamento di via Gamerra, Tullio Montano. Era fra gli ultimi grandi vecchi di una
famiglia che ha fatto la storia della scherma, uno degli sport-simbolo della città. A agosto avrebbe compiuto
97 anni. Qualche settimana fa era stato ricoverato in ospedale per una brutta polmonite dalla quale
sembrava essere uscito. La ricaduta di questi ultimi giorni l'ha portato via agli affetti di una famiglia che non
è davvero come tutte le altre e che nei momenti difficili sa scoprirsi grande e unita.

Come sarà oggi, quando alle 10 del mattino tutti i Montano saranno intorno a Mario Tullio, figlio del
patriarca e medaglia d'oro a Monaco '72 nella sciabola a squadre, nella chiesa del Rosario, per i funerali.

Tullio Montano è stato, e non poteva essere altrimenti, anche lui uomo di scherma. Più dirigente che atleta:
cominciò a tirare tardi, a 32 anni suonati, sotto la guida del maestro Beppe Nadi, dopo una gioventù
passata sui banchi di un quattro senza dell'Unione canottieri livornesi, tanto per non dimenticare l'altra
grande disciplina che rese Livorno famosa nel mondo coi suoi Scarronzoni. Arrivò a essere un "seconda
categoria", niente di paragonabile agli altri membri della famiglia che hanno raccolto allori ovunque.

Tullio però le sue qualità di sportivo le dimostra dietro la scrivania, se di scrivania si può parlare per il
glorioso circolo Fides a caccia della rinascita in un dopoguerra ancora tutto da scoprire, di cui diviene un
dirigente di punta. E' fra coloro che sceglie di puntare sul maestro Athos Perone come guida tecnica del
circolo. I successi livornesi lo portano alla guida del Comitato regionale toscano della Federazione della
scherma, per ben dieci anni. Poi, per tre quadriennii olimpici consecutivi, è consigliere nazionale della
stessa Fis. Si dedica a seguire il settore delle squadre nazionali, coccolandosi i campioni della nuova
generazione che intanto crescevano nel Fides ma anche nei circoli di altre città e mostrando di saper
mettere da parte lo spirito di campanile per abbracciare la causa della maglia azzurra.

E' grandissima la soddisfazione nel vedere il figlio Mario Tullio che trionfa nella sciabola a squadre nelle
Olimpiadi di Monaco del 1972, ma segue con grande attenzione anche la straordinaria avventura della
fiorettista veneziana Antonella Ragno, che torna a casa con un altro oro al collo. Ed è così che i familiari di
Tullio vogliono ricordarlo: emozionato, attento, appassionato, vicino a una qualche pedana, in qualche
parte del mondo.

16 marzo 2010
Cara professoressa, ci mancherai
Luciano De Majo

Il suo curriculum professionale era lungo, lunghissimo. Ma quando succede che un'insegnante viene
ricordata per la sua straordinaria umanità, e perfino per la capacità di telefonare agli alunni che le capitava
di bocciare per spiegar loro i motivi, allora anche ilcursus honorum accademico e scolastico passa in
secondo piano. E non è un caso che fossero tanti, ragazzi di oggi e di ieri, quelli che hanno voluto salutare
Edi Matteucci Gianforma, morta improvvisamente nella sua casa di via Borsi.

Edi Gianforma è stata una professoressa amata dai suoi allievi, e sono stati tanti, tantissimi coloro ai quali
ha cercato di trasmettere il suo infinito sapere in materia di scienze naturali, chimica e geografia
astronomica.

E dire che l'amore per l'insegnamento l'ha scoperto relativamente tardi, dopo che, laureatasi in farmacia
nel 1941, aveva cominciato a lavorare in ospedale. Rimase vedova giovanissima, nell'ormai lontano 1962,
quando suo marito Vittorio Gianforma, pioniere dell'allora nascente medicina sportiva, morì
improvvisamente. Pur lavorando e occupandosi dei figli Giovanni e Ornella, seguì i corsi di scienze
all'Università di Pisa e cominciò a insegnare: Arcidosso, Pisa e poi Livorno, in quel liceo Enriques che l'ha
vista impegnata non solo come educatrice di generazioni di livornesi, ma anche sul fronte dell'innovazione
e della sperimentazione nella sua materia di insegnamento (e per questo fu consulente del Ministero della
pubblica istruzione).

A lei, e ad altri docenti come lei, si deve la creazione dei laboratori ed il loro uso costante. A lei si deve lo
sviluppo e l'affermazione in città di gruppi di discussione come la società astronomica e il gruppo di cultura
scientifica «Diacinto Cestoni», intitolato al naturalista livornese del quale era grande studiosa. In chissà
quante occasioni avrà spiegato ai suoi allievi la teoria della «biogenesi»: la vita può essere originata solo
dalla vita, spiegava ripercorrendo gli studi e gli esperimenti di Cestoni che l'avevano sempre appassionata.

Edi Gianforma se n'è andata all'improvviso, dopo che lo scorso agosto, il 7, aveva compiuto 88 anni. Andava
orgogliosa dei suoi nipoti: Jacopo, Ginevra e Vittorio che ormai, terminati gli studi, stanno entrando nel
mondo del lavoro. La sua è stata una vita piena. Fatta di insegnamento ma, più in generale, di curiosità
delle cose del mondo. I suoi familiari raccontano di un viaggio coast to coast negli Usa insieme all'amica
Lina Sadun, immortalato da decine di fotografie commentate in una conferenza. Ma anche della facilità con
la quale apprendeva le lingue: sapere il tedesco rappresentò, per lei e la famiglia sfollati a Montecarlo
durante la guerra, la salvezza da un rastrellamento. E che dire di quando, ai bagni Pancaldi che ha sempre
frequentato, si tuffò sfidando il mare in tempesta per salvare un ragazzo in difficoltà. Quel ragazzo si
chiamava Mario Miccoli e oggi è uno dei notai più affermati della città...

Era stata anche una sportiva, Edi Gianforma: aveva fatto parte della prima squadra di basket femminile
della città. E il fratello Giorgio Matteucci, scomparso da pochi anni, lui sì che era stato un autentico pioniere
del basket livornese, sfiorando la convocazione in azzurro alle Olimpiadi di Londra del 1948 sfumata d'un
niente. Edi Matteucci Gianforma riposa, da ieri pomeriggio, insieme a lui e al marito Vittorio, al camposanto
della Misericordia, nella cappella di famiglia, secondo i suoi desideri.

Addio, cara professoressa.

10 ottobre 2007
Carambola infinita di Capuozzo:
dal Pdl è tornato all'Udc
Luciano De Majo

Nel Pdl e ritorno. E' durata poco l'avventura di Salvatore Capuozzo nel maggior partito di opposizione al
governo cittadino. Il consigliere comunale, al secondo mandato a palazzo Civico, è tornato nella forza dalla
quale era partito, l'Udc, attirando su di sé gli strali dei dirigenti del Popolo della libertà, locali e regionali. E'
un personaggio tutt'altro che banale, Capuozzo, dipendente di Bankitalia con la passione del teatro
vernacolare.

E tutt'altro che banale è anche la sua parabola politica, a dir poco ampia: nel 2004 a spalancargli le porte
del consiglio comunale sono le 103 preferenze che prende come candidato nella lista "Amare Livorno", che
nei piani del centrodestra doveva essere la testa d'ariete per scardinare il potere rosso e incoronare Guido
Guastalla sindaco. Era una formazione composita, una lista civica che raccoglieva esponenti di centrodestra,
persone alla loro prima esperienza elettorale e altre donne e uomini provenienti da cultura radicale (come
il capolista Gianfranco Dell'Alba) oppure dal mondo cattolico, come Clotilde D'Apice che fu la prima eletta
con 208 preferenze. Capuozzo, una volta insediato a palazzo Civico, fece sapere che apparteneva all'Udc e
traslocò nel gruppo misto.

Ma anche la sua militanza nel partito di Casini è stata assai poco tranquilla: sulla bufera giudiziaria che
decapitò i vertici locali dell'Udc poi conclusasi in una bolla di sapone (ma comunque si dimise il segretario
Piero Di Francesco) Capuozzo soffiò in modo molto deciso, sostenendo il ricambio e l'elezione della giovane
segretaria Costanza Vaccaro, in un congresso-plebiscito, salvo poi entrare in polemica anche con lei. Tutti e
due, alle amministrative del giugno scorso, si sono poi ritrovati nel Pdl.
Lui, Capuozzo, passando dalla Dc per le autonomie, il cui segretario regionale Alessandro Corsinovi non
esita a parlare di «tradimento». «Il suo - dice Corsinovi riferito a Capuozzo - è un metodo di
comportamento politico ed istituzionale nei confronti del quale c'è solo profondo disprezzo. Dovrebbe
dimettersi subito dalla Commissione elettorale comunale nella quale era stato nominato in quota al Pdl».
Ma Capuozzo, appena riguadagnato lo scranno di consigliere comunale, aveva già preso le distanze dalla
componente maggioritaria del Pdl livornese, scegliendo prima di schierarsi col troncone guidato da
Marcella Amadio preferito a quello di Taradash, e poi dando nuovamente vita al gruppo misto, così come
successo nel mandato 2004-2009.

Oggi, come se non bastassero le già profonde divisioni che caratterizzano il Pdl in salsa labronica, Corsinovi
lo accusa di essere prima di tutto un ingrato. «Da Firenze gli facemmo fare anche i "depliant elettorali" e i
bigliettini di propaganda», dice, ricordando che il suo inserimento nella lista passò dal placet del
coordinatore del partito Maurizio Zingoni.

30 gennaio 2010
«Cari livornesi, impariamo a non accontentarci»
Luciano De Majo

Quarant'anni da prete. Nelle parrocchie, per i negozi di quartiere, negli uffici della diocesi. Monsignor Paolo
Razzauti fu ordinato prete il 20 dicembre 1969 da monsignor Emilio Guano, il vescovo dell'epoca. E stamani
alle 11,30 festeggerà con una messa che celebrerà nella chiesa di Santa Lucia, ad Antignano. L'inizio come
viceparroco di San Jacopo, il suo quartiere di nascita, poi la lunga esperienza di Sant'Agostino, al fianco di
don Betti, prima di fare il parroco ad Antignano e di assumere incarichi prestigiosi nella diocesi, che ha
provvisoriamente guidato dopo la partenza di monsignor Coletti per Como e prima dell'arrivo dell'attuale
vescovo, monsignor Simone Giusti.

Monsignore, che cosa è rimasto della Livorno di quarant'anni fa?

«Qualcosa c'è ancora, soprattutto nella gente più semplice. Che ha ancora voglia di fare, ha ancora grinta.
Io li rimpiango i giovani del '68 che volevano cambiare il mondo e avevano ideali. Oggi molti di loro si
abbrutiscono su se stessi».

Dica la verità: mica è facile districarsi in una città come questa, che tutti chiamano mangiapreti. Lei come
ha fatto?

«Con l'amicizia che i livornesi mi hanno sempre mostrato. Altro che mangiapreti, è gente che si apre
quando percepisce che ha a che fare con una persona disponibile a discutere e a comprenderne le idee.
Vedete, io ho sempre sostenuto che il prete è una persona che si sporca le mani, che sta fra la gente, che ne
conosce i problemi. Così si ottiene la fiducia. E il percorso che la Chiesa livornese ha fatto, penso
all'impegno di monsignor Ablondi, sta tutto qui».

Ma alla Livorno di oggi che cosa manca secondo lei?

«Il desiderio di non accontentarsi. Manca secondo me una ventata di sano libeccio che ci porti a costruire
qualcosa. Invece, vedo sempre più un clima di tutti contro tutti che difficilmente rischia di portare a risultati
concreti».
E questa osservazione a chi è diretta? Alla politica? Agli amministratori? All'opposizione?

«A tutti, volendo anche alla mia Chiesa. Ciò che temo, e che a tratti percepisco, è una perdita di identità che
sicuramente tocca anche il nostro laicato. Ma è una caratteristica che riscontro un po' ovunque. Ricordo di
aver visto, una volta, monsignor Savio scuotere la testa sconfortato in Vescovado. "Ma come, in 10 minuti
voi livornesi mi avete mandato all'aria un lavoro di settimane...", mi disse. Ecco, noi livornesi siamo un po'
così».

In fondo è anche il nostro pregio quello di essere schietti.

«Certo, ma quando si critica è il caso anche di fare proposte alternative. Io sono convinto che chi
amministra la città lo fa per il bene dei cittadini. E' pienamente legittimo non essere d'accordo e avere altre
idee, ma facciamole divenire proposte, se davvero vogliamo arricchire la città».

Però anche lei dice che tutto sommato sappiamo farci voler bene.

«Sì, grazie a ciò che dicevo prima. Alla gente più semplice che ha conservato quel buon senso che fa di
Livorno una città nella quale ancora si vive bene. Non è un caso che tanti funzionari pubblici, una volta
arrivati alla pensione, si stabiliscono qui. Però potremmo fare di più, ecco perché dico che dobbiamo essere
capaci di non accontentarci».

San Jacopo, Sant'Agostino, Antignano. Quale esperienza le ha dato di più?

«A San Jacopo sono stato poco, ma era il mio quartiere, lo conoscevo benissimo. A Sant'Agostino ho
incontrato i giovani, un gruppo di oltre 150 persone che ha fatto cose importantissime. Ad Antignano,
invece, ho conosciuto le famiglie. E con loro ho cercato di costruire qualcosa».

Si guardi indietro: quale episodio ricorda con maggiore intensità?

«Ce ne sono tanti. Potrei ricordare la visita del Papa, della quale curai l'organizzazione, ma anche la tragedia
del Moby Prince, quando sono stato vicino ai familiari delle vittime che arrivavano da tutta Italia. E i
momenti dello scontro più acuto per i decreti Prandini che segnarono una svolta per il porto. Ovviamente
non posso non ricordare i dieci mesi nei quali sono stato amministratore diocesano».

E le persone che ricorda con maggiore affetto?

«Anche quelle sono tante. Potrei dire Dino Lugetti, mio padrino di battesimo, ma anche uomini come il
professor Francesco Cecioni. E poi amministratori e dirigenti politici come Bino Raugi, Luciano Bussotti,
Bruno Cosimi. Uomini di grande statura».

Lei concesse la Cattedrale per i funerali dei bambini rom morti in Pian di Rota. Lo rifarebbe?

«Certo. Io sono per una Chiesa aperta a tutti. C'erano quattro bambini vittime di una situazione incredibile.
Lo rifarei, anche se l'ho pagata quella scelta».

Davvero?

«Ricevetti un attacco duro da Antonio Socci, sul Giornale. Che fu notato anche a Roma».

Che cosa si sente di aver dato alla sua gente?

«L'entusiasmo, la mia carica continua, una fantasia sincera».

E che cos'ha ricevuto?

«Di più, molto di più».

20 dicembre 2009
Prigioniero degli incubi nati in guerra
Luciano De Majo

Fabrizio è morto mentre nel suo cuore era all'affannosa ricerca di un dopoguerra che non è mai arrivato. La
sua è stata una vita segnata dalla sofferenza e dal dolore. «Da quando tornò da laggiù, non è più stato lo
stesso», dicono i familiari di Fabrizio Picchi. Quel "laggiù" indica il Libano, terra di mezzo martoriata da anni
di guerre, di vittime innocenti, di intricatissimi scontri fra diverse fazioni di popoli mai domi. Fabrizio ci
arrivò da militare di leva, appena terminato il Car, nell'ormai lontano 1983. Partì volontario. Aveva
diciannove anni e la voglia di vivere un'esperienza nuova, non sapeva davvero che cosa si sarebbe trovato
di fronte.

Era un Libano dilaniato - come oggi, più di oggi - da un conflitto terribile. Era il Libano della strage di Sabra e
Chatila, quello nel quale Fabrizio visse per lunghi mesi. Attraversò la sua personale missione facendo un
lavoro prezioso e terribile: guidava le ambulanze. Raccoglieva i feriti e li trasportava negli ospedali. Vide
tutto quello che un ragazzo di vent'anni non ancora compiuti non avrebbe mai visto. E quei racconti di
esplosioni improvvise, di poveri corpi lasciati sulle strade, di spari che ti arrivano addosso e non sai da dove,
li ha ripetuti chissà quante volte ai familiari. «Solo diverso tempo dopo venimmo a sapere che era finito
sotto il fuoco dei cecchini - raccontano i parenti - e che era rimasto ferito. Ci diceva che parlava con un suo
"amico di guerra". Una persona che era morta fra le sue braccia». Non si sa se fosse un soldato, un suo
commilitone o un civile visto e soccorso chissà dove. Ma quel periodo trascorso in Libano ha cambiato la
vita di Fabrizio. Sconvolgendola in modo totale.

Tornato in patria, alla fine della missione, continuava ad avere i comportamenti tipici della vita militare.
Dormiva con un materasso per terra, anziché nel letto. Forse perché di letti di ospedali ne aveva visti
tantissimi, a Beirut e negli altri centri libanesi dove era stato.
Il disagio mentale, col passare degli anni, si è fatto sempre più forte. Ma lui, Fabrizio, che pure non aveva
studiato, le sue grandi passioni ha saputo sempre coltivarle. Su tutte, quella per l'informatica. Da
autodidatta era diventato un piccolo mago del computer. Ed era grazie a questa straordinaria capacità che
riusciva a mettere insieme un po' di soldi, da mettere accanto alla piccola pensione con la quale viveva.
Riparava i pc di amici e conoscenti, addirittura a volte veniva chiamato anche da persone che conosceva e
che sono rimaste nelle forze dell'ordine.

Cresciuto da ragazzo, nella sua numerosa famiglia, nella zona di villa Perti, vicino a quella che era la
caserma della polizia stradale, abitava adesso in un alloggio pubblico assegnatogli da Casalp in pieno
centro, sugli scali Finocchietti. Lo conoscevano in tanti, Fabrizio. Lo conoscevano gli autisti dell'Atl perché -
abbonato "storico" - era solito usare il bus per spostarsi in città. Un anno e mezzo fa, nell'aprile del 2008, fu
anche protagonista del soccorso a una signora di 83 anni che in piazza Grande, appena scesa dall'autobus,
inciampò e cadde a causa di una buca nella strada. Fabrizio Picchi chiamò l'ambulanza e segnalò il problema
di un asfalto tutto da inventare. Lo conoscevano gli amici che negli anni si era fatto: era una persona
generosa con quelli che gli volevano bene. Lo conoscevano alla Misericordia, perché fece per lungo tempo il
volontario.

Quando tornò dalla missione in Libano, con un bel po' di soldi da parte, ne spese tanti per comprare auto
da rally, un altro dei suoi amori. Ma non seppe gestire le sue finanze e finì anche in un brutto giro, per
qualche tempo, frequentando gente che si approfittava di lui, delle sue debolezze, del suo disagio che stava
diventando sempre più forte.

Lo diceva, ai suoi fratelli e alle sue sorelle, che voleva morire. Lo diceva che stava male, che aveva qualcosa
dentro più forte di lui, che non poteva superare. Si rendeva conto che il male di vivere stava prendendo il
sopravvento. E allora succedeva che poteva fracassare gli oggetti di casa. Ma senza mai arrivare a usare
violenza contro se stesso o contro altrI.

Dentro di sé aveva la guerra. La guerra infinita di una coscienza inquieta, sempre divisa fra la serenità e il
malessere. Ma anche la guerra vera, quella che fa centinaia di morti, vista troppo a lungo sul fronte
libanese. E mai più dimenticata.

28 ottobre 2009
Miguel Vitulano, i baffi del bomber-simbolo
Luciano De Majo

Il grande cuore di Miguel Vitulano - malandato, affaticato, ma grande davvero - ha cessato di battere.
Miguel, l'eroe dei sogni di tanti ragazzini di trent'anni fa appassionati di pallone e innamorati della maglia
amaranto, non c'è più. Gli è stata fatale l'ultima corsa, a 58 anni non ancora compiuti. Quando è rientrato a
casa e stava per fare la doccia ha detto alla moglie di sentirsi troppo stanco. Erano i primi segni dell'infarto.
Che non ha perdonato. E' passato pochissimo tempo: la telefonata all'ambulanza, la corsa in ospedale, i
disperati tentativi di salvargli la vita. Hanno provato il massaggio cardiaco, più d'una volta. Ma non c'è stato
niente da fare. Vitulano è morto poco dopo le 14.

Miguel Vitulano è stato molto di più di un attaccante capace di far gol, molto più di un calciatore, molto più
di un amico. E' stato un vero signore, di quelli che si vedono sempre più raramente in giro. «Troppo bravo
per poter circolare ancora in un certo calcio», diceva Alberto Lazzerini, che ieri pomeriggio si è precipitato
alla camera mortuaria dell'ospedale, dove in molti aspettavano, insieme alla famiglia, che la salma fosse
esposta. Hanno dovuto attendere molto, perché il cuore di Miguel è stato grande fino in fondo: la famiglia
ha autorizzato l'espianto delle cornee, che è stato effettuato subito dopo il decesso.

Fuori, la moglie di Miguel, la signora Susanna, insieme alle figlie Nadia e e Caterina, in contatto con l'altra
figlia Carina, che dal padre ha ereditato la passione per il calcio e da anni fa l'arbitro ad alti livelli,
ricevevano l'abbraccio di amici e conoscenti. A Miguel, la figlia Nadia aveva regalato il quarto nipotino
proprio pochi giorni fa. Nicola è nato giovedì scorso. «Mio padre era un po' scosso, anche dopo le
vicissitudini del parto di mia sorella. Aveva bisogno di distendersi ed è andato a correre - racconta Caterina
- aveva ripreso anche a giocare, dopo l'intervento che aveva avuto al cuore. Non ci credo ancora, non è
giusto, non è proprio giusto...». Quando aveva smesso di giocare, Vitulano aveva cominciato a lavorare
come informatore scientifico. Faceva il rappresentante di medicinali: anche in quest'ambiente i suoi amici
erano molti. Come ai Pancaldi, dove d'estate c'era ancora la possibilità di vederlo giocare nel gabbione.
Determinato e gentile, come al solito: era impossibile non volergli bene.

«La sua passione vera - dice ancora Caterina - era il Livorno. A quella maglia e a quella società era
attaccatissimo. Aveva a cuore soprattutto il rapporto con i tifosi, con la gente "normale" che va allo stadio.
Era a loro che teneva in modo particolare. Ora spero soltanto che qualcuno gli porti una sciarpa amaranto.
Sono sicuro che l'avrebbe desiderato». La famiglia non chiede fiori ma donazioni al reparto di cardiologia,
dove Miguel si faceva curare. «Sì, quando si rendeva conto che non era più un giovanotto andava dal
dottore...», sorride per un attimo Caterina, straziata dal dolore come tutti i suoi familiari. Anche lei fa il tifo
per il Livorno. Anche lei sa che dietro l'addio che suo padre ha dato al Livorno qualche mese fa c'è un
trattamento che il bomber gentiluomo non avrebbe meritato. E anche lei avrà sentito un sacco di volte il
racconto della fiondata del 22 aprile 1979 che Miguel scagliò nella rete del Pisa, all'Arena Garibaldi. Quel
gol, segnato quattro anni prima che lei nascesse, lo fece entrare nel cuore dei tifosi amaranto, che
cantavano a squarciagola: «Mamma mamma lo sai chi c'è... è arrivato Vitulano, è arrivato da lontano... per
segnare tanti gol...». Lui ascoltava e metteva in campo tutta la forza che aveva. E fuori, occupandosi del
settore giovanile, faceva attenzione a crescere ragazzi con la schiena dritta, capaci di affrontare il calcio e la
vita da persone perbene.

Miguel Vitulano, c'è da esserne certi, la gente non lo dimenticherà. Domani mattina alle 10,30 la chiesa di
Sant'Agostino sarà piena di livornesi, per i funerali. E ieri sera lo hanno ricordato anche a Pisa, con un
minuto di silenzio prima del match con la Salernitana, la squadra che nel 1976 lo cedette al Livorno. L'onore
delle armi. Era il minimo.

24 febbraio 2009
Bino Raugi, sindaco partigiano
Luciano De Majo

Bino Raugi (nessuno, o quasi, l'ha mai chiamato Dino, nome buono solo per l'anagrafe), prima di tutto era
un operaio. Un uomo del popolo nato sul Pontino, in via Pellettier, nel 1926 destinato a diventare sindaco
della città a quarant'anni dopo essere passato dall'apprendistato in fabbrica, dal carcere fascista, dalla
guerra di liberazione.

Una morte improvvisa. In pochi si aspettavano che il cuore di Bino Raugi cessasse di battere così presto. A
maggio era stato operato. Un intervento pesante, al pancreas, per una malattia che non lascia scampo.
Eppure in tanti, fra gli amici e i compagni che frequentava più spesso, speravano che si fosse conquistato
qualche mese di vita in più. Invece Raugi è morto ieri mattina, all'ospedale, circondato dall'affetto dei suoi
cari: la moglie Vittoria, il figlio Marco. Poi, nel pomeriggio, la salma è stata portata in Comune, dove è stata
allestita la camera ardente che rimarrà aperta fino alle 20 di oggi e poi domani mattina fino alle 10,30,
quando nella sala consiliare ci sarà la cerimonia funebre.

Il rione dei sovversivi. Quello del Pontino non era un quartiere qualsiasi, durante il fascismo. Era il rione
delle prime imprese di Ilio Barontini. Lì Bino Raugi viveva insieme a Nelusco Giachini, nato due anni prima.
Nel 1940, a quattordici anni, l'ingresso in fabbrica. Non in una fabbrica qualsiasi, ma «nella» fabbrica per
eccellenza: il Cantiere, nel quale fu prima scaldachiodi e poi impiegato. Dopo essersi schierato contro
l'ingresso in guerra dell'Italia a fianco della Germania di Hitler, a diciassette anni scarsi, nel 1943, affrontò il
carcere fascista: fu mandato a Rona, a Regina Coeli, a disposizione del tribunale speciale. Da lì riuscì a
fuggire dopo il 25 luglio grazie alla rivolta alla quale dettero il loro decisivo contributo le donne di
Trastevere, accorse al carcere per liberare i detenuti. A quel punto, Raugi faceva già parte
dell'organizzazione comunista clandestina. Fu così che abbracciò la Resistenza, partecipando alla lotta
partigiana, alla guerra di Liberazione ancora giovanissimo. Combatté nel distaccamento partigiano che
aveva sede al Castellaccio, operando anche nella zona di Rosignano e nell'entroterra.

Assessore e sindaco. Raugi conobbe l'amministrazione comunale ai tempi del sindaco Nicola Badaloni, da
assessore ai lavori pubblici e al traffico. Poi, nel 1966, fu designato dal Pci alla sua successione. Rimarrà
sindaco per nove anni, portando avanti progetti importantissimi sulla strada della ricostruzione della città:
dalla municipalizzazione del gas all'abbattimento delle baracche, dalla costruzione della rete fognaria alla
creazione delle farmacie comunali, fino ad arrivare ai giardini del lungomare di Antignano.

Il basco amaranto. Erano gli anni della guerra fredda e delle contrapposizioni con i militari. Fu lui a
consegnare ai paracadutisti della Folgore il basco amaranto, in segno di riappacificazione dopo alcuni
durissimi scontri. Nel 1975 diventò assessore regionale, poi, dopo la fine dell'esperienza fiorentina, guidò il
Centro intermodale che ancora muoveva i primi passi. L'ultimo incarico politico lo ha assunto nel 2000: la
presidenza dell'Anpi, l'associazione dei partigiani che ancora deteneva.

Le ultime apparizioni. A fine settembre, fiaccato dalla malattia che avanzava impietosa, Bino Raugi si è
presentato alla riunione del Consiglio della Fondazione Cassa di Risparmi, di cui faceva parte, intervenendo
come era solito fare fino a qualche tempo prima. Una sorpresa più che gradita, per tutti i consiglieri, a
cominciare dal presidente Luciano Barsotti, che lo riaccompagnò. «Si vedeva - racconta - che era sofferente.
Per me era un punto di riferimento costante, una persona da ascoltare sempre». Qualche mese prima, ad
aprile, aveva partecipato all'inaugurazione dell'Istituto storico della Resistenza e della società
contemporanea, voluto in via Marradi proprio dalle associazioni della Resistenza e dell'antifascismo.
Quando la notizia della morte di Raugi è arrivata nel Consiglio provinciale riunito, ieri mattina, il presidente
della Provincia Giorgio Kutufà e la sua vice Monica Giuntini hanno avanzato la proposta di intitolargli
l'Istituto, rendendo così immortale il suo ricordo per i livornesi.

12 ottobre 2007
“Milla”, zia prediletta di Ciampi
Luciano De Majo

Camilla Oprandi Ciampi non era solo la carissima «zia Milla» dell'ex presidente della Repubblica Carlo
Azeglio Ciampi. La sua vita l'ha spesa, in gran parte, per far prendere vigore al dialogo interreligioso, ma
anche per non far sentire soli «gli ultimi», i più poveri. «Per i quali - diceva ieri pomeriggio celebrando il
funerale mons. Ezio Morosi, parroco della chiesa del Soccorso - ogni mese lasciava sempre qualcosa, senza
dimenticarsene mai».

Milla Ciampi si è spenta serenamente a 96 anni. Ieri, per il rito funebre, era atteso anche l'ex capo dello
Stato, che però non si è visto nella grande chiesa di piazza della Vittoria che frequentava da bambino. Forse
verrà in questi giorni, a visitare la tomba della zia.

«Di lei possiamo dire che sapeva fare bene le cose grandi e quelle piccole - ha detto il parroco ricordandola
- come si dice di un prete che sa dire bene la messa e sa chiudere bene la porta. Ogni settimana la nostra
cara Milla veniva in sacrestia a lucidare i calici e gli altri oggetti che servono per la messa. Quando la sua
malattia glielo ha impedito, mi sono accorto della sua assenza, e non solo per le impronte delle dita sui
calici...».

A riempire il Soccorso, oltre ai parenti, i tanti frequentatori della parrocchia che l'avevano conosciuta, a
cominciare dai più giovani. E anche alcuni «fratelli» di confessioni diverse, a cominciare dal pastore valdese
Klaus Langeneck che ha voluto testimoniare con la sua presenza tutto l'impegno profuso da «Milla» per
l'ecumenismo e il dialogo fra religioni. «Zia Milla», infatti, oltre a fare vita di parrocchia al Soccorso,
apparteneva al Sae (Segretariato per le attività ecumeniche), un movimento interconfessionale del quale
era fra le animatrici più assidue del gruppo livornese.
Morosi, durante le esequie, ha letto un messaggio del vescovo emerito Alberto Ablondi, anche lui fuori città
e impossibilitato a partecipare di persona al rito. Poi, a sorpresa, una delle conoscenti più strette
dell'anziana signora ha esaudito uno dei suoi desideri. Milla Ciampi, infatti, voleva che al suo fnerale fosse
data lettura di un messaggio che il compianto mons. Vincenzo Savio, all'epoca vescovo ausiliario di Livorno
prima di diventare vescovo di Belluno, le inviò nel 2001, per la festa di San Francesco di Sales, facendole gli
auguri per il suo novantesimo compleanno (che venne festeggiato alla Barcarola insieme al nipote, allora
Capo dello Stato) chiedendole la benedizione, considerandola una «Patriarca» della chiesa livornese.

Al funerale della zia dell'ex Presidente della Repubblica ha partecipato anche mons. Paolo Razzauti,
amministratore diocesano. «La mia presenza - ha detto Razzauti - vuole essere il ringraziamento della
chiesa livornese per tutto quello che Milla Ciampi ha fatto». Una gratitudine motivata dal fatto che, prima
di molti altri, la signora Ciampi aveva intuito l'importanza del dialogo interreligioso. «Ha saputo lavorare
con profondità e sapienza cristiana - ha proseguito mons. Razzauti - contribuendo, ad esempio, alla
costruzione di rapporti significativi con la nostra Comunità ebraica».

La vita di Camilla Oprandi Ciampi si caratterizza per l'incontro con le diversità fino all'ultimo: il suo corpo
sarà cremato, fatto abbastanza irrituale per una cattolica fervente quale lei è stata, e poi sarà tumulato nel
cimitero della Misericordia.

21 agosto 2007

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