7. Dalla preistoria alla storia del problema della verità. Il problema del-
la demarcazione. I rapporti fra matematica e fisica nelle epoche successi-
ve ad Aristotele: un’incursione nella storia dell’astronomia. «Salvare i fe-
nomeni»: sōzein ta phainomena. L’emergere del concetto di traiettoria. Il
rapporto fra hypothesis e phainomena. Il ruolo dell’hypothesis alla luce
del lavoro dell’astronomo. Il compromesso di Gemino. Zurück auf Plato
Kant, nonostante le oscillazioni, l’idea di una critica generale della ragione rimanga
distinta e in qualche modo superiore alla necessaria duplicazione del movimento
trascendentale che si osserva quando i principi vengono applicati. Problema, questo,
che mi pare restare aperto anche in uno dei punti più alti della critica kantiana degli
ultimi anni, in materia di fisica, cioè Pecere (2009), in part. pp. 26 e sgg.; e i capp.
5-6, pp. 321-446; Pecere infatti nota giustamente che lo scopo della fisica nel siste-
ma kantiano concerne il fatto che «essa possiede una parte valida a priori che serve
a “realizzare” i concetti della filosofia trascendentale (o ontologia) mediante una
estensione della dottrina dei concetti e dei giudizi, e svolge dunque una funzione
essenziale al raggiungimento dello stesso obiettivo della critica della metafisica.
Infatti la filosofia della natura nel suo complesso è pietra di paragone della scien-
tificità del criticismo e perciò, indirettamente, dell’irrealizzabilità della metafisica
della natura dogmatica […]. Per questa ragione […] dovrà essere possibile stabilire
una fisica a priori come “parte pura” della fisica nel suo complesso», lasciando
aperta la questione della preminenza fra la concezione classica della propedeutica
trascendentale e l’ormai primato che dovrebbe avere questa metafisica della natura
corporea, che fa uso esemplare della matematica; più avanti, tuttavia, mi sembra di
riconoscere una risposta più decisa, fondantesi sul carattere essenzialmente produt-
tivo e basilare della matematica anche per il movimento a priori, in part. pp. 331 e
sgg., che tocca ancora la questione del rapporto fra Metaphysische Anfangrsgründe
e KrV, anche se non relativamente al passo incriminato dell’Estetica trascendentale.
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 209
97 Va ricordato che l’influenza degli Egizi, come peraltro ampiamente noto, non si
limita alla matematica, ma si estende anche alla filosofia stessa. Più in generale,
sul debito dei Greci al Vicino Oriente, si veda allora: Lloyd (1991), pp. 281-298.
98 Fermo restando però che «il debito dell’astronomia greca verso quella babilonese
consistette nel materiale su cui erano da costruire le teorie, non nelle teorie stesse
o nell’idea delle possibilità di tali teorie» (ivi, p. 295).
99 Cfr. Husserl (1961), app. III, pp. 402-403.
210 Salvare i fenomeni
102 «Ma d’altra parte [la fisica] è distinta da uno studio che si concentri intieramente
sulla materia, che riduca p. es. un corpo vivente o un composto chimico inanimato
nei suoi elementi, e non si dia pensiero della struttura che fa sì che il corpo vivente
o il composto siano quel che sono. Aristotele si pronunzia insomma a favore della
teleologia, contro il puro meccanicismo, a favore dello studio delle parti alla luce
del tutto, contro il punto di vista che fa del tutto una mera somma delle parti. La
fisica è lo studio non della sola forma né della sola materia, ma della materia
formata o della forma materiata», Ross (1971), p. 74. Si veda ancora: Tommaso,
De ente et essentia, II.
214 Salvare i fenomeni
Ad ogni modo, come si vede, il vero problema, che ormai non può più
essere evitato, riguarda la questione della demarcazione fra il sapere astro-
nomico, incarnazione del tema della dicibilità matematica della natura, e
quello del nuovo fisico. La questione è tanto urgente che, lo abbiamo ap-
purato, Aristotele la affronta di petto nella Fisica. Lì la soluzione propo-
sta finiva per lasciare aperti degli squarci, dal momento che l’esposizione
del metodo fisico esauriva esclusivamente la definizione di quel processo,
mentre in fondo lasciava approssimata la faccenda del matematico. Il De
coelo mostra però cosa veramente Aristotele avesse in mente, o quantome-
no cosa egli abbia veramente fatto. La preminenza del metodo fisico deve
aver instillato nello Stagirita la convinzione di poter procedere, anche nel
campo dell’astronomia, coi crismi della fisica: in un sol colpo, Aristotele si
trova a piegare le osservazioni e il materiale empirico, allora a disposizione
dell’astronomia, ai dettami della fisica, ed in particolare a considerazioni
inerenti all’essenza propria dei corpi. Non solo: il carattere delle conside-
razioni sull’essenza viene esteso anche alle trattazioni propriamente tec-
niche, in modo da rendere le proprietà stesse delle figure degli attributi
sostanziali dei corpi in esame – le figure divengono cose. Si tratta invero di
un errore ascrivibile anche a Platone, ma in Aristotele vi è una svolta an-
cora più decisa verso una concezione meccanica del sistema astronomico,
circostanza desumibile, p. e., dalla spiegazione circa la causa del calore
del Sole, individuata nel suo movimento traslatorio, in relazione all’intero
meccanismo ad orologeria delle sfere (De Coe. 289a13-33).
Così gli astri non hanno orbita circolare perché le ipotesi che dovevano
guidare i calcoli successivi si accordavano con le osservazioni, bensì per
ragioni inerenti alla considerazione contestuale della natura dei corpi e del-
le costruzioni geometriche – ed è in questo senso che la matematica non è
rigettata –:
È necessario che il cielo abbia figura sferica; questa, in effetti, è ciò che vi
è di più proprio alla sua essenza e a ciò che è primo per natura. […] Inoltre,
siccome il compiuto [teleion] è ciò di cui niente al di fuori dello stesso rimane
possibile [… ou mēden exō tōn autou labein dynaton], e se è vero che per la
retta è sempre possibile aggiunzione, mentre per il cerchio mai in alcun modo,
è evidente che il cerchio sarebbe compiuto e sarebbe ciò che include tutto in sé
[hē periechousa]. […] Poiché la prima figura è del primo corpo, ed il corpo pri-
mo è quello che si trova nell’ultima orbita, il corpo che si muove di traslazione
circolare dovrebbe essere sferico. Lo è anche il continuo a quello; in effetti, il
continuo ad un corpo sferico è sferico. Allo stesso modo per i corpi che sono
in relazione al centro di questi: i corpi che sono circondati e in contatto con un
corpo sferico sono tutti necessariamente sferici; mentre la sfera inferiore dei
pianeti è in contatto con quella superiore, sicché questa dovrebbe essere tutta
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 215
quanta sferica; in effetti, tutti si toccano e sono contigui alle sfere (De Coe.
286b10-287a11).
104 Si veda anche il caso di Aristarco: se si trova, da ipotesi astronomiche, che il Sole
può trovarsi al centro dell’universo, allora perché non poter pensare che lo sia
realmente? cosa impedirebbe, di primo acchito, veramente, di saltare dai calcoli
alla realtà delle cose? – cfr. Lloyd (1991), p. 274.
105 Questo fino ad arrivare ad affermare ciò: «Perciò bisogna inoltre considerare l’at-
tività degli astri essere la stessa di quella degli animali e delle piante» (De Coe.,
292b1-2). L’asserzione è confacente allo spirito del Timeo, che pure in effetti
propugnava la psicologizzazione del cosmo: sul rapporto Platone-Aristotele su
questo punto, si veda Wieland (1993), p. 309. Naturalmente, va notato che però
gli esiti siano diversi: in Platone, la presenza di psychē e nous nel kosmos serviva
per rivolgerlo all’ordine della razionalità, e quindi sottoporlo all’azione delle idee,
benché il tentativo dovesse seguire una certa profilassi; in Aristotele invece diven-
ta la dichiarazione fondante l’estensione dell’ideale biologico al trattamento di
tutto il cosmo. Quindi, per quanto valga esprimersi in termini moderni su pensato-
ri antichi, possiamo dire che in Platone viga il tentativo di una matematizzazione
della biologia e persino della fisiologia umana, come dimostrato dalla sezione
fisiologica del dialogo citato poc’anzi, mentre al contrario in Aristotele assistia-
mo ad una tendente biologizzazione delle discipline matematiche, quantomeno di
quelle che si occupano di cose fisiche.
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 217
rilievo importante, che per noi è del massimo interesse. Egli infatti sostiene
che Ipparco avrebbe ad un certo punto fatto una scelta, e avrebbe preferito
all’eccentrico l’ipotesi dell’epiciclo, perché, secondo lui, essa rappresenta-
va meglio giustappunto il kata physin; Teone si affretta inoltre a constatare
come in realtà Ipparco, da matematico, non possedesse i mezzi necessari
per giudicare sia del kata physin che del kata symbebēkos: «Né tuttavia lo
stesso, non edotto dalla physiologia, ha compreso quale sia il moto (phora)
secondo natura e secondo la stessa verità degli astri, e nemmeno quello
secondo accidente e che è fenomenico. Stabilisce ipotizzando così […]»107.
È interessante ratificare quanto avvenga qui anche dal punto di vista lessi-
cale: Teone chiosa nel finale aprendo la frase con hypotithetai, conferendo
al termine e alla gerarchia dell’ipotesi un significato che è allo stesso tempo
familiare ed estraneo allo spirito platonico della linea (cfr. supra, § III. 1).
Il fatto che Teone si premuri di limitare e specificare per bene la validità
delle conclusioni di Ipparco non deve essere casuale. Sappiamo dal com-
mento di Simplicio al De Coelo108 che Ipparco si era occupato anche di
temi squisitamente fisici, e che in quest’ambito aveva sfidato impunemente
l’autorità di Aristotele. Stillman Drake, citando il passo di Simplicio, nota
giustamente come le congetture di Ipparco muovano da una precisa defor-
mazione professionale: Ipparco si oppone all’aristotelismo sulla questione
della velocità di caduta dei corpi, che in ottica aristotelica veniva spiegata
sulla base di un incremento progressivo legato all’avvicinarsi del mobile
al suo luogo naturale. Egli invece elaborò un modello che connetteva stret-
tamente la velocità alla forza esercitantesi sul corpo, prelevando questo
concetto, con ogni probabilità, da considerazioni matematiche relative alla
proporzionalità di velocità e tempo come attributi del mobile109. In una cer-
ta misura, dunque, e seppur ovviamente ante litteram, Ipparco pare fosse
giunto alle determinazione del corpo come grandezza e alla caratterizza-
zione del moto attraverso la centralità del concetto di accelerazione, in un
approccio matematico che, nello studio della fisica terrestre, non poteva
che provenirgli dall’astronomia110.
111 Duhem (1986), pp. 24-43. Sulla critica a Duhem: cfr. Lloyd (1991), pp. 254 e sgg.
112 Cfr. Drake (1992), p. 61.
113 Il tutto potrebbe però avere comunque un’ascendenza accademica; Cornford,
commentando i passi del Timeo in cui Platone descrive il suo sistema astronomi-
co tramite i movimenti del cerchio dell’identico e di quello del diverso, scrive:
«Platone non sta immaginando cerchi strettamente geometrici, come dovrebbero
apparire sulla superficie di un globo celeste, poiché questi avrebbero lo stesso dia-
metro. Ma in un modello materiale, fatto di cerchi di rame, un cerchio sarebbe na-
turalmente fissato “dentro” l’altro. Che l’Accademia possedesse una sfera armil-
lare può essere dedotto dal rilievo successivo di Timeo che i movimenti intricati
dei pianeti non possono essere spiegati senza un modello visibile. Platone molto
220 Salvare i fenomeni
meglio: posto che l’astronomia non possa di per sé attingere alla verità
kata physin, Adrasto e Teone impostarono un rapporto fra principi fisici e
astronomici che non si attagliava nettamente alla struttura aristotelica, pur
prelevando da essa e mantenendo intatta la necessaria distinzione fra i due
metodi in esame. Essi sostituiscono alle deduzioni e alle ipotesi inerenti
alla natura dei corpi la necessità di una realizzazione modellistica dell’ipo-
tesi; in poche parole, se l’artificio matematico escogitato può essere tecni-
camente riprodotto e realizzato in scala da un artigiano, allora esso si rivela
valido, e si accorderanno con la natura delle cose tutte quelle ipotesi così
riproducibili, risultando pertanto fisicamente vere. Teone, peraltro, ripor-
tando il mito di Er della Repubblica, nella parte in cui si espone fatalmente
un racconto nel quale Platone ha molto probabilmente condensato la visio-
ne astronomica del suo tempo, commenta dicendo che sarebbe inutile arro-
vellarsi sulle ipotesi astronomiche aneu tōn d’opseōs mimēmatōn114, ovve-
rosia senza il ricorso ad enti che riproducono la vera conformazione delle
cose, rivelata dall’osservazione. Teone quindi sta riabilitando del tutto il
carattere iconico del logos fisico-matematico nei confronti della natura, e
ha trasformato lo eikōs del Timeo nel postulato di una rappresentatività ne-
cessaria, al contempo però dando ragione ad Aristotele per quanto riguarda
la necessità di una piegatura meccanica della fisica.
E questo è ciò che, per inciso, ancora una volta non comprende Duhem.
Lo storico francese non intende correttamente, a mio avviso, il doppio
movimento connaturato alle nuove esigenze imposte da Adrasto e Teone.
Come ho detto, è importante arguire, da un lato, quanto rimanga fermo
l’impianto di stampo filosofico che desidera la fondazione di un sapere
preliminare all’astronomia, cioè al discorso matematico sulla natura, qua-
le depositario della verità sull’essere (sia che esso venga concepito come
idea oppure venga definito nei termini dell’essenza e così via), e, dall’altro,
però, come certe demarcazioni inerenti al concetto stesso della verità siano
più labili, dal momento che quello che dicono Adrasto e Teone, mi sembra,
probabilmente lo possedeva prima che ne scrivesse. Teone ci dice che egli stesso
aveva da sé costruito una “sfera” per illustrare il fuso della Necessità nel mito di
Er. Il fuso non è il cosmo, ma un modello primitivo, con uno stelo di diamante
per asse, e un “vortice” composto di una mistura di diamante e altre sostanze. Il
vortice consiste di otto semisfere concentriche, innestate l’una nell’altra come un
modello di sfere cave, capaci di muoversi separatamente. La metà superiore di
ogni sfera era tagliata cosicché potessero essere osservate le “operazioni” inter-
ne. Gli orli delle semisfere corrispondono agli otto cerchi del Timeo», Cornford
(1971), p. 75. Si veda anche naturalmente: Resp. 614b e sgg.
114 Teone (1849), XVI, p. 202.
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 221
115 Cfr. Duhem (1986), pp. 34-35. Duhem sottolinea ampiamente il contrasto nella
definizione dei principi, mette in rilievo almeno implicitamente la conservazione
della struttura tipicamente filosofica, ma credo vada notato appunto che la defini-
zione tecnica qui sfondi in parte le barriere dell’eikōs logos, dipendendo diretta-
mente dall’astronomia: in tal modo, quest’ultima sguscia sinuosamente nel campo
della verità fisica.
116 Cfr. Kuhn (2000), pp. 77-94.
222 Salvare i fenomeni
è possibile inoltre provvedere. Per di più, tante sono convenienti di tutte quelle
ipotesi più semplici e proprie ai corpi divini, e che sono state concepite affinché
scoprissimo il modo dei movimenti degli astri e in questa maniera dei mobili
secondo verità, nel modo in cui appaiono, affinché venga raggiunto il metro di
questi negli stessi [... hina ginetai katalēpton to metron tōn en autois]122.
portata enorme: i movimenti descritti dai corpi sono reali o meno? ciò che
vediamo in quest’apparenza è vero oppure no?
Ma la questione è appunto fasulla dal suo inizio, cioè è già decisa: se
si usa un sapere ideale per descrivere ciò che ha materia, allora bisogna
scansare il pericolo di una crassa omologia. Bisogna raffinare i modi del
discorso e della verità. Da un lato non possiamo infatti dire che i mo-
vimenti letti attraverso le figure geometriche siano reali, perché le co-
struzioni matematiche hanno soltanto valore dianoetico, e dall’altro non
possiamo parimenti respingerle come finzioni, in quanto si accordano
con le conclusioni. L’oscillazione che spesso gli esegeti moderni hanno
ravvisato negli astronomi e nei commentatori, fra convenzionalismo e
realismo, dipende in realtà da questo.
Questo dato è inoltre possibile ritrovarlo più alla fine del passo citato che
non al punto in cui siamo ora. Proclo sta infatti riprendendo esplicitamente
quei passi della Repubblica in cui Platone disquisiva del diverso uso dell’i-
potesi da parte dei filosofi e dei matematici: i filosofi dialettici si muovono
infatti in un contesto di concatenazione che giustifica le deduzioni hexēs,
«l’una dopo l’altra», in un ordine necessario che infine desidera rimontare
ad un principio non ulteriormente fondabile (in Aristotele sarà il principio
di non contraddizione, in Platone è sostanzialmente l’idea del Bene che è
epekeina tēs ousias); i matematici invece muovono dalle conclusioni, ed
in sostanza usano le ipotesi per giustificare ex post un’asserzione iniziale,
come abbiamo appurato.
Non a caso, le dimostrazioni di matematica con cui anche abbiamo
generalmente a che fare partono da una tesi che si propongono di dimo-
strare attraverso ipotesi: così l’ipotesi matematica non ricerca un fonda-
mento inconcusso, ma anela alla giustificazione e alla saldatura di una
catena di inferenze, scaturente da un punto finale. E per questo evidente-
mente la matematica deve essersi rivelata feconda per l’astronomia. Non
è nella fisica terrestre che si è affermato per la prima volta il primato
della traiettoria e del potere del logos matematico, bensì in questo campo
rarefatto e siderale dei moti degli astri: entro certi termini, il movimen-
to è stato qui considerato come una pura traccia e quindi come un dato
apparente la cui necessità doveva essere esibita ex post, e non fondata
autonomamente, o comunque direttamente nella presenza del fenomeno.
Le conclusioni degli astronomi sono le osservazioni effettive dei moti,
che devono essere poi interpretate matematicamente al fine di essere rese
scientificamente trattabili; gli astronomi perciò utilizzano le loro ipotesi
per salvare i fenomeni, sintagma che non vuol dire altro, in prima appros-
simazione, che l’applicazione di questo principio epistemico di fondo:
226 Salvare i fenomeni
124 Si veda quanto dice ancora Lloyd a proposito dell’espressione «salvare i feno-
meni» e del modo in cui essa implica il collegamento fra teoria e realtà: «Questa
espressione non stava per un programma ben definito, ma era usata in connessione
con molti programmi e piuttosto divergenti fra loro. In primo luogo, Smith ha
molto utilmente fatto luce sul fatto che, nell’esercizio di salvare i fenomeni, vi
fosse spesso una selezione preliminare dei fenomeni che devono essere salvati. Lo
scopo del programma è limitato, in altre parole, a ciò che viene stimato essere sal-
vabile: il movimento dei pianeti, del Sole e della Luna, per esempio, ma non delle
comete o delle meteoriti. In secondo luogo, una volta che le anomalie apparenti
sono state riportate sotto una legge generale o spiegate per mezzo di un modello
generale, esse divengono quindi prove in favore di quella legge, non eccezioni o
difficoltà. Emerge dunque una distinzione cruciale. In due differenti casistiche i
fenomeni forniscono il punto d’avvio di un’indagine, ma il risultato finale può
essere molto differente. In molti casi, per arrivare ad una teoria soddisfacente, lo
scienziato dovrà abbandonare i fenomeni, respingerli come mere apparenze quali
sono, nel tentativo di arrivare alle vere realtà intelligibili che giacciono dietro di
esse. Questo corrisponde al programma platonico […]. Inoltre, in un’altra casisti-
ca, le anomalie originariamente percepite nei fenomeni sono esse stesse soltanto
apparenti, e una volta che la teoria viene assicurata non sono più considerate come
tali. Per esempio, i moti retrogradi possono essere pacificamente incorporati nella
teoria planetaria. Una volta che sono compresi nei termini di una teoria genera-
le, i fenomeni nel senso dei dati originali delle osservazioni possono essi stessi
essere visti come conformi alle leggi [...]. Pertanto è importante riconoscere che,
secondo alcune accezioni, i “fenomeni” rassomigliano abbastanza bene ai dati
dell’osservazione e che “salvare” vuol dire raggiungere un’adeguata legge gene-
rale. Qui ciò che è “apparente” ma non “reale” sono le anomalie originariamente
percepite nei dati che forniscono il punto di partenza dell’indagine, al termine
della quale, però, esse sono state mostrate non essere tali. Ma in altri casi i “feno-
meni” possono essere dati dell’osservazione stimati o assunti – per esempio per
ragioni platoniche – essere guide inadeguate alle leggi dietro di esse [underlying],
ed in tali casi i dati stessi sono soggetti a revisione o confutazione, almeno in
parte, nel tentativo di scoprire le leggi. Allo stesso modo, laddove i “fenomeni”
sono o includono le opinioni comuni su una particolare materia – spesso usate da
Aristotele, specialmente come inizio della sua indagine –, si applicano le stesse
distinzioni generali. Qualche volta le opinioni comuni sono salvate nell’essere
drasticamente riviste o anche totalmente rifiutate, ma qualche altra volta sono
salvate nell’essere spiegate e in qualche modo giustificate» (ivi, p. 252).
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 227
Questo in modo corretto [orthōs] ipotizzano, che i movimenti dei corpi di-
vini devono sussistere [hyparchein] necessariamente come circolari e ordinati,
125 Si può al riguardo vedere il tono ironico del proemio in cui Proclo parla di «coloro
che amano rimirare la verità dei cieli», Proclo (1540), p. 1, riferendosi molto
probabilmente a quei Platonici che concepiscono l’astronomia soltanto come un
modello del mondo ideale, e non come un campo che merita una reale indagine
scientifica, cioè capace di confrontarsi realmente con le osservazioni. Lo si evin-
cerà chiaramente dal passo che citerò a breve. Per l’intera ricostruzione, si veda
ancora una volta il sempre puntuale lavoro di Lloyd (1991), pp. 260 e sgg.
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 229
127 Ancora, si rammenti: «Per di più, tante sono convenienti di tutte quelle ipotesi più
semplici e proprie ai corpi divini, e che sono state concepite affinché scoprissimo
il modo dei movimenti degli astri e in questa maniera dei mobili secondo verità,
nel modo in cui appaiono, affinché venga raggiunto il metro di questi negli stessi
[... hina ginetai katalēpton to metron tōn en autois]». Stavolta non sono però del
tutto in accordo con quella che mi sembra essere l’interpretazione di Lloyd, che in
questo caso ravvisa uno spasmo realista – Lloyd (1991), p. 263 –: mi sembra inve-
ce affatto evidente che Proclo stia ancora nominando questa singolare circostanza
che si origina per il fatto che strutture ideali nominano i fenomeni. Infatti dice che
il metro dei movimenti viene colto negli astri, laddove è ormai divenuto evidente
che la vera misura è il movimento come traslazione, la traiettoria, la pura traccia
lasciata dall’ente che si muove, il quale, in quanto ente, esce perciò dall’orizzonte
della considerazione.
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 231
sulla differenza fra fisico e astronomo: a questo punto, siamo infatti pronti
per tornare al problema principale, e finalmente provare a corredarlo di
una risoluzione, in virtù di quanto acquisito soprattutto dall’interpretazio-
ne di Proclo.
Il fatto che Simplicio si rivolga al commento di Gemino alle Meteore di
Posidonio, citato da Alessandro di Afrodisia, non è tanto importante per il
contenuto, quanto per il fatto che il ventaglio temporale è piuttosto ampio,
e considerando che qui la voce riecheggia dal tempo di Aristotele, ci trovia-
mo al cospetto di una forbice quasi millenaria, che ci permette di vagliare
l’arco di una intera tradizione. Un rilievo che era già stato fatto, ma che era
il caso di ribadire. Vediamo dunque come Simplicio riporta il problema con
la sua citazione di Gemino, mutuata da Alessandro128:
Della teoria fisica è l’indagare intorno alle essenze del cielo e degli astri e
intorno alla loro potenza, alla loro qualità, alla loro generazione e corruzione,
e, per Giove, essa può anche fornire dimostrazione circa la grandezza, la figura
e l’ordine. L’astronomia non dice nulla invece nello spiegare queste cose, ma
dimostra l’ordine dei corpi celesti, avendo mostrato il cielo come cosmo, e di-
scute intorno alle figure e alle grandezze, e alle distanze della Terra, del Sole e
della Luna, delle eclissi e della congiunzione di astri, e di ciò che è qualitativo
e quantitativo nelle traslazioni di questi. Ma poiché dipende dalla teoria che
considera le figure circa la loro qualità, grandezza e quantità, è necessario si
accordi con l’aritmetica e la geometria. Spesso avranno in mente di assegnarsi
lo stesso oggetto d’indagine, l’astronomo e il fisico, per esempio che il Sole
è grande e che sferica è la Terra, ma non procederanno per le stesse strade. Il
primo, in effetti, dimostrerà ogni cosa per mezzo dell’ousia, della dynamis, o
per mezzo di ciò che hanno di migliore, o ancora tramite la generazione e il
mutamento (metabolē), mentre il secondo tramite gli attributi che accompagna-
no le figure o le grandezze, oppure per la qualità della kinēsis che si adatta con
queste nel tempo. Spesso il fisico osserverà le cause e guarderà verso la dyna-
mis produttiva, mentre l’astronomo avrà dimostrato tramite attributi esteriori,
e non diverrà adatto alla contemplazione della causa, per esempio a dire quale
causa produca la sfericità della terra e degli astri. In alcuni casi, non si propone
di afferrare nessuna causa, come ad esempio quando discute dell’eclissi; in altri
casi, escogiterà, secondo ipotesi, un qualche modo per riprodurre di quali enti
sussistenti siano salvati i fenomeni. […] In generale, infatti, non spetta all’a-
stronomo conoscere cosa è per natura in quiete e quali i mobili, ma l’introdurre
ipotesi delle grandezze. Nell’indagine dei mobili, a quali ipotesi obbediscono
i fenomeni del cielo. Rimane però che per lo stesso i principi siano oltre e dal
fisico, i movimenti degli astri sono semplici, regolari e costanti, e attraverso
128 Per una ricostruzione storica accurata dei vari passaggi e dei rimandi del traditur,
si veda: Tannery (1887b), pp. 18-33.
232 Salvare i fenomeni
questi dimostrare che sia periodico l’allontanarsi di tutte le cose [gli astri?]
secondo linee parallele, e di quali invece ottenere secondo cerchi obliqui129.
131 Il lettore aristotelico più scaltro, potrebbe rimproverare a questo punto la mancata
lettura di Eth. Nic. 1145b3 e sgg., in cui Aristotele adotta una curiosa espressione
che sembra apparentabile a «salvare i fenomeni»: tithentas ta phainomena (il luo-
go suona così: «È necessario, come in tutte le altre cose, si pongano i fenomeni e
innanzitutto che si sollevino i problemi, così da mostrare in massimo grado le opi-
nioni comuni intorno alle passioni, o, se no, le più diffuse e importanti: infatti se si
sciolgono e si lasciano cadere le opinioni comuni più sgradevoli, ciò che è mostrato
sarà sufficientemente chiaro»). Ebbene, in realtà lo spirito di questo luogo dell’Etica
Nicomachea risulta in distonia rispetto allo spirito incuneatosi dietro il proposito
di salvare i fenomeni, poiché ciò che Aristotele sta cercando di edificare, come ri-
sulta chiaro dall’esempio che di lì a poco farà per confutare l’idea socratica che un
uomo compirebbe il male solo per ignoranza della virtù, è un metodo differente da
quello dell’astronomo; o, meglio, che in comune con quello ha probabilmente solo
il punto di partenza. L’astronomo muove dall’apparenza del moto, certamente, e in
tal senso cerca sempre l’appiglio di un fenomeno; egli però cerca contestualmente
di riportarlo a leggi matematiche, o quantomeno di riprodurre il movimento reale
tramite figure geometriche, e perciò si fa perfettamente consapevole della straordi-
naria difficoltà di questa sua impresa: ogni volta che si tratta di esprimere un parere
al riguardo, i più avveduti fisici hanno sempre fornito opinioni attente e prudenti,
mostrando quali fossero le condizioni a patto delle quali poteva avvenire la mate-
matizzazione del reale. Tale condizione rimane peraltro entro una distanza, che il
tithentas ta phainomena aristotelico vorrebbe invece colmare, fra principio ed enti.
Non si tratta quindi, per Aristotele, di scoprire dietro il manifesto una legge invisibi-
le, procedimento tipico del fisico matematico, quanto piuttosto di fare in modo che
i fenomeni siano posti, cioè di cercare di accogliere nel grado di maggiore acribia
possibile la presenza, in quanto esser dato, del fenomeno – si tenga però comunque
a mente che la fissazione del fenomenico non implica in alcun modo un abbandono
del metodo che collega e risale dal fenomeno ai «fondamenti ideali» che regolano il
phainesthai: Happ (1971), pp. 78-81. Mi sembra che questo aspetto sia colto bene da
Nussbaum (1982), pp. 267-294; e che sia in realtà per lo stesso motivo che posizioni
come quella di Hussey debbano essere valutate con maggiore circospezione: «Per
Aristotele, la matematica era uno studio di certe particolari proprietà fondamentali
dei corpi fisici. Nella matematica pura queste venivano studiate in astrazione dalle
altre; nell’applicata, venivano reinserite nel mondo fisico dal quale erano astratte.
Che il mondo fisico dovrebbe possedere una tale esatta e bella struttura matematica
non veniva certamente spiegato del tutto. […] Aristotele aveva formulato consa-
pevolmente “leggi” matematiche della fisica le quali erano basate rigorosamente
su fatti osservati. La fisica matematica di Aristotele non è un fallimento; essa è
un trionfo della teorizzazione creativa unita ad un’indagine fisica e al rispetto dei
fatti osservati», Hussey (1991), pp. 241-242. Il corsivo dell’ultima citazione, che è
stato adottato dal sottoscritto, è volto in effetti ad indicare proprio perché, a fronte
di un trattamento quantitativo del moto e della potenza, non sia possibile fare della
fisica di Aristotele una vera e propria fisica matematica: essa reclamerebbe in modo
troppo vincolante l’egida del fatto e dell’ente, con l’ulteriore gravosa condizione
di intendere il matematico come un semplice astratto dalla realtà fisica. Il gioco
234 Salvare i fenomeni
dell’autentica fisica matematica è invece diverso, e verte per contro nella giustifica-
zione dell’osservazione tramite la ricomposizione del movimento reale secondo una
struttura inizialmente geometrica, che però è in sé indipendente: «Soggiungo poi,
che se l’esperienza mostrasse, che tali accidenti se trovassero verificarsi nel moto
dei gravi naturalmente discendenti, potremmo senza errore affermare questo esser
il moto medesimo, che da me fu definito e supposto: quando che no, le mie dimo-
strazioni, fabbricate sopra la mia supposizione, niente perderanno della sua forza e
concludenza; siccome niente pregiudica alle conclusioni dimostrate da Archimede
circa la spirale, il non ritrovarsi in natura mobile che in quella maniera spiralmente
si muova», Galileo a P. de Carcavy, 5 giugno 1637, in Galileo (2005), I, p. 944. Un
atteggiamento di cui abbiamo trovato tracce sia nell’atomismo antico sia in Platone,
ma non, appunto, in Aristotele.
132 Cfr. Tannery (1887b), p. 33.
133 Cfr. Lloyd (1991), pp. 270 e sgg.
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 235
mai che il valore mentale dell’ipotesi equivalga a fittizio. Può sembrare ba-
nale, ma è necessario ammettere che il fatto che si indaghino le apparenze
dei movimenti dei corpi celesti attraverso costrutti geometrici non vuol dire
per ciò stesso che tali ipotesi non abbiano alcuna verità: semplicemente,
esse non dicono il corpo, e pertanto non hanno valore fisico. Ovviamente,
se la realtà della kinēsis è scritta non solo nella phora, ma anche in tutte le
altre determinazioni del movimento, la verità cui attinge l’astronomo sarà
limitata: per questo deve rivolgersi al fisico per completare il suo discorso,
aggiungendo alla parte matematica il lotto meccanico. Come si vede, così
siamo sia dentro sia fuori dal punto di vista espresso da Proclo, il cui plato-
nismo è stato ora corredato di questa esigenza aristotelica.
Ad ogni modo, va ancora detto che il compromesso di Gemino, se an-
cora pensa una connessione fra astronomia e fisica, ne diagnostica altresì
definitivamente una divaricazione gerarchica che rimarrà vincolante fino
alla prima modernità. Molteplici sono gli eventi che consolideranno que-
sta diairesi – tanto per dirne uno: l’affermazione del cristianesimo –, così
come plurali gli elementi che concorreranno all’affermazione di un nuovo
ideale della conoscenza. Non posso dilungarmi in una disquisizione esau-
stiva sull’argomento, a questo punto, poiché dovremmo prendere in con-
siderazione periodi storici e autori dei quali non possiamo trattare, visti i
limiti che ci siamo imposti. Tuttavia, una cosa in generale la si può dire:
la sanzione che infine subordina l’astronomia, e cioè la fisica matematica,
alla fisica, ovvero alla filosofia, può essere rovesciata soltanto rompendo
gli argini delle due grandi forme dell’epistēmē dell’antichità, cioè quella
platonica e quella aristotelica. La scienza moderna che riafferma l’ideale
di matematizzazione della natura non è una semplice riproposizione dello
spirito platonico134, di cui pure certo si nutre – e abbiamo in effetti visto che
una scienza matematica della natura è perfettamente nelle corde della teo-
ria delle idee –; a ben vedere, si tratta invece di un movimento più comples-
so, che concerne per un verso la revisione del concetto di verità che fa capo
ad un assottigliamento e ad una trasvalutazione della divisione fra nous e
dianoia135, per esprimerci nel linguaggio della Repubblica, e per l’altro la
134 Sul tema, un vero e proprio topos dell’epistemologia classica, si vedano: Husserl
(1961), pp. 297-309; CGW, Bd. 24, pp. 335-354; CGW, Bd. 22, pp. 51-72; CGW,
Bd. 24, pp. 53-65; Koyré (1973), pp. 166-195.
135 Si tenga però presente che già Platone, in modo molto generale, dice per esempio, in
un passo successivo a quello che abbiamo analizzato, nella Repubblica, che noēsis
è non solo l’ambito dialettico, ma quello che comprende insieme la dialettica, intesa
stavolta come l’unica e vera epistēmē, e poi la dianoia: «È dunque accettabile, dissi,
come fatto prima, chiamare la prima parte epistēmē, la seconda dianoia, la terza
pistis e la quarta eikasia, e inoltre queste ultime due insieme doxa, quelle due in-
236 Salvare i fenomeni
reinterpretazione del significato stesso dell’ente. Questo vuol dire che, per
l’attuazione di questa rivoluzione nei fondamenti della conoscenza, da un
lato, il sapere più autentico dovrà dimostrarsi essere la matematica, la pura
dianoia, e non la dialettica o l’etica – anche se, non poco significativa-
mente, laddove viene compiuta la rivoluzione gnoseologica in nome della
pura scienza fisico-matematica si afferma ancora il primato della morale e
dell’etica (Kant) –, e dall’altro che bisognerà intraprendere una revisione
si comportano gli enti matematici, siccome sembra che vengano resi visibili nelle
idee [… hōsper en tais ideais eoike phantazesthai], e hanno appoggio sopra quelle.
Infatti, non bisogna ritenere che gli enti matematici siano escogitati col pensiero per
astrazione dai sensibili [… kata aphairesin epinoeisthai auta], ma posti a partire
dalle idee da quelle stanno nel senso di una raffigurazione, nell’esservi congiunta
la grandezza e nel rendersi visibili nell’estensione [… all’hypobanta apo tōn ideōn
to eidōlikon echein ap’ekeinōn, tō proseilēphenai kai megethos kai en diastasei
phantazesthai]. Ciò che è infatti nei simulacri dei sensibili privo di consistenza e
non fondato su sé stesso, negli enti noetici è ciò che ha massa corporea ed è esteso
[… to enonkon kai diastaton]», Giamblico (1891), pp. 32-34. Questo passo, benché
in apparenza si collochi su di una riproposizione abbastanza serrata della classica
diairesi della linea, che distingue recisamente nous e dianoia – anche se Giamblico
non cita mai Platone, ma Brotino e Archita, a cui attribuisce l’immagine, fatto che,
per inciso, può invero farci ragionare a proposito dell’originaria ipoteca pitagorica
che l’immagine stessa potrebbe aver avuto in Platone –, d’altra parte fornisce inte-
ressanti spunti a favore della congettura opposta. Innanzitutto rispetto all’analogia
che si gioca intorno ai termini che rimandano alla dimensione iconica, viene preci-
sato che, pur essendo immagini, gli enti matematici svolgono una funzione del tutto
positiva che le icone non hanno: forniscono un appiglio concreto (enonkon è infatti
vocabolo che sta proprio per «massa corporea») a ciò che altrimenti finirebbe per
sussistere soltanto presso la pianura della verità, mentre le icone sono meramente
le ombre delle cose. Si tratterebbe ora di capire che tipo di entità spetterebbe in
concreto a questi enti: in che senso, infatti, si supporrebbe che del materiale diano-
etico si dovrebbe ora osservare una corporeità? Va ribadito che il lemma adoperato
da Giamblico non lascia spazio a fraintendimenti: il matematico è un’incarnazione
fisica dell’ideale. Inoltre, a fronte anche qui del tener per salda la divisione fra nous
e dianoia, come peraltro argomentato nel prosieguo del passo citato, bisogna avere
bene in mente che la differenza la faccia l’asserzione del carattere produttivo del-
la creazione matematica: l’ente matematico viene prodotto a partire dalla dynamis
ideale, e non viene astratto dai sensibili; cioè più decisamente si sgombera il campo
dal dubbio che il matematico possa avere una derivazione sensibile, fatto che, di per
sé, avvicina quest’ultimo al rango dell’ideale. Certo l’ultimo scarto non è compiuto,
quello dell’uniformazione, ma è quantomeno preparato. Che nel passo poi si alluda
chiaramente alla dottrina aristotelica della creazione del matematico per astrazione
dal sensibile, mi sembra evidente in virtù del fatto che Giamblico usa proprio il ter-
mine con cui Aristotele designava questa operazione: aphairesis. Sui diversi punti
toccati, si veda comunque: Maggi (2010), in part. pp. 178 e sgg. e p. 219, per la di-
scussione del punto di vista di Giamblico; sulla teoria dell’aphairesis in Aristotele,
si consulti: ivi, pp. 58-72.
238 Salvare i fenomeni
del tessuto ontico, una nuova determinazione dell’ente che non legga più
lo stesso come to hyparchon, bensì definitivamente quale phainomenon.
Non è infatti difficile comprendere che se il fenomeno diviene l’ente nella
sua espressione più genuina, allora non potrà che essere la matematica il
sapere della nuova epistēmē, giacché è la matematica che innanzitutto sal-
va i fenomeni.
Vorrei infine fare il passo indietro conclusivo, o quasi, verso l’inizio di
questa storia. Simplicio ci aveva detto che il compito di salvataggio dei
fenomeni fu posto agli astronomi da Platone in persona. Fino ad ora non
abbiamo preso troppo sul serio questa indicazione, e vale dunque la pena
chiedersi: cosa poteva veramente intendere Platone con quell’espressione,
se mai l’abbia davvero pronunciata?
Riprendiamo il lungo passo dalla Repubblica (528e4-530c4):
presente: questi movimenti sono appresi nel logos e nella dianoia, non nella
vista. O tu supponi diversamente?».
«Assolutamente no», disse.
«Sicché», dissi, «ci si deve servire di questi ornamenti del cielo come
modelli per l’apprendimento in relazione a quelli [cioè alle cose più vere, ai
movimenti reali, di cui poco sopra], proprio come se qualcuno si imbattesse
in disegni distintamente tracciati e figure diligentemente dipinte da Dedalo o
da qualche altro artista o pittore. In effetti, esaminandoli, qualcuno che fosse
perito in geometria osserverebbe opere aventi una esecuzione bellissima, ma
sarebbe ridicolo studiarle con serietà come se nelle stesse fosse colta la verità
degli uguali, o dei doppi, o di qualsiasi altro rapporto».
«E come potrebbe non essere ridicolo?», disse.
«Mentre, in chi è veramente astronomo», dissi io, «non li ritieni essersi
convinti di guardare lo stesso nei movimenti degli astri? E pensare come ad
esempio le siffatte opere più belle siano state messe insieme, allo stesso modo
sono poste insieme nel demiurgo del cielo e delle cose che si trovano in esso;
mentre il rapporto in cui la notte sta al giorno, e di questi con i mesi e il mese
con l’anno, e gli altri astri con questi e reciprocamente, non supponi che riterrà
assurdo che si generino queste cose considerate sempre allo stesso modo e in
alcun modo variare, stando questi come corpi e come visibili, e cercando in
ogni modo di cogliere la verità degli stessi?».
«In ogni caso è quello che mi sembra», disse, «ora che ti ascolto».
«Introduciamo allora l’astronomia», dissi io, «servendoci di problemi così
come accade in geometria, e tralasciamo le cose nel cielo, se abbiamo inten-
zione di rendere agibile, da inagibile che era, ciò che per natura nell’anima è
dotato di intendimento, partecipando della vera astronomia».
«Senza dubbio», disse, «moltiplichi a dismisura la fatica, rispetto a come
ora viene ordinato nel lavoro degli astronomi».
136 Per una revisione dei differenti moduli interpretativi, si vedano: Vlastos (1995b),
p. 223, e Mourelatos (1980), pp. 34-36.
240 Salvare i fenomeni
137 «Se Eudosso […] avesse condiviso questa tendenza, avrebbe potuto appena fare
quel lavoro di osservazione dedicata ed assidua registrato in quei libri i cui titoli,
Phaenomena ed Enoptron, proclamano l’intento osservativo dei loro contenuti,
opera su cui costruì il primo grande risultato dell’astronomia teorica, la sua teoria
delle sfere omocentriche. […] Se la divisione del lavoro implicata nella teoria
di Platone avesse avuto effetto sulla pratica dell’astronomia greca, essa avrebbe
disastrosamente ridotto le possibilità che il suo lato osservativo si sarebbe potuto
sviluppare fino ad un livello immaginativo e pieno di risorse tale da incontrare i
bisogni dei grandi teorici: Eudosso, Ipparco, Apollonio ecc.», Vlastos (1995b),
pp. 242-243.
138 Sulle defezioni dell’astronomia greca, fino al tempo di Platone, si veda: Neuge-
bauer (1945), in part. pp. 16-17. Rimarchevole, a suffragio della mia tesi, quan-
to segue: «Gli scritti astronomici di Autolico ed Euclide lottano in modo molto
cruento contro i problemi del sorgere e del posizionamento delle stelle, operando
semplificazioni molto nette causate dalla mancanza di metodi adeguati nella geo-
metria sferica. L’obiettivo finale è ancora quello di stabilire relazioni fra fenomeni
celesti e stagioni degli anni; il problema è pertanto di interesse essenzialmente
relativo al calendario» (la cit. è a p. 16). Si veda inoltre: Martin (1841), pp. 66 e
sgg., che si sofferma sul problema di stimare le retrocessioni di Mercurio e Vene-
re, e in generale il loro moto irregolare rispetto al Sole – un problema che a prima
vista sembrerebbe inspiegabile per chi si fosse disinteressato del tutto dell’osser-
vazione. Questo, senza cedere a dettagli di cui qui non si ha bisogno di discutere
(e tenendo conto che in un primo modo il problema si sarebbe risolto solo con
l’introduzione dell’ipotesi degli eccentrici e degli epicicli), sia detto per far capire
che, a dispetto del progresso quasi contemporaneo di Eudosso, che stava appunto
creando un modello particolarmente efficace e potente geometricamente, l’astro-
nomia ellenica si trovava ancora, al tempo di Platone, lungo i binari di interessi
prevalentemente computazionali. Per tale motivo, Platone stesso dovette adope-
rarsi per cercare di far compiere a tale scienza un salto: si potrebbe dire che, per
quanto criticabile nel contenuto, tale invito dovette profilarsi, allo spirito greco,
come quello che provenì dai Pitagorici rispetto a quella matematica dei mercanti
che contraddistingueva gli Elleni. Si può leggere, in proposito, un’altra annota-
zione di Cornford: «I sette anelli planetari descritti come “diseguali”, vale a dire,
di differente diametro, cosicché possano incastrarsi l’uno nell’altro attorno ad un
centro comune. Le distanze fra loro corrispondono in una qualche non specificata
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 241
è come guardare in basso. L’astronomo osserverebbe con gli occhi e non con
il pensiero, ed è quest’ultima cosa che Socrate confessa ovviamente di avere
più a cuore – delle cose sensibili, soggiunge qui, non vi è, in effetti, epistēmē.
Ne consegue una domanda, a Socrate, posta sull’aggiramento necessa-
rio cui deve ora essere sottoposta l’astronomia per servire la causa della
dialettica. Il primo passo di Socrate è questo: certamente, nell’ambito della
genesis, cioè in realtà, testualmente, nell’ambito dell’horaton, le stelle e
tutto ciò che si trova nel cielo sono quanto di più bello ed esatto; emerge
dunque qui quel senso precipuo affidato al cielo come imitazione sensibile
più perfetta del movimento ideale. Il punto è che però pur sempre di imita-
zione si tratta, ovverosia di qualcosa che rimane difettivo rispetto all’essen-
za dell’ideale. Infatti ci troviamo nel regime dell’endein, della mancanza
rispetto a ciò che vi è di più vero. Quale luce batte sull’altra faccia, cioè
sull’eccedenza di verità?
Socrate parla di phora che si muovono «nel vero numero e in tutte le
altre vere figure», ma relativamente a to on tachos e a hē ousa bradytēs,
espressioni che farebbero pensare al movimento delle idee in sé, delle
forme della velocità e della lentezza, piuttosto che al calcolo effettivo da
misurare su di un fenomeno. Peraltro, Socrate specifica subito che tali ac-
quisizioni vanno fatte non nella vista, bensì nel logos e nella dianoia. Ma
c’è un fatto singolare: viene attribuita motilità anche a ta enonta, ovverosia
alle cose che sono presenti nelle phora descritte da to on tachos e hē ousa
bradytēs. Ritengo che sia probabilmente da questo punto che possa essersi
originata l’idea delle sfere che trasportano il corpo, una conclusione che in
Eudosso e Callippo rimaneva puramente geometrica141, ma che in Aristote-
le abbiamo visto diventare letterale: le sfere trasportano realmente i corpi
celesti per lo Stagirita, e sono dunque anch’essi corpi142.
141 Si veda ancora Schiaparelli (1875), pp. 9-10, pp. 31 e sgg., p. 48, e si consulti
anche: Ross (1971), pp. 97-98. D’altra parte Kuhn lo diceva già dell’universo a
due sfere: «Contrariamente alle osservazioni descritte nelle prime parti di questo
capitolo, l’universo a due sfere è un prodotto dell’immaginazione dell’uomo. È
uno schema concettuale, una teoria che deriva da osservazioni, ma nello stesso
tempo va al di là di esse», Kuhn (2000), p. 47.
142 Su Eudosso, Heath dice: «Sembrerebbe che egli non abbia dato alle sue sfere
alcuna sostanza o connessione meccanica; l’intero sistema era una pura ipotesi
geometrica, o un insieme di costruzioni teoriche calcolate per rappresentare le
traiettorie apparenti dei pianeti e permettere il loro calcolo», Heath (1913), p.
196; su Aristotele, viene invece espresso quanto segue: «Veniamo ora ai cambia-
menti che Aristotele pensò essere necessari per il sistema di Eudosso e Callippo.
Abbiamo visto che quel sistema era puramente geometrico e teorico; non vi era
nulla di meccanico in esso. Aristotele, come vedremo, trasformò il sistema pu-
244 Salvare i fenomeni
Per questo Platone deve essere considerato come il vero iniziatore della
tradizione geometrica dell’astronomia, il cui motto resta «salvare i feno-
meni».
Naturalmente la difficoltà145 è che questo tentativo non può essere scis-
so dalla movenza generale della teoria delle idee: l’individuazione della
razionalità pura nell’assolutamente non-empirico finisce per rendere pro-
blematico lo sviluppo armonico fra elementi razionali ed elementi giustap-
punto empirici. Vorrei però tentare di dimostrare, ancora, quanto, al di là di
questa evidenza e connaturata deriva problematica della teoria delle idee,
l’approccio platonico finisca per proporre un’astronomia ontōs che quan-
tomeno possa restare astronomia, e non semplicemente un modello un po’
meno vero della teoria delle idee. Torniamo ancora una volta al passo della
Repubblica incriminato.
Platone esce allo scoperto per bocca di Socrate, e ripropone, applican-
dolo all’astronomia, un canovaccio classico della sua epistemologia, il
modello paradigmatico. Stante quanto detto in precedenza, apparirà in-
fatti ora lampante come proprio l’astronomia possa offrire uno sfondo di
prim’ordine per tale concezione, giacché l’idea che le cose siano copie
delle forme risulta di particolare efficacia se le cose considerate si avvici-
nano quanto più possibile, nel loro esser copie, alle sembianze originarie
delle idee più autentiche. Sappiamo infatti che il cielo è quanto di generato
vi sia che risulti più prossimo all’idea, ovverosia un complesso sensibile
che manifesta tuttavia caratteristiche prossime alle idee. Per tale motivo, lo
studio dei fenomeni celesti fornisce l’occasione più propizia di avvicinarsi
alle dinamiche delle idee, ma con l’avvertenza che, a fronte di tutto que-
sto, la perfezione della figura sensibile è soltanto relativa, e invero anche
nei moti celesti, qualcuno che fosse esperto di geometria, non potrebbe
mai cogliere la verità degli uguali, dei doppi, e insomma di qualsiasi altro
concetto matematico veramente astratto. Sorge a questo punto il problema
kath’exochēn nell’analisi della dottrina platonica: qual è il rapporto fra il
geometra e l’astronomo?
Mi sembra, al riguardo, che le soluzioni proposte siano insufficiente-
mente dettagliate dal punto di vista speculativo, dal momento che anche
quella di Vlastos manca di sottolineare un punto che ho cercato di eviden-
ziare in precedenza. Vlastos ritiene che pur non denegando completamente
un ruolo all’osservazione empirica, l’astronomia propugnata da Platone,
quella ontōs, per intenderci, sia da ritenersi come effettivamente differente
dal paradigma che si sarebbe continuato ad affermare, con essa, e che sa-
rebbe poi giunto quasi intatto alla scienza moderna; in particolare, con il
suo invito a mettere da parte, tralasciare le cose nel cielo, essa si affermava
come una scienza che faceva violenza al paziente lavoro di osservazione
e raccolta dei dati empirici che pure è caratterizzante del più autentico at-
teggiamento scientifico. Il che può anche essere concesso, facendo cadere
ogni sottigliezza nell’esegesi, ma sapere che Platone non sarebbe stato uno
scienziato empirico provetto, e che se si fosse affermato questo paradigma
per la vera ricerca astronomica non avremmo avuto progresso tecnologico
e infine la rivoluzione scientifica vera e propria, non ci dice ancora l’es-
senziale, e d’altra parte rischia di farci dimenticare una circostanza forse
doppiamente importante146.
149 Proprio per questo anche l’astronomia matematica platonica sembrerebbe rivelare
quel carattere puramente cinematico e geometrico, cioè speculativo, che avrebbe
poi assunto la fisica matematica: «Da un lato, vi sono i corpi che si muovono
disordinatamente e luminosi nel cielo visibile, i loro movimenti e le loro velocità
visibili, le orbite che sono visti descrivere, e il numero di ore, giorni, o mesi che
essi impiegano per descriverli. Ma questi sono solo illustrazioni dei cieli reali,
dei veri corpi luminosi, delle reali o essenziali velocità e lentezza, delle reali o
vere orbite, e delle rivoluzioni che non sono giorni, mesi o anni, ma numeri as-
soluti. I corpi che si muovono disordinatamente o che luccicano, in entrambe
le astronomie [quella pratica e quella ontos] sono stelle, ma stelle viste come
corpi che si muovono. La velocità e la lentezza essenziali sembrano essere […]
semplicemente delle controparti di stelle visibili, perché queste ultime sono dette
essere trasportate nei veri movimenti dell’astronomia reale, e perciò non possono
essere la velocità e la lentezza dei corpi matematici di cui le stelle visibili sono
illustrazioni, ma devono essere quei corpi matematici stessi. Le vere figure in
cui si muovono sono le loro orbite matematiche, che ora possiamo dire essere
le ellissi di cui le orbite dei pianeti materiali visibili sono copie imperfette. E,
in ultimo, siccome un pianeta visibile porta con sé tutte le proprietà sensibili e i
fenomeni che esibisce, allo stesso modo la sua controparte matematica reca con
sé le realtà matematiche che sono in esso. In breve, Platone concepisce il soggetto
dell’astronomia essere un cielo matematico di cui il cielo visibile è un’espressione
confusa e imperfetta nel tempo e nello spazio; e la scienza è un tipo di cinematica
ideale, uno studio in cui i movimenti visibili dei corpi celesti sono solamente utili
come illustrazioni», Heath (1913), p. 138. Si veda anche cosa dice Schiaparelli
commentando il seguito e l’effetto dell’insegnamento del metodo platonico in Eu-
dosso, con l’idea cioè della necessità di superare le «anomalie apparenti» in favo-
re dell’unità di leggi universali, da potersi ottenere però anche tramite numerose
ipotesi geometriche; in questo caso, mettere da parte le cose del cielo potrebbe vo-
ler dire: tralasciare le anomalie apparenti, se la legge generale, nonostante la sua
eventuale complessità, mostra comunque e perlopiù un funzionamento adeguato:
«A render conto delle variazioni di celerità dei pianeti, del loro stare e retrogra-
dare, e del loro deviare a destra ed a sinistra nel senso della latitudine, tale ipotesi
non bastava, e convenne supporre che il pianeta fosse animato da più movimenti
analoghi a quel primo, i quali sovrapponendosi producessero quel movimento
unico, in apparenza irregolare, che è quello che si osserva», Schiaparelli (1875),
p. 9. Sicché l’apparenza non è realmente l’obbligo inaggirabile per l’intelligenza
geometrica del movimento. Un punto di vista espresso anche da von Fritz: «Non
c’è dubbio che a quel tempo venisser discusse nell’Accademia anche questioni
astronomiche, non importa se in maniera aprioristica o empirica; altrettanto certo
è che in queste discussioni rientrasse anche il problema della riduzione dei moti
celesti a moti circolari con velocità uniforme. È del tutto naturale che Eudosso ne
abbia ricevuto lo stimolo a verificare la possibilità di spiegare matematicamente
i fenomeni osservabili con l’ipotesi dei moti circolari uniformi. Oltre che verosi-
mile ciò concorderebbe con gli altri suoi tentativi di dare alle dottrine platoniche
un fondamento più scientifico […]. Qui è di nuovo Mitteltrass ad avere ragione.
250 Salvare i fenomeni
ogni riferimento alla cosalità del movimento: a Platone si può solo obiet-
tare di non aver condotto l’opera a termine, avendo considerato la natura
corporea degli astri, e avendo per essi pensato la figura circolare come la
più appropriata in base a considerazioni essenziali, metafisiche150. In linea
di principio, però, siamo abbastanza vicini al proposito di Newton di tra-
lasciare le qualità sostanziali dei corpi! Mettere da parte le cose, ovverosia
determinare il passaggio dall’ideale sostanziale a quello funzionale della
conoscenza, almeno per quanto riguarda l’apparenza del movimento, sta
a significare il massimo progresso della mentalità scientifica. Platone però
non ha mai detto che bisogna lasciar perdere del tutto le osservazioni, e
d’altra parte il suo stesso sistema astronomico ne attinge a piene mani; sta
affermando, invece, che la potenza del concettuale, e le esigenze del pen-
Ateniese: «Cari amici, noi Greci argomentiamo ora falsamente degli dèi
maggiori, del Sole e contemporaneamente della Luna, come faremmo in versi
epici».
Clinia: «Quale falsità?».
Ateniese: «Diciamo gli stessi non tracciare mai la stessa strada, ma anche
che, oltre questi, altri astri, i quali denominiamo pianeti».
Clinia: «Per Zeus, ospite, dici il vero: in effetti, nella mia vita, più volte
ho osservato che Lucifero, Espero e altri traccianti [iontas] in nessun caso si
muovono verso la stessa traiettoria [eis ton auton dromon], ma vagano per ogni
dove, mentre il Sole e la Luna si muovono lungo una traiettoria che tutti noi
conosciamo perfettamente da sempre».
[…] Ateniese: «Ma non è facile da apprendere ciò che dico, né d’altra parte
così tanto difficile, né certamente abbisogna di tantissimo tempo. Te lo provo:
di queste cose non ascoltavo né da giovane né le ascolto da molto tempo, ma
potrei ora comunque non in molto tempo chiarirne l’attitudine […]. Proviamo-
ci. Non è infatti questa, cari amici, la nozione corretta, circa la Luna e il Sole e
gli altri astri, come quindi mai si muovano errando [hōs ara planatai pote], ma
come stia tale verità all’opposto – ciascuno di essi segue infatti la stessa strada
e non percorrono molti ma un solo movimento circolare, anche se appaiono
muoversi lungo molte. Mentre quello che di essi è più veloce lo si ritiene non
correttamente più lento, e viceversa».
151 «Queste osservazioni suggeriscono l’idea che tanto il moto giornaliero del Sole
quanto la sua più lenta oscillazione fra nord e sud lungo l’arco dell’orizzonte
possano essere opportunamente studiati considerando il Sole come un corpo che,
giorno per giorno, si sposti lentamente fra le stelle. Se, in qualche giorno parti-
colare, la posizione del Sole fra le stelle è determinata, allora il moto del Sole in
quel giorno sarà quasi esattamente il moto giornaliero di una stella che stia sulla
mappa nella posizione corrispondente. Si sposteranno entrambi come punti della
mappa ruotante che sorgono all’est e che più tardi tramontano ad ovest. […] Se la
posizione del Sole viene, giorno per giorno, determinata su di una mappa stellare
e i punti che contrassegnano le posizioni successive di sera vengono collegati
fra loro, si ottiene una curva regolare che si chiude su se stessa al termine di
un anno. Questa curva, denominata eclittica […]. Poiché l’eclittica vien portata
velocemente attraverso i cieli dal normale moto quotidiano delle stelle, il Sole
è trascinato assieme ad essa e sorge e tramonta come una stella che si trovi in
qualche punto della linea. Ma, nel medesimo tempo, il Sole si sposta lentamente
tutto lungo l’eclittica e viene ad occupare, ogni giorno, ora o minuto, una posi-
zione leggermente diversa. Così il complesso moto elicoidale del Sole può essere
analizzato come risultante di due moti molto più semplici. Il moto generale ap-
parente del Sole è composto dal suo moto giornaliero (il circolo percorso da est a
ovest, dovuto alla rotazione antioraria dell’intera mappa) e da un contemporaneo
lento spostamento in direzione est lungo l’eclittica (in senso orario attorno al polo
sulla mappa). […] Ogni giorno il Sole si muove velocemente in direzione ovest
assieme alle stelle (il cosiddetto moto giornaliero); nello stesso tempo si sposta
lentamente in direzione est lungo l’eclittica attraverso le stelle o relativamente
alle stelle (il suo moto annuale). Con la scomposizione del moto generale del Sole
in due componenti, il suo comportamento può essere illustrato con precisione e
chiarezza, contrassegnando semplicemente i punti successivi dell’eclittica con il
giorno e l’ora in cui il Sole li tocca. La serie dei punti contrassegnati determina
il moto annuale componente del moto generale del Sole; l’altro moto quotidiano
componente è determinato dalla rotazione giornaliera della mappa come un tutto
unico», Kuhn (2000), pp. 30-33. Non credo quindi, inoltre, con Heath, che sia
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 253
153 Mi sembra pertanto eccessivo leggere questa possibilità di aggiustare il dato come
una totale necessità, inquadrando tale tentativo in una esegesi generale rivolta
alla presentazione di un Platone «geometra a priori» in astronomia, come fa ad
esempio Mourelatos (1980), pp. 56-58.
154 Si veda per esempio il modo del tutto aprioristico di calcolare la distanza dei vari
pianeti rispetto alla Terra nel Timeo: cfr. Tim. 38b6-39e2 e Heath (1913), che a ri-
guardo dice: «Ma, qualunque sia il significato esatto, è ovvio che non abbiamo qui
alcuna seria stima delle distanze relative del Sole, della Luna e dei pianeti, basata
cioè su dati empirici o sulle osservazioni; l’asserzione è una parte dell’astronomia
ideale a priori, in accordo con l’asserzione della Repubblica, libro VII, ossia che
il vero astronomo dovrebbe “prescindere dai cieli stellati”», p. 164.
La possibilità di una fisica matematica tra Platone e Aristotele 255
155 Si tenga presente che la percezione di un’astrazione e di uno scarto fra struttura
razionale ed esperienza fenomenica immediata doveva essere evidente e per certi
versi anche lancinante già nell’astronomia antica, appunto, la quale adoperava
descrizioni geometriche, soprattutto nelle sue elaborazioni più raffinate, tutt’altro
che intuitive, per salvare i fenomeni. Basti riguardare al modo in cui si risolse in
maniera soddisfacente il già citato problema del moto irregolare di Mercurio e
Venere; cito un lungo e illustrativo passo in cui Martin collega la risoluzione finale
platonica con gli espedienti tolemaici: «Ciascuno di questi due pianeti, a partire
dalla sua congiunzione al perigeo, acquisisce un avanzamento durante un qualche
tempo; poi parecchi giorni passano senza che la distanza longitudinale fra di essi
cambi in modo sensibile. In seguito si dà un ritardo, si ritrova in congiunzione
all’apogeo, e infine resta indietro sempre più, fino al momento in cui il pianeta
diventa sensibilmente stazionario in rapporto al Sole, per ricominciare a seguirlo,
ritornare in congiunzione con esso al perigeo, e infine per superarlo di nuovo. Così
noi vediamo questi due pianeti talvolta precedere il Sole e talvolta restargli dietro,
senza mai che se ne discostino. La vera ragione di questi fenomeni è che, come si
sa, nel sistema attualmente adottato, Venere e Mercurio sono due pianeti inferiori,
vale a dire la cui orbita è contenuta in quella che la Terra descrive annualmen-
te attorno al Sole. […] L’ipotesi adottata da Tolomeo è affatto differente. Molto
tempo prima di lui […] per spiegare la variazione delle distanze dei pianeti dalla
Terra si faceva descrivere loro dei cerchi il cui centro era occupato dalla Terra, e
che si chiamavano eccentrici; e avvertendo l’insufficienza di questa spiegazione
per rendere conto delle stazioni e dei moti retrogradi dei pianeti, soprattutto di
Mercurio e Venere, si supponeva che la circonferenza di ciascun eccentrico fos-
se percorsa non dal pianeta stesso, ma dal centro di un altro cerchio, chiamato
epiciclo, sul quale ruotava il pianeta. […] Inoltre, per rendere conto di una ridda
di inesattezze, si è stati obbligati ad aggiungere, per ciascun pianeta, un numero
più o meno grande di epicicli. Dopo questa teoria, già abbozzata da Apollonio
di Perga, perfezionata da Ipparco di Nicea, precisata e sviluppata da Tolomeo, si
riuscì a determinare piuttosto esattamente il cammino apparente di questi pianeti.
[…] In effetti, sopra, dopo aver detto che il cerchio della natura del diverso e
quello della natura dell’identico vanno in due sensi contrari, Platone ha aggiunto
che i sette cerchi di cui si compone il cerchio della natura del diverso, cioè i sette
cerchi dei pianeti, vanno in senso contrario gli uni rispetto agli altri. Quali sono
dunque quelli che non vanno nello stesso senso della maggioranza? […] Sono
quelli di Mercurio e Venere. In quello stesso passaggio, Platone ci aveva detto
che quattro di quei cerchi compiono le loro rivoluzioni con velocità diverse, tre
uguali. Noi vediamo ora che questi ultimi tre sono quelli del Sole, di Mercurio e
di Venere. […] Platone ha voluto affatto dire che quei due pianeti seguono una
direzione opposta a quella del Sole […]. In effetti, quando due corpi viaggiano
l’uno incontro all’altro, si raggiungono; o […] questo è ciò che ha luogo per il
Sole da una parte e Mercurio e Venere dall’altra. Quanto a quei pianeti che vanno
nello stesso senso, il più rapido raggiunge gli altri, ma non è mai raggiunto da
essi. Non vi è dunque fra essi affatto, sotto questo aspetto, lo stesso rapporto che
sussiste fra Mercurio e Venere da una parte, e dall’altra il Sole. Platone, sull’argo-
256 Salvare i fenomeni