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TRAGEDIA. - Origine. - È una delle questioni più oscure e più dibattute negli ultimi
tempi. La parola τραγῳδία ("tragedia") è attica, mentre δρᾶμα ("dramma") è parola
peloponnesiaca; l'etimologia è incerta, benché siano evidenti le parole da cui deriva
(τράγος "capro", ᾠδή "canto"). Secondo un'interpretazione che risale agli
Alessandrini del sec. III a. C. e che dominò incontrastata fino a qualche tempo fa,
tragedia significherebbe "canto per il capro": sia che s'intendesse, poi, il capro come
premio della gara di canto (Orazio, Arte poetica: carmine qui tragico vilem certavit
ob hircum), sia che s'intendesse "canto per il sacrificio d'un capro". Secondo, invece,
un'altra etimologia, certo più antica della precedente, che tra i moderni fu risuscitata
la prima volta dal Bentley, tragedia significherebbe "canto dei capri", cioè di attori
mascherati da capri (τράγοι): tale etimologia è attestata nell'Etymologicum
Magnum (764, 6): "per lo più i cori erano composti di satiri, che chiamavano capri".
Le due etimologie rivelano due concezioni diverse dell'origine della tragedia: la
seconda, aristotelica, riconnette l'origine della tragedia con i satiri del dramma
satiresco; la prima, più tarda, separa nettamente il dramma satiresco dalla tragedia.
Aristotele, nella Poetica, dà sull'origine della tragedia quasi le sole notizie antiche
che si posseggano. Ma esse sono molto sobrie e molto scarse, poiché Aristotele
parlava a chi era in grado di comprendere i suoi rapidi accenni meglio che non riesca
a noi. Egli ci informa che la tragedia, come la commedia, da principio era
improvvisata, e che ebbe origine da "quelli che intonavano il ditirambo", come la
commedia "da quelli che intonavano i canti fallici". Questo è, per noi moderni, se non
per gli antichi, spiegare obscurum per obscurius, poiché del ditirambo sappiamo assai
poco. Aristotele accenna, poi, a "molti mutamenti" che la tragedia ebbe "finché non
raggiunse la sua forma naturale" per il numero degli attori, per l'estensione, per lo
stile, il metro, la disposizione degli episodî. Incidentalmente afferma che, in origine,
la tragedia era tutt'una cosa col dramma satiresco: a proposito dello stile tragico, che
"per lo svilupparsi della tragedia dal dramma satiresco tardi divenne severo". E così
pure il metro originario non era il trimetro giambico, era il tetrametro trocaico "per
essere la poesia satiresca e maggiormente orchestica". Di aver dato origine alla
tragedia, come alla commedia, si vantarono i Dori: Aristotele non si pronunzia
esplicitamente, ma sembra non aver nulla da obiettare contro la legittimità del vanto.
In questi ultimi anni si è venuta determinando una vivace reazione contro le opinioni
tradizionali. Il primo a sostenere una nuova teoria (precorso, in parte, dal Rohde e dal
Dieterich, che volevano connettere l'origine della tragedia con i misteri) fu Guglielmo
Ridgeway, che nel suo libro The origin of tragedy with special reference to the Greek
tragedianssi staccò nettamente da Aristotele, facendo risalire l'origine della tragedia
alle danze mimiche in onore degli eroi (morti illustri, divinizzati). Tracce di queste
danze mimiche in cui gli attori sembrano portare maschere di pelli di animali, furono
trovate nei monumenti micenei. D'altra parte, il Ridgeway, dallo studio del carnevale
moderno in Tracia e in Tessaglia, dove credé trovare sopravvivenze di tali danze, e da
una vastissima comparazione con popoli primitivi d'ogni regione (dell'India, del
Tibet, della Mongolia, perfino della Polinesia), dedusse che in origine la tragedia fu
essenzialmente la celebrazione d'un morto attorno ad una tomba. Una riprova della
teoria dovrebbe esser data dallo studio della sopravvivenza del tipo primitivo nelle
tragedie greche rimasteci (riti funebri, libazioni, preghiere intorno a una tomba, ecc.).
Soltanto più tardi, diffusosi il culto di Dioniso nella Grecia, sarebbe avvenuta la
sovrapposizione del dio agli antichi eroi: un esempio lo troveremmo proprio nella
testimonianza erodotea della sostituzione di "cori tragici" in onore di Dioniso a quelli
in onore di Adrasto. I villaggi dell'Attica avevano ciascuno il suo eroe locale: il culto
di Dioniso sarebbe così rimasto legato a queste feste locali, come a Sicione. Diverso
dalla tragedia sarebbe il dramma satiresco, di un'origine del tutto differente, che
rappresenterebbe davvero l'unico vero elemento dionisiaco delle rappresentazioni
teatrali ateniesi. Il dramma satiresco sarebbe stata la celebrazione del nuovo dio, che
adempiva, per la vegetazione, alla stessa funzione degli antichi eroi.
Inoltre, la nuova teoria non spiega perché e come il culto di Dioniso si sarebbe
sovrapposto a quello degli eroi, perché Clistene abbia sostituito al culto di Adrasto
proprio il culto di Dioniso, e non quello di un altro eroe come Adrasto. Il problema
delle origini della tragedia non sarebbe, dunque, risolto, ma soltanto spostato,
ammettendo che la teoria sia giusta, e la nuova teoria si troverebbe in un imbarazzo
almeno uguale a quello della teoria dionisiaca.
Infine, uno dei punti più deboli della nuova ipotesi è la netta separazione fra tragedia
e dramma satiresco, quando tutto sembra confermare l'affinità, cioè la testimonianza
aristotelica. Una volta riconosciuta, come la nuova teoria riconosce, l'origine
dionisiaca del dramma satiresco, non si ha più il diritto di obiettare che le tragedie
conservate si riferiscono poco o nulla a Dioniso: proprio lo stesso avviene per il
dramma satiresco, come appare dai drammi satireschi e dai frammenti rimastici.
Le nuove teorie, comunque, non sono state affatto inutili: hanno servito a richiamare
l'attenzione sulla povertà della nostra tradizione, sulle difficoltà enormi, alle quali si
va incontro, ogni volta che si cerca d'integrare le irrimediabili lacune, e hanno indotto
a maggior cautela nell'interpretazione delle poche notizie tradizionali. E alcune
obiezioni minori sono giuste: che il capro non sia, in origine, strettamente connesso
con Dioniso, che il costume dei τράγοι non era in tutto uguale a quello dei satiri, ecc.
Chi voglia oggi riesaminare tutta la tradizione, senza toglierle ogni fede, deve tener
conto di queste cose. Così, nessuno, oggi, ripeterà più che le tragedie più antiche
mettevano in scena unicamente o prevalentemente fatti della "passione" di Dioniso.
Una tesi simile non è assolutamente provata, ma neppure necessaria per credere
all'origine dionisiaca, se già Bacchilide scriveva ditirambi senza Dioniso. E converrà
pure ammettere che i τράγοι di Tespi non erano in tutto e per tutto identici ai satiri di
Pratina. Al posto dei τράγοι nel dramma satiresco vero e proprio, che, possiamo dire,
cominciò con Pratina, furono sostituiti i satiri. I τράγοι sono dunque non i satiri, ma i
predecessori dei satiri: che non si debbano identificare del tutto, nonostante le
affinità, prova la stessa opposizione conservata dei nomi: τράγοι per la tragedia di
Frinico, σάτυροι per il dramma satiresco di Pratina. E tragedia è "canto dei τράγοι",
non dei satiri, perché i cori erano formati di τράγοι, soltanto nel successivo dramma
satiresco sostituiti dai satiri. Ma le affinità sono ugualmente innegabili: altrimenti,
non ci sapremmo assolutamente spiegare le identificazioni degli antichi.
Altra difficoltà innegabile è il passaggio dal duetto cantato del ditirambo bacchilideo
al dialogo recitato della tragedia. Bisogna pur riconoscere che il passaggio dai versi
lirici, accompagnati dalla musica, al tetrametro e al trimetro recitati, è ancora
inspiegato.
Si esce dalla preistoria con Frinico, "scolaro", cioè successore, di Tespi, di cui si
celebravano e ricordavano ancora i "dolci canti" al tempo di Aristofane: il
commediografo ne celebra la bellezza del corpo, il lusso nel vestire, l'arte delle
tragedie. Con Frinico, per la prima volta, la tragedia dové cominciare ad attenuare i
suoi tratti burleschi, proprio mentre Pratina sviluppava dallo stesso nucleo originario
il dramma satiresco vero e proprio, nel quale quei tratti erano accentuati. Così le due
forme di arte si svilupparono contemporaneamente ad Atene per opera di due poeti
notevolissimi. Purtroppo, di Frinico, attraverso le scarse notizie e gli scarsissimi
frammenti, possiamo intuire soltanto confusamente la grandezza. Dové essere
novatore audace: portò nella scena il primo dramma storico, La presa di Mileto,
facendo piangere gli Ateniesi col ricordo di una sventura recentissima del
patriottismo nazionale greco. Molto notevole è anche che Euripide, nella sua Alcesti,
seguì abbastanza da vicino, sia pure infondendovi uno spirito molto diverso, il
dramma omonimo di Frinico.
La storia vera e propria della tragedia comincia, per noi, con Eschilo, giustamente
riconosciuto dall'opinione generale come il più grande genio drammatico, insieme
con Shakespeare, della letteratura mondiale. "Eschilo", dice Aristotele, "diminuì la
parte del coro, e fece protagonista il dialogo". E a lui attribuisce l'aver introdotto il
secondo attore. Con questa innovazione eschilea il dialogo si rendeva definitivamente
indipendente dal coro: si aveva finalmente una vera e propria tragedia. Con due soli
attori, Eschilo scrisse capolavori, come I Persiani, i Sette contro Tebe, l'Agamennone.
Primo a introdurre il terzo attore, sempre secondo Aristotele, sarebbe stato Sofocle.
Ma un passo di Temistio, che, citando Aristotele stesso, attribuisce la novità a
Eschilo, sembra derivare dal dialogo aristotelico perduto I Poeti: Aristotele, molto
probabilmente a distanza di tempo, faceva affermazioni contraddittorie. Comunque,
almeno nel 458, già Eschilo stesso adopera il terzo attore. Così la tragedia
raggiungeva quella che, secondo Aristotele, era "la sua forma naturale". Solo
eccezionalmente si ricorse all'uso del quarto attore (nec quaria loqui persona laboret,
dirà Orazio nell'Arte poetica).
Una tragedia è, dunque, una storia di eroi: storia era per i tragici, il mito: anche per
Euripide, che, col suo stesso dubitare, criticare, deridere, mostra che del mito la sua
arte non sa fare a meno. I tragici sono i continuatori di Omero: non è senza ragione il
motto di Eschilo, giustamente o falsamente attribuitogli da Ateneo, ch'egli
raccoglieva avanzi del grande banchetto omerico; né senza ragione Platone considera,
in un certo modo, Omero l'archegeta della poesia tragica.
All'antico carattere sacro è dovuto anche lo strettissimo legame che la tragedia "nata
dallo spirito della musica", secondo l'espressione nietzschiana, conservò sempre con
la musica e con la danza. Anche quando il coro perse importanza, perché si cominciò
a sentirlo come un impedimento, non più come un elemento essenziale dell'arte,
Euripide sostituì ai cori i duetti e gli a solo degli attori, applicando alla tragedia le
innovazioni dovute alla genialità musicale di Timoteo. Musica e danza erano
elementi essenziali della tragedia, che per noi sono irreparabilmente perduti, perché
non potremo mai averne un'idea adeguata. Per esse i poeti tragici, che erano anche
musici, si staccavano nettamente da Omero: esse erano la fonte di quel "dionisiaco"
che Nietzsche opponeva giustamente all'"apollineo" dell'arte omerica.
Un'altra conseguenza del carattere religioso della tragedia greca è che il poeta tragico
vuol essere non soltanto poeta, ma maestro del suo popolo. Tale era Eschilo per
Aristofane, il quale, in un verso celebre delle Rane "per i fanciulli c'è il maestro che
insegna, per gli adulti ci sono i poeti", assegnava all'arte, e in particolare all'arte
tragica, un fine pedagogico, e ammirava i poeti perché educavano e rendevano
migliori gli uomini, e li giudicava degni di morte quando li rendevano peggiori.
Eschilo, in alcuni cori delle Supplici e dell'Agamennone, aveva cantato la sua fede
purissima nell'onnipotenza e nella giustizia di Zeus, aveva mostrata al popolo la sua
religiosità profonda, molto più alta di quella professata dagli Ateniesi, le sue tendenze
monoteistiche, il suo ardente desiderio di giustizia.
Anche Sofocle volle essere maestro del popolo ateniese, e insegnò una fede meno
serena e più rassegnata: dopo aver mostrato sulla scena esempî insigni di empietà
punita, quando s'accorse che non sempre l'infelicità umana era colpevole, che non
sempre la giustizia divina appariva manifesta negli eventi umani, non volle indagare
più oltre e proclamò virtù suprema la venerazione degli dei. E maestro degli Ateniesi
volle essere Euripide, e insegnò le verità delle quali era profondamente convinto: la
falsità dei miti, l'assurdità della religione tradizionale, la debolezza della ragione,
l'irrimediabile infelicità degli uomini. Non è meraviglia che la tragedia greca,
soprattutto sui cori, dibatta spesso i problemi più importanti che travagliavano la
coscienza dell'ateniese del sec. V, che travagliano ancora la coscienza dell'uomo
moderno: i problemi della colpevolezza e dell'innocenza, della responsabilità umana e
divina, dell'infelicità incolpevole dell'uomo e della bontà e giustizia di Dio.
La materia mitica che dava origine alla tragedia era ben conosciuta, in generale, dagli
spettatori. A questi era tolto, dunque, il volgare interesse per l'intreccio, per l'epilogo
del dramma: ognuno sapeva in anticipo come l'azione sarebbe andata a finire.
Soltanto Euripide, e solo qualche volta, alterando il mito, o inventando
completamente qualche episodio, poté destare la curiosità degli spettatori: come
avviene nell'Elena, nell'Ifigenia taurica, nell'Oreste. Ma, a non tener conto delle
poche eccezioni, la notorietà dell'intreccio non poteva non contribuire ad elevare la
poesia della tragedia: gli spettatori erano naturalmente tratti a interessarsi non ai fatti
in sé e per sé, ma al modo come i fatti si svolgevano, come commovevano la fantasia
del poeta: cioè alla poesia stessa.
Chi voglia rendersi conto del gran mutamento che modificò, in soli cinquant'anni, la
tragedia greca e il concetto stesso del tragico, basterà che confronti l'Orestea di
Eschilo con l'Oreste di Euripide. Eschilo cantava in tre tragedie la sventura di tutta
una stirpe: l'uccisione di Agamennone, la vendetta di Oreste, l'assoluzione del
matricida. Le Erinni di Eschilo, le terribili divinità che perseguitano chi s'è macchiato
del sangue materno, diventano nell'Oreste euripideo fantasie che tormentano il sonno
di un malato. E il dramma di Euripide ha scene di tragicità profonda, ma anche
lunghe discussioni sofistiche ed episodî che mirano quasi esclusivamente a
raggiungere . un grande effetto teatrale. Se pure non è assolutamente privo di unità,
come può sembrare a prima vista, è rotto da dissonanze stridenti: la tragedia,
arricchendosi di elementi romanzeschi, ha perduto la semplicità di linee e la mirabile
armonia che aveva in Eschilo.
La trilogia non era per Eschilo soltanto un vincolo; più spesso che ostacolo alla
poesia, era fonte di poesia.
Gli ampî tratti di materia mitica che il poeta prendeva a trattare, si dattavano
perfettamente all'estensione della trilogia. Dall'Agamennone alle Eumenidi c'è una
linea sola, un'azione tragica sola, che si prepara lentamente nell'attesa angosciosa
della più gran parte dell'Agamennone, scoppia, con forza irresistibile, alla fine di
questo dramma e nelle Coefore, dove trova la sua azione, poi lentamente si acquieta e
si risolve, trova la sua catarsi nelle Eumenidi. All'Agamennone fastoso, ricco di
grandi scene, e perfino, da ultimo, di rapide sorprese, segue la sobrietà cupa
delle Coefore, accentrate intorno a un solo motivo drammatico, scarne fino ad
apparire monotone a chi giudichi superficialmente. Alle Coeforesegue una tragedia
ricca di elementi varî, modernistica almeno quanto sono drammi arcaistici
le Coefore e l'Agamennone stesso. Tutta la trilogia finisce con uno spettacolo
scenografico e fastoso: con la processione al lume delle fiaccole, tra canti pii e
clamori rituali, in onore delle figlie della Notte. La trilogia cominciava, all'inizio
dell'Agamennone, con un altro spettacolo scenografico e fastoso: quello dei fuochi
che brillano improvvisti nella notte, a trasmettere, da un monte all'altro, da un'isola
all'altra, dall'uno all'altro continente, l'annunzio della vittoria. Così il senso
caratteristicamente ellenico della simmetria lega in una sua sottile e profonda armonia
il grande pathos tragico eschileo.
Al dramma separato s'attenne quasi sempre anche Euripide; ma, genio novatore e
inquieto, non contento di aver realizzato un'assoluta novità in tragedie come
la Medea, volle, nelle sue tragedie più tarde, chiudere in un dramma solo un
amplissimo tratto di materia mitica che avrebbe potuto trovare un'espressione
adeguata in un'intera trilogia. A questa tendenza euripidea di trattare con libertà il
mito sono necessarî i nuovi espedienti tecnici, tanto biasimati da antichi e da
moderni: il prologo nella nuova forma che prende con Euripide e il deus ex machina.
Ma a questi artifici bisogna guardarsi dall'attribuire grande importanza: il prologo è
un tentativo di dare anche una certa unità esterna al dramma, esponendone l'antefatto,
facendone prevedere l'epilogo, o, viceversa, nascondendolo a bella posta, per
aumentare la curiosità degli spettatori; il deus ex machina non serve, come si è
pensato ingenuamente, a sciogliere nodi troppo imbrogliati, che erano una difficoltà
insuperabile per il poeta stesso, ma a risolvere un problema che il poeta vuol
dimostrare davvero insolubile, o a conciliare, nell'epilogo, sia pure esternamente e
formalmente soltanto, la tragedia col mito.
Non è possibile qui tracciare la storia dell'influsso immenso che la tragedia greca
ebbe sulla letteratura moderna. Imitata da Ennio, Pacuvio, Accio, Seneca, influì,
soprattutto attraverso Seneca, sul teatro moderno. Shakespeare stesso, attraverso
Seneca, si riconnette in qualche modo a Euripide. Ed Euripide stesso influì molto
sulla commedia menandrea, che attraverso Plauto e Terenzio è rivissuta nel teatro
moderno.
Nel Cinquecento, rinata la conoscenza dei classici greci, i tragici furono studiati
direttamente e tenuti a modello: dagli esemplari greci deriva, o vuol derivare, la
prima tragedia "regolare" delle letterature moderne, la Sofonisba di Giangiorgio
Trissino. Dalle discussioni fiorentine della Camerata dei Bardi sull'unione di poesia e
musica nella tragedia greca, nacque il melodramma.
Racine, Corneille, Voltaire, Alfieri, Foscolo, Shelley, Goethe imitarono nelle loro
tragedie i Greci; in tempi più vicini a noi, Swinburne imitò Eschilo, da lui
immensamente ammirato, nella sua Atalanta in Calydon; Leconte de Lisle, traduttore
in prosa dei tre tragici, si ispirò a Eschilo, per Les Érinnyes e all'Ione euripideo per
l'Apollonide; Hofmannstahl creò un'Elettra modernistica, con una morbosa psicologia
d'isterica, ma che pur conserva molti tratti sofoclei; D'Annunzio tolse ispirazione
dall'Elettra sofoclea per la sua Fiaccola, e dall'Ippolito e dalle Supplici di Euripide
per la sua Fedra. Molto numerosi sono stati i travestimenti moderni dell'Edipo re:
basterà ricordare Hofmannstahl, Gide, Cocteau. La tragedia fu anche musicata da
Musorgskij e da Pizzetti.
Ogni volta che il mondo greco fu riscoperto, ogni volta che la civiltà greca tornò in
onore, la tragedia fu considerata come il culmine della poesia classica. I tragici greci,
specialmente Sofocle, furono elemento fondamentale nelle discussioni tra
Winckelmann e Lessing sull'arte. Il romantico Augusto Schlegel, nelle
celeberrime Lezioni sulla poesia drammatica, analizzando criticamente i tre grandi
tragici, li avvicinava alla cultura moderna. Schiller e Goethe fecero sulla tragedia
greca molte finissime osservazioni particolari; e Goethe rivendicava giustamente
contro Schlegel la grandezza di Euripide, e definiva l'Agamennoneeschileo "il
capolavoro dei capolavori". Hölderlin tradusse da grande poeta due tragedie di
Sofocle; e Sofocle specialmente rappresentò e simboleggiò la sua intuizione più
profonda della grecità come "serenità nata dalla passione e bellezza nata dal dolore".
Hölderlin precorre Nietzsche; e con La nascita della tragedia di Nietzsche, attraverso
l'affermazione del pessimismo greco e del carattere "dionisiaco" della tragedia in
opposizione all'"apollineo" dell'epos omerico, attraverso la rivendicazione degli
elementi irrazionali dell'arte e la superiorità di Eschilo, fortemente affermata sugli
altri due tragici, si manifesta una nuova concezione dell'ellenismo. I tragici greci
erano così definitivamente liberati dal velo classicistico che ne offuscava
l'intelligenza. Non che non affiorino ancora in molti critici residui classicistici; ma la
comprensione dell'antica tragedia è divenuta, in generale, più profonda. La filologia
si è acquistata le maggiori benemerenze nella critica del testo: fondamentale è
l'edizione eschilea del Wilamowitz. Anche le questioni tecniche sono state studiate
dai filologi con grande acume e pazienza; ma, ingiustamente sopravvalutate, hanno
condotto a rimpicciolire e a fraintendere l'arte dei poeti. Recentemente si può
osservare, proprio nella filologia, una giusta reazione. Ma v'è di più: alcuni drammi
greci sono rappresentati con vivo successo in tutto il mondo civile, soprattutto in
Grecia e in Italia. Basterà ricordare le rappresentazioni di Padova, di Fiesole,
soprattutto di Siracusa. Anche il pubblico moderno meno preparato a intendere poesia
così antica, è vinto dal fascino, che, a distanza di tanti secoli, hanno i capolavori dei
tragici greci.
Bibl.: Per l'origine della tragedia: W. Ridgeway, The origin of tragedy with special
reference to the Greek tragedians, Cambridge 1910; M. Nillsson, Der Ursprung der
Tragödie, in Neue Jahrb. klass. Philol. 1911; Pickard-Cambridge, Dithyramb,
Tragedy and Comedy, Oxford 1927; M. Pohlenz, Das Satyrspiel und Pratinas von
Phleius, in Nachr. Gött. Ges., 1926.
Il genere tragico. - Sull'esperienza della tragedia greca classica Aristotele fonda la sua
definizione del genere tragico. Un famoso passo della Poetica (all'inizio del cap. VI)
contenente quella definizione della tragedia su cui poi doveva fondarsi la teoria
drammatica del Rinascimento, può servire anche oggi utilmente come punto di
partenza per tracciare le caratteristiche storiche di questo genere di composizione.
Scrive Aristotele: "È la tragedia l'imitazione (μίμησις, parola resa di solito con
"imitazione", ma meglio: "rappresentazione") d'un'azione seria e compiuta, avente
una certa ampiezza (cioè: contenuta entro certi limiti), in discorso abbellito in
differenti modi nelle varie parti (ciò si riferisce alle differenze di metro e di dialetto
tra le odi corali e il dialogo), esposto da persone in atto e non in forma di racconto, la
quale per via della pietà e del terrore opera la purgazione (κάϑαρσις) di queste
passioni". In questa definizione si ha in ordine logico: 1. che è la tragedia e che cosa
rappresenta; 2. la forma in essa usata; 3. la maniera in cui è comunicata; 4. la
funzione a cui adempie. Secondo questa definizione la tragedia non implica
necessariamente una fine dolorosa; significa soltanto un dramma che rende la vita
seriamente, contrapposto alla commedia, che la rende in modo grottesco (altrove
tuttavia - al cap. XIII, 6 della Poetica - Aristotele preferisce la fine dolorosa, per
quanto ciò paia contraddetto da quanto dice al cap. XIV, 9). Nel Medioevo però,
grazie in parte all'influsso dell'Orestes di Blosso Emilio di Draconzio (sec.. V),
poema epico in esametri, tragedia e commedia divennero sottospecie dell'epica, con
conclusione rispettivamente luttuosa o allegra (tipica l'ingenua etimologia di
Francesco da Buti, che vuol vedere l'origine del nome del componimento, bello
all'inizio, luttuoso alla fine, nell'aspetto del capro, bello di fronte, ma "dietro è sozzo,
mostrando le natiche nude e non avendo di che coprirle").
"Esposta da persone in atto, e non in forma di racconto"; agita, cioè, non narrata. Ma
codesta parte della definizione aristotelica non corrisponde a verità neanche per il
teatro greco, ove azioni atroci, come l'uccisione dei figli di Medea, sono riferite dal
nunzio; e d'altronde la tragedia elisabettiana, rincarando la dose sugli orrori di
Seneca, non si peritò di rappresentare in scena le azioni più raccapriccianti.
In Eschilo si può osservare la lotta per il predominio sulla scena tra attore e coro:
nella prima delle sue tragedie conservateci, le Supplici, il coro è composto delle
cinquanta figlie di Danao, che sono le eroine del dramma; nei Persiani il numero dei
componenti del coro è disceso a dodici, ma questi augusti vegliardi conservano
un'importanza di primo piano; nei Sette contro Tebe il coro non è più il primo a
entrare, ed è un gruppo di donne tebane che si piegano sotto i rimproveri di Eteocle,
pur ribellandosi in parte alla fine sotto la guida di Antigone; nel Prometeo il coro di
Oceanine è disceso ancor più chiaramente alla posizione subordinata di spettatore
impotente, per quanto simpatizzante, che è tipica della maggior parte dei cori greci,
per quanto esse alla fine si rifiutino di abbandonare Prometeo malgrado le minacce di
Ermete; nell'Agamennone la degenerazione dell'elemento individuale del coro è
completa; qualcosa dell'antica dignità ritorna al coro nelle Coefore e nelle Eumenidi,
ove il coro dà il nome al dramma, ed è anzi parte attivissima nell'ultimo. Ma il
graduale diminuire dell'importanza del coro, il suo ridursi a una mera eco
impersonale, può seguirsi fino a Euripide e a Seneca. Tuttavia questo nucleo
primitivo della tragedia era venuto ad adempiere ad alcune importanti funzioni
nell'economia del dramma: può ricordare il passato, commentare il presente, predire il
futuro; offre al poeta un portavoce per le sue opinioni, e allo spettatore un'immagine
di sé stesso; forma lo sfondo della comune umanità contro cui risaltano gli eroi, è a
un tempo - come sostenne lo Schiller - un muro che separa il dramma dal mondo
reale, come un cerchio magico, e un ponte tra le figure eroiche della leggenda e la
folla degli spettatori. Col risorgere della tragedia di tipo classico, il coro risorse a
debole vita, sui modelli senechiani, negli intermezzi; ma alla sua funzione risposero.
meglio nuovi espedienti: così nel teatro elisabettiano la parte di commento e di eco
che nella tragedia greca è propria del coro, è messa in bocca a qualche attore, a un
gruppo di cittadini (Richard III, Julius Caesar), a un folle (King Lear), oppure è
condensata in un brano lirico, quali i songs disseminati nei drammi di Shakespeare,
che dànno una trasposizione fantastica, come in simboli magici, delle situazioni su
cui aleggiano, sicché ove Deianira o Polissena avevano un'ode corale a lamentare il
loro destino, Desdemona non ha che la breve, ma acutamente patetica, canzone del
salice. Ovvero considerazioni tipiche d'un coro greco sono affidate al monologo di un
protagonista: tale il famoso monologo di Amleto. Una resurrezione deliberata del
coro greco fu tentata dal Manzoni e da Thomas Hardy in The Dynasts; d'altronde
evidente è il carattere corale, lirico, dei discorsi dei personaggi nei drammi di
D'Annunzio; altrove, nelle parole di un vecchio servitore, come nel Giardino dei
ciliegi del Čechov, può vedersi un surrogato moderno dei commenti del coro.
Quanto all'intreccio della tragedia, o favola, Aristotele osserva che deve essere d'una
certa ampiezza, avere una certa struttura, e che infine esso è la parte più importante,
l'anima, del dramma. I limiti d'ampiezza posti dalla logica d'Aristotele e dalla
capacità umana di assistere a uno spettacolo rimangono decisivi; di solito la durata
della tragedia è sempre stata dalle due alle tre ore. Circa la struttura, con
l'apparentemente banale osservazione che una tragedia deve avere un principio, un
mezzo, e un fine, Aristotele ha inteso che il dramma debba avere buone ragioni per
cominciare dove comincia e terminare dove termina, e che gl'incidenti debbano
susseguirsi secondo un'evidente catena di causalità. Tuttavia, se la pratica del teatro
greco è conforme a questa regola, e quella del teatro classico francese vi aderisce
rigorosamente, il teatro elisabettiano abbonda d'arbitrio, con risultati in alcuni casi
felicissimi (per esempio l'introduzione di Falstaff in Henry IV), ma nella maggioranza
disastroso. Dell'arbitrio elisabettiano per ciò che concerne il tempo e lo spazio, il
teatro moderno si è avvalso con parsimonia, ché l'estensione nel tempo va a
detrimento della tensione drammatica; d'altronde la libertà elisabettiana permette un
normale svolgimento della favola, senza dover ricorrere a ripieghi per spiegare
l'antefatto. L'uditorio greco conosceva la favola del dramma in antecedenza, il teatro
classico francese cercò di ovviare alla difficoltà con la figura del confidente; oggi,
con la scomparsa del soliloquio (curiosamente resuscitato, tuttavia, da Eugene O'Neill
in Strange Interlude, a rendere il contenuto subconscio dei personaggi), e l'avversione
del pubblico a ripieghi improbabili, il problema presenta notevoli difficoltà. E quanto
deve venir spiegato, quanto tenuto segreto fino alla fine? Lope de Vega e Boileau
hanno insistito sull'importanza della sorpresa, della quale si può dire che i Greci
facessero a meno, essendo al corrente della favola. Oggi la sorpresa pare più propria
del melodramma, mentre due mezzi più potenti per avvincere l'anima degli spettatori
sono la sospensione e l'ironia tragica. Di questo mezzo - per cui lo spettatore sa ciò di
cui alcuno degli attori è all'oscuro e si comporta di conseguenza - si ha un esempio
classico nell'Elettra di Sofocle (v. 1450 segg.). Di questa forma familiare d'ironia
tragica nulla ha detto Aristotele, ma di quella forma di tragedia il cui intreccio è
basato sull'ironia del destino è fatto discorso nella Poetica. Le cose che più
commuovono nella tragedia, dice Aristotele nel cap. VI della Poetica, sono la
περιπέτεια e la ἀναγνώρισις, di solito interpretate come "rovescio di fortuna" e
"riconoscimento". Ma la prima è spiegata da Aristotele nel cap. XI: la "peripezia" ha
luogo quando una linea d'azione intesa a produrre un certo risultato produce
l'opposto; così il messaggero viene per liberare Edipo dal timore di sposare sua
madre, e invece, rivelando chi sia Edipo, produce l'effetto opposto. Nella "peripezia"
(rettamente intesa, come può esserlo dopo l'interpretazione del Vahlen, del 1866) è
implicita tutta una concezione tragica della vita, per cui una catastrofe è opera di
persone bene intenzionate, o di coloro stessi che ne vengon travolti; così, quando
Deianira invia al marito quello che essa crede un filtro d'amore e che sarà invece uno
strumento di morte, quando Edipo volontariamente precipita proprio nell'abisso da
cui rifugge, quando Otello scopre di aver gittato via nella sua ignoranza il gioiello
della sua felicità, quando Lear si affida alle mani delle cattive figlie e tormenta la sola
che l'ami. Ecco perché Aristotele connette la περιπέτεια con la ἀναγνώρισις, cioè con
il "discoprimento" ("riconoscimento" non rende l'idea), col cader della benda dagli
occhi, troppo tardi. Connesso con questo tipo d'intreccio complesso (a cui Aristotele
contrappone l'intreccio semplice, che svolge una mera serie di eventi, come
le Troiane d'Euripide) è la dottrina dell'errore tragico o ἁμαρτία, che critici
moraleggianti hanno cercato d'interpretare non come un mero errore, quale sta a
significare, ma come una debolezza morale, una colpa, desiderosi di stabilire una
giustizia poetica, e legger nella catastrofe la necessaria punizione d'un fallo. ‛Αμαρτία
può essere sia un delitto come quello di Clitemnestra, o uno sbaglio di calcolo come
quello di Deianira. È vero che Aristotele, venendo a parlare dei caratteri, dice che le
sventure di un essere affatto innocente, anziché commuoverci o atterrirci, non
farebbero che offenderci e ripugnarci; ma altra è la pratica del teatro greco. In Edipo
vediamo un uomo condannato prima della nascita, in Ifigenia e Polissena di Euripide,
vittime innocenti. Invano Racine si sforza di assortire il castigo al delitto: chi può
rappresentarsi la sua Fedra come una delinquente? Se poi cerchiamo la ἁμαρτία in
tragedie moderne, come quelle di Ibsen, vediamo che un errore intellettuale, non
etico, è quanto può intendersi con quel termine. La passione che nel dramma
moderno è fonte di quell'errore cieco e perdonabile che Aristotele intendeva, è di
solito l'amore, che, in tutto il corso della tragedia greca, ha parte preponderante solo
nell'Ippolito e nella Medea.
Quanto ai caratteri, Aristotele osserva (Poet., XIII e XV) che l'eroe tragico ideale non
dev'essere né buono in sommo grado, né del tutto cattivo, inclinante piuttosto alla
bontà, e che i caratteri siano fedeli al loro tipo e coerenti. Queste caratteristiche
formarono oggetto d'importanti discussioni nel Rinascimento. Già Euripide, nella sua
ricerca di realismo, aveva trasgredito al primo di questi precetti presentando figure
meschine come il Giasone della Medea e il Menelao dell'Oreste. Nel teatro
elisabettiano, per contro sotto l'influsso del tiranno di Seneca e del principe di
Machiavelli (secondo il travisamento protestante) l'eroe tragico per eccellenza fu un
malvagio, o un superuomo al di là del bene e del male. Nella tragedia moderna
anziché la malvagità è la debolezza che pare più fatta per muovere gli affetti, sebbene
essa sembri la negazione del "carattere", in quanto tale, poco drammatica. Quanto alla
convenienza del carattere alla persona a cui appartiene, il Rinascimento e il
classicismo conferirono una curiosa rigidità al precetto aristotelico, esigendo che, in
omaggio al decorum, un vecchio avesse sempre certe determinate caratteristiche, un
giovane certe altre, e così il soldato, il mercante, e via dicendo; ma se i tipi trovan
posto nella commedia, essi sembrano la negazione dell'essenza della tragedia, che
verte intorno all'individuo, non al tipo. Quanto alla coerenza dei caratteri, neanche
questo principio cui rigorosamente aderì il teatro classico, può trovarsi messo in
pratica nel teatro elisabettiano, che di solito subordinò la coerenza all'effetto scenico,
o in molti drammi moderni; per una diversa concezione della natura umana (valga per
tutti il teatro di Pirandello). Il carattere è per Aristotele cosa secondaria, mentre la
cosa principale (μέγιστον) è l'intreccio. Questo può dirsi sia stato messo in pratica
nella tragedia di nazioni come la greca e la francese, presso cui è accentuato il senso
architettonico: l'Edipo e Athalie offrono i due più cospicui esempî. Ma il precetto non
corrisponde alla pratica del dramma elisabettiano, ove spesso l'intreccio è ibrido e
sconnesso (in parte a causa della collaborazione di parecchi autori), mentre
l'intuizione del carattere umano tocca le più alte cime e redime le imperfezioni
costruttive (valgano ad esempio, il Doctor Faustus del Marlowe, l'Amleto, e 'Tis Pity
She's a Whore del Ford).
Resta a dire degli altri tre elementi della tragedia secondo Aristotele: le idee, il
linguaggio, e il lato spettacoloso, o, come si dice oggi, la coreografia. La parte data
all'elemento pensiero nella tragedia è cresciuta in proporzione della decadenza
dell'elemento lirico e poetico, fino a raggiungere il massimo nel dramma dialettico di
Shaw (la tragedia di Santa Giovanna, ove pure l'elemento lirico è più presente che in
altri drammi di Shaw, insegni); ma già il processo si avverte confrontando la divina
fissità di Eschilo con la agilità causidica di Euripide; o l'implacabile irrigidimento
volitivo di Corneille con la propaganda scettica di Voltaire; o l'esaltazione
superumana di Marlowe (specie nel Tamburlaine) con l'ironia del Malcontent di
Marston, o rendendoci conto dei varî stadî della tragedia di Amleto, divenuta da mera
tragedia di vendetta, la tragedia del carattere melanconico (v. amleto, in Appendice).
Sicché lo sviluppo di ogni teatro nazionale pare seguire codesta parabola, dal lirico
all'intellettuale. Quanto al linguaggio e all'elemento spettacolo, il loro svolgimento è
in rapporto alla perpetua tendenza del dramma d'aderire sempre di più alla realtà. La
tragedia - è stato detto (F. L. Lucas) - comincia come un oratorio, diventa la
conversazione ascoltata in una stanza, un episodio visto in una strada, una tranche de
vie (come Street Scenedi Elmer Rice). Lo scolorirsi del linguaggio, la scomparsa
delle metafore (che per Aristotele sono il segno del genio naturale), si possono
seguire da Eschilo a Euripide, da Marlowe a Shirley; è solo nello splendore della sua
giovinezza che il dramma ardisce il linguaggio supremamente poetico di Eschilo e di
Marlowe. Racine è l'esempio più cospicuo di poeta tragico di una società raffinata,
che ottiene il massimo dell'effetto con un vocabolario povero e poche immagini
stereotipate; con simile scarsezza di mezzi, uno stile "pensato e non cantato", senza
ornamenti, consegue potenti effetti l'Alfieri. La tendenza al realismo accelera nella
tragedia il processo di usura del linguaggio, e di smussamento del verso; dal ritmo
eroico di Eschilo si passa ai saltellanti giambi di Euripide, dal tonante blank verse di
Marlowe si scende ai periodi ritmici disossati di Beaumont e Fletcher (il processo può
seguirsi nella stessa carriera di Shakespeare). I tentativi di ravvivare la tragedia in
versi nel secolo scorso (Hernani di V. Hugo, i Cenci dello Shelley, l'Atalanta in
Calydon e la trilogia di Maria Stuarda - specie lo Chastelard - dello Swinburne,
la Penthesilea del Kleist), e in questo secolo (in Italia, D'Annunzio, Sem Benelli),
anche se accompagnati da momentaneo successo, non hanno fatto che confermare
l'impossibilità dell'impresa sulle scene moderne.
Ma se non più il verso, un periodare ritmico e ricco, un sapiente uso di pause, nei
drammi in prosa di Maeterlinck (su cui è modellata la Salomé del Wilde), di Claudel,
di D'Annunzio, pare oggi atto strumento espressivo della tragedia.
Dice Aristotele che il terrore e la pietà si possono produrre con mezzi spettacolosi,
ma che è meglio produrli col modo in cui il dramma è scritto. Mentre nel dramma
primitivo, anche per difficoltà tecniche, quasi tutta la rappresentazione dell'ambiente
è lasciata alla fantasia dello spettatore, coi luoghi designati e simili puerili espedienti,
la tendenza moderna a sopraffare la tragedia con le macchine sceniche, nell'illusione
di riprodurre la realtà, ha sortito effetti deleterî; non sono mancati tentativi di ritorno
alla semplicità antica (senza l'ingenuità relativa), fino alla stravaganza (per es., in
Inghilterra Amleto e Macbeth recitati in modern dress).
Ha puramente interesse storico la famosa questione delle tre unità, di tempo, di luogo
e d'azione. Aristotele aveva detto che la favola deve essere compiuta e perfetta, deve
cioè avere unità; e che l'azione dell'epopea e quella della tragedia differiscono nella
lunghezza "perché la tragedia fa tutto il possibile per svolgersi in un giro di sole o
poco più, mentre l'epopea è illimitata nel tempo" (Poet., V). Questo luogo è una
semplice deduzione dalla pratica della tragedia greca; il coro, tra l'altro, era
determinante, non essendo possibile che la stessa dozzina di vegliardi riapparisse
insieme ora ad Atene, ora a Sparta, ora a Tebe, e puntualmente a distanza d'anni.
Orazio, come Aristotele, insistette solo sull'unità d'azione. Il blocco di tre unità è
creazione dei critici italiani del Rinascimento: Giraldi Cinzio, Robertelli, Trissino,
Scaligero, definiscono l'unità di tempo, V. Maggi dà i primi accenni dell'unità di
luogo, ma il primo trattatista a concepire l'unità di luogo e a dare così alle tre unità la
loro forma definitiva è il Castelvetro nella Poetica (1570).
In Inghilterra la dottrina delle tre unità poco prese piede; vi si uniformò Ben Jonson,
ma proprio dall'Inghilterra, col dott. Johnson, fu sferrato nel Settecento un attacco
conclusivo, nella prefazione alla sua edizione di Shakespeare: la sua argomentazione
fu copiata dallo Stendhal in Francia; mentre da noi il Manzoni seppelliva le tre unità
nella famosa lettera. Connessa con l'unità di azione è la proibizione, anche questa
arbitrariamente attribuita ad Aristotele dai critici del Rinascimento, di mescolare il
comico al tragico - del che non mancavano esempî nella tragedia greca (la nutrice
nelle Coefore, i nunzî nell'Antigone e nelle Baccanti, il Menelao dell'Elena e l'Eracle
dell'Alcesti, il quale ultimo dramma può a buon diritto chiamarsi la prima
tragicommedia). La tradizione medievale, in cui la mescolanza di comico e tragico
non ripugnava, trasmise al teatro elisabettiano quegli elementi che salvarono il
dramma inglese dalle pastoie delle unità pseudo-aristoteliche, e fecero di questo
dramma il modello dei romantici. La famosa prefazione al Cromwell dell'Hugo
afferma i diritti del grottesco sulla scena più ligia alle tre unità, la francese.
Bibl.: Per la storia della tragedia nei singoli paesi, vedi sotto le varie letterature
nazionali. Vedi particolarmente: H. Weil, Études sur le drame antique, Parigi 1897;
F. Nietzsche, La nascita della tragedia (traduz. ital.), Bari 1907; A. Winterstein, Die
Ursprünge der Tragödie, Vienna 1925; W. Cloetta, Beiträge zur Literaturgeschichte
des Mittelalters und der Renaissance, II: Die Anfänge der Renaissancetragödie,
Halle 1890-92; W. Creizenach, Geschichte des neueren Dramas, ivi 1911 segg.; I. E.
Spingarn, La critica letteraria nel Rinascimento (trad. ital.), Bari 1905; F. L.
Lucas, Tragedy, Londra 1927; H. Reich, Der Mimus, Berlino 1903 (opera
fondamentale sull'arte drammatica); J. Gregor, Weltgeschichte des Theaters, Vienna
1933; J. Bab, Das Theater im Lichte der Soziologie, Lipsia 1931.
tragedia
di Emanuele Lelli - Enciclopedia dei ragazzi (2006)
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tragedia
Per nessun altro genere letterario, come per la tragedia, si è cercato di fornire
definizioni che ne cogliessero il senso profondo. Sulla base di quanto già osservava il
filosofo Aristotele(4° secolo a.C.) nella Poetica, si può affermare che la tragedia,
almeno così come fu concepita nell’Atene classica, è rappresentazione drammatica
(dramma) – cioè teatrale – di una vicenda esemplare, preferibilmente mitica, conclusa
tragicamente, che induce gli spettatori a riflettere sul significato di certe azioni, sui
valori etici, sociali e politici che il mito, rielaborato e riletto, sta a simboleggiare.
Il mito, nella tragedia, è però reinterpretato alla luce dell’attualità, cioè dei problemi
culturali, sociali ed esistenziali che il poeta vuole mettere in luce. La tragedia, allora,
diviene il luogo – letterario e teatrale – in cui si dibattono idee e questioni di carattere
universale: qual è il rapporto dell’uomo con la divinità? Quali sono i limiti e le
possibilità dell’intelligenza umana? La tragedia affronta le contraddizioni della vita e
della civiltà, e spesso è costruita in base ad antinomie – vale a dire conflitti insanabili
– che sono proprie di ogni età: essere/apparire, amore/odio, verità/menzogna,
fede/ragione, natura/convenzione.
A partire dalla fine del 6° secolo a.C., ad Atene cominciarono a essere rappresentate
opere teatrali che mettevano in scena i grandi personaggi del mito e le loro vicende
tragiche. Quale sia l’origine di questi spettacoli è ancora oggi difficile dire. Aristotele
affermava che la tragedia si sviluppò dai cori lirici che intonavano canti in onore di
Dioniso (Bacco), allorché un personaggio si staccò dal coro e cominciò a dialogare
con esso.
In ogni caso la documentazione ci presenta drammi che già nei primi anni del 5°
secolo a.C. apparivano maturi dal punto di vista strutturale e formale, e ciò
contribuisce al mito di una tragedia greca nata quasi perfetta, come straordinaria
creazione dello spirito. Le rappresentazioni tragiche si svolgevano, ad Atene,
nell’ambito delle feste di Dioniso. Un ruolo rilevante, soprattutto nel periodo più
antico, aveva il coro, che cantava e compiva evoluzioni accompagnato dalla musica;
c’erano poi tre attori uomini che si dividevano tutte le parti del dramma, indossando
costumi appariscenti e maschere. Le donne non potevano recitare.
Gli spettacoli, nell’Atene classica, erano concepiti come una gara tra poeti e giudicati
da una giuria popolare estratta a sorte. Lo Stato concedeva a tutti gli spettatori un
indennizzo, e in tal modo si rendeva esplicito il valore educativo e civile della
tragedia. Alcuni studiosi moderni hanno calcolato che, solo nel 5° secolo a.C. e solo
ad Atene, furono rappresentate circa 1.500 tragedie, e oltre cinquanta sono i
tragediografi di cui abbiamo notizia. Tuttavia, di questa enorme produzione sono a
noi giunte soltanto sette tragedie di Eschilo, sette di Sofocle, diciassette di Euripide,
autori greci vissuti tra il 6° e il 5° secolo a.C.
Da Roma al Medioevo
Quando Roma entrò in contatto con il mondo greco, nel 3° secolo a.C., rimase
affascinata dalle forme di spettacolo teatrale come la tragedia. Così alcuni autori
romani iniziarono a scrivere in latino opere drammatiche, di cui però a noi non
restano che frammenti. Pochissimo sappiamo di questo teatro latino arcaico, che
doveva prediligere temi forti e passionali; accanto alle tragedie di argomento greco
abbiamo notizia di drammi di argomento romano, storico, che avevano la funzione
politica di celebrare le gesta di importanti membri delle famiglie patrizie. I più famosi
autori tra il 3° e il 1° secolo a.C. furono Quinto Ennio, Marco Pacuvio e Lucio Accio.
Alla fine del Quattrocento si riscoprirono, in Europa, alcune opere di Aristotele fino
allora non conosciute. Tra queste, la Poetica, in cui Aristotele parlava della tragedia
greca, riscosse immediatamente un immenso successo. Venne tradotta e commentata,
e sulla base delle osservazioni aristoteliche nacque una nuova produzione di tragedie.
In Italia, già nel Cinquecento, le ricche corti signorili fecero allestire sfarzosi
spettacoli tragici: gli argomenti erano tratti dal mito greco o dalla storia romana.
Musiche, cori, danze, raffinati costumi e giochi pirotecnici erano gli elementi più
significativi di questi spettacoli, accanto a testi molto elaborati dal punto di vista
letterario.
Nate per un analogo contesto di corte, anche le tragedie del francese Pierre Corneille
avevano un aspetto formale classicheggiante e mettevano in scena i personaggi del
mito greco presentati come giganteschi simboli di vizi e virtù. Jean Racine, altro
drammaturgo francese del Seicento, mise invece a nudo i più intimi sentimenti
umani, dall’amore tenero e incondizionato alle pulsioni morbose e rovinose.
In Inghilterra, dove il teatro, in particolare a Londra, assunse un’importanza pubblica
che non ebbe pari altrove, tra Cinquecento e Seicento s’impose la straordinaria figura
di William Shakespeare, autore di numerosissime tragedie incentrate sulle passioni
irrisolte dell’individuo e sui grandi conflitti di valori. I suoi personaggi, Enrico IV
e Otello, Romeo e Giulietta o Re Lear, attinti da disparati orizzonti – mito antico e
storia romana, leggende medievali e storia anglosassone –, ancora oggi sono tra i più
famosi e apprezzati della letteratura di tutti i tempi.
Poco amata dagli illuministi, la tragedia fu invece di nuovo frequentata dagli autori
romantici, che ne sfruttarono le possibilità di mettere in scena eroi e antieroi tra loro
contrapposti. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, infine, la tragedia si
trasformò in un genere letterario nuovo, il dramma moderno, che pur ponendo al
centro grandi temi esistenziali e sociali ne sfuma i toni e gli esiti univocamente
tragici.
TRAGICO
di Delio Cantimori - Enciclopedia Italiana (1937)
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TRAGICO. - Dal greco τραγικός, inizialmente usato a designare parole che per gli
spettatori della tragedia (v.) erano cariche di un significato terribile, mentre il
personaggio che le pronunciava era fino all'ultimo inconsapevole. In seguito, il
vocabolo indicò l'essenza della tragedia attraverso i sentimenti da essa destati.
Tragico è il complesso dei sentimenti, degli affetti, provocato dalla contemplazione
estetica di un avvenimento onde si verifichi la sconfitta di un uomo, di un gruppo
d'uomini, ricchi di valore ideale, grandi, forti, eroici, specialmente quando ciò si
verifichi dopo una lotta con il destino o con una volontà o forza superiore alla loro, e
spesso in conseguenza diretta della loro grandezza, del loro valore ideale. Tali
sentimenti, affetti, passioni, che si possono ridurre a due, terrore e compassione,
liberano l'animo dalle passioni che hanno condotto alla situazione tragica, al
momento tragico, secondo la definizione aristotelica della tragedia "che con la
compassione e col terrore compie la purificazione di simili sentimenti" (v. catarsi).
Questa concezione aristotelica del tragico si è mantenuta, in sostanza, per tutto il
pensiero moderno, fino al romanticismo e al Hegel, che riprende, specie
nella Fenomenologia, il motivo del "terrore di fronte alle potenze superne" e della
"compassione per i viventi". Col Nietzsche il concetto del tragico si estende dal
dominio dell'estetica a motivo fondamentale di una filosofia della vita (Die Geburt
der Tragödie aus dem Geiste der Musik, 1871; Die Philosophie im tragischen
Zeitalter der Griechen, 1872). Per il Nietzsche tragica è infatti l'essenza stessa della
vita, nella continua tensione fra i due poli opposti del problema del rapporto fra la
vita inconsapevole degl'istinti e delle passioni e quella estremamente consapevole ma
vivente nell'astratto, dell'attività intellettuale, morale, filosofica, culturale.
La concezione del Nietzsche, molto più profonda del pantragicismo hebbeliano, che
ebbe un momento di voga nel primo quarto del sec. XX, ha informato di sé molte
teorie pantragicistiche e pseudofilosofiche degli ultimi tempi, specie in Germania,
onde il concetto della tragicità della vita si è fuso spesso con l'altro, anche esso
filosoficamente equivoco, dell'eroicità di essa: forme estreme e tese di un'aspirazione
di rinnovata sincerità e serietà etica, noncurante di tradizioni intellettualistiche e
astratte, e di cultura superficiale e formalistica.
Bibl.: Per l'elenco delle opere che hanno ad argomento il concetto del tragico cfr.
Eisler, Wörterbuch, s. v.
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