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I santuari oracolari nel Latium Vetus

Facoltà di Lettere e Filosofia


Corso di Laurea in Archeologia
Cattedra di Archeologia e Storia dell'Arte Greca e Romana

Candidato
Francesco Borsari
n° matricola 1609694

Relatore Correlatore
Massimiliano Papini Paolo Carafa

A.A. 2015/2016
Indice generale
Introduzione................................................................................................................................1
La pratica della divinazione........................................................................................................3
I.1 Divinazione ed oracoli......................................................................................................3
I.2 Cleromanzia e sortes nelle fonti scritte ed iconografiche.................................................5
I.3 Le Sortes: dall'iconografia all'oggetto.............................................................................12
I.4 Sortes di forme varie.......................................................................................................16
I santuari oracolari....................................................................................................................19
II.1 Il santuario di Ercole ad Ostia.......................................................................................19
Un santuario prima del castrum e le origini del culto......................................................20
La prima fase del santuario e l'inizio dell'espansione urbana..........................................24
La seconda fase del santuario..........................................................................................29
L'elevazione flavia e la terza fase del santuario..............................................................30
La quarta fase del santuario: l'espansione urbana del II d.C...........................................33
II.2 Il santuario di Ercole a Tivoli........................................................................................35
Le fase più antica: tracce.................................................................................................36
La fase tardo-repubblicana e gli interventi imperiali.......................................................37
Le fonti storiche...............................................................................................................45
Le fonti epigrafiche.........................................................................................................48
II.3 Il santuario di Fortuna Primigenia a Palestrina..............................................................49
Le sette terrazze del santuario tardo-repubblicano..........................................................51
Le fonti storiche...............................................................................................................55
Le fonti iconografiche.....................................................................................................57
II.4 Il santuario detto Ara della Regina a Tarquinia.............................................................63
Fase I................................................................................................................................64
Fase II..............................................................................................................................65
Fase III.............................................................................................................................66
II.5 Alcuni santuari minori...................................................................................................66
Gli oracoli e Roma....................................................................................................................68
III.1 I libri Sibillini...............................................................................................................68
III.2 Il tempio di Giove Capitolino.......................................................................................70
Le fonti iconografiche.....................................................................................................72
Le fonti storiche...............................................................................................................73
III.3 Il tempio di Apollo Palatino.........................................................................................75
Le fonti storiche...............................................................................................................77
Conclusioni...............................................................................................................................80
Bibliografia...............................................................................................................................84
Introduzione

I santuari del Lazio antico costituiscono un tema vasto da affrontare, perché sono riflesso
dell'unità che per gli antichi avevano aspetti che oggigiorno tendiamo a voler separare
(politica, economia, religione, ecc.) e che un tempo dovevano trovare spazio all'interno di una
struttura complessa, descrivibile con un brutto, ma esatto termine moderno, "nucleo
polifunzionale". In alcuni di essi si svolgeva la pratica della divinazione, che ancora oggi
risponde alla necessità umana di rendere certa l'imprevedibilità del futuro. Tale pratica non è
che un tassello nella complessa economia di un santuario e la scarsità delle fonti a riguardo,
inversamente proporzionale alla diffusione della pratica stessa nel mondo antico, rende lo
svolgimento di questo scritto un'analisi meticolosa di pochi dati, e tipologicamente diversi,
direttamente legati ad esso e molti che possiamo definire circostanziali. A ciò si aggiunge la
storia degli studi che riguardano questi luoghi: nella maggior parte dei casi da sempre
conosciuti, spesso con una continuità di vita che arriva fino ai nostri giorni, indagati senza
continuità da secoli e ancora non del tutto scavati allo stato attuale. L'obiettivo della tesi non è
un punto di arrivo, ma la volontà di offrire una panoramica il più possibile completa su alcuni
santuari che con certezza, dovuta ai dati da essi ricavati, possiamo definire sedi di oracoli.
Messi questi santuari a confronto tra loro, faremo altrettanto con la città di Roma. Il periodo
analizzato per ogni singolo luogo, inoltre, non potrà essere sempre uniforme, per via della
mancanza di dati a disposizione, ma si cercherà di comprendere quando e in che modo le aree
sacre hanno avuto origine e di sottolineare i mutamenti fondamentali che hanno affrontato,
come ad esempio il caso di Ostia, quando all'interno dell'area sacra viene inserito un
complesso termale. Questo porterà a limitare il periodo indagato per ogni santuario fino ad un
determinato momento, senza tuttavia esaurire la storia del singolo luogo, ma cercando di
creare un percorso uniforme che leghi tutti gli oracoli oggetto di questa analisi.

Lo studio necessita di una parte preliminare, un primo capitolo che brevemente riassuma e
descriva la divinazione in territorio italico, come essa si svolgeva e come veniva scritta e
rappresentata dagli antichi. La comprensione del punto di vista degli antichi è fondamentale al
fine di interpretare con esattezza gli elementi di cui disponiamo. A questo seguirà un secondo
capitolo, più corposo, che andrà ad analizzare alcuni degli oracoli del Latium vetus, trattando i
resti dei complessi ed i tentativi di ricostruzione, e dove possibile le fonti storiche,
epigrafiche, iconografiche. Parleremo dei grandi santuari di Ercole ad Ostia e a Tivoli,

1
entrambi nati lungo una via transitata fin da epoche protostoriche. Analizzeremo il santuario
di Fortuna a Palestrina, riemerso dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale ed
ancora oggi elemento dominante nel contesto della città moderna. Questi tre siti, attualmente
ancora indagati, sono per lo più conosciuti nella loro facies tardo-repubblicana, periodo nel
quale vengono monumentalizzati, cancellando gran parte delle tracce preesistenti e stabilendo
una struttura che rimane definitiva nel corso della vita dei santuari, seppur con qualche
eccezione. Vedremo se vi sono aspetti oracolari nel santuario dell'Ara della Regina di
Tarquinia e attraverso questo passeremo al capitolo su Roma, dove la pratica divinatoria
introdotta dai Tarquini, i libri Sibillini, conservati dapprima nel tempio di Giove Capitolino e
poi in quello di Apollo Palatino, diviene la massima autorità di stato in questo campo,
mantenendo questo primato per tutta la durata della repubblica e persino nel passaggio da
quest'ultima all'Impero.

Riguardo alla bibliografia, sono state predilette analisi e ricostruzioni recenti ad


interpretazioni passate, spesso fuorviate dall'assenza di dati che in quel momento non erano
ancora stati scoperti.

2
Capitolo primo

La pratica della divinazione

I.1 Divinazione ed oracoli

La divinazione, o mantica, è stata una pratica diffusa presso i popoli antichi in tutte le parti del
mondo. Sappiamo che riti divinatori si svolgevano presso i Greci, i Romani e gli abitanti del
Mediterraneo, presso le popolazione orientali, tra le tribù nord – europee. Ancora oggi vi sono
parti del mondo dove la divinazione svolge un ruolo molto importante in alcune società. La
sua funzione è quella di prevedere, attraverso facoltà o tecniche prodigiose, eventi e fatti del
passato, presente o futuro, non deducibili attraverso il ragionamento logico o le normali
capacità sensoriali dell'uomo. Secondo gli antichi, essa si poteva svolgere mediante due
modalità, di cui ci parlano alcuni autori, tra cui Cicerone: una naturale, spontanea ed una che
necessita di una vera e propria ars1. La divinazione naturale si manifesta per ispirazione
diretta da parte di una divinità (spesso Apollo) ed ha luogo durante il sonno o in stati estatici.
Per fare alcuni esempi, attraverso un sogno miracoloso, Numerius Suffustius scopre la roccia
nella quale sono contenute le sortes di Praeneste2; Virgilio racconta come la Sibilla Cumana,
ispirata da Apollo e per questo in stato eccitato, predichi la sorte ad Enea 3. Altro metodo di
divinazione è quello artificiale, che richiede una vera e propria scienza in grado di interpretare
i segni più disparati (fenomeni naturali o meteorici, comportamento di specie animali o la
forma delle loro viscere, ecc.), trovando similitudini tra questi segni e tempi e spazi differenti,
con il risultato di fornire risposte o giustificare scelte ed al tempo stesso comprovare la
veridicità del metodo. Secondo la leggenda, Romolo e suo fratello Remo consultarono il cielo
per avere un responso su quale fosse il luogo migliore per fondare la città. Il rito che
officiarono prevedeva la lettura del futuro tramite l'analisi del volo degli uccelli e, avendo la

1 CICERONE, De Divinatione, I, 11: Duo sunt enim divinandi genera, quorum alterum artis est, alterum
naturae.
2 CICERONE, De Divinatione, II, 85: Numerium Suffustium Praenestinorum monumenta declarant, honestum
hominem et nobilem, somniis crebris, ad extremum etiam minacibus cum iuberetur certo in loco silicem
caedere, perterritum visis, inridentibus suis civibus id agere coepisse; itaque perfracto saxo sortis erupisse
in robore insculptas priscarum litterarum notis.
3 VIRGILIO, Eneide, VI, 42 - 155: Enea incontra la Sibilla per essere guidato in un viaggio nell'Oltretomba.

3
capacità di celebrare tale rito, essi erano auguri ancor prima che Roma nascesse4.

I luoghi ove era possibile appellarsi a tali pratiche divinatorie, questi erano chiamati oracoli.
Per quanto semplice ed esaustiva questa definizione possa sembrare, risulta comunque
riduttiva, giacché limitata è la nostra capacità di marcare i contorni di cosa sia esattamente un
oracolo: all'interno di questa categoria sembra che gli antichi comprendessero quei santuari
aventi proprietà curative, ove si svolgeva la pratica della incubatio, che prevedeva la
concessione della guarigione da parte della divinità o dell'eroe tramite il sogno. La divinità
poteva intervenire in maniera prodigiosa e istantanea, guarendo nell'arco di una notte il
malato, oppure a quest'ultimo veniva assegnata un'azione rituale (spesso un sacrificio) da
compiere tramite un sogno premonitore, o ancora il sogno poteva avere una simbologia da
decifrare che i sacerdoti del luogo avrebbero penetrato, fornendo un rimedio medico adatto al
caso5. Questi santuari, nella stragrande maggioranza dei casi, sorsero in prossimità di sorgenti
naturali e le miracolose capacità curative potevano essere attribuite, oltre che all'intervento
delle grandi divinità mediche, anche alle sorgenti e alle acque stesse. Se i Greci affidavano
tutta la loro fiducia alle grandi divinità mediche (Apollo e suo figlio Asclepio), i popoli italici,
gli Etruschi ed i Romani, nonostante avessero integrato e adorassero quelle stesse divinità,
indirizzavano le loro preghiere di guarigione ad una grande varietà di dèi locali direttamente
legati alle sorgenti e alle acque.

Le sedi degli oracoli erano spesso identificate in una grotta naturale, vista come un accesso
all'Oltretomba, a testimoniare la natura, spesso ctonia, della pratica mantica. Potevano essere
considerati accessi all'Ade anche i laghi, poiché se gli antichi vedevano un fiume entrare in un
lago senza che il livello dell'acqua si alzasse, né vi fosse un flusso uscente, allora erano portati
a credere che l'acqua scendesse nel sottosuolo (per esempio il lago Avernus)6. I riti divinatori
legati ai morti, mutuati dai Greci ai Romani, prevedevano che il questuante pernottasse in una
grotta, naturale o artificiale, affinché i morti lo contattassero in sogno 7. I morti potevano
essere contattati per diversi motivi: conoscere la verità, conoscere il futuro, riabbracciare
persone care, irrobustire le proprie credenze. Per quanto concerne la divinazione, due grandi
opere sintetizzano i possibili metodi utilizzati per ottenere un responso oracolare dai defunti,
tema ripetuto con infinite varianti nella mitologia. Ulisse effettua una nékyia, ossia
un'evocazione, attirando a sé le ombre con il sangue di un sacrificio animale, per poter
interrogare l'indovino Tiresia e conoscere la propria sorte. La nékyia finisce per divenire una
4 CICERONE, De Divinazione, I, 107: Romulus augur, ut apud Ennium est, cum fratre item augure.
5 BLOCH 1981, pp. 27 - 28.
6 CURNOW 2004, p. 8. Sulle diverse forme di oracolo, si veda tutto il capitolo introduttivo.
7 OGDEN 2001, pp. 18 - 19.

4
catàbasi, una vera e propria discesa nell'Oltretomba8. Più tardi anche Enea discende negli
Inferi, ripetendo in gran parte i gesti compiuti dal re di Itaca. L'eroe troiano riemergerà nel
mondo dei vivi attraverso la porta d'avorio dei sogni, ribadendo così lo stretto legame che per
gli antichi univa il sogno all'Aldilà 9. I Romani non apprezzarono mai la necromanzia, cioè la
pratica divinatoria che consiste nella consultazione dei morti, tanto che la collegavano ad
azioni turpi come il sacrificio umano. Già nella Repubblica, Cicerone accusa Vatinio di essere
un necromante e di sacrificare agli spiriti dei morti le interiora di fanciulli 10. Sembra ben più
probabile che il timore nei confronti di questa pratica, più che generato dall'eventualità di
sacrifici umani, derivasse dalla paura diffusa presso i Romani nei confronti dei culti stranieri
che, secondo loro, potessero turbare le loro tradizioni e rivoluzionare il mos maiorum. Inoltre,
dato che la necromanzia veniva spesso consultata per conoscere il momento della morte di
qualcuno, gli imperatori la temettero fin da subito come possibile strumento di rivolta. Per
questo Augusto bandì l'uso di qualsiasi divinazione atta a predire la morte di qualcuno e
Tiberio stabilì la pena capitale per chiunque consultasse un oracolo per conoscere la morte
dell'imperatore11.

I.2 Cleromanzia e sortes nelle fonti scritte ed iconografiche

La cleromanzia è una pratica divinatoria (il termine deriva dal greco kleros- "sorte" e
-manteia "indovinare") basata sull'uso di un insieme di oggetti tra cui sceglierne uno in
maniera casuale: questi possono essere il lancio di dadi o astragali oppure l'estrazione di
oggetti inscritti di vari materiali, diffusa, al pari delle altre forme di oracolo trattate in
precedenza (I.1), in tutta l'area del Mediterraneo. Altro termine per indicare questa pratica è
"sortilegio", che nel suo significato odierno indica genericamente una magia o un
incantesimo, ma che deriva dal latino sortem- "sorte" e -lego "lèggere". Il fatto che il
corrispettivo latino del termine greco indichi un'azione precisa, cioè quella della lettura, ci
viene a suggerire qualcosa di già noto tramite altre fonti: la maggior parte degli oracoli
dell'Italia antica prevedevano l'estrazione di oggetti sui quali era inscritto il responso
oracolare, le sortes. La parola sors deriva dal verbo sĕro, che vuol dire "intrecciare", "legare
8 OMERO, Odissea, canto XI. A partire da XI, 568 la nékyia diviene catàbasi.
9 VIRGILIO, Eneide, libro VI. Nello specifico VI, 893 – 896: sulle porte dell'Ade.
10 CICERONE, Contro Vatinio, 14 : [..]cum inferorum animas elicere, cum puerorum extis deos manis mactare
soleas[..].
11 OGDEN 2001, p. 156.

5
insieme", come scrive Varrone12, che spiega anche il suo senso di legare insieme uomini e
cose con il tempo. Per questo motivo è possibile ritenere che le sortes fossero in qualche
maniera legate insieme o che la parola abbia delle radici più antiche, Proto-Italiche e Proto-
Indo-Europee, che le conferiscano il senso di "collegare"13. Esiste una teoria secondo la quale
la parola deriverebbe dall'Etrusco surθi, in connessione con la divinità etrusca Suri,
controparte dell'Apollo oracolare greco e divinità del Monte Soratte 14. In tutta la penisola si
possono identificare tra i 15 e i 25 oracoli, un numero assai impreciso dovuto alla poca
uniformità, alla scarsità delle fonti che trattano tale argomento ed alle conseguenti controverse
interpretazioni da questo derivate. Difficile risulta anche l'identificazione esatta dei luoghi
dove gli oracoli erano ubicati, la fama di cui godevano (salvo pochi casi più celebri, come ad
esempio Cuma e Praeneste), il personale impiegato e come si svolgessero le pratiche
divinatorie. Su queste ultime possiamo supporre che, visto il silenzio delle fonti, ci fosse la
volontà da parte dei praticanti di far sì che l'esatto iter esecutivo del processo mantico
rimanesse un segreto15. Il metodo di estrazione, al pari della forma, dimensione e materiale
dell'oggetto estratto potevano variare da oracolo ad oracolo, così come differente poteva
essere l'iscrizione, fosse essa un simbolo o, più probabilmente in Italia, un'intera frase; varia
era, inoltre, la modalità con cui veniva posta la domanda da parte del richiedente. L'estrazione
di singole lettere è nota per il solo mondo greco e riguarda esclusivamente responsi già
precedentemente stilati. Risulta improbabile, per quanto suggestiva, l'interpretazione basata
sull'espressione litterarum notis usata da Cicerone per descrivere le sortes di Praeneste16, che
si riferirebbe al fatto che queste recassero inscritte singole lettere dell'alfabeto 17. Al fine di
comprendere quanto possibile sulla cleromanzia e, quindi, sugli oracoli del Latium Vetus, è
necessario prendere in esame tutti quegli oggetti fino ad ora definiti sortes. Il gruppo risulta
estremamente eterogeneo, se si escludono le dimensioni contenute, unica caratteristica
comune fra tutti i diversi elementi che lo compongono. Alcune sortes possono recare inciso
solo un simbolo o il nome di una divinità, anche se in questo caso sembrano essere oggetti
finalizzati ad altre funzioni diverse dal responso oracolare. Come si è già accennato (vedi
sopra), l'iscrizione del responso oracolare per intero sulla sors sembra essere una caratteristica
peculiare degli oracoli italici, dato che in nessuna altra parte del Mediterraneo si trovano
riscontri simili, quindi su questo concentreremo la nostra attenzione. La risposta si trova

12 VARRONE, De Lingua Latina, VI, 65.


13 DE VAAN 2008, s.v. sors.
14 PITTAU 1988, pp. 155 - 157.
15 CURNOW 2004, p. 12.
16 CICERONE, De Divinatione, II, 85.
17 ZEVI 1982, pp. 607 – 608 : Lo stesso Zevi risulta scettico a riguardo.

6
scritta per lo più in lingua latina, ma vi sono esempi
anche in altre lingue, ad esempio osco ed etrusco. Prima
di analizzare gli oggetti noti come sortes, è necessario
aprire una breve parentesi sulle fonti letterarie ed
iconografiche che le descrivono e le rappresentano. In un
passo già citato di Cicerone, il celebre oratore ci racconta
l'origine del santuario di Praeneste, descrivendo le sortes
rinvenute da Numerio Suffustio all'interno di una roccia
Fig. 1 - Moneta di M. Plaetorius
come fatte in legno di quercia18. L'uso del legno per Cestianus.
questo genere di strumenti divinatori sembra far parte (Foto: www.wildwinds.com)

della tradizione indo-europea e trova riferimento in altre


fonti19, ma non sembra essere attestato altrove per quanto riguarda l'Italia, forse perché il
materiale di supporto originario fu con il tempo sostituito dal metallo20.

Possiamo farci un'idea dell'aspetto delle sortes osservando le fonti iconografiche a nostra
disposizione. La moneta di M. Plaetorius Cestianus del 57 a.C. (Fig. 1), mostra al rovescio
una fanciulla, forse la dea Fortuna, che regge tra le mani un oggetto rettangolare con sopra
scritto sors. In una cista di metà del III a.C. proveniente da Praeneste ed oggi conservata nel
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, un togato estrae da una cavità quella che sembra
essere una tavoletta, di nuovo di forma rettangolare, che potrebbe essere una sors dalle
dimensioni esagerate per via dell'importanza che ricopre nella scena di divinazione 21, anche se
alcuni ritengono possa trattarsi di un semplice foglio 22, dove forse venivano scritti i testi delle
sorti estratte prima di effettuare il responso (Fig. 26). Questa seconda ipotesi sembra più
plausibile, dato che in altri rilievi lo stesso oggetto risulta centrale alla scena, ma non per
questo ne viene esagerata la grandezza (vedi sotto).

Stessa forma e dimensioni ridotte, come nel caso della sors nella moneta della gens Plaetoria,
torna nella scena centrale di un rilievo ritrovato ad Ostia all'interno dell'aria sacra di Ercole. Il
rilievo marmoreo, datato su base epigrafica tra il I a.C. e non oltre i primi decenni del I d.C. e
titolato all'aruspice Fulvius Salvis, nome etrusco latinizzato in cognomen23, che non sappiamo
se fosse il richiedente o il sortilegus, cioè colui che interpreta gli scritti delle sortes estratte,

18 CICERONE, De Divinatione, II, 85.


19 TACITO, La Germania 10, 1-3 : sui Germani. PLINIO, Nat. Hist. 25, 59, 16: sui Celti.
20 CHAMPEAUX 1986, pp. 96 - 97.
21 COARELLI 1987, p. 71.
22 REIMANN 1984, p. 390.
23 BECATTI 1939, p. 50.

7
mostra il dio Ercole che consegna un oggetto rettangolare, appena estratto da una cassetta
ancora aperta, ad un fanciullo (Fig. 11). L'oggetto è inscritto ed una prima interpretazione è
stata data da Becatti, che riferisce l'indicazione ivi posta all'intera cassetta, ricostruendo
[S]ORT(ES) H (ERCVLIS)24. Di recente è stata proposta una nuova lettura: [S]ORT(IS) H
(ERCVLIS), basata sulla forma arcaica del nominativo singolare sortis che permette di riferire
l'epigrafe al singolo oggetto e che viene riscontrata anche altrove 25. Altre rappresentazioni di
sortes si trovano in due rilievi su urne etrusche, entrambe raffiguranti una scena di
cleromanzia (Fig. 2). In entrambi questi rilievi le sortes hanno forma rettangolare, anche se
differiscono per dimensioni e la più piccola, estratta da un sacerdote, è provvista di
un'estensione semicircolare o di un disco. L'altra, impugnata da una puella, potrebbe essere
una semplice tavoletta, come nel caso della cista prenestina. Maggiani ci fa notare come
questo rilievo raffiguri una scena mitica, forse una narrazione greca rivissuta in chiave
etrusca, dato che il sacerdote assiste all'estrazione con indosso il costume nazionale
dell'aruspice26. E' curioso notare come, nonostante la fonte a nostra disposizione ci comunichi
che le sortes fossero estratte dalla mano innocente di un fanciullo 27, o di una fanciulla nel caso
dell'urna etrusca conservata al Museo Archeologico di Firenze, in entrambe le immagini
questi giovinetti sembrano stringere in mano una semplice tavoletta e non una vera e propria
sors, persino nel caso della cista da Praeneste, nella quale la scena raffigurata è proprio la
stessa descritta da Cicerone. Nella terza scena del documento di Ostia la figura togata ha in
mano quello che potrebbe essere un dittico aperto, molto simile alle tavolette dei fanciulli, e
per questo è stato teorizzato che le sortes potrebbero essere dittici chiusi28 che, dopo essere
stati estratti da mano innocente, vengono aperti e passati all'interprete. Questa tesi, tuttavia,
non è supportata da nessuna delle sortes, o presunte tali, rinvenute sino ad ora in Italia.

24 BECATTI 1939, p. 47.


25 KLINGSHIRN 2006, p. 145. L'uso del nominativo singolare arcaico sortis è presente in PLAUTO, Casina , 380:
Vide ne quae illic insit alia sortis sub aqua.
26 MAGGIANI 1994, p. 75.
27 CICERONE, De Divinatione, II, 86: sortis... pueri manu miscentur atque ducuntur; TIBULLO Elegiae I, 3,
11: ...illa sacras pueri sortes ter sustulit.
28 BECATTI 1939, p. 51.

8
Fig. 2 - Rilievi da urne etrusche con scene di estrazione delle sortes.
A = Museo Archeologico Nazionale di Firenze, inv. 5774.
B = Museo Etrusco Guarnacci, Volterra, inv. 201. (Foto: Maggiani 1994, figg. 21 ;22)

9
No hole Hole
Certain sortes 1 Fiesole, 2 Bahareno, 3 Fornovo, 1 1 Bahareno = 1
Arezzo (stone) = 7
Uncertain sortes 2 Peglio, 1 Tarquinia, 1 Fontanile di 1 Cipollara = 1
Legnisina, 1 Perugia = 5
Objects previously considered as 1 "Cumae", 1 Saepinum, 1 Arezzo 1 Pyrgi, 1 Punta della vipera, 1
sortes but which probably are not (disc), 1 Frentania, 1 Kamarina, 36 Torino di Sangro, 1 Chiusi = 4
Monte Altare = 41
Total 53 6

Fig. 3 - Tabella sull'incidenza dei fori nelle sortes. (Buchholz 2013, p. 116)

Alcune delle sortes, o presunte tali, rinvenute in varie parti dell'Italia possiedono dei fori,
anche se uno studio recente ha dimostrato la poca incidenza della presenza del foro come
rilevante per la definizione di questa classe di oggetti (Fig. 3).

La presenza, tuttavia, di questi fori ha suscitato l'interesse, in tempi recenti, di molti studiosi, i
quali hanno proposto che le sortes fossero legate insieme con un filo e quindi appese durante
la consultazione29. Basandoci sull'etimologia della parola data da Varrone, non possiamo
affermare con certezza che le sorti fossero legate durante la pratica divinatoria che le
coinvolgeva, perché potrebbero anche essere state legate per meglio riporle o a piccoli gruppi,
per facilitare la consultazione di determinati temi a seconda della domanda posta 30, o non
essere state legate affatto31. Potrebbero inoltre essere state legate a prescindere dalla presenza
o meno di fori. Un passaggio, stavolta di Tito Livio, è stato analizzato per supportare la teoria
delle sorti appese durante la consultazione: si parla qui di Falerii e si dice che sortes sua
sponte adtenuatas unamque excidisse32. Una delle sorti del racconto di Livio è perciò caduta,
come ci esplica il verbo excidere, spontaneamente (sua sponte) dalla corda o catena che la
teneva appesa durante la divinazione33, oppure dal contenitore nel quale veniva conservata
insieme alle altre34.

L'aggettivo che definisce le sorti, adtenuatas, ci suggerisce che queste si fossero ristrette di
dimensione ed eventualmente l'anello di una si fosse consumato, provocandone la caduta 35.
Stesso destino avrebbero subito quelle di Caere, sempre stando a quanto riporta Livio36. Se le
29 DEGRASSI 1962, p. 1024, LA REGINA – TORELLI 1968, pp. 225 – 226, CHAMPEAUX 1989, pp. 65 - 72.
30 BUCHHOLZ 2013, pp. 117.
31 YOSHIMURA 1962, pp. 52 - 54.
32 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, XXII, 1, 11.
33 DEGRASSI 1962, p. 1024; LATTE 1960, p. 178; LA REGINA – TORELLI 1968, pp. 225 – 226; CHAMPEAUX 1989,
pp. 65 - 72.
34 BUCHHOLZ 2013, pp. 118.
35 CHAMPEAUX 1989, 65 - 72.
36 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, XXI, 62, 5: Caere sortes extenuatas. Extenuare è qui sinonimo di adtenuare;

10
sorti in questione fossero state di metallo, il restringimento sarebbe risultato alquanto
improbabile e forse allora l'attributo sarebbe da assegnare al laccio che le sosteneva 37; se
fossero state di legno, avrebbero potuto restringersi perdendo umidità, a maggior ragione se
fossero state conservate in acqua38. Forse le sorti non si erano ristrette, ma erano diminuite di
numero39 o erano andate perdute40. Niente in questi passaggi di Livio ci suggerisce che le
sortes possedessero un foro, né possiamo affermare con chiarezza che fossero legate. Esiste
anche l'eventualità che le sorti si fossero ristrette, indipendentemente dal materiale di cui
erano fatte, in virtù di un prodigio e che questo fosse un presagio di sventura imminente: il
contesto in cui sono inseriti gli accadimenti descritti ben si configura per questa ipotesi, ma
come per le proposte precedenti non è possibile confutarlo con certezza.

Le fonti scritte ci parlano anche dei responsi oracolari, dandoci la possibilità di immaginare
così la lunghezza e la forma dei testi che venivano inscritti sulle sortes. Gli esempi che
abbiamo per la penisola italica sono pochi e solo uno tra questi si riferisce a fatti storici
realmente accaduti: in un passaggio già citato di Livio, la sors caduta che avvisa della calata
di Annibale in Italia reca inscritto un avvertimento: Mavors telum suum concutit41. Vi sono poi
esempi di storie di fantasia, ma che traggono ispirazione da responsi oracolari usuali. Il primo
è quello che Aulo Gellio attribuisce ad una commedia di Plauto andata perduta e che riguarda
una risposta data dall'oracolo di Arezzo: Peribo, si non fecero, si faxo, vapulabo42. Il secondo
viene da Apuleio: in un passaggio del suo romanzo, l'autore ci descrive dei truffatori che,
spacciatisi per sacerdoti, si inventano una predizione che si adatta ad ogni situazione: ideo
coniuncti terram proscindunt boves, ut futurum laeta germinent sata 43. Questi esempi
suggeriscono che le iscrizioni sulle sortes fossero piuttosto brevi, composte da una o due frasi
di natura simbolica e sufficientemente ambigue da rendere la risposta adattabile ad una vasta
gamma di domande.

XXI, 62, 8: [..] ubi sortes adtenuatae erant.


37 LATTE 1960, 177- 178; CHAMPEAUX 1989, pp. 65 - 72.
38 BUCHHOLZ 2013, p. 118.
39 YOSHIMURA 1961, pp. 54 - 55.
40 LA REGINA – TORELLI 1968, pp. 225 - 226.
41 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, XXII, 1, 11.
42 AULO GELLIO, Noctes Atticae, III, 3, 8: cita PLAUTO, Fretum.
43 APULEIO, Le Metamorfosi, IX, 8.

11
I.3 Le Sortes: dall'iconografia all'oggetto

L'analisi delle fonti letterarie ed iconografiche ci ha lasciato un'immagine piuttosto precisa di


come possa essere fatta una sors: una tavoletta rettangolare, in legno o metallo, con sopra
un'iscrizione breve di una, massimo due frasi. La più grande collezione di sortes provenienti
da suolo italico attualmente riconosciuta, quella delle sortes di Bahareno, rientra
perfettamente nella descrizione sopracitata. Si tratta di 17 barrette in bronzo, rinvenute nella
seconda metà del 1500 in località sconosciuta e la cui scoperta è stata riportata da Aldo
Manuzio il giovane, vissuto dal 1547 al 1597 44. Molte, se non tutte, possedevano dei dischetti
ad una estremità, in alcuni casi forati. Oggi ne restano solo tre, due conservate presso il
Museo Archeologico di Firenze (Fig. 4) ed una nella Biblioteca Nazionale di Parigi45, le cui
dimensioni sono pressoché identiche (sono lunghe cm 14.5 e spesse cm 0.5), se si esclude la
larghezza, che varia da cm 1.5 di CIL 2184 a cm 1.9 di CIL 2189, fino a cm 2.05 di CIL 2182.
I testi delle restanti 14 barrette rimangono conservati in alcuni manoscritti del sedicesimo
secolo. Le iscrizioni, su un solo lato, sono composte tutte da una o due frasi, alcune
chiaramente positive, altre chiaramente negative, mentre altre ancora risultano indeterminate;
talune danno avvertimenti universali o detti popolari, talaltre sono critiche nei confronti del
richiedente o del modo in cui questi ha posto la domanda. Queste ultime risposte provocatorie
potrebbero suggerire che le sortes di Bahareno appartenevano ad un indovino itinerante, o
forse la provocazione era adoperata per ammonire chi dimostrava poco rispetto per il
personale dell'oracolo46. Date le scarse doti poetiche di chi ha composto le frasi e la banalità
delle risposte, la prima ipotesi sembra quella più verosimile 47. L'uso di alcune forme verbali
lega questi oggetti alla consultazione cleromantica: consulere, consilium petere, rogitare48. La
lingua utilizza alcuni termini arcaici, forse perché si tratta di una trascrizione di responsi più
antichi su sorti che il tempo può aver logorato, forse per conferire maggiore autorevolezza ai
responsi, e le leggi della metrica non sono sempre rispettate. Proprio sulla metrica sono state
fornite diverse interpretazioni, ma sembra futile forzare le iscrizioni all'interno di un
determinato metro, perché molto probabilmente le risposte erano pensate per non rispettarne

44 CIL I, 1438 – 1454 = CIL I², n.2173 – 2189; CLE 331; I disegni originali si trovano nel Codex Vaticanus
Latinus 5248. Per quanto riguarda la località di rinvenimento, si parla di "Bahareno della Montagna ubi
dicitur Casaleccio".
45 CIL I², 2182 e 2184 (Firenze, inv. 1911, 2128); CIL I², 2189 (Paris, Biblioteca Nazionale, Cabinet des
mèdailles).
46 BUCHHOLZ 2013, p. 122.
47 DEGRASSI 1951, p. 358 = DEGRASSI 1962, p. 1025.
48 BUCHHOLZ 2013, p. 122.

12
Fig. 4 - Le sortes di Bahareno conservate al Museo rcheologico Nazionale di Firenze, inv. 2128; inv. 1161.
(Foto: Maggiani 1994, figg. 12 - 15)

alcuno49. Il luogo di rinvenimento delle sortes, come sopra detto, non è stato identificato. Dato
che quasi tutte le iscrizioni contenute nel codex Vaticanus Latinus 5248 provengono da
Padova e da Vicenza, è lecito pensare che questo "Bahareno della Montagna ubi dicitur
Casaleccio" si trovi in Veneto. Le sortes sono state più volte collegate con l'oracolo di
Montegrotto50, forse lo stesso detto di Gerione, citato da Suetonio 51. Differisce da questa
teoria Maggiani, autore della scoperta di una dedica alla dea Diana su una delle sortes del
Museo Archeologico Nazionale di Firenze; sul retro di CIL 2182, infatti, si trova al centro
l'iscrizione dian.d, interpretata come dian(ai).D(onum). Questa dedica, unitamente al
toponimo "Casaleccio" ed alla sua possibile derivazione da quercus ilex, che fa pensare ad un
bosco sacro, secondo Maggiani renderebbe possibile la provenienza delle sortes da un
santuario di Diana, nello specifico da quello ben conosciuto di Nemi 52, in Lazio. Tutte le
caratteristiche delle barrette di bronzo di Bahareno sembrano far rientrare questi oggetti a

49 BUCHHOLZ 2013, p. 123.


50 DEGRASSI 1951, p. 356 = DEGRASSI 1962, p. 1023; CHAMPEAUX 1990, pa. 108.
51 SUETONIO, Tiberio, 14.
52 MAGGIANI 1994, p. 72.

13
Fig. 5 - Placca in bronzo proveniente dall'Ara della Regina di Tarquinia. (Foto: Maggiani 1994, fig. 11)

pieno titolo nella categoria delle sortes. Il fatto che non tutte possedessero un foro nel
dischetto all'estremità, potrebbe significare che alcuni di questi oggetti siano in realtà dei
votivi, fatti come delle vere sortes, su cui il dedicante ha fatto incidere il responso oracolare
ricevuto. La sors dedicata a Diana, ad esempio, non possiede alcun foro sul dischetto
all'estremità. Se anche questo fosse vero, l'aspetto dato dalle fonti iconografiche resterebbe
invariato. Vale la pena, inoltre, di osservare la questione dei fori da un punto di vista
diametralmente opposto rispetto a quello considerato sino ad ora: i votivi potrebbero essere
proprio le sortes forate, così fabbricate per poter essere appese (ad un ramo?). Per quanto
riguarda la datazione, Mommsen le attribuì alla prima metà del I a.C. e la paleografia delle tre
che si sono conservate lo confermerebbe53. Meno chiara risulta la datazione di una placca
rettangolare in bronzo proveniente dall'Ara della Regina di Tarquinia 54, che va dal IV a.C.55
alla prima metà del II a.C.56 (Fig. 5). Questo oggetto, in passato considerato parte di un'arma 57,
è lungo cm 6, largo cm 1.3 e spesso cm 0.2 - 0.3, è privo di dischetto o anello ad una delle
estremità, forse perché ex voto a imitazione di una sors58. L'iscrizione sinistrorsa Artum [---]
sembra riferirsi alla divinità etrusca Artumes al nominativo o al genivito59. La mancata
conoscenza della divinità a cui era dedicata l'Ara della Regina rende impossibile stabilire se
nel santuario stesso fosse presente un oracolo o se la placchetta sia un votivo offerto dopo una
consultazione svoltasi altrove. Un'altra placchetta in bronzo, molto simile a quella di
Tarquinia, è quella rinvenuta in località Cipollara, tra Viterbo e Tuscania. L'esatto luogo del
ritrovamento, avvenuto nel diciottesimo secolo, resta ad oggi ignoto60.

Le dimensioni della presunta sors sono di cm 10.1 in lunghezza, cm 1 in larghezza e cm 0.3 in

53 BÜCHELER 1895, CLE, 331, p. 160.


54 CIE 10006 (Archivio Museo di Tarquinia, inv. 2750).
55 COLONNA 1985, p. 77, 4.4 B.
56 MAGGIANI 1994, p. 71.
57 COLONNA 1985, p. 77, 4.4 B.
58 MAGGIANI 1994, p. 71.
59 BUCHHOLZ 2013, p. 136.
60 FABRETTI 1867, n. 2083 = CIE 10498 (Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, inv. 24427).

14
spessore, con un foro all'estremità destra, e anche in questo caso, come nel precedente, le
interpretazioni sulla datazione variano dal IV a.C.61 al II a.C.62 La presenza del foro, come
detto in precedenza, può significare che si tratti di una sorte che veniva appesa durante la
cleromanzia, o che fosse un ex voto. La scritta, in etrusco, si legge Savcnes Suris con
entrambe le parole al genitivo. Savcne è probabilmente una divinità dalle caratteristiche
ctonie, di cui ignoriamo qualsiasi altro possibile aspetto 63. Riguardo a Suri, sappiamo dalle
fonti che questi era la divinità del monte Soratte e che possedeva caratteristiche ctonie, che
spesso ritroviamo negli dei oracolari, così come nella sua controparte latina: Apollo
Soranus64.Come già detto in precedenza, è possibile che il nome derivi dall'etrusco *surthi, da
cui potrebbe derivare a sua volta la parola sors65.

Il nome di Suri compare di nuovo su una placca in bronzo ritrovata a Fontanile di Legnisina
(Vulci) in stato frammentario, se si fa fede al restauro della scritta [---]ur[---] in Suri66.

Un altro frammento di placca in bronzo, databile tra il III a.C. e il II a.C., è stato ritrovato nei
pressi di Perugia, con l'iscrizione lurmit[---], e considerato, secondo la ricostruzione
lurmit[lacver], una sors dedicata a Lurmi, divinità oracolare etrusca67.

Rispetto alle sortes di Bahareno, gli ultimi casi descritti, la placchetta in bronzo da Tarquinia,
quella da Cipollara, i frammenti da Vulci e Perugia, hanno tutti iscritti solamente nomi di
divinità (etrusche), anziché responsi completi. Questo potrebbe suggerire che in realtà si tratti
di etichette, i cui fori servivano per agganciarle con dei chiodi ad un oggetto. Nella maggior
parte dei casi i fori su di un'etichetta erano due, come per esempio le placchette trovate a
Posta di Mesa lungo la via Appia, simili per dimensioni a quelle già trattate (lunghezza cm 8,
larghezza cm 2, spessore cm 0.15), con iscritti nomi di dèi al dativo in latino arcaico:
Apolenei, Cererei, Dianai, Diovei, Herclei, Neptuno. I fori e i chiodi rimanenti fanno pensare
che dovessero essere attaccate a qualcosa, probabilmente ad un altare68.

Le placche in bronzo prese in esame, dunque, hanno tutte grossomodo le stesse dimensioni,
solo quella proveniente da Cipollara presenta un foro ad una estremità e le divinità
menzionate nelle iscrizioni risultano solamente etrusche. Ognuna di esse potrebbe essere
un'etichetta, o una sors, o un votivo a forma di sors.
61 COLONNA 1971, p. 370.
62 MAGGIANI 2005, p. 69.
63 BUCHHOLZ 2013, p. 136.
64 SERVIO, Aen. XI, 785. Sul carattere ctonio di Suri: dis manibus consecratus.
65 PITTAU 1988, pp. 156 - 157.
66 RICCIARDI 1988 - 1989, p. 195 n. 88, figg. 14, 53.
67 MARAS 1998, p. 331.
68 COARELLI 2005, pp. 181 - 190.

15
Fig. 6 - Foglia in bronzo da Pyrgi. (Colonna 2006, VIII.8, p. 137)

I.4 Sortes di forme varie

Vi sono oggetti che hanno alcune caratteristiche peculiari delle sortes, ma differiscono nella
forma da quelle che abbiamo visto rappresentate nell'iconografia e che trovano riscontro nelle
barre o placche, con disco o anello ad una estremità, o prive di entrambi.

In due differenti punti di Pyrgi sono state rinvenute delle lamine in bronzo modellate a forma
di foglie di alloro (Fig. 6), dalle dimensioni di cm 18 x cm 6.5, datate intorno al 470 a.C. per
confronto con altri oggetti rinvenuti negli stessi strati 69. Le foglie hanno dei fori alla base, per
poterle legare insieme con un filo, e sono prive di iscrizione. I luoghi dove sono state
rinvenute queste lamine, che si trovavano insieme ad altri oggetti di vario tipo, sono stati
identificati come dei depositi di offerte sepolte per la fondazione degli altari nei pressi,
dedicati a Suri ed alla sua sposa Cavatha, entrambe divinità ctonie dotate di poteri oracolari.
Esiste un precedente letterario che descrive l'utilizzo di foglie come supporti per scrivervi
responsi oracolari, riferito alla celebre Sibilla Cumana 70, cosa che ha fatto interpretare questi
oggetti come sortes. L'evocativa scena di Virgilio non descrive, tuttavia, una pratica
cleromantica, ma un furor estatico proprio della divinazione naturale. Questa considerazione,
unitamente alla proposta già fatta in precedenza sulle sortes o presunte tali che presentano un
foro o un anello, all'assenza di esempi analoghi in altre pratiche oracolari in Italia ed al fatto
che sono prive di iscrizioni, fa propondere per interpretare questi oggetti come votivi, o in
ogni caso escludere che si tratti di sorti. Un disco con un breve testo in etrusco (Fig. 7),
proveniente dal santuario di Punta della Vipera a Santa Marinella viene considerato come
possibile sors. Il disco, realizzato in piombo, è spesso mm 5 - 6, ha un diametro di cm 4.1, al

69 COLONNA 1995, p. 443 e Tav. LIV e; COLONNA 2006, pp. 135 - 141.
70 VIRGILIO, Eneide, III, 443 - 452 e VI, 74.

16
Fig. 7 - Da sinistra a destra: disco in piombo proveniente da Punta della Vipera, fronte e retro
(Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma); disco da Torino di Sangro, disegno.
(Foto e disegno: La Regina - Torelli 1968, Tavv. LXVIII - LXIX - LXX)

centro si apre in un foro circolare di cm 0.9, ed è stato datato tra il V a.C. 71 ed il IV a.C72. E'
inscritto su entrambe le facce, ma il significato dei testi è tutt'ora controverso 73. Sulla faccia
più liscia si legge mevelces74 o mi helkes75 o mi helves76; sull'altra faccia, invece, sono possibili
sia la lettura zaruạa che quella zarịạa. Due delle interpretazioni dell'iscrizione sulla faccia più
liscia vogliono la formula mi seguito dal nome al genitivo, che è tipico negli oggetti votivi e
pertanto farebbe scartare subito l'ipotesi che questo disco possa essere una sors77. In passato è
stato paragonato ad un altro disco, rinvenuto presso Torino di Sangro (Fig. 7), situato nella
provincia di Chieti, in virtù della forma e delle dimensioni analoghe (il disco misura cm 4 di
diametro con foro centrale), e della sua iscrizione78. Quest'ultima, se letta in osco (esiste anche
una lettura in latino, che porta a ben diverso significato del testo79) risulta aisos pa(cris), frase
ripetuta all'inizio della famosa tavola di Rapino, testo di una legge Marruccina, che può essere
interpretata come obnuntiatio augurale80. Questa eventualità non convince sul legame tra un
eventuale significato augurale del disco ed uno oracolare, forme divinatorie diverse nelle
pratiche. Inoltre, dischi di piombo inscritti a rilievo sono noti quasi esclusivamente in contesti
funerari81, risultando sì di natura ctonia, come vogliono spesso i culti oracolari, ma
appartenenti ad un ambito differente da quello divinatorio e nello specifico cleromantico, per
cui tali dischi avrebbero dovuto avere funzione di sors.
71 LA REGINA - TORELLI 1968, p. 221.
72 MAGGIANI 2005, p. 68 n. 131.
73 CIE 6310.
74 LA REGINA - TORELLI 1968, pp. 221 - 222.
75 MAGGIANI 2005, p. 68 n. 131.
76 RIX 1991, cr. 2.121, p. 38.
77 BUCHHOLZ 2013, p.138.
78 LA REGINA - TORELLI 1968, pp. 222 - 224.
79 CIL IX, 6092 = CIL I², 2399: Sosia Ap(pi servia?).
80 LA REGINA - TORELLI 1968, pp. 222 - 224: seguono l'interpretazione di VETTER, E. Handbuch der Italischen
Dialekten, I. Heidelberg, 1953, p. 154.
81 BUCHHOLZ 2013, p. 138; LA REGINA - TORELLI 1968, p. 222.

17
Altro paragone atto a supportare la teoria che il disco
di Punta della Vipera e di conseguenza quello di
Torino di Sangro fossero sortes è stato proposto con
un disco proveniente da Cuma (Fig. 8), la cui storia
degli studi più recenti è egregiamente raccolta dalla
Guarducci82. Tuttavia, molte sono le differenze tra il
disco cumano e gli altri due, nella forma, nelle
dimensioni e nel materiale di cui sono fatti. Partendo
dalla forma, notiamo che il disco di Cuma non
possiede alcun foro, mentre gli altri due ne sono Fig. 8 - Disco di "Cuma" (Foto:
dotati. Le dimensioni differiscono non di poco, dato Champeaux, J. "Sors oraculi: les oracles
en Italie sous la république et l'empire" in
che il primo ha un diametro di ben cm 8.8, mentre gli MEFRA 102(1990), pp. 271 - 302)
altri risultano più piccoli. Per quanto riguarda il
materiale, quello cumano è in bronzo, gli altri due in
piombo. Il testo del disco di Cuma, inoltre, è in lingua
greca.

In località Punta della Vipera è stato rinvenuto anche un altro oggetto legato in qualche modo
ad un probabile culto oracolare: si tratta di una tavoletta in bronzo, ritrovata in frammenti, le
cui dimensioni approssimative sono cm 2.7 in altezza, cm 0.1 in spessore, circa cm 13.6 in
lunghezza83. La tavoletta reca iscrizioni su entrambe le facce, piuttosto lunghe rispetto a
quelle viste sulle possibili sortes fino ad ora considerate: si potrebbe trattare di un responso
oracolare qui scritto dopo la consultazione. Buona parte dell'iscrizione non può essere
interpretata per via della frammentarietà del documento, ma si tratta quasi certamente di un
testo rituale, dove i numeri iniziali MMMCCC riguarderebbero l'eventuale sacrificio da
effettuare prima di poter ottenere un servizio religioso84. Questa prova non esclude una
probabile natura oracolare del santuario di Punta della Vipera, dedicato a Menerva, ma non
giustifica l'interpretazione del disco di cui si è parlato sopra come possibile sors.

82 GUARDUCCI 1946 - 1948, pp. 129 - 141.


83 TORELLI 1966, pp. 284 - 285.
84 LA REGINA - TORELLI 1966, p. 227.

18
Capitolo secondo

I santuari oracolari

II.1 Il santuario di Ercole ad Ostia

Abbiamo già parlato del rilievo proveniente da Ostia, indispensabile fonte iconografica per
riconoscere le sortes ed il modo in cui avveniva la loro estrazione durante la pratica
cleromantica. La presenza di questo rilievo testimonia l'esistenza di un culto oracolare
nell'antica città romana, lo svolgimento del quale cade nel luogo dove questo rilievo è stato
rinvenuto, cioè in un'area triangolare sita ad ovest al di fuori del castrum, delimitata tra la via
della Foce, la via pomeriale esterna (o via degli Horrea Epagathiana) ed il vicolo di Amore e
Psiche85. In quest'area insistono tre templi, di cui il maggiore dedicato ad Ercole, come indica
l'iscrizione su un altare ad oggi lì presente, datato in età tetrarchica, con inscritta la dedica deo
Herculi invicto86. Gli altri due, di dimensioni inferiori, sono i cosiddetti tempio "Tetrastilo",
dedicato ad Asclepio, e tempio "dell'Ara Rotonda", la cui divinità di culto non è stata
accertata. L'intera area segue grossomodo l'evoluzione urbanistica della città di Ostia, le cui
tappe principali si possono riassumere in tre fasi: la fase del castrum (IV - III a.C.), la città
tardo-repubblicana (II a.C. - I d.C.), la città alto-imperiale (a partire dal II d.C.) 87. A queste tre
fasi se ne aggiunge una ulteriore, antecedente a tutte le altre. Nella seconda fase il santuario è
un punto di congiunzione extraurbano sito fuori dal punto di accesso ad ovest della
fortificazione. Nella terza fase la crescita urbana ingloba l'area, rendendola parte del tessuto
urbano. A partire dalla quarta fase, infine, l'elevazione della quota dell'intera città in epoca
flavia determina profondi cambiamenti nella struttura del santuario, con l'edificazione di
numerose strutture e la probabile perdita della primitiva importanza. Qui, infatti, l'aspetto
guerriero della divinità preposta al culto oracolare, cioè Ercole, ha fatto supporre che la
divinazione in questo santuario fosse riservata ai comandanti delle flotte militari. Con
l'allontanamento della flotta da Ostia e la relativa calma della prima e media età imperiale 88, le
funzioni del santuario devono essere cambiate, in concomitanza con la dotazione di nuove
strutture di carattere differente rispetto all'ordine originario dell'area.
85 MAR 1991, p. 89.
86 BLOCH 1953a, p. 299 n. 65.
87 MAR 1990, p. 139.
88 PAVOLINI 1986, pp. 142 - 143.

19
Un santuario prima del castrum e le origini del culto

Non è possibile stabilire con esattezza il momento


in cui questo lembo di terra comincia ad essere
considerato un luogo sacro, ma possiamo
giustificare la sua nascita: quest'area triangolare si
trovava in un crocevia dove confluivano due
importanti vie di comunicazioni protostoriche: la
via Salaria Sabina e la via Salaria Albana che,
prima che sorgesse il castrum, confluivano
direttamente nella via della Foce. Come i nomi
delle vie suggeriscono, queste mettevano in
comunicazione rispettivamente i monti Sabini ed
Albani con le saline alla foce del Tevere89. In
questo incrocio di antiche strade possiamo
supporre fosse nato in origine un larario, prima
ancora che qui sorgesse il castrum ostiense (Fig.
Fig. 10 - Statua di C. Cartilius Poplicola.
9). Sappiamo inoltre che in questa zona, più (Museo Ostiense)
precisamente in via della Foce, proprio sul
perimetro del santuario, è presente un compitum che, come recita l'iscrizione dedicatoria,
venne spostato nel luogo dove è attualmente ubicato da C. Cartilius Poplicola a metà del I
a.C.90 Lo stretto legame tra Poplicola e l'area sacra è ben esplicato dalla presenza di una statua
votiva da lui dedicata e collocata all'interno del tempio di Ercole tra il secondo ed il terzo
duovirato, ritrovata acefala e datata tra il 40 e il 30 a.C.91 (Fig. 10) e dunque chi meglio di lui
avrebbe potuto decidere di spostare il sacellum dei Lari in un punto angolare del santuario.

Sempre dal tempio di Ercole proviene un altro elemento che induce a supporre una cronologia
alta per le origini del santuario, cioè il rilievo di Ercole (Fig.11) a cui abbiamo già accennato
parlando delle sortes (Cap I par. 2), dedicato, come indica l'iscrizione C • FULVIUS •
SALVIS • HARUSPEXS • D • D • dall'aruspice C.Fulvius Salvis. Questo rilievo descrive tre
scene che raccontano evidentemente l'origine del santuario di Ercole e la natura del culto
oracolare. L'esegesi del rilievo è stata svolta in maniera compiuta nel momento del suo

89 MAR 1996, p. 118.


90 CIL XIV supplementum ostiense, 4710; l'ipotesi in MAR 1990, p. 146.
91 CALZA 1958 , pp. 221 - 228.

20
Fig. 9 - Evoluzione urbanistica di Ostia.
A - Situazione anteriore alla fondazione della colonia marittima (SS = Salaria Sabina, SA = Salaria Albana);
B - Cambiamenti provocati dalla fondazione del castrum (H = Santuario di Ercole).
(Mar 1996, fig. 2, p. 119)

21
Fig. 11 - Rilievo dell'aruspice C.Fulvius Salvis. (Foto: Becatti 1939, p. 61)

22
rinvenimento92, anche se inizialmente era stato creduto in travertino e solo successivamente fu
riconosciuto il materiale come marmo pentelico93. La prima scena, sita nella parte destra del
rilievo, narra la pesca miracolosa ad opera di alcune figure, evidentemente pescatori come
suggerito dal loro abbigliamento, che trascinano a riva una rete nella quale è impigliata fino
alle ginocchia una statua di Ercole in posa da combattente, vestito con una lorica, che
imbraccia una clava a destra e tende il braccio sinistro in modo minaccioso. All'interno della
rete troviamo inoltre di fronte alla statua del dio una capsa o cista chiusa, che nella scena
successiva sarà aperta e da questa saranno estratte le sortes, ed alcuni elementi atti a
identificare lo spazio marittimo in cui si svolge la scena, cioè due pesci ed una barca. Nella
seconda scena, quella centrale, torna il dio vestito con la stessa lorica della scena precedente,
che consegna una sors, appena estratta dalla capsa o cista della scena precedente, ad un
fanciullo. Nella terza scena, a sinistra del rilievo, una figura togata che deve essere il
dedicante, l'aruspice Salvis, consegna una sors ad una figura mancante verso la quale una
vittoria in volo tende una corona. Il rilievo è datato su base epigrafica tra l'80 a.C. ed il 65
a.C.94 La statua del dio rappresentata nel rilievo sarebbe dunque la statua di culto del santuario
stesso e presenta delle caratteristiche ben precise. La corazza che Ercole indossa, oltre alla
posizione bellicosa assunta dal dio, trovano numerosissimi riscontri in bronzetti greci di varie
dimensioni che traggono i loro caratteri dalla scuola peloponnesiaca alla fine dell'arcaismo,
quindi il modello del rilievo della statua di culto di Ostia sarebbe di inizio V a.C. 95 Se
accettiamo questa ipotesi, la statua di Ercole diventa un chiaro richiamo all'antichità del suo
culto in quest'area96. Ribadisce una cronologia bassa un altro elemento, rinvenuto nel
riempimento al di sotto del pavimento più antico della cella del tempio di Ercole: trattasi di un
frammento di antefissa con la testa di un sileno datato in pieno IV a.C. 97 che, anche se non
attribuibile al tempio ove è stato ritrovato, ribadisce l'antichità della funzione cultuale
dell'intera area.

92 BECATTI 1939, pp. 37 - 60.


93 ZEVI 1976, p. 55.
94 BECATTI 1939, p. 47.
95 BECATTI 1939, p. 45.
96 MAR 1990, p. 146.
97 ZEVI 1971, p. 29.

23
La prima fase del santuario e l'inizio dell'espansione urbana

La prima fase edilizia del santuario è costituita dai tre templi già nominati, costituiti da opus
quadratum e reticulatum, a cui si accostano quattro are in peperino di forma rettangolare e un
culto dell'acqua Salvia attestato da fonti epigrafiche (Fig. 12). Le quattro are in peperino, in
pessimo stato di conservazione, sono genericamente datate, per la pietra impiegata nella loro
realizzazione, in età sillana o prima di Silla98; solo una, invece, è attribuita alla metà del III
a.C. per via del profilo della sua modanatura99. Le are in questione potrebbero avere un
legame con i sodales arulenses (Arula era il nome di un centro religioso pre-romano presso la
foce del Tevere), come ipotizzato da Meiggs, per via del loro nome che potrebbe derivare da
arula, cioè piccola ara, e la cura di queste are, appunto, sarebbe stata responsabilità loro 100.
Non è nota l'ubicazione originaria delle are che, consacrate, non potevano essere distrutte e
furono quindi spostate in epoca traianea all'interno di una struttura appositamente edificata per
contenerle. Per quanto riguarda il culto dell'acqua Salvia, esso è attestato da un'ara in marmo
lunense101 reimpiegata nel mitreo della Casa di Diana (Fig. 13), ma che originariamente
doveva trovarsi all'interno del recinto sacro del santuario di Ercole, analizzata da Becatti102. La
dedica all'acqua Salvia è ripetuta su due lati dell'oggetto, su un lato corto (A) come AQVA •
SALVIA | HERCLI • SAC e poi di nuovo su un lato lungo (B) come originariamente AQVA •
SALVIA | HERCLI • SACR • a cui poi si aggiungono alcune lettere scolpite più rozzamente a
integrare in AQVAE • SALVIAE | ET HERCLI • SACR • da cui si evince un legame tra aqua
Salvia ed il cognomen dell'aruspisce dedicante il rilievo di cui si è già trattato, C. Fulvius
Salvis, probabilmente in quanto aquilex103. Dell'ara rimane un lato con il pulvino decorato ad
un'estremità da una rosetta a tre petali e una cornice a listello e gola diritta, mentre gli
elementi a rilievo sono stati per la maggior parte asportati e abrasi da alcune modifiche per
poter reimpiegare l'altare all'interno del mitreo, fatta eccezione per la corona di quercia sul
lato D. Il lato lungo presenta un grosso foro che attraversa la pietra da parte a parte, che ha
quasi del tutto asportato il rilievo, di cui tuttavia si conserva sul margine destro un braccio
nudo che tiene in mano un oggetto cilindrico dotato di due anse, sul margine sinistro forse una
gamba. Il lato A presenta la raffigurazione di una oinochoe e di una patera, oggetti rituali di

98 BECATTI 1953, pp. 106 - 107.


99 SHOE 1965, p. 157, tav. 50.3.
100 MEIGGS 1960, pp. 340 - 341.
101 CIL XIV supplementum ostiense, 4280.
102 BECATTI 1942, pp. 115 - 125.
103 ZEVI 1976, p. 54 nota 5.

24
Fig. 12 - Il santuario di Ercole in epoca tardo-repubblicana. (Mar 1996, fig. 3, p. 120)

Fig. 13 - Ara ostiense. In evidenza i 3 lati con elementi del culto dell'acqua Salvia.
(Becatti 1942. A = fig. 3, p.118; B = fig. 1, p.116; C = fig. 4, p.119)

25
uso comune. Il lato C presenta quella che sembra una rappresentazione più in grande della
tazza in mano alla figura sul lato A, con in basso una minuscola ara cilindrica con sopra un
cono che forse rappresenterebbe il fuoco, o delle offerte. Il materiale di cui è composta l'ara, il
marmo lunense, fissa come termine post quem la metà del I a.C. ed i caratteri epigrafici
sembrano indicare come data plausibile la prima età augustea104.

Il tempio di Ercole viene datato principalmente sulla base della tecnica edilizia: è costituito da
un podio di m 31 x 16 in cementizio rivestito da tufo, con una base rinforzata da due gradini
in travertino, e l'alzato della cella, in opus quasi reticulatum rinforzato alle estremità da
blocchi in tufo. Il tempio è esastilio e prostilio con colonne corinzie in travertino, mentre
all'interno della cella correva un balcone in cementizio, rivestito da lastre in travertino e su cui
poggiava un colonnato di ordine tuscanico, con basi e capitelli in tufo stuccati e fusti in
laterizio105. Il tempio conserva l'ampia scalinata di nove scalini in travertino sul lato est e
segue l'orientamento est - ovest, a differenza dei restanti edifici dell'area, orientati secondo le
strade intorno. L'abbandono dell'opus incertum nei primi anni del I a.C. permette di
restringere la cronologia dell'edificazione intorno a quel periodo. Le grandi dimensioni del
podio e l'ordine delle colonne interne alla cella trovano somiglianza in altri esempi
dell'architettura tardo-repubblicana, come il tempio della Magna Mater nella ricostruzione del
111 a.C. ed il santuario di Ercole a Tivoli106, suggerendo fortemente che a lavorare nel cantiere
del tempio siano state maestranze operanti a Roma nel medesimo periodo. Inoltre, una base di
un donario in marmo greco inscritta rinvenuta all'interno della cella, trascritta P(ublius) Livius
P(ublii) l(ibertus) Her(culi) d[at] e datata intorno al 100 a.C. è stata attribuita al momento
dell'edificazione del tempio107.

Il tempio dell'Ara Rotonda è stato così denominato per la forma della sua ara. La cronologia
del tempio indica che questo è il primo dei tre templi ad essere edificato nell'area. Agli scavi
del 1938 sono seguiti alcuni sondaggi mirati del 1970 che, sulla base della datazione ai primi
anni del II a.C. di una coppa a vernice nera ed un'anfora rodia con bollo provenienti dalla
parte Nord tra le strutture del pronao e il fronte della cella 108, in corrispondenza con l'impiego
del tipo di tufo che si ritrova unicamente negli edifici all'interno del castrum non più tardi
della fine del III a.C., fanno pensare che la prima fase costruttiva sia avvenuta in quegli

104 BECATTI 1942, p. 124.


105 PENSABENE 2007, pp. 66 - 67.
106 PENSABENE 2007, p. 67
107 ҪÉBEILLAC 1971, p. 63.
108 ZEVI 1970, p.109.

26
anni109. Inoltre, a differenza del tempio di Ercole e di quello Tetrastilo, il tempio dell'Ara
Rotonda presenta un podio interamente in blocchi di tufo, tecnica precedente all'impiego del
cementizio. L'alzato dell'edificio repubblicano è in questo caso totalmente assente, a causa
della ricostruzione in epoca flavia in latericium, avvenuta sopra il vecchio podio di bugnato.
Possiamo affermare che il pronao, tetrastilo in origine, diventerà distilo e chiuso sui due
fianchi nella suddetta ricostruzione di epoca flavia 110. La relazione cronologica tra il tempio
dell'Ara Rotonda e quello maggiore di Ercole conferma l'anteriorità del primo sul secondo:
anche se in un primo momento il tempio di Ercole venne considerato erroneamente il primo
dei tre del complesso santuariale e quello più piccolo dell'Ara Rotonda il terzo in ordine di
erezione, stretto com'era tra il primo, di dimensioni maggiori, e la via della Foce 111, il bordo
esteriore del maggiore sembra essere stato costruito per adattarsi al podio del più piccolo 112. E'
stata proposta l'ipotesi che la divinità del tempio dell'Ara rotonda fosse Liber Pater, data la
somiglianza tra l'area del Foro Boario e quella ostiense qui sotto analisi, in virtù
dell'importanza continua nel tempo di questo tempio, indicata dal fatto che fu l'unico a
conoscere un rifacimento marmoreo sotto Augusto, e di un'iscrizione con dedica a Liber113 con
tutta probabilità proveniente da Ostia che attesterebbe il culto della divinità nella prima metà
del II a.C., dunque in anni vicini alla prima fase del tempio114.

Il terzo tempio che insiste sull'area, il tempio Tetrastilo, appare di fondazione più o meno
contemporanea al tempio di Ercole. A differenza di quest'ultimo però, il podio di questo
edificio è costruito con la tecnica dell'opus quasi reticulatum e non in caementiceum. La
minor altezza del podio richiama ad una tradizione medio-italica precedente rispetto a podi
più elevati115 ed anche la modanatura a coronazione risulta possedere caratteristiche più
arcaiche rispetto al tempio maggiore116. Si conserva un capitello in peperino, attribuito agli
ultimi anni del II a.C. confrontabile con quelli in travertino del Tempio Rotondo di Largo
Argentina117. Su di un blocco in tufo dell'anta destra della scalinata si conserva un'iscrizione
frammentaria [---]leius L(uci) f(ilius) / [---]anus che si può sciogliere con il nome del tribuno
della plebe del 99 a.C. C. Apuleius Decianus, seguace di Saturnino. L'assenza del titolo
nell'epigrafe starebbe a significare che il tribuno avrebbe partecipato all'edificazione del

109 MAR 1990, p. 142.


110 PENSABENE 2007, p. 56.
111 BECATTI 1953, p. 109.
112 ZEVI 1970, p. 100 nota 7 : l'autore qui riporta il pensiero di GISMONDI.
113 CIL I², 2440 = ILLRP 204.
114 COARELLI 1996, p. 112
115 PENSABENE 2007, p. 72.
116 MAR 1990, p. 143.
117 PENSABENE 2007, p. 78.

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tempio insieme ad altri, tutti interessati ad Ostia per la funzione annonaria 118. Ai piedi della
gradinata è stato rinvenuto negli scavi del 1938 un busto di dio barbato, originale elenistico
del periodo sillano119, riconosciuto successivamente come Asclepio non solo per confronto,
ma anche per la presenza di una statua di Lucilla rappresentata come Igea 120; in Asclepio
sarebbe dunque da riconoscere la divinità a cui questo tempio era dedicato.

Sappiamo dell'esistenza di un muro perimetrale in blocchi di tufo che delimitava l'area sacra.
Ritroviamo parte dei resti del muro situati di fronte alla facciata del tempio di Ercole, che
verranno integrati nelle terme di Buticosus di più tarda costruzione, mentre il muro è destinato
a sopravvivere come tale nella sua funzione di perimetro del santuario laddove separa l'area
da via della Foce, e dalla sua edificazione originaria in grandi blocchi di tufo verrà riedificato
prima in opera reticolata ed infine in mattoni 121. I resti in tufo sono databili al III a.C. 122, una
cronologia concorde con il tempio dell'Ara Rotonda, che come si è detto è il primo a sorgere
all'interno dell'area sacra.

Resta da definire l'area sacra e questo è reso possibile dalla continuità tra la viabilità
originaria di Ostia e quella della città tardo-imperiale, che non subirà grandi modifiche e anzi,
le strade principali continueranno a confluire verso il castrum. Il limite sud è costituito da via
della Foce dove, come si è appena detto, è presente un muro in tutte le fasi di vita del
santuario. Ad est abbiamo la via che corre lungo le mura perimetrali del castrum, mentre a
nord il tempio Tetrastilo è orientato per fare fronte, con la parete della sua cella, alla via degli
Horrea Epagathiana.

118 COARELLI 1994, p. 37.


119 ZANKER 1972, n. 3032.
120 ZEVI 1976, p. 60 - 61.
121 ZEVI 1970, p. 102.
122 BECATTI 1953, p. 98; GISMONDI 1953, p. 185.

28
La seconda fase del santuario

L'inizio dell'espansione urbana di Ostia al di fuori delle mura del castrum determina la
definizione degli spazi del santuario, delineando con certezza i confini di un vero e proprio
temenos chiuso, la cui necessità nasce dal dover separare in maniera evidente lo spazio sacro
dalle strutture cittadine che sorgono intorno (Fig. 14). Questa espansione disomogenea, nota
grazie a saggi sparsi, principia timidamente nel III a.C. ma pare diffondersi in maniera
concreta solo a partire dalla metà del secolo successivo, come egregiamente illustrato da
Mar123. Sicuramente prima dell'epoca flavia, il limite lungo di via della Foce vede sorgere un
porticato con colonne in laterizi aperto sul lato interno, che ingloba e prolunga il fronte del
tempio dell'Ara Rotonda e nel quale vengono realizzate due camere seminterrate in prossimità
con l'ingresso all'area sacra da quel lato. All'esterno, il muro si presentava in opus reticulatum
con blocchetti di tufo alle estremità. Alle spalle del tempio di Ercole sorgono una serie di
tabernae con affaccio sul vicolo di Amore e Psiche ed un muro curvo chiude il temenos
addossandosi al podio del tempio dell'Ara Rotonda. Lo stesso muro in opus reticulatum
prosegue in direzione del tempio Tetrastilo, addossandosi al muro posteriore di questo e
delimitando lo spazio sacro dalla via degli Horrea Epagathiana. All'interno del recinto sacro,
in zona centrale, viene inserita una struttura, forse con funzioni ausiliari, della cui fase
originaria sono attualmente visibili, seppur integrati in rifacimenti successivi, soltanto alcuni
muri in blocchi di tufo combinati con opus reticulatum. Tramite le tecniche costruttive è
possibile datare questi edifici in epoca pre-flavia. Lo spazio orientale del santuario doveva
essere libero da costruzioni, forse allestito a bosco o giardino sacro nel quale potevano
trovarsi alcuni altari124, tra cui le quattro are in peperino.

123 MAR 1990, pp. 147 - 155.


124 MAR 1996, p. 121.

29
Fig. 14 - Il santuario di Ercole nella prima metà del I d.C. (Mar 1996, fig. 4, p. 122)

L'elevazione flavia e la terza fase del santuario

Come è possibile ricostruire cronologicamente grazie ai saggi nell'area del tempio dell'Ara
Rotonda125, verso la fine del I d.C. il piano di calpestio viene sopraelevato di un metro. Questo
avviene per far fronte alla sopraelevazione domizianea di circa m 1.5 delle strade intorno al
santuario e si riflette nella pavimentazione in lastre di travertino ancora oggi visibile nella
zona centrale dell'area sacra, sulla prolungazione ideale della scalinata di accesso al tempio di
Ercole e di quella del tempio Tetrastilo. Mentre questi due templi si mantengono alla stessa
quota, perdendo così tre dei gradini originari, il tempio dell'Ara Rotonda viene completamente
ricostruito con la stessa identica pianta, ma mettendolo in quota con il resto del complesso. E'
in questo momento che, sempre il tempio dell'Ara Rotonda, viene completamente rivestito di
marmo, mentre gli altri due, che pure subiscono operazioni di restauro ed i cui muri delle celle
vengono rifatti in opus mixtum, conservano l'originario elevato l'uno in travertino (tempio di
Ercole) e l'altro in peperino (tempio Tetrastilo). L'altare del tempio Tetrastilo, prima posto di

125 ZEVI 1967 - 1970, p. 98.

30
Fig. 15 - Il santuario di Ercole alla fine del I d.C. (Mar 1996, fig. 5, p. 123)

fronte alla scalinata di accesso al podio, scompare. Forse viene sostituito da uno ancora oggi
visibile, installato là dove ancora permane parte della pavimentazione, ma che non segue
l'orientamento di nessuno dei tre templi del santuario. E' vero che il tempio di Ercole conserva
in questa fase un proprio altare sul pronao, ma la posizione centrale del nuovo altare è legata
senza dubbio a funzioni rituali genericamente attribuibili all'intero complesso santuariale e
non già ad uno solo dei templi che si trovano nell'area.

Al fine dell'uniformità di quota, la fondazione delle tabernae site alle spalle del tempio di
Ercole vennero a funzionare come muro di contenimento, poiché il livello della strada di
fronte agli ingressi delle tabernae andò a trovarsi più in alto dell'area alle spalle del tempio.

Il porticato con le colonne in laterizi che aveva inglobato e prolungato il tempio dell'Ara
Rotonda viene smantellato e il muro perimetrale che funge da temenos, separando lo spazio
sacro dalla via della Foce, viene riedificato sostituitendo l'opus reticulatum con i mattoni.
Contemporaneamente vengono riedificate le due camere semi-ipogee che chiudevano il
porticato dalla parte dell'accesso al santuario, assumendo quello che sarà il loro aspetto
definitivo; infatti saranno riedificate ancora una volta nel II d.C. riutilizzando elementi della
costruzione originaria. Si tratta di due camere accessibili solamente dalla stanza superiore

31
mediante una scala interna. Questa stanza superiore doveva presentare una rifinitura in marmo
che non si è conservata, che possiamo ricostruire grazie alle tracce della preparazione con le
impronte delle lastre, che al contrario si sono conservate. La preparazione del pavimento è
fatta con la stessa malta che costituisce le volte di sostruzione e la pavimentazione copriva
una rete di condotti orizzontali che forma un reticolo ortogonale su tutto l'ambiente. Questi
condotti, inseriti direttamente nella malta, sono realizzati da imbrices contrapposti e da tubuli
tipici dei complessi termali che discendono verticalmente fino alle camere sottostanti, che non
sono dotate di sistemi di scarico. Dunque, queste camere inferiori hanno la forma tipica dei
forni di riscaldamento termali, ma sono tuttavia presenti delle porte ed una piccola finestra,
rifinite accuratamente, oltre al fatto che sono dotate di una massiccia solidità, qualità tipiche
delle stanze dove venivano spesso custoditi i tesori dei santuari 126. Forse qui era tenuta la
capsa o cista in cui venivano conservate le sortes, oppure è possibile che da qui venisse
estratta, prima dello svolgimento della pratica oracolare, seguendo un rito particolare legato
all'acqua, tale da giustificare il complesso sistema idraulico e di riscaldamento della struttura.
D'altronde, nella prima scena sul rilievo proveniente dal tempio di Ercole, insieme alla statua
di culto, la cassetta delle sortes viene ripescata dal mare e le scene successive non parlano più
del leggendario ritrovamento, bensì mostrano due esatti momenti del rito mantico. E' possibile
perciò che all'inizio di questo rito si svolgesse una sorta di rievocazione del momento della
pesca della cassetta delle sortes, per poi proseguire nell'estrazione di una sors da parte di un
fanciullo, successivamente interpretata da un haruspex, come il noto C. Fulvius Salvis del
rilievo. Questa spiegazione legherebbe in maniera solida la successione delle scene nel
rilievo, rendendo la storia lì narrata tre parti di un unico rituale divinatorio. La mancata
conservazione di un ingresso alla camera superiore induce a pensare che l'accesso a questa
stanza avvenisse scendendo dal secondo piano delle abitazioni contigue127, cosa che rende
l'intero ambiente un luogo di non immediata accessibilità, riservato quindi quasi certamente
agli addetti al culto.

All'interno del santuario vengono elevate alla nuova quota anche quelle strutture in
reticulatum che avevano probabile funzione ausiliaria all'epoca in cui sono sorte, cioè in età
pre-flavia, e che sembrano mantenere tale funzione. A questo edificio si accosta un'aula
magazzino, costruita a cavallo tra Domiziano e i primi anni del principato di Traiano, come
dimostrano i rapporti con gli edifici di epoca successiva. Quest'aula, dotata di un ingresso per
i carri, disponeva anche di un piano superiore riservato al personale di servizio. Sempre al

126 MAR 1990, pp. 150 - 151: l'autore scarta entrambe le ipotesi, poiché si escludono a vicenda.
127 MAR 1990, pp. 151.

32
momento della sopraelevazione dell'area è attribuita la costruzione di un edificio dotato di
atrio e impluvium, installato successivamente, poiché si conservano in quest'atrio i segni di
una scala. Qui si aprono due sale principali, con soglie in marmo, pavimenti a mosaico e
pareti dipinte, ricche decorazioni che fanno pensare che fosse adibito ai banchetti ed alle
riunioni dei sodales herculi, la cui presenza è riconosciuta ad Ostia tramite due iscrizioni
pubblicate da Bloch128.

La quarta fase del santuario: l'espansione urbana del II d.C.

L'intera città di Ostia è investita in pieno dal fermento urbanistico che caratterizza l'epoca
traianea e gli spazi liberi del santuario, nello specifico quel molto probabile giardino sacro
posto ad est dell'area sacra, vengono riempiti da un fitto conglomerato di edifici 129 (Fig. 16). A
ridosso dell'edificio con l'atrio e le sale mosaicate sorgono tre edifici, uno con affaccio sul
bivio di via della Foce, il "caseggiato del Mosaico del Porto", e altri due, rispettivamente
l'edificio I, XV, 10 e I, XV, 9 proseguendo in direzione nord lungo la via degli Horrea
Epagathiana. Questi edifici si compongono tutti nella stessa maniera: una taberna al pian
terreno e strutture abitative ai tre piani superiori, tutti accessibili indipendentemente tramite
delle scale direttamente dalla strada. Alcuni lateres signati, i cui bolli sono stati datati intorno
al 112 d.C.130, ci informano sulla cronologia delle strutture, realizzate in opus mixtum. Datato
intorno a quell'anno ed edificato con la medesima tecnica è il primo impianto delle terme di
Buticosus, che sorgono nello spazio ancora libero dopo la costruzione dei tre complessi
abitativi di cui si è appena parlato. Inizialmente le terme comprendevano un grande
frigidarium che funzionava anche come apodyterium al quale si accedeva direttamente dal
santuario, un tepidarium ed un calidarium dotato di due vasche, più una sala intermedia a
pianta semicircolare. Nello spazio rimanente tra il tempio di Ercole e quello Tetrastilo viene
installato l'impianto di estrazione dell'acqua dalla falda freatica sottostante. E' interessante
notare che in una fase di poco successiva, circa a metà del II d.C. l'ingresso principale viene
ridotto di dimensioni, diventando un ingresso di servizio: viene creato un nuovo accesso che
si affaccia direttamente sulla strada, chiarificando che l'uso di queste terme non era riservato
al personale del tempio, ma aperto a tutti. All'inizio del II d.C. in un momento
immediatamente successivo alla costruzione delle terme di Butiscos avviene l'edificazione di

128 BLOCH 1953b, n. 49 e n. 54.


129 PASINI 1978: nel capitolo dedicato a questo periodo, "L'epoca Traianea", l'autrice spiega la situazione politica
all'interno della quale si inserisce questo processo di speculazione edilizia, pp. 53 - 70.
130 BLOCH 1953a, p. 218.

33
un recinto sacro nel quale vengono collocate le quattro are repubblicane sotto la tutela dei
sodales arulenses, cosa che validerebbe l'ipotesi della definitiva sparizione del giardino sacro
del santuario. Il recinto consiste in un piccolo patio con un portico posto sul lato est ed un
sacellum ubicato contro il muro sud; su tre dei quattro lati corre una panca addossata al muro.
Le are restavano nella parte a cielo aperto, la più vicina all'accesso al recinto, posizionato dal
lato degli altari del tempio tetrastilo e di quello di Ercole. Sempre Traiano provvede a rifare la
cella del tempio di Ercole e in quest'occasione inserisce, forse, il marmo nella decorazione, se
il restauro avvenuto in epoca successiva e indicato da un fregio iscritto, rinvenuto in più
frammenti, con il nome di un prefetto dell'annona, Numerius Proiectus e risalente al 393-394
d.C.131 ha mantenuto la stessa linea dell'intervento traianeo. I cambiamenti che avvengono in
questa fase risultano definitivi, poiché l'aspetto dell'area è destinato a rimanere lo stesso,
nonostante alcuni interventi di restauro successivi.

Fig. 16 - Il santuario di Ercole dopo l'installazione delle terme di Buticosus all'interno del recinto sacro.
(Mar 1996, fig. 6, p. 126)

131 BLOCH 1945, pp. 201 - 202.

34
II.2 Il santuario di Ercole a Tivoli

Il santuario di Ercole a Tivoli sorse ad ovest della città antica, in area extraurbana, lungo un
passaggio obbligato del percorso che metteva in comunicazione il Latium vetus con l'area
appenninica, proprio a cavallo della via Tiburtina. Questa via, prolungata alla fine del IV a.C.
in via Tiburtina-Valeria, si installava su un tracciato che fin dalla protostoria permetteva alle
greggi la transumanza. Un percorso di tale importanza non poteva fare a meno di aree di
sosta, anche di grandi estensioni e che offrissero servizi a bestie ed uomini, oltre ad essere in
grado di gestire e sfruttare il grande afflusso. I resti del complesso permettono una
ricostruzione di età tardo-repubblicana ed il riconoscimento di un intervento augusteo, a
seguito del quale l'aspetto del santuario è rimasto fedele a quella fase che possiamo, perciò,
considerare come fase finale. Imponenti sostruzioni a picco sull'Aniene, dotate di canali
collettori, formavano il fronte nord del santuario, che si imponeva nel panorama con la sua
forma massiccia e squadrata. Il complesso era attraversato dalla via Tecta, coperta da una
volta a botte e circondata da ambienti sia a monte sia verso l'Aniene. L'area sacra doveva
aprirsi su di un grande terrazzamento, incorniciato su tre lati da un portico su due livelli e
dominato dal tempio, posto grossomodo al centro. In un momento cronologico di poco
successivo di fronte al tempio, sul fronte ovest, venne costruito un teatro. Come l'accurata
analisi del monumento svolta da Giuliani132 fa notare, un edificio così complesso ha richiesto
interventi in corso d'opera che rendono difficile stabilire una cronologia accurata, anche in
mancanza di uno scavo estensivo e dell'ostacolo costituito dagli impianti moderni che si sono
succeduti, integrando al loro interno e stravolgendo l'architettura antica.

132 GIULIANI 2004; nello specifico v. p. 87.

35
Fig. 17 - Il teatro del santuario di Ercole a Tivoli. In evidenza in nero le strutture più antiche.
(Giuliani 2004, fig. 33, p. 49)

Le fase più antica: tracce

Durante le campagne di scavo del 1983 e del 1985 furono effettuati alcuni saggi nell'area del
santuario. Gli scavi rimasero inediti e parte della documentazione andò perduta ed è stata solo
di recente pubblicata in un articolo della Ten133. Da questi saggi emerse, tagliato dall'impianto
successivo del teatro, un muro rettilineo di circa m 35 in opera quadrata di travertino con
blocchi di testa, costruito a scarpa (Fig. 17). Purtroppo la finalità degli scavi era quella di
mettere in luce le strutture antiche e per questo fu scavata una trincea da entrambi i lati,
precludendo una lettura chiara della cronologia relativa. Una struttura del tutto simile per
materiale e tecnica è presente all'interno del santuario a monte della via Tiburtina in uscita
dalla via Tecta, dietro una fodera di età imperiale. E' difficile stabilire una datazione di queste
strutture, se non per confronto con quei tratti delle mura urbane che presentano la stessa
tecnica edilizia e che, convenzionalmente, sono attribuiti al IV a.C. 134, ma è indubbia la loro
appartenenza alla più antica fase del santuario fino ad ora riconosciuta dalle evidenze
materiali. E' probabile che lungo il profilo del muro passasse una strada, dato che nei
conglomerati a monte della cavea del teatro sono state rinvenute numerose scaglie di basoli,
per lo più lisciati dall'usura135. Oltre al muro in opera quadrata, sempre sul fronte del teatro,
133 TEN 2008, pp. 129 - 167.
134 VELOCCIA 1993, p. 235; GIULIANI 2010, p. 29.
135 TEN 2008, pp. 164 - 165.

36
ma non appartenenti alla struttura di ultimo impianto, vi sono numerosi resti in opera incerta,
che fanno pensare ad una possibile ricostruzione che vede guadagnare in maniera graduale la
quota del tempio, grazie ad una serie di terrazzamenti paralleli 136, accessibili da rampe voltate
prive di illuminazione interna137 nella ricerca di un effetto scenografico che stupisse lo
spettatore, una volta raggiunto il livello della terrazza su cui si apre l'area sacra. In prossimità
del santuario, presso il ponte dell'Acquoria è stata rinvenuta, all'interno di una stipe votiva con
oggetti databili tra il VII e il III a.C., una base di donario in tufo 138 nel quale in passato si è
voluto leggere il nome abbreviato di Ercole139. Oltre alla dubbia lettura, ben poco convincente
per via del cattivo stato di conservazione dell'epigrafe, bisogna tenere conto che non esistono
prove di un collegamento tra la fossa votiva dell'Acquoria ed il santuario.

La fase tardo-repubblicana e gli interventi imperiali

Di fronte al tempio, digradante lungo il pendio su cui si installa il terrazzamento dell'area


sacra, sorse un teatro, come attestano le tracce della massa muraria in calcestruzzo della parte
inferiore della cavea, una vasca antistante il pulpitum, la fossa con gli alloggiamenti per
l'allestimento del sipario e parte delle sostruzioni relative alla scena (Fig. 18). Un'iscrizione,
oggi perduta, parla di un porticum pone scaenam e ne attesta la lunghezza di 140 piedi, la
stessa dei resti attuali, edificato, insieme ad altro, dai quattuorviri C. Luttius Aurelianus, Q.
Plausurnius Varus, L. Ventilius Bassus e C. Octavius Graechinus140. Quest'ultimo, secondo
Coarelli141, sarebbe stato legato di Sartorio in Spagna tra il 76 ed il 72 a.C. e non avrebbe
potuto assumere la carica tiburtina riportata nell'epigrafe più tardi dell'82 a.C. Concorda su
questa datazione anche Giuliani142, per confronto interno al munumento delle sostruzioni della
scena, e aggiunge che la decorazione architettonica della scena non può essere fatta risalire a
prima del 40 a.C., per via del materiale di cui è composta, il marmo lunense: con tutta
probabilità si tratta di un allestimento augusteo operato più tardi rispetto alla messa in opera
del teatro. Il muro frontale del pulpitum e quello curvilineo periferico della cavea sono
realizzati in opus reticulatum a piccoli cubilia in travertino, tecnica che permette di
riconoscere l'intervento imperiale all'interno del complesso, da alcuni interpretato come

136 TEN 2008, p. 162.


137 GIANNETTI 2014, p. 21.
138 CIL I², 2658.
139 COARELLI 1987, p. 99.
140 CIL XIV, 3664 = I², 1492.
141 COARELLI 1987, p. 95.
142 GIULIANI 2004, p. 50.

37
Fig. 18 - Il Santuario di Ercole a Tivoli. In evidenza in nero le strutture appartenenti a fasi diverse (1 - 4 ),
precedenti il teatro. (Giuliani 2010, fig. 19, p. 30)

augusteo143. Gli scavi per la costruzione del teatro generarono un'instabilità nella scalinata del
tempio, come mostrano i segni di aggiustamenti messi in atto in corso d'opera, come vedremo
nello specifico più avanti. A picco sull'Aniene, conservate oggi per un'altezza di circa 40
metri, le sostruzioni del santuario sono costituite da tre differenti livelli. Il più basso è
costituito da una muratura piena in opus incertum e mostra lo sbocco di un grande canale
collettore. Questo canale prosegue all'interno delle sostruzioni, derivando poi in due rami, uno
in direzione del tempio, l'altro del teatro. Il secondo livello delle sostruzioni è composto da
nove arcate separate da contrafforti. Dietro la facciata è presente un altro muro, raccordato a
quello più esterno, rispetto al quale corre in parallelo, mediante muri trasversali. Entrambi
questi due muri poggiano su uno più antico, ad essi parallelo. In quest'ultimo muro descritto si
apre un cunicolo in salita, nella volta del quale sono stati riscontrati dei tubuli in terracotta: si

143 MARI 2012, p. 262.

38
tratta di un collettore precedente a quello del livello inferiore. Contrafforti sono presenti al
terzo livello a dividere 23 campate, dove si aprono dei finestroni arcuati in corrispondenza
con il passaggio della via Tecta all'interno delle sostruzioni. Tra il primo ed il secondo livello,
e tra il secondo ed il terzo, erano presenti dei percorsi esterni di servizio su di una cornice
retta da mensole144. Le strutture lungo il lato sud della via Tecta risultano edificate con
tecniche differenti rispetto a quelle del lato nord. Le prime presentano piloni centrali in
blocchi di travertino a cui si affiancano, senza ammorsature, archi sempre in travertino. Gli
archi che aprono gli ambienti sono ribassati e segnati da cunei bugnati in chiave e ai reni,
sporgenti sul profilo estradossale; solo il rinfranco è in opera incerta. Questi ambienti, inoltre,
sono leggermente inclinati rispetto all'asse stradale. Le strutture lungo il lato nord presentano
una muratura più sottile, nella quale si aprono archi retti da pilastri in opera incerta con
blocchi di testa e di taglio sul profilo angolare. Per via di queste differenze strutturali, la spalla
sud della galleria sembra essere precedente rispetto all'altra a nord. Di recente scoperta
nell'angolo nord-ovest a sinistra dell'imbocco della via Tecta, sono quattro vani in opus
incertum con stipiti in blocchi di travertino, anticamente voltati a botte, la cui disposizione
risulta simile a quella dei grandi ambienti sostruttivi poco più a est, sempre dallo stesso lato
della via e che costituirebbero parte di un unico corpo di costruzione145.

Riguardo alla copertura della via Tecta, conosciamo i personaggi che curarono l'opera
attraverso due iscrizioni146, una delle quali perduta e l'altra conservata presso i Musei Vaticani
(Fig. 19), entrambe rinvenute all'interno della galleria, poste nei parapetti dei lucernai più
prossimi alle uscite. L'iscrizione ci dice che questi illustri personaggi erano quattuorviri e che
viam integendam curaver(unt), dunque secondo la ricostruzione di Coarelli147 la copertura
della strada è da porsi dopo la guerra sociale, dato che appaiono i magistrati del municipio e,
per via degli elementi paleografici non possiamo scendere troppo oltre l'89 a.C. Inoltre, per
via della differenza di spessore tra i muri delle due spalle della galleria, la scelta di voltare la
strada fu fatta per venire incontro ad esigenze di cantiere, per far sì che il lato delle sostruzioni
sull'Aniene trovasse appoggio su quello a monte. Le strutture a nord della via Tecta si aprono
in una serie di grandi ambienti in asse con la sostruzione, su cui si affacciano vani più piccoli
a pianta grossomodo quadrata, tutti coperti da volte a botte. Quelli vicino alla strada
assumono pianta trapezoidale per rimanere in asse con la via. L'intera galleria era illuminata
da quattro grandi lucernai, che potevano funzionare anche come montacarichi, di cui oggi se

144 GIULIANI 2004, p. 36 e p. 38.


145 FIORE 2012, pp. 278 - 279.
146 CIL XVI, 4667/8 = CIL I², 1494.
147 COARELLI 1987, p. 95.

39
Fig. 19 - Iscrizione dei quattorviri che curarono la costruzione della galleria. (Giuliani 2004, fig. 24, p. 42)

ne conservano tre, di cui uno solo in parte, integrato in strutture moderne, e si presentava
rastremata verso monte, dato che nel tratto conservato è larga m 9.27 ad ovest e m 6.85 ad est,
per dare l'impressione che fosse più lunga a chi proveniva da Roma 148. Non è stata trovata
traccia di basolato, forse dunque il piano stradale era glareato per facilitare il passaggio di
carri, data anche la pendenza della strada. Sopra la via Tecta e gli ambienti circostanti, che
ospitavano in antico un mercato, vi è l'area sacra, che doveva essere pavimentata da lastre di
travertino oggi mancanti, la cui presenza è desumibile dalle tracce in negativo, invece
rimaste149. Un portico su due livelli faceva da cornice a tre lati del santuario, escluso quello
dove si trova il teatro. La facciata del portico è composta da archi inquadrati da semicolonne
tuscaniche. Gli archi danno accesso ad ambienti quadrati di circa m 5 x 5 con volta a botte e
dietro ad essi si aprono altri vani, stavolta rettangolari di circa m 6 x 5 con volta a padiglione.
Il tredicesimo arco da settentrione, di dimensioni leggermente maggiori rispetto agli altri e
fatto in blocchi di travertino, marca un ingresso all'area sacra posto sul muro di fondo di
questo lato del portico, mediante una scalinata che doveva presentarsi buia, illuminata da
finestre a gola di lupo aperte a posteriori nella muratura. Il numero di fornici delle due metà

148 GIULIANI 2004, p. 42 nota 116.


149 FIORE 2012, p. 277 nota 17.

40
del portico rispetto al basamento del tempio
è uguale, anche se le dimensioni differiscono
di m 1.63, con il lato nord lungo m 72.41 e
quello sud lungo m 70.77150. Sopra il portico
correva una terrazza lunga quasi m 520,
presente anche in corrispondenza del tempio
e quindi accessibile attraverso la grande
scalinata che dava accesso al basamento su
cui sostava il tempio stesso. Il portico
superiore era sostenuto da colonne in
muratura e capitelli ionici a quattro volute,
come possiamo ricostruire dall'unica colonna
che è sopravvissuta almeno fino al 1812151.
Ai pilastri di facciata era addossata una fitta
serie di basi onorarie in cementizio rivestito
di travertino, che dovevano sostenere delle
statue, sicuramente una Venus Genetrix
rinvenuta sulla terrazza del portico
superiore152 e, probabilmente, anche il
cosiddetto Generale di Tivoli153, ritrovato nel
1925 sempre all'interno del santuario (Fig.
20). La scomparsa pressoché totale del fronte
occidentale del santuario non permette di
sapere se vi fossero altri accessi tra il portico
inferiore e quello superiore154.

Il tempio (Fig. 21), che stava su un podio di


m 2.40 che a sua volta era elevato sull'area
sacra grazie ad un basamento di m 6.40 , si Fig. 20 - Il Generale di Tivoli
staccava dal portico alle sue spalle di circa m (Museo Nazionale Romano).

8, rispetto al quale doveva essere collegato

150 GIULIANI 1970, p. 194.


151 NIBBY 1848, p. 195.
152 TEN 1998 - 1999, p. 343 - 344 n. 2.
153 GIULIANI 2004, p. 79.
154 GIULIANI 2004, p. 64 nota 144.

41
Fig. 21 - Planimetria del tempio. (Giuliani 2004, fig. 74, p. 74)

con una terrazza che garantiva l'accesso al secondo piano dello stesso. Il basamento del
tempio presentava resti di un telaio in muratura visibile fino alla fine del XIX secolo,
all'interno del quale erano stati ricavati due vani dotati di una copertura a botte. Vi si accedeva
attraverso delle scale collocate nel locale a destra della cella del tempio, entrando così prima
nel più grande dei due vani che misurava m 8.80 x 4.72 e separato da quest'ultimo con un
muro spesso m 0.56 vi era il secondo vano, molto piccolo, di m 1.83 x 4.72. Per questi
ambienti sono stati ipotizzati la funzione di deposito di preziosi ex voto155 oppure un legame
con la funzione oracolare del santuario156. La scalinata di accesso al podio, larga m 28,
presenta i segni di un intervento per rimediare a problemi di stabilità, forse dovuti
all'allargamento della cavea del teatro, con una prima fase che evidenzia che il dissesto si
doveva essere presentato ancor prima che i gradini venissero messi in opera. A questa
problematica si rimediò con l'uso di archi rampanti inseriti nei nuovi setti murari e
l'avanzamento dell'intero corpo delle scale. Fiancheggiavano la scalinata due grossi avancorpi
con muratura in opus quasi reticulatum, con due fontane alla base, di cui oggi si conservano
solo tracce di quella di destra, poiché quella di sinistra fu distrutta dalla costruzione di una via

155 GIULIANI 1970, p. 191.


156 COARELLI 1987, p. 90 - 91.

42
tra il 1795 e il 1861. Le fontane sono costituite ciascuna da due vani coperti a botte, absidati,
ed i vani retrostanti si trovano in linea con il primo assetto delle scale. Questi vani retrostanti
dovevano essere stati inizialmente progettati come vasche, ma finirono poi per svolgere la
funzione di cisterne quando furono costruiti quelli antistanti con il riassesto della scalinata.
Sette basamenti in muratura di m 0.45 x 0.45 x 0.10 servivano ad elevare sette piccole
sculture, una delle quali, un Ercole giovane ed imberbe in marmo bianco del tipo derivato dal
celebre Epitrapézios di Lisippo fu rinvenuta all'interno di una delle vasca negli scavi del
1985. Mari attribuisce alle fontane anche un torso di Ercole maturo 157, ricostruendo così il
tema delle fontane con un Ercole giovane da una parte ed uno maturo dall'altra ad occupare il
basamento centrale delle fontane, lasciando gli altri dodici, sei per ogni vasca, ad una
rappresentazione didascalica delle dodici fatiche, articolate così in due gruppi. Le dimensioni
dei basamenti e l'esigua altezza del bordo della vasca superstite, di appena m 0.30, dimostrano
che appena un velo d'acqua bagnava la superficie delle vasche. Il tempio misurava circa m
35.70 di lunghezza per m 24.75 di fronte ed era ottastilio, con dieci colonne sui lati, sine
postico. Il pronao di m 10 presentava due file di colonne ai lati. La cella, divisa da due file di
sette colonne su due ordini delimitanti navatelle158, si apriva sulla parete di fondo, affiancata
da due ambienti più piccoli. Da quello di destra si accedeva ai vani sotterranei posti
nell'intelaiatura del podio. Le fondazioni del tempio, incluse nel basamento inferiore, furono
costruite per i primi m 4 in opus incertum, mentre il resto, compreso il pronao, in opus
reticulatum. Il tempio doveva elevarsi in altezza oltre i m 18 e, compreso il basamento ed il
podio, tutto il complesso doveva staccarsi dal piano dell'area sacra di circa m 25. L'epigrafe
già citata a proposito del teatro159 ricorda, tra i lavori attribuiti ai quattuorviri, la costruzione
di un porticus fornendo misure che coincidono con i colonnati laterali del tempio, di un
pronaon e di una exedra, con riferimento alla nicchia destinata alla statua di culto.

Dietro il portico, alla quota del secondo livello, nell'angolo sud-est del complesso è presente
un edificio rettangolare ad oggi in gran parte interrato, conosciuto grazie ai rilievi
ottocenteschi dell'area ed alla facciata, tutt'ora visibile. Era dotato di dieci ingressi scanditi da
pilastri intonacati di travertino con lesena esterna. Secondo una ricostruzione, nove ingressi
immettevano all'interno attraverso un doppio portico diviso da un colonnato centrale e coperto
a capriate160. Il rimanente ingresso, quello più a nord, dà accesso ad un'intercapedine di m 3.20
157 MARI 2012, pp. 263 - 264. Il torso è stato pubblicato in: PINTUCCI 2003, p. 35, n. 115431.
158 GIULIANI 2004, p. 74: ricostrusce la cella dai rilievi di Thierry e suppone il colonnato disposto su due ordini
per via delle dimensioni delle fondazioni, che non avrebbero ammesso colonne dal diametro superiore a m
0,75.
159 v. nota 140: CIL XIV, 3664 = I², 1492.
160 GIULIANI 1998 - 1999, p. 101.

43
che isolava l'edificio dalla parete sbancata. L'edificio è stato interpretato come basilica 161 e di
recente è stata proposta una lettura come biblioteca162. La prima ipotesi si basa principalmente
su un passo di Suetonio, secondo cui Augusto, durante le sue permanenze a Tivoli, era solito
in porticibus Herculis templi persaepe ius dixit163. Sulla scia di questa interpretazione è stata
collegata alla basilica un'iscrizione164 sul lato destro di una base marmorea, ricostruita da due
parti, una delle quali conservata a Tivoli, l'altra ormai perduta, ma che fu ritrovata in una
chiesa fuori porta del Colle, nei pressi del foro. L'iscrizione testimonia un senatus consultum
del municipio tiburtino avvenuto nel settembre del 127 d.C. I quattuorviri L. Alfenatius
Priscus e M. Mucius Tiburtinus ricevettero Sextilius Ephebus presso un luogo, cioè la basilica,
e gli concessero a sue spese una basis marmorea sub thens[auro] Herculis et Augus[ti porta]
Esquilina ponere. La parola "basilica" è ricostruita dalle sillabe ca, dato che la parte
precedente di questa parola è perduta, e seguita dal termine liapta, sebbene la lettura appaia
incerta. Un'altra epigrafe165 conferma l'esistenza di una basilica a Tivoli, ma potrebbe trattarsi
dell'edificio sotto il Duomo166. La lettura che vede nell'edificio alle spalle dei portici una
biblioteca, si basa su un passo di Aulo Gellio, nel quale lo scrittore racconta che, insieme ad
amici ospiti di un ricco tiburtino, avevano intenzione di bere acqua di neve sciolta e furono
dissuasi dalla lettura di un brano tratto da un libro di Aristotele, preso dalla biblioteca di
Tivoli, che in Herculis templo satis comode instructa libris erat167. L'intercapedine dietro
l'ingresso a nord sembra dunque un'accortezza necessaria per proteggere i volumi conservati
dall'umidità e Mari suggerisce che la pianta presenta delle similitudini con la presunta
biblioteca presso il santuario di Atena a Pergamo168. Altro elemento chiamato in causa per
giustificare la funzione di biblioteca dell'edificio è la tecnica edilizia. Questa dimostra
l'intervento imperiale, soprattutto all'estremità nord dell'edificio, dove il rivestimento in opus
reticulatum a cubilia di travertino taglia la parete in opus incertum del portico, taglio
evidentemente avvenuto nel momento in cui venne installata la costruzione. Un pluteo in
marmo lunense è stato inoltre rinvenuto tra il primo e il secondo pilastro in facciata e datato
per lo stile delle decorazioni floreali all'età augustea 169. Dallo spazio antistante il passaggio tra
il sesto ed il settimo pilastro, invece, provengono quattro frammenti di lastre fittili: in tre si

161 GIULIANI 1998 - 1999, p. 101.; GIULIANI 2004, pp. 79- 82.
162 MARI 2012, pp. 255 - 262.
163 SUETONIO, Augusto 31.
164 CIL XIV, 3679, 3679a e add. p. 495.
165 CIL XIV, 3671 = CIL I², 3097.
166 CIOFFI 2008. pp. 104 - 114.
167 AULO GELLIO, Noctes Atticae, XIX, 5, 1-4.
168 MARI 2012, p. 259.
169 TEN 1998 - 1999, p.343, n.1.

44
riconosce Ercole e nel rimanente Apollo, per confronto con le lastre rinvenute nel tempio di
Apollo sul Palatino nelle quali è raffigurata la contesa del tripode tra le due divinità 170.
L'analisi che da un lato permette di definire una datazione che va negli anni di Augusto, non
sembra apportare alcun ulteriore elemento atto ad avvalorare l'ipotesi sull'uso della
costruzione a biblioteca, soprattutto tenendo conto della presenza di un condotto per l'acqua a
ridosso della costruzione, per il quale l'intercapedine muraria non avrebbe potuto essere
sufficiente protezione contro l'umidità.

Le fonti storiche

Stazio inserisce il santuario di Ercole a Tivoli tra i quattro santuari più famosi dedicati al
dio171, a cui fa dire che non vi vorrà più abitare, una volta dedicato il tempio di Sorrento.
L'autore ci presenta, perciò, il santuario quando godeva già di fama in tutto il mondo antico ed
era senz'altro il più grande dedicato ad Ercole in tutta la penisola italica. Il legame stretto tra
la città ed il dio è ben ribadito da numerosi autori in contesti differenti: Suetonio ci dice che la
città era sacra ad Ercole172, Marziale assegna l'aggettivo legato alla divinità ai colli e alle
rocche tiburtine173, Silio Italico alle mura 174, Propezio alla città stessa 175. Riguardo alla
fondazione del santuario, Servio scrive176 che questa avvenne dopo una vittoria dei Tiburtini
sui Volsci, confondendo questi ultimi con gli Equi 177. Abbiamo inoltre una leggenda di cui ci
parla Macrobio, che afferma di riportarla a sua volta dai Memorabilia di Masurio Sabino178.
Un tale, M. Octavius Herrenus, che da giovane era flautista, divenne mercante e durante un
viaggio riuscì a sfuggire ai pirati. In seguito Ercole, apparsogli in sogno, gli rivelò che era
stato proprio lui a salvarlo dall'attacco e quindi il commerciante dedicò un tempio ed una
statua al dio con l'appellativo di Victor. L'episodio potrebbe riferirsi ad un tempio romano, che
Coarelli identifica con quello rotondo nel Foro Boario179. In un altro passo di Macrobio ritorna
lo stesso personaggio, o quantomeno uno ad egli strettamente legato, con il nome di Octavius

170 TEN 1998 - 1999, pp. 344 - 345.


171 STAZIO, Silv. III, 1, 182 - 183: nec mihi plus Nemee priscumque habitabitur Argos/ nec Tiburna domus
solisque cubilia Gades.
172 SUETONIO, Caligola, 8.
173 MARZIALE, IV, 57,9; VII, 13, 3: sui colli; I, 12, 1: sulle rocche.
174 SILIO ITALICO, Epist., 7.
175 PROPEZIO, II, 32, 5.
176 SERVIO, Aen., VIII, 285.
177 GIULIANI 1970, p. 15.
178 MACROBIO, III, 6, 11. In maniera del tutto simile la leggenda è riportata in SERVIO, Aen., VIII, 363.
179 COARELLI 1987, p. 100; la leggenda è invece da attribuire alla fondazione del santuario tiburtino secondo
Weinstock (WEINSTOCK 1935, col. 828).

45
Hersennus (o Hersennius), autore di un'opera sul rituale dei salii dell'Ercole tiburtino180. Le
fonti scritte sembrano coprire ogni aspetto legato ad Ercole, da quello guerriero quando
trattano della vittoria in seguito al quale fu fondato il santuario, a quello commerciale con la
dedica di un tempio e di una statua al dio da parte del mercante M. Octavius Herrenus. Un
particolare su cui vale la pena di soffermarsi è quello del sogno, nel quale Ercole appare e
rivela a M. Octavius Herrenus una verità che non avrebbe potuto conoscere in altro modo.
Questo aspetto della divinità, attestato per quanto riguarda il santuario tiburtino, sembra
marcare un carattere peculiare proprio di Tivoli e che, a partire da Tivoli grazie al personaggio
citato dalle fonti, emana verso Roma. Certo è che sembra riduttivo che questo M. Octavius
Herrenus possa essere un semplice mercante con un passato da flautista, soprattutto se lo si
identifica con quell'Octavius Hersennus autore di un'opera sui salii, che di conseguenza
doveva ben conoscere. Il rituale che i salii svolgevano è giunto a noi nella descrizione che fa
Virgilio181 quando racconta la fondazione dell'ara maxima di Ercole. I sacerdoti, vestiti con
pelli ferine e fiaccole, preparano un suntuoso banchetto sopra le are; poi si presentano i salii,
con la testa adornata da corone di pioppo, divisi in giovani e anziani, che cantano e danzano
davanti agli altari ardenti. Non è possibile stabilire se il rituale descritto fosse ancora in uso ai
tempi del poeta, o se questo si sia servito forse proprio di quell'opera scritta da Octavius
Hersennus (che dovremo chiamare, a questo punto, M. Octavius Herennius). E' possibile,
tuttavia, rintracciare all'interno del rito una serie di elementi formali di diversa influenza, che
si possono riassumere in una base greca sulla quale si instaurano forti influssi locali 182. La
presenza di questi sacerdoti denota il carattere guerriero del dio (i salii sono una corporazione
presente anche nel culto di Marte), data la loro connessione con cerimonie di carattere
militare. E' noto a Tivoli, analogo al culto dell'ara maxima, l'uso dei generali di donare la
decima parte del bottino ottenuto dalle campagne militari183.

Nell'elenco delle sibille di Varrone compare anche Albunea184, la Sibilla di Tibur a cui è
dedicato molto probabilmente uno dei due templi sull'acropoli. Senza entrare nella

180 MACROBIO, III, 12, 7: Est praeterea Octavii Hersennii liber qui inscribitur de sacris Saliaribus Tiburtium, in
quo Salios Herculi institutos operari diebus certis et auspicato docet.
181 VIRGILIO, Eneide, VIII, 280 - 288: Devexo interea propior fit Vesper Olympo / iamque sacerdotes primusque
Potitius ibant / pellibus in morem cincti, flammasque ferebant. / instaurant epulas et mensae grata
secundae / dona ferunt cumulantque oneratis lancibus aras. / tum Salii ad cantus incensa altaria circum /
populeis adsunt evincti tempora ramis, / hic iuvenum chorus, ille senum, qui carmine laudes / Herculeas et
facta ferunt[...].
182 BAYET 1926, pp. 312 - 321.
183 BAYET 1926, pp. 459 - 461.
184 VARRONE in LATTANZIO, Div. Inst. I, 6: decimam Tiburtem, nomine Albuneam, quae Tiburi colitur ut dea,
iuxta ripas amnis Anienis, cuius in gurgite simulacrum eius inventum esse dicitur, tenens in manu librum:
cuius sortes Senatus in Capitolium transtulerit .

46
discussione su quale dei due templi possa essere, è ovvio dal testo antico che, se fu ritrovata
una statua di culto secondo la leggenda, essa sarà stata collocata in una aedes consona ad
ospitare il culto della dea. Poco più avanti compare la parola sortes, in occasione dello
spostamento del libro con le profezie della Sibilla da Tivoli a Roma, quando in seguito
all'incendio dell'83 a.C. fu necessario ricostituire la raccolta dei libri Sibillini. In questo caso
specifico, l'uso della parola sortes pare usata per indicare il libro delle profezie di Albunea,
piuttosto che per intendere delle vere e proprie sortes, in virtù del metodo di consultazione
cleromantico che era proprio di entrambe le pratiche. Nel remoto caso in cui la Sibilla
disponesse anche del metodo divinatorio del sortilegio, non sembrano esserci alcuni dati che
permettono di legarlo alle sorti di Ercole, testimoniate per Tivoli da fonti epigrafiche e
deducibili da un passo di Stazio, il quale paragona la bellezza del santuario di Tibur proprio
con quello di Praeneste, ben noto per questo tipo di pratica185.

185 STAZIO, Silv. I, 3, 79 - 80: Quot ni templa darent alias Tirynthia sortes / et Praenestine poterant migrare
sorores.

47
Le fonti epigrafiche

L'iscrizione tardo-repubblicana su un piccolo


frammento di marmo186 rinvenuta nel 1902
Fig. 22 - CIL I², 1484 = Inscr. It., IV, 1, n. 11.
nell'area sacra del tempio di Ercole Vincitore, che
un tempo veniva impropriamente chiamato "Villa di Mecenate" 187, si può sciogliere in
Delanei / H(erculis) V(ictoris) sortiar(ius) e ci fornisce evidenza dell'aspetto cleromantico del
dio del santuario tiburtino. Il termine sortiarius sembra essere l'equivalente locale del più noto
romano sortilegus188, che indica quindi il sacerdote preposto alla lettura ed eventuale
interpretazione delle sortes. L'esistenza di un termine locale rende alquanto dubbia l'ipotesi 189
che propone l'introduzione delle sortes di Ercole a sostituzione di quelle di Albunea,
introduzione che avvenne in seguito al trasferimento del libro della Sibilla durante la
ricostituzione sillana del corpus dei libri Sibillini post incendio dell'83 a.C. e che avrebbe
avuto come fine la garanzia di un oracolo cleromantico tiburtino. L'esistenza delle sortes della
Sibilla sembra alquanto improbabile, dato che le profezie in questione esistevano sotto forma
di uno o più libri ed il termine in Lattanzio è solo indicativo del tipo di pratica divinatoria. La
presenza di un'epigrafe su cui compare il nome di Albunea190 ritrovata all'interno del santuario
sulla base marmorea di un donario che doveva sostenere una statua, non garantisce l'esistenza
di sortes di Albunea, quanto semmai l'esistenza di una statua della divinità posta lungo il
portico, in accordo con la ricostruzione suggerita dal ritrovamento di altre statue a
decorazione del portico superiore, come la già citata Venus Genitrix191.

Esiste testimonianza epigrafica anche per quanto riguarda il pagamento della decima 192,
effettuato dal censore C(aius) Antestius: nonostante la carica del personaggio, che tra l'altro ci
indica una datazione precedente alla guerra sociale, la riscossione della decima da territori di
provincia starebbe ad indicare un bottino successivo ad una campagna, quindi di carattere
militare e non derivante da proventi commerciali 193. Le epigrafi permettono di assegnare
numerosi titoli ad Ercole a Tivoli: Victor, Tiburtinus Victor, Invictus, Victor Certenciinus,
Domesticus, Saxanus194.

186 CIL I², 1484 = Inscr. It., IV, 1, n. 11.


187 BORSARI 1902, p. 120.
188 KLINGSHIRN 2006, pp. 151 - 152.
189 BUCHET 2012, p. 363.
190 CIL XIV, 4262.
191 TEN 1998 - 1999, p. 343 - 344 n. 2.
192 CIL XIV, 3541 = CIL I², 1482 = Inscr. It., IV, 1, n.9.
193 COARELLI 1987, p. 99.
194 CECCARELLI - MARRONI 2011, pp. 516 - 519.

48
II.3 Il santuario di Fortuna Primigenia a Palestrina
Il santuario di Fortuna Primigenia presso Palestrina si presenta come un complesso di sette
terrazze artificiali, collegate da rampe e scalinate (Fig. 23), che si snodano in direzione
fortemente verticale, a partire dal muraglione in opera poligonale subito sopra piazza Regina
Margherita fino al palazzo Barberini, attualmente sede del Museo Archeologico Nazionale di
Palestrina e all'interno del quale risulta inglobata parte dell'antica costruzione. I resti
attualmente conservati permettono una ricostruzione di epoca tardo-repubblicana, collocando
così l'opera in quel periodo storico che vide il fiorire di grandi santuari monumentali in tutto il
Latium Vetus. I primi scavi, avvenuti a partire dal 1944 ad opera di Fasolo e Gullini 195,
collocarono l'edificazione del santuario nella metà del II secolo a.C. sulla base degli elementi
architettonici rinvenuti e su confronti con le tecniche costruttive di altri santuari diffusi in
territori vicini. Uno studio sulle epigrafi prenestine 196 ha mostrato come, dei centotrentotto
gentilizi originari di Praeneste, ne rimangano appena venti dopo la conquista della città da
parte di Silla nell'82 a.C. ed il conseguente sterminio degli avversari politici da parte del
dittatore di cui ci parla Appiano197. La committenza che volle la monumentalizzazione del
santuario, come sostenuto con dovizia di particolari da Coarelli198, è da ricercarsi proprio in
queste gentes locali, attivissime presso Delo, dove si riscontrano epigrafi contenenti nomi
prenestini199, e perciò dotate non solo delle finanze per compiere un'opera del genere, ma
anche delle conoscenze per disporre di determinate maestranze, i cui influssi sono evidenti
nell'architettura ellenistica propria del monumento, che si inspira ai modelli dell'Egeo
orientale. La testa della grande statua di culto di Fortuna, rinvenuta nella terrazza cosiddetta
"degli emicicli", è datata tra la fine del II a.C. e l'inizio del I a.C. 200 e costituisce un ulteriore
elemento a favore di una datazione pre-sillana del complesso. L'intera struttura si sviluppa
attorno a due nuclei, uno corrispondente a piazza della Cortina, dove sono presenti la cavea
del teatro, il portico a tre ali ed il tempio vero e proprio, l'altro che si esaurisce nella terrazza
"degli emicicli", così chiamata per la presenza di due emicicli, uno a metà del lato
occidentale, uno a metà di quello orientale, la quale è fornita, come vedremo, di un accesso
riservato. L'interpretazione dei percorsi che il pellegrino eseguiva sono essenziali ai fini della
comprensione del santuario, poiché l'architettura di tutto il complesso è funzionale allo
svolgimento di determinati riti collettivi, che non prevedevano alcuna scelta individuale.

195 FASOLO - GULLINI 1953.


196 DEGRASSI 1969 - 1970, pp. 111 - 129; Lo stesso autore in COARELLI 1978, pp. 147 - 148.
197 APPIANO, Bellum Civile I, 94.
198 COARELLI 1987, pp. 61 - 65.
199 WILSON 1966, p. 110.
200 AGNOLI 2002, pp. 52 - 55.

49
Fig. 23 - In evidenza i percorsi obbligati (1 - 2) e quello riservato al personale del santuario (3).
(Rielaborazione da: Kähler, H. Das Fortunaheiligtum von Palestrina Praeneste. Saarbrücken 1958)

50
Le sette terrazze del santuario tardo-repubblicano

La prima terrazza, come si è detto, si sviluppa alle spalle dell'attuale piazza Regina
Margherita, antico foro della città antica, sopra un'imponente sostruzione in opus siliceum.
L'uso di questa tecnica non determina una datazione precedente al resto dell'impianto, ma
esprime la volontà dell'architetto del santuario di conferire un'attestazione di antichità alla
prima sostruzione e di conseguenza all'intero complesso. Da questo piano, due esedre
tetrastile si aprono simmetricamente a fianco di due rampe, che trasversalmente al declivio
originario del monte permettono l'accesso alla terrazza superiore. Queste esedre ospitavano
delle fontane aventi funzione di ristoro, abluzione, cambio d'abito ed altre operazioni
preliminari all'ingresso in una struttura religiosa. Fontane ubicate in maniera del tutto simile,
cioè all'inizio di un percorso sacro, si ritrovano ad esempio nell'Asklepieion di Kos201. Al
centro di questo primo livello, in asse con l'intero complesso, si apre una profonda nicchia,
una sorta di finto ingresso monumentale al santuario per richiamare l'attenzione dei visitatori,
poiché le rampe laterali non erano immediatamente visibili come accessi per i piani superiori.
All'interno di questo fornice sono presenti delle piccole nicchie, tre sul lato occcidentale e
quattro su quello orientale, che dovevano ospitare delle statue, come suggerito anche dal
ritrovamento in fase di scavo di numerosi blocchi in tufo, probabili basi di donari. Attraverso
le rampe si ascende al piano superiore, la terrazza "degli emicicli". Le rampe in antico erano
lastricate da basoli di calcare e costituite da una parte scoperta a monte ed una coperta da un
portico dorico. I capitelli ritrovati sono tagliati inclinati rispetto all'asse delle colonne proprio
per seguire l'andamento dell'architrave. La parete esterna del portico era chiusa da un muro
rinforzato dalla presenza di semicolonne, che impediva la visibilità del panorama cittadino
fino al raggiungimento della terrazza superiore. A questo nuovo livello occorre precisare che
tra la gradinata lungo l'asse centrale del complesso e le rampe non vi sia lo spazio sufficiente
per garantire l'afflusso che dobbiamo immaginare per un santuario come quello di Palestrina
all'apice della sua fama. Inoltre un cunicolo taglia la scalinata centrale, mettendo in
collegamento le due porzioni della terrazza, a destra e a sinistra della scalinata stessa. Non era
previsto, dunque, che da queste rampe si accedesse a questo piano, ma che si proseguisse
nell'ascesa. Come abbiamo accennato, questa terrazza è uno dei due poli dell'intero impianto
santuariale ed è possibile raggiungerlo attraverso due rampe che si dipartono ad occidente e
ad oriente e che in antico garantivano un collegamento diretto con la città. L'intero piano è

201 HERZOG – SHAZMANN 1932.

51
diviso in quattro settori di pari lunghezza, ognuno di
100 piedi, scanditi da punti limite identificabili nella
scalinata assiale e nel centro di ognuno degli
emicicli202. Gli emicicli, di ordine ionico, sono
integrati in un portico di ordine dorico dal soffitto
cassettonato. All'interno di ognuno di questi, sette
mensole sorreggevano un sedile continuo. In
prossimità del passaggio tra le due metà della
terrazza, il portico era occupato da due fontane, una
per lato e anche qui, come per le rampe del
terrazzamento inferiore, avente funzione rituale. Di
fronte all'emiciclo occidentale trovano spazio i resti
di un altare rotondo. Vari segni di combustione e
resti di ossa di piccole dimensioni, rinvenuti al
momento dello scavo, testimoniano che qui
avvenivano sacrifici. Ben diverso è ciò che sta
invece di fronte al suo gemello orientale: una base
quadrangolare con fregio dorico ed un pozzo. La
ricostruzione prevede che la base quadrangolare
ospitasse una statua di grandi dimensioni,
raffigurante Fortuna seduta, intenta ad allattare
Giove e Giunone bambini, la cui testa è stata
ritrovata all'interno del pozzo al momento dello
Fig. 24 - Pozzo delle sortes.
scavo e che abbiamo già detto essere stata datata tra (Fasolo - Gullini 1953, fig. 230, p. 153)

la fine del II e l'inizio del I secolo a.C. 203 Il pozzo è


profondo ben m 7.50 e rivestito di opus incertum per
i primi m 5.40 (Fig. 24). Il paramento dell'ultimo tratto, di m 1.10, è in opus quadratum in
tufo e risulta di fase evidentemente più antica, prima della costruzione del santuario, che rese
necessario rialzare il pozzo a livello della terrazza. Il fatto che sia stato interamente scavato
nella roccia attesta che non fosse destinato a raccogliere acqua. Il pozzo è sormontato da un
basamento di un monopteros corinzio, chiuso in alto e in basso da due modanature,
rispettivamente a cyma recta e reversa, e di nuovo in alto è presente, sotto la modanatura, un

202 COARELLI 1987, pp. 42 - 45.


203 AGNOLI 2002, pp. 52 - 55.

52
fregio dorico. Sette colonnine corinzie, chiuse in basso da un paramento lapideo di cui vi è
traccia e in alto da una griglia metallica i cui fori di innesto risultano chiari nelle colonne
rimaste, reggevano un tetto conico. L'accesso al pozzo doveva essere garantito tramite un
settore apribile204. Il fondo del pozzo era il luogo dove, secondo la leggenda, furono rinvenute
le sortes, come si evince da Cicerone205. L'autore, infatti, descrive la situazione a lui
contemporanea, quando il luogo del rinvenimento da parte di Numerius Suffustius, era saeptus
religiose e si trovava propter Iovis pueri, qui lactens, cum Iunone Fortunae in gremio sedens.
Il pozzo, recintato da un'edicola e proprio davanti alla base dove si doveva trovare la statua di
Fortuna, calza perfettamente con la descrizione della fonte. Inoltre sul fondo manca un blocco
del rivestimento di tufo, che sembrò agli scavatori "non esserci mai stato" 206 e che è il segno
permanente del punto dove Numerius Suffustius spaccò la roccia.

Secondo quanto sostenuto da Zevi207, il rinvenimento di ossicini sull'altare di fronte ad uno


degli emicicli, da attribuirsi a volatili, il passo di Cicerone, quando l'autore dichiara lo
Juppiter puer prenestino essere colitur a matribus, e l'accesso riservato dalle rampe laterali
sono tutti elementi che indicano la terrazza "degli emicicli" come riservata alle donne, nello
specifico alle madri. Qui sono stati rinvenuti numerosi ex voto in fase di scavo, da
immaginarsi dedicati alla Fortuna Primigenia al cui cospetto le madri si recavano a
pregare208. La scalinata al centro della terrazza degli emicicli, come si è detto, permette di
raggiungere il livello superiore del complesso. Questo presenta una serie di fornici, nove per
lato, inquadrati da semicolonne di ordine corinzio. Gli ambienti all'interno dei fornici erano
chiusi da porte, come testimoniano le tracce presenti sulle soglie. Sul terzo fornice partendo
da sinistra è stata segnalata già dai primi scavi la presenza di un'iscrizione in rosso che recita
209
"O Tite ...et bene caca" . L'organizzazione della terrazza, la scritta sopravvissuta, la
posizione centrale all'interno del complesso che poteva risultare il punto di riposarsi prima di
procedere nell'ascesa verso il tempio, sono tutti elementi che permettono di interpretare senza
alcun dubbio che quest'area del santuario fosse riservata a scopi commerciali. Al piano
superiore, raggiungibile sempre tramite una scalinata in asse alla struttura, si apre una grande
terrazza, circondata da tre lati da un portico con doppia fila di colonne con capitelli corinzi,
che diviene al centro un criptoportico per consentire il passaggio alle spalle di un teatro. Per
salire sulla cavea del teatro si passava da una scalinata centrale, proseguo di quelle precedenti,
204 COARELLI 1987, p. 50; lo stesso autore in COARELLI 1989, p. 125.
205 CICERONE, De Divinatione, II, 85.
206 FASOLO - GULLINI 1953, p. 148.
207 ZEVI 1994, pp. 137 - 152.
208 FASOLO - GULLINI 1953, p. 110 e p. 147.
209 FASOLO - GULLINI 1953, p. 165 nota 5.

53
come testimonia la presenza di un corpo
centrale pieno tra i sei fornici che
immettono nel criptoportico. Un
ulteriore portico era presente in summa
cavea, oggi inglobato all'interno della
facciata di Palazzo Barberini, che segue
la curva dell'antico teatro. Alle spalle di
questo si trovava una rotonda,
testimoniata sempre all'interno di
Palazzo Barberini da resti di malte
antiche e opus incertum, e da alcuni
disegni di architetti di epoche passate.
Questa rotonda era il tempio vero e
proprio, il sancta sanctorum del
santuario, altro polo principale insieme
Fig. 25 - Pianta di Fra' Giocondo.
al pozzo nella terrazza degli emicicli. La
base della costruzione era di roccia naturale spianata solo in parte e deve aver richiesto solo
pochi accorgimenti di livellamento. Una citazione della rotonda in una istanza dei Colonnesi
del 1304, i quali volevano essere risarciti per i danni effettuati da Bonifacio VIII nel 1298,
suggerisce una ricostruzione con un soffitto cassettonato, poiché la struttura viene paragonata
al Pantheon210. Ai lati si aprivano due nicchie (si conserva quella di sinistra) e l'accesso era
garantito da una scalinata, di cui oggi non vi è traccia, ma che è riportata su una pianta di Fra'
Giocondo (Fig. 25) Direttamente sulla roccia stava la statua di culto, che compare in una
descrizione di Plinio riguardo alla lavorazione dell'oro, nella quale l'autore fa riferimento alle
lamine crassisimae ex iis Praenestinae vocantur, etiamnum retinente nomen Fortunae
inaurato fidelissime ibi simulacro211. Possiamo immaginare che la statua fosse in bronzo
dorato, ma non viene fornito nessun elemento riguardante l'aspetto.

210 BRADSHAW 1920. Cita PETRINI, P.A. Memorie prenestine disposte in forma di annali. Roma, 1795: Et
templum Palatio inhaerens opere sumptuosissime et nobilissime aedificatum ad modum S. Maria Rotundae
de Urbe.
211 PLINIO, Nat. Hist. XXXIII, 61.

54
Le fonti storiche

La più importante fonte sul santuario di Fortuna a Palestrina è Cicerone. Abbiamo già visto
come l'autore ci permette di identificare il luogo ove avveniva l'estrazione delle sortes nel
pozzo della terrazza degli emicicli e come ci racconti la leggenda del rinvenimento
dell'oracolo da parte di Numerius Suffustius212. Proseguendo la lettura del testo antico,
possiamo evincere altro riguardo alla struttura del santuario e alla sua storia. Al momento del
rinvenimento delle sortes, là dove al tempo di Cicerone si trovava il tempio di Fortuna, cioè
la rotonda sulla sommità del complesso, avvenne un miracolo e da un ulivo iniziò a sgorgare
miele; l'albero fu poi tagliato e con il legno fu confezionata una cassetta nella quale
conservare le sortes213. L'ulivo è l'albero sacro a Minerva e questo sembra indicare che in
antico i due poli del santuario appartenessero a due divinità differenti, che sono tuttavia
considerate sorelle. Abbattuto l'ulivo non vi fu più spazio per entrambe, ma solo per Fortuna,
che venne ad assumere tuttavia un duplice aspetto, a Praeneste come altrove. Questa duplicità
è manifestata come un legame di sorellanza, che viene indicato sia in Stazio 214 che in
Marziale215, quest'ultimo in riferimento alle Fortunae Antiatinae, molto simili a quelle di
Praeneste. Nella conclusione del passo di Cicerone riguardo al santuario, l'autore cita
Carneade attraverso il suo allievo Clitomaco, secondo cui il filosofo disse di non aver mai
visto una Fortuna più fortunata di quella prenestina, facendoci così intuire che tutti gli altri
oracoli mediante sortilegio dovevano essere ormai in decadenza216. Valerio Massimo ci parla
di un evento accaduto verso la fine della prima guerra punica, quando il console del 241 a.C.
Q. Lutatius Cerco tentò di consultare l'oracolo prenestino prima di prendere il comando per la
sua campagna militare. Il Senato dichiarò che gli affari pubblici dovevano essere svolti
auspiciis patriis, non alienigenis, costringendo così Lutatius a desistere dal suo tentativo.
Esistono due compendi del testo di Valerio Massimo e due versioni del passo che parla
dell'evento, una più asciutta di Iulius Paris217, una più elaborata e arricchita di dettagli di

212 CICERONE, De Divinatione, II, 85.


213 CICERONE, De Divinatione, II, 86: Eodemque tempore in eo loco, ubi Fortunae nunc sita est aedes, mel ex
olea fluxisse dicunt, haruspicesque dixisse summa nobilitate illas sortis futuras, eorumque iussu ex illa olea
arcam esse factam, eoque conditas sortis[...].
214 STAZIO, Silvae, I, 3, 80: et Praenestinae poterant migrare sorores.
215 MARZIALE, V, 1, 3: Seu tua veredicae discunt responsa sorores, / Plana suburbani qua cubat unda freti.
216 CICERONE, De Divinatione, II, 86 : Ceteris vero in locis sortes plane refrixerunt: quod Carneadem
Clitomachus scribit dicere solitum, nusquam se fortunatiorem quam Praeneste vidisse Fortunam.
217 PARIS 1, 3, 2: Lutatius Cerco, qui primum Punicum bellum confecit, a senatu prohibitus est sortes Fortunae
Praenestinae adire: auspiciis enim patriis, non alienigenis rem publicam administrari iudicabant oportere.

55
Fig. 26 - Cista rettangolare da Palestrina (Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma, inv.
13133). (Disegno: Coarelli 1978, p. 71)

Januarius Nepotianus218, ma da entrambe è possibile evincere la volontà del console di


utilizzare l'oracolo prenestino in vece degli auspici. Come messo in luce in tempi recentissimi
da Konrad219, la volontà del console sarebbe stata quella di ottenere ufficialità di comando
senza la necessità di un auspicio quotidiano come da tradizione, o di dover tornare a Roma in
caso gli auspici fossero divenuti incerta. Konrad illustra altri casi di comandanti che avevano
tentato di rendersi indipendenti dalla pratica dell'auspicio quotidiano prima di Lutatius, per
ottenere una più immediata capacità di intervento militare 220, dunque la consultazione delle
sortes avrebbe concesso a Lutatius la possibilità di una singolo responso per l'intera campagna
militare. Un dettaglio ancora più interessante è la natura della richiesta che questo
personaggio avrebbe voluto avanzare presso il santuario, cioè di carattere militare. Possiamo
lecitamente supporre che la pratica cleromantica prenestina comprendesse quindi, se non
esclusivamente, anche domande in ambito bellico.

218 NEPOTIANUS 1, 3, 2: Lutatium Cerconem, confectorem primi Punici belli, fama extitit uelle ad Praenestinam
Fortunam † sortes mittere siue colligere. hoc cognito senatus inhibuit extraria responsa † consultorum
disquiri. iussum legatis est aedilibusque in hoc missis, ut, si consuluisset, ad supplicium Romam reduceretur.
denique adeo profuit factum, ut † ex incerta ei Romana auspicia fuerint: nam ab altaribus patriis profectus
Aegates opulentissimas insulas in conspectu Carthaginis populatus est.
219 KONRAD 2015, pp. 153 - 171.
220 KONRAD 2015, pp. 160 - 163.

56
Le fonti iconografiche

Abbiamo accennato in precedenza ad una cista prenestina (Fig. 26), datata intorno alla metà
del III a.C. sul cui coperchio è rappresenta una scena dell'oracolo di Fortuna. La forma della
cista non è cilindrica come ci si aspetterebbe, bensì a base rettangolare. Su di essa è
rappresentato un corteo: a partire da destra abbiamo un uomo con indosso un mantello, due
uomini armati di lancia, di cui uno porta a seguito un cavallo tenendolo per le briglie, due
uomini con una toga ed infine un terzo togato, che sbuca per la metà superiore da una cavità
nel terreno con in mano un grosso oggetto rettangolare. La scena sembra rappresentare il
momento del rinvenimento delle sortes, dunque l'uomo che risale la cavità sotterranea è
Numerius Suffustius e all'evento assistono varie figure che sembrano rappresentare varie classi
sociali prenestine221. E' importante notare la presenza, sopra la cavità, di un elemento vegetale,
che ci segnala l'aspetto selvatico del santuario prima di qualsiasi intervento di
monumentalizzazione da parte dell'uomo ed è anche un possibile riferimento all'ulivo da cui
fluiva miele, il cui legno fu poi adoperato per la costruzione di una cassetta nella quale
contenere le sortes.

Il gruppo scultoreo delle cosiddette Fortunae Antiatinae222, ritrovato in Palestrina e oggi


conservato all'interno del Museo Archeologico Nazionale della città (Fig. 27), rappresenta una
valida fonte per svelare alcuni dettagli sulle funzioni cultuali del santuario. Il gruppo è
composto da due figure femminili acefale, prive di gambe e poste su di un ferculum, quindi
non si tratta della rappresentazione di due donne, ma di una scultura che raffigura due
simulacri. La figura di sinistra è di tipo "amazzonico": indossa un chitone agganciato sulla
sola spalla sinistra e mostra il seno destro scoperto. Tracce sulla nuca testimoniano che la testa
doveva indossare un elmo. La figura di destra ha una corporatura più robusta: indossa
anch'essa un chitone, ma cinto in alto in una maniera pudica che la identifica come
"matronale". Il limite inferiore dei chitoni di entrambe poggia direttamente sul ferculum e
avvolge parte delle sbarre, queste ultime decorate da protomi feline. Sul materasso del letto,
frontalmente, vi è un serpente e sopra di esso due lettere, M F, che sembrano essere state fatte
in tempi recenti per via della modalità di incisione. Il tema del serpente ritorna sul fianco
destro, dove due di essi, annodati per la coda, contornano uno scudo umbonato. Il

221 ZEVI 1992, pp. 356 - 365.


222 AGNOLI 2002, pp. 89 - 93; inv. 23656; 51.

57
Fig. 27 - Gruppo scultoreo delle Fortunae Antiatinae. (Foto: Agnoli 2002, 21b, p. 91)

riconoscimento delle figure come le Fortunae Antiatinae è dovuto ad uno studio del
Brendel223 sulle monete della gens Rustia, originaria di Antium. In un denario, in particolare,
sono rappresentati due busti femminili su di un ferculum, che indossano dei chitoni alla stessa

223 BRENDEL 1960, pp. 41 - 47.

58
maniera del gruppo scultoreo: la figura amazzonica calza
in testa un elmo, quella matronale ha invece un diadema.
Nella legenda di una moneta in particolare (Fig. 28),
compaiono sia il nome del monetiere Q. Rutius che le
divinità, Fortunae Antiat(inae). Sempre secondo Brendel
la presenza del rettile sul cuscino è stata interpretata
come il genio a cui è stato dedicato il letto, segno del
valore che esso assume di talamo nuziale, in relazione a
riti legati alla sfera sessuale e della fertilità. La coppia di
Fig. 28 - Dritto di denario di Q. Rustius.
serpenti presenti sul lato destro del ferculum, tuttavia, (Foto: www.wildwinds.com)

assieme allo scudo che avvolgono, richiamano certamente ad un aspetto guerriero delle due
figure, o meglio di quella con chitone portato all'amazzone ed elmo. L'umbone presente sullo
scudo, poi, fa pensare ad uno stretto legame con la terra, dovuto al termine stesso in latino
umbo, dal greco omphalos, ombelico. Il gruppo ci racconta perciò delle caratteristiche
oracolari di Antium, tanto simili a quelle prenestine che in antico qualcuno decise di dedicare
una rappresentazione dei simulacri anziatini al santuario di Praeneste. Macrobio ci parla di
uno specifico rituale, in un passo dedicato al culto di Apollo presso Heliopolis, dove la statua
del dio veniva condotta in processione su una portantina proprio come le Fortunae Antiatinae
capaci di responsi oracolari224. Per quanto riguarda la datazione, Reimann 225 fa risalire il
prototipo del gruppo al 100 a.C., dato che il tipo amazzonico non compare nelle monete
forgiate prima del 90 a.C. e Q. Rustius si sarebbe ispirato ad un modello già presente presso
Antium. Il gruppo di Palestrina si colloca sempre nel I a.C., forse nel terzo quarto del
secolo226.

La dea Fortuna ritorna in due specchi227, rinvenuti nella necropoli di Praeneste, che possono
aiutarci a comprendere le caratteristiche oracolari della divinità. Uno (Fig. 29; inv. 12995) è
uno specchio a disco circolare sul cui verso, incorniciata da gocce disposte a raggera e
leggermente decentrata sulla destra, vi è incisa una testa di profilo rivolta a sinistra e orientata
lungo un asse inclinato. La figura calza un copricapo apicato sotto il quale si fa spazio una
decorazione a chevrons, o parte dell'acconciatura, da cui sbucano ciocche di capelli ondulati e
quello che sembra presumibilmente essere un lophos le scende sulla nuca, nonostante non vi
sia una cresta. Il volto è asimmetrico, con la bocca storta, il naso grande oltremodo e la fronte

224 MACROBIO, Saturnalia I, 23: Ut videmus apud Antium promoveri simulacra Fortunarum ad danda responsa.
225 REIMANN 1987, p. 142.
226 REIMANN 1987, p. 140.
227 Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia inv. 12995 ; inv. 15697.

59
Fig. 29 - Specchio inciso da Palestrina, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, inv. 12995.

è assente. Un elemento vegetale occupa lo spazio a sinistra della testa. L'elmo, conico con
pomello sulla sommità, è di un tipo diffuso in ambito etrusco – romano dall'inizio del IV
secolo a.C228. La datazione dello specchio va dalla fine del IV a.C. alla prima metà del III a.C.

La presenza di elementi vegetali e l'elmo ritornano, come caratteristiche proprie di Menerva,


in un altro specchio proveniente anch'esso dalla necropoli della Colombella (Fig. 30; inv.
15697) e datato nello stesso periodo, dove la dea è raffigurata a fianco di Fortuna
nell'incisione sul verso. Compaiono nella scena anche una Vittoria alata e un giovane imberbe,

228 SCHAFF 1988, pp. 318 - 326.

60
Hiaco, alla guida di un carro trainato da quattro bestie che occupano la destra della superficie:
una pantera, un cervo, un grifone ed un leone. Ogni soggetto ha segnato il proprio nome
affianco alla figura, quindi l'interpretazione risulta inequivocabile. Menerva ha già assunto
tutti i caratteri greci: calza in testa un elmo attico crestato, indossa un peplo e l'egida con il
gorgoneion, ha la mano sinistra sullo scudo. La mano destra stringe un elemento vegetale che
ritorna poco più in su sul braccio, che unitamente alla presenza di una civetta, un cane ed un
serpente nella scena, la rappresentano anche nella sua veste di "signora degli animali".
Fortuna presenta un caratteristico motivo sullo sfondo, composto da linee ondulate. Questo
motivo, definito "stylized Atmosphere"229, indica il paesaggio proprio della divinità, cioè
l'ambiente sotterraneo, l'Oltretomba: rappresenta una nube verde scuro, come ad esempio
quella che si trova dietro a Velia Velcha nella tomba dell'Orco230. Le due divinità sono qui
rappresentate secondo lo schema iconografico delle Fortunae sorores231, da cui traspare sia
l'elemento ctonio che l'aspetto bellico.

229 DE GRUMMOND 1982, pp. 3 - 14.


230 PALLOTTINO 1952, pp. 99 - 101.
231 PAIRAULT - MASSA 1990, pp. 109 - 145.

61
Fig. 30 - Specchio inciso da Palestrina, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, inv. 15697.

62
II.4 Il santuario detto Ara della Regina a Tarquinia

Il santuario di Tarquinia noto come "Ara della Regina" conobbe il suo massimo splendore con
l'edificazione del maestoso tempio dei Cavalli Alati (Tempio III), così nominato dalla famosa
lastra fittile. I recenti scavi diretti dall'Università degli Studi di Milano 232 hanno permesso
l'identificazione di due fasi precedenti, nelle quali sorsero due templi arcaici (Tempio I e
Tempio II), poi inglobati nel tempio dei Cavalli Alati, e di una successiva a questo (Tempio
IV), ancora non del tutto chiaramente indagata a causa dell'asportazione dei blocchi e degli
interventi di restauro, ormai confusi con le strutture murarie originarie (Fig. 32). Tre aspetti si
sono conservati in ognuna delle fasi che ha visto coinvolti i templi, per via dello stretto
legame con la funzione del culto, o dei culti, praticati nell'area: imponenza degli edifici
visibili sopra il pianoro e ampio spazio antistante, ingresso rivolto ad oriente, forte impatto
frontale dovuto ad un'unica apertura, corrispondente all'ingresso, con preclusione della vista
dell'ambiente circostante su tre lati233. Nella piazza antistante e con orientamento differente
rispetto ai vari edifici templari che si sono susseguiti nel corso del tempo, sono stati rinvenuti
i resti di un altare, cosiddetto alpha, edificato durante la fase arcaica e di una struttura ad esso
adiacente, un'edicola o un recinto, detta beta. L'altare, che viene conservato per tutte le fasi di
vita del santuario, è il fulcro principale dell'intera area ed è strettamente legato alla leggenda
di Tagete, dunque all'intera dottrina religiosa etrusca 234. Al di sotto dell'altare alpha, infatti, è
stata scoperta una cassa in pietra locale: si tratta del cenotafio di Tarconte, mitico fondatore di
Tarquinia, il cui nome compare anche su un'iscrizione genericamente datata in epoca
imperiale, poichè era su una lastra di marmo, oggi irreperibile235(Fig. 31). La divinità a cui era
dedicata l'area non è stata ancora identificata con certezza. Esistono diverse teorie a riguardo:
Artumes, Aplu, Hercle. Secondo Colonna, la sors dedicata ad Artumes (Fig. 5) renderebbe
questa titolare del santuario236. La sors potrebbe tuttavia essere stata dedicata presso il
santuario di Tarquinia per un responso avvenuto altrove sotto la tutela di Artumes. Aplu fu
senza dubbio venerato nella città, anche con il nome di Suri e quello di Rath; quest'ultimo
appellativo è quello dato da un famoso specchio da Tuscania, dove è presente anche il nome

232 BONGHI JOVINO - CHIESA 2009; BONGHI JOVINO - BAGNASCO GIANNI 2012.
233 BONGHI JOVINO 2012, p. 55 - 56: l'autrice separa la grandezza degli edifici dall'ampiezza della piazza
antistante. Le due componenti sono, a mio avviso, espressione di un'unica volontà di magnificenza
architettonica.
234 TORELLI 1975, pp. 13 - 22; TORELLI 1981, pp. 169 - 170; COLONNA 1985 pp. 70 - 78. Sulla connessione con
Tagete: BAGNASCO GIANNI 2011, p. 45.
235 TORELLI 2000a, pp. 152 - 155; COLONNA 1987, p. 153; BONGI JOVINO 2012, pp. 63 - 64.
236 COLONNA 1985, pp. 70 - 75.

63
Tarχunus che ha fatto pensare all'Ara della
Regina237. Bagnasco Gianni ha ipotizzato la
presenza di Hercle a Tarquinia, nel "complesso
monumentale"238, e Coarelli ritiene l'origine del
culto del dio di provenienza greca,
collocandola alla fine del VII a.C. e
connettendola con la dinastia dei Tarquini, in
particolare con Tarquinio Prisco239. Non vi sono
elementi sufficienti per considerare il santuario
dell'Ara della Regina oracolare.

Fase I

In questa prima fase il tempio presente


Fig. 31 - Epigrafe con il nome di Tarconte.
nell'area si configurava come un oikos con (Disegno: Bongi Jovino 2012, p.64 )

copertura a spiovente240, con cella allungata e


vestibolo. La datazione, stabilita intorno al 570 a.C., è stata dedotta tramite i materiali
ceramici in strato e le concatenazioni murarie dei resti presenti. La costruzione di un poderoso
basamento volto a livellare il terreno ed accogliere la struttura templare, che ha avuto anche lo
scopo di allargare la cresta della collina241, andò ad influenzare tutti i successivi interventi
nell'area. La piazza antistante il tempio era pavimentata da argilla compatta e, all'interno di
essa fu installata una cassa, datata al primo quarto del VI a.C. dai frammenti ceramici sotto il
piano pavimentale, fatta in macco, pietra locale calcarea, che sarà poi obliterata dall'altare
alpha, di successiva costruzione. A questa fase sono attribuiti due frammenti di lastre fittili242,
provenienti da due saggi differenti, entrambe appartenenti senza dubbio alla decorazione del
Tempio I, ma datati in due momenti diversi. Il primo frammento mostra la gamba sinistra di
un guerriero, fasciata da uno schiniero, nell'atto di montare su di un carro ed è datato nel
secondo ventennio del VI a.C. per confronto con matrici da Sibari. Il secondo frammento
mostra la gamba di un guerriero stante, con parte dello scudo e le aste di una doppia lancia ed

237 COLONNA 1984; CATALDI 1994.


238 BAGNASCO GIANNI 1986, pp. 453 - 460; BAGNASCO GIANNI 2010, pp. 113 - 132; BAGNASCO GIANNI 2014, pp.
41 - 62.
239 COARELLI 2009, pp. 373 - 381.
240 CHIESA - BINDA 2009, pp. 65 - 91.
241 BONGHI JOVINO1996, p. 461; BONGHI JOVINO 2010, p. 175.
242 BONGHI JOVINO 1996, p. 467 - 470; BONGHI JOVINO 1997, p. 88.

64
Fig. 32 - Schema dei quattro edifici templari del santuario dell'Ara della Regina.
(Bongi Jovino - Chiesa 2009, fig. 1, p. 23)

è datato al VI a.C. al più tardi. Entrambi mostrano dunque figure di guerriero, sono stati
prodotti a stampo e risultano avere elementi a comune con realizzazioni della Magna Grecia e
della Sicilia.

Fase II

Gli interventi in questa fase si collocano agilmente nella seconda metà avanzata del VI a.C.
grazie ai materiali di scavo. Inglobando l'oikos della fase precedente come parte centrale,
venne costruito un tempio ad alae con un pronao dotato di quattro colonne di altezza metri 7 -
8. La copertura rimase a semplice spiovente, mentre vennero rinnovate la trabeazione e la
decorazione architettonica. Una scalinata di circa dodici gradini permetteva l'accesso al
tempio dalla piazza; in quest'ultima fu inserito un altare, detto altare 27, composto da tre filari
di macco disassati, cosa che indica fasi successive di vita della struttura. In tutte queste fasi
l'orientamento degli angoli dell'altare in direzione dei punti cardinali viene rispettato. Sulla
sommità erano presenti due cuppelle, elemento pertinente ad una ritualistica di tipo ctonio243.

243 GEROLI 2009, p. 184.

65
Fase III

Nel primo quarto del IV a.C. l'edificio noto come tempio dei Cavalli Alati andò ad inglobare il
tempio della fase precedente. Il nuovo tempio, di dimensioni considerevoli, sorse su un alto
podio e venne dotato di una terrazza. Era dotato di una cella allungata, un'anticella ed un
pronao con quattro colonne. Anche in questa fase venne ricostruita la trabeazione e rinnovata
la decorazione fittile244, a cui appartiene la celebre lastra dei Cavalli Alati. La costruzione
della terrazza del tempio, nella quale venne inglobata la cassa cenotafio, non ne modificò
orientamento e struttura. E' in questo momento che venne edificato su di essa l'altare alpha,
con due muri di fondazione volti a contenere la spinta dell'altare stesso, di notevoli
dimensioni, e che sporgeva con l'angolo dal limite meridionale della terrazza, al fine di
preservare il sito ove si trova la cassa. La piazza antistante venne pavimentata in macco e
acciottolato.

II.5 Alcuni santuari minori

Grazie a Tito Livio veniamo messi a conoscenza della presenza di sortes sia presso Falerii245
che a Caere246. Non sappiamo quale fosse la natura dell'oracolo di Falerii, ma per quanto
riguarda Caere, Torelli ha proposto una lettura dell'ipogeo di C. Genucio Clepsina247 come un
templum sub terra, nella quale erano venerati i Lari pubblici della città rifondata in seguito al
273 a.C. come civitas sine suffragio248. L'ipogeo è accessibile da un dromos di m 10, in parte
con scalinata a cielo aperto, in parte scavato nel tufo, con due nicchie rettangolari, in semplice
pendenza verso l'ingresso. Al termine di questo corridoio vi è un braccio obliquo e corto sul
quale si aprono una galleria bassa ad andamento curvo da cui si accede ad un ampio ambiente
quadrato (cosiddetto Cavedio)249 ed una grande sala quadrangolare. Quest'ultima, pavimentata
in calcestruzzo, presenta una nicchia (Fig. 33) con dipinte in alto due palme che richiamano ai
Lari, insieme ad una figura femminile stante, Tacita Muta, ed un foro rettangolare da cui è
possibile accedere ad un cunicolo che dà su un pozzo, quest'ultimo in comunicazione diretta

244 CHIESA 2012, pp. 379 - 399.


245 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, XXII, 1, 11.
246 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, XXI, 62, 5.
247 A due descrizioni preliminari in CRISTOFANI 1988 e CRISTOFANI 1989 è seguito un rapporto completo in
CRISTOFANI - GREGORI 1987.
248 TORELLI 2000b, pp.141 - 176.
249 COLIVICCHI 2003, pp. 11 - 42.

66
Fig. 33 - Particolare della decorazione della parete centrale della nicchia e la sua ricostruzione.
(Torelli - Fiorini 2008, figg. 6; 7, p. 144.)

con l'esterno. Durante la celebrazione dei Rosalia, un fanciullo si calava nel pozzo per estrarre
le sortes da cui trarre il responso oracolare sul raccolto annuale. Non è possibile identificare le
sortes citate da Tito Livio con quelle dell'ipogeo di C. Genucio Clepsina, se accettiamo
l'ipotesi che queste venissero consultate solo per un rito annuo legato al raccolto, dato che nel
passo dell'autore il prodigio ad esse legato si verifica per preannunciare un nefasto evento
bellico. Le prime tracce culturali dell'area dove si trova l'ipogeo risalgono alla fine del secolo
VIII a.C.250, mentre l'uso dell'ipogeo stesso è attestato almeno fino al 208 d.C. da iscrizioni
nella grande sala quadrata di età imperiale251.

250 TORELLI - FIORINI 2008, p. 146.


251 CRISTOFANI - GREGORI 1987: delle cinque iscrizioni in nero-fumo, solo una riporta la data consolare.

67
Capitolo terzo

Gli oracoli e Roma

III.1 I libri Sibillini

Fino ad ora abbiamo analizzato elementi, fonti e strumenti divinatori attribuibili al territorio
laziale. Adesso possiamo addentrarci nell'Urbe, per poter osservare mezzi e processi mantici
propri esclusivamente della città, dotata di tante caratteristiche uniche, in cui non poteva di
certo non rientrare la pratica oracolare, importantissima per il mondo antico. Stiamo parlando
dei libri Sibillini, una raccolta di testi profetici giunti a Roma durante la fine dell'età regia e
che divennero la forma cleromantica ufficiale dello stato. Secondo la tradizione una donna
vecchia e straniera, di nome Sibilla, si presentò a Roma sotto il regno di uno dei Tarquini,
volendo vendere nove libri contenenti profezie per una data somma. Quando il re rifiutò, ella
bruciò tre dei libri e ripropose di vendere i rimanenti per la stessa cifra. L'operazione venne
ripetuta di nuovo in seguito al rifiuto del re, fino a che non rimasero soltanto tre libri, i quali
furono acquistati e custoditi all'interno del neo eretto tempio di Giove, Giunone e Minerva sul
colle Capitolino252. Secondo le fonti l'acquirente di questi libri profetici sarebbe un Tarquinio,
Prisco o il Superbo: Plinio e Gellio menzionano in chiaro il secondo, tuttavia il tempio in cui
sarebbero stati custoditi i libri dopo l'acquisto fu terminato dal figlio, ma votato ed iniziato dal
padre253, cioè Tarquinio Prisco, menzionato come acquirente dei libri Sibillini in Varrone 254.
Predisposti alla custodia e all'interpretazione di questi testi sacri furono istituiti i duumviri
sacris faciundi, il cui numero venne prima aumentato fino a dieci e la carica aperta anche ai
plebei255, infine divennero quindecemviri sotto Silla, in seguito all'incendio dell'83 a.C. che
colpì il Campidoglio e distrusse la raccolta256, ricostituita inviando una missione di tre persone
in varie città dell'Italia, della Grecia e dell'Asia Minore, per raccogliere le profezie di varie

252 DION. HAL., Ant. Rom. IV, 62; PLINIO Nat. Hist. XIII, 84 - 88; GELLIO I, 9 et alii.
253 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, I, 55: Tarquinios reges ambos patrem vovisse, filium perfecisse; DION. HAL.
Ant. Rom. III, 69: secondo questo autore nemmeno il secondo Tarquinio riuscì a completare l'opera, che fu
terminata dai magistrati che furono consoli il terzo anno successivo alla sua espulsione.
254 VARRONE in LATTANZIO, Div. Inst. I, 6: [..]septimam Cumanam nomine Amaltheam, quae ab aliis Herophile
vel Demophile nominetur, eamque novem libros attulisse ad regem Tarquinium Priscum.
255 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, VI, 37 : [..]duumviris sacris faciundis decemuiri creentur ita ut pars ex plebe,
pars ex patribus fiat; VI, 42 : [..]de decemuiris sacrorum ex parte de plebe creandis legem pertulere. Creati
quinque patrum, quinque plebis.
256 TACITO, Ann. VI, 6.12 : [..] quod a maioribus quoque decretum erat post exustum sociali bello Capitolium,
quaesitis Samo, Ilio, Erythris, per Africam etiam ac Siciliam et Italicas colonias carminibus Sibullae[..].

68
sibille. Questa nuova collezione venne poi trasferita da Augusto dal tempio di Giove
Capitolino all'interno di due teche dorate alla base della statua di Apollo sul Palatino e con
l'occasione, sempre per volontà del Princeps, epurata da testi ritenuti potenzialmente
minacciosi per sé e per lo stato257. Il nome Sibilla sembra indicare genericamente una donna
dalle capacità profetiche, specifica che ci viene fornita insieme ad un elenco di queste donne,
per un totale di dieci, differenziate per provenienza geografica 258. Certo è che questa non
apparteneva in origine alle tradizioni italiche, ma è un elemento che si è andato ad inserire in
un contesto già esistente di forme divinatorie 259, come ci suggeriscono diverse caratteristiche
proprie della Sibilla e dei suoi libri. Gli elementi di cui disponiamo attualmente non hanno
fino ad ora permesso di stabilire un'origine univoca della tradizione dei libri Sibillini, come
dimostra il lungo dibattito tra gli studiosi 260 se essa fosse esclusivamente greca,
esclusivamente etrusca, più greca che etrusca, più etrusca che greca. Oggetto di interesse in
queste pagine è stabilire un rapporto tra questa tradizione e le pratiche oracolari italiche. La
mantica di una Sibilla si svolge attraverso la divinazione ispirata, perciò orale: come già visto,
questo tipo di pratica appartiene principalmente all'ambito greco. Non solo, gli stessi libri
Sibillini sono scritti proprio in greco, riportando essi delle profezie che si presuppongono
inizialmente essere state pronunciate a voce. Come indicato dalle fonti e dimostrato da alcuni
autori, la profetessa che nella tradizione vende i libri al re Tarquinio è quella di Cuma, perciò
originaria dell'area greca261. Abbiamo già avuto modo di descrivere il disco di Cuma e come il
testo in esso riportato fosse in greco. L'interpretazione del testo, al di là delle divergenze tra
vari autori262, mette in relazione Hera alla pratica divinatoria che si svolgeva presso Cuma,
delineando così un rapporto stretto tra la Sibilla e la divinità 263. Tale rapporto muta nel tempo,
quando i libri Sibillini vengono trasferiti da Augusto presso la statua di Apollo Palatino e
convenientemente, in quegli stessi anni, Virgilio ci descrive una Sibilla legata al dio Apollo,
che la ispira e la manda in estati profetica264. Scampati all'incendio che consumò il tempio di
Apollo Palatino nel 362 d.C. i libri Sibillini vennero definitivamente distrutti durante il
principato di Onorio, precisamente nel 408 d.C. ad opera di Stilicone 265. Non abbiamo ancora
parlato del metodo con cui i libri Sibillini venivano consultati, né dei contenuti profetici che

257 SUETONIO, Augusto, 31 : solos retinuit Sibyllinos, hos quoque dilectu habito.
258 VARRONE in LATTANZIO, Div. Inst. I, 6.
259 POCCETTI 1998, pag. 81.
260 Per la storia degli studi sui libri Sibillini si rimanda a: MONACO 2005, pp. 51 - 57.
261 Da ultimo: PARKE 1988, p. 229 ss.
262 GUARDUCCI 1946 - 1948, pag. 131:"Hera non permette che si torni a consultare l'oracolo"; PUGLIESE
CARRATELLI 1979, pag. 221:"Hera non permette di vaticinare".
263 VALENZA MELE 1992, p. 49.
264 VIRGILIO Eneide VI, 42 - 155.
265 RUT. NAM. II, 51 - 52: nec tantum Geticis grassatus proditor armis: / ante Sibyllinae fata cremavit opis.

69
vi erano scritti. Sappiamo che solo i quindecemviri avevano l'autorizzazione alla
consultazione dei libri266 e possiamo immaginare che, almeno a partire dalla ricostituzione
sillana della raccolta, svoltasi grazie alla commissione recatasi, oltre che in Italia, in Grecia ed
in Asia Minore alla ricerca di profezie sibilline, i decemviri fossero parte "di quella classe
dirigente romana che scriveva e parlava greco, si rifaceva a modelli greci"267. Il metodo di
consultazione era del tutto casuale e quindi cleromantico 268, reso possibile dall'adattabilità dei
responsi scritti nei libri e, almeno per quanto riguarda la raccolta originale proveniente dalla
Sibilla cumana, questi venivano chiamati in causa per conoscere come ristabilire la pax
deorum in seguito all'avvenimento di un prodigium, indice della collera degli dèi269.
Riassumendo, il libro come supporto utilizzato per tramandare le tradizioni religiose è una
caratteristica tipica degli Etruschi, evidentemente ereditata dai Romani nei libri Sibillini 270. Il
testo, come già visto, è di provenienza Greca, così come l'usanza dei responsi oracolari orali.
L'adattabilità dei contenuti, invece, così come la pratica di consultazione cleromantica, sono
caratteristiche in tutto e per tutto italiche.

III.2 Il tempio di Giove Capitolino

Il tempio di Giove Capitolino, dedicato alla triade composta da Giove, Giunone e Minerva, fu
eretto nel VI a.C. su un podio di enormi dimensioni che misurava circa m 62 x 53. Il cantiere
si installò al di sopra di un'area precedentemente sfruttata per uso abitativo, ma che in passato
aveva visto alcune sepolture ed un insediamento, con area adibita ad attività metallurgiche,
almeno a partire dal Bronzo Recente che perdura fino all'età del Ferro271. L'edificio fu
inizialmente votato da Tarquinio Prisco durante la guerra contro i Sabini e durante il suo
regno fu livellata l'area e vennero gettate le fondazioni. Il resto dei lavori fu svolto sotto
Tarquinio il Superbo, il quale terminò la costruzione, dedicata tuttavia in seguito alla cacciata
dei Tarquini da Marcus Horatius Pulvillus, durante il terzo consolato dall'instaurazione della
repubblica272. Parte dell'area che il tempio andò ad occupare era già stata dedicata ad altre
divinità: alcune vennero ricollocate, altre finirono per essere integrate all'interno del nuovo
complesso, nello specifico Terminus e Iuventas. Tre celle affiancate ospitavano le statue delle
266 VARRONE in LATTANZIO, Div. Inst. I, 6. Possiamo supporre che questa restrizione fosse sempre esistita, anche
quando il collegio era costituito prima da due, poi da dieci membri.
267 BREGLIA PULCI DORIA 1998, pp. 284 - 285.
268 LA REGINA - TORELLI 1968, p. 226.
269 MONACO 2005, p. 55.
270 MONACO 2005, p. 57.
271 SOMMELLA MURA 2001, p. 263 - 264.
272 DION. HAL. Ant. Rom. III, 69, 1 - 2.

70
divinità, con Iuppiter Optimus al centro, Iuno Regina a sinistra273 e Minerva a destra274. I dati
materiali disponibili, in confronto all'importanza che il tempio rivestiva e alla ricchezza di cui
disponeva in passato come centro civile, militare e religioso di Roma, sono ben poca cosa,
soprattutto riguardo l'alzato e le decorazioni. Quello che rimane della platea di fondazione,
spoliata in gran parte nel '500 ed in buona parte inglobata nel Palazzo Caffarelli, sono spessi
muri perimetrali ed una maglia di setti murari ortogonali di minor ampiezza sotto le celle ed il
pronao, disposti a varie altezze per poter tutti poggiare su di un banco di tufo sottostante ad
uno spesso strato di argilla fluvio-lacustre275. Le murature sono in blocchi di cappellaccio, un
tufo presente in abbondanza nei colli romani, con poca resistenza ad agenti atmosferici, ma
che ben si presta se protetto da terra come nel caso di una fondazione. I blocchi sono disposti
in alternanza di testa e taglio, senza l'impiego di alcun legante. L'analisi dei materiali nei
riempimenti delle fosse di fondazione ha permesso di datare la realizzazione dei muri e della
trincea intorno alla seconda metà del VI a.C. grazie in particolare ad alcuni frammenti di
bucchero rinvenuti negli scavi più recenti276. Sul lato occidentale del cosiddetto Muro
Romano, che costituisce la parte della platea che sporgeva dal suolo maggiormente
conservata, e al di sopra di esso, è presente uno strato di conglomerato cementizio. Lo stesso
cementizio ritorna a tagliare la fossa di fondazione di altri setti, con chiaro scopo di risolvere
problemi strutturali. Questo intervento, che risale ad epoca tardo-repubblicana, è ascrivibile
alla ricostruzione del tempio ad opera di Quintus Lutatius Catulus in seguito all'incendio
dell'83 a.C. di cui parlano le fonti antiche 277. Sono proprio le fonti storiche che forniscono la
maggior parte degli elementi disponibili per proporre una ricostruzione dell'alzato e della
decorazione del tempio. Esistono due ipotesi principali sulla ricostruzione che sono state sino
ad ora portate avanti dagli studiosi278: la prima279, secondo la quale la platea di fondazione del
tempio coincide con le sue dimensioni effettive, e la seconda280, che vede invece il tempio di
dimensioni più contenute rispetto all'estensione della platea (Fig. 34). Oltre a queste due
ipotesi principali, una terza vuole l'attuale platea di fondazione risalente ad una fase
costruttiva di IV a.C. posteriore all'incendio gallico 281. Quest'ultima, tuttavia, non trova
273 CIL VI, 32329, 9.
274 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, VII, 3, 5: [...]fixa fuit dextro lateri aedis Iovis optimi maximi, ex qua parte
Minervae templum est.
275 DANTI 2001, pp. 338 - 346; AMMERMAN 1996, pp. 35-36.
276 DANTI 2001, p. 342.
277 TACITO, Ann. VI, 6.12; DION. HAL., Ant. Rom. IV, 61,4.
278 ARATA 2010, pp. 608 - 611: offre un'ottima raccolta bibliografica delle ipotesi. Ci limiteremo nelle note
successive a citare i contributi più recenti.
279 CIFANI 2008, pp. 100 - 109; SOMMELLA MURA 2009, pp. 333 - 372.
280 STAMPER 2005, pp. 6 - 33; TUCCI 2006, p. 390; ARATA 2010, pp. 612 - 622.
281 ALFÖLDI 1965, pp. 323 - 329; ipotesi accolta da VON KASCHNITZ-WEINBERG 1962, p. 34 e REIMANN 1969, pp.
110 - 121.

71
Fig. 34 - Ipotesi a confronto sulla stessa scala. A = Ricostruzione di dimensioni ridotte di Stamper;
B = Il tempio con l'alzato che coincide con la platea di fondazione di Sommella Mura.
( Rielaborazione da: Tucci 2006, fig. 1, p. 338)

riscontro nella documentazione delle fonti. La prima ipotesi incontra, secondo i sostenitori
della seconda, problemi nella statica dell'edificio, messi in evidenza da Giuliani e da
Stamper282: gli architravi lignei, che in questa ricostruzione andrebbero a misurare m 12 circa
in lunghezza non avrebbero potuto sostenere il peso del tetto e delle decorazioni fittili di
epoca arcaica, senza flettesi o peggio ancora spezzarsi.

Le fonti iconografiche

La prima rappresentazione del tempio di Giove Capitolino compare sul rovescio di denari,
coniati dal triumvir monetalis Marco Volteio dopo l'incendio dell'83 a.C. e mostra la fronte
tetrastila con colonne di tipo tuscanico, con tre porte chiuse da un doppio battente, frontone
decorato da un fascio di fulmini, il tetto con spioventi arcuati, decorato da appliques ricurve,
acroteri centrali e laterali (Fig. 35).

Successivamente, stavolta con fronte esastila, il tempio compare di nuovo sul rovescio dei

282 GIULIANI 1982 p. 30 - 31; GIULIANI 1990, p. 15; STAMPER 1998 - 1999, pp. 123 - 124; STAMPER 2005, pp. 27 -
33.

72
Fig. 35 - Rovescio di denario di Marco Volteio. Fig. 36 - Rovescio di denario di Petilio.
(Foto: www.wildwinds.com) (Foto: www.wildwinds.com)

denari di Petillio Capitolino nel 43 a.C., con un'aquila sopra un fascio di fulmini sul frontone
e la quadriga centrale sul tetto, più molte altre statue (Fig. 36).

Per quanto concerne l'epoca giulio-claudia, una rappresentazione del tempio compare su uno
skyphos in argento proveniente da Boscoreale (Fig. 37), in una scena di sacrificio officiato da
Tiberio. L'edificio viene raffigurato di tre quarti, tetrastilo in fronte con colonne ioniche,
frontone con aquila, su di un alto podio che sta su una piattaforma a blocchi sulla quale si apre
una porta ad arco.

Le fonti storiche

L'opera di Dionisio d'Alicarnasso è fondamentale per ricostruire le principali tappe della storia
del tempio di Giove Capitolino. Come già detto, l'autore antico nel terzo libro ci rende noto
che, dopo il voto pronunciato sul finire della guerra tra Romani e Sabini, Tarqinio Prisco
livellò il colle in preparazione del cantiere, portato quasi a compimento dal figlio, Tarquinio il
Superbo. Il tempio fu ultimato dai magistrati repubblicani nel terzo anno dopo la sua
espulsione283. Secondo Tacito, tra i due Tarquini vi fu l'intervento di Servio Tullio insieme ai
suoi alleati284. Vennero chiamati gli auguri per stabilire il luogo più adatto per l'edificazione
del tempio e furono rimossi numerosi altari già presenti nell'area, tranne quelli di Terminus e
Iuventas, che andarono a trovarsi nel vestibolo della cella di Minerva ed accanto alla statua
stessa285. Nel passo già citato di Tacito e nel quarto libro di Dionisio d'Alicarnasso, viene detto

283 DION. HAL. Ant. Rom. III, 69, 1 - 2.


284 TACITO, Hist. III, 72, 2: Max Servius Tullius sociarum studio, dein Tarquinius Superbus capta Suessa
Pometia hostium spoliis exstruxere.
285 DION. HAL. Ant. Rom. III, 69, 3- 6.

73
che Tarquinio il Superbo impiegò la
decima del bottino ottenuto da Suessa per
il tempio286. Questa decima, secondo Tito
Livio, ammontava a quaranta talenti
d'argento287. Poco più avanti nell'opera di
Dionisio d'Alicarnasso, viene menzionato
un prodigio: il ritrovamento di una testa di
un uomo ucciso da poco, che aveva la
faccia come fosse ancora vivo288. A Fig. 37 - Skyphos in argento dal tesoro di Boscoreale.
Parigi, Louvre.
seguito della sospensione dei lavori
vennero interpellati indovini etruschi, che
interpretarono il prodigio come segno della grandezza a cui Roma era destinata 289. Il colle fu
da allora chiamato Capitolium290. Successivamente all'acquisto dei libri Sibillini, questi
vennero collocati nel tempio di Giove Capitolino in una cassa di pietra sotto terra 291. Gli
ambienti sub terra nell'area dovevano essere molti se, come racconta Aulo Gellio riportando
parole di Varrone292, quando Quintus Lutatius Catulus, fautore della ricostruzione del tempio a
partire dal 69 a.C. in seguito all'incendio che lo distrusse sotto Silla nell'83 a.C., propose di
abbassare il piano di tutto il colle per elevare il podio e rendere l'edificio accessibile da
numerosi gradini, non gli fu possibile a causa delle favisae capitolinae. Sempre da Dionisio
d'Alicarnasso sappiamo che, salvo alcuni interventi e abbellimenti, il tempio rimase inalterato
dal suo primo impianto fino all'incendio di periodo sillano: "il tempio fu ricostruito dopo
l'incendio dai nostri padri sulle stesse fondamenta e differisce dall'antico solo per la bellezza
del materiale; dalla parte che si volge a mezzogiorno è circondato da un ordine triplo di
colonne, e da uno semplice dalla parte dei lati" 293. Il tempio dovette affrontare altre due
ricostruzioni pressoché integrali in seguito ad incendi, prima nel 69 d.C. e poco dopo nell'80
d.C., prima della sua completa distruzione ad opera di Stilicone, dei Vandali di Genserico ed
infine di Narsete.

286 TACITO, Hist. III, 72, 2; DION. HAL. Ant. Rom. IV, 59, 1.
287 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, I, 53, 1: Ubi cum divendita praeda quadraginta talenta argenti refecisset[..].
288 DION. HAL. Ant. Rom. IV, 59, 2.
289 DION. HAL. Ant. Rom. IV, 59, 1 - 3; DION. HAL. Ant. Rom. IV, 60, 1 - 4.
290 DION. HAL. Ant. Rom. IV, 61, 1 - 2.
291 DION. HAL. Ant. Rom. IV, 62, 5.
292 AULO GELLIO, Noctes Atticae, II, 10. Nello specifico: Q. Catulus curator restituendi Capitolii dixisset
voluisse se aream Capitolinam deprimere, ut pluribus gradibus in aedem conscenderetur suggestusque pro
fastigii magnitudine altior fieret, sed facere id non quisse, quoniam "favisae" impedissent.
293 DION. HAL. Ant. Rom. IV, 62, 4. Traduzione da ARATA 2010, p. 587.

74
III.3 Il tempio di Apollo Palatino

A seguito del suo rientro a Roma nel 36 a.C. dopo la vittoria su Sesto Pompeo, Ottaviano
dette inizio ad un cantiere sul Palatino per ingrandire la propria dimora destinandone parte al
pubblico, inglobando una serie di altre che aveva acquistato tramite i suoi procuratori 294.
Durante questi lavori, un fulmine colpì l'area e in quel punto il futuro Augusto decise di
edificare un tempio di Apollo, che venne dedicato nel 28 a.C. A riportare l'evento è
Suetonio295, che ci fornisce anche alcuni dati essenziali per la ricostruzione del tempio,
antistante al quale vi era un portico con annessa una biblioteca latina e greca con funzione
anche di curia. Il luogo dove cadde il fulmine è stato oggetto di recenti discussioni tra gli
studiosi: secondo alcuni si tratta della casa di Ottaviano296, secondo altri di una domus entrata
in possesso di Ottaviano in seguito alle proscrizioni, originariamente appartenente a Q.
Hortensius297. Senza entrare nel merito della questione, possiamo affermare che il tempio si
trovava all'interno di un complesso suddiviso in tre parti, una dedicata ad Apollo, una a Vesta,
una riservata ad Augusto (Fig. 38), come testimonia Ovidio298.

Attualmente i resti del tempio consistono nelle fondazioni in opera cementizia, oltre a parte
dei muri della cella (Fig. 39). L'assenza di blocchi di tufo per sostenere le parti portanti, in
concomitanza con la presenza di spazi per il loro alloggiamento, indica che il tempio si
elevava su un alto podio ed era pseudoperiptero esastilo 299. La metà superiore di un capitello
permette di conoscere l'ordine architettonico, che era corinzio, ed insieme a vari altri
frammenti che i capitelli e le cornici erano dipinti color giallo e oro300.

Antistante al tempio era un portico, di cui permangono resti di una muratura in reticolato, al
quale è addossato un muro di fondazione "M" in opera cementizia di tufo, spesso m 2.10 301.
Su di esso sono presenti i resti di un muro in blocchi di tufo sul quale si impostava lo stilobate

294 VELL. PAT. II, 81: Victor deinde Caesar reversus in urbem contractas emptionibus complures domos per
procuratores, quo laxior fieret ipsus, publicis se usibus destinare professus est[...]
295 SUETONIO, Augusto, 29: Templum Apollinis in ea parte Palatinae domus excitavit, quam fulmine ictam
desiderari a deo haruspices pronuntiarant; addidit porticus cum bibliotheca Latina Graecaque[...]; Del
fulmine ci parla anche CASSIO DIONE, XLIX,15,5.
296 CARANDINI 2008; CARANDINI 2010; BRUNO 2012.
297 WISEMAN 2009; COARELLI 2012. Sull'identificazione della domus si veda: E.PAPI. 1995, pp. 116 - 117.
298 OVIDIO, Fasti, IV, 951 - 952: Phoebus habet partem: Vestae pars altera cessit: / quod superest illis, tertius
ipse tenet.
299 ZINK 2008: L'autore ricostruisce il tempio sul modello di quello di Apollo Sosiano, con rimandi
all'architettura repubblicana.
300 ZINK - PIENING 2009, pp. 109 - 122.
301 Il muro di fondazione "M" non ha funzione portante secondo PENSABENE - GALLOCCHIO 2011, pp. 475 - 480;
PENSABENE - GALLOCCHIO 2013, pp. 557 -559.

75
Fig. 38 - Pianta del piano terra della Domus Augusti. (Atlante di Roma Antica II, Tav. 71)

del colonnato del portico302. Sono state fatte ricostruzioni con diversi numeri di colonne, la più
credibile risulta quella con 100 colonne di Bruno303. I frammenti che si conservano della
decorazione permettono di riconoscere l'ordine dorico del portico. Resti di una fondazione
rettangolare all'interno del portico sono stati attribuiti al tetrastylum Augusti304. L'altare,
302 IACOPI - TEDONE 2005 - 2006, p. 355.
303 Si veda da ultimo: BRUNO 2012, p. 233; PAPINI 2015, p. 327 - 328: L'autore concorda sulla base delle fonti
storiche; Per diverse ricostruzioni: 51 colonne in IACOPI - TEDONE 2005 - 2006, pp. 358 - 371; 64 colonne in
STROCKA 2008, p. 56 - 64.
304 BRUNO 2012, p. 233.

76
anch'esso entro l'area porticata antistante il tempio, è rappresentato su una serie di rilievi in
cui compaiono la triade apollinea e Victoria intenti in una libagione305 (Fig. 40). Sullo sfondo
di questi rilievi si intravede la parte superiore del tetrastylium Augusti. Il tempio di Apollo
venne ristrutturato dopo un incendio nel 3 a.C. 306, sopravvisse a quello neroniano del 64 d.C. e
andò distrutto definitivamente ad opera delle fiamme nel 362 d.C307.

Le fonti storiche

Oltre ai già citati Velleio Patercolo308, Suetonio e Cassio Dione309, possiamo ricavare molte
informazioni da Properzio310. Quest'ultimo autore ci fornisce una descrizione del portico
antistante il tempio di Apollo: attorno all'altare, che dominava il centro della piazza porticata,
stava una statua del dio e quattro buoi in bronzo, opera di Mirone. Lungo il portico erano 50
statue in marmo rosso e nero, raffiguranti le Danaidi ed i loro mariti a cavallo 311. Sempre
tramite Properzio sappiamo che una quadriga con il carro del Sole stava sul frontone del
tempio, che la porta era in avorio scolpito e che la statua di culto di Apollo era affiancata da
quelle di Diana e Latona, come rappresentate su un lato della cosiddetta Base di Sorrento.
Plinio312 torna sulle statue, attribuendole ad artisti greci di IV a.C., cui sono da riferirsi alcuni
frammenti di una statua colossale rinvenuti in zona313. All'interno del podio del tempio, in
ambienti voltati, oltre ai libri Sibillini venivano conservati alcuni tripodi in oro e una
collezione di gemme314. Alcuni versi di Persio315, riferiti alle statue del portico, attribuiscono
ad esse la capacità di fornire sogni oracolari ai postulanti.

305 POLITO 1994, pp. 65 - 100.


306 CASSIO DIONE, LV, 12, 4.
307 AMMIANO MARCELLINO, XXII, 3, 3: hac eadem nocte Palatini Apollinis templum praefecturam regente
Aproniano in urbe conflagravit aeterna, ubi, ni multiplex iuvisset auxilium, etiam Cumana carmina
consumpserat magnitudo flammarum.
308 VELL. PAT. II, 81.
309 SUETONIO, Augusto, 29; CASSIO DIONE, XLIX,15,5.
310 PROPERZIO II, 31.
311 Per una disamina sulla questione delle Danaidi si veda PAPINI 2015, p. 328.
312 PLINIO, Nat. Hist. XXXVI, 24: Praxitelis filius Cephisodotus et artis heres fuit. cuius laudatum est Pergami
symplegma nobile digitis corpori verius quam marmori inpressis. Romae eius opera sunt Latona in Palatii
delubro[..]; PLINIO, Nat. Hist. XXXVI, 25: Scopae laus cum his certat. is fecit Venerem et Pothon, qui
Samothrace sanctissimis caerimoniis coluntur, item Apollinem Palatinum[..]; PLINIO, Nat. Hist. XXXVI, 32:
Timothei manu Diana Romae est in Palatio Apollinis delubro [..].
313 TOMEI 1997, p. 47
314 SUETONIO, Augusto, 31; sui tripodi d'oro: SUETONIO, Augusto, 52: Nam in urbe quidem pertinacissime
abstinuit hoc honore; atque etiam argenteas statuas olim sibi positas conflavit omnis exque iis aureas
cortinas Apollini Palatino dedicavit; Res Gestae Divi Augusti, 24, 2; sulle gemme: Plinio, Nat. Hist.
XXXVII, 11.
315 PERSIUS II, 57 - 59: nam fratres inter aenos, / somnia pituita qui purgatissima mittunt, / praecipui sunto
sitque illis aurea barba.

77
Fig. 39 - Tempio di Apollo Palatino. In evidenza le diverse strutture in fondazione.
(Zink 2008, fig. 11, p. 57)

78
Fig. 40 - Rilievo apollineo, Roma, Villa Albani (inv. 1014)
(Foto: Polito 1994, fig. 1, p. 68)

79
Conclusioni

Le radici dei santuari oracolari nel Latium vetus e in generale in tutta la penisola italica,
affondano spesso in un periodo preurbano, testimoniato principalmente attraverso le fonti.
Dionisio d'Alicarnasso nella sua opera ci parla di una città chiamata Tiora, o Matiene, situata
a trecento stadi da Reate lungo la via Latina316. Qui, come testimonia l'autore, era presente un
oracolo di Marte molto antico, noto già agli Aborigeni, cioè gli Equi, secondo i quali un
picchio vaticinava su di una colonna di legno. Nell'Eneide, Virgilio descrive la consultazione
da parte del re Latino dell'oracolo di Fauno, che risponde con una voce proveniente dal
bosco317. Entrambe le fonti descrivono una situazione preurbana, testimoniata nel primo caso
dalla presenza di una divinità animale, il picchio, nel secondo caso da Fauno, un dio
antropomorfo che quindi non possiede un aspetto del tutto umano. Presso Cuma, l'oracolo
della Sibilla, di origine chiaramente greca, esiste dal momento della nascita della colonia
stessa. In tutti questi casi, ciò che le fonti riportano essere oracoli di antichissima origine
seguono tutti la pratica della divinazione orale. Diverso è il caso di Praeneste, dove le sortes
sono ritrovate da Numerius Suffustius quando già, secondo la memoria degli antichi, esisteva
un altro luogo di culto, situato più in alto rispetto a quello del ritrovamento delle sorti, presso
cui un olivo produceva miele. Gli aruspici decretarono l'abbattimento dello straordinario
albero per la costruzione di una cassetta in cui conservare le sortes, dunque questa fu una
scelta effettuata da un ordine sacerdotale. La città del celebre santuario di Fortuna sembra già
esistere al momento del ritrovamento miracoloso anche nelle fonti iconografiche: sul
coperchio della cista rettangolare l'incisione mostra come all'evento assistano spettatori
appartenenti a diverse classi sociali. Non conosciamo le origini degli oracoli di Ercole a Ostia
ed a Tivoli secondo gli antichi, possiamo solo fare alcune supposizioni sulla natura dei riti
divinatori che vi erano praticate in base agli elementi di cui disponiamo. Entrambi i santuari
mostrano tra i donari uno stesso modello di statua che, secondo canoni di origine greca,
celebra il dedicante per le sue qualità militari: ad Ostia la statua di C. Cartilius Poplicola, a
Tivoli quella del cosiddetto Generale di Tivoli. Il rilievo dell'aruspice Fulvius Salvis parla
chiaro, ad essere incoronato dalla Vittoria a seguito di un responso cleromantico è un
comandante. La statua di Fortuna con i suoi attributi da guerriera, molto simile ad una
Minerva armata, se non Minerva stessa, che si trovava all'ultimo livello del santuario di

316 DION. HAL., Ant. Rom. I, 14,5.


317 VIRGILIO, Eneide VII, 81 - 106.

80
Palestrina, dove si svolgeva il rito del sortilegio, indica la possibilità che le pratiche
divinatorie includessero richieste di carattere bellico. L'idea di consultare le sortes prenestine
nel 241 a.C. da parte di Q. Lutatius Cerco doveva avere una base possibilistica, data dal fatto
che le sortes potevano essere consultate per faccende legate alla guerra, o lo erano state in
precedenza. Ancora i salii, la cui attestazione è certa per Tivoli e che possiamo supporre anche
per quanto riguarda il santuario ostiense, ordine sacerdotale che conosciamo in relazione con
Marte, sono presenti anche in aree sacre ad Ercole per conferire alla divinità una valenza
guerresca. Marte ed i suoi attributi bellici ritornano nel testo di una sors di Falerii
raccontatoci da Livio318, in occasione di uno dei prodigi verificatisi in concomitanza con la
calata di Annibale nella penisola italica. Nel santuario di Tivoli, il tempio di Ercole presenta
due camere sotterranee all'interno del podio: si accede con delle scale ad uno degli ambienti, il
più grande, e da quest'ultimo si può passare all'altro. Una situazione del tutto analoga si
presenta ad Ostia, dove questa esatta sequenza di accessi è replicata a partire dal periodo
flavio per tutta la vita del santuario di Ercole. Qui, tuttavia, le due camere non sono inserite
nel podio del tempio, ma in un porticato all'interno dell'area sacra, sebbene ad esse,
seminterrate, si acceda da un piano superiore. In questo caso all'interno dei massicci muri è
presente un sistema idraulico, difficilmente spiegabile se non consideriamo l'uso rituale di
questi ambienti. La situazione cambia quando analizziamo la situazione a Roma. La pratica
divinatoria conosce esclusivamente canali ufficiali, se si escludono indovini itineranti che non
fanno tuttavia parte di un ordine sacerdotale inserito in un contesto santuariale. I libri Sibillini
sono lo strumento cleromantico fortemente voluto dai Tarquini di una città destinata alla
grandezza, tanto che vengono custoditi fin da subito nel tempio di Giove Capitolino
dall'architettura maestosa, quale che sia la ricostruzione accettata: quella che vede l'alzato del
tempio essere della stessa grandezza della platea di fondazione, oppure quella che lo vuole di
dimensioni più contenute. La neonata repubblica fa proprio questo strumento, sfruttandolo per
espiare i numerosi eventi prodigiosi, tanto cari ai romani. Con l'avvento dell'impero, Augusto
provvede ad eradicare qualsiasi tipo di mantica dall'Urbe. Sposta i libri Sibillini all'interno del
tempio di Apollo Palatino, che è parte del complesso della domus Augusti, un apparato che
fonde il pubblico con il privato. Il fine è chiaramente quello di voler custodire i libri vicino a
sé, dove li può controllare e far interpellare al momento necessario. A questo punto la
divinazione ad opera dei grandi santuari laziali appare uno strumento di carattere politico, più
che economico. Le offerte per la consultazione di un oracolo dovevano essere consistenti, ma
non paragonabili al potere di influenzare l'ordine pubblico. A tal proposito osserviamo come

318 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, XXII, 1, 11: Mauors telum suum concutit.

81
l'area commerciale all'interno dei santuari venga situata in posizione strategica. Abbiamo
come esempio Palestrina, con la terrazza dei fornici a semicolonne a metà del percorso che
conduceva il pellegrino dalla base del complesso alla cima, e Tivoli, dove la via Tecta è un
passaggio obbligato e remunerativo, se gli architetti si danno tanta pena per quelle imponenti
sostruzioni che permettono la costruzione di ambienti anche sul lato della strada che si
affaccia sull'Aniene. Resta da fare chiarezza su un ultimo punto, cioè quale sia l'importanta
della pratica mantica all'interno dei santuari laziali. I pochi elementi rinvenuti a testimonianza
dei riti divinatori, a volte costituiti da un semplice frammento di epigrafe, come nel caso di
Tivoli, o di un rilievo, come per Ostia, e la scarsezza di fonti scritte a tal proposito, sono
indice di una marginalità di questi riti nella vita dei santuari. Caso particolare è quello di
Fortuna Primigenia a Praeneste, raccontata con dovizia di particolari da Cicerone, che pure la
descrive in decadenza al suo tempo. Un momento buio destinato a passare in fretta, dato che
Tiberio fallì nel tentativo di disperdere gli oracoli vicini a Roma 319, spaventato proprio da un
miracolo prenestino che vide sparire le sortes dalla cassa in cui erano conservate, e che
Domiziano pare consultasse annualmente la Fortuna320, ottenendo il più delle volte responsi
positivi. La dea Fortuna, tuttavia, è un'eccezione nel panorama delle divinità antiche, l'unica
sopravvissuta ai giorni nostri: ancora oggi ci dividiamo tra quelli che, di fronte a determinati
eventi esclamano:"Che fortuna", e quelli secondo i quali la fortuna non esiste affatto.

319 SUETONIO, Tiberio, 63.


320 SUETONIO, Domiziano, 15.

82
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