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SANDOR PETÖFI

Sandor Petöfi nasce a Kiskörös l’1 gennaio 1823 da madre slovacca, lavandaia, e padre serbo, di
professione oste e macellaio, il cui nome era Stevan Petrovič, il quale risiedeva nella zona slovacca
di Nograd, al confine con la pianura ungherese. Petöfi si sentì però sempre ungherese, come del
resto tale si sentiva il padre, e a vent’anni muta il suo cognome originario
Petrovič nella forma ungherese Petöfi. Nel 1847 sposa, dopo un
corteggiamento serrato ma contrastato dalla famiglia di lei, la giovane
Julia Szendrey, conosciuta l’anno prima durante un ballo nel castello
Karelyi a Carei (Transilvania, oggi Romania), dalla quale ha un bimbo
nel 1848. Nel 1849, aderendo all’appello di Lajos Kossuth a combattere
contro i Russi, accorsi in aiuto dell’Austria, si reca a combattere in
Transilvania al seguito del generale polacco Jozef Bem, suo amico oltre
che suo grande estimatore: sul campo di battaglia di Segesvàr (l’attuale
Sighișoara, in Romania), muore valorosamente il 31 luglio, anche se il
suo corpo non fu mai ritrovato, dando adito così a numerose leggende
(fra le quali, per esempio, che egli sarebbe stato preso prigioniero dai Russi e deportato in Siberia,
dove sarebbe morto molti anni dopo di tubercolosi).
Le sue composizioni poetiche sono datate dal 1844, quando Petöfi aveva appena 21 anni, fino al
1849, l’anno della morte: cinque anni in tutto, dunque, ma non per questo sono poche, ché anzi
notevole e variagata fu la sua produzione. Sono da ricordare almeno le raccolte Poesie (Verzek,
1844; secondo volume Verzek II, 1845); Foglie di cipresso sulla tomba di Etelke (Cipruslombok
Etelke sírjára, 1845); Nuvole (Felhők, 1846); raccolte poi confluite in Tutte le poesie (Összes
költeményei, 1847); e ancora il famosissimo Nemzeti dal (Canto nazionale), pubblicato
singolarmente nel 1848 e diffuso a migliaia di copie fra i soldati ungheresi. Vanno poi ricordati
alcuni poemetti, e in particolare: Giovanni il prode (János vitéz, 1845); Stefano il folle (Bolond
Istók, 1847); L’apostolo (Az apostol, 1848). Isolati nella sua produzione sono, infine, il romanzo I
doveri del boia (A hóhér kötele, 1846) e la novella La tigre e la iena (Tigris és hiéna, 1847).
Considerato poeta nazionale ungherese, Sandor Petöfi nella sua poesia celebra tre temi principali:
l’amore per la donna (nella fattispecie per la moglie Julia), quello per la sua Patria (l’Ungheria) e
quello per la libertà (con forti connotazioni politiche).
L’amore per Julia Szendrey fu certamente una delle più importanti fonti di ispirazione per la sua
poesia: della donna si innamorò, come già detto, con un colpo di fulmine nel 1847, durante una
serata di ballo nel castello Karelyi a Carei. Superate le resistenze del padre di lei, che considerava
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Petöfi un artista scioperato, oltre che politicamente compromesso, l’unione fra i due fu
particolarmente felice (ne nacque anche un figlio, Zoltàn, nel 1848), e il sentimento d’amore che li
legava particolarmente intenso. A lei Petöfi dedica una lunga serie di liriche, nello stile tipicamente
romantico, dense di immagini delicate e suadenti, anche se spesso gravate
da un’ombra funebre, la quale, più che considerarla un tòpos del genere, va
inquadrata storicamente con la vita di Petöfi, diviso fra poesia e richiamo
delle armi, sotto le quali effettivamente cadde. Sotto un tale presentimento
il poeta professa all’amata la sua devozione, ben oltre i limiti spazio-
temporali del corpo, e che si estenderà nel regno dell’aldilà. Sono poesie,
quelle di Petöfi per la moglie, effettivamente appassionate, struggenti, di
dedizione totale. L’ideale del poeta è l’unione perfetta, fatta di ricordi, di
tenerezze e di malinconie, ispirate, quest’ultime, dalla paura del tempo che scorre e, soprattutto
dall’ombra della morte che minaccia la tranquilla e serena esistenza del nido familiare.
Se però fuori d’Ungheria Petöfi è ancor oggi noto soprattutto per le sue liriche d’amore (su tutte la
famosissima Sarò albero, se sarai suo fiore), in Ungheria, invece, egli rappresenta essenzialmente il
poeta della Patria, il cantore della libertà nazionale contro l’oppressione straniera, austriaca e russa,
in nome della quale vive, combatte, e soprattutto muore a nemmeno trent’anni, compiendo agli
occhi dei connazionali il sacrificio supremo con eroismo e convinzione. «Mai non ti abbandonerò, o
patria mia», scrive nella poesia Ho raggiunto quel che può un mortale, «la piena della mia felicità
può travolgere / il passato e l’avvenire, l’intera mia vita, / ma già mai il tuo sacro altare!». Quando
Petöfi parla dell’Ungheria senti che gli occhi gli si illuminano e gli si accende il cuore: tutto della
sua terra gli par bello, e tutto di lei descrive con accenti di sincera e profonda commozione. Questo
suo sentimento si sposa nella sua poesia a un vivido senso della natura, colta in tutte le sue
sfumature, anche minime. L’Ungheria è essenzialmente l’Alföld, la grande pianura verdeggiante, e
la puszta, l’immensa prateria: in questi ambienti il poeta è pienamente a suo agio, sia che vada a
zonzo a piedi, imbattendosi sovente in qualche leggiadra fanciulla; sia che, più frequentemente, si
slanci col suo cavallo a briglia sciolta smarrendosi in luoghi non calpestati da piede umano, fra
silenzio e presenza discreta degli animali, su tutti l’amata cicogna, l’uccello prediletto dal poeta.
Nell’adesione carne e sangue alla sua terra, il poeta proclama più volte il desiderio di vivere e
morire per essa: «qui sono nato», scrive ne L’Alföld, uno dei suo testi più belli, «qui su di me sia
ammucchiata la terra del sepolcro».
Strettamente connesso all’amore per la sua Patria è anche il tema della libertà, intesa da Petöfi come
lotta per la liberazione del suo paese dalla dominazione austriaca, spalleggiata dalla Russia. In
effetti Patria e libertà costituiscono per Petöfi un binomio inscindibile: la sensazione che il poeta
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prova cavalcando a briglia sciolta nella puszta è libertà, e di libertà ha sete la sua anima. Uno dei
suoi testi più estremi (almeno da un punto di vista politico), è il poemetto L’Apostolo, storia con
molti elementi autobiografici in cui il protagonista, dopo vani tentativi di redimere il popolo
oppresso e dopo aver perduto la sua famiglia (l’amata moglie e il figlioletto), rinnega Dio e il re,
simbolo in terra della tirannia, e lo uccide in un attentato, finendo così sul patibolo. L’ideale che lo
muove è quello di una libertà totale e priva di compromessi: «chi ne [della libertà] porta via anche
solo un atomo agli altri / commette peccato mortale», scrive nel poemetto. E altrove esclama: «La
libertà, l’amore! / Di queste due cose ho bisogno! / Per l’amore io sacrifico la vita, / per la libertà io
sacrifico l’amore!». In nome della libertà Petöfi scrive quindi una serie di componimenti, diventati
veri e propri inni di battaglia del popolo ungherese, incitato a sollevarsi contro l’oppressore
straniero e a riconquistare la libertà perduta.
Insomma un poeta, Petöfi, che fa della libertà la sua bandiera, in nome del riscatto della sua Patria,
oppressa e umiliata. Certamente il poeta non un fine politico, immune da eccessi e esagerazioni (la
sua Ungheria, ad esempio, vivrà uno dei periodi più floridi della sua storia dopo l’unione politica
con l’Austria -sotto il motto Indivisibiliter ac Inseparabiliter-, e la creazione, nel 1867, dell’Impero
Austro-Ungarico): ma semplicemente un cuore appassionato che batte per la sua terra, e che per la
sua Patria, la bella Ungheria, è disposto a sacrificare la sua giovane vita e l’amore più grande della
sua esistenza, l’affascinante Julia.
Patria e Libertà, fino alla morte: questo potrebbe essere dunque il motto di Sandor Petöfi; questa,
in definitiva, la sua vita, questa la sua poesia, questo il messaggio che ne può trarre l’uomo di oggi
e, soprattutto, quello di domani.

Corona di S. Stefano d’Ungheria


(Budapest, Museo del Parlamento)

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ANTOLOGIA POETICA

da Stefano il folle1
[Dialogo tra il padrone del casolare di campagna e Stefano]
«Ordina, di che devo parlare?2»
E il vecchio (piuttosto cogli occhi
che con la voce) così rispose:
«Nulla mi interessa, ormai»

«Non lo dire» esclamò il giovane Stefano


«Tu commetti peccato verso Dio,
rinchiudendoti lungi dal mondo
pieno di cose buone e belle»

«Pieno di cose buone e belle?» mormorò quegli


crollando il capo canuto.
«Può essere che siano buone e belle,
ma solamente per conto di pochi.

Se giammai porterai nel cuore


l’amarezza di settanta, ottant’anni,
e in essi non un fiore vizzo
e neppure un ricordo bello,

se l’albero della tua vita s’infrange


e tu non potrai dire neppure
che l’uccello della fortuna, una volta almeno,
si sia posato sui suoi rami a cantarvi una canzone3,

1
La storia è quella di Stefano detto Il folle, un pellegrino sorpreso da un nubifragio, il quale cerca rifugio per la notte in
un casolare di campagna, il cui padrone è un vecchio burbero. Accolto in casa, seppure di malavoglia, Stefano si
conquista la fiducia del vecchio padrone, un uomo che molto sofferto nella vita ed è molto deluso, il quale propone a
Stefano di vivere permanentemente nel casolare. Dopo l’arrivo di Stefano la vita del vecchio cambia radicalmente:
arriva in casa la nipote dell’uomo, fuggita da un padre tiranno che la vuole costringere a nozze non gradite, nipote che
poi sposerà Stefano, assicurando così al vecchio dei nipoti e finalmente un po’ di felicità nella vita.
2
Stefano, seduto a cena con il vecchio, vorrebbe conversare, ma è imbarazzato dal silenzio dell’uomo. Ardisce così
domandare al vecchio se desidera intavolare una qualsivoglia conversazione.
3
L’uccello è, nell’immaginario popolare, apportatore di buone notizie.
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5

ma appesi ai suoi rami4 siano i suoi tormenti,


come uomini impiccati5,
allora di’ tu come è il mondo,
dillo tu o giovane ragazzo.

[...]

Ho saldato il mio conto


con la vita.
Che vuole ancora essa da me?
Perché non mi rilascia?

Tutto è in me consumato,
nulla è rimasto.
Perché non gettar via ormai
il bicchiere vuoto6?

Sii maledetta, o vita,


maledetta tu sia!
Chi ti fu schiavo7
così tu tormenti!

Maledetto è il mondo intero


e una cosa sola benedetta:
ed è quella piccola fossa
dove la vita non ci può accompagnare8.

Che pace esser polvere là dentro,


dimenticare che fummo,

4
Quelli su cui avrebbe dovuto posarsi invece l’uccello della fortuna.
5
Immagine forte ma efficace: i tormenti e i ricordi frustrati sono come impiccati che penzolano dagli alberi.
6
Tradizionale immagine letteraria della vita come banchetto, dal quale bisogna alzarsi una volta sazi.
7
Nel senso di “chi ti ha servito come uno schiavo”.
8
La vita è dolore; la morte, essendo non-vita, è benedetta.
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6

che soffrimmo in quel luogo di martirio


che chiamiamo mondo!»

Qui tacque l’uomo dai tanti anni


e dai tanti dolori9,
ed il giovane osò prender la parola
solo dopo un lungo silenzio.

«Sacro è per me ogni dolore


e due volte sacro è quello del vegliardo,
non voglio offenderti, perdona
se il mio dire ferisce il tuo cuore.

Buon uomo, tu peccasti;


sopporta dunque il castigo,
ché se esso è grande, anche grande
fu la tua colpa: la disperazione10.

È questo il sommo peccato,


perché altro non è
che il più buio
ateismo11.

Il dubbio è voce infernale


che grida al cielo:
-Non c’è un Dio lassù
che pensi al genere umano?-

E certamente
chi dice questo
merita che da lui

9
Gli epiteti del vecchio sono di sapore epico.
10
La disperazione è il peggiore dei peccati perché rassegnazione ai mali della vita.
11
Chi crede in Dio crede nella Sua provvidenza; l’ateo, invece, abbandonato a se stesso, precipita nell’abisso della
disperazione.
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7

ritragga le mani il buon Dio.

Perché c’è un Padre del genere umano,


un fedele, provvido Padre,
e chiunque da Lui non si scosti
può bene vederlo.

Ma non siamo impazienti!


Egli ha tanti figliuoli.
Non pretendiamo che ponga
noi, dinanzi a tutti!

Questa è la legge: «Attendi il tuo turno!»


e non aspetterai invano.
Come il sole attorno alla terra, così
gira la sua bontà.

Nessuno ne resta privo.


Se Egli non viene oggi, giunge domani
e finché non è felice
non può morire.

E la felicità non è mai troppo tardi,


e questa è magica cosa:
se solo una goccia ve ne cadesse dentro
addolcirebbe un mare».

[Stefano il folle vorrebbe lasciare il casolare ma il padrone e la nipote lo bloccano. Stefano il folle
sposa la ragazza e così si conclude il poemetto]
Tanto piansero e singhiozzarono12
che di più non si poteva;
e a un tratto, dalla sua sedia

12
Il soggetto è il vecchio e la nipote, commossi dalla decisione di Stefano di voler partire.
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8

si rizzò il padrone,

e dalla schiena la bisaccia


al giovane tolse.
La fanciulla, dalle mani,
il bordone13 gli levò.

E misero in riposo
e bisaccia e bordone,
e Stefano il folle
più non se ne andò.

Non era invero così sciocco


da andarsene
da un luogo dove
era tanto amato!

Ora sono pochi i fiori della puszta


poiché soffiano i venti autunnali;
ma ancora ce ne sono abbastanza
per la corona nuziale.

E quando dalla chiesa


se ne uscirono moglie e marito14,
non altre parole che queste
poté dire il buon vecchio:

«Figli miei, siate


sempre così felici.
Ora che io conosco la felicità
posso ben morire»

13
Tipico bastone utilizzato dai pellegrini.
14
Ovviamente Stefano e la nipote del vecchio.
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9

«Non ti è permesso morire» mormorò il nipote15


«ancora qualche cosa ti resta.
I figli della tua nipotina, col tempo,
dovrai pur benedire»

Gli anni vennero, gli anni passarono;


uno faceva a gara coll’altro
quale avrebbe dato ai due sposi
più grande felicità.

Ed ora... devo dirlo o no?


I venti cacciano le nuvole,
la neve cade in fiocchi densi.
Neve sulla terra, notte sulla neve.

Nella puszta una sola luce risplende:


è il lumicino del casolare;
proietta la luce su quei due felici,
pare che vibri di gioia.

Là dentro, nella camera ben calda,


attorno al fuoco crepitante di scintille,
siedono il vecchio, il marito e la sposa
ed un paio di fanciulletti vispi.

La sposina fila e canta, il nonno


e il marito giocano coi bimbi.
Fuori fischia la bufera invernale... dentro
gira la rocca e allegra risuona la canzone16.

15
Stefano, nipote acquisito.
16
Il contrasto è fra l’ambiente esterno, freddo e buio, e l’interno della casa, intorno a un caldo focolare, con il nonno, e
la nuova famiglia. Stessa immagine nello pseudo-Virgilio dell’Appendix Vergiliana, nel poemetto Moretum.
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10

L’Apostolo
V

[L’abbandono di Silvestro, appena nato, da parte della mamma, in una cupa notte tempestosa]

Il battaglio dell’orologio annunziava la mezzanotte.


Era una cruda notte invernale.
Il freddo e la tenebra
imperavano,
due tiranni delle algide notti.
La gente era rimasta in casa,
sarebbe stato tentare Domeneddio
rimanere all’aperto.
Le strade dove, da non molto tempo,
la folla camminava pigiata,
ora erano deserte, come l’alveo del fiume
che si prosciuga.
Per le vie solitarie
solo un pazzo va errando:
è la bufera.
Essa galoppa su e giù per le vie,
come se portasse un demone in groppa
che la spronasse con speroni di fiamma.
La burrasca ribolle di collera,
balza fin sui tetti delle case,
fischia giù, dentro i camini.
Si slancia più innanzi e a piena gola
urla nelle orecchie sorde della notte cieca;
poi, afferratasi alle nuvole,
le dilania colle unghie aguzze;
le stelle ne tremano sbigottite,
mentre fra quei frammenti di nuvole
va qua e là rotolando la luna,

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11

come un cadavere portato sulle onde17.


Poi, d’un tratto,
e con nuovo sospiro
riprende a fischiare nella massa di nuvole;
dall’alto, piomba al suolo
come l’uccello rapace sulla preda.
Si afferra alle imposte di una finestra,
le scuote, forzandole collo sperone,
e mentre gli abitanti, destati nel sonno,
sorgono in piedi urlando,
essa galoppa via con un ghigno orrendo.

[Silvestro, adolescente, abbandona la casa dove era ospitato, ed esce nell’aperta campagna]
Il giovane lasciò la città,
e mentre usciva dalle strette mura
pensava: «Libero dalla prigione!»
E avidamente respirò l’aria pura,
il più prezioso dono del Signore
che dà forza al corpo
e all’anima mette le ali...

Poi guardò a lungo dietro di sé;


aveva camminato assai, lungi era la città,
le case si confondevano
l’una coll’altra;
la caligine dello spazio
inghiottiva a mezzo le brune torri,
e il lontano rumoreggiare della città era come un ronzio di api.
Il giovane incitava se stesso:
«Avanti, avanti!
Che io più nulla veda e più nulla senta

17
Siamo nello stile tipicamente romantico di metà Ottocento.
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12

di quel luogo ove finora vissi,


se vita si poteva chiamare la mia!»
E corse come fa chi fugge la punta del frustino.

E quando poi la città disparve


e si trovò in mezzo all’infinita vastità,
sentì di essere veramente libero.
«Sono libero!» gridò,
«Sono libero!»
E di più non poté dire,
ma parlavano le sue lacrime
e meglio esprimevano le sue sensazioni
di quanto la lingua avrebbe saputo.
Oh quali sensi, quali pensieri
nel cuore dell’uomo, la prima volta libero!

E il giovane andava, sempre avanti;


i bei paesaggi lontani lo attraevano
e a quella volta dirigeva i suoi passi.
Guardava ammirato il piano e i monti,
i prati in pianura, e i boschi montani
e tutto quello che gli appariva dinanzi,
poiché tutto era nuovo per lui.
Vedeva per la prima volta la natura,
le bellezze della natura.

E là, nell’infinito,
là, fra le nuvole,
in mezzo alle rupi che si impennavano,
dove il muggito del fiume è un tuono,
e il tuono è l’urlo del giorno del giudizio
estremo; oppure là, sul piano della puszta,
ove muta scorre la piccola sorgente silenziosa

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13

e il ronzio dell’insetto è il rumore più grande18...


Là si fermò il giovane,
e si guardò intorno con bramosia;
e mentre portava in giro lo sguardo e l’anima
per la vastità dell’orizzonte,
un senso mistico penetrò in lui19,
ed egli s’inginocchiò a pregare.
«Io ti imploro, o Signore, ora io so chi tu sei;
sovente udii e sovente pronunziai il tuo nome,
ma senza comprenderlo.
Ora la grande natura mi ha insegnato
la tua potenza e la tua bontà20.
Sii lodato, sii lodato in eterno.
Io prego te, o Signore: ora io lo so chi tu sei!21»

XI

[I primi studi scolastici di Silvestro gli rivelano il valore sacro della libertà]
Che lesse mai il giovane là dentro?
Che pensò egli, quando rinchiuse il libro
con mano tremante?
Pensò:
«Il chicco d’uva è un frutto piccino
e ci vuole un anno perché maturi.
Anche la terra è un frutto, ma un grande frutto,
e se per il piccolo acino occorre un anno,
quanti ne occorreranno per questo grande frutto
affinché maturi? Ci vorranno
millenni e forse milioni di anni,
ma tuttavia una volta sarà maturo

18
La solitudine e il silenzio della puszta sono immagini ricorrenti nella poesia di Petöfi.
19
L’incontro dell’uomo con la natura, creatura di Dio, nella sua bellezza, vastità e potenziale eternità in raffronto alla
piccolezza e alla transitorietà della singola vita umana, è un canale privilegiato per fare da ponte fra l’uomo e Dio.
20
Dalla natura il protagonista del poemetto arguisce la potenza di Dio, sulla base della bellezza e della vastità del
mondo naturale; e la bontà del creatore, sulla base dell’ordine provvidenziale che regola il mondo vivente (oltre che, in
second’ordine, dalla stessa bellezza della natura che è indice di bontà d’animo da parte di chi l’ha creata).
21
La ripetizione enfatica del concetto sottolinea la piena rivelazione del creatore per mezzo o attraverso le sue creature.
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14

e con esso banchetteranno gli uomini


sino alla fine del mondo.
L’uva matura per mezzo dei raggi solari,
e per diventare dolci quanti raggi
alitano su di essa il caldo vitale, quante
centinaia di migliaia, quanti milioni di raggi!
I raggi fanno maturare anche la terra,
ma quelli non sono i raggi solari, ma
i raggi dell’anima umana22.
Ogni anima grande è uno di questi raggi,
ma solo le anime grandi23, e queste nascon di rado.
Come potremo noi dunque sperare
che la terra maturi presto?
Sento di essere anch’io un raggio
che aiuta la terra a maturare,
ma la cui vita non dura che un giorno24!
So che quando avverrà
il grande raccolto25,
io sarò da molto tempo scomparso
e la traccia minuscola della mia opera,
sommersa fra l’immane lavoro.
Ma dona una forte coscienza alla mia vita
e rassegnazione alla mia porta
il sapere che io pure, io pure, sono un raggio!
Al lavoro, dunque,
su, al lavoro, anima mia!
Non vi sia un giorno, non un attimo perduto.

22
L’uomo, cioè, è parte attiva del mondo, e la sua anima (pensiero che si traduce in azione) trasforma e plasma la realtà.
23
Il concetto espresso è indice di una visione aristocratica dell’esistenza: solo i grandi uomini, che sono pochi per
definizione, possono incidere veramente sulla realtà; la maggior parte, invece, la massa, è insensibile e sorda a una tale
prospettiva.
24
Ars longa, vita brevis: l’immagine classica (ripresa nel poemetto anche più sotto), poi passata anche nella letteratura
moderna (per es. Faust, I parte, vv. 558-559: «Die Kunst ist lang, / und kurz ist unser Leben»), rimarca la brevità della
vita umana, per cui il tempo a disposizione –soprattutto per i grandi progetti e per quelli più ambiziosi- è poco, e va
sfruttato al massimo senza sprecarne neppure una goccia.
25
L’immagine della raccolto (alla fine dei tempi), in cui bisogna rendere conto di quanto fatto, è evangelica (Matteo 13,
24-30 e paralleli).
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15

È grande il compito,
il tempo vola, e
la vita è breve.
Quale lo scopo del mondo?
La felicità26. E il mezzo per raggiungerla? La libertà27.
Per la libertà io devo combattere,
ché tanto si è lottato per lei.
E se necessario darò il mio sangue,
ché tanto ne fu dato per lei.
Accoglietemi, o cavalieri della libertà,
accoglietemi nelle vostre sacre file.
Giuro fedeltà alla bandiera.
E se vi è nel mio sangue una goccia di sangue ribelle
io lo spargerò, lo sprizzerò fuori delle mie vene,
seppure si troverà nel mio cuore»28.
Fece questo voto... non l’udì l’uomo,
ma di lassù lo sentì il Signore:
Egli prese il libro santo, nel quale
sono annotati i martiri29,
e vi scrisse il nome di Silvestro.

XII

[Silvestro inizia a scoprire il mondo]


Vedeva altrimenti il mondo
di come se lo era raffigurato;
gli pareva ogni giorno più piccolo
e che vi sprofondasse sempre di più
l’uomo che Dio ha creato a sua immagine,
l’uomo, che coi suoi occhi dovrebbe guardare nel sole,

26
Nella Dichiarazione di Indipendenza americana del 4 luglio 1776 è giuridicamente riconosciuto il diritto «alla vita,
alla libertà e al perseguimento della felicità».
27
La libertà, dunque, per Petöfi non lo scopo da raggiungere (che è invece la felicità di ognuno) ma lo strumento
necessario e indispensabile –in pratica la conditio sine qua non- per poter essere felici.
28
È delineata in queste parole tutta la parabola terrena della vita di Petöfi, conclusa, appunto, con la morte ventiseienne
sul campo di battaglia contro un nemico oppressore e liberticida.
29
Silvestro, il protagonista del poemetto, sarà dunque un martire della libertà.
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16

e invece guarda nella polvere


come se cercasse i vermi,
per imparare da loro a strisciare30.
E quanto più piccolo appariva a lui l’uomo,
tanto più grande
vedeva il compito
per il quale si sentiva chiamato.
Ma non si scoraggiava.
Forse il suo destino era umile come quello della formica;
ma come questa egli era instancabile.
Il suo cerchio era ristretto,
ma egli lo colmava
col fuoco della sua anima.

XVII

[Silvestro in prigione ha la visione della moglie morta, e maledice Dio]


«Ho finito di soffrire, Dio sia con te!31»
egli ripeteva le parole udite.
«Questo lo disse la dolce voce che
non sentirò mai più:
Io ho cessato di soffrire, Dio sia con te!
Dio è dunque con te, piccolo ramoscello32 dell’anima mia,
tu che il disastro ha trascinato lungi da me.
Se ti ha portata via, perché mi ha lasciato?
A che vale la pianta senza i suoi rami?
Dove ti ha disperso la bufera?
E dove potrò ritrovarti, se pure sfiorita,
per sospirare presso le tue sacre rovine
tutto il tempo che mi resta di vita?
Io non ho più bisogno di vivere
poiché lo scopo della mia esistenza è perduto.

30
L’uomo, privato della sua libertà, è una creatura oppressa che ha perduto la sua dignità che lo rendeva simile a Dio (il
quale, essendo puro spirito, è libertà per definizione), ed è ridotto al rango dei vermi che strisciano sulla terra.
31
Sono le parole pronunciate dalla moglie, durante la visione.
32
Come dirà qualche verso più sotto, Silvestro è la pianta, la donna amata il ramo dalla pianta generato.
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17

Tu eri la ragione della mia vita;


per mezzo di te e per te io vivevo,
o mia divina amata.
Tu sola eri realtà.
Gli altri? L’umanità, la libertà?
Sono tutte vuote parole, vane chimere
per le quali solo i folli lottano33.
Tu sola eri realtà,
o mia divina amata!
E ti ho perduta per sempre!
Potrei scavare come una talpa
tutta la terra, ma non ti ritroverò...
Tu diverrai polvere come chiunque altro;
polvere, come tutti diventano,
frammischiata alla terra,
come se tu non fossi altro che pianta o animale34.
Ma io sopporterei questa perdita,
sopporterei in pace questo immane peso,
così grande da cadervi sotto spossato,
se avessi potuto prender congedo da lei,
se io le avessi detto una sola parola,
una piccola, breve parola...!35 Ma è finito, finito.
Dio non volle permetterlo!
Come è crudele Dio!
E l’uomo stolto s’inginocchia davanti a lui,
lo chiama padre e lo prega.
Sei un tiranno36, o Dio, e io ti maledico!
Tu siedi lassù sul trono celeste, insensibile
nella tua fredda dignità,
proprio come i tiranni della terra,
33
Nel dolore per la perdita dell’amata moglie, Silvestro rinnega anche l’ideale sommo della sua vita, quello della libertà
(e dell’umanità, per la quale lui, da apostolo, combatteva).
34
Si insinua il dubbio nella mente di Silvestro della non esistenza di Dio: l’uomo sarebbe pertanto solo corpo, polvere
destinata alla terra come qualsiasi altra pianta o animale bruto.
35
Silvestro è stato arrestato senza che gli fosse consentito di potersi congedare dalla moglie (e dal figlioletto).
36
Per Silvestro, apostolo della libertà, la definizione di tiranno è la più degradante.
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18

e regni orgogliosamente, e ogni giorno


tu torni a dipingere
col sangue dei cuori trafitti
e coi raggi mattutini,
la porpora logora del tuo trono regale.
Sii maledetto, o più tiranno dei tiranni!
Come tu mi rinnegasti,
così io ti rinnego!
Avrai uno schiavo di meno!
Riprenditi questa vita che
mi buttasti come un’elemosina;
riprendila e tornala a donare
a un altro, che la trascini a stento.
A me non serve questa vita data per pietà;
te la getto ai piedi affinché si infranga
quale inutile coccio!»
Tanto urlava il prigioniero, che le tenebre
atterrite ne tremarono,
ed egli, sempre gridando, nell’impeto della collera,
battè il capo contro il muro e si abbioccò.
E il muro risuonò di quel terribile colpo
come se ne avesse inteso il dolore.

Poesie
Dove sei, buon umore dell’antico tempo
Dove sei, buon umore dell’antico tempo,
birichino, selvatico ragazzo?
Diede il cambio con te la tua sorella,
la muta trasognata malinconia37.

Il mio cuore era il tuo trastullo,


dove non lo hai tu portato?

37
Atteggiamento spirituale tipico del Romanticismo (per esempio, su tutte, la nota Ode to Melancholy di John Keats).
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19

Correndo come freccia lo portasti


attraverso il mondo.

E alla fine inciampasti


in una tomba38,
e nel cadere, il trastullo
-il mio cuore- fu spezzato.

Nacqui nella puszta


Nacqui nella puszta, abito la puszta;
non ho capanna col suo tetto e col camino,
ma ho una stalla e un ottimo destriero39:
sono un csikos40 dell’Alföld.

Cavalco a dorso nudo;


in qualunque luogo io me ne vada
non ho bisogno di sella41:
sono un csikos dell’Alföld.

Ho i calzoni di tela, la camicia di lino fine42.


Non le acquistai, me le cucì per niente
la mia vermiglia rosa che, fra pochi giorni,
sarà la moglie di un csikos dell’Alföld43.

L’Alföld
Che sei tu mai per me, o selvaggio e romantico paese
degli incolti Carpazi44, colle tue pinete?
Posso ammirarti, ma non già amarti

38
L’impatto con l’idea della morte ha segnato una cesura nella vita del poeta, fra un prima (l’epoca del « buon umore
dell’antico tempo») e un dopo (l’epoca della maturità pensierosa).
39
Il cavallo, per poter scorrere liberamente nella prateria, è l’unica cosa necessaria al poeta, più di una stabile dimora.
40
Tradizionale cavaliere ungherese.
41
Per poter scorrere più liberamente e senza freni di sorta.
42
Per sentire alitare il vento, e, in genere, per sentirsi nudi a contatto con la natura, per immergersi in essa.
43
Una compagna stabile resta comunque un ideale per questo cavaliere selvaggio.
44
La Romania.
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20

e la mia fantasia non erra per i tuoi colli e le tue valli.

Laggiù, sulla terra dell’Alföld piana come il mare,


là sono a casa mia, là è il mio mondo.
La mia anima è un’aquila liberata dalla prigione45
allorché contemplo lo sterminato piano.

Mi sollevo nell’aria in quel pensiero


sopra la terra, presso le nuvole,
e sorridendo mi guarda la pianura
che si distende tra il Danubio e il Tibisco46.

Sotto un cielo pieno di miraggio, rintoccano i campani


delle cento pingui mandre della piccola Cumania47.
Nel meriggio, presso il pozzo dal lungo mazzacavallo48,
il ramo biforcato del largo trogolo49 attende.

La corsa al gran galoppo delle mandre


romba nel vento, le unghie frugano la terra,
s’ode l’urlar dei csikos
e lo schioccar delle sonore fruste.

Nel morbido grembo dei venti, presso le fattorie


ondeggia il frumento ricco di spighe
e del suo vivo colore smeraldino50
inonda gaiamente la contrada.

Dai vicini canneti le anatre selvatiche51

45
Solita immagine in Petöfi della libertà dalla prigione della vita: la vita, se non è libertà, non è neanche vita.
46
Un affluente del Danubio.
47
La piccola Cumania è appunto la regione compresa fra il Danubio e il Tibisco, così chiamata in quanto colonnizzata
dalla popolazione nomade dei Cumani nell’XI secolo.
48
Dispositivo per attingere l’acqua dal pozzo.
49
Sorta di vasca rettangolare con cui si abbeverano i cavalli.
50
Cioè verde intenso e brillante.
51
Le anatre selvatiche sono caratteristiche dell’Alföld, costellato da numerosi laghetti.
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21

qui vengono nel crepuscolo serale,


svolazzano nell’aria spaventate
se le canne oscillano nel vento.

Oltre le fattorie, in fondo alla puszta


sta una csarda52 solitaria, col suo camino di sghembo,
la frequenta il betyar53 assetato,
quando si reca al mercato di Kecskemèt54.

Presso la csarda un bosco di pioppi nani


ingiallisce nella sabbia fiorita di lunarie55,
vi fa il nido il falchetto schiamazzante
e i fanciulli non lo stanno a molestare.

Là alligano i tristi arbusti della stipa56


e l’azzurro fiore del cardo
presso le cui radici si adagiano in riposo
le variopinte lucertole nell’afa del meriggio.

Lontano, dove il cielo raggiunge la terra,


cime di alberi fruttiferi, azzurri d’ombre,
guardano; e dietro di essi, come pallide colonne di nebbia
stanno i campanili delle borgate.

Sei bello, Alföld; per me, almeno, sei bello!


Qui fui tenuto in culla, qui io nacqui.
Qui si stenda su di me il funebre lenzuolo,
qui su di me sia ammucchiata la terra del sepolcro57.

52
Fattoria ungherese.
53
Specie di bandito della puszta, ma con tradizioni di generosità e di cavalleria.
54
Molto rinomato ai tempi di Petöfi.
55
Pianta dall’aspetto tondeggiante e piatto del frutto (da cui i nome).
56
Altra pianta graminacea.
57
Il poeta proclama che nella stessa terra dove è nato, lì vuole morire: un’adesione totale di carne e di sangue alla sua
Patria.
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22

È tornato l’autunno
È tornato l’autunno
ed è bello, come sempre:
chissà perché mi piace,
mi piace tanto.

Siedo sulla collina


e mi guardo intorno,
e ascolto il rumore silenzioso
delle foglie che cadono dagli alberi.

Il raggio del sole gentile


guarda alla terra e le sorride,
simile a una madre che con affetto
guarda il figlio addormentarsi.

Così la terra in autunno


non muore, ma si addormenta:
si vede dal suo sguardo
che è solo sonno non malattia.

Si è tolto di dosso i suoi bei vestiti58,


e si è spogliato pian piano:
si rivestirà al ritorno
di primavera, che è la sua mattina59.

Dormi, dormi, bella natura!


Dormi fino alla tua mattina!
Sogna tutto quello
che più ti piace!

Io la mia cetra

58
I colori della natura d’estate.
59
Come l’autunno è la notte in cui la Natura si addormenta, la primavera sarà la mattina del suo risveglio.
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23

la sfioro appena appena:


il mio dolce canta
sarà la ninna nanna per te.

Amore, siediti accanto a me,


resta qui senza dir niente,
mentre il mio canto vola piano
come la brezza sul lago.

Se mi baci, appoggia le tue labbra


piano piano sulle mie:
non dobbiamo svegliare
la natura che dorme!

Bevo acqua
Ascoltatemi un po’,
e meravigliatevi,
perché ogni giorno accade
quel che udirete.
È cosa di cui
mi meraviglio io stesso,
ma è sacra verità:
non vino... acqua bevo,
sicuro... acqua.

Il gelo devastò forse


l’anno scorso le viti?
O la brina le ha sciupate,
e non han fatto assai vino?
No, non fu né la brina né il gelo,
se ne fece tanto di vino!
Ma tuttavia io
non vino... ma acqua bevo,
sicuro... acqua.
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24

O supponete forse
che io non abbia sete?
Non è questo! La mia sete
per Dio, è assai grande;
ma tuttavia io
non vino... ma acqua bevo,
sicuro... acqua.

Ma perché su questo enigma


nessuno si torturi il cervello,
risolverò brevemente
questo indovinello:
io, il vino, di solito,
me lo faccio portare dall’ostessa...
Ma ora non ho denaro... acqua
e non vino per questo io bevo,
sicuro... per questo60.

Un mio inverno a Debreczen


Ah Debreczen
come ti rammento!
Quanto soffrii fra le tue mura,
eppure malgrado questo
quanto mi piace
ricordarmi di te!

Non sono cattolico61,


eppure ho fatto i miei digiuni, e grandi62.
È bene che l’uomo abbia denti di ossa,
fu questo un savio decreto degli dèi,

60
La spiegazione finale è un’ammissione di povertà da parte del poeta, di cui davvero Petöfi soffrì in varie occasioni, la
più nota delle quali è nel periodo vissuto a Debreczen (su cui la poesia a seguire).
61
Petöfi è di religione protestante.
62
La povertà, cioè, gli ha imposto, con la fame, digiuni più grandi.
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25

poiché se i miei fossero stati di ferro


la ruggine li avrebbe corrosi.

Nel cuore dell’inverno


ho mancato
di paglia per il fuoco,
e dormivo in una camera fredda,
e se indossavo la mia logora guba63
potevo esclamare
come lo zingaro di dentro alla sua rete64:
«Ahimè, che freddo fa là fuori!65»

E il bello era poi


se mi mettevo a scrivere poesie:
le mie dita si gelavano per il freddo.
E come difendermi?
Che potevo altro fare?
Stringevo al petto
la mia pipa accesa
finché il gelo, alla fine, cedeva un poco66...

E nella mia miseria mi consolava solo il pensiero


delle mie più grandi miserie passate67.

La cicogna
Di uccelli ce ne sono molte specie,
chi ama questi e chi ama quelli;
gli uni per la voce canora, gli altri
per la piuma variopinti sono preferiti.
L’uccello da me scelto

63
Mantello foderato di pelliccia di montone tipico dei contadini ungheresi.
64
Cioè come lo zingaro che na nulla con cui coprirsi tranne che la sua rete da pesca.
65
La guba è «logora», e dunque non giova a combattere il freddo.
66
Particolare bellissimo di vita vissuta.
67
Pensare a situazioni peggiori di quella in cui ci si trova è un utile espediente psicologico.
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26

non raggiunge la perfezione nel canto:


è semplice, come sono io... mezzo in abito nero,
mezzo in abito bianco, si aggira.

Per me l’uccello più caro


fra tutti è la cicogna,
fedele abitatrice della mia diletta terra natìa,
il caro e bello Alföld.
Forse io la amo tanto
perché con lei sono cresciuto,
perché, quando piangevo nella culla,
sopra di me lei blaterava.

Ho trascorso con lei la prima età.


Ero un ragazzo serio,
e quando i compagni, al calar della sera,
sospingevano le mandrie che ritornavano alla stalla,
io mi recavo giù nel cortile
vicino al capanno coperto di giunchi,
e in silenzio contemplavo le piccole cicogne
alla prova del volo.

E fra di me andavo meditando. Assai spesso


questo pensiero mi frullava in capo:
perché l’uomo non fu, come l’uccello,
creato colle ali?
Che giova colle gambe andar lontano
e non in alto?
Che importa a me della lontananza
se bramo le altitudini?68

Anelavo all’altezza! Ah, come invidiavo

68
Consueto all’anelito alla libertà (qui, dalla terra e dai suoi angusti limiti).
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27

il destino del sole


che mette una cappa intessuta di luce
sulla sfera terrestre.
Ma che pena vederlo poi alla sera trafitto,
e scorrere dal suo petto il sangue!
Pensavo: dunque accade così? Dunque chi dà la luce
tal mercede riceve69?

L’autunno è la stagione desiderata dai bimbi:


viene come una madre
che per i suoi fanciulli
riempie di bei frutti il panierino.
Io guardavo ostilmente l’autunno, e gli dicevo
se quei frutti recava:
“Tiènti i tuoi doni, se il mio caro uccello,
la cicogna, tu lontano attiri con le tue lusinghe!70”

Le vedevo assembrarsi a malincuore,


pronte per partire,
e tenevo loro dietro con lo sguardo,
come ora alla trascorsa gioventù.
Ed era triste sul tetto della casa
vedere tutti quei nidi vuoti;
una brezza mi alitava in volto, l’alito sottile del presagio
che io scorgo nel mio avvenire.

Quando, col finire dell’invero, la terra deponeva


la bianca suba71 di neve
e rivestiva invece
il dolman72 verde cupo, guernito di fiori,

69
Dare la luce significa sacrificarsi per gli altri, con il rischio del fallimento sempre in agguato (tale, per esempio, è la
parabola tratteggiata da Petöfi ne L’apostolo).
70
Perché, ovviamente, le cicogne in autunno migrano.
71
Lungo cappotto simile alla guba.
72
Giacca corta e attillata, tipica degli ussari ungheresi.
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28

la mia anima allora si vestiva a nuovo


con abiti festivi,
e ad aspettar la cicogna talora me ne andavo
al limitare dei campi del vicino.

Più tardi, quando avvampò la scintilla73,


che di me fanciullo fece un giovinetto,
sotto il mio piede ardeva la terra74,
io mi lanciavo sopra il mio cavallo
e a briglia sciolta cavalcavo
per lo spazio infinito della puszta.
Anche il vento lottava
per raggiungere il mio destriero.

Amo la puszta: là mi sento


pienamente libero75.
I miei occhi spaziano dove a loro piace.
Rocce cupe non mi fanno barriera,
non mi stanno d’attorno
come spettri che minacciano
e che lancino torrenti scroscianti
quasi facessero risuonar catene76.

Nessuno dica che la puszta non è bella!


Essa ha pure le sue bellezze;
ma quelle, come il volto di una fanciulla pudica,
ricopre un denso velo.
Dinanzi ai buoni conoscenti e agli amici
essa lo abbassa,
e l’occhio incantato in lei si fissa
perché gli appare come una fata77.

73
La brama della libertà, di sé e della sua Patria.
74
La terra sembra bruciare di fronte all’ardore giovanile.
75
Nella mente del poeta, dunque, puszta uguale libertà (da qui l’immagine del cavalcare a briglia sciolta).
76
Le catene del prigioniero, dalle quali il poeta si è liberato cavalcando nella puszta.
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29

Amo la puszta: là io andavo errando


sul mio focoso destriero,
e quando mi aggiravo in quelle lande,
dove impronta non c’è di piede umano,
scendevo da cavallo e mi stendevo sul prato.
Un fuggevole sguardo
al lago vicino... e chi mai vedevo?
La mia amica cicogna.

Anche là ella mi seguiva, insieme andavamo fantasticando


nella infinita puszta;
lei il fondo dell’acqua, io la fata morgana78
a lungo contemplando.
Trascorsi con lei la mia infanzia
e il miglior tempo della mia gioventù:
perciò le voglio bene, anche se le sue penne non brillano,
e non è bello il suo canto.

Anche ora79 mi è cara, e penso


talvolta alla cicogna
come alla sola realtà rimasta
di una sognata epoca più bella.
Di anno in anno attendo il suo ritorno ancora,
e a te auguro felice viaggio,
o mia amica più remota!

Fuoco
Non voglio imputridire
come il salice nella palude80.

77
In pratica le bellezze della puszta si rivelano soltanto a chi la conosce; chi è forestiero non le può comprendere.
78
Cioè la puszta stessa, «bella come una fata».
79
L’avverbio sottolinea il ritorno del poeta alla realtà, dopo la malinconica rievocazione dell’infanzia trascorsa.
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30

Voglio ardere come


la quercia fra le nuvole infiammate81.

Il fuoco mi abbisogna; nell’acqua stiano


le rane e i pesci,
e i mediocri poeti
che al modo dei ranocchi gracidano82.

Tu sei il mio elemento, o fuoco.


Troppo patii nella mia vita il gelo,
troppo tremò il mio povero corpo83,
anche se sempre arse l’anima mia.

Vieni, ti amo, bella fanciulla.


Vieni, ti amo con passione,
ma sii ardente, se no
vattene, coll’aiuto di Dio84.

Olà, oste! Vino voglio bere,


ottimo vino, ché se sarà innacquato,
mi potrai ringraziare se contro il muro
romperò il boccale, e non sulla tua testa.

È solo vita quella che si vive


con un’ardente fanciulla e un vino che infiammi,
e... quasi scordavo...
non vi manchi il canto.

80
Consueto richiama di un poeta che evidentemente aveva ben chiaro il suo destino: il desiderio è non fare la fine, lenta
e ingloriosa del salice nella palude, il quale si imputridisce lentamente giorno dopo giorno, ma bruciare rapidamente e
violentemente come fiamma.
81
Le nuvole, alte in cielo, sono simbolo di libertà.
82
L’eccezionalità esistenziale del poeta è poi trasferita su un piano letterario, contro i poeti mediocri che stagnano nelle
acque e nella palude della cattiva letteratura. Il paragone dei cattivi poeti con rane che gracidano è di origine classica:
almeno Aristofane, Le rane.
83
In senso metaforico-esistenziale, ma anche concreto (la povertà dell’inverno a Debreczen, per esempio).
84
Anche la passione erotica deve avere i caratteri del fuoco, della passione sensuale, non dell’amore stanco e languido
(come certo amore romantico).
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31

Cantate dunque, ma sia di fuoco il canto,


e si schianti la lingua
che canta in modo tale che dalla sua canzone
nessun cuore avvampi!

Non voglio imputridire


come il salice nella palude.
Voglio ardere come la quercia
fra le nuvole infiammate85.

Luce
Buia è la miniera,
ma le lanterne vi sono accese.
Buio è il cielo,
ma le stelle vi scintillano.
Buio è il petto dell’uomo,
ma non vi splendon né lanterne né stelle,
e neppure un piccolo tenue raggio86.
Povera mente
che luminosa ti credi,
guidami, se davvero sei luce,
guidami per un passo solo!
Non ti chiedo di illuminarmi
attraverso l’ignoto dell’aldilà,
né attraverso il funebre lenzuolo.
Non ti chiedo che cosa diverrò,
ma dimmi quello che sono,
e perché esisto87.
L’uomo nasce per se stesso88?

85
Il refrain a mo’ di ballata ha lo scopo di rimarcare il leit motiv del componimento.
86
Il cuore dell’uomo è un abisso scuro in cui non brilla alcuna luce.
87
La richiesta del poeta non è di conoscere le frontiere ultime ma soltanto quelle della sua vita presente, del suo essere-
nel-mondo.
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32

Ha egli in sé un mondo,
oppure non è che un anello
dell’infinita catena
che si chiama umanità?
Viviamo noi per la nostra propria gioia,
o per piangere col mondo che piange89?
Quanti sono quelli che dall’altrui cuore
succhiarono il sangue
per il bene proprio
e mai furono puniti!
E quanti quelli che per altri
versarono il sangue
del proprio cuore,
e non ebbero ricompensa!90
Ma è tutt’uno: chi fa olocausto91
della propria vita,
non lo fa per il premio
ma per il bene sociale.
È questo utile o no?
Ecco la domanda delle domande,
e non già «l’essere o non essere»92.
Giova al mondo
chi ad esso si sacrifica?
Verrà quel tempo,
-dai cattivi ostacolato
e al quale i buoni aspirano-
il tempo dell’universale felicità93?

88
Il primo bivio è risconoscere se l’uomo deve vivere per se stesso, come individuo; o in funzione degli altri, come
corpo sociale.
89
L’opposizione è fra edonismo egoistico a amore caritatevole (l’agàpe cristiana, nel poemetto intesa come
compassione, nel senso etimologico di patire con).
90
Nel mondo, cioè, non si realizza l’ideale della giustizia: i malvagi non sono puniti, e i buoni non vengono premiati.
91
Termine di ambito religioso molto efficace: sacrificio di se stessi, come di una vittima sacrificale.
92
La domanda essenziale, per Petöfi, non è lo shakespeariano essere o non essere, nel senso della dicotomia che c’è fra
l’esistere e il non esistere, la vita e la morte; ma la prospettiva del poeta è tutta rivolta alla vita, all’essere-nel-mondo, se
cioè bisogna vivere per sé o per la società. Dalla risposta a questa domanda dipende tutto il senso (e il ruolo) dell’uomo
nel mondo.
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33

Ma invero
che cos’è mai la felicità?
Crede ognuno di scoprirla negli altri,
o nessuno l’ha mai trovata?
Forse quello che noi chiamiamo felicità,
eterna aspirazione umana,
non è che un raggio
di un nuovo sole che è ancora
al di là dell’orizzonte, ma che deve venire.
Così fosse!
Avesse il mondo uno scopo,
e s’innalzasse
sempre più alto verso questa mèta
per raggiungerla, presto o tardi.
Ma se invece fossimo
come l’albero che fiorisce
e sfiorisce;
come l’onda che si gonfia
e poi si spiana;
come la pietra che si lancia in alto
e poi ricade;
come il pellegrino che si inerpica sulle alture
e, raggiunta la vetta,
di nuovo ridiscende;
e in eterno su e giù, su e giù...
Terribile! Terribile!
Colui che un simile pensiero mai non ebbe
né mai di esso rabbrividì,
non sa che sia il freddo94.

93
L’ideale cui aspirare, secondo Petöfi, per mezzo della libertà (si veda L’apostolo, XI).
94
La vita come ripetizione circolare di avvenimenti che si ripetono, senza logica e, soprattutto, senza senso, è
un’immagine di grande modernità: dal mito di Sisifo, nella letteratura esistenziale di Albert Camus (Il mito di Sisifo,
1942), ma anche nell’idea di eterno ritorno sviluppato dalla filosofia di Nietzsche. Quest’ultimo, in particolare, pare
molto vicino, come idea, al testo di Petöfi, soprattutto in una de La gaia scienza, aforisma 341: « Che accadrebbe se un
giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come
tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente
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34

A cospetto di questo pensiero


è un caldo raggio il serpe
che come ghiaccio, striscia
sui nostri petti gelandoci il sangue,
poi s’attorciglia al nostro collo
e nella gola ci soffoca il respiro95.

Voi acacie di questo giardino


96
Voi acacie di questo giardino ,
alberi di dolce memoria,
ciascuno dei vostri rami
è tanto caro al mio cuore.
Diletti alberi, salve!
Siate benedetti
e benedetto sia anche colui che vi piantò.

Abbondante scenda su voi


benedizione di rugiada e di sole:
lieti canori uccelli tremolino
sui vostri rami; eterna duri la primavera Statua di Petöfi con la moglie a Coltau (Romania)

tra le vostre verdi chiome;


che la vostra vita
sia bella come la mia.

Sotto questi alberi vidi


per la prima volta la mia diletta;
di ques'acacie all'ombra
sedette dirimpetto a me;

di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua
vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione? Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e
maledicendo il demone che così ha parlato?». Nietzsche, per inciso, era un grande appassionato del poeta ungherese, del
quale addirittura musicò la lirica Libertà (nella raccolta Nuvole); non è quindi da escludere un influsso diretto.
95
Anche qui, sempre a proposito del tema dell’eterno ritorno, si veda di Nietzsche La visione e l’enigma in Così parlò
Zarathustra.
96
Sono le acacie del castello Kerelyi, dove Petöfi conobbe la moglie Julia, e sotto le cui fronde ebbe con lei i primi
convegni amorosi.
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35

qui avvenne che dal suo occhio


una scintilla d'amore
volò nel mio cuore.

Ricordo anche l'ora; e come non ricorderei,


nonostante il tempo da allora trascorso;
ricordo l'ora in cui accese
l'aurora del mio amore.
Un'aurora che non ha mai abbellito il cielo97.

Quell’alba si è tramutata in meriggio,


meno romantico forse, ma più pieno di ardore.
Verrà (e quando?) anche il tramonto del mio amore?

Oh non temere, adorata donna del mio cuore!


Giungeremo al crepusculo, ma molto innanzi.
Se verrà, verrà per stendere sul nostro volto
una bella coltre dorata e quando
ci porranno sotterra, il nostro amore trasformato in una stella,
brillerà sulla nostra verdeggiante tomba
nell'azzuro cupo della notte.

Sarò albero, se sarai suo fiore


Sarò albero, se sarai suo fiore.
Se tu sarai rugiada io fiore sarò.
Sarò rugiada se tu sarai raggio di sole…
Mi basta che siamo una cosa sola.
Se, fanciulla, tu sarai il paradiso:
allora io diventerò una stella;
se, fanciulla, tu sarai l'inferno:
per stare insieme io mi dannerò!

97
Cioè troppo bella, più bella dell’aurora nel cielo.
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36

Vorrei abbandonare questo mondo


Vorrei abbandonare questo mondo.
Tra i suoi splendori scorgo
tante macchie oscure.
Vorrei andare in una selva selvaggia
dove non ci fosse nessuno, nessuno.
Ascolterei lo stormir delle fronde,
il fruscio dei ruscelli
ed il canto degli uccelli.
Guarderei l'errante schiera delle nubi.
Guarderei il sorgere e il calar del sole,
sin che alla fine
tramonterei anch'io.

Alla fine di settembre


È ancora verde il pioppo fuori dalla finestra,
ancora fioriscono nella valle i fiori,
ma vedi? L’inverno si avvicina:
la cima del monte già è coperta di neve.
Brucia nel mio cuore il fuoco dell’estate,
ancora la primavera vi fiorisce dentro!
Ma vedi? Nei miei capelli neri
già si mischiano i primi capelli grigi.

I fiori cadono e la vita fugge via...


Sièditi, amore, sulle mie ginocchia:
o tu che oggi appoggi il capo sul mio petto,
domani, forse, piangerai sulla mia tomba!
Dimmi: se sarò io il primo a morire,
mi coprirai, piangendo, gli occhi?
O ti convincerà l’amore di un altro
a abbandonare il mio nome?

Se un giorno butterai il velo da vedova,


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appendilo alla croce della mia tomba:


di notte, dal regno della morte, io salirò,
e con me lo porterò laggiù:
per asciugare le mie lacrime per te,
che così presto mi hai scordato;
per poter curare le ferite del mio cuore,
perché ancora laggiù ti amerò, e per sempre!

Italia (1848)98
Si vergognarono alfine di strisciar sulla terra,
uno dopo l’altro balzano99 in piedi;
un urugano sorge dai loro sospiri,
invece di catene100 stridono ora le spade.

Invece di pallide arancie101, gli alberi del sud


sono carichi di sanguigne rose rosse.
I tuoi tanti soldati
aiuta, o Dio di libertà!

Ebbene, o superbi e potenti tiranni,


dov’è il sangue delle vostre guancie102?
I vostri volti sono spettralmente bianchi,
come se scorgessero un fantasma,

e, lo vedete, che davvero apparve Le cinque giornate di Milano (1848)


103
a voi dinanzi lo spirito di Bruto .
I tuoi tanti soldati

98
Il componimento è scritto da Petöfi in occasione dei moti italiani del 1848, con i quali, ovviamente, il patriota
ungherese solidarizzava nella comune lotta europea contro lo straniero oppressore (identificato, nella fattispecie,
nell’impero asburgico).
99
Il verbo sottolinea lo scatto verso l’alto, dall’umiliazione della terra.
100
Le catene del popolo oppresso (prigioniero dell’Austria).
101
Le rosse arancie sbiadiscono e impallidiscono a fronte del colore del sangue che incita alla rivolta dei popoli
oppressi.
102
I tiranni, impauriti, sono di un pallore cadaverico, quasi che tutto il loro sangue sia fuggito dal corpo.
103
Bruto, uccisore di Cesare, con quest’ultimo, nell’ottica di Petöfi, che incarna il tiranno desideroso di sopprimere le
istituzioni democratiche del Senato, cui reagisce Bruto, in nome della libertà.
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aiuta, o Dio di libertà!

Dormì Bruto, ma ora s’è svegliato


e per gli accampamenti s’aggira, animatore,
e così parla: “È questa la terra donde fuggì
Tarquinio104, e dove Cesare cadde trucidato?

Questo gigante105 si curvò a noi dinanzi


e voi vi inchinereste innanzi a dei pigmei106?
I tuoi tanti soldati
aiuta, o Dio di libertà!

Giunge, giunge l’epoca grande e bella


alla quale volano le mie speranze,
come gli uccelli migranti, in lunghe schiere,
volan d’autunno sotto un cielo chiaro.

La tirannia sarà vinta,


e la terra ancora rifiorirà.
I tuoi tanti soldati
aiuta, o Dio di libertà!

Canto nazionale
In piedi, o magiaro, la patria chiama.
È tempo: ora o mai!
Schiavo saremo o liberi?
Scegliete107.
Al Dio dei magiari
giuriamo,
giuriamo che schiavi
104
Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, scacciato dalla città grazie a un altro Bruto, Lucio Giunio Bruto, zio di
Lucrezia, offesa dal figlio del tiranno.
105
Cesare.
106
Spregiativamente gli Austriaci a fronte degli antichi Romani.
107
Al patriota ungherese non si danno possibilità se non la scelta fra la libertà, per la quale combattere e, se necessario,
dare la vita; e la schiavitù, l’asservimento obbrobrioso allo straniero oppressore.
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mai più saremo.

Schiavi fummo finora:


gli antenati nostri che vissero
e morirono liberi, sono dannati,
non hanno pace in questa terra schiava108.
Al Dio dei magiari
giuriamo,
giuriamo che schiavi
mai più saremo.

È un briccone colui
che teme la morte quando bisogna morire,
colui che una meschina vita ha più cara
che l’onor della patria109.
Al Dio dei magiari
giuriamo,
giuriamo che schiavi
mai più saremo.

Più lucente è la spada che la catena,


meglio si adatta al braccio;
e tuttavia una catena portammo!
Eccola, la nostra antica spada110!
Al Dio dei magiari
giuriamo,
giuriamo che schiavi
mai più saremo.

Bello sarà di nuovo il nome magiaro,


degno della gran fama antica.

108
La schiavitù dei vivi tormenta anche i morti, gli antenati, che non possono trovare pace in una terra che è ancora
serva.
109
Di fronte alla Patria non bisogna temere la morte, e chi predilige la vita alla sua terra è solo un «briccone».
110
La spada antica del popolo magiaro, che ora estratta, sfolgora alla luce del sole.
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Laviamo l’onta
che i secoli vi impressero!
Al Dio dei magiari
giuriamo,
giuriamo che schiavi
mai più saremo.

Dove s’innalzano le nostre tombe


s’inchineranno i nostri nipoti
e proferiranno i nostri sacri nomi
con una benedicente preghiera111.
Al Dio dei magiari
giuriamo,
giuriamo che schiavi
mai più saremo.

Canto di battaglia
La tromba squilla, rulla il tamburo,
l’esercito è pronto alla battaglia.
Avanti112!
Fischian le palle, stridono le spade.
Questo infiamma il magiaro!
Avanti!

In alto la bandiera,
che tutti la possano vedere113!
Avanti!
Che tutti vedano e tutti leggano
la santa parola su di essa incisa: libertà114!

111
La morte dei padri, in nome della Patria, sarà onorata e benedetta dalle generazioni future.
112
Il grido di battaglia è un invito da parte del poeta ad avanzare in battaglia, nulla temendo per la propria vita: chi
muore per la Patria non muore, ma vive, nel ricordo e nella benedizione dei discendenti liberi grazie al sacrificio di chi
li ha preceduti.
113
La Patria si identifica in una bandiera che precede simbolicamente l’avanzata in battaglia.
114
Sul bandiera della Patria è incisa la «santa» parola Libertà: per questo non si può retrocedere e si deve avanzare a
ogni costo.
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Avanti!

Chi è magiaro, chi è cavaliere


guarda in faccia il nemico.
Avanti!
È cavaliere chi è magiaro,
egli e Dio115 vogliono una sola cosa.
Avanti!

Insanguinata è la terra sotto i miei piedi,


hanno ucciso il mio compagno.
Avanti!
Io non sarò inferiore a lui
e corro alla morte.
Avanti!

Se anche cadranno le nostre due mani,


se qui tutti periremo,
avanti!
Se morire bisogna, ebbene
moriamo noi, ma non mai la patria116.
Avanti!

Un pensiero mi turba
Un pensiero mi turba:
di morire nel letto, fra i cuscini;
lentamente appassire come il fiore
morso dal dente di un verme nascosto117.
Consumarsi pian piano, come il lucignolo della candela
che resta abbandonata nella camera vuota.
115
La lotta per la libertà della Patria, del popolo oppresso dall’oppressore, è benedetta anche da Dio.
116
L’individuo può morire, ma la Patria gli sopravvive: per questo è necessario sacrificare la vita per essa.
117
Consueto tema ricorrente nella poesia di Petöfi: l’ossessione, il terrore è morire “normalmente”, lontano dalla lotta
per la Patria, nel rifugio sicuro del proprio nido borghese. In un momento storico decisivo per la Nazione, fra libertà e
schiavitù, il poeta, l’intellettuale, non può lavarsi le mani, rinchiudendosi nella turris eburnea della letteratura; ma deve
sporcarsi le mani, lui per primo, per dare un alto esempio civile e morale di abnegazione in nome di un ideale superiore.
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Non dare, o Signore, una simile morte,


non dare a me una simile morte!118
Ch’io sia l’albero che il fulmine trapassa
o l’uragano sradica;
ch’io sia la roccia che il tuono, scuotitore della terra,
fa rovinare dalla cima, fino giù, nella valle.
Quando i popoli schiavi
stanchi del giogo scendano in campo,
con volto di porpora e rosse bandiere119,
e sulle bandiere scritto questo sacro motto:
«Libertà nel mondo!120»
E questo grido risuonasse
rimbombando, da oriente ad occidente,
ad atterrare la tirannide;
là io cada
sul campo della mischia,
là scorra il giovane sangue del mio cuore;
e se sul mio labbro risuonasse un ultimo grido di gioia,
lasciate che lo soffochi il fragore dell’acciaio,
il suono della tromba, il rombo del cannone.
E sopra il mio cadavere
sbuffanti destrieri
galoppino, nella vittoria conquistata,
e là mi lascino, calpestato121.
E si raccolgan le mie ossa sparse,
quando giunga il gran giorno della sepoltura,
quando con solenne e lenta musica luttuosa
e con accompagnamento di velate bandiere122,

118
Il desiderio intimo del poeta di legare la sua sorte a quella della Patria si risolve in un’accorata preghiera al Signore,
quasi una supplica, affinché allontani da lui una simile vergogna. L’accento della preghiera non può che essere
struggente e disperato, e fa specie il pensare che in effetti egli sia stato davvero accontentato nella terribile richiesta.
119
Le bandiere sono rosse a causa del colore del sangue versato; Petöfi scrive nel 1848, e ogni riferimento politico è
oggettivamente improponibile.
120
Il grido di libertà del popolo ungherese si allarga fino ad inglobare l’intero orbe, in una ideale unione di tutti i popoli
oppressi.
121
L’importante è la vittoria finale, in prospettiva della quale il poeta non può che essere docile strumento.
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43

sarà data una tomba comune agli eroi


che per te sono morti, o sacra libertà!123

Monumento dedicato a Sandor Petöfi a Budapest

122
La consolazione della mors immatura è, agli occhi del poeta, nel pianto e nel ricordo di chi sopravvive, celebrando e
tributando con onore il sacrificio altrui.
123
La libertà è, ancora una volta secondo Petöfi, «sacra», e chi per essa muore è a tutti gli effetti un «martire», un
«apostolo».
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