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18/4/2019 Racconti di corpi - 1.

Topografia dell’emozione cinematografica - Edizioni Kaplan

Edizioni
Kaplan
Racconti di corpi | Luca Malavasi

1.Topografia
dell’emozione
cinematografica
p. 21-92

Texto completo
La vera passione comporta inevitabilmente
il cattivo gusto perché è intera, chiassosa,
violenta, priva di educazione e di convenienze.
Jean Epstein, Bonjour cinéma

1.1. Il dispositivo cinematografico


1 Le cronache delle prime proiezioni cinematografiche si
somigliano tutte: nel caso dell’Italia, da Roma a Milano,
passando per i più sperduti centri contadini dove, grazie agli
ambulanti, il cinema giunge quasi contemporaneamente alle

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metropoli, la visione delle immagini in movimento suscita di


norma un’identica mescolanza di sensazioni “forti”, di cui
l’aneddotica ci consegna il racconto supremo nella fuga
concitata degli spettatori di fronte al treno Lumière.
2 Dapprincipio, l’eccitazione è tutta per il movimento delle
immagini, e quelle prime cronache, diligentemente,
contengono quasi sempre approfondite analisi tecniche
destinate a chiarire il prodigio e a smontare l’effetto, per
ritrovarvi il lessico familiare della scienza, mosse non tanto
da curiosità quanto dal desiderio di addomesticare subito la
paura “magica” del come se: paura non del treno ma del
fatto che esso, sullo schermo, si muove come se fosse un
treno vero; paura delle «bobine impressionate dalla vita
stessa»1 , che scorrono alla stessa velocità della vita. Paura di
un nuovo potere della macchina, grazie al quale il
meccanismo illusionistico2 , a confronto delle macchine
ottiche sette-ottocentesche, si è dissolto a tal punto da far
dimenticare la propria esistenza, parallelamente al
perfezionarsi dell’illusione stessa.
3 E il lessico passionale, di conseguenza, si spreca,
abitualmente intensificato dal superlativo: tutto, nei
primissimi anni di vita del cinema(tografo), è
“attraentissimo”, “impressionantissimo” ed
“emozionantissimo”, e tutto lo diventa perché l’attrazione3
di sperimentare il movimento della vita come se fosse reale,
riprodotto realisticamente su uno schermo bianco, non si è
ancora spenta e anzi avvolge di una stupefazione ulteriore
qualsiasi contenuto, fino a renderlo tutto sommato
indifferente. La Scienza, a quest’altezza, non ha ancora
incontrato l’Arte e lo spettacolo mira soprattutto a
impressionare, attraverso una serie di shock percettivi, uno
spettatore in presentia, giocando proprio sulla labilità dei
confini fra esperienza reale e esperienza cinematografica,
come in How It Feels to Be Run Over (1900), in cui per
rendere l’idea di che “cosa si prova a essere investiti”,
un’automobile avanza a tutta velocità verso la macchina da
presa fino a travolgerla.
4 La fenomenologia delle reazioni dei primi spettatori ci
interessa qui non tanto come possibile innesco per una
storia dell’audience e del suo rapporto con l’immagine – e
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quindi, viceversa, per una storia del potere dell’immagine


cinematografica4 – ma per come testimonia di
un’emozionalità che sembrerebbe consustanziale
all’immagine stessa (pur nella consapevolezza delle
variazioni determinate dai contesti storici e culturali),
un’emozionalità non ancora innescata o direttamente
dipendente da strategie discorsive e linguistiche o da
pratiche di visione ritualizzate ma dalle caratteristiche
stesse alla base del dispositivo (verosimiglianza, impressione
di realtà, condizioni di visione ecc.). Si tratta, in altre parole,
di riconoscere delle proprietà emotigene al dispositivo in
quanto tale: tanto il lavoro sul linguaggio quanto il ruolo
svolto dallo spettatore in rapporto al testo vengono
marginalizzati a favore di una ricerca a orientamento
“essenzialista”, concentrata in particolare sulla natura del
linguaggio e sulla forma del dispositivo.

1.1.1. Hugo Münsterberg, at the mercy of


apparatus
5 Uno dei primi autori ad aver compiuto una riflessione di
questo tipo, con esplicito riferimento al tema delle emozioni,
è il tedesco Hugo Münsterberg, che nel 1916, quando è ormai
negli Stati Uniti da quasi vent’anni, docente a Harvard,
pubblica un libricino dal titolo The Film: A Psychological
Study5 , considerato oggi, a ragione, «il discorso teorico sul
cinema più sistematico prodotto negli anni Dieci»6 .
6 A Harvard Münsterberg approda stabilmente nel 1897, dopo
avervi insegnato fra il 1892 e il 1895 grazie
all’interessamento di William James, uno dei primi
divulgatori americani della sua opera, e in particolare di
Activity of the Will (1889), scritto quando Münsterberg è
ancora docente a Friburgo. Il libro, assieme a Contributions
to Experimental Psychology (1889) e Aims and Methods of
Psychology (1891), getta le basi di quella disciplina oggi
nota come psicologia applicata, di cui proprio Münsterberg
figura fra i fondatori accanto al suo maestro, Wilhelm
Wundt7 . In America egli ha modo di approfondire le sue
ricerche, benché ciò accada spesso in contrasto con il nuovo
ambiente, tanto che i suoi numerosi lavori sulla mentalità e

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la società americane (American Traits from the German


Point of View, The Americans, American Problems from the
Point of View of a Psychologist e American Patriotism and
other Social Studies) finiscono per renderlo oggetto, a
partire dai primi anni del Novecento – e tanto più dopo lo
scoppio della guerra –, di un vero e proprio ostracismo
accademico, alimentato e suggellato dalla conclusione del
rapporto con James.
7 L’interesse per il cinema si manifesta del tutto casualmente,
e anche un po’ improvvisamente, nel 1914: prima d’allora,
infatti, Münsterberg non era mai entrato in una sala
cinematografica, in ossequio alla condotta imposta al suo
ruolo di docente universitario, come confessa in un articolo
apparso nel 1915 su «The Cosmopolitan»:
I may confess frankly that I was one of those snobbish late-
comers. Until a year ago I had never seen a real photoplay.
Although I was always a passionate lover of the theater, I
should have felt it as undignified for a Harvard professor to
attend a moving picture show, just as I should not have gone
to a vaudeville performance or to a museum of wax figures or
to a phonograph concert. Last year, while I was travelling a
thousand miles from Boston, I and a friend risked seeing
Neptune’s Daughter, and my conversion was rapid. I
recognized at once that here marvellous possibilities were
open, and I began to explore with eagerness the world which
was new to me8 .

8 Al di là del valore intrinseco di una simile testimonianza, si


intuisce da queste poche righe quello che sarà il principale
criterio dell’analisi di Münsterberg, ossia la comparazione
con il teatro, del tutto in linea con le abitudini della
riflessione teorica sul cinema lungo gli anni Dieci9 .
Comparativismo e psicologia creano le premesse per una
riflessione al tempo stesso estetica e cognitiva, tanto che il
libro risulta esplicitamente suddiviso fra una prima parte
dedicata alla “psicologia del film” e una seconda dedicata
all’“estetica del film”, nella quale l’analisi del funzionamento
del linguaggio cinematografico viene richiamata a
fondamento della natura artistica del film. Scopo principale
del lavoro di Münsterberg è infatti quello di «studiare il
diritto del film, fin qui ignorato dall’estetica, di essere
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classificato come un’arte in se stessa, sotto condizioni


mentali di vita completamente nuove»1 0 .
9 Proprio il raffronto serrato con il teatro permette a
Münsterberg di rendere evidente lo “specifico” artistico del
cinema, che egli riconosce nella presenza di procedimenti
linguistici assimilabili a quelli della mente umana.
Münsterberg dichiara esplicitamente di voler «analizzare i
processi mentali che questa forma specifica di sforzo
artistico produce in noi»1 1 . Tuttavia, la sua collocazione in
questa sezione del libro si giustifica per almeno due ragioni:
in primo luogo, resta irrisolto, nella sua ricerca, l’effettivo
lavoro svolto dalla mente dello spettatore durante il processo
di visione, che sarà invece ampiamente indagato, a partire
dagli anni Ottanta, dai cognitivisti; in proposito,
Münsterberg si limita a indicare alla base del film l’esistenza
di un modello di funzionamento analogo, per molti aspetti, a
quello della mente umana, teorizzando di conseguenza una
“scambiabilità”, se non proprio un’empatia originaria, fra
film e spettatore. Deriva da questa analogia strutturale la
possibilità, da parte di quest’ultimo, di intervenire
fattivamente nella costruzione dell’immagine, che egli
contribuisce a “far essere” già nei suoi parametri di base,
ossia in rapporto alle dimensioni del movimento e della
profondità, creazioni mentali realizzate dalla sinergia fra
film e spettatore, resa possibile, per l’appunto, da un “felice”
incastro fra i due e dal ruolo attivo (anche se svolto in
condizione di parziale inconsapevolezza) dei processi mentali
dello spettatore.
10 In secondo luogo, il lavoro di Münsterberg, soprattutto là
dove tratta dei “mezzi formativi” del racconto
cinematografico, ossia dell’attenzione, della memoria,
dell’immaginazione e dell’emozione intesi come effetti
prodotti dal film in collaborazione con lo spettatore,
privilegia decisamente l’analisi del linguaggio
cinematografico, di cui esplora la specificità di alcuni
meccanismi (il primo piano, il flashback, il ruolo del décor
ecc.) e di cui intravede il funzionamento e l’efficacia proprio
sulla base della loro analogia con il comportamento della
mente umana e nel loro comune differenziarsi dalle forme
della realtà (spazio, tempo, causalità). L’analisi, passando
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dalla dimensione del fotogramma a quella del racconto, verte


in altre parole sull’emersione di strategie linguistiche e
narrative (non più semplicemente di risorse tecniche) che
simulano l’andamento della mente umana nella percezione
ed elaborazione del mondo esterno. Il racconto del film, in
questo senso, possiede mosse e andamenti per molti aspetti
assimilabili a quelli della mente umana. Senza renderlo mai
esplicito, Münsterberg afferma così anche una sorta di
antropomorfismo del cinema, non disgiunto dalla
consapevolezza della sua modernità antropica: in questo
senso appare più chiara l’affermazione secondo cui il cinema
si manifesta «sotto condizioni mentali di vita
completamente nuove».
11 Affermare l’antropomorfismo del cinema non significa,
d’altra parte, riconoscere nel cinema qualcosa di “naturale”.
Al contrario, le dinamiche profonde del linguaggio
cinematografico – l’attenzione, la memoria, l’immaginazione
e l’emozione –, analoghe a certi meccanismi della mente
umana, condividono con questi ultimi uno smaccato anti-
naturalismo, vale a dire una netta distinzione dai modi di
organizzazione dello spazio e del tempo propri della natura.
Di qui, secondo Münsterberg, il fondamento dell’artisticità
del film: è infatti grazie a queste proprietà di base che il
cinema può operare quel processo di “trasformazione
completa”, liberando il film dai suoi vincoli materiali e
tecnici. In altre parole, la trasfigurazione compiuta dal
cinema sul dato reale, in sintonia con i meccanismi di
figurazione della dimensione psichica dell’uomo,
rappresenta la garanzia dello statuto di opera d’arte del film.
12 In questo quadro concettuale, il tema delle emozioni viene
esplorato sia in rapporto alle proprietà linguistiche del film,
sia in relazione alla situazione (e al lavoro) dello spettatore:
la rappresentazione dell’emozione viene considerata da
Münsterberg come «lo scopo principale del cinema». E tale
rappresentazione passa anzitutto – nel cinema ancora muto
– attraverso il corpo dell’attore, e in particolare il suo volto:
«Con la tensione delle labbra, il gioco degli occhi, la mobilità
della fronte e il fremito della narici [l’attore] dà innumerevoli
sfumature al tono della sensazione»1 2 .

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13 La sottolineatura di Münsterberg circa il ruolo del corpo e in


particolare del volto del personaggio (ma egli parla anche di
mani e piedi) nella rappresentazione delle emozioni nel
cinema muto ci offre l’occasione per segnalare come proprio
attorno a questo tema siano fioriti molto presto alcuni studi
all’incrocio fra teoria dell’attore, analisi culturale delle
emozioni e, più specificamente, analisi della dimensione
emotigena del cinematografo. Per un verso, infatti, il cinema
muto, in particolare fino a tutti gli anni Dieci, offre, anche
allo studioso di altre discipline, un interessante serbatoio di
“figure” dell’emozione direttamente dipendenti dai codici
fisiognomici della tradizione occidentale, garanzia di
universalità e comprensibilità. Al tempo stesso, l’immediata
diffusione mondiale del cinema permette, in una prospettiva
sincronica, di misurare l’ampiezza delle variazioni culturali
di tali codici e, sull’asse diacronico, di leggerne (anche in
rapporto allo sviluppo della tecnica cinematografica)
l’evoluzione. Inoltre, non va dimenticato che il cinema in
quanto medium (e forma d’arte) influisce direttamente sulla
forma e l’organizzazione di tali codici. Altri studi, infine, si
sono occupati non tanto dell’inevitabile connessione fra stili
recitativi, tecnica cinematografica e corpo attoriale, ma
hanno indagato soprattutto l’effettivo contributo offerto
dalle “figure” mimiche e gestuali della passione nel
coinvolgimento dello spettatore e nel suo allineamento
patemico alla situazione rappresentata sullo schermo1 3 .
14 Torniamo a Münsterberg. L’interesse di Münsterberg si
sposta subito dopo verso le emozioni dello spettatore;
meglio, verso il ruolo svolto dallo spettatore nell’attribuzione
di significati e valori, anche emotivi, al film, a partire dalle
sollecitazioni del testo; ma si potrebbe parlare in proposito
di vero e proprio lavoro cognitivo dello spettatore, essendo il
modello di spettatore di Münsterberg più vicino, come detto,
a quello dell’interprete – e di un interprete assai attivo e
competente, ben consapevole della sua posizione,
dell’illusorietà della rappresentazione a cui assiste e, al
tempo stesso, della necessità di abbandonarsi, almeno un
po’, al gioco dell’arte, da cui ricevere in cambio doni preziosi.
15 In merito alle emozioni dello spettatore, Münsterberg isola
in particolare due situazioni differenti: «Da una parte quelle
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emozioni che ci vengono trasmesse dalle sensazioni dei


personaggi; dall’altra le sensazioni con cui rispondiamo alle
scene del film, sensazioni che possono essere completamente
differenti, forse all’opposto di quelle espresse»1 4 .
16 Le due situazioni postulano due diversi modelli di
allineamento fra film e spettatore, due diversi effetti
perseguiti dal linguaggio e due diversi stati di
partecipazione emotiva da parte dello spettatore. Nel primo
caso, «di gran lunga il più frequente», l’emozione
spettatoriale emerge per imitazione di quella vissuta dal
personaggio sullo schermo. È interessante notare come, in
ossequio a un’idea “dinamica” di spettatore, Münsterberg
non dia spiegazione di questo fenomeno, rifacendosi a un
qualche potere ipnotico del cinema, senza tuttavia mettere
in dubbio la continua tensione fra partecipazione e
valutazione di cui si fa carico lo spettatore durante la
visione. La condivisione dell’emozione si compie grazie «alla
presa di coscienza dell’emozione espressa», che «risveglia in
noi le reazioni appropriate»1 5 . Si reagisce con la paura alla
paura del personaggio, con la calma a un suo stato di
serenità, ma l’emersione di tali sentimenti nello spettatore
non si compie per mezzo di un annullamento della coscienza
vigile e in un’identificazione spersonalizzante con il
personaggio, ma a partire da un processo di valutazione
cognitiva della rappresentazione. Pur senza trarre tutte le
conseguenze dalle sue affermazioni, qui Münsterberg sta
davvero evocando uno scenario mentale che sarà esplorato in
seguito dal cognitivismo. Il riferimento all’appropriatezza, in
particolare, funziona come una spia: Münsterberg immagina
uno spettatore cognitivamente vigile che processa le
configurazioni situazionali responsabili delle emozioni
vissute dai personaggi sullo schermo e vi riconosce una
struttura famigliare e appropriata, capace di risvegliare in
lui le medesime sensazioni. Questa prima forma di
coinvolgimento emotivo dello spettatore, racchiusa nella
formula del “sentire con”, rimanda inoltre direttamente
all’idea di empatia1 6 , così com’è stata ripresa proprio
nell’ambito degli studi cognitivisti.
17 Anche la seconda tipologia di emozioni evocate nello
spettatore dalla visione del film rimanda a una categoria che
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sarà successivamente isolata nell’ambito del cinematic


cognitivism, quella di simpatia, in cui lo spettatore non si
proietta o identifica con il personaggio, non ne simula la vita
interiore reagendo emotivamente in consonanza con
quest’ultimo; si tratta, piuttosto, di un allineamento agli
interessi del personaggio, di una comprensione, dall’esterno,
dei suoi desideri, dei suoi pensieri, delle sue emozioni. Si
tratta, in altri termini, di una diversa focalizzazione, in cui lo
spettatore conserva un punto di vista sugli eventi mediato
da ma non coincidente con quello del personaggio e in cui,
di conseguenza, «risponde alla stimolazione del film
partendo dalla sua vita affettiva indipendente»1 7 .
L’indipendenza descrive, nel linguaggio di Münsterberg, la
condizione non empatica ma il semplice allineamento dello
spettatore alla dimensione affettiva del personaggio. Egli
infatti esemplifica tale categoria con tre esempi:
Vediamo un personaggio tronfio, pomposo e solenne che però
ci suscita sentimenti di ilarità, rispondiamo cioè con il nostro
senso del ridicolo. Vediamo una canaglia piena di diabolica
malizia, eppure non ne imitiamo le reazioni, anzi siamo
moralmente indignati. Vediamo un bambino ridente e felice
che raccoglie bacche sull’orlo del precipizio, inconscio del
pericolo che incombe e dal quale verrà salvato all’ultimo
momento dall’eroe del film1 8 .

18 Quella che Münsterberg individua qui è insomma una


divaricazione fra l’effetto emotivo prodotto dagli eventi nello
spettatore e la prospettiva emotiva dei personaggi sui
medesimi eventi. Si tratta, per l’appunto, di una differente
messa in prospettiva, dipendente – come intuisce
Münsterberg – non soltanto dal semplice lavoro dello
spettatore ma da precise condizioni testuali.
19 E c’è, infine, un terzo gruppo di emozioni o, più
correttamente, sensazioni, che sembrano rimandare, anche
in questo caso, a una categoria definita più distintamente
nell’ambito del cognitivismo, quella che Ed S. Tan chiama
fascinazione1 9 . Si tratta di risposte emotive indipendenti dal
coinvolgimento con il personaggio, innescate da quelli che
Münsterberg definisce il “lato materiale” e il “lato formale”
del cinema: «Quello materiale è controllato dal contenuto
delle immagini che ci vengono proposte. Il lato formale
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dipende dalle condizioni esteriori che mostrano il contenuto


stesso»2 0 .
20 Il primo rimanda a un’emozione “per i contenuti” o, per
dirla con Tan, per la scena in sé: si tratta dell’emozione (o,
per l’appunto, della fascinazione) che lo spettatore
sperimenta nei confronti di contenuti sempre nuovi, esotici,
inediti, destinati a suscitare meraviglia (secondo una logica
dell’attrazione, dunque). Il lato formale interessa invece la
“superficie” dell’immagine, e la sua stessa illusione di realtà:
immagini rallentate, riprodotte al contrario, variate nel loro
ritmo naturale, rotazioni della macchina da presa, tremolii e
insomma tutto ciò che riguarda la dimensione (diremmo
oggi) filmica della messa in scena. Il loro potere, più che
emotigeno, sembra assimilabile a una specie di shock
percettivo, a una stimolazione sensoriale prodotta da una
elaborazione inedita dei parametri naturalistici
dell’immagine. Tuttavia, «quando una tale abnorme
sensazione visiva ci arriva a coscienza, l’intero background
delle sensazioni fisiche è alterato ed entriamo in un campo
di emozioni tutte nuove»2 1 .
21 Il cinema, intuisce Münsterberg, permette l’accesso a una
gamma emozionale inedita o, se vogliamo, a una diversa
relazione fra l’insorgenza emozionale, i suoi oggetti e
l’emozione stessa. Al contempo, esso ha il potere di
trasformare radicalmente anche il lato formale delle nostre
stesse emozioni: quando egli scrive che «gli aspetti
caratteristici di molti pensieri e sentimenti che oggi non
possono essere espressi senza l’uso della parola saranno
suscitati nella mente dello spettatore attraverso la sottile
arte della macchina da presa»2 2 , sembra suggerire che la
forma stessa delle nostre emozioni è destinata a cambiare
grazie allo sguardo inedito che il cinema è in grado di
proiettare sulle sostanze del mondo, trasformando infine
l’analogia fra mente e linguaggio in un processo di scambio
e mutua evoluzione. Ma per far questo, il cinema (nel 1914)
deve decidersi ad abbandonare il modello teatrale: solo così
il cinematografo potrà effettivamente diventare quella
macchina emozionale di cui Münsterberg ha, per primo,
intuito tutta la ricchezza e la complessità.

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1.1.2. Jean Epstein, l’ebbrezza del cinema


22 Con gli anni Venti, teoria e critica del cinema smettono di
essere attività isolate e accidentali e cominciano a
“circondare” il cinema e i film di discorsi che, sfociando
talvolta in programmi di poetica, cercano di inquadrare con
maggior rigore il fenomeno cinematografico in sé e in
rapporto alle altre arti, domandandosi, più di tutto, che cosa
esso sia e non sia: di qui, una propensione ontologica della
critica del tempo, in cerca di un’essenza e di uno specifico.
23 Jean Epstein è uno dei grandi protagonisti – teorico,
docente e regista – di questa stagione ribollente, che in
Francia coincide con il “movimento” impressionista. E
proprio lui, meglio di altri, ha riflettuto e scritto attorno alla
dimensione affettiva e sentimentale dell’immagine
cinematografica, la quale rappresenterebbe una sorta di
“specifico comunicativo” che distanzia il cinema, in primo
luogo, dal linguaggio verbale, per creare sia in senso
orizzontale (nella platea, fra gli spettatori), sia in senso
verticale (fra schermo e spettatore) relazioni e fenomeni di
dialogo del tutto inediti. O, almeno, inavvertiti nella vita
cosciente, perché riferiti alla dimensione magica
dell’esistenza dell’uomo, a cui il cinema fa direttamente
appello. E proprio su questo punto, come vedremo, si crea
un saldatura profonda fra Epstein e Morin.
24 Del resto, secondo Epstein, la finalità del cinema è di «dare
una rappresentazione del mondo del tutto diversa»2 3 . Sulla
natura di questa diversità, e sulle conseguenze della sua
rivelazione, Epstein ha scritto pagine bellissime e molto
celebri, alle quali ci limitiamo a rimandare, avendo di mira
un discorso ristretto al tema dell’emozione. Vale tuttavia la
pena di puntualizzare come in tutta la produzione saggistica
del regista francese, pur con variazioni sensibili nell’arco di
un trentennio di riflessione, l’immagine di questa diversità
magica del cinema abbia più a che fare, morinianamente,
con la dimensione ctonia e arcaica dell’uomo e del mondo
piuttosto che con una dimensione altra, ultraterrena nel
senso di trascendentale. Tale diversità assume piuttosto la
forma di una riscoperta o, meglio, di una nuova indagine
sul reale, di una rivelazione (parola molto ricorrente nei

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testi di Epstein, quando si tratta di definire l’azione del


cinema) di ciò che sta nelle cose e nell’uomo, nascosto,
invisibile ma non inviolabile: non un altro mondo, ma
un’alterità l’uomo ignora perché non possiede gli strumenti
adatti per accedervi e perché, al tempo stesso, ha reso
problematico questo accesso, immobilizzando il mondo nella
classificazione. Classificazione che il cinema giunge a
scompaginare, traducendosi in una critica al razionalismo
occidentale2 4 .
25 L’alterità del cinematografo è dunque non soltanto legata a
ciò che rivela, ma all’epistemologia del gesto con cui si
compie tale rivelazione. Forme specifiche come il ralenti e
l’accelerato o lo scorrimento al contrario ne sono esempi
emblematici: nel primo caso, esse «rivelano un mondo in cui
non ci sono più frontiere tra i regni della natura», nel
secondo «la rappresentazione di un evento “girato” al
contrario e proiettato nel verso giusto, ci rivela uno spazio-
tempo in cui l’effetto si è sostituito alla causa»2 5 . Se in
Münsterberg il cinema somiglia in qualche modo all’uomo
perché ne replica e ne attiva in senso compartecipativo i
meccanismi mentali, in Epstein il cinema rilancia un’idea di
uomo che l’uomo della società capitalista non sa più
immaginare; la possibilità di un modo di essere nel mondo e
in rapporto agli altri perduto nelle forme imposte alla realtà
dal linguaggio del progresso. È proprio questo processo di
rivelazione e riscoperta che, tra l’altro, consente al cinema –
linguaggio universale – di tradursi in una sorta di arma
sociale, capace di passare alle spalle dell’alfabeto e della
grammatica, «un’arma così penetrante, distruttiva di ogni
segreto e di ogni frontiera tra gli individui» tale da far
sembrare «la bomba atomica una debole fiammella»2 6 .
26 Al di là delle implicazioni sociali che la “lingua visiva” del
cinema possiede, è a quest’altezza che in Epstein comincia a
farsi largo il tema dell’emozione, direttamente collegato alla
particolare natura dell’immagine cinematografica, impronta
di un reale non strutturato secondo procedure linguistiche
ma prossimo al modo in cui «lo sguardo percepisce, la
memoria conserva e l’immaginazione compone»2 7 . Proprio
per tali caratteristiche di base, il cinema appare in primo
luogo un dispositivo caldo, in opposizione alla freddezza del
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linguaggio verbale: il cinema, secondo Epstein, possiede un


potere emotigeno maggiore rispetto a quello di altri
linguaggi, un potere consustanziale alla tipologia del suo
linguaggio e alla forma del suo dispositivo; tale potere
sprigiona infatti dall’immediatezza comunicativa e
impressiva, di natura evidentemente sensoriale, del visivo,
che parla il linguaggio primigenio dell’uomo, sollecitando
una “folgorante empatia” nei confronti dell’immagine, grazie
“all’evidenza immediata” di quest’ultima.
27 Il cinema parla insomma la lingua delle emozioni e dei
sentimenti: non è semplicemente emozionante, esso
possiede caratteristiche che sono di “natura sentimentale” e
riproduce una forma di comunicazione per contatto e
propagazione che è propria del sentimento; l’immagine
visiva è infatti in primo luogo sensoriale, sottomette
l’intelligenza al sentimento e possiede un potere magico che
si traduce in empatia immediata. Così, mentre
la sofferenza è una parola a cui l’emozione resiste con facilità
[...] l’aspetto tragico di un volto scomposto dal dolore suscita
subito compassione. È questa la differenza primaria tra
l’informazione per mezzo della parola e l’informazione per
mezzo dei sensi, tra la conoscenza ragionata e la conoscenza
non ragionata2 8 .

28 L’immagine del contagio2 9 è quella che meglio si adatta a


descrivere le modalità di significazione e comunicazione
proprie dell’immagine cinematografica, benché Epstein non
usi mai tale termine in modo esplicito (di fatto preferendovi
quello di empatia): la natura sentimentale del cinema è
infatti la causa e l’effetto di una prossimità e di una
sincronizzazione fra spettatori (in un corpo unico) e
spettatori e schermo dipendente dalla natura visiva e
irrazionale dell’immagine, la quale significa per vicinanza (e
non per mediazione, come nel caso del linguaggio verbale) e
comunica attraverso l’immediatezza sensoriale (e non
attraverso le strutture artificiali della grammatica).
L’irrazionalità che, secondo Epstein, sarebbe tipica dei
processi di significazione e comunicazione dell’immagine
cinematografica si traduce, in altre parole, non in una
povertà di articolazione, senso e valori, ma
nell’orchestrazione di un’“ombra di senso” che, per l’assenza
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di “operatori verbali” e la sua dipendenza dal dato sensibile e


prossemico, si struttura principalmente secondo
modulazioni ritmiche e tensive, qualcosa, per usare le parole
di Epstein, dell’ordine del «rudimentale e dell’affettivo»3 0 .
29 Da questo dipende la natura sentimentale del cinema. Non
una natura impoverita ma un’altra modalità di percezione,
comunicazione, significazione. E dunque un altro senso alle
cose, alle stesse cose. L’alterità del cinema deriva anche dalla
sua capacità di riabilitare una procedura di appercezione,
dialogo e co-esistenza dimenticata e originaria (al limite
rintracciabile nella dimensione onirica e mentale dell’uomo),
legata alla presenza delle cose in quanto tali e a una loro
coesistenza che riposa su logiche altre rispetto a quelle del
linguaggio verbale, una “logica affettiva” di cui il montaggio
reca una traccia evidente:
Se la lingua delle immagini animate non si esprime quasi mai
seguendo la ragione e le si rivolge di rado, è perché le
immagini cinematografiche, come e ancor più delle immagini
mentali, sono ricchissime di dati concreti e particolari, e tale
ricchezza sfugge o resiste all’analisi, al censimento e alla
scomposizione in elementi più semplici e generali, i soli a
potersi iscrivere in un ordine davvero logico. Il contenuto
sovrabbondante dell’immagine deve alla fuggevolezza del
cinegramma la possibilità di evitare la dissezione critica e
l’impoverimento. L’occhio non ha il tempo di vedere tutti i
dettagli e la coscienza non ha il tempo di registrare tutto ciò
che ha visto, ma l’animo raccoglie in segreto una serie di
sorde vibrazioni che, anche se derivano da oggetti intravisti e
non riconosciuti, anche se rimangono a lungo o per sempre
nascoste nel limbo della memoria, costituiscono nondimeno il
valore – spesso essenziale – del significato di un insieme
visivo. E tale valore è percepito solo come emozione, come
tensione sentimentale la cui origine è tanto difficile da
ricreare quanto lo sarebbe il voler rintracciare le gocce di
pioggia da cui è nata una nuvola3 1 .

30 In questo parlare il linguaggio dell’emozione sta l’alterità del


cinema, nonché la sua finalità provvidenziale, poiché
l’esperienza a cui introduce l’uomo è l’unica in grado di
vincere il razionalismo unificante della società
contemporanea. In modo molto simile a Morin, come
vedremo fra poco, anche in Epstein, inoltre, il contenuto
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affettivo e emozionale del cinema si traduce da ultimo in


un’uscita da sé che, per quanto illusoria, non manca di
apportare significative trasformazioni al modo reale di
essere dell’uomo: non però, come in Morin, per ritrovarsi,
ma piuttosto per spalancare sul mondo uno sguardo
arricchito, che possa riguadagnare alla coscienza e
soprattutto ai sensi tutta la complessità, varietà e affettività
del reale:
Permettendo all’osservatore di porsi fuori da sé, fuori dal suo
spazio e dal suo tempo, il cinema libera – più di quanto
qualsiasi altro strumento abbia saputo fare fino a ora –
l’esperienza, la memoria, l’immaginazione e l’intelligenza
dell’osservatore dal loro assoggettamento millenario a un
unico punto di riferimento, che ne determina posizione,
dimensione, durata e ottica3 2 .

1.1.3. Edgar Morin, l’emozione dell’immaginario


31 Edgar Morin, autore, nel 1957, de Il cinema o l’uomo
immaginario3 3 , un libro non meno originale e spiazzante di
quello di Münsterberg e non meno azzardato degli scritti di
Epstein, sembra porsi idealmente a metà strada fra i due per
come affronta il tema del magico, caro a Epstein, nel quadro
di un’analisi dell’attività cognitiva dello spettatore
organizzata attorno ai poli dell’identificazione e della
proiezione, dunque più vicino al quadro tratteggiato da
Münsterberg.
32 Del resto, l’obiettivo del libro di Morin non è soltanto quello
di interrogare complessivamente (e ontologicamente) il
“fenomeno cinematografico” ma di rilanciare, attraverso il
cinema, questioni fondamentali legate alla percezione della
realtà, alla vita interiore e spirituale, alle modalità di
proiezione del soggeto nel mondo e insomma, più in
generale, alla dimensione psichica e antropologica
dell’uomo. Si tratta, per Morin, di fare insieme
«antropologia del cinema e cinematografologia
dell’anthropos», seguendo il movimento circolare per cui «lo
spirito umano illumina il cinema che illumina lo spirito
umano»3 4 . Il cinema, infatti, «come ogni figurazione
(pittura, disegno), è un’immagine di un’immagine ma, come
la fotografia, è un’immagine dell’immagine percettiva e, più
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della foto, è un’immagine animata, cioè viva»: per questo,


esso si offre come luogo emblematico per riflettere
sull’immaginario della realtà e sulla realtà dell’immaginario.
Poiché l’immagine è, secondo Morin, l’atto costitutivo del
reale e, al tempo stesso, dell’immaginario («l’unica realtà di
cui siamo sicuri è la rappresentazione, cioè l’immagine,
cioè la non-realtà»3 5 ), il cinema, ancor più della pittura e
della fotografia, somiglia strutturalmente (in quanto
composto di immagini percettive in movimento) al modo in
cui l’uomo percepisce, comprende e figura il mondo.
33 A partire da queste premesse, Morin procede nel libro a
un’analisi del modo in cui il cinema3 6 evoca e oggettivizza
fenomeni caratteristici della dimensione psichica dell’uomo,
e in particolare della sua superficie magica, fra cui il doppio,
con cui il cinema condivide una natura fondata sulla
“presenza dell’assenza”, e i processi di proiezione e
identificazione. Intendendo per magia «un certo stadio o
certi stati dello spirito umano»3 7 definiti dai poli del doppio
e della metamorfosi, Morin ritiene infatti che il
cinematografo – «connesso geneticamente, strutturalmente
con la magia, pur senza essere magia»3 8 – rappresenti
l’affioramento della dimensione magica in epoca
capitalistica: esso è la forma della magia dell’epoca
industriale. Ed è a quest’altezza che nel libro si innesta la
questione dell’affettività e dell’emozionalità dell’immagine,
nel quadro di una teoria apertamente ontologica3 9 :
l’affettività è un attributo distintivo dell’immagine
cinematografica, consustanziale al cinema in quanto
linguaggio magico e dunque caratteristica del rapporto che
lega lo spettatore al film. Si tratta, in altre parole, di
un’affettività a sua volta magica, direttamente dipendente
dall’analogia fra strutture dell’immaginario (doppio,
metamorfosi, sogno, fantasma ecc.) e immagine
cinematografica.
34 Morin distingue in primo luogo un’emozionalità della visione
connessa alla natura di doppio nascente dell’immagine. Un
doppio che non ha nulla a che vedere con l’allucinazione ma
somiglia, piuttosto, al doppio che il bambino scopre nello
specchio o il primitivo nel riflesso, vale a dire il doppio come
processo costitutivo della dimensione soggettiva e, al tempo
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stesso, dell’esistenza oggettiva e sociale del soggetto. È, in


altre parole, un‘immagine al tempo stesso familiare ed
estranea, leggermente maggiorata ma non ancora
trascendente, «una esteriorizzazione del sé come altro e una
interiorizzazione dell’altro come sé», da cui derivano
reazioni «più ricche di piacere e di meraviglia che di disagio
e vergogna, nell’ambito del complesso affettivo in cui si
mescolano alla sorpresa e al turbamento realistico della
scoperta di se stessi, la sorpresa e il turbamento irrealistico
della scoperta del doppio»4 0 . Proprio per questo, l’immagine
cinematografica è ontologicamente emozionante (Morin
parla proprio di «emozionante immagine
cinematografica»): l’emozione è un suo attributo di base,
dipendente dalla sua natura di «stampa positiva di un
mondo in cui egli [l’uomo] potrebbe da sempre ritrovarsi a
essere l’interminabile negativo»4 1 . La qualità affettiva del
cinema è il prodotto di questa sua prossimità con fenomeni
come il riflesso, l’ombra, il sogno, con i quali il cinema
condivide i processi di alienazione-proiezione della
soggettività dell’uomo.
35 In secondo luogo, in quanto processo di sdoppiamento del
mondo, l’immagine possiede altri valori emozionali, legati
questa volta alla tensione che si sprigiona tra percezione
reale e percezione immaginaria del mondo, grazie al
continuo di maggiorazione e peggioramento della realtà che
essa contribuisce a rivelare, e grazie all’affioramento dei
desideri e delle passioni della dimensione umana che essa
contribuisce a manifestare. È proprio il continuo rilancio fra
una somiglianza da riflesso e un’alterità da doppio che fonda
la natura al tempo stesso affascinante e perturbante
dell’immagine, perennemente in bilico fra somiglianza e
dissomiglianza. Il cinema stesso, del resto, manifesta bene
questa continua tensione e questa sua vicinanza alle forme
dell’immaginario magico dell’uomo attraverso le forme del
suo linguaggio e i generi del suo discorso: così, per esempio,
sovrimpressioni o esposizioni multiple tematizzano
esplicitamente la natura di doppio del cinema in quanto
trucchi «della stessa famiglia della stregoneria e
dell’occultismo»4 2 .

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36 Il cinema possiede inoltre il potere di creare un “tempo


magico”
soggettivo, affettivo, tempo le cui dimensioni si ritrovano
indifferenziate, in osmosi, come sono nello spirito umano per
il quale sono simultaneamente presenti e confusi il passato
ricordo, il futuro immaginario e il momento vissuto... questa
durata bergsoniana, questo vissuto indefinibile, li definisce il
cinema4 3 .

37 Dall’altro lato, il cinema interviene a metamorfosare anche


lo spazio, grazie ai movimenti della macchina da presa e alla
sua ubiquità: «essa passa oramai dappertutto, si arrampica
e si nasconde là dove nessun occhio umano aveva mai potuto
arrampicarsi e nascondersi»4 4 . Di qui la metafora
antropomorfa dell’“occhio peduncolato”, e le premesse
linguistiche per cui «la trasformazione dello spazio a opera
del cinema, come quella del tempo, finisce per sfociare
nell’universo magico delle metamorfosi»4 5 .
38 Insieme, doppio e metamorfosi costituiscono i poli magici di
un dispositivo che incarna e restituisce, come anticipato, la
dimensione arcaica dell’uomo nei suoi complessi di base –
paura della morte e ricerca dell’immortalità. Attraverso il
doppio e la metamorfosi (intesa come processo di morte e
rinascita), il cinema, in altre parole, si carica di valori che
rimandano direttamente ai meccanismi psichici profondi
dell’antropologia umana, dalla cui attivazione scaturisce il
valore magico-affettivo dell’esperienza cinematografica. Tale
valore, inoltre, grazie alla natura fotografica dell’immagine
(impressione di realtà, movimento e durata), appare
ulteriormente amplificato dall’attivazione di due complessi
tipicamente connessi ai processi di alienazione della
soggettività nell’oggetto, e più in generale di dialogo e
scambio fra le due dimensioni che governano la logica del
doppio e della metamorfosi: l’antropomorfismo e il
cosmomorfismo, vale a dire, rispettivamente, il fenomeno
che carica di sembianze e attitudini umane gli oggetti4 6 e il
fenomeno che carica di presenza cosmica l’uomo4 7 . Il
risultato è un processo incessante di transfert fra l’uomo
microcosmo e il macrocosmo, all’insegna di una
interscambiabilità degli uomini e delle cose, dei visi e degli

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oggetti: «i paesaggi sono stati d’animo e gli stati d’animo


paesaggi»4 8 .
39 Del resto, proprio la dialettica continua fra dimensione
soggettiva e dimensione oggettiva costituisce la trama di
quell’immaginario portato nel titolo del libro come «il punto
di coincidenza di immagine e immaginazione»4 9 , ossia la
proiezione nell’immagine di sogni, finzioni, desideri e timori
umani, grazie ai quali, e secondo la cui logica, ordinare
sogni, miti, religioni, credenze: questi sono infatti «le
fioriture della visione magica del mondo. Essi mettono in
azione l’antropomorfismo e il doppio. L’immaginario è la
pratica magica spontanea dello spirito che sogna»50 . Il
cinema sarebbe allora il moderno linguaggio
dell’immaginario, un flusso affettivo-magico che «trascina e
mescola la qualità soggettiva del ricordo e la qualità magica
del doppio, la durata bergsoniana e la metamorfosi,
l’animismo e lo stato d’animo, la musica e gli oggetti
reali»51 . Un flusso che dà forma all’immaginario dell’uomo
perché si origina e cresce a partire dalla continua proiezione
della sua immaginazione (dimensione soggettiva)
nell’immagine (dimensione oggettiva).
40 Il cinema, inoltre, in virtù delle caratteristiche che esso
condivide con l’immaginario, è anche il luogo di processi
partecipativi e di esperienze soggettive molto particolari, un
groviglio di poteri affettivi e di investimenti e guadagni
emozionali che si definiscono più precisamente attraverso
una struttura di proiezioni e identificazioni, di cui
antropomorfismo e cosmomorfismo costituiscono la fonte
energetica primaria. Le prime indicano un processo
universale e multiforme in cui i nostri bisogni, le nostre
aspirazioni, i nostri sentimenti e le nostre ossessioni si
proiettano all’esterno, non solo sottoforma di sogni e
immaginazioni ma «su ogni cosa e su ogni essere»52 .
L’antropomorfismo è una forma di tale processo proiettivo,
accanto allo stadio automorfico, in cui l’uomo tende ad
attribuire a colui che sta giudicando il carattere e le
tendenze che gli sono propri, e allo sdoppiamento, stadio
puramente immaginario in cui l’uomo proietta se stesso in
una visione allucinata; sdoppiamento e antropomorfismo
rappresentano i momenti magici della proiezione, di contro
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alla natura sociale dello stadio automorfico.


Nell’identificazione, al contrario, «il soggetto assorbe il
mondo in se stesso invece di proiettarsi nel mondo.
L’identificazione incorpora nell’io il mondo circostante e lo
integra affettivamente»53 . Essa può risolversi in una
semplice possessione dell’altro oppure evolvere in
cosmomorfismo allorché l’uomo si sente e si crede
microcosmo. Gli aspetti interessanti della prospettiva di
Morin appaiono qui, in primo luogo, la costante presenza di
tali processi di proiezione e identificazione in tutti i
fenomeni psicologici soggettivi dell’uomo, vale a dire in tutti
quei fenomeni che trascendono, deformandolo, il dato reale,
a partire dal soggetto (lo stato d’animo ne è un esempio) e,
in secondo luogo, la dipendenza della partecipazione
affettiva – sia essa sociale o immaginativa – da tali
meccanismi psichici.
41 Ora, secondo Morin tutti i fenomeni cinematografici
tendono a conferire le strutture della soggettività
all’immagine oggettiva e, di conseguenza, a chiamare in
causa le partecipazioni affettive, ossia il complesso dei
fenomeni di identificazione-proiezione, i quali trovano
proprio nel cinema il modo per realizzarsi non più attraverso
la pura soggettività (l’allucinazione) e la pura magia (il
fantasma) ma nello spazio, al tempo stesso reale, irreale e
anti-reale dell’immaginario. Fra cinema e vita, dunque, si
osserva non solo una continuità strutturale (dimensione
magica) ma, garantita da questa, anche una continuità
funzionale (processi di identificazione e partecipazione
affettiva) che ricade e incide non soltanto sulla nostra
dimensione soggettiva ma anche sul nostro statuto di
soggetti sociali. Per altro verso, è proprio tale continuità
strutturale a consentire l’effettivo funzionamento del
cinema: sullo schermo, infatti, «non c’è che un gioco di
ombre e luci; solo un processo di proiezione può identificare
con esse cose e esseri reali delle ombre, e attribuire loro
questa realtà»54 .
42 Lo spettatore di Morin è, in altre parole, uno spettatore che
contribuisce attivamente al funzionamento del dispositivo
cinematografico, mettendo in gioco la propria soggettività a
partire dal riconoscimento di un linguaggio – quello del
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cinema – che conserva l’impronta dei meccanismi psichici


che governano alla base i suoi fenomeni di percezione del
mondo e di se stesso, e di esistenza nel mondo di se stesso.
Di fronte al film, e in particolare al film di fiction, lo
spettatore è portato a una partecipazione affettiva
(complesso delle proiezioni-identificazioni) sollecitata
naturalmente dalla cristallizzazione di altre proiezioni-
identificazioni messe in campo dall’autore e a loro volta
cristallizzate nell’immaginario del film. Il film di fiction
diventa così
una pila radioattiva di proiezioni-identificazioni. Esso è il
prodotto, oggettivato in situazioni, avvenimenti, personaggi,
attori e reificato in un’opera d’arte, delle ‘fantasticherie’ e
della ‘soggettività’ dei suoi autori. Proiezione di proiezioni,
cristallizzazione di identificazioni, esso si presenta con tutti i
caratteri alienati e concretizzati della magia55 .

43 Il cinema è allora davvero “archivio d’anime” o “specchio


antropologico”, in grado di intensificare e accelerare i
processi di partecipazione affettiva resi possibili dalla
dimensione animata e figurativa dell’immagine grazie al
ricorso a una serie di tecniche specifiche, dal primo piano
(fascinazione macroscopica) alla musica (“catalogo di stati
d’animo”), dai movimenti di macchina alla rottura e al
rallentamento di una spazialità e di una temporalità
naturali. Nel far questo, il cinema soddisfa alcuni bisogni
essenziali dell’uomo, di cui egli non trova soddisfacimento
nella vita pratica. Soddisfa, in particolare, il bisogno di
perdersi per ritrovarsi nei fenomeni immaginari di
sdoppiamento e metamorfosi innescati dai processi di
proiezione e identificazione: il complesso di partecipazioni
affettive attivato dal cinema consente tale esperienza proprio
perché parla il linguaggio della magia, che è poi il linguaggio
dell’emozione. «Occorre considerare questi fenomeni magici
soprattutto come i geroglifici di un linguaggio affettivo»56
che si è perduto nella società capitalistica. Il cinema, al
contrario, consente all’uomo di sperimentare tutta la
complessa gamma dei suoi fenomeni soggettivi di
partecipazione, nella forma “concreta” di identificazioni con
i personaggi e di identificazioni polimorfe (cose, oggetti,
avvenimenti ecc.), dalle quali procedere verso il transfert
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antropo e cosmomorfico. Per ritrovare, alla fine, il rapporto


con il reale. La funzione del cinema, come dell’immaginario,
non è infatti quella di perdersi nell’allucinazione ma di
esplorare la natura magica dell’uomo, grazie alla quale
risalire al reale.
44 L’emozione del cinema sta in questa sua natura metà
oggettiva, metà soggettiva, nel fatto di essere al tempo stesso
realtà, grazie alla sua proprietà fotografica, e
immaginazione, lavoro psichico sulla realtà; è il mondo, ma
per metà assimilato allo spirito umano. In questo incessante
processo di manifestazione oggettiva e partecipazione
soggettiva, il cinema ordisce l’immaginario, attraverso il
quale l’uomo si costruisce e costruisce la propria realtà. Ecco
allora che quella dimensione ontologicamente emozionante
del cinema cui abbiamo accennato più sopra si rivela in
tutta la sua pienezza e complessità: è l’emozione che
accompagna l’emersione della dimensione magica dell’uomo,
è l’emozione di sdoppiarsi e di non riconoscersi, di farsi
cosmo e di introiettarlo, di dilatarsi e di fagocitare, di
guardare il negativo della realtà e di modificarne la copia
positiva, di smarrirsi e di ritrovarsi. È, in breve, l’emozione
di essere al tempo stesso uomini reali e uomini immaginari.

1.2. Il linguaggio cinematografico


45 Accanto a autori come Münsterberg, Epstein o Morin,
testimoni di come il tema delle emozioni è stato trattato
(anche) in rapporto al dispositivo cinematografico, vi sono
autori e discipline che hanno indagato più da vicino il modo
in cui il linguaggio cinematografico costruisce, definisce e
orienta una prensione emotivamente orientata dei contenuti
di un testo e, in secondo luogo, innesca una partecipazione
emotiva nello spettatore a partire dalla valorizzazione del
potere emotigeno inscritto nel linguaggio stesso e liberato
per mezzo di un suo specifico utilizzo.
46 In questo caso, le emozioni suscitate dalla visione di un film
non sono più viste, come accade invece in Morin e in
Epstein, quali “cellule” di una specifica modalità
comunicativa del cinema (nella fattispecie affettiva), capace
di rimettere l’uomo in dialogo con le proprie dimensioni

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magiche, arcaiche, fantasmatiche e così via, ma come effetti


prodotti dal film, da un particolare arrangiamento dei suo
contenuti e/o da un uso specifico delle sue risorse espressive:
per dirla, anche un po’ provocatoriamente, con Pascal
Bonitzer, «les émotions sont des plans, des plans
d’intensité»57 . Tale approccio è dunque storicamente
determinato, mette in campo variabili stilistiche e culturali
e si proietta su specifici sfondi di produzione e di consumo.
In questa seconda parte del capitolo l’analisi verterà quindi
sul modo in cui un film costruisce un discorso
appassionato58 , vale a dire non tanto o non solo su come il
cinema racconta e mette in scena le passioni (in questo caso,
ciò che emerge in primo piano, e lo vedremo, è soprattutto il
contributo del cinema alla formalizzazione di modelli e di
saperi emozionali che influiscono concretamente sulla vita
emotiva dell’uomo), ma piuttosto su come il suo linguaggio
può essere piegato a produrre un discorso connotato
emotivamente, che ha il suo punto di fuga verso lo
spettatore. Spettatore appassionato e discorso appassionato
sono infatti, evidentemente, i due estremi di uno stesso
tragitto dialogico e comunicativo e, nel nostro caso, due
diversi poli d’attenzione, due diverse sponde operative e,
infine, due diversi luoghi di emersione per indagare l’origine
e la natura dell’emozione prodotta del cinema: una retorica,
infatti, è sempre, anche, una pragmatica. Per dirla con
Isabella Pezzini, «il problema in questo caso è del
“passionale” in quanto iscrizione nel testo di una
processualità, in quanto circolazione dell’affetto nel discorso
e quanto alla sua efficacia. Dunque della produzione della
passione in quanto effetto del testo»59 .
47 L’oggetto della nostra analisi verterà quindi sui processi
enunciazionali6 0 attraverso i quali un’istanza narrante dà
forma a un discorso connotato non solo cognitivamente ma
anche emotivamente, attraverso un uso del linguaggio
caricato in tal senso. Si tratta dunque di riconoscere,
inscritto nel discorso, un soggetto egopatico e senziente,
costruito a partire da una intersoggettività sentita e
esperita nel corpo, e non semplicemente attraverso
l’intenzionalità volitiva che definisce la sua relazione con gli
oggetti di valore6 1 . Un soggetto che è però, anche, un
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progetto testuale, tale per cui i valori di ordine passionale


inscritti nel testo e di pertinenza di una analisi
genericamente testuale non devono essere confusi con
(l’inevitabile) residuo emozionale della soggettività empirica
da cui il testo origina: la nota distinzione introdotta dal
filosofo Anton Marty in rapporto agli usi affettivi del
linguaggio fra emozionale e emotivo può esserci utile per
distinguere fra una patemizzazione del linguaggio
dipendente da un sentire incontrollato e incontrollabile del
locutore (una sorta di ‘traboccare’ spontaneo dell’emotività
del soggetto nel linguaggio) e una patemizzazione del
linguaggio dipendente da un uso diretto e progettato
intersoggettivamente – prodotto cioè allo scopo di orientare
il destinatario – delle potenzialità emotigene del linguaggio
stesso. Solo in quest’ultimo caso appare possibile parlare del
passionale come di un effetto di senso.
48 Nelle pagine che seguono ci occuperemo quindi delle risorse
emotigene di un linguaggio, il cinema, e della produzione di
passioni, intese come strategie «per costruire un regime di
adeguazione fra pubblico ed enunciazione, ovvero fra
pubblico e produzione dei testi stessi»6 2 . Il che si traduce,
nella pratica analitica, nell’individuazione di figure di
linguaggio, stili e regimi discorsivi in grado di sollecitare e
attivare una dimensione emozionale nello spettatore, a
partire, come in ogni retorica, dalla presupposizione della
risposta dello spettatore. Crediamo infatti – come hanno
peraltro rivelato alcune ricerche su testi massmediali, come
quelle di Gianfranco Marrone sul telegiornale6 3 o quelle di
Paolo Peverini sul videoclip6 4 – che la dimensione passionale
dei testi non sia mai soltanto questione di passioni
enunciate ma, piuttosto, di stili enunciazionali che
intervengono a connotare emotivamente un contenuto e a
costruire un “effetto passione” di volta in volta specifico, e
specificamente adeguato alle intenzioni comunicative del
testo stesso. Si profila, all’orizzonte, debitamente
reinterpretata, l’idea di funzione emotiva del linguaggio
formulata da Roman Jakobson, per il quale, com’è noto, tale
funzione, che si concentra sul mittente, «mira ad
un’espressione diretta dell’atteggiamento del soggetto
riguardo a quello di cui parla. Essa tende a suscitare
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l’impressione di un’emozione determinata, vera o finta che


sia»6 5 .
49 Il richiamo a Jakobson rilancia il problema del soggetto, che
la funzione emotiva contribuisce a svelare; ma, al tempo
stesso, esso specifica come tale funzione possieda un
carattere cognitivo molto preciso, legato alla comunicazione
dell’«atteggiamento del soggetto riguardo a quello di cui
parla». La funzione emotiva del linguaggio, infatti, nel
rimandare al soggetto, scopre inevitabilmente l’altra faccia
di questo rimando, il destinatario: Jakobson utilizza un altro
termine (funzione conativa) per indicare il piegarsi del
linguaggio verso il destinatario, senza vedere che proprio
l’emersione del «punto di vista sull’azione da parte di chi la
subisce», per dirla con Cartesio (forse la definizione più
pregnante di passione), si configura come pratica tutt’altro
che innocente di orchestrazione dei valori in gioco. Sul piano
del destinatario, il contraltare pragmatico del passionale
come “effetto di senso” potrebbe essere descritto come un
suscitare6 6 .
50 Tale prospettiva consente inoltre di approfondire la
responsabilità e il ruolo delle “sostanze semiotiche” nella
costruzione di effetti di senso passionali. I cenni di Jakobson
agli strumenti di cui dispone la lingua nel predisporre una
funzione emotiva del linguaggio6 7 suggerisce infatti la
necessità – non avvertita se non marginalmente dalla
semiotica delle passioni – di approfondire e specificare
l’analisi della dimensione emozionale dei testi in rapporto ai
linguaggi particolari di cui sono fatti (le “sostanze
dell’espressione” di Hjelmslev). Per questo, fin da subito, si è
parlato di discorsi: per convocare la dimensione “materica”
(e corporea) del testo, sia in senso percettivo sia in senso
pragmatico. E per indirizzare la ricerca verso una specifica
funzionalità emotiva del linguaggio cinematografico.

1.2.1 Retorica e semiotica


51 L’emozione, posta in questa prospettiva, emerge in tutta la
sua complessità di strategia discorsiva, di cui la retorica
artistotelica ci consegna la prima immagine nel secondo
libro della Retorica, dove le passioni emergono non come

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stati d’animo sfuggenti e irrazionali, malattie (Platone) o


perturbazioni dell’anima (Cicerone)6 8 , ma come «condizioni
penetrabili dalla ragione, perché dotate di una componente
di giudizio: contengono credenze relative alla situazione in
cui si trova il soggetto»6 9 . Proprio perché cognitive, non
meno che fisiologiche e corporee, e per questo culturalizzate,
le passioni svolgono un ruolo determinante nel
raggiungimento dell’obiettivo retorico per eccellenza, la
persuasione, attraverso la pratica della commozione. Più in
generale, una precisa strategia delle passioni viene vista
come essenziale alla disposizione dell’uditorio in rapporto
all’oratore e al suo discorso7 0 . Ciò sarà evidente quando, più
oltre, ci occuperemo del montaggio in Ejzenštejn, per il
quale il patemico è veicolo essenziale dell’ideologia.
52 Da un lato, infatti, distinte nel loro habitus («le disposizioni
generali che la favoriscono»), oggetto («per cui essa viene
provata») e «circostanze che suscitano la
“cristallizzazione”», le passioni del discorso si presentano
come «pezzi di linguaggio già fatti», sintagmi rispondenti a
«quel linguaggio generale altrui» la cui importanza risiede
nella convinzione che «l’opinione universale è la misura
dell’essere»7 1 . I sentimenti che entrano in gioco nell’inventio
come prove soggettive si qualificano, in altre parole, come
«gli affetti di colui che ascolta (e non più dell’oratore), quali
almeno questi se li immagina»7 2 . In questo senso, le
emozioni appaiono come una estetica del pubblico, poiché è
a partire da questo – da ciò che si pensa esso creda possibile
– che si definiscono. Figure, tropi e ordine del discorso
assumono così la forma di una psicologia e di
un’epistemologia collettive, di una psicologia “proiettata”.
Risuona qui l’idea heideggeriana, espressa in Essere e
tempo, della retorica non come disciplina, ma come «la
prima ermeneutica sistematica dell’essere-assieme
73
quotidiano» , poiché essa svela la centralità della “tonalità
affettiva” in cui l’uomo esiste e si muove, dipendente dal
collocarsi dell’uomo nelle cose e nello spazio; la retorica
aristotelica già intuisce questo legame profondo e necessario
fra dimensione esistenziale e efficiente dell’emozione, nella
costruzione dell’individuo e nell’articolazione dei suoi
rapporti intersoggettivi. Oltre che una psicologia, essa è
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dunque anche «un’antropologia fondata sull’analisi della


‘tonalità affettiva’, del rapporto primario dell’uomo con gli
altri uomini e con le cose»7 4 .
53 Dall’altro lato, le emozioni colorano il discorso: passando
all’elocutio, ossia alle pratiche di ornamento del discorso,
emerge in Aristotele il valore della “coloritura passionale” del
discorso, di un discorso «dalla parte della passione, del
corpo», il cui obiettivo – bella rilettura di Barthes – è di
rendere «la parola desiderabile»7 5 . Sono, questa volta, le
passioni dell’oratore, ornamenti apposti a una presunta
nudità del discorso, il cui punto d’arrivo è la costituzione di
“figure” (allitterazione, ellissi, anacoluto, iperbole ecc.) che
testimoniano direttamente del linguaggio della passione: «la
passione deforma il punto di vista sulle cose e costringe a
parole particolari», e le figure ne sono in qualche modo i
‘morfemi’. L’interesse, ancora una volta , è subito
antropologico e culturale: «attraverso le figure della passione
possiamo conoscere la tassonomia classica delle passioni, e
specialmente di quella amorosa»7 6 .
54 Si fa più chiaro, grazie al richiamo alla retorica, il valore
funzionale delle passioni del discorso: il loro rilievo
comunicativo, fondato sull’inscrizione psicologica
dell’orizzonte mentale dello spettatore; il loro potere
persuasivo, fondato sulla commozione; la loro efficacia
desiderativa, richiamata dal riferimento alla corporeità
delle figure. Il che, da un certo punto di vista, ci permette di
stringere i cordoni teorici relativi alla nozione di passione in
semiotica e accostarli a quelli che si profilano nel quadro
della retorica.
55 Da quanto detto, infatti, risulta evidente una nozione di
passione come componente vitale dell’azione (di un testo),
sia in quanto elemento presupposto all’azione testuale, sia in
quanto innesco della re-azione del destinatario al testo. Il
primo punto è ben sintetizzato da Gianfranco Marrone: «al
di sotto delle articolazioni della significazione, categoriali e
discontinue, si dà uno strato del senso che, prima ancora di
venire strutturato, possiede delle logiche di tipo continuo,
dinamiche e processuali, che trovano la loro base nella
corporeità e che producono la cosiddetta affettività»7 7 ; sul
secondo aspetto ha invece insistito, in più occasioni, Paolo
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Fabbri: «a una indagine più consapevole dei fatti


microsociologici (fra l’etologo e lo strategico) che sono
all’opera in ogni interazione, la ricezione del significato e
della forza di un atto linguistico si mostra intessuta di
passionalità», determinante nella messa in prospettiva del
testo, poiché «a seconda di quale posizione passionale è
quella in cui il ricevente si situa, sarà diversamente propenso
a intende l’agire (e l’agire linguistico) dell’altro»7 8 . Al
racconto della passione si affianca così, in modo
determinante, la prospettiva passionale del racconto,
direttamente connessa «alle dimensioni strategiche e
manipolatorie dell’uso linguistico», in coerenza con un’idea,
difesa da Fabbri (ed ereditata dalla teoria degli atti
linguistici), del linguaggio come azione7 9 :
Ritengo che la vera novità dell’attuale semiotica sia proprio
questa insistenza, non solo sulla performatività del
linguaggio, sugli atti linguistici e segnici, ma sul fatto che
questi atti sono sempre legati ai loro effetti di senso, ossia,
appunto, alle passioni80 .

56 Per altro verso, ma sempre a partire dal nesso


passione/azione, François Vanoye, uno dei pochi studiosi a
essersi occupato con continuità del tema della dimensione
emotiva del cinema81 , ha sintetizzato proprio nei termini di
un bloccaggio o, al contrario, di un innesco all’azione da
parte dello spettatore il risultato principale dell’emozione
sperimentata al cinema. Secondo lo studioso francese, che
riassume tale idea in Esquisse d’une réflexion sur l’émotion,
la visione di un film può indurre due tipi di emozioni: in
primo luogo, lo spettatore può sperimentare delle emozioni
“forti”, legate al senso di sopravvivenza e prossime allo
stress, in grado di produrre «des comportements d’alerte et
de régression dans la coscience magique», quali la paura, la
sorpresa, l’allegria corporale ecc. In questo caso, secondo
Vanoye, vi sarebbe un sorta di bloccaggio emozionale,
poiché lo spettatore è incapace di reagire effettivamente alla
situazione: la sua reazione resta frustrata, e l’unica azione
possibile sembra consistere nella ripetizione compulsiva
dell’esperienza di visione. Vi sono poi, in secondo luogo,
emozioni più legate alla vita sociale come la tristezza, il

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desiderio, il rifiuto ecc., indotte nello spettatore attraverso i


meccanismi dell’identificazione; tali emozioni sono dunque
in grado di innescare sia un’azione “vicaria”, sperimentata
durante la visione del film, sia un’azione effettiva, poiché la
loro azione si prolunga al di fuori del momento o della logica
emozionale della visione, ribattendosi direttamente sulla
dimensione esistenziale dello spettatore. In entrambi i casi,
poi, l’emersione di un atteggiamento reattivo-emozionale
nello spettatore dipende, secondo Vanoye, sia dai contenuti
dell’immagine (e particolarmente dal suo vettore cardinale,
il personaggio), sia dagli effetti emotigeni di certe strutture
di linguaggio.

1.2.2. Il primo piano: vedere meglio, vedere oltre


57 La letteratura sulla natura, l’uso e le funzioni del primo
piano è sterminata82 , anche con riferimento ai suoi valori
emotivi: come ricorda Bonitzer,
si en effet le cinéma et un medium “chaud”, impliquant la
participation affective intense du public et créant des
réactions émotionnelles fortes, sur l’échelle technique des
grosseurs de plan, des modulations intensives de l’image, le
gros plan se situe en droit au point d’intensité maximale, de
chaleur maximale83 .

58 Per Epstein, per esempio, è proprio l’improvviso “stringersi”


del dramma a produrre l’intensità del primo piano che si
trasforma poi in vero e proprio ipnotismo: la tragedia si fa
anatomica e l’emozione rivelatrice del dispositivo
cinematografico sembra emanare da ogni centimetro di
pelle, da ogni impercettibile movimento della muscolatura
reso finalmente percepibile.
59 La dipendenza dell’emozione del primo piano dal suo potere
rivelatore, ossia dalla sua capacità unica di avvicinarsi,
penetrare e, per l’appunto, rivelare la complessità del
mondo, è un tema ricorrente; si pensi soltanto alla
descrizione che Roland Barthes fa del viso in primo piano
della Garbo in La regina Margot:
Il viso della Garbo rappresenta quel momento fragile in cui il
cinema sta per estrarre una bellezza esistenziale da una
bellezza essenziale, l’archetipo sta per inflettersi verso il

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fascino dei visi corruttibili, la chiarezza delle essenze carnali


sta per far posto a una lirica della donna84 .

60 Il primo piano appare insomma, a Barthes, una pratica di


“cattura” di elementi ed essenze altrimenti inavvertibili, fino
alla costruzione dell’archetipo; con più decisione ne rilancia
tale funzione proprio Epstein, per il quale il potere rivelatore
di questo particolare “taglio” del reale si inserisce nella più
ampia concezione del cinema come macchina in grado di
svelare le dimensioni nascoste o censurate del reale. Per
Epstein «il primo piano è l’anima del cinema”, la sua “chiave
di volta»85 , il momento di massima intensificazione delle
proprietà “fotogeniche” del cinema; per questo, un momento
necessariamente breve, il cui potere risulta accresciuto, in
senso “sintagmatico”, proprio dalla sua ricorsività
discontinua nel corpo del film, tale da trasformare il
‘sistema’ dei primi piani in una serie di «parossismi
intermittenti che mi scuotono come punture»86 .
61 Facendosi largo nel linguaggio barocco di questo primo testo
in cui Epstein sistematizza, se così si può dire, il suo
pensiero sul cinema, sembra di poter trarre due indicazioni
relative al potere del primo piano, entrambe connesse al suo
statuto di figura della scoperta e dell’emozione
(dell’emozione della scoperta). Da un lato, in particolare, il
primo piano opera un restringimento e una concentrazione
che sembrano risvegliare soprattutto una sorta di
dimensione aptica87 dell’immagine, che si colora di una
matericità tattile, testimone delle operazioni sensibili che
stanno a monte della ripresa: il guardare, l’annusare, il
toccare del corpo di chi ha inizialmente guardato e
“catturato” l’immagine, lasciano in quest’ultima tracce di sé,
facendo a sua volta, dell’immagine, un’immagine da
guardare ma anche da toccare e da annusare:
Il dolore è a portata di mano. Se allungo il braccio ti tocco,
intimità. Conto le ciglia di quella sofferenza. Potrei sentire il
gusto delle lacrime. Nessun viso si era mai avvicinato tanto al
mio. Mi incalza da vicino, e sono io che lo inseguo faccia a
faccia. Non è neanche vero che tra noi ci sia dell’aria; lo
mangio. È in me un sacramento. Acuità visiva massima88 .

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62 Dall’altro lato, l’avvicinamento operato dal primo piano si


può anche tradurre in un attraversamento e una spoliazione
delle vestigia del reale, per accostarsi all’essenza delle cose, al
“dramma al microscopio”, scarno e minuzioso, in cui
proprio i sentimenti si lasciano radiografare fino a comporre
una «istofisiologia delle passioni, una classificazione dei
sentimenti amorosi in gram-positivi e gram-negativi»89 ;
vale a dire, il massimo dell’inafferrabile scoperto dal potere
analitico del primo piano. Il primo piano possiede, in altre
parole, il potere di amplificare la realtà, fino a produrre
fenomeni ipnotici sulla sala, in cui lo spettatore è ciò che gli
viene fatto vedere e chiesto di essere; il primo piano celebra
un incontro tra l’“energia nervosa” dell’autore e il “respiro”
degli spettatori9 0 e coincide con il crollo definitivo di ogni
mediazione linguistica e di ogni strutturazione linguistica
del pensiero.
63 Il risultato è un rafforzamento dell’emozione dello spettatore:
il primo piano crea una «impressione di prossimità»
(bellissima definizione) che «agisce sull’emozione, e più che
confermala la trasforma», nel senso che non si limita a
ingigantirne l’effetto ma a produrre una più intensa
(rafforzata, moltiplicata, ingigantita) reazione nello
spettatore. Il primo piano si ammanta così di un tono
emozionale tutto sommato indipendente dai contenuti a cui
si applica, un tono che coincide, nel sistema di Epstein, con
l’inquietudine, del tutto in armonia con l’attitudine
rivelatrice caratteristica del dispositivo cinematografico. Il
primo piano si candida per questo a essere «l’anima del
cinema»: ne amplifica le virtù e si impone come figura
chiave per un’interpretazione più generale del potere, anche
e soprattutto emozionale, associato al linguaggio
cinematografico; il cinema ha il potere di amplificare
l’emozione, il primo piano di scatenare tale potere e,
correlativamente, il piacere dello spettacolo cinematografico.
Che risiede proprio nei sentimenti, l’unica cosa che resta9 1 .
64 Ma è forse Béla Balázs il teorico che più di ogni altro,
soprattutto in Estetica del film e Il film9 2 , ha riflettuto, in
modo sistematico (e sistemico), sul ruolo e la funzione del
primo piano, a partire da una idea di cinema tutto sommato
non così distante da quella di Epstein e di altri teorici che,
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prima della svolta linguistica, hanno cercato di cogliere il


significato – anche “epocale” – dell’apparizione del cinema.
Le idee di Balázs in proposito sono note ed egli le riassume
molto chiaramente al termine del suo percorso teorico ne Il
film, contaminando la prospettiva più sociologica de L’uomo
visibile con quella estetica del libro successivo, intitolato per
l’appunto Estetica del film.
65 È sufficiente, a titolo di premessa, ricordare qui l’idea più
ricorrente al centro del pensiero dello studioso ungherese: il
cinema rappresenta uno strumento di scoperta del reale,
che si compie attraverso un processo di trasformazione
realizzato grazie alle forme specifiche del linguaggio
cinematografico, che sono poi, già nell’Estetica, il primo
piano, l’inquadratura, il montaggio.
La caratteristica specifica dell’arte cinematografica – scrive
Balázs – consiste in questo: che non soltanto possiamo, nei
brevi quadri particolari estratti dal complesso della scena,
osservare da presso – se così ci possiamo esprimere – gli
atomi della vita (che in tal modo ci rivela i suoi più reconditi,
più intimi segreti), ma che questo senso di approfondimento,
e di penetrazione nell’intimo di un segreto, può anche essere
conservato intatto, contrariamente a quanto avviene sulla
scena teatrale o in un dipinto9 3 .

66 Il linguaggio cinematografico ha dunque dotato l’uomo di un


nuovo mezzo di conoscenza e appropriazione del reale che,
per le sue caratteristiche tecnologiche di base, non procede a
trasfigurare completamente ciò che si trova di fronte ma ne
conserva in un certo senso la verità. Trasformazione, per
l’appunto, e non trasfigurazione: di qui, l’idea che il cinema
abbia contribuito a costruire, letteralmente, una nuova
tipologia antropologica, l’uomo visibile. Un uomo che non
solo vede in modo diverso, ma che nel privilegiare il
linguaggio visivo incarnato dal cinema lascia emergere una
nuova immagine di sé e del mondo, che fa appello alla sua
dimensione irrazionale e spirituale:
L’uomo che, per così dire, ha una cultura visiva, non vuole
sostituire con i suoi gesti la parola; come fanno ad esempio i
sordomuti con il linguaggio figurato. I suoi gesti non
esprimono concetti, ma l’“Io” immediato e irrazionale
dell’uomo: ciò che il volto e i suoi movimenti dicono, nasce da
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uno stato d’animo che mai potrebbe essere rivelato dalle


parole. Lo spirito diviene allora simile al corpo: visibile9 4 .

67 Il potere del cinema è dunque propriamente poietico: esso


non si limita ad analizzare, penetrare, scardinare la realtà, a
porcela sotto un profilo curioso, istruttivo o, al limite,
inusitato, ma trae, dal contatto con la realtà, un nuovo
alfabeto e un nuovo sapere; il cinema mette a disposizione
dell’uomo un linguaggio attraverso il quale egli può
esprimersi e sperimentarsi in modo completamente inedito,
giungendo a una conoscenza di sé e del mondo senza eguali.
E il “vocabolario” di questa nuova forma di espressione
dell’uomo è rappresentato dal linguaggio cinematografico, e
soprattutto da tre elementi principali: il primo piano,
l’inquadratura, il montaggio9 5 .
68 Il primo piano, in particolare, rappresenta per Balázs la più
radicale forma di variazione della distanza tra lo spettatore e
il film; esso, più esattamente, compie una vera e propria
astrazione9 6 : «Non solo l’uomo vede più da vicino, cioè più
vicino nello stesso spazio, ma si porta addirittura fuori dallo
spazio, in una dimensione del tutto nuova»9 7 . Ciò accade
però soltanto nel caso del volto, trattenendo le altre porzioni
del corpo o gli oggetti un inevitabile riferimento indicale allo
spazio che li circonda. Al contrario, il volto in primo piano
possiede la forza di “anestetizzare” la consapevolezza dello
spazio che lo circonda:
Dinanzi a quel volto noi non ci troviamo più nello spazio. Una
nuova dimensione appare dinanzi a noi [...] Noi non vediamo
altro che l’espressione. Vediamo sentimenti e pensieri,
vediamo qualche cosa che non è nello spazio9 8 .

69 Assistiamo, in altre parole, a un racconto dell’emozione.


L’esempio riportato da Balázs e tratto da La passione di
Giovanna d’Arco è particolarmente significativo. Il film di
Dreyer rinuncia infatti quasi completamente alla
rappresentazione e al racconto dello spazio, del movimento e
dell’incontro dei corpi, dell’“ambientazione” e dell’azione.
Tutto si svolge al di fuori dello spazio, dentro e dietro i volti
dei personaggi, ognuno di essi sigillato nello spazio interiore
del primo piano, che nel sospendere il legame e il riferimento
allo spazio esteriore ne promuove uno con lo spazio interiore

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dei personaggi, ossia lo spazio delle passioni, dei pensieri,


dei sentimenti. Il primo piano è dunque, anzitutto, una
figura della passione, e ciò accade perché esso sospende non
soltanto i rapporti di contiguità ma anche quelli di causalità
con lo spazio e il racconto che lo circondano per lasciare
emergere lo spazio e il racconto dei sentimenti, i quali
possiedono una logica e un’azione proprie che, non si
nasconde Balázs, dipendono in parte anche dalle
consuetudini di natura culturale legate alla fisiognomica e
alla mimica, di cui egli si occupa soprattutto ne L’uomo
visibile.
70 Come in Epstein e in Barthes, inoltre, lo sganciamento del
volto dallo spazio e dal suo “dramma” e il suo avvicinamento
agli occhi dello spettatore favoriscono l’emersione di un
dramma archetipico e essenziale, prodotto di una sorta di
facoltà sintetica – perché spirituale – inscritta nella mimica:
«Appena vediamo in primo piano il volto di un vigliacco
mentre sta scappando, vediamo la vigliaccheria in persona,
il ‘sentimento-cosa’, l’entità»9 9 . Un dramma che si complica
quanto più la macchina da presa si accosta al volto,
catturandone solo una piccola porzione – un occhio, la
bocca, il mento. Allora si rivelano conflitti, opposizioni,
tradimenti che uno sguardo più generale gettato al volto
nella sua interezza sembra nascondere. E si rivela al
contempo il “viso nascosto” che la mimica e la fisionomia, e
insomma “l’intero”, non lasciano trapelare:
La vicinanza della macchina da presa penetra nelle superfici
piccole e incontrollabili del viso e fotografa così il
subcosciente. Il viso umano, visto così da vicino, diventa un
documento, come la scrittura per il grafologo; con la
differenza che la grafologia è una dote intuitiva o una
scienza, mentre che, per virtù del cinematografo, la
microfisionomia è cosa di tutti1 00 .

71 Parole che rimano con l’“istofisiologia delle passioni” e la


classificazione dei sentimenti amorosi in “gram-positivi e
gram-negativi” di cui parla Epstein: in entrambi i casi,
scritture segrete e clandestine, spirituali e irrazionali, che il
cinema lascia vedere e tradurre. Scritture dell’anima e, cosa
più importante, scritture visive che rendono visibile ciò che
altrimenti non lo sarebbe1 01 , scritture che consentono di
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intravedere ciò che non si può dire se non con il cinema


stesso e che affonda nel segreto dell’uomo, segreto all’uomo
stesso. Da questa proprietà di farsi gesto di scoperta della
verità dell’uomo deriva al primo piano una sorta di
affettività intrinseca, quella che Balázs chiama più
propriamente commozione (così come per Epstein la qualità
emozionale del primo piano era soprattutto l’inquietudine).
Il primo piano è, al tempo stesso, una pratica (di sguardo)
emotiva e uno strumento emotigeno: esso implica,
all’origine, una propensione affettiva verso le cose e il
mondo, e offre in cambio una conoscenza della loro verità
segreta, cellulare e microscopica, grazie alla
1 02
deterritorializzazione che astrae l’oggetto ripreso da ciò
di cui è parte.
72 L’idea di deterritorializzazione viene dal commento di
Deleuze a Balázs. Essa sarebbe non soltanto una
caratteristica del primo piano ma una componente
fondamentale dell’immagine-affezione, di cui il primo piano
rappresenta l’emblema. Fra primo piano, volto e immagine-
affezione vi sarebbe una relazione di identità strutturale di
cui è necessario cogliere il significato: «In che senso il primo
piano è identico a tutta l’immagine-affezione? E inoltre,
perché il volto sarebbe identico al primo piano?»1 03 , si
domanda Deleuze.
73 In primo luogo, l’idea dell’affetto come «insieme di unità
riflettente immobile e di movimenti intensi espressivi»1 04
trova una specie di modello proprio nel volto, «una lastra
nervosa porta-organi che ha sacrificato l’essenziale della
propria mobilità globale, e che raccoglie o esprime
apertamente ogni specie di piccoli movimenti locali che il
resto del corpo tiene normalmente nascosti»1 05 . Non
diversamente da Balázs, almeno nella sostanza, anche per
Deleuze il volto è una figura che si caratterizza non in quanto
manchevole di rapporti con ciò che la circonda (con la sua
“organicità” di oggetto situato in uno spazio-tempo) ma
come una superficie che, per astrazione, concentra e
essenzializza in sé dinamiche espressive altrimenti invisibili
(invisibili nella motricità espressiva del corpo intero e
dell’azione1 06 ), e che parla un linguaggio espressivo e
intensivo (la micromimica di Balázs) che procede
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dall’Essenza e manifesta l’Entità. Parla, nella fattispecie, il


linguaggio dell’affetto.
74 Il volto appare insomma a Deleuze come la quintessenza
figurativa dell’affetto, al punto che egli definisce con il
neologismo di voltificazione tutti quei casi in cui è dato di
riconoscere in qualche cosa la presenza dei due poli
dell’affetto, ossia la superficie riflettente e i micro-
movimenti. Il passaggio successivo («perché il volto sarebbe
identico al primo piano?») si compie a partire dalla
valorizzazione delle proprietà affettive del primo piano in
quanto strategia di astrazione: il primo piano è il volto nella
misura in cui esso consente di trattare soggetti e oggetti
affettivamente, astraendoli dal loro intorno per farne il
supporto di dinamiche espressive voltificate, ossia
strutturate attorno a uno dei due poli dell’affetto. I quali
rappresentano inoltre l’innesco per due diverse dinamiche
affettive, presenti isolatamente o in successione e alternanza:
avremo così un volto intensivo «ogni volta che i tratti
sfuggono al contorno, si mettono a lavorare per conto loro, e
formano una serie autonoma che tende verso un limite e
varca una soglia: serie ascendente della collera o, come dice
Ejzenštejn, “linea montante del dispiacere”»1 07 ; avremo
invece un volto riflessivo «fintanto che i tratti stanno
raggruppati sotto il dominio di un pensiero fisso o
tremendo, ma inalterabile e senza divenire, in qualche modo
eterno»1 08 .
75 Da una parte, dunque, intensità mobile, dall’altra
impressione fissa. Due stati del racconto dell’affetto che,
grazie al primo piano e alla particolare deterritorializzazione
che esso compie, emergono in tutta la loro purezza. È,
questo, un punto fondamentale della teoria di Deleuze, che
approfondisce l’intuizione di Balázs. Il primo piano non
possederebbe alcun particolare potere se non fosse per la sua
capacità di «strappare l’immagine alle coordinate spazio-
temporali»1 09 che la circondano e la situano. Ma, a
differenza di Balázs, Deleuze attribuisce i poteri affettivi del
volto anche a quegli oggetti che si presentino in qualche
modo voltificati; e voltificati dal primo piano. Rispetto a
Balázs, insomma, Deleuze sembra insistere con maggior
vigore sul potere trasformativo, e non solo rivelatore, del
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primo piano: il primo piano svela il volto (meglio: la natura


di volto di ciò che viene ripreso) o fa essere volto ciò che non
lo è. Ossia, fa essere gli affetti in quanto essenze, sganciati
dallo “stato di cose” a cui appartengono e, al tempo stesso,
svela l’affettività che percorre come una forza microscopica
persone e oggetti. In questo senso il primo piano è figura
dell’emozione: possiede la proprietà di produrla e al tempo
stesso rivelarla. Perché il primo piano è al tempo stesso un
restringimento e un avvicinamento, un territorio
microesistenziale senza confini.

1.2.3. Il montaggio e l’estasi


76 La codificazione del montaggio narrativo, già pienamente
classico, che si è soliti datare alla metà degli anni Dieci con
la produzione dei primi lungometraggi di David W. Griffith,
non rappresenta soltanto uno snodo fondamentale
nell’esplorazione delle potenzialità fabulatrici del cinema:
tale codificazione svela inoltre la capacità del linguaggio
cinematografico, parallela e anzi consustanziale al piano
narrativo, di suscitare nello spettatore una forma di
coinvolgimento che interessa direttamente il piano della sua
risposta emotiva.
77 La distinzione fra comunicare e suscitare è stata posta,
utilmente, da François Vanoye, che la teorizza, in senso
anche storico, proprio a partire dall’analisi dei meccanismi
retorici del cinema di Griffith1 1 0 . Il meccanismo forse più
emblematico è rappresentato dal montaggio alternato che
proprio Griffith contribuisce a perfezionare, e a perfezionare
in direzione emotiva, tanto che esso, nei molti one-reel che il
regista realizza alla Bioscope, si adatta con una certa
indifferenza a contenuti molto diversi. Meccanismo oliato,
come mette in luce Vanoye, capace di articolare un
barometro emotivo nello spettatore diviso fra paura, ansia e
angoscia.
78 Ma l’idea che il linguaggio cinematografico possa essere un
mezzo attraverso il quale è possibile produrre determinati
effetti/reazioni nello spettatore, dunque un mezzo
classicamente retorico1 1 1 , viene concretamente teorizzata

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per la prima volta solo all’interno della produzione saggistica


di Sergej Ejzenštejn.
79 Egli, com’è noto, è stato il primo teorico a porsi con forza il
problema dello spettatore1 1 2 e dei mezzi più adatti a
catturarne l’attenzione e a plasmarne il punto di vista, quale
inevitabile conseguenza dell’organizzarsi del suo discorso
attorno all’ideologia: «Lo spettatore è precisamente l’oggetto
(o il problema) che l’iscrizione ideologica porta più
radicalmente in superficie all’interno della teoria di
Ejzenštejn»1 1 3 . Il cinema delle attrazioni, teorizzato
particolarmente in Montaggio delle attrazioni e in
Approccio materialista alla forma, è proprio questo:
performance (l’attrazione come “momento forte”) e
associazione di idee (l’attrazione come principio estetico), sì,
ma soprattutto un mezzo con cui attirare e plasmare
l’attenzione del pubblico1 1 4 . Il che rende necessario
“pensare” il pubblico per poter donare una forma e una
destinazione corretta agli stimoli attrattivi; pensarlo per
plasmarlo.
80 È proprio il pensiero del pubblico, del mondo migliore di
indirizzarsi a esso, di stimolarne le reazioni e le risposte e di
usarne l’energia psichica e libidinale a prendere via via
spazio nella riflessione di Ejzenštejn, secondo una traiettoria
progressiva che va dall’idea di attrazione a quella di pathos
e, da ultimo, a quella di estasi. Con un’attenzione sempre
maggiore rivolta agli aspetti sensibili e patemici del
linguaggio cinematografico, e solo secondariamente a quelli
ideologici: Ejzenštejn capisce infatti, con grande coscienza
dei valori spettacolari propri del cinema, che lo spettatore
“capisce” nella misura in cui “sente”, e che il suo
coinvolgimento emotivo è la premessa necessaria a ogni
coinvolgimento ideologico; la “passione dell’ideologia” non
nasce dall’ideologia ma dalla passione.
81 Nel potere di catturare emotivamente lo spettatore sta
dunque il segreto dell’efficienza comunicativa del film: in
Ejzenštejn l’emozione non è mai il fine ma il mezzo (il mezzo
più efficiente) attraverso il quale il regista può dirigere lo
spettatore; idea che, in forma meno sofisticata e più
pragmatica, e dove l’emozione dello spettatore è vista come
risorsa da spendere soltanto all’interno della stessa economia
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emotiva del film, sta anche alla base del pensiero di


Hitchcock, i cui film sembrano mirare a un continuo
aumento della partecipazione emotiva, a una vera e propria
contaminazione emozionale fra spettatore, personaggi e
situazione narrativa1 1 5 . Ma in Hitchcock, molto
classicamente, tutto si risolve in termini di identificazione e
attenta gestione del sapere dello spettatore: la logica e la
struttura della suspense ne sono l’emblema e la
dimostrazione. In Ejzenštejn, al contrario, i fenomeni di
partecipazione emozionale dello spettatore dipendono in
primo luogo dalla natura stessa del linguaggio
cinematografico: essi dipenderebbero, in particolare, da una
congiunzione “naturale” fra spettatore e linguaggio, a partire
da una sorta di consustanzialità fra lo psichismo dello
spettatore e i meccanismi semantici del film.
82 L’idea, messa a punto in una serie di scritti dei secondi anni
Venti, da Prospettive a Fuori campo, da La quarta
dimensione al cinema a Drammaturgia della forma filmica,
non ci è nuova: così riassunta, ricorda molto da vicino
l’ipotesi di Münsterberg e, in effetti, i due sono stati
accostati in più occasioni1 1 6 ; ma Ejzenštejn, com’è noto, non
si ferma qui, e l’idea di efficacia e la teoria del montaggio
intellettuale servono a articolare meglio, da una parte, i
rapporti fra questa consustanzialità e la specificità e le
risorse del linguaggio cinematografico e, dall’altra, la
relazione fra emozione e ragione. Così, il linguaggio – e nella
fattispecie il montaggio – è visto anzitutto come il mezzo
attraverso il quale lavorare – sul piano sensibile, emozionale
e intellettuale – la realtà e lo spettatore, mentre le emozioni
vengono subordinate alla ragione, di cui rappresentano il
veicolo e il cemento. Ne risulta così rafforzata l’idea centrale
dell’esperienza emozionale non come piacere ma come
“mezzo” per l’ideologia: un mezzo a cui corrisponde una
tecnica, una “macchinazione”, che è quella del pathos e
dell’estasi.
83 Il primo concetto, elaborato lungo gli anni Trenta, sarà quasi
completamente assorbito dal secondo, che domina invece la
riflessione di Ejzenštejn lungo gli anni Quaranta, riflessione
che torna ossessivamente sul problema dell’efficienza e della
manipolazione ideologica del pubblico: e non si tratta mai,
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per Ejzenštejn, di intervenire passivamente sullo spettatore


ma di innescare in lui una risposta attiva: «L’exstase –
riassume bene Aumont – se donnerait donc en premier lieu
[...] comme le moyen d’un fin – et plus précisément comme
le moyen efficace (le plus efficace?) d’une fin endoxale»1 1 7 .
84 Spogliata del suo senso di contemplazione passiva, l’estasi
diventa in Ejzenštejn soprattutto una tecnica
passionalizzante, che trattiene in memoria l’idea “attrattiva”
formulata negli anni Venti: sul versante dell’autore, una
tecnica di articolazione del discorso; sul versante dello
spettatore, una tecnica di elaborazione dei significati che
consiste – come suggerisce l’etimologia – in una uscita da sé
prodotta dallo scarto passionale concepito nell’opera; una
ek-stasis che conduce a un’eccitazione positiva e violenta
della dimensione emotiva dello spettatore e, per questa via,
di quella intellettuale, in cui l’ideologia non soltanto si
comunica ma si realizza. Ma se l’estasi dello spettatore
cinematografico appare dotata di caratteristiche che
sfuggono alla definizione tradizionale del concetto e che, di
fatto, celebrano l’incontro in un certo senso puro – perché
trascendentale – fra soggetto e oggetto, è perché il cinema, a
sua volta, possiede delle risorse uniche per suscitare tale
condizione estatica. La riflessione di Ejzenštejn attorno alle
condizioni formali dell’estasi cinematografica ricade nel
quadro più generale di quella relativa all’organicità, termine
chiave sotto cui viene riconsiderata ne La natura non
indifferente tutta la precedente riflessione attorno al
montaggio.
85 L’idea di organicità si regge sull’ipotesi, cui abbiamo già
accennato, della similitudine fra psichismo umano e
semantismo cinematografico, così come viene puntualizzata
nella prima metà degli anni Trenta. Ciò significa, più
dettagliatamente, che il cinema, come il pensiero umano, è
un impasto di forme logiche e di forme pre-logiche (ci si
ricorderà, a questo punto, delle tesi di Morin attorno alla
“genuinità” originaria del linguaggio cinematografico),
distinzione che rimanda alla polarità razionale-emotivo che
in Ejzenštejn non si (con)fonde mai, ma funziona
dialetticamente come principio di passaggio dal sensibile
all’affettivo all’ideologico. Ora, è proprio la logica di questo
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passaggio o, meglio, di questi “salti”, quella su cui si regge


l’idea di estasi, intesa come il passaggio a qualcosa d’altro, a
qualcosa dotato di una qualità differente, qualche cosa di
contrario a ciò che precede.
86 Una salto, dunque, e un conflitto: l’ombra di Engels e della
sua Dialettica della natura (tradotto in russo nel 1935)
plasma per intero l’ultima riflessione del regista,
incontrandosi armoniosamente con la logica del
materialismo dialettico di stampo staliniano. L’estasi è un
cambiamento e un’opposizione, ossia una condizione
dialettica e trasformativa che conduce da uno stadio di
esistenza e comprensione a un altro, attraverso l’eccitazione
passionale della rappresentazione. È a questo principio che
un film deve ispirare la propria logica formale: in un certo
senso, mettere “fuori di sé” le immagini, produrre uno
spostamento di valori e significati, cui corrisponderà, nello
spettatore, una “uscita di sé”, un salto percettivo e cognitivo
rispetto a quanto vede. Ciò che scopre Ejzenštejn in un
intreccio profondamente causale di forme che si ribattono su
altre forme è che il cinema è in grado di ispirarsi meglio di
altre arti al principio costitutivo dell’estasi e, al tempo
stesso, così facendo, può produrre una condizione estatica
compiuta ed efficiente nello spettatore; e, sul piano del
linguaggio, tale logica estatica si realizza grazie alla
sollecitazione di quei parametri propriamente
cinematografici, essi stessi già imparentati con le logiche
dialettiche e progressive dei ritmi naturali.
87 Quello che ci interessa sottolineare al termine di questa
rapida presentazione del pensiero di Ejzenštejn – di una sua
parte, ma probabilmente di quella oggi più attuale e
interessante – è come sensibile ed emotivo non siano visti
come eccedenze del linguaggio ma, al contrario, come effetti
“scientificamente” calcolati attraverso l’uso di certe
soluzioni, e di soluzioni specificamente cinematografiche.
Quanto alla partecipazione emotiva – o quella che Ejzenštejn
chiama più propriamente patetica –, essa non esaurisce il
proprio lavoro nel coinvolgimento stesso ma contribuisce a
determinare le condizioni di emersione del senso nello
spettatore. In modo vagamente cartesiano, Ejzenštejn vede
ragione e emozione, corpo e intelletto, come due dimensioni
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in qualche modo separabili e separate; e tuttavia egli ne


ipotizza non la reciproca esclusione ma la mutua
collaborazione, verso un traguardo che potremmo definire di
emozione estetica. La passione e la ragione, in altre parole,
vengono entrambe raccolte e sublimate nel quadro di una
condizione superiore rappresentata dall’estasi: esistenza
superiore del cinema e dello spettatore in quanto
armoniosamente accordati al flusso e al respiro della natura
e della storia.

1.2.4. L’emozione contagiosa della musica


88 «L’intelligenza della nostra specie – ha scritto Epstein – è
più visiva che uditiva»1 1 8 , e la ragione di questa specificità
sembra dipendere da fattori culturali e al tempo stesso
anatomici, come osserva Mikel Dufrenne:
L’udito non sembra, a una prima considerazione, meritare i
privilegi di cui gode la vista. Non vi è dubbio che anch’esso
abbia la medesima vocazione: aprire il mondo a un vivente,
intrattenendo, per la sua attività, la medesima relazione con
lo spirito. Ma il suo organo è meno attivo e acuto. L’orecchio
dell’uomo non è mobile; certamente registra e può anche
essere raffinato esercitando il suo potere di discernimento,
ma non esplora; riceve il sonoro senza però potervisi
ancorare1 1 9 .

89 D’altra parte, nota ancora Dufrenne, il vedere, almeno nella


cultura occidentale, è diventato “modello del sapere”,
donando a questo senso, e ai suoi organi, un prestigio del
tutto particolare. Il che spiega, sul piano culturale prima
ancora che estetico, la “sproporzione valoriale” che
indubbiamente esiste fra la dimensione visiva e la
dimensione sonora del cinema: la seconda spesso
dimenticata o semplicemente trascurata, nell’analisi come
nella visione, ridotta a sottofondo anche memoriale ed
estetico, non solo propriamente diegetico, dell’immagine1 2 0 .
La quale, del resto, stabilisce e preordina nella stragrande
maggioranza dei casi la partitura dei suoni e dei dialoghi,
che si realizzano come effetti sincronici e dunque quasi
inavvertiti nella loro apparente “naturalezza”.

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90 Diverso, almeno in parte, il caso della musica, che possiede


normalmente una maggiore autonomia strutturale e
significante, un’esistenza extra-diegetica che, per quanto
solidale con il piano del racconto, sembra tuttavia, in molti
casi, staccarsi da questo per disegnare un proprio racconto e
fare appello a dimensioni percettive, cognitive ed emozionali
specifiche. Certo, si ascolta e si vede insieme,
simultaneamente; ma si “sente” la musica attraverso
modalità di prensione diverse: in primo luogo, si entra in
contatto con la musica attraverso procedure meno selettive
rispetto a quelle che governano la percezione dei dati
visivi1 2 1 . In sala, come nella vita, si è raggiunti dal suono
nella sua totalità, là dove la possibilità di movimento
dell’occhio si configura al contrario, e fin da subito, come
selezione; e del resto, come ricorda Dufrenne, «non c’è
semiologia acustica nello stesso senso della semiologia
grafica; non ci è alcuna parola nel vocabolario che sia nel
registro dell’udito l’equivalente di “visualizzare”;
“sonorizzare” vuol dire, infatti, soltanto diffondere il
suono»1 2 2 . In secondo luogo, la musica fa appello a registri e
a modalità percettive che sembrerebbero situarsi già
naturalmente (per riprendere l’idea “insulare” ma connettiva
di Damasio1 2 3 ) nelle regioni “basse” della nostra architettura
sensibile e percettiva; input maggiormente smarcati dalla
dimensione cognitiva o, per dirla in altro modo, sistemi di
significazione né denotativi né iconici, ma essenzialmente
simbolici che fanno appello, in primo luogo, alla dimensione
fisiologica e senso-motoria attraverso ritmi, toni,
modulazioni ecc. In terzo luogo, e proprio come conseguenza
delle due affermazioni precedenti, la musica appare uno
strumento privilegiato per l’induzione dell’emozione nello
spettatore.
91 A questo proposito, riassumendo i termini della questione
(ampiamente dibattuta in sede di poetica e di teoria del
cinema), si possono distinguere, da un lato, dei fenomeni
musicali puramente emotigeni, caratterizzati
prevalentemente da una certa ridondanza semantica (in
rapporto ai contenuti visivi) e da un marcato
convenzionalismo sonoro e sinestetico; dall’altro lato, vi sono
invece eventi musicali dal carattere più esplicitamente
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funzionale, narrativo e/o descrittivo, non immediatamente


scissi o indeboliti sul piano del significato al puro scopo di
colpire le sole corde affettive dello spettatore ma dotati di
una forza testuale che finisce per autonomizzarli, in parte o
del tutto, rispetto al piano delle immagini, portandoli a
interagire con questo nella forma di veri e propri racconti e
personaggi (sonori).
92 A una simile distinzione sembra rimandare lo stesso
Burch1 2 4 e, in un certo senso, la ben nota opposizione fra
suoni sincroni e suoni asincroni o, meglio, fra uso sincronico
e uso asincronico della colonna sonora in rapporto alle
immagini; distinzione in cui la seconda modalità di dialogo
non esclude certo la possibilità di produrre effetti
pragmatici di ordine emotivo, benché la loro insorgenza
passi in questo caso attraverso percorsi di senso anche
cognitivi, come accade nel celebre esempio de Gli amanti
crocefissi di Mizoguchi riportato dallo stesso Burch. Si
tratterà allora, in primo luogo, di distinguere fra una diversa
dialettica musica-immagine, da un lato, e una diversa
potenzialità emotigena, dall’altro, derivata direttamente
dalle forme di dialogo fra elementi musicali e elementi visivi.
Per dirla con Burch, fra un uso analogico della musica, in
funzione di sottolineatura dei contenuti visivi per prossimità
semantica, e (ma Burch non definisce il contrario) un uso
dialogico, in cui la musica articola forme di relazioni più
complesse e meno solidali con la banda visiva.
93 Tale coppia di termini sembra sovrapporsi a quella proposta
da Cremonini e Cano, i quali distinguono fra una prospettiva
extradiegetica, in cui «musica e suono risultano estranei
alla scena del racconto, ma contribuiscono egualmente alla
sua enunciazione», e una prospettiva intradiegetica, in cui
«musica e suoni vengono usati in quanto facenti parte della
scena del racconto e possono assolvere a una molteplicità di
funzioni pragmatiche»1 2 5 . Tra queste ultime, i due autori
individuano tre funzioni principali – comunicativa, di
socializzazione e motorio-affettiva – e, al loro interno,
numerose sotto-funzioni, tra le quali tre «costantemente
presenti, anche se con maggiore o minore rilevanza»1 2 6 : una
funzione emotiva (riconducibile alla prima classe), una
d’induzione senso-motoria e una attivatrice di emozioni
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(riferibili invece alla terza categoria). Sotto-funzioni che


distinguono, inoltre, fra contenuti emotivi suggeriti dal testo
e solidali con il contenuto narrativo (la prima) e risposte a
carattere emotivo prodotte nello spettatore durante l’atto
della ricezione (le ultime due), non necessariamente allineate
alle prime; una distinzione che sembra voler sottolineare
proprio la “doppia vita” della musica in rapporto al cinema e
la sua specifica relazione con la dimensione affettiva e
corporea: fra la musica “suonata” dal e nel film –
immateriale e acustica – e la musica percepita dallo
spettatore, che agisce direttamente a livello dell’affettività e
della dimensione senso-motoria, si assisterebbe dunque a
una modalità di appropriazione che non interessa soltanto la
dimensione cognitiva e razionale, al lavoro nella
comprensione degli eventi, dei personaggi ecc., ma anche la
dimensione propriamente corporea e fisiologica, con
reazioni non completamente controllabili (prodotte per
esempio dal ritmo) eppure essenziali alla definizione della
prospettiva narrativa.
94 Qui ci interessa maggiormente la funzione cosiddetta
attivatrice di emozioni che, al contrario di quella di
induzione senso motoria, mobilita anche una dimensione
propriamente cognitiva per quanto, come la precedente,
resti confinata nello spazio dell’elaborazione soggettiva; va
tuttavia ricordato – e gli autori sembrano trascurare questo
aspetto – il valore stereotipo di certe frasi musicali, di certi
andamenti melodici o, più in generale, il valore emotivo
(culturalizzato) connesso a determinate tipologie di note, il
cui uso è studiato proprio nell’ottica di una previsione degli
effetti emotivi sull’audience. Su questo valore d’attivazione,
la teoria e la critica del cinema, fin dagli anni Venti, sono
tornate ripetutamente. Potremmo anzi dire che proprio la
musica è l’unico aspetto del linguaggio cinematografico ad
aver sollevato, e con una certa continuità e coerenza, il
problema delle emozioni al cinema. E questo proprio per la
sua capacità di contribuire alla significazione del film e,
contemporaneamente, di passare in un certo senso “alle
spalle” del film, interagendo con il sistema percettivo dello
spettatore per sollecitare una risposta emotiva che non va
pensata soltanto come proiezione di stati d’animo soggettivi,
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extra-cinematografici e “privati”, ma come un adeguamento


previsto e orientato alla superficie del film.
95 Fra le molte funzioni indicate da Cremonini e Cano, manca
proprio quella principale: tenuto conto delle premesse di
ordine fenomenologico fatte sopra, e in considerazione della
natura irriducibilmente tridimensionale che la musica
conserva al termine dei processi di traduzione imposti
dall’apparato produttivo al “corpo-soggetto” della ripresa
cinematografica1 2 7 e della priorità logica da assegnare al
coinvolgimento senso-motorio del corpo dello spettatore
nella relazione col film, la musica sembra svolgere in primo
luogo una funzione di natura connettiva, orientata non tanto
a siglare un “patto” di ordine cognitivo fra film e spettatore
ma a favorire una adesione dello spettatore alla superficie
del film, una sincronizzazione del suo sentire in rapporto ai
contenuti del film.
96 Il principale effetto pragmatico della musica sembra infatti
risiedere in questo legame “sottocutaneo” che essa costruisce
nel rapporto fra film e spettatore. Interagendo sia con la
dimensione discorsiva sia, ed eccezionalmente, con la
dimensione propriamente corporea dello spettatore, la
musica rappresenta un legame vivo, materico e sensibile fra
spettatore e immagine; un legame forte di almeno due
componenti qualitative, il ritmo1 2 8 e la melodia, che
sembrano farsi carico di funzioni pragmatiche diverse ma
complementari: il primo, in particolare, è portatore di una
funzione connettiva, con riferimento alla dimensione senso-
motoria; la seconda è invece più direttamente coinvolta nella
formazione di significati emotivi, parziale traduzione del
semantismo dell’immagine. Quest’ultimo rilievo suggerisce
una constatazione ulteriore: l’accompagnamento musicale,
nella sua funzione elettiva, interessa il piano del contenuto
nella misura in cui finisce «di raccontare emozionalmente
quanto è inesprimibile con altri mezzi»1 2 9 , saturando quei
“vuoti di senso”, o impossibilità di senso, lasciati dagli altri
linguaggi (e segnatamente da quello visivo), grazie alla sua
qualità intrinsecamente emozionante.
97 L’idea che emerge dalle pagine di Ejzenštejn, e non soltanto,
è che, rovesciando i termini della questione, il contatto
emozionale dello spettatore con il testo rappresenti non solo,
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come vedremo più oltre, una risorsa essenziale al lavoro


cognitivo dello spettatore, ma anche una situazione di
comunicazione e significazione che entra in gioco quando
altri procedimenti discorsivi sembrano non poter “dire”
certe cose. E in virtù delle sue caratteristiche, proprio la
musica sembra candidarsi a linguaggio privilegiato di una
comunicazione vagamente “esoterica” fra film e spettatore:
facendo appello alla dimensione senso-motoria ed affettiva
dello spettatore, la musica realizza quel contatto pre- o a-
verbale su cui insiste anche Epstein, salvo poi ribadire il suo
legame con i contenuti visivi e dialogici del film risalendo
però, in un certo senso, dallo spettatore al film.
98 Il valore prospettico della musica, eminentemente corporeo
e emozionale, sincronizza infatti lo spettatore al ritmo del
film e, con un buon margine di inconsapevolezza da parte di
quest’ultimo, lo predispone, anche cognitivamente e
moralmente, nei confronti dei contenuti del film. Ma al di là
delle molteplici funzioni immediate che la musica svolge in
rapporto all’attività cognitiva dello spettatore – per cui,
ricorda Jeff Smith, essa contribuisce in primo luogo ad
approfondire la conoscenza dei personaggi, a schierare lo
spettatore e a conferire un sentimento generale1 3 0 –, essa
sembra rappresentare l’unico luogo in cui l’emozione
suscitata dal cinema nello spettatore non passa attraverso
procedure di ordine psichico, proiettivo, immaginativo ecc.,
ma si compie in un certo senso naturalmente, secondo
procedure percettive e cognitive del tutto assimilabili a
quelle dell’esperienza reale.
99 Del resto, la situazione dell’ascolto cinematografico può
anche essere legittimamente descritta come quella di un
corpo che incontra un altro corpo: la dimensione
propriamente “presente” della musica al cinema suggerisce,
in definitiva, che, rispetto ai due grandi regimi di senso e di
interazione individuati da Eric Landowski – il primo
dipendente da una grammatica della giunzione, il secondo
da una grammatica dell’unione1 3 1 –, la musica entra in gioco
soprattutto come fattore di sincronizzazione per prossimità:
lo spettatore ha, con le indicazioni sonore, non tanto un
rapporto di distanza, oggettivazione e intellezione, ma un
rapporto di unione, di contatto, di contiguità. La musica è
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presente allo spettatore, in posizione contagiosa, ossia in


posizione di «reciproca trasformazione dinamica in atto»1 3 2 .

1.3. Lo spettatore cinematografico


100 In ordine di tempo, l’ultimo ambito di studi a essersi fatto
carico dell’analisi delle emozioni cinematografiche è il
cognitivismo. Il fondamentale contributo offerto da questo
orientamento disciplinare ne legittima una trattazione
specifica, anche per la rilevanza e l’originalità delle questioni
sollevate. Dalla natura delle emozioni filmiche ai loro
processi di emersione, dal ruolo dell’affettività nella ricezione
e interpretazione del film alla “spendibilità” sociale
dell’esperienza emotiva offerta dal cinema, il cognitivismo,
confrontandosi di volta in volta con nodi teorici
fondamentali (statuto dell’illusione cinematografica, natura
dell’identificazione, rapporto fra finzione e realtà ecc.), si è
mosso nella consapevolezza che l’analisi della dimensione
emotiva dell’immagine può offrire un contributo
fondamentale nella conoscenza complessiva del dispositivo
cinematografico; tale analisi, inoltre, è stata condotta
valorizzando contemporaneamente il fronte ricettivo e il
fronte testuale.
101 Di emozioni e cinema, tuttavia, si è cominciato a parlare con
un certo ritardo: dapprima espunte dagli interessi della
disciplina – si pensi all’indifferenza di David Bordwell per il
tema, ritenuto di pertinenza della psicoanalisi1 3 3 –, le
emozioni sono state integrate nell’agenda di alcuni
ricercatori di area anglosassone, fra cui Ed S. Tan1 3 4 , Torben
Grodal1 3 5 , Carl Plantinga1 3 6 e Murray Smith1 3 7 , soprattutto
a partire dalla metà degli anni Novanta, anche grazie al
lavoro inaugurale svolto da Noël Carroll1 3 8 . Tale integrazione
si è compiuta in forme diverse, anche se ciò che distingue i
singoli approcci è più spesso il prodotto di un accostamento
originale delle preoccupazioni cognitiviste ad altre discipline
che non una distanza teoretica profonda: così, per esempio,
mentre Smith ha elaborato il suo modello d’analisi a partire
dal confronto con le neuroscienze, Carroll si è mosso sullo
sfondo della filosofia analitica e Tan ha impiegato la
psicologia funzionalista di Frijda come filigrana teorica di

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tutta la sua ricerca. Anche grazie a queste variazioni interne,


il contributo complessivo del cognitivismo al tema delle
emozioni cinematografiche appare particolarmente
prezioso: aperto inevitabilmente al dialogo, esso permette di
moltiplicare gli accessi al problema a partire da un’impronta
originaria comune.
102 Tale impronta coincide con un insieme di domande
caratterizzanti alle quali sottoporre film e spettatore,
interrogando in particolare il lavoro di comprensione e
partecipazione di quest’ultimo a partire dagli stimoli offerti
dal testo: l’obiettivo principale del cinematic cognitivism è
infatti quello di capire «how spectators make sense of and
respond to films, together with the textual structures and
techniques that give rise to spectatorial activity and
response»1 3 9 , a partire dalle più vaste preoccupazioni
connesse alle scienze cognitive: «Cognitive theory wants to
understand such human mental activities as recognition,
comprehension, inference-making, interpretation, judgment,
memory, and imagination»1 4 0 .
103 Ne discende, in coloro che, come David Bordwell, Edward
Branigan e Noël Carroll, hanno per primi trasferito
l’approccio cognitivista agli studi cinematografici, un’analisi
della «cinematic comprehension in terms of active viewers,
ordinary psychological processes and strategies of problem
solving»; ciò non significa, tuttavia, eleggere nell’analisi
dell’esperienza di visione un modello di spettatore
squisitamente mentale e, di conseguenza, disincarnare tale
esperienza per metterne in luce i soli processi cognitivi: al
contrario, lo spettatore implicato nell’analisi cognitiva
mantiene tutta la sua complessità “empirica”, in linea con
un’immagine di essere umano che nel più vasto ambito delle
scienze cognitive ha ormai scalzato quasi del tutto gli iniziali
modelli prevalentemente mentalistici.
104 L’aggiornamento compiuto da autori come Grodal, Tan e
Smith nei confronti dell’approccio analitico sviluppato da
Bordwell e Branigan si fonda proprio su una maggiore
attenzione ai fenomeni di connessione fra “esterno” e
“interno”, in dialogo con lo sviluppo del dibattito attorno al
mind-body problem e sempre più in conflitto con un
modello squisitamente informazionale della mente: a questo
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nodo rimandano proprio i concetti di “bottom-up”, con il


quale ci si riferisce «to those fast, mandatory activities,
usually sensory ones, that are “data-driven”» e di “top-
down”, che rimanda invece a processi «concept-driven; they
are more deliberative, volitional activities like problem
solving and abstract judgment»1 4 1 . Ciò che qui entra in
gioco, in altre parole, è il ruolo dell’attività percettiva e, in
parte, della mediazione corporea nei processi cognitivi,
benché, all’atto pratico, l’approccio cognitivista tenda a
focalizzarsi soprattutto sul ruolo svolto dagli schemi mentali
nell’organizzazione dell’attività percettiva piuttosto che sul
contributo della dimensione corporea nella definizione di tali
schemi e nell’elaborazione cognitiva dei dati.
105 Da queste premesse risulta evidente come il cognitivismo,
una volta applicato all’analisi della situazione
cinematografica, miri soprattutto ad analizzare i processi di
comprensione del film da parte dello spettatore, senza per
questo trascurare la dimensione testuale a partire dalla
quale procede tale comprensione. In questo quadro, le
emozioni sono state integrate proprio in quanto mezzi di
comprensione del testo e di partecipazione dello spettatore
al testo, elementi inseparabili nella decifrazione cognitiva
del racconto. Anche per i cognitivisti vale senz’altro quanto
afferma il neurologo americano Antonio Damasio ne
L’errore di Cartesio:
La ragione può non essere così pura come la maggior parte di
noi ritiene che sia, o vorrebbe che fosse; che i sentimenti e le
emozioni possono non essere affatto degli intrusi entro le
mura della ragione: potrebbero essere intrecciati nelle sue
reti, per il meglio e per il peggio1 4 2 .

1.3.1. Le emozioni hanno ragione


106 Del resto, anche nell’ambito delle ricerche attorno
all’Intelligenza Artificiale, in cui affondano le proprie radici
le scienze cognitive, è emersa di recente l’insoddisfazione per
l’esclusione del ruolo delle emozioni nella costruzione dei
modelli teorici: ne sono testimonianza emblematica
Affective Computing (1997) di Rosalind W. Picard e The

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Emotion Machine (2006) del maggiore esponente della


filosofia artificiale, Marvin Minsky1 4 3 .
107 Non più stati inafferrabili o “circostanze” accidentali, le
emozioni hanno dunque, finalmente, ragione: coloro che,
nell’ambito degli studi di ispirazione cognitivista, si sono
occupati di analizzare presenza, natura e funzione delle
emozioni cinematografiche, sono tutti indifferentemente
partiti da (e giunti ad affermare che)
Emotions have reasons. In other words, our emotional
response to texts (and other phenomena) is dependent in part
on how we evaluate and assimilate textual information. Thus
the rhetoric of a text is not simply about ideas, but also about
emotional responses. Cognitive film theory argues that in
responding to films, thinking and feeling are intimately
related1 4 4 .

108 Alla base di una tale affermazione vi è anzitutto la


dismissione della tradizionale dicotomia cartesiana fra
passione e ragione, parallela a quella di pensiero e corpo, e il
rifiuto dell’idea, a essa correlata, delle emozioni come stati
assimilabili a una serie di semplici “bodily feelings”1 4 5 . Del
resto, proprio nell’ambito del cognitivismo e della psicologia
è apparsa via via sempre più evidente e sensata la
connessione, anzi l’interdipendenza fra res extensa (il corpo)
e res cogitans (la mente), per usare le definizioni cartesiane,
e la loro rilevanza reciproca nel quadro dei processi di
articolazione e di introiezione dell’esperienza1 4 6 . La prima
assunzione fondamentale per i cognitivisti è dunque che
«emotions and cognitions are not necessarily enemies. A
cognitive understanding of emotion asserts exactly the
opposite: that emotions and cognitions tend to work
together»1 4 7 .
109 Ma perché ciò sia possibile, come accennato, è necessario
guardare alle emozioni in modo nuovo, superando l’idea che
esse somiglino a stati senza forma, caotici e inafferrabili:
«the assumption that emotions are structured is another key
one for cognitivists»1 4 8 . Le emozioni, in altre parole,
possiedono una componente cognitiva: sono il risultato
dell’elaborazione cognitiva, da parte del soggetto, di dati e
stimoli provenienti dalla sua interrelazione con il mondo
esterno. Ciò che non soltanto legittima la loro analisi ma, più
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radicalmente, autorizza la loro introduzione accanto ai


processi cognitivi nel figurare un preciso modello di essere
umano (e di mente umana). Un modello nel quale
dimensione emotiva e dimensione razionale si trovano
inestricabilmente associate e funzionalmente
interdipendenti nella percezione e concettualizzazione
dell’esperienza1 4 9 . Il décalage fra un primo e un secondo
cognitivismo presuppone quindi, sullo sfondo, una diversa
immagine dell’uomo, sulla quale ha direttamente influito il
contributo della neurobiologia e della psicologia e il successo
di lavori di divulgazione scientifica come quello, già citato,
di Damasio o quello di Daniel Goleman sull’Intelligenza
emotiva, ma anche e soprattutto la ricerca di Schachter, il
cui lavoro ha inaugurato il dibattito sul rapporto fra
cognizione ed emozione, affermando «l’interazione
funzionale reciproca fra emozione e cognizione, in quanto la
prima è attivata attraverso la seconda, così come i processi
cognitivi sono influenzati dal sentire emotivo»1 50 .
110 Questa stessa “nuova immagine” dell’uomo ha suggerito la
necessità di integrare l’analisi della dimensione passionale
nell’ambito degli studi semiotici (come vedremo meglio nel
capitolo successivo). Tanto il soggetto d’azione della
semiotica quanto il soggetto razionale del cognitivismo si
sono infatti rivelati, a un certo punto, modelli insufficienti
nella descrizione dell’esperienza, poco importa se di un
personaggio inscritto in un testo o di un soggetto in carne e
ossa. La solidarietà rimarcata da entrambe le discipline fra
dimensione del fare o del pensare e dimensione dell’essere o
del sentire possiede una comune necessità: quella di
completare, attraverso l’assunzione di un modello più
complesso, l’analisi dei processi di significazione,
comprensione e immaginazione del mondo da parte
dell’uomo. Strutturalità formale e utilità cognitiva delle
emozioni e solidarietà funzionale di mente e corpo sono
dunque le facce (chiaramente interdipendenti) di una stessa
moneta che, spesa per ridefinire natura e funzioni delle
emozioni allo scopo di riabilitarle agli occhi delle scienze
umane ed emendarle dalla diffidenza illuministica che le ha
circondate in epoca moderna1 51 , ha permesso loro di
guadagnare visibilità nell’ambito degli studi cognitivi, e in
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particolar modo in quelli dedicati all’analisi della situazione


cinematografica. Tutti questi tratti vengono riassunti e
sintetizzati nella definizione di emozione fornita da Tan ed
elaborata proprio alla luce delle diverse proposte sorte in
ambito cognitivo: «A conscious, cognitive experience (such
as fear, excitement), combined with a particular behavior
(laughing, crying, the shivers), and certain phisycal reactions
(such as galvanic skin responses, altered heart rate, and
pupil diameter changes)»1 52 .
111 Nelle pagine che seguono, ci si soffermerà in particolare su
tre nodi centrali del cinematic cognitivism che, a nostro
giudizio, rappresentano i nuclei attorno ai quali si è
principalmente organizzato un dibattito originale,
sistematico e complesso; un dibattito in cui il cognitivismo,
mettendosi alla prova della teoria del cinema, ha contribuito
a scuoterne alcuni assunti apparentemente inviolabili, a
riaprire il dibattito e a rinnovare la pratica analitica con
strumenti che, pur derivando da impalcature teoriche spesso
di grande complessità, si prestano bene a essere trapiantati
in altri contesti e a ibridarsi con altre pratiche d’analisi.

1.3.2. Di che cosa sono fatte le emozioni?


112 Uno dei temi principali al centro del dibattito cognitivista
riguarda la natura delle emozioni prodotte dalla fiction, in
particolare per quanto riguarda il loro realismo. Gli
spettatori, infatti, hanno piena consapevolezza, quando
siedono in sala, di assistere a uno spettacolo “artefatto”1 53 ;
ciononostante, le loro reazioni emotive di fronte allo schermo
somigliano per molti versi a quelle che sono soliti
sperimentare nella vita reale, e il processo stesso di
emersione dell’emozione segue tragitti cognitivi simili a
quelli che nella vita di tutti i giorni stimolano specifiche
risposte emotive. Si intuisce fin da subito come il problema
della genuinità delle emozioni fictional coinvolga il più
ampio dibattito attorno al realismo della rappresentazione
cinematografica e alla credenza dello spettatore nei
confronti dell’illusione cinematografica, fino a toccare
questioni più generali come la permeabilità delle due
dimensioni, la natura complessiva dell’esperienza

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cinematografica e la sua spendibilità nelle dinamiche


sociali1 54 .
113 Una domanda, quella rivolta all’autenticità delle emozioni
cinematografiche, e alla possibilità della fiction di suscitare
emozioni genuine, che non a caso figura in modo prioritario
nell’agenda dei cognitivisti: essi, infatti, hanno da tempo
riconosciuto la continuità strutturale fra mondo della
finzione cinematografica e mondo reale, assicurata da
un’articolazione logico-cognitiva che si riflette nella
continuità dei processi di codifica e decodifica messi in
campo da spettatori e individui. In questo quadro di
congruenza cognitiva fra le due dimensioni appare dunque
legittimo domandarsi se i processi psicologici che
presiedono alla formazione e manifestazione delle emozioni
nella realtà vengano attivati anche nel caso della visione di
un film; e se, in secondo luogo, il prodotto di tali processi,
vale a dire l’emozione, sia nei due casi la medesima cosa.
114 In proposito, i cognitivisti ereditano un dibattito che,
prendendo le mosse dal celebre intervento di Colin Radford,
How Can We Be Moved by the Fate of Anna Karenina1 55 , si
è svolto prevalentemente nell’abito della teoria della
letteratura e della filosofia analitica. Nel distinguere fra
emozioni razionali, prodotte da situazioni e oggetti reali, ed
emozioni irrazionali, relative a situazioni e oggetti di
invenzione, Radford ha svalutato le seconde, dichiarandole
situazioni a dir poco paradossali. L’elemento distintivo e
qualificante riguarda proprio la possibilità di certificare uno
statuto di realtà alle circostanze responsabili dell’attivazione
dell’emozione: nel caso dei mondi di invenzione, per dirla
con Pavel, tale possibilità sarebbe esclusa e, di conseguenza,
verrebbe meno l’appropriatezza delle condizioni attivanti e,
con essa, la razionalità delle emozioni eventualmente
suscitate. Più sottilmente, ciò che secondo Radford viene a
cadere nel caso della fiction, è il criterio di credenza su cui si
fondano numerose emozioni.
115 Come scrive Bijoy H. Boruah, gli stati mentali si
contraddistinguono infatti per la loro intenzionalità e object-
directedness, e la loro proiezione referenziale può essere
dell’ordine del “thinking of”, rappresentativo di pensieri non
asseriti o tenuti in uno stato di assenza di giudizio, o del
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“thinking that”, che riguarda invece pensieri asseriti e


credenze, presenti in uno stato di giudizio mentale1 56 . La
distinzione rimanda, in altre parole, a due diverse relazioni
fra pensiero e credenza: nel primo caso, abbiamo un
“thinking whitout believing”, nel secondo un “thinking as
believing”1 57 . Ora, una ricca classe di emozioni (come la
gelosia) sono, secondo Boruah,
belief-dependant: they are founded on, and hence identified
by reference to, appropriate beliefs. And the appropriate
belief specifies what is called the “formal object” of an
emotion. The “formal object” of a certain emotion is given by
a description under which an object or situation must be
believed to fall if it is to be the object of that emotion1 58 .

116 Tale “oggetto formale” dell’emozione, dal quale dipende la


rete delle valutazioni previsionali su cui si appunta le
credenza del soggetto, è un oggetto referenziale esistenziale,
la cui assenza, nel caso delle emozioni letterarie o
cinematografiche, sembra mettere in crisi la possibilità di
sperimentare un’emozione razionale. Per sentirsi tristi per la
sorte di Anna Karenina, infatti, bisogna poter credere
davvero che la donna in questione sia vittima, o sarà
vittima, di qualche rovescio del destino. Senza questa
credenza, la risposta emozionale sembrerebbe priva di un
fondamento razionale. Ma, si chiede Boruah,
is it rationally possible for me to form this belief in my clear
awareness that the woman to whom I respond whit sadness is
fictional? And how could anyone respond to the fictional
woman with an emotion which normally presupposes the
subject’s having an appropriate belief about the nature and
existence of the object?1 59

117 Come ribadisce Boruah, infatti, «forming the appropriate


belief on which a certain emotion is founded requires that
one also believe in the actual or possible existence of the
object or event to which one responds»1 6 0 .
118 Nel quadro della teoria del cinema sembrerebbe possibile
sfuggire questo paradosso criticando l’idea che lo spettatore
possieda sempre una piena consapevolezza della natura
immaginaria di quanto viene rappresentato sullo schermo.
In un’accezione un po’ triviale, ma non lontana dagli assunti

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teorici di Baudry e Metz, l’idea di identificazione rimanda in


effetti a un modello di spettatore che, fra regressione,
riattivazione della fase orale e proiezione desiderativa,
sembra completamente avvinto dalla finzione, identificato
con i personaggi e il racconto al punto da opacizzarne la
natura finzionale1 6 1 . In realtà, proprio nell’ambito degli studi
cognitivisti si è consumata una dura critica alla nozione di
identificazione, cui è stata sostituita quella, di tradizione
filosofica, di empatia. Rimandiamo al paragrafo successivo
una discussione approfondita sulle nozioni di identificazione
e di empatia, anticipando brevemente solo due idee cruciali:
in primo luogo, la partecipazione empatica dello spettatore
si regge sulla valorizzazione dei processi coscienti –
valutativi e previsionali – alla base della sua relazione con il
mondo funzionale; in secondo luogo, l’ingresso dello
spettatore nel racconto, rispondendo ad altre esigenze da
quelle indicate dalla psicoanalisi e originandosi e
organizzandosi attorno alla diegesi e ai personaggi, non
coincide mai con una sospensione della percezione della
natura spettacolare del film, la quale diventa semmai, al
contrario, una fonte diretta di coinvolgimento.
119 Del resto, come suggerisce Tan, lo spettatore presupposto
dal cognitivismo rimanda soprattutto all’immagine del
testimone, la quale possiede sufficiente icasticità per
designare una posizione (di distanza) e un lavoro
(eminentemente cognitivo) ben lontani da quelli
caratteristici dello spettatore della psicoanalisi; inoltre, a
differenza di quest’ultima, il cognitivismo, nell’analisi del
lavoro dello spettatore, valorizza anche l’apporto delle
determinazioni esterne, di natura sociale e culturale,
fondamentali nell’orientare la forma del suo guardare,
concepire e valutare gli eventi al di là della presenza di un
personaggio attraverso il quale/con il quale compiere tali
processi:
The film viewer is an observer with a particular mind set or
attitude, one that is rooted in the pragmatic principles of
watching feature films and in the qualities of the film itself,
that is, of the film structure. This mind set or attitude
determines which portion of the total conceivable situational
meaning structure for the film character is reflected in the
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situational meaning that the same fictional situation has for


viewers, and the exact role that it plays for within their
situational meaning structure1 6 2 .

120 La fuga dal problema del realismo resta tuttavia, al di là dei


mezzi individuati per sostenerla e giustificarla, una delle
possibili soluzioni al paradosso di Radford. Si tratta,
parallelamente, di focalizzarsi sulla natura dell’oggetto
dell’emozione: «Il trasporto affettivo è, secondo questa linea
di pensiero, un aggregato semantico, un plesso di contenuti,
una descrizione fornita dal testo mediante una serie di
tratti»1 6 3 , un corpo di significati in luogo di un oggetto vero
e proprio. Ma proprio per questo, tale prospettiva sembra
non offrire un sostituto adeguato in rapporto ai criteri su cui
si fonda il giudizio di esistenza.
121 Proprio sulla natura di quest’ultimo si fonda un secondo
modello di risposta, in cui «si suggerisce l’ipotesi che il
giudizio di esistenza sia in realtà esso stesso simulato, parte
di un gioco di immedesimazione e inserimento nel mondo
funzionale»1 6 4 . Nella prospettiva della credenza su cui insiste
Boruah, tuttavia, tale ipotesi sembra insostenibile, poiché
non vi può essere credenza, e dunque oggetto formale, senza
sincerità. Per quanto possa essere insensibile la convenzione
che porta a simulare l’esistenza dell’oggetto dell’emozione,
essa non potrà mai sostituirsi a un regime di sincerità
fenomenologica.
122 Una terza ipotesi viene infine formulata dallo stesso Boruah,
che pone al centro della sua argomentazione la nozione di
immaginazione1 6 5 , attraverso la quale risulta possibile
descrivere, come se esistessero, gli oggetti dell’emozione: «A
fictional emotion is directed towards some object or event
that is merely depicted as existing. To appreciate the
intentionality of the depiction is somehow to construct the
object or event in the imagination»1 6 6 .
123 L’immaginazione diventa così lo strumento concettuale
attraverso il quale colmare il vuoto relativo alla credenza
esistenziale degli oggetti formali da cui dipende l’emozione e,
al tempo stesso, lo strumento poietico attraverso il quale
creare tali oggetti a partire da un’attitudine della mente
essenzialmente in contrasto con l’attitudine propria della
credenza. Ma si tratta di due attitudini, in verità,
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compatibili e interconnesse. Affermare che, nel caso delle


emozioni funzionali, l’immaginazione svolge un ruolo
costruttivo essenziale, non significa infatti affermare che
l’assenza di una credenza esistenziale escluda la necessità di
un processo valutativo di credenza all’interno di tale
costruzione immaginativa. In particolare, secondo Boruah, i
processi di pensiero coinvolti nell’esperienza di una
determinata emozione finzionale sono guidati dagli stessi
criteri valutativi che regolano l’occorrenza del corrispettivo
reale di quell’emozione. Le due attitudini – giudizio di
esistenza e immaginazione – non sono in contrasto, e la
seconda non esclude la prima: in entrambi i casi, sono
all’opera identici sistemi assiologici1 6 7 .
124 Riportiamo, per chiarezza, l’esempio offerto dallo stesso
Boruah. Prendiamo il caso della paura prodotta dallo
sguardo di un leone inferocito dipinto in un quadro o
raffigurato in un film1 6 8 , e definiamola paura finzionale. Lo
stato mentale di chi avverte questa paura non è
evidentemente fondato sulla credenza dell’esistenza reale di
un leone in luogo di quello rappresentato. Quindi egli
immagina l’esistenza di un leone inferocito di fronte a sé,
ossia costruisce nella sua mente l’immagine di un leone
inferocito. Nel creare l’esistenza finzionale del leone
l’immaginazione lavora in conformità con un paradigma
valutativo concettualmente legato alla comprensione di
alcuni aspetti salienti di un qualsiasi leone inferocito. In
altre parole, è sulla base della conoscenza “enciclopedica”
circa la forza e la pericolosità del leone e del suo
comportamento aggressivo nei confronti del genere umano
in determinate circostanze che si arriva a percepire il leone
come un “oggetto pericoloso”. E nell’immaginare l’esistenza
di un leone, si sta pensando correlativamente all’idea di
pericolosità. Sono proprio tali credenze valutative, e non i
criteri di esistenza, unite alla capacità immaginativa del
soggetto, a specificare la natura dell’oggetto formale
dell’emozione e a consentire l’innesco di stati emotivi “reali”
anche di fronte a immagini finzionali. Il paradosso di
Radford è vinto:
The alleged paradox disappears when it is realized that what
we can form an evaluative belief about a character or event
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without at the same time having an existential belief about


the character or event. A fictional depiction of a life or
situation is as much the object of some evaluative belief as a
description of an analogous actual life or situation: the same
evaluative paradigm is applicable to both cases1 6 9 .

125 Come sintetizza efficacemente Paolo Braga,


questo tipo di giudizio – un giudizio di valore – a differenza
di quello, ora assente, relativo all’esistenza degli oggetti di
emozione, è essenzialmente identico ad una valutazione che
venga formulata nella vita autentica. Sono cioè in vigore gli
stessi criteri normativi1 7 0 .

126 Ci siamo dilungati sull’ipotesi di Boruah perché, anche se da


una prospettiva filosofica, essa pone l’accento su un punto
fondamentale per il cinematic cognitivism: il fatto, cioè, che
la presenza di una dimensione immaginaria non coincide
automaticamente con un regime di irrazionalità cognitiva o
emotiva; al contrario, tanto nella dimensione finzionale
quanto in quella reale sono all’opera sistemi assiologici e
valutativi analoghi, se non identici, vale a dire analoghi
processi di decodifica cognitiva sui quali si fonda la
percezione dell’esistenza degli eventi: anche gli eventi
immaginari (lo sguardo di un leone inferocito) possono
provocare emozioni reali (la paura), in quanto forniscono
uno stimolo altrettanto fondato per un’elaborazione
cognitiva che segua percorsi valutativi del tutto analoghi a
quelli esperiti nella vita reale. In secondo luogo, come
puntualizza Smith, il riferimento all’immaginazione avviene
nel quadro delle coordinate cognitive: vale a dire, nessuna
parentela con condizione quali, per esempio, il “sogno a
occhi aperti”, ma valorizzazione delle procedure cognitive
implicate nella sua costruzione, delle determinazioni rituali
(l’istituzione della fiction) e della consapevolezza
spettatoriale1 7 1 . Infine, in termini più generali, la tesi di
Boruah specifica bene in quale modo la teoria cognitiva
possa fare del concetto di immaginazione un elemento
cardine della riflessione attorno alla possibilità di
emozionarsi di fronte a una rappresentazione, sia essa
cinematografica, letteraria, pittorica.
127 Fra gli autori che si sono posti con maggior chiarezza il
problema della genuinità delle emozioni finzionali e,
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correlativamente, quello della loro origine e natura, vi è Ed


S. Tan, la cui analisi della struttura emozionale del film
appare incastonata fra una domanda e una risposta che
vertono esplicitamente sul problema della genuinità delle
emozioni cinematografiche1 7 2 . Non diversamente, Murray
Smith, nell’interrogarsi sulla natura della risposta
emozionale durante la visione cinematografica, parte con il
domandarsi di che tipo siano tali emozioni in rapporto a
quelle reali1 7 3 . Ed è ancora il problema dell’“impressione di
realtà” quello attorno a cui ruota l’analisi di Carroll1 7 4 . In
tutti i casi, poi, il tema – a differenza di quanto accade in
Boruah – viene rilanciato in rapporto ai mezzi attraverso i
quali un film può creare le condizioni necessarie affinché la
rappresentazione di personaggi e situazioni possa essere
presa e analizzata come se fosse reale.
128 In The Philosophy of Horror, Noël Carroll analizza
l’autenticità delle emozioni prodotte negli spettatori proprio
a partire dalla nozione di illusione di realtà: essa governa la
rappresentazione cinematografica non nel senso che
convince gli spettatori che ciò che stanno guardando è la
realtà, ma nel senso che essi risultano colpiti dalla
somiglianza fra ciò che vedono sullo schermo e ciò di cui
hanno esperienza nel mondo reale. Carroll organizza le
riflessioni condotte dalla tradizione letteraria e dalla teoria
del cinema attorno alla relazione fra illusione,
immaginazione ed emozione in tre paradigmi teorici,
nominati Illusion Theory, Pretend Theory e Thought
Theory.
129 Il primo paradigma si fonda sul principio della credenza
ampiamente discusso da Boruah. Esso assume che lo
spettatore debba almeno in parte assegnare uno statuto di
realtà agli eventi rappresentati perché sia possibile
sperimentare un coinvolgimento emotivo nei loro confronti.
Questo, a giudizio di Carroll, è piuttosto inverosimile, poiché
è tale la consapevolezza dello statuto della fiction nella
produzione culturale che l’abbandono ingannevole
presupposto da tale teoria sembra improbabile. Nondimeno,
risulta impossibile comprendere le reazioni emotive di uno
spettatore di fronte agli eventi narrati in un film senza

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mettere in conto almeno una componente di credenza nei


loro confronti.
130 Sull’assenza di un’attribuzione di realtà agli eventi
rappresentati si regge invece la cosiddetta Pretend Theory,
secondo la quale lo spettatore appare perfettamente
consapevole della natura illusoria degli eventi raffigurati
sullo schermo. Lo spettatore è altresì consapevole della
natura non autentica delle proprie emozioni, ma proprio in
virtù di tale consapevolezza egli trova piacevoli queste
emozioni imitative, preso in un gioco cosciente di “make-
believe” che egli governa e che può condurlo a sperimentare
delle “quasi-emotions”. L’obiezione formulata da Carroll nei
confronti della Pretend Theory si fonda – in modo
simmetrico rispetto a quanto osservato a proposito della
Illusion Theory – proprio sull’eccesso di consapevolezza.
131 Di contro a questi due estremi, la Thought Theory
rappresenta, secondo Carroll, la migliore soluzione al
problema. L’ipotesi ha molti punti in contatto con la teoria
di Boruah: Carroll sostiene infatti che non solo una realtà
fisica, tangibile, di cui si riconosca e certifichi l’esistenza può
provocare autentiche emozioni; anche un’idea, un pensiero,
una rappresentazione posseggono questo potere. Lo
spettatore non ha bisogno di credere che Dracula esista
davvero, sullo schermo e nella sala, per esserne impaurito: il
solo pensiero è sufficiente a evocare stati di tensione e paura.
Carroll sostiene, in breve, che le emozioni possano nascere
anche dall’immaginazione di uno spettatore non del tutto
abbandonato alla finzione.
132 Che lo spettatore non sia mai completamente ingannato
circa la natura rappresentazionale dello spettacolo né, al
tempo stesso, interamente assorbito dalle logiche culturali di
tale rappresentazione, è anche la posizione di Murray Smith:
Emotional responses to fictional should be regarded as
neither symptom nor cause of the purported ‘positioning’ of
the spectator by text. Far from being merely impulsive,
unconscious, or bodily responses antithetical to rationality,
emotions – whether elicted by real events of fictions – form
part of an integrated cycle of perception, cognition, and
action1 7 5 .

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133 Come in Carroll e Boruah, anche in Smith lo spettatore, nella


sua relazione con il film, emerge come un soggetto libero,
solo parzialmente definito dal lavoro del testo, e attivo, ossia
diretto responsabile di processi percettivi e cognitivi da cui
dipende, fra l’altro, la sua esperienza emotiva. Ritorna qui, a
partire dalla rilettura de Il significante immaginario, il
problema della credenza e dell’immaginazione. Allo
spettatore “illuso” o “impressionato” di Metz, che «at certain
moments drifts into a deceived, dreamlike state, in which
the represented world is experienced as a reality»1 7 6 , Smith
oppone l’immagine di uno spettatore onnicosciente della
presenza e del ruolo dell’“istituzione” fiction (autore,
narratore, narrazione ecc.). secondo Smith, il realismo di un
film non viene compromesso dalla consapevolezza, da parte
dello spettatore, della sua natura costruita; al contrario, esso
è il prodotto di una ricognizione del film in quanto testo, in
accordo con l’idea neoformalista1 7 7 che il realismo di un
rappresentazione sia soprattutto un effetto perseguito da
determinate configurazioni testuali, anziché una proprietà
trascendente legata all’adeguatezza di un rimando
referenziale: «We should analyse the conventions of the
artwork rather than assess it for for any trascendant
referential adequacy»1 7 8 . L’essere o, meglio, l’apparire reale
di un film è insomma, per Smith, la conseguenza di un
processo retorico, sul versante del testo, e cognitivo, su
quello dello spettatore; un processo di codifica e decodifica
governato dalla premessa epistemologica della natura
costruita della rappresentazione, ossia dalla sua
appartenenza a una determinata tipologia sociale di discorsi
(i testi di finzione) e a una istituzione ben precisa (la
fiction). Un processo di codifica e decodifica in cui
intervengono schemi “operativi” del tutto analoghi a quelli
messi in gioco dallo spettatore nella sua esperienza del
mondo.
134 Il tema dell’autenticità o, più in generale, della natura delle
emozioni prodotte dalla fiction lievita da un simile terreno
teorico. Alla gerarchia proposta da Radford, Smith
sostituisce semplicemente una distinzione fra due forme di
risposte emotiva, una prodotta da eventi reali, l’altra da
eventi fittizi. Le due condividono numerosi aspetti, senza per
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questo essere strutturalmente identiche. In particolare, esse


differiscono proprio in rapporto alla natura dell’oggetto
dell’emozione:
In a response to an actual situation, we must believe that the
object (the event to which react) must exist or have existed. In
a response to a fictional text, we merely imaginatively
propose to ourselves that the object exists: we do not require
any existential commitment1 7 9 .

135 Ancora una volta, il ruolo dell’immaginazione nel figurare


una situazione come se fosse vera appare la condizione
sufficiente affinché lo spettatore reagisca emotivamente a
una rappresentazione finzionale secondo parametri e
procedure assimilabili a quelli dell’esperienza reale. Nel
sistema di Smith, infatti, l’immaginazione figura come
risorsa poietica organizzata a partire dagli stessi schemi
concettuali di decodifica dei dati sensibili e di
cognitivizzazione dell’esperienza in uso nella realtà. L’oggetto
formale dell’emozione finzionale è costituito da un criterio
valutativo (similmente a quanto sostiene Boruah) che
permette di stare in rapporto a situazioni e personaggi di
finzione secondo le stesse modalità esperite nella vita reale:
anziché un oggetto esterno, come in quest’ultimo caso,
avremo un oggetto interno, che si fa esistere sul piano
mentale.
136 Non diversamente, infine, fa Torben Grodal. Senza
dettagliare troppo, vale però la pena di segnalare come,
proprio in apertura al suo libro1 80 , egli si ponga il problema
dell’autenticità delle emozioni suscitate dalla visione
prendendo le mosse (sulla scorta di William James) da un
indebolimento filosofico della nozione stessa di realtà: la
realtà non sarebbe niente di trascendentale o di assoluto ma,
piuttosto, uno stato del soggetto caratterizzato da certi
sentimenti e valutazioni cognitive che sono applicate a certi
fenomeni in contrasto ad altri: in breve, «reality is a special
mental and emotional construction»1 81 .
137 Nell’opporsi a un’idea dell’illusione cinematografica come
inganno in cui lo spettatore sarebbe preso senza possibilità
di reazione, il cinematic cognitivism sostiene con forza l’idea
di uno spettatore attivo e anzi cooperativo, e sottolinea

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l’importanza del suo apporto creativo (immaginativo)


nell’interpretazione del film. La teoria cognitiva postula
insomma un modello di spettatore libero, simile a un
giocatore perfettamente consapevole delle regole del gioco,
di ciò che gli viene chiesto e di ciò che potrà guadagnare
dalla partecipazione al film. Così, la generale assenza di
forme di resistenza di fronte all’illusione cinematografica
non va scambiata per un adeguamento impotente alla magia
delle immagini ma, al contrario, andrà vista come un atto
volontaristico di partecipazione. Del resto, «why would
anyone want to resist such a skillful and engaging opponent?
Indeed, why would anyone want to see the film as an
opponent in the first place?1 82

1.3.3. Il personaggio, veicolo dell’emozione


138 La discussione di termini chiave della teoria del cinema
come credenza, realismo, illusione, immaginazione ecc. in
rapporto al problema dell’autenticità delle emozioni evocate
nello spettatore dalla visione di un film e, più generale, da
un’opera di fiction, ha mantenuto sullo sfondo il problema
più generale della natura e della forma del rapporto che si
instaura fra film e spettatore durante la visione e del modo
in cui quest’ultimo giunge a sperimentare tali emozioni. Le
precisazioni epistemologiche circa la natura esistenziale
della rappresentazione cinematografica costituiscono infatti
solo la premessa alla comprensione del modo in cui lo
spettatore si relaziona al film e vi partecipa. Si tratta adesso
di capire quali elementi del testo intervengono più
direttamente a “muovere” l’emotività dello spettatore, a
stimolarne una risposta e, più in generale, a definire il tono
affettivo della visione e il ruolo che svolge tale partecipazione
appassionata in rapporto ai meccanismi di comprensione
del racconto.
139 Già Münsterberg, come si è visto, aveva capito che il
fenomeno delle emozioni dello spettatore va collegato
direttamente alla presenza del personaggio nel testo,
probabilmente anche sulla base di quanto la teoria della
letteratura aveva fin lì scritto in proposito, assegnando al
personaggio un ruolo cardinale nella costruzione e

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percezione del racconto. È ben nota, in proposito, la


posizione di Henry James:
Che cos’è il personaggio se non la determinazione
dell’incidente? Che cos’è l’incidente se non l’illustrazione del
personaggio? Che cosa c’è, in un dipinto come in un romanzo,
che non sia del personaggio? Che cos’altro cerchiamo e
troviamo in essi?1 83

140 Tale cardinalità, con riferimento al tema delle emozioni,


viene ribadita da tutti i cognitivisti. In Smith, in particolare
– autore di un testo che porta il character fin nel titolo – la
propensione dello spettatore a rispondere emotivamente ai
personaggi di un film appare come un aspetto chiave
dell’esperienza cinematografica e del piacere che essa può
procurare; parallelamente, e conseguentemente, i personaggi
emergono dalle pagine del suo libro quali strumenti
privilegiati nello stimolare e nel configurare la
partecipazione cognitiva, ideologica e emotiva al film:
Characters are central to the rhetorical and aestetic effects of
narrative texts. Character structures are perhaps the major
way by which narrative texts solicit our assent for particular
values, practices, and ideologies1 84 .

141 Essi sono, in breve, l’oggetto da cui nasce e verso il quale si


orienta l’attenzione dello spettatore, la logica strutturante
dell’esperienza di visione e la misura e l’innesco di ogni
emozione. È dunque in virtù dei personaggi se lo spettatore
ha accesso al mondo della finzione e ne resta avvinto, ma
l’ipotesi cognitivista è evidentemente contraria all’immagine
del personaggio come “porta magica” verso tale mondo e
luogo di identificazione da cui osservarlo e farne esperienza,
nei panni, col punto di vista e le emozioni di qualcun altro.
142 I personaggi – i loro pensieri, le loro azioni, le loro emozioni
– stimolano e orientano sì la risposta emotiva dello
spettatore al testo, ma a partire da una relazione
personaggi(o)-spettatore che non possiede nulla delle zone
d’ombra connesse all’idea di identificazione: lo spettatore
del cognitivismo non si identifica con i personaggi ma
(semmai) ne condivide il punto di vista dopo averne
compreso (valutato) idee, pensieri, emozioni. L’emozione
dello spettatore si traduce allora, con variabili di grado e
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intensità dipendenti, a loro volta, da variabili di vicinanza e


prossimità con il personaggio, in una partecipazione
mediata da un continuo processo cognitivo, valutativo,
previsionale, e partecipa essa stessa a riconfigurare
continuamente la relazione tra spettatore, personaggi e
situazioni rappresentate. Il che rinsalda l’idea che l’emozione
sia al tempo stesso una componente e un prodotto dei
processi cognitivi ma, anche, uno strumento funzionale alla
loro attivazione e attuazione.
143 Ma prima, perché lo spettatore possa entrare in relazione
con il personaggio e definire sulla base di questa il contenuto
emotivo della sua esperienza di visione, è necessario che il
personaggio permetta in qualche modo la costruzione di tale
relazione. A differenza dell’identificazione, che sembra
potersi compiere con una certa indifferenza per la
dimensione testuale del personaggio1 85 , autori come Tan,
Smith e Grodal non solo valorizzano la responsabilità del
rilievo narrativo del personaggio nella definizione della
“posizione” dello spettatore, ma discriminano anche fra
diverse possibilità di accostamento a esso (in luogo della solo
identificazione) e, di conseguenza, fra diverse possibilità di
partecipazione emotiva.
144 Ciò è tanto più vero, da una prospettiva cognitiva, nella
misura in cui il personaggio appare processato dallo
spettatore sulla base degli stessi person schema con cui gli
individui normalmente si comprendono, valutano,
definiscono reciprocamente. Così, afferma Smith, come fosse
un essere umano, anche il personaggio viene costruito e
percepito sulla base delle seguenti categorie: i) un corpo
umano discreto, individuato e costante nello spazio e nel
tempo; ii) un’attività percettiva, compresa la consapevolezza
di sé; iii) stati intenzionali, quali desideri e opinioni; iv)
emozioni; v) l’abilità di usare e capire un linguaggio
naturale; vi) la capacità di porsi degli obiettivi e di auto-
interpretarsi; vii) il mantenimento di tratti distintivi e
attributi particolari1 86 .
145 Il personaggio può essere dunque definito l’analogo di un
agente umano, costruito sulla base di schemi percettivi e
valutativi (person schema) che lo rendono saliente e ne

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definiscono le particolarità, a partire dalla sua aderenza a


certi modelli esperienziali e culturali:
Character construction is a process of modelling, in which the
spectator ‘projects’ a schema (initially, the person schema)
and revises it on the basis of the particular text [...] Character
construction is thus a dynamic process in which the person
schema and cultural models allow us to leap ahead of what
we are given and form expectations1 87 .

146 Il lavoro di interpretazione da parte dello spettatore è


guidato, almeno a un primo livello (quello del
riconoscimento del mondo finzionale), dalle caratteristiche
formali del linguaggio cinematografico e dalla struttura
narrativa. Così, come osserva Grodal, proprio il maggiore o
minor grado di umanità dei personaggi, dato il
funzionamento di personal schema abituali nella loro
decifrazione, può influenzare profondamente la posizione
dello spettatore nei loro confronti e in merito al racconto e,
di conseguenza, le modalità della partecipazione emotiva; in
proposito, è interessante sottolineare l’importanza che
Grodal, più di altri, assegna al corpo del personaggio
nell’allineamento dello spettatore alla situazione narrata.
Tan, da parte sua, attraverso i termini di categorization e
individuation (e i loro valori intermedi) suggerisce diverse
possibilità di descrizione della complessità del personaggio,
connettendo in modo diretto una sua maggiore
tridimensionalità alla possibilità, da parte dello spettatore,
di sperimentare un più vasto range emotivo1 88 .
147 È lecito a questo punto domandarsi in quale modo una
teoria del personaggio di questo tipo, formulata nel più
ampio quadro di una teoria dell’immaginazione fondata
sulla continuità cognitiva fra mondo reale e mondo
finzionale, definisce e organizza la risposta emotiva dello
spettatore durante la visione di un film. Entrano qui in
gioco, in opposizione al concetto di identificazione, due
termini chiave di tutto il dibattito cognitivista: quelli di
simpatia e, soprattutto, di empatia.

1.3.4. Identificazione versus empatia

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148 Un quadro riassuntivo del problema è tracciato da Berys


Gaut in Identification and Emotion in Narrative Film, in
cui emerge molto chiaramente come l’insoddisfazione, in
ambito cognitivista, per la nozione di identificazione sia
legata allo svilimento teorico cui essa è andata incontro
all’interno della teoria del cinema1 89 . Contro l’“everyday
concept of identification” muove, per esempio, il libro di
Murray Smith, in cui l’autore sintetizza così l’idea oggi più
diffusa del processo di identificazione:
We watch a film, and find ourselves becoming attached to a
particular character or characters on the basis of values or
qualities roughly congruent with those we possess, or those
that we wish to possess, and experience vicariously the
emotional experiences of the character: we identify with
character1 9 0 .

149 Un modello folk theory che difetta in molti punti,


suggerendo per esempio la necessità di un abbandono totale
dello spettatore nei confronti del personaggio e una certa
assolutezza del processo di identificazione a partire dalla
realtà dello spettatore, in contrasto proprio con l’elasticità
focale dell’idea di identificazione, così com’è stata ereditata
dalla teoria del cinema di ispirazione psicoanalitica1 9 1 . Da
questa prospettiva, termini come simpatia e empatia – che
pure appaiono geneticamente come versioni indebolite del
concetto di identificazione – risultano decisamente più
appropriati, proprio perché, da un lato, tengono in maggiore
considerazione la distanza cosciente da cui lo spettatore
osserva i fatti e, dall’altro, valorizzano il ruolo poietico della
sua immaginazione e quello “impressivo” (e non illusorio)
del film (di ogni singolo film, fino a diventare, come nel
sistema di Smith, un criterio valutativo in base al quale
pronunciarsi sulle scelte stilistiche e comunicative del
regista); inoltre, come si vedrà, il termine di empatia
rimanda a una vasta gamma di possibili posizionamenti
dello spettatore in rapporto al film e ai suoi personaggi, in
opposizione ai due soli livelli (primario e secondario)
dell’identificazione1 9 2 . Ma, soprattutto, simpatia ed empatia
riferiscono di due fenomeni di relazione intersoggettiva non
esclusivi del rapporto spettatore-film ma, al contrario,

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contigui alle modalità reali di partecipazione emotiva alla


sorte e alle vicende altrui.
150 L’idea di simpatia, in particolare, rimanda all’interesse per il
destino del personaggio: «To sympathize with a character –
specifica Gaut – is in a broad sense to care for him, to be
concerned for him»1 9 3 . Simpatizzare con un personaggio
non significa necessariamente provare i suoi stessi
sentimenti e dunque, più in generale, partecipare alle
vicende narrate da un film da una posizione esclusivamente
“interna”: l’interesse nei confronti del personaggio si traduce
più spesso in valutazioni emotive circa il suo stato, le sue
azioni, i suoi pensieri; lo spettatore, così, può provare pietà
di fronte alla grave malattia di un personaggio oppure
temere per il suo destino, minacciato da accadimenti di cui
egli è già informato quando ancora il personaggio non ne ha
alcuna consapevolezza al riguardo. Si tratta, in breve, di un
sentimento di vicinanza e di partecipazione.
151 L’empatia, al contrario, riferisce di una forma di
partecipazione emotiva in cui lo spettatore condivide i
sentimenti del personaggio: «I am empathically angry if and
only if (I believe or imagine) that he is angry, and the
thought of his anger controls and guides the formation of my
angry»1 9 4 . L’empatia funziona dunque come processo di
proiezione dello spettatore sul personaggio, senza che ciò
coincida con l’annullamento del primo nel secondo; spesso,
inoltre, essa può lievitare sul terreno della simpatia, senza
per questo rendere automatica o necessaria la relazione tra
le due condizioni: lo spettatore, per esempio, può
condividere, magari solo per brevi istanti, i sentimenti di un
personaggio verso il quale non prova alcun vero interesse
perché antagonista di quello al quale va la sua simpatia.
152 La struttura di base dell’empatia si regge insomma sulla
comprensione e sulla condivisione1 9 5 , da parte dello
spettatore, del valore che assumono gli eventi in relazione ai
desideri, ai bisogni e agli interessi del personaggio. Ne
deriva, come osserva Tan, che con il termine di empatia è
possibile riferirsi a tutte le operazioni cognitive che, da parte
dello spettatore, conducono verso una più completa
comprensione del significato degli eventi per il personaggio
di un film. L’empatia non è dunque una condizione ma un
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processo: viene innescata dal film e dai suoi personaggi e al


tempo stesso si ribatte sul film in quanto modalità di
comprensione dipendente dal valore che gli eventi assumono
in rapporto ai personaggi. Definisce, in breve, la principale
modalità conoscitiva attraverso la quale lo spettatore
partecipa al racconto di un film.
153 A partire dall’allineamento empatico dello spettatore sul
personaggio, indipendentemente da fenomeni di saldatura
per simpatia, nasce la possibilità, da parte dello spettatore,
di connotare emotivamente la propria esperienza di visione.
Si definiscono emozioni empatiche, in accordo con Tan,
quelle emozioni «which is characterised by the fact that the
situational meaning structure of the situation for a
character is part of the meaning for the viewer»1 9 6 . Accanto
a queste, un film è in grado di suscitare anche emozioni non
empatiche, perché direttamente legate alle caratteristiche
del medium: emozioni connesse alle potenzialità spettacolari
del film (in quanto artefatto) o dipendenti da una scena che,
presa singolarmente, vale come stimolo emozionale solo in
rapporto allo spettatore1 9 7 ; l’uso degli effetti speciali,
l’erotismo di una scena o, ancora, la fantasmagoria visiva e
sonora di un pezzo musical o il disgusto per un determinato
evento, producono stati emotivi non empatici nella misura
in cui «the focus of the situational meaning is limited to the
event itself, as a scene»1 9 8 . Tan, in questo caso, preferisce
parlare di fascinazione1 9 9 .
154 La proposta di Tan possiede numerosi punti di interesse: in
primo luogo, valorizza il nesso cognizione/emozione,
considerando la prima un innesco inevitabile per la seconda,
e la seconda un guadagno conoscitivo e un termine guida
fondamentale della prima; in secondo luogo, grazie alla
diversificazione dei possibili oggetti emotigeni (film in
quanto spettacolo, film in quanto racconto governato da un
personaggio e film in quanto artefatto) esplora la diversa
origine dell’emozione spettatoriale e la sua natura profonda
(empatica o non empatica), in opposizione alla natura
monolitica dell’idea di identificazione; inoltre, nel connettere
la maggior parte delle emozioni spettatoriali alla
condivisione, parziale o totale, delle emozioni sperimentate
dai personaggi, valorizza la dimensione discorsiva del testo –
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sia in termini figurativi, sia in termini narrativi – da cui


dipende la humaness dei personaggi.
155 La stessa complessità descrittiva si trova nelle proposta di
Smith che, similmente a Tan, indica con il termine di
empatia il risultato dell’allineamento dello spettatore al
personaggio, condizione essenziale per la partecipazione
emotiva del primo2 00 . I termini che insieme compongono la
structure of sympathy, ossia la relazione immaginativa
grazie alla quale lo spettatore entra in dialogo con il
personaggio, sono tre: recognition, alignement e allegiance.
156 Recognition è la fase in cui lo spettatore costruisce i
personaggi a partire dalle indicazioni testuali di base
(grande importanza assumono in questo caso il corpo e il
volto, e dunque strategie linguistiche come il primo piano).
L’alignement si riferisce invece alla relazione in cui è posto
lo spettatore nei confronti dei personaggi, in termini di
accesso alle loro azioni e a quello che pensano e sentono. Si
tratta di un concetto vicino a quello di focalizzazione,
riferito al ruolo di mediazione che il punto di vista di un
particolare personaggio può compiere nei confronti degli
eventi narrati2 01 . Ne deriva che le modalità dell’alignement
dipendono direttamente dalle strategie di controllo
dell’informazione narrativa; due, in particolare, sembrano
essere le dimensioni implicate: una riferita alla dimensione
spazio-temporale, l’altra a quella soggettiva. Si possono così
distinguere le modalità dell’alignement sulla base della
focalizzazione del racconto verso l’azione di un solo
personaggio o, al contrario, verso un più libero movimento
spazio-temporale fra due o più personaggi (spatio-temporal
attachment), e in base alle modalità dell’eventuale accesso
alla soggettività del personaggio (subjective access). Infine,
con il termine di allegiance ci si riferisce alla valutazione di
ordine morale che lo spettatore compie nei confronti del
personaggio. L’allegiance dipende direttamente dai livelli
precedenti, ossia dal modo in cui lo spettatore ha avuto
accesso ai pensieri dei personaggi e dal modo in cui ha
compreso il contesto in cui si sono svolte le sue azioni: è a
partire da questa conoscenza che si compie una valutazione
morale. Tale processo “moralizzatore” possiede una
dimensione cognitiva e una affettiva: «Being angry or
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outraged at an action involves categorizing it as undesirable


or harmful to someone or something, and being affected –
affectively aroused – by this categorization»2 02 . È inoltre
sulla base di questa valutazione che lo spettatore costruisce
delle moral structures in cui i personaggi sono classificati in
un ordine di “preferenza”.
157 Come si vede, il sistema di Smith non solo moltiplica le
possibilità di ingresso dello spettatore nella finzione, ma
spinge chiaramente verso una soluzione cognitiva del
coinvolgimento emozionale. Lo spettatore, infatti, non si
trova mai a replicare le emozioni dei personaggi; piuttosto,
egli risponde emotivamente alle caratteristiche e alle
emozioni di un particolare personaggio, a seguito di un
processo di comprensione (recognition e alignement) e di
valutazione morale (allegiance). Tale risposta prende il
nome di simpatia (e i tre livelli quello di structure of
sympathy), termine che Smith distingue da quello di
empatia in virtù della sua acentralità2 03 , ossia, per
l’appunto, sulla base della natura responsiva e non imitativa
dell’atteggiamento dello spettatore in rapporto al
personaggio: l’accesso all’emozione è dunque costruito
dall’esterno.
158 Il termine empatia, al contrario, viene impiegato per
descrivere un processo di attivazione dell’emozionalità dello
spettatore in cui non è necessario che il percipiente
condivida alcun valore, credenza o motivazione del
percepito. Si tratta infatti di un processo di sostituzione
immaginaria in cui un soggetto sviluppa un’immagine
centrale a partire dalle attitudini prospettive di un’altra
persona. Il fenomeno dell’empatia non riduce, con ciò, il
ruolo volitivo del soggetto: l’innesco per l’empatia è infatti
una emotional simulation, nella quale il soggetto si proietta
nella situazione di qualcun altro, simulandone opinioni,
desideri e, per l’appunto, emozioni: «We do not lose
ourselves in the other, but imagine possessing certain
predicates of the other»2 04 .
159 L’empatia si rivela così sia una condizione emotigena, sia
una pratica analitica: essa, infatti, sviluppandosi come una
serie di ipotesi formulate secondo un modello di “prova e
errore” (affective trial and error) in rapporto alla
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dimensione emotiva di un personaggio, permette di


comprendere meglio i suoi pensieri e i suoi stati d’animo, e
di raggiungere così una conoscenza ulteriore dei suoi tratti
caratterizzanti, utili alla formazione della structure of
sympathy. L’immaginazione (empatia), in breve, viene in
soccorso della valutazione e della comprensione (simpatia):
«For in simulating an emotion or any other intentional state,
we are not merely recognizing or understanding it, but
centrally imagining it»2 05 .
160 Connesse alla simulazione emotiva ma distinte da queste per
la loro origine involontaria, vi sono infine la affective
mimicry e le automatic reactions. Le prime testimoniando
del fenomeno per cui, involontariamente, si tende spesso a
replicare le espressioni facciali dell’altro (connesse alla
dimensione affettiva): secondo la teoria del feed-back di
James, ciò avviene allo scopo di intensificare, attraverso
un’espressione facciale appropriata, ossia speculare a quella
percepita, la propria esperienza emotiva. Nel caso del
cinema, è importante rilevare la natura percettiva del
fenomeno e la sua utilità verso una migliore comprensione
del personaggio. Le automatic reactions, invece, sono
risposte involontarie che non dipendono dalle espressioni
facciali del personaggio ma in cui lo spettatore, allineato con
questo, partecipa del suo stesso shock – a causa di un
rumore imprevisto, per esempio, o di un movimento
improvviso.
161 Riassumendo, le situazioni di coinvolgimento per simpatia e
per empatia si distinguono:
162 — in base al ruolo dei processi di comprensione della
situazione narrativa e dei personaggi, centrale nel caso della
simpatia, inessenziale nel caso dell’empatia;
163 — in virtù del riconoscimento cognitivo dell’emozione: nel
caso di una risposta simpatetica lo spettatore riconosce
cognitivamente un’emozione e vi risponde con un’emozione
differente ma appropriata, prodotta dalla valutazione del
personaggio e della situazione narrativa; nel caso di una
risposta empatica, al contrario, lo spettatore simula (e
dunque esperisce) la stessa emozione sperimentata dal
personaggio.

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164 Ma tra risposta simpatetica e risposta empatica vi sono


anche numerosi legami e forme di dipendenza (e non sempre
la distinzione appare così necessaria ed evidente). In
particolare, l’emotional simulation e l’affective mimicry
funzionano all’interno della structure of sympathy, in
quanto meccanismi attraverso i quali lo spettatore guadagna
una migliore comprensione del mondo della finzione e dei
personaggi che lo abitano. Tuttavia, come detto, si tratta di
meccanismi che non si limitano ad arricchire la conoscenza
dello spettatore in termini cognitivi e valutativi: attraverso
la simulazione egli sperimenta, anche se in forma attenuata,
le emozioni predominanti vissute dal personaggio,
traendone, infine, un guadagno puramente emotivo.

1.3.5. A che cosa servono le emozioni?


165 L’idea (formulata da Tan) che le emozioni rappresentino un
guadagno in rapporto all’investimento immaginativo dello
spettatore introduce un’ultima questione, relativa alla
natura e alla funzionalità cognitiva delle emozioni; da una
prospettiva cognitivista, esse risultano possedere un ruolo
fondamentale nel definire e organizzare l’esperienza di
visione.
166 In primo luogo, la partecipazione empatica e/o simpatetica,
garantendo l’accesso alla dimensione emotiva del
personaggio e innescando, per valutazione o simulazione,
l’esperienza emotiva dello spettatore, rappresenta una delle
fonti principali del piacere spettatoriale. Grazie ai processi
di allineamento al personaggio, infatti, lo spettatore
sperimenta delle emozioni spesso molto violente ma, proprio
per la struttura di questo tipo di partecipazione, ciò avviene
da un punto di vista sufficientemente protetto e secondo una
struttura chiusa e risolta tale per cui, anche nel caso della
simulazione di stati emotivi disforici, l’esperienza dello
spettatore può dirsi, in ogni caso, piacevole:
From the perspective of the viewer, it could be said that what
all natural viewers of the traditional feature film have in
common is their desire to experience emotion as intensely
and as abundantly as possible, within the safe margins of
guided fantasy and a closed episode2 06 .

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167 Nella teoria di Tan, infatti, lo spettatore viene equiparato a


un testimone che osserva e che, immaginativamente, si
proietta negli eventi, ben consapevole, tuttavia, della loro
natura fittizia, e dunque della loro inoffensività. Al tempo
stesso, la struttura narrativa del cinema “tradizionale”
(classico e contemporaneo), offre un modello di testo chiuso
e concluso in cui anche gli stati emotivi più incerti e
angosciosi tendono sempre a trovare soluzione (è la legge che
Tan definisce closure and emotional action tendencies in
film viewing). Naturalmente, come ricorda Plantinga2 07 ,
non è necessario alcun allineamento al personaggio per
sperimentare certi stati emozionali durante la visione, siano
essi più simili a stati emotivi non cognitivi (gli affects di
Carroll e la fascinazione di Tan) oppure definiti sulla base di
oggetti formali non direttamente dipendenti dalla fiction (le
artifact emotion di Tan).
168 In secondo luogo, in tutti gli autori citati, le emozioni
provocate da un film appaiono come il prodotto di un
processo cognitivo di regolazione della risposta dello
spettatore nei confronti degli eventi narrati sullo schermo;
non diversamente dalla funzione basica che esse svolgono
nella vita quotidiana, le emozioni, anche al cinema,
somigliano a una sorta di «interfaccia nella mediazione fra il
soggetto e l’ambiente»2 08 . In altre parole, oltre a
rappresentare la principale fonte di piacere della visione
cinematografica, le emozioni, soprattutto nei casi di
allineamento simpatetico o empatico, accompagnano e
orientano i processi cognitivi dello spettatore (senza
possibilità di distinguere nettamente fra le une e gli altri),
costituendo un elemento essenziale della comprensione del
film2 09 .
169 In terzo luogo, le emozioni possiedono un valore temporale
che le rende preziose nel cementare e mantenere vivo
l’interesse dello spettatore nei confronti del racconto; inoltre,
esse alimentano un intenso lavoro di partecipazione: in
proposito, la proposta più suggestiva è sicuramente quella di
Tan, che smonta la struttura del film classico rivelandone
una sofisticata architettura diretta a stimolare quasi sempre
un’emozione molto specifica e “basica”, l’interesse.

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170 Infine, quanto detto circa i fenomeni di contiguità fra


processi cognitivi ed emotivi reali e processi cognitivi ed
emotivi innescati dal film, ne deriva che le emozioni non
possiedono un valore e una funzione soltanto in rapporto al
film e al momento della visione. Smith, in particolare,
muovendo da presupposti analoghi a quelli di Boruah e di
Carroll, non si accontenta di stabilire l’autenticità delle
emozioni prodotte da un oggetto immaginario, ma valorizza
tale autenticità in rapporto all’“uso” e al valore sociale di tali
emozioni finzionali. Egli sostiene infatti che la continuità
strutturale delle esperienze immaginative e reali, fondata
sulla congruenza dei meccanismi di codifica e decodifica
messi in campo dallo spettatore (schemi cognitivi e schemi
culturali), fa sì che il risultato dell’esperienza spettatoriale
non resti confinato al momento della visione ma interagisca
attivamente con la realtà. Secondo Smith, lo spettatore è
coinvolto durante e dopo la visione in un continuo processo
di confronto critico fra la proposta del film, i propri saperi e
la propria formazione ideologica; le emozioni giocano, in
questo processo, un ruolo fondamentale, in quanto
favoriscono l’ingresso dello spettatore nella finzione e
un’interpretazione coinvolta di quanto viene rappresentato,
diventando esse stesse oggetto di riflessione. Di qui, come si
vedrà meglio nell’ultimo capitolo, la possibilità di concepire
l’esperienza della visione cinematografica come un momento
di formazione e circolazione di saperi emozionali
socialmente diffusi che lo spettatore accoglie ed elabora
nell’atto immaginativo della visione e,
contemporaneamente, sottopone a una critica e a una
verifica reali.

Notas
1. Ricciotto Canudo, La nascita di una sesta arte, «Cinema Nuovo», 221,
Sansoni, Firenze 1973.
2. Cfr. Tom Gunning, An Aesthetic of Astonishment: Early Film and the
(In)Credulous Spectator, in Linda Williams (a cura di), Viewing
Positions. Ways of Seeing Film, Rutgers University Press, New
Brunswick, 1995, in cui si ricorda come fosse comune alle prime proiezioni
“mettere in moto” il meccanismo della riproduzione cinematografica a
partire da immagini fisse, con un effetto di vera e propria visualizzazione

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della metamorfosi che il cinematografo rendeva finalmente disponibile


rispetto alla tradizione della fotografia.
3. Cfr. André Gaudreault, Cinema delle origini o della «cinematografia-
attrazione», Il Castoro, Milano, 2003, in particolare pp. 36-42.
4. Il riferimento è a David Freedberg, Il potere delle immagini, Einaudi,
Torino, 1993. La prospettiva di Freedberg è di grande interesse e, per
quanto egli si occupi esclusivamente di immagini artistiche (pittoriche e
scultoree), suggerisce possibili applicazioni anche al cinema, facendo
proprio della risposta emotiva dell’osservatore/spettatore una traccia
indiziaria fondamentale per una storia “istituzionale” delle immagini: «Lo
scopo è tracciare un diagramma delle reazioni, e poi di considerare perché
le immagini stimolino, provochino o eccitino quel tipo di reazione» (p. 36).
Sembra utile ricordare qui, accanto a quella di Freedberg, la posizione di
Serge Tisseron, il cui La felicità nell’immagine (Editoriale Scientifica,
Napoli, 1998) si regge su una critica al dominio del senso e all’eccesso di
“sensatezza” che caratterizzerebbero lo statuto e la vita sociale delle
immagini nell’età contemporanea, con la conseguenza di tenere lontano la
“felicità” dell’immagine: «Con l’immagine come segno da decifrare, il
piacere dell’immagine scompare a vantaggio del suo uso pedagogico,
scientifico e tecnico. Essa è soggetta agli obblighi della riproduzione del
sapere, proprio come la sessualità era soggetta agli obblighi della
riproduzione della specie durante l’epoca vittoriana», p. 8. Più in
generale, il lavoro di Tisseron insiste soprattutto sulla necessità di
fondare l’analisi dell’immagine sulla tipologia delle relazioni che lo
spettatore intrattiene con essa.
5. Hugo Münsterberg, Film. Il cinema muto nel 1916, Pratiche, Parma,
1980.
6. Giovanna Grignaffini, Sapere e teorie del cinema. Il periodo del muto,
CLUEB, Bologna, 1989, p. 65.
7. A Wundt (1832-1910) si deve la definitiva separazione della psicologia
dalla filosofia e il suo costituirsi in disciplina autonoma, cui egli fornì
oggetto, metodo e obiettivi di ricerca, fondando nel 1879 a Lipsia il primo
laboratorio di psicologia sperimentale. Segnaliamo qui il lavoro svolto da
un seguace italiano di Wundt, Mario Ponzo, che nel 1911 (dunque con tre
anni di anticipo su Münsterberg) pubblica negli «Atti della Regia
Accademia delle Scienze di Torino» quello che è probabilmente il primo
contributo in cui la psicologia italiana incrocia il cinema, Di alcune
osservazioni psicologiche fatte durante rappresentazioni
cinematografiche (ripubblicato in «Cinema Nuovo» nel 1985; si veda in
proposito il saggio di Alessandro Marini, Spettatori nel 1911, «Acta
Universitatis Palackianae Olomucensis», 76, 2000, pp. 115-124). Allievo
di Federico Kiesow, Ponzo analizza la formazione dell’immagine a partire
dalla teoria associativa di Wundt e, similmente a Münsterberg, concepisce
il film come un oggetto “manchevole” che lo spettatore interviene

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letteralmente a creare, colmandone, tramite il ricorso a esperienze


anteriori, le lacune e, di fatto, definendone il “realismo”.
8. Hugo Münsterberg, Why We Go to the Cinema, «The Cosmopolitan»,
60, 1915, ripubblicato in Allan Langdale, Hugo Münsterberg on Film.
The Photoplay: A Psychological Study and Other Writings, Routledge,
New York-London, 2002, p. 172.
9. Cfr. Alberto Boschi, Teorie del cinema. Il periodo classico 1915-1945,
Carocci, Roma, 1998, in particolare pp. 51-82. Il libro di Boschi contiene
inoltre una trattazione specifica della teoria di Münsterberg.
10. Hugo Münsterberg, Film, cit., p. 31.
11. Hugo Münsterberg, Film, cit., p. 34.
12. Hugo Münsterberg, Film, cit., p. 67.
13. Si vedano alcuni saggi contenuti in Laura Vichi (a cura di), L’uomo
visibile. L’attore dalle origini del cinema alle soglie del cinema moderno,
VIII Convegno Internazionale di Studi sul Cinema, Forum, Udine, 2001,
e in Claude Murcia, Gilles Menegaldo (a cura di), L’expression du
sentiment au cinéma, La licorne, Poitiers, 1996.
14. Hugo Münsterberg, Film, cit., p. 71.
15. 15 Ivi, p. 72, corsivi miei.
16. La nozione di empatia (Einfühlung) è stata proposta da Robert
Vischer nel 1873 e lavorata, in termini più o meno simili, da numerosi
teorici dell’arte, fra cui il figlio di Robert, Friedrich Theodor Vischer,
Heinrich Wölfflin, Aby Warburg, Theodor Lipps. Per una sintesi delle idee
storicamente connesse al termine di empatia, si veda Stefania Caliandro,
Empathie, signification et art abstrait, «Visio», 2, Université du Québec,
Québec, 1999, pp. 48-57 e Id., L’émergence d’une psychophysique de la
perception en art, «Tangence», 69, Université du Québec, Rimouski,
2002.
17. Hugo Münsterberg, Film, cit., p. 72.
18. Ibidem.
19. Ed. S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film: Film as an
Emotion Machine, Mahwah, Erlbaum, 1996.
20. Hugo Münsterberg, Film, cit., p. 73.
21. Ivi, p. 74.
22. Ivi, p. 75.
23. Jean Epstein, Alcol e cinema, Il principe costante, 2002, Udine.
Pubblicato postumo nel 1974, il libro appare determinante nello studio
dell’evoluzione del pensiero di Epstein proprio in virtù della sua posizione
cronologica: esso, infatti, nasce sulla scia dei più celebri contributi
saggistici del regista francese, come L’intelligenza di una macchina
(1946), Il cinema del diavolo (1947) e Spirito del cinema (1946-48), a

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loro volta originati dalla (fallimentare) esperienza di insegnamento presso


la cattedra di Estetica dell’Institut des Hautes Etudes
Cinématographiques.
24. In Alcol e cinema, cit., p. 39, l’avvento del cinema è esplicitamente
legato alla crisi del razionalismo logocentrico dell’uomo: «È dunque in un
periodo di diffusione e trionfo del razionalismo che lo strumento
cinematografico fa la sua apparizione, ma diffusione e trionfo già
sordamente minati da turbolenze profonde e da molteplici intoppi nel
funzionamento del sistema; già minacciati dalle difficoltà causate
dall’applicazione sempre più estesa del metodo all’attività economica,
all’organizzazione sociale, alla vita personale. La crisi ha dunque un
duplice aspetto, ideologico e pratico».
25. Jean Epstein, Fotogenia dell’imponderabile, in Id., L’essenza del
cinema. Scritti sulla settima arte, Marsilio, Roma, 2002, p. 75.
26. Jean Epstein, Alcol e cinema, cit., p. 40.
27. Ivi, p. 39.
28. Ivi, p. 44.
29. Sul contagio come specifica forma di comunicazione e significazione, si
veda Giovanni Manetti, Laura Barcellona, Cora Rampoldi (a cura di), Il
contagio e i suoi simboli. Saggi semiotici, ETS, Pisa, 2003.
30. Jean Epstein, Alcol e cinema, cit., p. 47.
31. Ivi, p. 48, corsivo mio.
32. Ivi, p. 77.
33. Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di
antropologia sociologica, Feltrinelli, Milano, 1987. Il libro ha avuto una
prima traduzione italiana nel 1962, per le edizioni Silva.
34. Ivi, p. 18.
35. Ibidem.
36. Nel nostro testo, il termine cinema copre anche il campo semantico
del termine cinematografo, con cui Morin designa una fase antecedente
allo sviluppo del linguaggio cinematografico, grosso modo coincidente con
quella che va più correntemente sotto il nome di cinema delle origini o
primitivo. Preferiremo questi termini, nel corso del paragrafo, per
riferirci a tale stadio dello sviluppo del cinema.
37. Ivi, p. 67.
38. Ivi, p. 94.
39. Cfr. Francesco Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Bompiani,
Milano 1993, pp. 51-57.
40. Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, cit., p. 56.
41. Ivi, p. 57.

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42. Ivi, p. 67.


43. Ivi, p. 75. È interessante notare, in proposito, la forte analogia fra le
parole di Morin e quanto scrive Münsterberg, Il film, cit., p. 59, a
proposito del modo in cui il cinema dà forma al tempo secondo le nostre
modalità psichiche: «Nella nostra mente il passato e il futuro sono
intrecciati al presente. Il film obbedisce alle leggi della mente, piuttosto
che a quelle del mondo esterno».
44. E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, cit., p. 75.
45. Ivi, p. 77.
46. Ivi, p. 82: «Tutto è immerso in un antropomorfismo latente, e tale
termine designa bene la tendenza profonda del cinema nei confronti degli
animali, delle piante e anche degli oggetti: a stadi e strati diversi, lo
schermo è a un tempo imbevuto d’anima e popolato d’anime. Gli oggetti
irradiano una sorprendente presenza, una sorta di mana che è
simultaneamente o alternativamente ricchezza soggettiva, potenza
emotiva, vita autonoma, anima particolare», corsivo mio.
47. Ibidem: «All’antropomorfismo che tende a caricare le cose di
presenza umana, si aggiunge più oscuramente, più debolmente, il
cosmomorfismo, cioè una tendenza a caricare l’uomo di presenza cosmica.
Così, per esempio, due corpi di amanti allacciati si metamorfosano in onde
che si frangono sulla roccia e non si ritrovano che nell’inquadratura
successiva, placati».
48. Ivi, p. 84.
49. Ivi, p. 89.
50. Ivi, p. 88.
51. Ivi, p. 95.
52. Ivi, p. 96.
53. Ivi, p. 97.
54. Ivi, p. 102.
55. Ivi, p. 107.
56. Ivi, p. 121.
57. Pascal Bonitzer, Le champ aveugle. Essai sur le cinéma, Cahiers du
Cinéma-Gallimard, Paris, 1982, p. 142. Il discorso di Bonitzer ruota
attorno all’idea, del tutto condivisibile (e sulla quale torneremo), che le
emozioni dello spettatore siano prodotte non tanto dai contenuti
rappresentati ma dalle modalità della rappresentazione, e in particolare
dalle forme di avvicinamento/allontanamento che la “misura” della scala
dei campi e dei piani stabilisce fra lo spettatore e la rappresentazione.
Così, per esempio, il “piano d’assieme” è tradizionalmente associato al
riso, mentre «dans la proximité du gros plan» lo spettatore risulta
preferibilmente «terrifié par le visage horrible».

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58. Impieghiamo il termine discorso nell’accezione sviluppata all’interno


della teoria dell’enunciazione a partire da Emile Benveniste, che nel 1966
scrive: «Molte nozioni della linguistica appariranno sotto una nuova luce
se le si riformulerà nella cornice del discorso, cioè della lingua in quanto
assunta dall’uomo che parla e nella condizione di intersoggettività, che
sola rende possibile la comunicazione linguistica». Emile Benveniste,
Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano, 1971, p. 319.
59. Isabella Pezzini, Le passioni del lettore. Saggi di semiotica del testo,
Bompiani, Milano, 1998, p. 211, corsivo mio.
60. La letteratura critica sul tema dell’enunciazione è molto vasta, a
partire dal fondamentale numero monografico di «Langages», uscito, a
cura di Todorov, nel 1970, con testi, fra gli altri, di Benveniste, Ducrot,
Fillmore, Parret. Per un inquadramento generale, si rimanda a Giovanni
Manetti, La teoria dell’enunciazione, Protagon, Siena, 1999, e ai capitoli
terzo e quarto di Denis Bertrand, Basi di semiotica letteraria, Meltemi,
Roma, 2002.
61. Cfr. Herman Parret, Lettre sur le passions, in Paolo Fabbri, Isabella
Pezzini (a cura di), Affettività e sistemi semiotici. Le passioni del
discorso, «Versus», 47/48, 1987, pp. 163-172.
62. Omar Calabrese, Il serial televisivo: la passione delle passioni, in
Pierluigi Basso, Omar Calabrese, Federico Marsciani, Orietta Mattoli, Le
passioni nel serial Tv. Beautiful, Twin Peaks, L’ispettore Derrick, Nuova
Eri, Roma, 1994, p. 13.
63. Cfr. Gianfranco Marrone, Estetica del telegiornale. Identità di
testata e stili comunicativi, Meltemi, Roma, 1998.
64. Cfr. Paolo Peverini, Il videoclip. Strategie e figure di una forma
breve, Meltemi, Roma, 2004.
65. Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano,
2002, p. 186.
66. Cfr. François Vanoye, Rhétorique de la douleur, «Vertigo», 6/7,
1993.
67. A quest’altezza si colloca anche la ricerca di Anne Hénault, Le pouvoir
comme passion, Presses Universitaires de France, Paris 1994.
68. Cfr. Clotilde Calabi, Passioni e ragioni. Un itinerario nella filosofia
della psicologia, Guerini, Milano, 1996, in particolare pp. 11-21. Sull’idea
platonica di passione si veda anche Mario Vegetti, Passioni antiche: l’io
collerico, in Silvia Vegetti Finzi (a cura di), Storia delle passioni, Laterza,
Roma-Bari, 1995.
69. Clotilde Calabi, Passioni e ragioni, cit., p. 13, corsivo mio.
70. Cfr. Silvano Petrosino, Visione e desiderio, Jaca Book, Milano, 1992,
pp. 105-123.

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71. Roland Barthes, La retorica antica. Alle origini del linguaggio


letterario e delle tecniche di comunicazione, Bompiani, Milano, 2000, pp.
86-87.
72. Ivi, p. 88, in cui Barthes definisce Aristotele «il patrono ideale di una
sociologia della cultura detta di massa».
73. Cit. in Ezio Raimondi, La retorica d’oggi, Il Mulino, Bologna, 2002, p.
17.
74. Ivi, p. 18.
75. Roland Barthes, La retorica antica, cit., p. 100.
76. Ivi, pp. 106-107.
77. Gianfranco Marrone, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica
del testo, Einaudi, Torino, 2001, p. 125.
78. Paolo Fabbri, Marina Sbisà, Appunti per una semiotica delle passioni,
«Aut Aut», 207, 1985, ora in Paolo Fabbri, Gianfranco Marrone (a cura
di), Semiotica in nuce. Teoria del discorso, II, Meltemi, Roma, 2001, p.
240. Sulla dimensione affettiva del linguaggio come “azione” si veda
anche Claudia Caffi, Richard W. Janney (a cura di), Involvement in
Language, «Journal of Pragmatics», vol. 22, 3/4, October 1994.
79. Ma, soprattutto, dalla teoria dell’enunciazione. Nell’introdurre il
numero monografico dedicato da «Langages» all’argomento, Todorov, nel
1970, già insisteva, rileggendo Austin e la teoria degli atti illocutori, sulla
necessità di una linguistica antropologica in grado di rendere conto sia
del piano semantico (il linguaggio come parola), sia del piano
propriamente sociale del linguaggio (il linguaggio come atto).
80. Paolo Fabbri, La svolta semiotica, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 37.
81. Cfr. François Vanoye, Esquisse d’une réflexion sur l’émotion,
«CinémAction», 50, 1989; Id., Rhétorique de la douleur, «Vertigo», 6/7,
1993; Id., Le spectateur capturé: sur Le Visage d’Ingmar Bergman,
«Iris», 17, 1994; Id., Le suspense et la partecipation émotionnelle du
spectateur, «CinémAction», 71, 1994.
82. Oltre ai libri citati nelle note di questo paragrafo, vale la pena
segnalare, fra gli studi specifici sul primo piano – e ricordando come in
ogni manuale di estetica del cinema si trovino trattazioni più o meno
approfondite del tema – l’interessantissimo numero doppio dedicato
all’argomento dalla rivista «Cinematographe» nel febbraio e marzo del
1977, con interventi, tra gli altri, di Philippe Carcassonne, Jacques Fieschi
e Pierre Jouvet.
83. Pascal Bonitzer, Décadrages. Peinture et cinéma, Chahiers du
Cinéma-Editions de l’Etoile, Paris, 1985, p. 87.
84. Roland Barthes, Il viso della Garbo, in Id., Miti d’oggi, Einaudi,
Torino, 1974, pp. 63-64.

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85. Jean Epstein, Bonjour cinéma, in Id., L’essenza del cinema. Scritti
sulla settima arte, Marsilio, Roma, 2002, p. 30.
86. Jean Epstein, Bonjour cinéma, cit., p. 30.
87. Osservazioni sul valore aptico dell’immagine cinematografica si
possono trovare in Nicole Brenez, De la figure en général et du corps en
particulier. L’invention figurative au cinéma, De Boeck, Bruxelles-Paris,
1998.
88. Jean Epstein, Bonjour cinéma, cit., p. 32-33, corsivi miei.
89. Ivi, p. 32.
90. Ibidem.
91. «Durante un film, un vecchio signore ripete a sua moglie: ”Ma quanto
è stupida questa storia, mia cara!”. Eh, sì, caro signore, tutte le storie
sono stupide sullo schermo. Mi creda, è quello che vi è di ammirevole.
Resta il sentimento. Ma i sentimenti non le interessano più», ivi, p. 35.
92. Estetica del film (1931) è stato pubblicato per la prima volta in Italia
nel 1940 su «Bianco e Nero», grazie all’interessamento di Umberto
Barbaro, che un anno dopo pubblica, sulla stessa rivista, brani del primo
libro di Balázs, L’uomo invisibile. L’edizione da cui citiamo è quella, a cura
dello stesso Barbaro, uscita nel 1975 presso gli Editori Riuniti (la prima
edizione data al 1954). Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova,
pubblicato a Vienna nel 1949, anno della morte di Balázs, è invece una
sorta di compendio di tutto il pensiero dell’autore, tradotto nel 1952 e
recentemente (2002) ristampato presso Einaudi. È quest’ultima
l’edizione di cui ci siamo serviti.
93. Béla Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi,
Torino, 2002, p. 21.
94. Ivi, p. 31. Balázs riporta qui parti del suo L’uomo visibile.
95. Cfr. Béla Balázs, Estetica del film, Editori Riuniti, Roma, 1975, pp. 10-
11.
96. Cfr. Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, Ubulibri,
Milano, 1984, p. 118: «Come già Balázs mostrava molto precisamente, il
primo piano non strappa affatto il suo oggetto a un insieme di cui farebbe
parte, di cui sarebbe una parte; ma, in modo del tutto diverso, lo astrae
da ogni coordinata spazio-temporale, cioè lo eleva allo stato di Entità»,
corsivo dell’autore.
97. Béla Balázs, Estetica del film, cit., p. 14, corsivo mio.
98. Ibidem.
99. Epstein citato in Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento,
cit., p. 118.
100. Béla Balázs, Estetica del film, cit., p. 18.

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101. Ivi, p. 20: «L’espressione del viso [...] non può attuarsi che per
mezzo di associazioni con espressioni visibili, così come un pensiero
espresso può suscitare pensieri inespressi».
102. Cfr. Gilles Deleuze, Cinema 1, cit., capitolo VI.
103. Ibidem.
104. Ivi, p. 109-110. La lettura che Deleuze dà della definizione di affetto
di Bergson si organizza attorno all’opposizione fra estensione e intensione,
azione e espressione. L’affetto sarebbe in altre parole il risultato di una
serie di micro-movimenti di natura intensiva articolati su una superficie
immobile e riflettente, che ha perduto o semplicemente arrestato il
proprio movimento di estensione.
105. Ivi, p. 110.
106. Anche l’immagine-azione, ovviamente, è “portatrice” di affetti. Ma
in questo caso gli affetti (o, come li definisce Deleuze, le qualità-potenze
dell’immagine) vivono «nelle connessioni reali corrispondenti», in quanto
«attualizzati in uno stato di cose individuato» (la figura chiave dell’affetto
dell’immagine-azione è il campo medio). Al contrario, come si dice nel
testo, gli affetti dell’immagine-affezione sono «espressi in se stessi, al di
fuori delle coordinate spazio-temporali, con le proprie singolarità ideale e
le loro congiunzioni virtuali», ivi p. 125-126.
107. Ivi, p. 111.
108. Ivi, p. 112.
109. Ivi, p. 119.
110. Cfr. François Vanoye, Rhétorique de la douleur, cit.
111. In quanto articolazione discorsiva, così come lo intende Vincent
Amiel (Esthétique du montage, Nathan, Paris, 2001): «C’est un point
essentiel, en termes esthétique – et donc idéologiques – que cette
utilisation du montage comme articulation discorsive: elle renvoie à une
représentation consciente et affichée, tandis que le montage narratif
s’essayat la plupart du temps, précisément, à gommer cette dimension
explicite de représentation», p. 54.
112. Si pensi soltanto alla definizione di montaggio ritmico, in cui ciò che
conta non è la durata “reale” delle inquadrature ma la durata “sentita”
dallo spettatore e eventualmente in conflitto con la prima: per esempio, la
stessa durata temporale di un primo piano e di un campo lungo vengono
in realtà sperimentate dallo spettatore come due durate differenti. Più in
generale, si ricorderà, la regia, per Ejzenštejn, è regia “dello spettatore”.
113. Giovanna Grignaffini, Lo spettatore non indifferente, in Pietro
Montani (a cura di), Sergej Ejzenštejn: oltre il cinema, Biblioteca
dell’immagine-La Biennale di Venezia, Venezia, 1991, p. 157.
114. Cfr. Jacques Aumont, Montage Eisenstein, Albatros, Paris, 1979, in
particolare pp. 56-67.

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115. Cfr. Jacques Aumont, Les théories des cinéastes, Nathan, Paris,
2002, pp. 83-89.
116. Cfr. Giovanna Grignaffini, Sapere e teorie del cinema. Il periodo del
muto, CLUEB, Bologna, 1989.
117. Jacques Aumont, Montage Eisenstein, cit., p. 76.
118. Jean Epstein, L’essenza del cinema, cit., p. 192.
119. Mikel Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, Il Castoro, Milano, 2004, p.
66.
120. Su questi aspetti, cfr. Pierluigi Basso, Confini del cinema. Strategie
estetiche e ricerca semiotica, Lindau, Torino, 2003, in particolare pp.
199-224.
121. Il che porta a affermare che «gli stimoli acustici e musicali non hanno
il distacco di quelli visivi, cui lo spettatore può facilmente sottrarsi; al
contrario possono raggiungere anche chi è distratto», Giorgio Cremonini,
Cristina Cano, Cinema e musica, Vallecchi, Firenze, 1995, p. 66.
122. Mikel Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit., p. 67.
Cfr. Antonio Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello
umano, Adelphi, Milano, 1995.
123.
124. Cfr. Noël Burch, Prassi del cinema, Il Castoro, Milano, 2000.
125. Giorgio Cremonini, Cristina Cano, Cinema e musica, cit, pp. 73-74.
126. Ivi, p. 73.
127. Gianfranco Bettetini, La conversazione audiovisiva. Problemi
dell’enunciazione filmica e televisiva, Bompiani, Milano, 1984, in
particolare pp. 15-54.
128. Come è noto, e come Ejzenštejn, prima e meglio di altri, ha
contribuito a rivelare, il ritmo nel cinema non interessa semplicemente
l’accompagnamento musicale ma, in un senso più largo, ossia come
«Gestalt cognitiva, forma saliente rintracciabile in ogni discorso prima
della sua vestizione figurativa» (Giulia Ceriani, Il senso del ritmo,
Meltemi, Roma, 2003, p. 71), esso interviene in tutte le tipologie
discorsive a strutturare, tanto a livello profondo quanto a livello
superficiale, il rapporto fra enunciatore e enunciatario.
129. Sergej M. Ejzenštejn, La natura non indifferente, Marsilio, Roma,
1981, p. 232.
130. Jeff Smith, Movie Music as Moving Music, in Carl Plantinga, Greg
M. Smith (a cura di), Passionate Views. Film, Cognition, and Emotion,
The Johns Hopkins University Press, Baltimore-London, 1999, pp. 146-
167.
131. Eric Landowski, Al di qua o al di là delle strategie, in Giovanni
Manetti, Laura Barcellona, Cora Rampoldi (a cura di), Il contagio e i suoi

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simboli, cit., pp. 47-48.


132. Ivi, p. 47.
133. In Narration in the Fiction Film, University Paperback, London,
1986, p. 30, Bordwell afferma: «I am assuming that a spectator’s
comprehension of the film’s narrative is theoretically separable from his
or her emotional response (I suspect that psychoanalytic models may be
well suited for explaining emotional aspects of film viewing)».
134. Ed S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, cit.
135. Torben Grodal, Moving Pictures. A New Theory of Film, Genres,
Feelings and Cognition, Claderndon Press, Oxford, 1997.
136. Carl Plantinga, Greg M. Smith (a cura di), Passionate Views, cit. Di
Plantinga si vedano anche Affect, Cognition, and the Power of Movies,
«Post Script», 13, 1993 e Notes on Spectator Emotion and Ideological
Film Criticism, in Richard Allen, Murray Smith (a cura di), Film Theory
and Philosophy, Oxford University Press, Oxford, 1997.
137. Murray Smith, Engaging Characters: Fiction, Emotion, and
Cinema, Clarendon Press, Oxford, 1995.
138. Si veda, in particolare, Noël Carroll, The Philosophy of Horror, or
Paradoxes of the Heart, Routledge, New York, 1990.
139. Carl Plantinga, Cognitive Film Theory. An Insider’s Appraisal,
«Cinémas», numero monografico Cinéma et cognition, 2, 2002, p. 23.
140. David Bordwell, A Case for Cognitivism, «Iris», 9, 1989, p. 13.
141. Ibidem.
142. Antonio Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello
umano, Adelphi, Milano, 1995, p. 18. La teoria di Damasio si fonda sulla
verifica empirica, condotta su alcuni pazienti affetti da lesioni cerebrali,
della cooperazione di regioni cerebrali di livello “basso” e regioni cerebrali
di livello “alto” nell’attività cognitiva dell’uomo. Tale sinergia, sul piano
neuronale, permette di affermare che la ragione umana non dipende dai
soli schemi cerebrali ma dalla cooperazione di più sistemi, compresi quelli
“bassi”, sede dell’elaborazione delle emozioni, dei sentimenti e delle
funzioni somatiche, a loro volta in connessione con pressoché tutti gli
organi del corpo. Come sintetizza efficacemente Luigi Anolli, Le emozioni,
Unicopli, Milano, 2002, p. 22, «per Damasio l’emozione consiste nella
combinazione fra il processo valutativo mentale della situazione e le
modificazioni somatiche concorrenti».
143. Sul tema si veda anche Elisabetta Gola, L’approccio alle emozioni in
IA, in Carla Bazzanella, Pietro Kobau (a cura di), Passioni, emozioni,
affetti, McGraw-Hill, Milano, 2002, pp. 177-196.
144. Carl Plantinga, Greg M. Smith (a cura di), Passionate Views, cit., p.
24-25, corsivo mio.

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145. Come, per esempio, nell’opera di uno dei fondatori della psicologia
sperimentale, William James, di cui si veda almeno What Is an Emotion,
«Mind», 9, 1884, in cui, nel quadro della cosiddetta “teoria periferica” (o
“teoria del feedback”), James sostiene che le emozioni si definiscono in
termini operazionali come «il sentire (to feel) i cambiamenti
neurovegetativi che hanno luogo a livello viscerale a seguito dello stimolo
elicitante». Di qui la celebre conclusione «non tremiamo perché abbiamo
paura, ma abbiamo paura perché tremiamo». Ne deriva che «l’emozione
costituisce il conseguente piuttosto che l’antecedente dei cambiamenti
fisiologici periferici prodotti dalla situazione elicitante». Cfr. Luigi Anolli,
Le emozioni, cit., p. 16.
146. Il riferimento, qui, è al “mind-body problem”, tornato d’attualità a
seguito della valorizzazione del ruolo del corpo in rapporto ai processi di
percezione e concettualizzazione dell’esperienza soggettiva. Si veda, sia
per la sintesi del dibattito, sia per l’interesse della soluzione suggerita, che
propende decisamente verso il riconoscimento della centralità del corpo
nel quadro dell’attività di pensiero, comprensione e riflessione, Mark
Johnson, The Body in the Mind. The Bodily Basis of Meaning,
Imagination, and Reason, The University of Chicago Press, Chicago,
1987.
147. Carl Plantinga, Greg M. Smith (a cura di), Passionate Views, cit., p.
2, corsivo mio.
148. Ivi, p. 3.
149. Naturalmente questa conclusione non riguarda soltanto il
cognitivismo. Un libro come AA.VV., Emozioni in celluloide. Come si
ricorda un film, Raffaello Cortina Editore, Milano 1989, sviluppa, in
ambito psicologico, il tema delle emozioni in rapporto ai processi di
comprensione del film e di “stoccaggio” mnestico a breve e a lungo
termine dei suoi contenuti. La conclusione generale, in linea con la teoria
attivazionale di Lindsley, è che le emozioni suscitate dalla visione di un
film, come del resto accade nella vita di tutti i giorni, svolgano un ruolo
fondamentale nello strutturare la forma dei nostri ricordi del film stesso.
150. Luigi Anolli, Le emozioni, cit., p. 39.
151. Per una sintesi del dibattito sociologico attorno al tema delle
emozioni nella modernità, si rimanda a Maria Cristina Marchetti,
L’emozione della ragione, in Bernardo Cattarinussi (a cura di), Emozioni
e sentimenti nella vita sociale, Franco Angeli, Milano, 2000.
152. Ed S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, cit., p.
231.
153. Cfr. Ed. S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, cit.,
p. 2: «There is a reason to question the authenticity of cinematic emotion,
because viewers know full well that what they are seeing is a fictional
world created by means of an artifact». Come si intuisce, Tan, non
diversamente da altri cognitivisti, taglia corto con la tradizione

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“metaforica” – ormai indifendibile – della sala come luogo di regressione,


sospensione onirica e via dicendo.
154. La stessa questione, e in termini molto simili (evocando per esempio
l’idea della credenza), si pongono Lotman e Tsivian nell’introduzione al
loro libro, Dialogo con lo schermo, Moretti & Vitali, Bergamo 2001:
«Finzione e lacrime, secondo la logica della vita, sono in contraddizione fra
loro: se c’è finzione, non si deve piangere; se si piange, le lacrime devono
far dimenticare che è finzione. Nella vita è così. Supponiamo che mi sia
stata comunicata una notizia tragica, capace di sucitare il pianto. La
reazione è determinata dal mio credere o meno che sia vera. Se ci ho
creduto, la mia afflizione è naturale; se invece mi hanno comunicato che la
notizia era falsa, il pianto diventa immotivato e ridicolo. L’arte è una
bugia che viene vissuta nella verità, quindi è una bugia che è
contemporaneamente verità. Quindi si può nello stesso tempo sapere di
avere a che fare con una finzione e sciogliersi in lacrime», p. 25.
155. Colin Radford, How Can We Be Moved by the Fate of Anna
Karenina?, «Proceedings of The Aristotelian Society», vol. LXIX, 1975.
156. Bijoy H. Boruah, Fiction and Emotion. A Study in Aesthetics and
the Philosophy of Mind, Clarendon Press, Oxford, 1988.
157. Ivi, pp. 25-26, ma si veda tutto il primo capitolo, Emotion and
Belief.
158. Ivi, p. 26.
159. Ivi, p. 27.
160. Ivi, p. 28.
161. Cfr. l’ottima sintesi dei principi dell’approccio psicanalitico al cinema
contenuta in Jacques Aumont, Alain Bergala, Michel Marie, Marc Vernet,
Estetica del film, Lindau, Torino, 1999, pp. 170-201, con particolare
riferimento proprio alla nozione di identificazione, alla quale gli autori, in
opposizione a un suo uso “disimpegnato”, tentano di ridare complessità e
coerenza teoriche, criticando per prima cosa l’idea che essa coincida con
uno stato fisso, monolitico, da cui lo spettatore sarebbe impedito a uscire.
162. Ed S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, cit., p.
189.
163. Paolo Braga, Dal personaggio allo spettatore. Il coinvolgimento nel
cinema e nella serialità televisiva americana, Franco Angeli, Milano,
2003, p. 29.
164. Ibidem.
165. Sulle relazioni fra credenza e immaginazione, si veda anche il
“classico” Kendall Walton, Mimesis as Make-Believe. On the
Foundations of the Representational Arts, Harvard University Press,
Cambridge-London, 1990.
166. Bijoy H. Boruah, Fiction and Emotion, cit., p. 98, corsivi miei.

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167. Ivi, pp. 99-100.


168. Salta immediatamente agli occhi uno dei punti di debolezza della
proposta di Boruah, ossia l’assenza di una valorizzazione del ruolo dei
“materiali” di cui è composta una determinata rappresentazione nella
formazione di emozioni finzionali. Per l’autore, infatti, letteratura, pittura,
teatro e cinema non differiscono in alcun modo nell’innescare i processi
immaginativi che sono alla base dell’emersione di emozioni immaginarie.
Su questo punto si rivela decisamente più sofisticata, come vedremo, la
prospettiva cognitivista, che pure possiede numerosi punti di contatto con
la teoria di Boruah. Su questo punto insiste peraltro la critica al
cognitivismo di Malcom Turvey, Seeing Theory: On Perception and
Emotional Response in Current Film Theory, in Richard Allen, Murray
Smith (a cura di), Film Theory and Philosophy, cit. La posizione di
Turvey critica in particolare le teorie del coinvolgimento emotivo di
Smith proprio perché, impostate sul concetto di immaginazione,
escludono completamente l’aspetto “sensuale” e materiale dell’immagine
cinematografica. La tesi di Turvey appare di grande interesse per come
mobilita il problema del sensibile e del percettivo accanto alla dimensione
cognitiva, e vi torneremo successivamente.
169. Bijoy H. Boruah, Fiction and Emotion, cit., p. 125.
170. Paolo Braga, Dal personaggio allo spettatore, cit., p. 31.
171. Cfr. Murray Smith, Engaging Characters, cit., p. 76.
172. Ed S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, cit.
173. Murray Smith, Engaging Characters, cit.
174. Noël Carroll, The Philosophy of Horror. Or Paradoxes of the Heart,
cit.
175. Murray Smith, Engaging Characters, cit., p. 41, corsivo mio.
176. Ivi, p. 42.
177. Cfr. Kristin Thompson, Breaking the Glass Armor: Neoformalist
Film Analysis, Princeton University Press, Princeton, 1988.
178. Murray Smith, Engaging Characters, cit., p. 33.
179. Ivi, p. 57, corsivo mio.
180. Torben Grodal, Moving Pictures, cit., in particolare pp. 19-38.
181. Ivi, p. 28.
182. Ed S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, cit., p.
249.
183. Henry James, L’arte del romanzo, Lerici, Milano 1959.
184. Murray Smith, Engaging Characters, cit., p. 4.
185. Come scrive Edward Branigan, Point of View in the Cinema,
Mouton, Berlin, 1984, p. 16: «Identification is too broad. Identification

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also neglects textual features or simply dissolves them in a search for


psychical mechanisms».
186. Cfr. Murray Smith, Engaging Characters, cit., p. 21.
187. Ivi, p. 31.
188. Ed S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, cit., pp.
167-174.
189. Berys Gaut, Identification and Emotion in Narrative Film, in Carl
Plantinga, Greg M. Smith (a cura di), Passionate Views, cit., pp. 201-216.
190. Murray Smith, Engaging Characters, cit., p. 2.
191. Cfr. Jacques Aumont, Alain Bergala, Michel Marie, Marc Vernet,
Estetica del film, cit., pp. 170-201.
192. Tutti gli autori citati prendono nettamente le distanze dal concetto
di identificazione a favore di quello di empatia, con alcune riserve solo in
Carroll. Cfr Noël Carroll, The Philosophy of Horror, cit., pp. 95-96;
Torben Grodal, Moving Pictures, cit., pp. 81-86 (con una sintetica ma
utile rassegna delle posizioni tradizionali attorno a tale nozione); Murray
Smith, Engaging Characters, cit., pp. 74-81; Ed S. Tan, Emotion and the
Structure of Narrative Film, pp. 155-159.
193. Berys Gaut, Identification and Emotion in Narrative Film, cit., p.
207.
194. Berys Gaut, Identification and Emotion in Narrative Film, cit., p.
207.
195. In Lettre sur les passions (in Paolo Fabbri, Isabella Pezzini (a cura
di), Affettività e sistemi semiotici, cit.), Herman Parret descrive
efficacemente l’empatia come un «etre “fiançés”» che «repose, en effet,
sur un Sensus Communis, un sens commun à tous».
196. Ed S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, cit., p.
174.
197. La distinzione di Tan fra F (Fictional) emotion e A (artefact)
emotion non coincide del tutto con la distinzione fra emozioni empatiche e
non empatiche. La seconda tipologia di emozioni non empatiche (quelle
prodotte da certi effetti del racconto che hanno valore solo per lo
spettatore) sono comunque F emotion.
198. Ivi, p. 175.
199. In proposito, vale la pena segnalare la distinzione avanzata da Noël
Carroll in Film, Emotion, and Genre (in Carl Plantinga, Greg M. Smith (a
cura di), Passionate Views. Film, Cognition, and Emotion, cit., pp. 21-
47), tra affect, termine con cui si rimanda a una dimensione emotiva
prevalentemente istintuale o subcognitiva o “cognitivamente
impenetrabile”, ed emotion, che indica invece una «narrower subclass of
affect, namely, what might be even more accurately called cognitive
emotion» (p. 21). La distinzione tende a separare le emozioni “non
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cognitive”, prodotte per esempio dalla manipolazione del suono e


dell’immagine, da quelle che coinvolgono invece una dimensione
cognitiva; rientrano in questo ambito stati affettivi che vengono nominati
come emozioni anche nel linguaggio quotidiano, e che possiedono una
struttura di base comune. La distinzione non è del tutto parallela a quella
fra emozioni empatiche e non empatiche formulata da Tan, ma la classe
degli affects di Carroll sembra rientrare in quella delle A emotion non
empatiche di Tan. Più in generale, va rilevato come, in entrambi i casi, la
distinzione poggi sia sulla dimensione cognitiva dell’emozione, sia sulla
natura diretta o mediata (dal personaggio) dello stimolo elicitante.
200. Murray Smith, Engaging Characters, cit., in particolare cap. III. La
nostra sintesi non rende giustizia alla complessità del modello teorizzato
dall’autore, a nostro giudizio il più interessante e compiuto fra quelli citati
per come connette processi cognitivi, processi immaginativi, emozione e
dimensione testuale.
201. Cfr. Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto, Torino,
Einaudi, 1976, in particolare cap. IV. Come è noto, il termine ha goduto di
immediata fortuna anche nell’ambito della narratologia filmica, dove esso
è stato “perfezionato” in quello di ocularizzazione da parte di François
Jost, L’œil-caméra. Entre film et roman, Pul, Paris, 1986.
202. Murray Smith, Engaging Characters, cit., p. 84.
203. I termini centrale e acentrale, associati all’immaginazione, di cui fa
uso Smith derivano da Richard Wollheim, The Thread of Life, Harvard
University Press, Cambridge, 1984. Le due tipologie si distinguono per
una diversa struttura di relazione fra soggetto e oggetto
d’immaginazione: l’immaginazione centrale ha una struttura del tipo “io
immagino”, quella acentrale del tipo “io immagino che”. Ciò si traduce, nel
primo caso, in una rappresentazione degli eventi dall’interno (“mi
immagino saltare dal tetto del palazzo”); nel secondo, in una
rappresentazione degli eventi dall’esterno, senza che il soggetto si
posizioni immaginativamente nella scena (“io immagino di saltare dal
tetto del palazzo”).
204. Murray Smith, Engaging Characters, cit., p. 97.
205. Ivi, p. 98.
206. Ed S. Tan, Emotion and the Structure of the Narrative Film, cit., p.
39.
207. Carl Plantinga, Movie Pleasures and the Spectator’s Experience:
Toward a Cognitive Approach, «Film and Philosophy», 2, 1996.
208. Luigi Anolli, Le emozioni, cit., p. 43.
209. E anche della sua memorizzazione. Se le prove empiriche degli
autori qui citati non si spingono a verificare effettivamente quale sia il
ruolo dell’emozione nella “conservazione” e nello “stoccaggio” mnestico
del film, a questo tema ha dedicato uno studio molto articolato – e

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accostabile a quelli di stampo cognitivo – un gruppo di ricerca del


Dipartimento di Psicologia generale dell’Università di Padova (Emozioni
in celluloide. Come si ricorda un film, Raffaello Cortina Editore, Milano,
1989). Da questa ricerca giunge la conferma «che le emozioni, quelle dei
personaggi e quelle degli spettatori, hanno un ruolo fondamentale nel
fissare nella memoria i fatti, le parole, gli oggetti», p. 185.

© Edizioni Kaplan, 2009

Condiciones de uso: http://www.openedition.org/6540

Referencia electrónica del capítulo


MALAVASI, Luca. 1.Topografia dell’emozione cinematografica In:
Racconti di corpi: Cinema, film, spettatori [en línea]. Torino: Edizioni
Kaplan, 2009 (generado el 18 avril 2019). Disponible en Internet:
<http://books.openedition.org/edizionikaplan/237>. ISBN:
9788889908884. DOI: 10.4000/books.edizionikaplan.237.

Referencia electrónica del libro


MALAVASI, Luca. Racconti di corpi: Cinema, film, spettatori. Nueva
edición [en línea]. Torino: Edizioni Kaplan, 2009 (generado el 18 avril
2019). Disponible en Internet:
<http://books.openedition.org/edizionikaplan/227>. ISBN:
9788889908884. DOI: 10.4000/books.edizionikaplan.227.
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