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Eros Phobos Epithymia

Sulla natura dell'emozione


in alcuni dialoghi di Platone
Questo volume è stato stampato con un contributo parziale del MURST
LIDIA PALUMBO

Eros Phobos Epithymia

Sulla natura delfemozione


in alcuni dialoghi di Platone

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A mia madre
che mi ha insegnato 11amore
"Stremato, nella brama boccheggio.
Acuti spasimi, per colpa degli dei, mi bucano le ossa".

ARCHILoco, Frammenti

"Le passioni e i sentimenti dell'uomo si può dire


che da principio stessero nella superficie, poi si ran­
nicchiassero nel fondo più cupo dell'anima, e final­
mente siano venuti e rimasti nel mezzo".

G. LEOPARDI, Zibaldone, p. 266


Introduzione
Scopo di questo lavoro è tentare un'analisi dell'emozione, così
come essa appare in alcuni dialoghi di Platone, un'analisi dell'emo­
zione in generale, della natura di ciò che il filosofo considera un'emo­
zione1. Tale analisi è operata da Platone con un metodo che è

1 La prima domanda che possiamo porci è a quale termine greco corrisponda


il nostro termine "emozione"; e la prima immediata risposta a questa domanda è
che esso corrisponde al termine 1ta8oç. Analizzare, come è stato fatto, lo scarto tra
gli impieghi preplatonici e l'uso platonico dd termine pathos consente di esplicitare
in alcuni casi la fedeltà, in altri la rottura del pensiero del filosofo rispetto alla
tradizione culturale greca. Assente nella lingua dell'epica e della lirica arcaica, il
termine 1ta8oç - scrive Lanza (cfr. D. LANZA, Pathos, in I Greci. Storia Cultura Arte
Società, a cura di S. Settis, 2, II, Torino, Einaudi, 1997, pp. 1147-1155) -ricorre
sotto la forma del corrispondente verbo, generalmente_ connotato in Omero da
marche negative: subire dolori, sventure ecc., in Saffo, in Tmeo, in Teognide con
il valore di vox media: "godere di buona/cattiva salute. !:uso lirico si mantiene nella
lingua tragica, ma sempre maggiore diventa il peso delle connotazioni negative. n
termine pathos estende il proprio spettro semantico fino ad indicare la disgrazia
subita o, brachilogicamente, il resoconto che se ne dà" (cfr. Esa-m.o, Agamennone,
669). La letteratura medica, coeva o di poco successiva alla tragedia, non usa il
termine diversamente: esso indica sempre qualche cosa che si subisce e che modi­
fica l'equilibrio dell'organismo. A pathos si accompagna, con significato sostanzial­
mente uguale, la neoformazione �tci8J]J-1a. I termini indicano un'alterazione transeunte,
l'affezione di un organo rilevabile sintomaticamente, un vero e proprio morbo, una
sindrome equivalente a nosema (per l'uso del termine nei testi ippocratici cfr. M.
VEGETI1, Tra passioni e malattia. Pathos nel pensiero medico antico, in "Eienchos",
XVI (1995), pp. 217 -230; Si veda anche M. VEGEm, La psicopatologia delle passioni
nella medicina antica, in Nella dispersione del vero. I filoso/i: la ragione, la follia, a
cura di G. Borrelli e F.C. Papparo, Napoli, Filema, 1998, pp. 33-42). Stando alla
documentazione, si può osservare che tra il V e il IV secolo l'insieme pascholpathos
è definibile a partire da due opposizioni fondamentali. La prima è quella che lo
oppone all'azione: pathos è ciò che capita a qualcuno senza che egli abbia parte
attiva nella realizzazione. La seconda è quella che lo oppone alla permanenza:
pathos è ciò che altera momentaneamente un ordine stabilmente definito o ne indica
l'alterazione intervenuta. In entrambi i casi segnala estraneità e temporaneità, per lo
10 Lidia Palumbo

talvolta logico, talvolta fenomenologico, e i risultati dell'indagine


sono, come è naturale, diversi nei due casi.
Si tratta di un argomento studiato intensamente dal filosofo, e da
vari punti di vista. Egli descrive il ruolo fondamentale che l'emozio­
ne ricopre nella vita umana, in gran parte determinata dalla sua
attività. Descrive le sue più diverse manifestazioni e la definisce
come oggetto teorico.
A monte di ogni definizione teorica sulla natura dell'emozione
sta la distinzione fra le tre varietà di fenomeni psichici: il pensare,
il sentire e il volere o tendere. Tale distinzione2 potrebbe dare l'im­
pressione che ognuna di esse abbia una natura semplice e che,
invece, una combinazione o mescolanza di .sentimento, pensiero e
desiderio darebbe origine a fenomeni più complessi. Platone non lo
pensa: ritiene che ciascuna delle varietà psichiche sia un fenomeno
complesso e che, soprattutto, ciascuna di esse possa essere analizza­
ta in componenti ancora più semplici. Nonostante ci siano pagine
molto esplicite, e non solo nel Pedone, sull'idea che il pensiero sia
influenzato dal corpo3, sull'idea che l'uomo sia fondamentalmente
una unità psico-fisica4, il pensiero è considerato da Platone una
manifestazione squisitamente psichica5• L'emozione, invece, è quasi

più avvertite come elementi di disturbo di una struttura stabile. Sull'uso del tenni­
ne m:i9oç in Platone cfr. B. CENTRONE, I1u9oç e oùcrla nei primi dialoghi di Platone,
in "Elenchos", XVI (1995), pp. 129-152, sul quale avremo modo di ritornare.
2 Cfr. l. MATIE BLANCO, The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-Logic,
tr. it. L'inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, nuova edizione a cura
di P. Bria, prefazione di R. Bodei, Torino, Einaudi, 2000 (prima edizione 1981),
p. 240.
3 Cfr. Phaed. 67a; 66c; 81a: l'infermità della mente può provenire dal corpo e
dal perturbamento che esso produce nell'anima; Cfr. G. CASERTANO, Dal mito al
lago al mito: la struttura del Pedone, in La struttura del dialogo platonico, a cura di
G. Casertano, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 86-107, p. 90. Si veda anche Tim. 87a:
la paura e la viltà sono effetti di insane disposizioni del corpo.
4 Si veda, tra l'altro, Charm. 156c sgg. È con Platone, come ha mostrato Vegetti,
che la nozione di una psyche, concepita come struttura funzionante interagente con
il corpo nel complesso psicosomatico, appare per la prima volta nel pensiero greco:
cfr. M. VEGEITI, Anima e corpo, in Il sapere degli antichi, a cura di M.· Vegetti,
Torino, Bollati Boringhieri, 1985, pp. 201-228, p. 201.
) Cfr. Theaet. 189e-190a: "Ma tu chiami pensare (Tò liÈ litavoe1cr9at) ciò che
intendo io?" "Chiamandolo tu come?". "Un ragionamento attraverso cui l'anima
discorre da sé con se stessa sulle cose che esamina. Ti espongo la cosa da quell'igno­
rante che sono. Mi balza infatti questo agli occhi: che l'anima, quando pensa
Eros Phobos Epithymia 11

sempre presentata come un evento psico-fisico. Non come parte di


un evento psico-fisico, non come un evento che si accompagna ad
eventi corporei, ma come un fenomeno che nella sua più intima
natura è un fenomeno psico-fisico.
A volte la paura, per fare tra le emozioni l'esempio che più ci
interessa in questo lavoro, è descritta come ciò che ci sveglia di
soprassalto, come un qualcosa di cui si è pieni, come un qualcosa
che riempie la bocca di parole diverse da quelle che si dicono in
stato di serenità; altre volte è direttamente lo svegliarsi di soprassal­
to, la condizione di pienezza, la tensione a dire certe cose e a dirle
urlando.
In ogni caso è un particolare stato del corpo e dell'anima e tale
stato è sempre, come vedremo, descritto nei termini di una tiran­
nia del somatico sullo psichico o di una tirannia di una parte più
bassa dello psichico su una sua parte più alta6, tirannia accompa­
gnata da manifestazioni visibili che costituiscono esse stesse l'even­
to paura.
Platone appare molto interessato a sottolineare come l'emozio­
ne influenzi il pensiero; come la paura, la speranza, il pudore
condizionino la visione del mondo e i comportamenti quotidiani di
ciascun individuo. Non solo. In alcuni casi)'analisi platonica del­
l'emozione è molto raffinata e si spinge fino alla distinzione (o ad
una descrizione che consente di scorgere la distinzione), all'inter­
no del fenomeno emotivo, di una componente che ha a che vedere

(litavooujl&v!]), non fa altro che dialogare, interrogando e rispondendo da sé a se


stessa, affermando e negando n. Ed ancora 185d-e: uMa per Zeus, Socrate, io non
saprei che dire, se non che innanzi tutto mi pare che non ci sia alcun organo
proprio per [cogliere] queste cose Oa realtà, il non essere, somiglianze e
dissomiglianze, identità e diversità, e inoltre l'uno e ogni altro numero, c&. 185c­
d), come c'è per quelle (il caldo, il duro, il leggero, il dolce, cfr. 184e), anzi mi
sembra che l'anima da sé per mezzo di se stessa indaghi ciò che è comune a tutto n.
La traduzione citata è di G. Cambiano, in PLATONE, Dialoghi filoso/ici, n, Torino,
Utet, 1981, lievemente modificata.
6 Come sottolinea Dodds, ula stessa citazione america serve nel Pedone ad

illustrare il dialogo tra l'anima e le passioni del corpo e nella Repubblica, invece, il
dialogo interno tra due parti dell'anima: nella Repubblica le passioni non sono più
considerate come infezioni di origine estranea, ma come elemento necessario alla
vita spirituale, così come noi la intendiamo, anzi addirittura come fonte di energia n
Cfr. E.R Donns, The G reeks and the Irrational, tr. it. I Greci e l'Irrazionale, Firenze,
La Nuova Italia, 1978, p. 254; Si veda anche M. VEGETI1, I.:etica degli antichi, Bari,
Laterza, 1994, pp. 129-136.
12 Lidia Palumbo

con il corpo, e di una componente che ha a che vedere con il


pensiero. Oltre a quelli che sono i pensieri per così dire razionali,
in Platone troviamo tracce di pensieri per così dire emotivi. Questi
ultimi non accompagnano l'emozione, ma ne sono parte integrante.
Ciò è particolarmente importante per capire, da un lato, la com­
plessità che il filosofo legge nella natura dell'emozione, dall'altro,
la intensità di relazioni che stabilisce tra le varietà di fenomeni
psichici.
Egli è molto interessato a descrivere la vita di alcuni modelli
umani: l'uomo tirannico, l'uomo democratico, l'uomo avido di ric­
chezza, e poi ancora l'uomo innamorato, l'uomo terrorizzato, il
filosofo, il sofi.sta e, nel fare queste descrizioni, insiste sulla influenza
di una certa emozione sul comportamento, non solo sul comporta­
mento quotidiano, ma anche sul comportamento della parte razio­
nale dell'anima che si potrebbe credere interamente dedita al ragio­
namento puro.
In molti passi non troviamo nessuna differenziazione tra sensa­
zioni e sentimenti. Quando diciamo che non troviamo nessuna diffe­
renziazione intendiamo dire che più volte nei dialoghi di Platone vi
sono elenchi per così dire di fenomeni psichici e spesso, in questi
elenchi, compaiono allo stesso titolo sensazioni e sentimenti; sono
c�tati, l'una dopo l'altro, la paura, il dolore, la visione, il tatto7•
Naturalment� questo non deve farci pensare che si tratti di una
confusione. E vero, invece, che è attribuibile a Platone l'idea che
sensazioni e sentimenti hanno alcune caratteristiche comuni e, quan­
do sono tali caratteristiche comuni a stare nel fuoco dell'attenzione
filosofica, compaiono nello stesso contesto la paura, per esempio� e
il dolore.
. È molto interessante questa caratteristica del filosofare platonico,
che non lavora su catalogazioni precostituite di materiali teorici, ma
piuttosto fa e disfa continuamente elenchi di dati, ora assemblandoli,

7 Cfr. Theaet. 156b. Socrate riporta la tesi dei sostenitori del inobilismo univer­
sale secondo la quale "tutto era ed è movimento e nient'altro che questo", e del
movimento esistono due specie, l'una con la possibilità di agire e l'altra di patire.
Dall'accoppiamento di tali specie nascono, sempre in coppia, il sensibile e la
sensazione. "Le sensazioni hanno per noi i nomi seguenti: visioni, audizioni, perce­
zioni olfattive, sentir freddo, sentir caldo e inoltre i cosiddetti piaceri e dolori e
desideri e paure e altre, di cui infinite sono quelle prive di nome e numerosissime,
invece, quelle che ce l'hanno".
Eros Phobos Epithymia 13

ora distinguendoli in insiemi più piccoli, ora riorganizzandoli in


sistemi nuovi8•
In generale, si può dire che Platone considera la sensazione un
evento più localizzato e meno complesso del sentimento, e il senti­
mento un'emozione fatta di sensazioni diffuse. Ma tale distinzione
non va assolutizzata. Leggendo i dialoghi si impara presto a non
assolutizzare le distinzioni: pur essendo raffin atissimo nell'arte del
distinguere9- nei dialoghi si distinglie volta per volta la verità dal­
l'opinione vera, la semplice cognizione dal vero sapere, l'apprendi­
mento consapevole da quello soltanto mnemonico, la consapevolez­
za chiara dall'intuizione incerta e così via - spesso Platone è interes­
sato non a distinguere, ma ad associare, ed allora troviamo descritta
l'associazione del pensiero alla sensazione, del desiderio all'immagi­
nazione10, e volta per volta tali associazioni conducono alla scoperta
di realtà psichiche nuove, irriducibili alla somma dei loro compo­
nenti, ed ancora in attesa di ricevere una denominazione adeguata.
Recentemente si è dedicata molta attenzione ai mezzi letterari in

8 Come scrive Casertano, "la denominazione corretta, che rispecchia l'unifica­


zione di una pluralità sotto un'unità concettuale, viene fatta volta a volta sulla base
della scelta di un criterio, di una nota comune, che p).IÒ variare. Questo fatto spiega
la possibile pluralità dei nomi che si possono attribuire ad una stessa cosa o ad uno
stesso gruppo di cose, a conferma che il nome non è dato una volta per tutte, e
quindi non appartiene per naturà ad un ente, ma dipende dal discorso che di volta
in volta andiamo facendo, in vista del particolare fine conoscitivo che di volta in
volta ci proponiamo. Cioè, in altre parole, sempre il nome dipende dal discorso che
lo fonda" (cfr. G. CASERTANO, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi
dialoghi di Platone, Napoli, Loffredo, 1996, pp. 332-333).
9 Esiste tutta una tradizione letteraria il cui contenuto è la derisione delle sottili
analisi socratico-platoniche. Ne troviamo traccia in Aristofane, in Diogene di Sinope,
con uno spirito diverso in Aristotele. Sull'argomento cfr. G. DELEUZE, Logique du
sens, Paris, Les éditions de Minuit, 1969, pp. 292-324.
1° Come ha mostrato Centrane, ciascuno di questi termini compare talvolta in
Platone come miBoç, il termine infatti "copre le realtà più disparate e la sua
estensione semantica va dalle affezioni del corpo, agli accadimenri esterni, dagli
stati conoscitivi dell'anima razionale" (in Phaed. 79d la phronesis è un pathema, in
Phil. 48c-d il conoscere se stessi e il non conoscere se stessi sono esempi di pathos,
in Soph. 228e l'ignoranza è un pathos), alle passioni che diventeranno canoniche in
età ellenistica, ivi inclusi tutti i mori della volontà e tutte le forme del desiderio,
nonché i processi e le medificazioni che sono all'origine di tali passioni, e, al di
fuori dell'ambito specifico dell'anima, è pathos il movimento, il mutamento in ogni
sua fanna, sia sostanziale che qualitariva (cfr. B. CENTRaNE, naeoç e oùcria nei primi
dialoghi di Platone, cit., pp. 132-133 e nn.).
14 Lidia Palumbo

opera nei dialoghi di Platone, ma ciò che ha rinnovato la loro


interpretazione in maniera decisiva è il riconoscimento dell'unità
profonda che si manifesta in essi tra filosofia e letteratura11• Questa
nuova prospettiva mostra tutte le sue potenzialità attraverso lo stu­
dio del vocabolario etico-psicologico che fa da sfondo, che è uno
degli infiniti sfondi, dei dialoghi di Platone. Come sottolinea Louis
Graz in uno studio su uno di tali termini etico-psicologici12, il cam­
po di osservazione si allarga in più direzioni: non ci si contenterà di
stabilire puntualmente il senso esplicito di una parola in una frase
o in una serie di frasi, ma si terrà conto di tutta intera la rosa di
relazioni nella quale tale significato è coinvolto: in particolare si
terrà conto di quelle relazioni che le frasi del testo "tessono" tra la
parola in esame ed altre parole, e di quelle che lo sviluppo del
dialogo fa apparire tra il momento drammatico in cui appare la
parola osservata e le altre parti.
Le parole alle quali Platone attribuisce il valore che Graz chiama
"tenninologico", attraverso il ruolo privilegiato che fa giocare loro
nel dialogo, non sono le sole che possono interessare l'interprete: ve
ne sono altre, che si collocano alle frange di un vocabolario tecnico,
che possono assumere un significato importante, precisamente per
il ruolo che esse giocano nella struttura logica e letteraria del testo
sul piano drammatico e dialettico.
In questa prospettiva è interessante notare come alcuni termini,
o intere frasi, che apparentemente rappresentano una digressione
dal discorso "principale" che si sta conducendo, abbiano il loro più
profondo significato meno in ciò cui si riferiscono immediatamente
che nell'orientamento del testo che sono in grado, comparendo, di
determinare. Molti studi recenti, come è noto, soprattutto francesi,
ma anche di studiosi italiani che lavorano in un simile orizzonte,
sono orientati in questa direzione13•

11
Cfr. E. BARILIER, Le Grand lnquisiteur, Lausanne, L'Age d'Homme, 1981, p.
128. Sull'argomento si veda il recente volume La struttura del dialogo platonico, a
cura di G. Casertano, cit., che raccoglie i contributi di diversi studiosi che hanno
partecipato, nd Maggio 1998, ad un Convegno internazionale sull'argomento.
12
Cfr. L. GRAZ, Signification dtalectique de la "megaloprépeia" dans les premiers
dialogues de Platon, in "Revue de Philosophie Ancienne", I (1985), pp. 69-85, p. 69.
1l
Non è questa, naturalmente, la sede per dencare l'enorme numero di studi
strutturati in questa direzione. Ci limiteremo qui a citare soli pochissimi lavori,
perché sono qudli più immediatamente collegati al discorso che stiamo facendo:
Eros Phobos Epithymia 15

Scopo di questo lavoro è anche quello di dare un piccolo contri­


buto a questa prospettiva d'indagine, analizzando, tra l'altro, la
relazione che è possibile stabilire tra il ruolo determinante che una
descrizione emotivamente colorata gioca nello sviluppo del discorso
di questo o di quel dialogo di Platone e le affermazioni che il
filosofo fa invece in sede teorica quando definisce un'emozione, ne
descrive la sintomatologia, ne elenca i pericoli e così via.
Nel presente lavoro iniziamo questa ricerca, focalizzandola su
alcuni dialoghi, ma con l'esplicito proposito di riprenderla, allargar­
la ed approfondirla anche in riferimento ad altri dialoghi.

l. Sull'inizio della Repubblica (ma anche sul Timeo e le Leggz)


A proposito della natura del piacere

Nel primo libro della Repubblica, Socrate racconta del suo incon­
tro con Cefalo: "Andammo dunque a casa di Polemarco . .. c'era
nell'interno anche il padre Cefalo14, e mi parve molto vecchio, in
effetti era passato del tempo da quando l'avevo visto. Sedeva inco­
ronato su una sorta di cuscino posato su un sedile, perché aveva
proprio allora compiuto un sacrificio nel cortile. Ci sedemmo dun­
que presso di lui, v'erano alcuni sedili disposti in circolo . . . " , (328b­
c)I5. Questa scena "disegnata" da Platone è in un certo senso
paragonabile al momento di un romanzo in cui il narratore dice "si
fermò in una locanda": in quel momento il lettore riposa insieme al
viandante dopo un lungo cammino16• Quello che accade al lettare di
questo passo platonico è in certo modo la cosa inversa: ci si riposa,

Cfr. PLATONE, ÙJ Repubblica. Traduzione e commento di M. Vegetti, Napoli,


Bibliopolis, 1998, voli. 3; M. DrxsAUT, Le nature! philosophe, Paris, Vrin, 1985; S.
NoN VEL FIERI, Non definire l'episteme, in "Atti dell'Accademia di Scienze Morali e
Politiche", CVII (1996), pp. 245-267; G. CASERTANO, Il nome della cosa, cit.
14 Cfr. S. CAMPFSE, Cef alo, in PLATONE, ÙJ Repubblica. Traduzione e commento
di M. Vegetti, cit., pp. 133-157.
15 n testo della Repubblica che usiamo è quello oxoniense (PLATONIS OPERA.
Recognovit brevique adnotatione critica insuuxit Ioannes Burnet, tomus N, Oxford,
Oxford University Press, 1972). La traduzione che riportiamo, lievemente modifi­
cata, è quella di Vegetti in PLATONE, LA Repubblica. Traduzione e conunento di M.
Vegetti, cit.
16 Cfr. I. CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio,
Milano, Mondadori, 1999, pp. 39-62.
16 Lidia Palumbo

prima di affrontare un lungo cammino. La narrazione continua: "Ap­


pena mi vide, Cefalo mi rivolse un cordiale benvenuto (i!cr1tal;;s-ro,
328c5) e mi disse: 'Socrate, non vieni certo spesso a visitarci scenden­
do al Pireo. Eppure dovresti ... "17. n verbo àcr1tal;;OJlClt non significa
semplicemente salutare, ma accogliere con affetto, con premura, si­
gnifica dare il benvenuto, ed accompagnare tale saluto di accoglienza
con espansioni del sentimento. Si tratta di un verbo emotivamente
molto colorato e Platone lo usa proprio in apertura del racconto
dell'incontro tra Socrate e Cefalo, per dare al lettore una sensazione
di cordialità, di tranquilla serenità, che lo aiuti ad "entrare" nell'ar­
gomento che si sta per trattare con lo stato d'animo giusto.
"L'argomento" è oggetto di una confidenza di Cefalo a Socrate:
"devi sapere - egli gli dice - che per me, di quanto si spengono gli
altri piaceri, quelli legati al corpo (a.i Ka.-rà. -rò crroJla. i!Bova.i, 328d2-
3), di tanto aumentano i desideri e i piaceri che vengono dai discor­
si" (a.i 1tspì -roùç A.Oyouç Èm9uJlicn -rs Ka.Ì -ftoova.i, 328d3-4).
È possibile affermare che, quando legge quest'ultima affermazio­
ne, il lettore di Platone prova esattamente il tipo di emozione di cui
si parla: il piacere che viene dal discorso, e tutto, nel testo18, concor­
re a creare un'atmosfera adatta ad apprezzare questo tipo di piace­
ri19, più di quelli legati al corpo. Un giorno Cefalo aveva incontrato

17 Su questi passi cfr. L. DI CAPUA, Da Cefalo a Platone: sul primo libro della

Repubblica, e L. PALUMBO, "SoggettivitàD e "oggettività" nel discorso introduttivo


della Repubblica di Platone, entrambi in "Atti dell'Accademia di Scienze Morali e
Politiche" della "Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli", CVI
(1995), rispettivamente pp. 41-64; 65-87.
18
Le emozioni che il testo suscita nel lettore sono il tema di un saggio, recen­
temente ristampato, di R BARTHFS, Il piacere del testo. Variazioni sulla scrittura, tr.
it., Torino, Einaudi, 1999. Alla domanda "cosa conosciamo deVdal testo"- afferma
l'Autore - la semiologia è riuscita a dare risposte convincenti, cosa che non è però
accaduta per l'altra domanda fondamentale: "che cosa godiamo nel testo? " Si tratta
dunque di "riaffermare il piacere del testo contro l'indifferenza scientifica e il
puritanesimo dell'analisi sociologica, contro l'appiattimento della letteratura a un
suo semplice apprezzamento".
19 Ed è a questi, e non a quelli corporei, che è associato il termine f:m9u!J.iat, che
designa precisamente i desideri erotici. È vero che per Platone i piaceri dell'eros,
così come quelli del palato, sono anche piaceri dell'anima, o almeno non solo del
corpo. Ed è vero anche che probabilmente non esiste cosa più erotica delle parole,
ma allora quali sono i piaceri del corpo? La risposta a questa domanda sta nel fatto
che a pronunciare questa frase, in cui si distinguono piaceri del corpo e piaceri del
discorso, non è Socrate, ma Cefalo; ed è la struttura dialogica stessa, con tutti i suoi
Eros Phobos Epithymia 17

Sofocle, il poeta. Qualcuno, quel giorno, aveva domandato al poeta


"Come va, Sofocle, con i piaceri d'amore? Sei ancora capace di
unirti a una donna?" E Sofocle, a quel qualcuno, aveva risposto:
"Taci, uomo. Con gran sollievo sono fuggito da tutto questo, come
se scappassi da un padrone rabbioso e selvatico" (329b-c).
Se si riflette sul fatto che queste parole sono pronunciate da Sofocle,
che le dice in presenza di Cefalo, e poi Cefalo le riferisce a Socrate,
e poi Socrate le racconta a sua volta, ci si rende conto che ci si trova
al cospetto di qualcosa che - secondo Platone - val la pena traman­
dare, un sapere antico che è giusto trasmettere alle giovani generazio­
ni. Ed infatti le parole del poeta, in questo caso, esprimono uno dei
punti di vista platonici, uno dei suoi modi caratteristici di approcciare
la questione del piacere2°. L'idea che il piacere fisico sia un padrone
è uno dei punti di vista più caratteristici di Platone. Lo ritroviamo
quando - e ciò accade quasi sempre - egli veste per così dire i panni
del legislatore: nelle Leggi, per esempio, dove si propone di indagare
sulle cause dei delitti, Platone scrive: "il piacere non lo diciamo essere
la stessa cosa dell'ira, ma diciamo che, con l'imperio di una forza
contraria alla collera, mediante la persuasione associata ad un'ingan­
nevole violenza, fa tutto ciò che il suo volere preferisce" (Leg. 863b)21•

personaggi, a consentire questa ricchezza di opinioni a confronto, questa possibilità


di affermare, puntualizzare, confutare, contraddire e poi ancora ritornare sulla stessa
questione, senza appesantire il discorso. Sulla maniera platonica di scrivere la filoso­
fia, da due diversi punti di vista, cfr. G. CASERTANO, Il nome della cosa, cit., e TA
SZLEZAK, Platone e la scnttura della froi so/ia, tr. it., Milano, Vìta e pensiero, 1989.
20
Vegetti, però (cfr. in M. VEGETI1 (a cura di), traduzione e commento della
Repubblica di Platone, libro I, cit., p. 31, n. 5), sottolinea che il punto di vista di
Cefalo sul desiderio dei discorsi, che si fa strada nella vecchiezza quando si è
esaurita la carica energetica che accompagna il desiderio corporeo, non è il punto
di vista di Platone: senza il desiderio corporeo - egli scrive - "si determina anche
una sorta di impotenza mentale: i rogoi di Cefalo saranno conversazione, non
filosofia. Per Platone, la conversione etico-politica e filosofica può avere luogo non
dopo lo spegnimento del desiderio, ma grazie alla canalizzazione delle sue energie
dalla corporeità verso la ragione" (cfr. Re.rp. 485d; Phaedr. 251a-c; Symp. 210a sgg.).
Sull'analogia tra questa impostazione e il modello "idraulico" della psiche freudiana
cfr. G. SANTAS, Platone e Freud. Due teorie dell'eros, tr. it., Bologna, n Mulino, 1990,
pp. 223-224; R BoDEI, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felidtà: filosofia e
uso politico, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 193, n. 22.
21
n testo delle Leggi è quello oxoniense stabilito da Bumet (Platonis opera, cit.,
tomus V, Oxford, 1975). La traduzione che riportiamo, lievemente modificata, è
quella di A. Zadro, in PLATONE, Opere Complete, Roma-Bari, Laterza, 1983, vol. vn.
18 Lidia Palumbo

Naturalmente il piacere non è il solo nostro padrone. Nelle Leggi,


una definizione dell'ingiustizia suona come segue: "Io dico in gene­
rale 'ingiustizia' la tirannia esercitata nell'anima dall'ira, dalla paura,
dal piacere, dal dolore, dall'invidia, dai desideri" (Leg. 863e). Si
tratta di uno dei tanti "elenchi", disponibili nel corpus platonico, di
quelle emozioni che vogliamo rendere oggetto di questa ricerca. Più
"colorato" un passo del Timeo, ove si descrivono gli "aiutanti" del
Demiurgo intenti a "fabbricare" nell'uomo "un'altra specie di ani­
ma, quella mortale, che ha in sé passioni gravi e irresistibili: anzitut­
to il piacere, massima esca del male, e poi i dolori, che fugano i beni,
e inoltre l'audacia e il timore, stolti consiglieri, e la collera, che mal
si placa, e la speranza che si lascia ingannare" (Tim. 69c-d)22• Essi,
"mescolando secondo le leggi della necessità tutte queste cose con
la sensazione irrazionale e con l'amore, che tutto tenta, composero
la specie mortale" (Tim. 69d).
Com'è noto, la dottrina platonica dell'anima esposta nel Timed3
è diversa da quella che troviamo invece nella Repubblica. Nel Timeo
si distingue un'anima immortale da un'anima mortale. L'anima im­
mortale è stata fabbricata dal Demiurgo a partire dalla mescolanza
che è servita a fabbricare l'anima del mondo, anche se questa
mescolanza non presenta più la stessa purezza che aveva all'origine
(Tim. 41d). Succedaneo dell'anima del mondo, l'elemento psichico
immortale è conformato anch'esso sui due circoli dell'Identico e
del Diverso nei quali consiste l'anima del mondo (Tim. 43e-44b),
ed è fornito dei medesimi movimenti ordinati che devono essere
ristabiliti quando, per qualche motivo, sono turbati (Tim. 43a, 47b­
d, 90d). Esso è il luogo di compimento dell'esperienza sensibile
(Tim. 64b), ed è il livello in cui si esercita la scelta, aspetto pratico
della conoscenza sensibile. Questa anima immortale, e quindi divi­
na, nel Timeo è chiamata daimon (Tim. 90a3-4) ed ha sede nella
scatola cranica. Le anime mortali, invece, sono nettamente differen­
ziate dall'anima divina. L'anima delle passioni, il thymosl\ ha sede

22 TI testo del Timeo è quello oxoniense stabilito da Bumet (Platonis opera, cit.,
tomus IV, Oxford, 1972) e la traduzione che riportiamo, lievemente modificata, è
quella di C. Giarratano, in PLATONE, Opere Complete, cit., vol. VI.
23 Su tutto ciò cfr. PLATON, Timée, Critias, Traduction inédite, introduction et
notes par Luc Brisson, avec la collaboration de Miche! Patillon pour la traduction,
Paris Flammarion, 1992, p. 48 sgg.
2� Cfr. G. CoNCATO, Thymos, in "Atque", II (1990), pp. 107-124.
Eros Phobos Epithymia 19

nel torace, sopra il diaframma, vicino al cuore e ai polmoni; essa


non è tuttavia separata completamente dall'anima immortale, con la
quale comunica mediante "l'istmo" del collo (Tim. 69c-70d); l'ani­
ma della nutrizione è posta sotto il diaframma, vicino al fegato
(Tim. 70d-72d)25.

2. Sul quarto libro della Repubblica (ma anche sul Filebo)


A proposito della struttura dell'anima

Più sopra abbiamo affermato che a monte di ogni definizione·


teorica sulla natura dell'emozione sta la distinzione tra le tre varietà
di fenomeni psichici: il pensare, il sentire e il desiderare. n passo più
importante, dedicato all'argomento, è nella Repubblica.
Siamo nel libro quarto. Socrate e i suoi interlocutori, impegnati
nella ricerca della definizione della giustizia, affrontano, ad un certo
momento del disco�o, un punto difficile (x.aA.E7tov, 436a8):
"Questo è già più difficile, capire se compiamo ogni azione con
la stessa parte, o se ve ne sono tre e con l'una compiamo un'azione,
con un'altra un'altra, cioè con la prima apprendiamo (J.1av9uvoJ.1EV,
436a9), con la seconda di quelle che sono in noi ci adiriamo
(9uJ.10UJ.1E9a, 436a10), infine con una terza desideriamo (È7tt9UJ.10UJ.1EV,
436a10) i piaceri. del dbo, della generazione e tutti quelli loro
apparentati, oppure agiamo in ognuna di queste attività con l'anima
intera fin dal primo __impulso (omv opJ.lfJcrcoJ.lEV, 436b2). Questo sarà
il difficile da determinare a un livello adeguato" (436a8-b3).
Per affrontare questo punto diff icile, Socrate decide di usare un

v Per comprendere la rivoluzione operata da Platone a proposito della nozione


di anima, è necessario fare rifc;:rimento alle idee che circolavano su questo argomento
nella Grecia preplatonica. Dodds sottolinea come secondo Omero la psyche nd
vivente non avesse nessuna funzione, salvo quella di abbandonarlo al momento della
morte; ma come già Anacreonte potesse dire al suo diletto " tu sei il padrone ddla
mia psyche", e un epitaffio di Eretria dd VI secolo lamentare che la vita dd marinaio
"concede poche soddisfazioni alla psyche". " Gli autori artici dd V secolo, al pari dei
loro predecessori ionici - scrive Dodds -, intendevano l'io indicato dal termine
psyche piuttosto come 'io' emotivo che come 'io' razionale. Essi parlano della psyche
come sede dd coraggio, della passione, della pietà, dell'angoscia, degli appetiti
animali, ma raramente o mai, prima di Platone, come sede della ragione" (dr. E.R
Dooos, I Greci e l'Irrazionale, cit., pp. 166-167). Si vedano anche M. VEGEITI, Anima
e corpo, cit., pp. 201-210; R BooEJ, Geometria delle passioni, cit., pp. 189-195.
20 Lidia Palumbo

metodo logico. Comincia con il domandarsi se le tre parti citate


siano la stessa cosa o cose diverse. Ed affeirna:
"È chiaro che la stessa cosa non può contemporaneamente fare
o subire cose contrarie sotto lo stesso aspettd6 e in rapporto alla
stessa cosa, sicché se troveremo che questo accade nel nostro caso,
sapremo che non si trattava della stessa cosa, ma di una pluralità"27
(436b8-11).
Una volta stabilito il principio generale che vieta ad una stessa
cosa di avere movimenti contrari, si procede a verificare appunto la
innegabile contrarietà che esiste tra l'assentire e il negare, il tendere
verso e n· ritrarsi, l'assumere o il respingere (437b). n principio di
non contraddizione permetterà di inferire, partendo dalla contrarie­
tà degli effetti, la pluralità dei principi (archai) d'azione nell'anima.
"Allora la sete e la fame, e in generale i desideri, e inoltre assen­
tire e volere, tutto questo non lo porresti in qualche modo fra i tipi
di comportamento di cui si è appena detto? Ad esempio non diresti
che l'anima di chi desidera tende in ogni caso a quel che desidera,
o porta con sé quel che vuole far suo, o ancora, in quanto assente
a che qualcosà le sia procurato, rivolge a se stessa un cenno di
assenso in proposito, conie se qualcuno la interrogasse, bramando
che ciò accada?... Ma il non volere, il non assentire, il non deside­
rare, non li porremo nel gruppo di tutti i comportamenti dell'anima
contrari a quelli, come il respingere e l'allontanare da sé?" (cfr.
437b-c).
L'anima di chi ha sete - dice Platone - in quanto ha sete, altro
non vuole se non bere, ciò desidera e a questo tende (dr. 439a9-bl),
eppure talvolta, pur avendo sete, quest'anima non vuole bere. Ciò
dimostra che nell'anima, in quel caso, c'è una parte che invita a
bere, ma contemporaneamente ce ne è anche un'altra, diversa neces­
sariamente dalla prima, che impedisce di bere (439c). In quest'ani-

26
Come è stato più volte notato dagli studiosi, nel presentare qui quella che può
essere considerata la prima formulazione del principio di non contraddizione,
Platone la correda delle precisa.zioni categoriali necessarie a difenderla dalle obie­
zioni eristiche.
21 L'
affermazione platonica esprime ·la difficoltà di pensare all'anima come ad
una cosa che da un lato è una, dall'altro è molteplice ed inquieta pluralità. Sul
rapporto tra unità e molteplicità in Platone cfr. G. CASERTANO, Filoso/are dialektikos
in Platone: il Filebo, in I.:eterna malattia del discorso. Quattro studi su Platone,
Napoli, Liguori, 1991, pp. 81-135, p. 90.
Eros Ph obos Epithymia 21

ma c'è qualcosa "che la spinge come un animale (rocrnep 8T)piov,


439b4) ad abbeverarsi" e qualcos'altro "che lo proibisce". n qual­
cosa che trattiene (-rò J.lSV KCilA.uov, 439c9) nasce dal ragionamento
(h: A.oytcrJ.lou, 439dl), il qualcosa, anzi i qualcosa- Platone usa il
plurale- che conducono e trascinano ('tÒ. 8& ayov•a. Ka.Ì EA.Kov-ra.,
439dl) nascono da emozioni e malattie (Btà. na.8T)J.lU'tCilV 'tE Ka.Ì
vocrT)J.lU'tCilV na.pa.yiyve'ta.t, 439dl-2).
Su questi passi della Repubblica ci sono molte notazioni da fare.
Innanzitutto, dicevamo, è evidente uno slittamento del discorso dal
registro logico a quello fenomenologico e, accompagnato a questo
slittamento, è possibile osservare l'insinuarsi di quello che Leing28
chiamerebbe "vocabolario di denigrazione", usato per descrivere
l'elemento appetitivo dell'anima. Esso è plurale, laddove l'elemento
razionale è singolare; è inoltre paragonato ad un animale, ad una
fiera. La plurale indeterminatezza dell'epithymia è significativa di un
ambito psichico in cui è esclusa ogni forma di selezione, di catalo­
gazione, di disamina operata sulla base di un giudizio di valore29• È
come un animale.
Nel libro nono, come è noto, si dirà che è un mostro multiforme,
a molte teste, capace di trasformarsi continuamente (588c).
. "Non senza ragione (où 8'JÌ àA.OyCilç, 439d4) allora, dissi io, rico­
nosceremo che si tratta di due cose diverse fra loro, chiamando
quella con cui l'anima ragiona la sua parte razionale {logistikon),
quella con cui ama, prova fame e sete e si eccita per gli altri desideri,
irrazionale e desiderante (àA.Oytcr'tov 'te Ka.Ì Ènt8UJ.1T)nKov (439d7-8),
compagna di gonfiezza e piaceri" (439d).
È interessante il fatto che Platone dica che non è in modo irra­
zionale che definiamo l'ii-razionale. Nell'operare tutte queste distin­
zioni, infatti, è evidentemente in opera il logistikon, che analizza e
separa, sulla base dei propri criteri di analisi e separazione. Ciò che
leggiamo; dunque, è la descrizione dell'irrazionale operata dal razio­
nale; né sarebbe possibile altrimenti. I:irrazionale, infatti, non de­
scrive nulla, perché l'operazione del descrivere implica un distacco
tra colui che descrive e l'oggetto della descrizione, ma tale distacco

28
RD. LEING, Th e Divided Se!/, tr. it. L:io diviso. Studio di psichiatria esistenzia­
le, Torino, Einaudi, 1969, p. 33.
29 Cfr. S. CAMPESE, Epithymialepithymetikon, in PLATONE, La Repubblica. Tradu­

zione e commento di M. Vegetti, cit., vol. III, pp. 245-286, p. 248.


22 Lidia Palumbo

tra soggetto e oggetto non può esistere presso l'epithymetikon, la cui


natura, come vedremo, consiste proprio nell'a,nnullamento di questo
distacco. La descrizione inoltre implica un riflettere, un differire, un
sintetizzare, operazioni che hanno a che fare con la temporalità
ordinaria che scandisce il fluire delle cose secondo un prima e un
poi, ma nell'epithymetikon, come vedremo, non c'è temporalità, o
comunque la temporalità è diversa da quella ordinaria.
Tutto ciò che viene descritto ed analizzato, allora, viene descritto
ed analizzato dal logistikon. Sarebbe possibile anche affermare che
illogistikon non ha capacità di analisi, ma è capacità di analisi: non
c'è un modo di A.oyiçstv della ragione e un altro del desiderio, la
ragione è l'attività del A.oyiçstv, laddove il desiderio, nella sua più
intima essenza, si connota come l'incapacità di A.oyiçsw30•
La parentela semantica tra il ragionare e il calcolare rivela il
legame profondo che ciò che è razionale intesse con il numero. TI
desiderio, la dimensione irrazionale per eccellenza, "compagna di
gonfiezza e piaceri" secondo l'efficace espressione platonica, non ha
invece nessun tipo di contatto con l'attività del misurare: è smisurata
e rende privo di misura tutto ciò che tocca. La brama di possesso,
che caratterizza il desiderio, è pleonexia31, esigenza di avere di più,
ma il "di più" non è una misura: "il più e ilmeno", lungi dall'essere
delle quantità determinante, sono l'esempio più evidente di ciò che
è per natura indeterminato (cfr. Phil. 25b-c), privo di limite, e dun­
que di forma. Non c'è in Platone una "forma" dell'irrazionale: l'ir­
razionale è per definizione ciò che è privo di forma. Non ci sono
ragioni del desiderio, il desiderio è per definizione ciò che non
ragiona, ciò che si oppone alla ragione come un contendente ad un
altro contendente (cfr. 440b). Tra di essi c'è conflittualità ed etero­
geneità. Sono entrambi parti dell'anima, ma l'Èm9t>f..lTJ'ttKov rappre­
senta la· dimensione dello psichico al confine con il somatico. Quan­
do Platone affida all'educazione il trattamento del desiderio, si im­
pegna in un'operazione difficilissima, che è quella di dare forma
all'informe, misura allo smisurato, e tale operazione risente di tutte

1° Cfr. A. l<ENNY, The Anatomy o/ de Soul, Oxford, 1973, pp. 10-14.


11
Sulla pleonexia, brama insaziabile di possesso, "peccato mortale dell'etica
classica" cfr. R BoDEI, Geometria delle passioni, cit., pp. 15-16. Si veda anche Leg.
832a: "dd tutto disgraziati, uomini ai quali è necessità trascorrere tutta la vita con
un'insaziata farne ndla loro anima".
E ros Phobos Epithymia 23

le difficoltà che si incontrano quando ci si oppone con l'artificio ad


una forza della natura.
Quando un uomo ha sete, l'epithymetikon non vuole altro che
bere. Questa frase riassume nella sua semplicità la natura caparbia
del desiderio. Si potrebbe dire che la caparbietà non è una caratte­
ristica del desiderio, ma la sua connotazione essenziale, insieme alla
sua relazionalità: il desiderio è sempre desiderio di qualcosa (437e-
438b, 439a). I più evidenti tra i desideri sono la fame e la sete
(437d), il più violento, invece, è l'eros.
Quando si parla di desiderio, però, è importante fare alcune
precisazioni. Per definirlo come oggetto teorico, in risposta cioè alla
domanda "che cosa è? e da che cosa nasce? "32 quest'affermazione
della Repubblica, che presenta la fame e la sete come gli esempi più
evidenti di desiderio, sembra permettere una risposta semplice. n
desiderio è l'impulso che spinge al riempimento (Resp. 439d), ed è
nello stato di vuoto che nasce questo impulso (Phil. 34e). Ma questo
stato di vuoto è in se stesso sofferenza e non desiderio. Come
sottolinea Dixsaut33, privo di una relazione, anche falsa illusoria o
immaginaria, con l'oggetto di una soddisfazione almeno possibile, il
mancare sarebbe soltanto un soffrire e non diventerebbe mai un
desiderare.
Mescolanza di dolore reale e piacere ricordato, il desiderio è
un'emozione dell'anima. È l'anima che fornisce alla disperazione
senza limite (Phil. 36b) della mancanza la fissazione su un oggetto.
Non c'è dunque desiderio del corpo, non è mai il corpo che desi­
dera: ogni slancio, ogni desiderio, appartengono all'anima (Phil.
35d). Opponendo, attraverso la memoria e la rappresentazione, l'im­
magine di un riempimento alla coscienza di un vuoto, l'anima orien­
ta il desiderio verso l'oggetto. Dunque non è l'oggetto il fine del
desiderio, ma il movimento che si compie per procurarselo; ciò che
si desidera è la generazione di un rapporto (Resp. 437c; Phil. 53c-
55a): non è la bevanda, ma il bere che si desidera (Resp. 439b). Né
lo stato doloroso del vuoto, né il potere attrattivo dell'oggetto spie­
gano l'origine del desiderio. Tali rapporti sono solo il modo dell'ani­
ma di affermare ora la sua sottomissione al corpo (desideri necessa­
ri), ora la sua passione verso l'oggetto (desideri non necessari).

n Cfr. Phil. 34d.


33 Cfr. M. DIXSAUT, Le Nature! philosophe, cit., p. 131 sgg.
24 Lidia Palumbo

� epithymia fa parte del genere della relazione, ma tale relazione non


è né la relazione dell'anima con il corpo, né la relazione dell'anima
con l'esterno. Essa è piuttosto la relazione del sentire con il pensare,
ed è per questo che il desiderio è il modo di essere del vivente, la
sua emozione fondamentale che, come ogni altra emozione, è la
mescolanza di una sensazione e di un pensiero: se la sensazione è il
dolore del mancare, il pensiero assume la forma del ricordo e della
rappresentazione, della nostalgia e dell'anticipazione: senza queste
forme di pensiero non c'è epithymia.
Più sopra abbiamo detto che l'emozione è in Platone un evento
psicofisico. Poi, invece, nel descrivere l'emozione fondamentale del
desiderio; nel Filebo, Platone sembrerebbe affermare che ciò che
accade è in un certo senso il divorzio dell'anima dal corpo34• Se
analizziamo attentamente il discorso di Platone, vediamo però che
ciò non è vero. n vivente desidera: ciò significa che sente un dolore
e contemporaneamente immagina di non sentirlo più, si rappresenta
se stesso nello stato in cui si troverebbe se non sentisse più quel
dolore e tale immaginazione è foriera di un immenso piacere. Quan­
do un uomo prova dolore "desidera il contrario di ciò che subisce"
(Phil. 35a). n desiderio è dunque in un certo senso contrario alla
sensazione, ma, proprio per questo, è anche la sensazione. Essendo
contrario ad essa, mostra di essere strutturalmente ad essa legato.
Dial_etticamente legato al sentire fisico, il desiderio ne è la nega­
zione. E il tentativo (o la tentazione) di negare la sensazione, imma­
ginando di non provarla, facendo come se essa non esistesse. TI caso
del desiderio è quello di un'emozione speciale, nella quale il vivente
si comporta come se non avesse un corpo. n corpo in questo caso
è una metafora della realtà intesa nella sua accezione più gretta.
Dire che nel desiderio il vivente divorzia dal suo corpo significa
dire che in lui più potente che mai è il tentativo di librarsi al di
sopra della bruta materialità. Nel desiderio il vivente è un elefante
con il cuore di farfalla che finalmente vive come se avesse soltanto
un cuore. La dimensione del desiderio è la dimensione del come se:

H Ma, come scrive Casertano, "Platone non crede realmente alla possibilità

dell'esistenza di un piacere o di un dolore della sola anima, di un pathema cioè che


possa coinvolgere una sola parte dell'uomo e non l'uomo nella sua interezza; sulla
impossibilità di una simile condizione avevano insistito tutti i presocratici, e credia·
mo che in fondo Platone si muova sulla stessa linea" (cfr. G. CASERTANO, Il nome
della cosa, cit., pp. 326-327).
Eros Phobos Epithymia 25

come sarebbe la vita se non avessimo un corpo o quel corpo; se


fosse l'anima a scegliersi il corpo, se la realtà fosse disegnata da una
libera immaginazione.
Questo è il desiderio, l'emozione fondamentale del vivente che�
come tutte le emozioni, è una mescolanza di sensazione e pensiero:
nel caso del desiderio tale mescolanza è mescolanza di dolore sentito
e piacere immaginato, è un pensiero cui il senso impone la forma del
come se.
Come vedremo più avanti, quello implicito in un desiderio, come
quello implicito in ogni altra emozione, non è un tipo di pensiero
identico a quello che viene elaborato dal logistikon. n fatto di abi­
tare una parte dell'anima altra dal logistikon rende questo pensiero
diversamente strutturato, in sé e in relazione agli altri pensieri.
Nel libro quarto della Repubblica, inoltre, l'epithymetikon, il mo­
vimento del desiderio, è differenziato per la prima volta non solo dal
logistikon, la dimensione razionale del pensiero, ma anche da un'al­
tra " parte" dell'anima, da un altro tipo di movimento psichico, e
cioè da quel thymoeides, di memoria america, in cui hanno sede altri
fenomeni emotivi, quali l'orgoglio personale e di ceto, il coraggio e
così via. Quest'ultimo - dice Platone - nel conflitto che avviene
nell'anima tra ragione e desiderio, "prende le armi in sostegno della
ragione" (440e).
Nei testi omerici, come ha sottolineato Doddsl5, il thymos non è
una parte dell'anima. Può definirsi, approssimativamente e in gene­
rale, "l'organo del sentimento" , ma gode di un'indipendenza incom­
patibile per noi con la parola "organo". n thymos dice all'uomo
quando deve mangiare, bere o uccidere un nemico; lo consiglia sulle
azioni da compiere, gli suggerisce le parole. L'uomo fa conversazio­
ne con il suo thymos, quasi fosse un altro uomo. Talvolta sgrida
queste entità staccate, di solito ne accetta i consigli, ma può anche
respingerli, e agire, come fa una volta Zeus, "senza il consenso del
suo thymos"36• Platone, in questo caso, direbbe che l'uomo è Kpel.ncov
Éautou, ha dominato se stesso. Ma l'uomo omerico tende a non
sentire il thymos come parte dell'io, piuttosto come una voce inte­
riore indipendente. Se ne possono sentire anche due, come quando
Odisseo "disegna nel suo thymos" di uccidere subito Polifemo, ma

35 Cfr. E.R Dooos, I Greci e l'Irrazionale, eit., pp. 26-27.


36 Iliade, IV, 43.
26 Lidia Palumbo

una seconda voce (f:.epos 8uJ.16ç) lo trattiene'7• Secondo Dodds,


questa abitudine di oggettivare gli impulsi emotivi, trattandoli come
non-io, deve aver preparato largamente il terreno all'idea religiosa
"dell'intervento psichico" , all'idea, cioè, che gli impulsi emotivi sia­
no dovuti all'intervento divino nel comportamento umano. Un altro
fattore, secondo Dodds38, porta al medesimo risultato, e cioè l'abi­
tudine a spiegare la condotta sotto specie di conoscenza: l'uso largo
del verbo ol8a, "sapere", con un neutro plurale per complemento
oggetto, per esprimere un carattere morale (Achille "sa cose selva­
tiche", Polifemo " sa cose senza legge"), incoraggia la credenza negli
interventi psichici: se carattere vale conoscenza, quel che non è
conoscenza non fa parte del carattere, e perviene all'uomo dall'ester­
no. Quando un uomo agisce in modo contrario a quel sistema di
disposizioni coscienti che, si dice, egli conosce, il suo atto non è
propriamente suo, gli è stato imposto. In altri termini, gli impulsi
non sistematizzati, non razionali, tendono a venir esclusi dall'io e
attribuiti ad un'origine estranea39•
Dell'idea degli "interventi psichici" , cioè delle ingerenze nella
vita umana di operazioni non umane che, infondendo qualche cosa
nell'uomo, influiscono sul suo pensiero e sul suo comportamento, si
ritrova qualche traccia nei testi di Platone. La parola chiave di
queste tracce è daimon. Non parliamo qui del daimon socratico, che
pure rappresenta una sopravvivenza dell'idea dell'ingerenza divina
nel comportamento umano, ma notiamo soltanto che daimon, come
abbiamo visto, è il nome che Platone usa nel Timeo per indicare
l'anima immortale dell'uomo, la sua dimensione divina. Non si tratta
di una parte dell'anima, ma di un'altra anima, o di un'altra specie di

37 Odisseo, IX, 299 sgg.


38 Cfr. E.R DoDDS, I Gred e l'Irrazionale, cit., p. 28.
39 Anche quando Teognide chiama " pericolosi demoni" il timore e la speranza
(637 sgg.), o Sofocle parla di Eros come " potenza che torce al male la mente retta"
(Antigone, 791 sgg.) - scrive Dodds - "non dovremmo passare oltre parlando
semplicemente di personificazione. Dietro quelle parole sta l'antica sensazione
omerica che tali cose non fanno realmente parte dell'io, perché non cadono sotto
il dominio cosciente dell'uomo; sono dotate di vita e di energia proprie, e perciò
possono imporre all'uomo, quasi dall'esterno, una condotta a lui estranea. Forti
tracce di questa interpretazione delle passioni si trovano in autori come Euripide
e Platone" (Cfr. E.R DoDDS, I Gred e l'Irrazionale, cit., p. 57). Anche in Platone,
infatti, secondo Dodds, incontriamo il problema di spiegare "la misteriosa natura
delle cose date" (ivi, p. 263).
Eros Phobos Epithymia 27

anima, diversa da quella mortale in cui abitano le passioni, ed è


difficile dire quale delle due è più propriamente umana. A noi
sembra però - ma Dodds non lo rileva - che Platone operi per così
dire un rovesciamento del rapporto tra razionale e irrazionale, ri�
spetto al modo in cui tale rapporto era costituito presso Omero. Lì,
infatti, erano gli impulsi non razionali ad essere avvertiti come inter­
vento divino, in Platone, invece, è proprio la razionalità ad essere
considerata il divino nell'umano. A questo proposito, ci pare molto
giusta la notazione di Dixsaut che sottolinea come, secondo Platone,
non vi sia nulla di naturalmente umano nell'uomo: "L'antropologia
di Platone - ella scrive - ha tutto di una zoologia " . L'uomo è
animale domestico, bipede implume, ma anche belva feroce, bestia
selvaggia. È ugualmente l'uno o l'altra e l'uno e l'altra. Perché gli
uomini non sono uomini che in apparenza. All'interno di ciò che ha
forma umana, spesso, non c'è l'anima di un uomo. L'immagine del
libro nono della Repubblica rivela ciò che la figura dell'uomo na­
sconde: una bestia mostruosa, eteroclita, coronata di teste di animali
feroci o ammansiti, ed anche un leone, ed infine un uomo molto
piccolo. Prendendo la natura del leone come alleata, questo piccolo
uomo può umanizzare l'uomo, rendere il dentro simile al/uori40• Ma
la sua autorità è, a rigore, meno autorità dell'umano sul bestiale che
del divino sull'animale. La divisione tripartita, dunque, non fa che
raffinare la scissione fondamentale e primaria. Delle due nature
presenti nella natura dell'uomo, una è quella a.n4nale e l'altra, la
natura del filosofo, non è specificamente umana. E la parte eterna
e divina (Polit. 309c)41• Ma torniamo al testo del libro quarto della
Repubblica.
Una volta individuate_ le due parti psichiche della ragione e del
desiderio, ci si domanda se "la parte propria della collera, con la
quale ci adiriamo, è da considerarsi una terza forma, o invece sarà
di natura affine a una di queste" , cioè alla parte razionale o a quella
desiderante (439e).
La prima ipotesi è che "la parte propria della collera" sia affine
all'epithymetikon. Quest'ipotesi viene però scartata alla luce della

4 0 Sarebbe molto interessante analizzare i significati stratificati che nel testo di


Platone sono impliciti nelle semplici espressioni "dentro", "fuori". Sull'argomento
cfr. in/ra.
41 Cfr. M. DIXSAUT, Le nature! philosophe, cit., pp. 76-77.
28 Lidia Palumbo

storia di Leonzio. Leonzio, figlio di Aglaion, tornava dal Pireo ed


aveva scorto, sotto il muro settentrionale della città alcuni cadaveri
accanto al carnefice. Egli, contemporaneamente, desiderava vederli
e ne aveva ripugnanza, poi, dopo una lotta che durò un certo tempo,
vinto dal desiderio, offrì ai suoi occhi quel macabro spettacolo. Nel
prendere la decisione di guardare, Leonzio parlò con i suoi occhi e
disse loro: Ecco, voi disgraziati, saziatevi di questo bello spettacolo!
(439e-440a). "Questo racconto significa42 - dice Socrate - che l'ira
{-t'JÌv òpyf)v, 440a5)43 talvolta combatte contro i desideri (7tOÀSJ.1EtV ...
•a."ìç È7tt8U J.1ta.tç, 440a5-6) come cosa da essi distinta" (<Òç aÀ.À.o òv
aÀ.À.cp, 440a6). Come spesso ci accade di osservare, quando i desideri
(f:7tt8UJ.lta.t) fanno violenza ad un uomo contro ragione (7ta.pà •Òv
À.oytcrJ.lov), questi vitupera se stesso e si adira con ciò che in lui fa
violenza (8uJ.lOUJ.l&Vov •cP jlml.;oJ.lÉvcp Èv a.tncP): è il caso in cui il
thymos· è alleato del logistikon (440a-b). In questi casi possiamo
osservare nell'animo umano elementi psichici distinti che stabilisco­
no tra loro alleanze e conflitti. Una cosa simile ci è dato osservare
quando un uomo crede di aver subito un'ingiustizia. In costui il
thymos ribolle ed infierisce, "alleandosi con ciò che gli sembra giu­
sto" (440c), e resiste alla fame e alla sete fino alla vittoria o alla
morte, a meno che non sia richiamato e calmato dalla ragione,
"come un cane dal pastore" (cfr. 440c-d)44•
Una volta individuata la capacità del thymos di schierarsi "dalla
parte della ragione", si affaccia all'orizzonte del discorso di Platone
l'ipotesi che esso non sia in realtà "una terza cosa", ma piuttosto
"una forma della ragione" , "sicché vi sarebbero non tre, ma due
forme nell'anima, quella razionale e quella desiderante" . L'ipotesi è
tipica dell'argomentare platonico45, preoccupato di non assumere un

42 Platone usa la formula classica della dimostrazione: ò Myoç crTJJlatvEt (440a5).


Come scrive Vegetti, "in Grecia il supplizio capitale non è mai stato considerato
uno spettacolo pubblico, assistervi poteva quindi venir considerato, da parte dei
ceti superiori, un gesto degradante. L: orgoglio personale e di ceto di Leonzio, il suo
thymos, cerca dunque di impedirgli un piacere perverso, moralmente e socialmente
deplorevole, al quale lo trascina la sua epithymia". (cfr. PLATONE, LA Repubbliea.
Traduzione e commento di M. Vegetti, cit., vol. ID, p. 92, n. 98).
4J In questo caso orge equivale a thymos.
44 Cfr. R BonEI, Geometria delle passioni, cit., p. 195.

4s Si veda per esempio, nd Sofista, la dimostrazione dell'irriducibilità dei cinque


megista gene (dr. Soph. 254d-255e, L. PALUMBO, Il non essere e l'apparenza. Sul
Sofista di Platone, Napoli, Loffredo, 1994).
Eros Phobos Epithymia 29

dato in modo acritico, ma di verificame, prima di assumerlo, l'in­


tri,nseca necessità. Qui la verifica del dato è operata in mòdo singo­
lare: si chiama in causa la testimonianza di un verso di Omero, già
citato "più sopra"46, nel quale di Odisseo ad un certo punto si dice
che' " comprimendo il petto, rimproverava il cuore". Omero - dice
Platone - "ha chiaramente rappresentato come due cose diverse, di
cui una rimprovera l'altra, la parte che ragiona sul bene e sul male
e quella che irrazionalmente si adira" (44lb-c). Stabilita in questo
modo l'irriducibilità della parte irascibile a quella razionale, si può
considerare definitivamente assunta la tripartizione dell'anima, così
come nella precedente analisi erano apparsi tre i gruppi che è pos­
sibile distinguere in una città, " addetti rispettivamente agli affari,
alla guardia, alle decisioni" (44 la).
Quando Socrate dice "ci siamo dunque a stento messi in salvo
dopo questa traversata, e abbiamo adeguatamente convenuto che le
stesse parti sono presenti tanto nella città quanto nell'anima di ogni
singolo uomo, e in pari numero" (44 lc), il lettore di Platone com­
prende l'intento politico dell'intero discorso, comprende cioè che la
necessità di dimostrare l'esistenza di tre parti nell'anima era funzio­
nale alla simmetria stabilita tra la polis e la psyche. Tale simmetria si
rivelerà fecondissima di sviluppi, e creerà non pochi problemi all'in­
df!gine psicologica, che resterà legata agli schemi di un discorso in
cui il filosofo vestirà i panni del legislatore, e sarà dunque preoccu­
pato di allestire un sistema educativo teso non tanto al benessere
dell'individuo, inteso come soddisfazione delle esigenze dell'anima,
ma piuttosto alla pace di una comunità, intesa come allontanamento
del conflitto intestino tra le diverse classi sociali e tutela . dei rapporti
con le altre comunità. I:intento politico del discorso platonico sulle
emozioni è una costante che va tenuta presente per comprendere una
serie di affermazioni che, altrimenti, resterebbero incomprensibili.
Nel qùarto libro della Repubblica, si parla anche di un'emozione
particolare, l'emozione della paura. Essa compare nel contesto di un
discorso che ha lo scopo di definire il coraggio. Ma non si tratta
semplicemente della contrapposizione paura-coraggio; la questione
viene affrontata in modo più complesso e originale. lnnanzitutto si
definisce il coraggio come un mezzo, una via di salvezza, "una sorta
di salvaguardia", dice Socrate (cronlJptctv ... ìJ:yro nvà EÌVctt 'tfJV

�6 Cfr. Resp. 390d ed ROM. Od. XX 17-18.


30 Lidia Palumbo

àv8pEia.v, 429c5); poi si spiega che ciò che viene salvato con il
coraggio è un'opinione, quell'opinione che la legge ha formato in
ciascuno di noi attraverso l'educazione, e che ha per oggetto "le
cose da temere - quali sono e di qual natura (7tEpÌ -rrov 8Etvrov Ci -ré
Ècrn Ka.Ì o1a., 429c8). ll coraggio consiste nella capacità di salvare
quest'opinione conservandola in ogni circostanza, pur venendosi a
trovare nei dolori e nei piaceri, nei desideri e nelle paure (ev 'tE
M7ta.tç ... Ka.Ì Èv itBova.'ìç Ka.Ì Èv Èm9uJ..Lia.tç Ka.Ì Èv ljl6�atç, 429c9-dl ) .
Platone usa a questo proposito un'immagine: paragona l'educazione
secondo legge all'operazione della tintura della lana, il coraggio al
trattamento usato dai tintori per evitare che la lana stinga- entrando
in contatto con sostanze detergenti, e la paura, nel contesto di
questa immagine, è un detersivo (puJ..LJ.a. .L ) . È un sapone. Un sapone
che lava via il coraggio: "Puoi star certo, dissi io, che appunto
qualcosa del genere anche noi cercavamo di ottenere nella misura
delle nostre possibilità, quando sceglievamo i soldati e li educavamo
con la musica e la ginnastica. Vedi, i nostri sforzi non avevano altro
scopo se non che essi, grazie alla persuasione, ricevessero nel miglior
modo le leggi, come una tintura, così che la loro opinione circa le
cose temibili e le altre diventasse indelebile, grazie sia alla natura sia
all'allevamento appropriato, e che la loro tintura non venisse lavata
via da questi saponi così efficaci nel lavaggio - il piacere, che a far
questo è più forte di qualsiasi detersivo o lasciva, e il dolore e la
paura e il desiderio, più efficaci di qualsiasi sapone (ii 'tE itBovft,
1tO.V't"Òç xa.À&cr'tpaiou 8EtVO'tépa oùcra "CCU"CO Bpéìv Ka.Ì Kovia.ç, ÀU1tT}
"CE KUÌ ljl6�oç Ka.Ì È7tt9UJ..Ll U, 7t0.V't"Òç aUou PUJ..L J.O.
.L 't"Oç, 430a6-b2). Una
tale capacità di salvaguardare in ogni circostanza l'opinione corretta
e basata sulla legge circa le cose temibili o meno, io appunto la
chiamo e la pongo come 'coraggio', a meno che tu intenda qual­
cos'altro" (429e7-430b5) .
L o stesso concetto è ribadito più avanti, quando il contesto del
discorso non è più direttamente l'analisi delle virtù dei cittadini, ma
lo è solo indirettamente; perché, stabilita la simmetria tra l'anima e
la città, si vuole definire in virtù di quale parte dell'anima si chiama
coraggioso un singolo individuo: "Penso - dice Socrate - che grazie
a questa sua parte chiamiamo 'coraggioso' ogni singolo individuo,
allorché il suo thymoeides salvaguarda, pur attraverso i dolori e i
piaceri, l'opinione su ciò che è o meno da temere trasmessagli dal
discorso razionale" (442b-c)
Ciò che è interessante, in questo paragone, è il fatto che il corag-
Eros Phobos Epithymia 31

gio non è l'opinione sulle cose d a temere, m a semplicemente la


capacità di salvare questa opinione, di mantenerla ferma; è una
specie di pasta adesiva che garantisce l'inalterabilità delle tinte con­
tro l'effetto di sostanze decoloranti. E la paura, insieme al dolore al
piacere e al desiderio, è un decolorante; essa è in grado di sciogliere
i legami che esistono tra le molecole della pasta adesiva, consenten­
do la creazione di nuove strutture molecolari, di nuove congiunture
ermeneutiche, per cui, a sembrare temibili, saranno cose altre da
quelle pensate dalla ragione, fissate dalla legge, trasmesse dall'edu­
cazione e difese dal coraggio, e ciò sarà un errore, perché sarà la
paura e non la ragione a giudicare, ed essa considererà paurose non
le cose che si devono temere, ma semplicemente le cose che teme47•

3. Sul Protagora
A proposito del coraggio. Ma anche del piacere e del dolore

Nel Protagora, invece, nel contesto del discorso che il giovane


Socrate oppone al vecchio sofista, il rapporto coraggio-paura è con­
cepito in modo diverso48• Ad un certo punto del dialogo, Protagora

47 Qui appare evidente come, nell'universo psichico di Platone, il logistikon


abbia una funzione deontologica, esprima cioè ciò che l'uomo dovrebbe fare, ciò
che sarebbe giusto che facesse secondo ragione. In realtà non è l'unica parte
dell'anima in grado di giudicare, ma è l'unica che giudica secondo ragione. Nd
caso di un uomo privo di coraggio, per esempio, è la paura a giudicare, ed il suo
giudizio, naturalmente, sarà un giudizio non secondo ragione, ma secondo emozio­
ne. Secondo Dodds, la scissione compiuta da Platone dell'uomo empirico in demo­
ne e bestia, così come quella dell'anima in razionale e irrazionale, corrisponde
all'abisso fra la visione che Platone aveva dell'uomo quale potrebbe essere, e il suo
giudizio sull'uomo qual è (cfr. E.R Dooos, I Greci e l'I"azionale, cit., p. 257). Sulla
virtù del coraggio in questi passi della Repubblica cfr. F. CALABJ, Andreia!Thymoeides,
in PLATONE, La Repubblica. Traduzione e commento di M. Vegetti, cit., vol. m, pp.
.
187-203, 193-196.
48 Consideriamo brevemente il contesto del discorso: nella seconda parte dd
dialogo, Socrate pona la discussione sull'unità della vinù e sui rapporti che le
differenti parti della virtù intessono tra loro. L'interrogazione si sviluppa in quattro
argomenti che riguardano, considerandole due per volta, le virtù considerate. n
primo argomento riguarda la giustizia e la santità. n filosofo cerca di far ammettere
al sofista che esse sono molto simili, ma egli si rifiuta di seguirlo. n secondo
argomento riguarda la saggezza e la sapienza. Socrate, mediante un ragionamento
sui contrari, giunge alla dimostrazione che esse sono identiche. n terzo argomento,
32 Lidia Palumbo

ha affermato che il coraggio e la sapienza sono parti della virtù


(330a), che la virtù ha anche altre parti, come la giustizia, la saggez­
za, la santità (329d). Ma che la maggiore di tutte queste parti,
ciascuna diversa dalle altre, è la sapienza (330a). n sofi.sta ha speci­
fi.cato che gli uomini possono partecipare anche solo di una di
queste parti e non necessariamente di tutte, come dimostra il fatto
che "molti sono coraggiosi, ingiusti o giusti, ma non sapienti" (7toÀÀoÌ
à.vBpéìoi eì.ow, èiBucot BÉ, Ka.Ì BiKa.tot a.Ò, cro$oì BÈ ou, 329e5-6)49•
Quest'ultima affermazione è ripetuta da Protagora: "Ma io ti
dico Socrate, rispose, che tutte queste sono parti della virtù e che
quattro di esse sono abbastanza vicine tra loro, mentre il coraggio
è molto differente da tutte. Che questo sia vero, lo potrai riconosce­
re dal fatto che molti uomini assai ingiusti, empi, intemperanti e
ignoranti, li troverai coraggiosissimi" (349d6-8).
Qui comincia l'indagine sul coraggio, che occupa tutta la fine del
dialogo50•
Quando il sofi.sta afferma che i coraggiosi sono audaci e temerari
(349e), Socrate si impegna in una discussione che comincia dalla
distinzione tra coraggio e audacia51 e, attraverso una serie di esem­
pi'2, intende mostrare che "coloro che sanno sono più audaci di se
stessi rispetto a quando non sanno e degli altri che non sanno"
(come riassume il sofi.sta in 350d), per giungere in questo modo a

che riguarda la giustizia e la sapienza, è rapidamente interrotto, prima, da una


replica di Protagora sui rapporti tra il bene e l'utile, poi, dagli interventi degli altri
sofisti presenti. Si passa poi all'esegesi di un poema di Sirnonide, e poi, di nuovo,
si riprende la discussione sulla virtù e si ricapitolano le affermazioni· fatte in pre­
cedenza (cfr. PLATON, Protagoras. Presentation et traduction inédite par Frédérique
lldefonse, Paris, Flamrnarion, 1997).
49 TI testo del Protagora è quello oxoniense stabilito da Bumet (Platonis opera,
cit., tomus ID, Oxford, 1974). La traduzione che riportiamo, lievemente modifica­
ta, è quella di G. Cambiano, in PLATONE, Dialoghi filosofici, I, Torino, Utet, 1970.
�o Tale indagine può essere suddivisa in due parti, anch'esse ulteriormente suddi­
visibili. La prima, molto breve, consiste in uno scambio di battute tra il filosofo e
il sofista sulla questione dei rapporti tra audacia e coraggio (349d-350c); la seconda
è consacrata all'elaborazione di una metretica dei piaceri e dei dolori (351b-362a)
e giunge alla definizione del coraggio come sapere.
�• Sull'argomentazione socratica cfr. C.C. TAYLOR, Flato: Protagoras, Oxford,

Clarendon Press, 1991, pp. 150-161.


�2 Esempi che nel Lachete condurranno ad una conclusione opposta (cfr. 193b­
c) a quella che appare qui nel Protagora. Sull'argomento cfr. P!.ATON, Protagoras.
Presentation et traduction inédite par Frédérique lldefonse, cit., p. 203, n. 301.
Eros Phobos Epithymia 33

confutare una presunta identificazione protagorea tra coraggio e


audacia e ad identificare, contro Protagora, coraggio e sapere. Ma
Protagora riconosce nell'argomentazione socratica un paralogismo:
"Tu, Socrate, non ricordi bene, replicò, ciò che ti ho detto in rispo­
sta. Alla tua domanda se i coraggiosi sono audaci, io ammisi di sì;
ma tu non mi hai chiesto se anche gli audaci sono coraggiosi: se tu
lo avessi fatto, ti avrei detto che non tutti lo sono. Ma tu non mi hai
affatto dimostrato che la mia ammissione era sbagliata e che i corag­
giosi non sono audaci" (350c-d).
Tutto intento a rilevare, smontandolo, tale paralogismo socratico,
il sofista non si accorge di avere accettato il secondo paralogismo
nascosto nell'argomentazione del filosofo: o tutti gli audaci sono
coraggiosi, o i più audaci sono i più sapienti, dunque il coraggio è
la stessa cosa della sapienza (350c}53•
Socrate intende mostrare che non ogni forma di audacia è corag­
gio, ma soltanto quella determinata meta phroneseos, cioè, in defini­
tiva, che il coraggio si identifica con il sapere.
Molto più avanti nel dialogo, Socrate riconsidera la questione per
confutare l'affermazione di Protagora:
"Stando così le cose, Prodico e Ippia, dissi, Protagora difenda
ora davanti a noi la correttezza delle sue risposte precedenti, non
della primissima, quando disse che delle cinque parti della virtù
nessuna è identica all'altra ed anzi ognuna di esse ha una funzione
propria. Non intendo questa risposta, ma quella che diede in segui­
to, quando disse che quattro sono abbastanza vicine tra loro, mentre
una, il coraggio, è molto differente dalle altre. Egli aggiunse che
avrei potuto riconoscerlo da questa prova: 'Troverai, Socrate, che vi
sono uomini molto empi, ingiusti, intemperanti e ignoranti, ma
coraggiosissimi. Questo ti fa capire che il coraggio è molto differen­
te dalle altre parti della virtù" (359a-b).
ll dialogo tra Socrate e Protagora si svolge a casa di Callia che
ospita, oltre al sofista, così tante altre persone, che il portinaio, un
eunuco, non appena Socrate e il suo giovane amico Ippocrate giun­
gono alla porta, li scaccia via "con tutta la forza che gli era possibi­
le", gridando: "basta! altri sofisti! " (3 14d). Questa notazione basta

n In questo dialogo, diversamente da quanto accade nel Teeteto, dove proprio


questa questione è in un certo senso il tema del dialogo, i tennini sophia ed
episteme sono usati indifferentemente.
34 Lidia Palumbo

a sottolineare come il pubblico che assiste alla conversazione sia


quello delle grandi occasioni54•
Tutti costoro assistono alla confutazione che Socrate infligge al
grande sofista. n filosofo infatti si impegna in una lunga discussione
sul piacere che gli permette di fare riferimento ad una "scienza della
misura dei piaceri e dei dolori", e di definire il coraggio come
sapere. La riflessione sul piacere che incontriamo in questo dialogo,
com'è noto, rappresenta l'esatto contrario di quella che incontria­
mo, anch'essa difesa da Socrate, nel Gorgia, e da sempre gli studiosi
sono divisi nell'interpretazione di questa contraddizione55• A noi qui
interessa soltanto rilevare come l'argomentazione sul piacere abbia
una funzione formale nell'interrogazione di Socrate, e serva da pre­
messa alla riduzione del coraggid6 al sapere. Socrate domanda a
Protagora che cosa egli pensa del sapere: "Hai la stessa opinione
della massa o ne hai una diversa? L'opinione più diffus a sul sapere
è che esso non abbia forza e non sia in grado di guidare e coman­
dare. Non solo lo si considera tale, ma si pensa che, anche se è
presente in un uomo, non è esso a comandare, ma qualche altra
cosa: talvolta 9u)l6ç, talvolta itoov{J, talvolta MnTJ, talvolta spcoç,
spesso �6!3oç, e si pensa volgarmente al sapere come ad uno schiavo,
trascinato qua e là da tutto il resto57• Sei anche tu di questo avviso

54 Oltre a Socrate e ad Ippocrate, che si è recato da Protagora desideroso di

diventare suo allievo, sono presenti in casa di Callia usuo fratello uterino Paralo,
figlio di Feride, e Carmide, figlio di Glaucone . . . l'altro figlio di Peride Santippo,
Filippide, figlio di Filomelo, e Antimero di Mende, che è il discepolo più famoso
di Protagora ed apprende da lui la tecnica del sofista per esercitarla professional­
mente" (315a) e poi, ancora, Ippia di Elide, Fedro del demo di Mirrinunte, Andro­
ne, figlio di Androzione, Tantalo, Prodico di Ceo, Pausania del quartiere Ceramico,
il bellissimç> Agatone, i due Adimanto, il figlio di Chepide e quello di Leucolofide,
Alcibiade il bello, Cri.zia, figlio di Callescro e tanti altri (cfr. 3 15a-3 16a).
55 Com'è noto, non tutti i commentatori sono d'accordo sull'interpretazione di
questa sezione del dialogo. Per una sintesi della letteratura critica sulla questione
cfr. Pl.ATON, Protagoras . Presentation et traduction inédite par Frédérique lldefonse,
cit., p. 213, n. 337. Si veda anche E.R Dooos, I Greci e l'Irrazionale, cit., p. 220.
56 Cfr. R DuNCAN, Courage in Plato's Protagoras, in uPhronesis", 23 (1978), pp.
216-228.
)/ ur Greci - scrive a questo proposito Dodds (dr. I Greci e l'Irrazionale, cit.,

pp. 222-226) - avevano sempre sentito l'esperienza delle passioni come un fatto
misterioso e pauroso in cui sperimentiamo una forza che è in noi, e che ci possiede,
anzicché venir posseduta da noi. La parola stessa pathos Io attesta: come il suo
equivalente latino passzo, indica qualcosa che accade agli uomini, vittime passive".
Eros Phobos Epithymia 35

o ritieni che il sapere sia una bella cosa e capace di dirigere l'uomo
per cui se uno conosce i beni e i mali, non può essere dominato d�
nient'altro in modo da fare cose diverse da quelle prescritte da esso
e che l'intelligenza basti ad aiutare l'uomo? " (352b-c). Protagor�
concorda con Socrate. Ma gli uomini sostengono invece che molti,
"pur conoscendo il meglio, e pur avendone la disponibilità, non
vogliono farlo ed agiscono diversamente" (352d). E tutti quelli ai
quali ne ho chiesto la causa - dice Socrate - "mi hanno risposto che
quelli che agiscono così lo fanno perché sono vinti e dominati dal
piacere o dal dolore o da qualcuno dei fattori che ho nominato poco
fa" (252d) .
Socrate si propone "di persuaderli e di insegnare ad essi che
cos'è questa loro affezione, che essi chiamano essere vinti dal piace­
re, al punto di non fare il meglio pur conoscendolo" (252e-253 a) .
Forse se noi dicessimo: "non è giusto quanto dite, anzi vi sbagliate"
ci domanderebbero: "Protagora e Socrate, se questa affezione non
è l'essere vinti dal piacere, che cosa è mai? Che cosa dite voi che
essa sia? Rispondeteci" (353a).
Essere vinti dai piaceri del mangiare, del bere, dell'amore è cosa
cattiva non perché mangiare bere e amare sia cosa piacevole, ma
perché ciascuna di tali cose piacevoli procura talvolta malattie, po­
vertà e cose simili; ma se ciò non accadesse, e ciascuna di queste
cose procurasse solo godimento, esse non sarebbero cattive. Dun­
que alcuni di questi piaceri sono cattivi, perché sfociano in dolori. Al
contrario, alcune cose buone sono dolorose al presente, ma sono
buone in quanto sfociano in piaceri. Dunque il piacere si insegue in
quanto è un bene e il dolore si fugge in quanto è un male. n bene
si identifica con il piacere e il male con il dolore, in quanto anche

Se nei poemi omerici ciò che accade agli uomini è dovuto ad un intervento divino,
nella tragedia il linguaggio dell'intervento divino nella vita umana ha solo il valore
di un simbolismo: il mondo demonico si è ritirato, lasciando gli uomini soli con le
loro passioni. Medea, nella tragedia di Euripide, sa di lottate non contro un alastor,
ma contro il proprio io irrazionale, il thymos, e domanda pietà a quell'io, come uno
schiavo implora il padrone brutale (cfr. Medea, 1056 sgg.). Dodds accetta l'ipotesi
formulata da vari studiosi che nel comporre l'Ippolito Euripide intendesse polemiz­
zare con Socrate quando attribuisce a Fedra affermazioni sull'impotenza morale
della ragione (cfr. Ippolito, 375 sgg.). Si veda anche J.P. VERNANT - P. VmAL­
NAQUET, Mythe et tragédie en Grèce ancienne, tr. it. Mito e tragedia nell'antica
Grecia, Torino, Einaudi, 1976, pp. 29-63 ; D. LANZA, I tempi dell'emozione tragica,
in "Elenchos", XVI (1995), pp. 5-22.
36 Lidia Palumbo

il godere è considerato un male in quanto procura dolore e il dolore


un bene in quanto procura piacere.
Ma se le cose stanno così, è ridicolo affermare che un uomo pur
conoscendo il male lo compie perché è trascinato dal piacere, per­
ché ciò equivarebbe a dire che non si va incontro al bene, perché si
è vinti dal bene. Alla luce di quanto si è affermato, invece, si può
dire che la condizione di coloro che sono vinti dal piacere è una
condizione di ignoranza, perché è una forma di sapienza quella che
ci consente di misurare quali dolori e quali piaceri deriveranno in
futuro dai dolori e dai piaceri del presente, ed è ancora una volta
una forma di sapere ciò che ci permette di scegliere quelli, tra dolori
e piaceri del presente, che sfoceranno in piaceri maggiori in futuro58•
A questo punto del dialogo, dopo l'affermazione che il piacere si
insegue in quanto è un bene e il dolore si fugge in quanto è un male,
tutti sono allora d'accordo sul fatto che "nessuno di propria volontà
si dirige verso il male o verso ciò che considera male" (358c). E
poiché il timore e la paura sono "una certa attesa del male'9" (358c­
e), tutti ammetteranno che "nessuno si dirigerà volontariamente
verso le cose che teme, quando può dirigersi verso quelle che non
teme" (358e). Protagora, che prima ha affermato che i coraggiosi
sono audaci e temerari (349e), ed ora è costretto a specificare che
intendeva dire proprio che i coraggiosi sono coraggiosi di fronte alle
cose temibili, è allora confutato da Socrate, dal momento che è

'8 uPer Socrate - scrive Dodds - l'arete è, o dovrebbe essere, episteme, un ramo
della conoscenza scientifica: in questo dialogo lo si fa addirittura parlare come se
il metodo adatto fosse un calcolo preciso dei futuri dolori e piaceri - e sono incline
a credere che qualche volta egli parlasse appunto così. Eppure od dialogo Socrate
manifesta il dubbio che l'arete si possa insegnare, ed anche questo dubbio va
accettato come fatto storico; infatti per Socrate l'arete era una cosa che procedeva
dall'interno all'esterno; non era una serie di schemi di condotta, da acquisirsi per
assuefazione, era un atteggiamento coerente della mente, nato da un costante
intuito circa la natura e il significato della vita umana. Nella sua coerenza somiglia­
va ad una scienza, ma credo che sbaglieremmo interpretando l'intuito come cosa
puramente logica - esso impegnava invece l'uomo tutto intero. Socrate indubbia­
mente credeva che 'il ragionamento va seguito ovunque conduca', ma trovò che
troppo spesso conduce soltanto a nuovi interrogativi, e laddove il ragionamento
non serviva più, egli era pronto a seguire guide diverse" (cfr. E.R DoDDS, I Greci
e !'!"azionale, cit., pp. 220-22 1).
'9 Tutti i presenti condividono questa affermazione tranne Prodico, che ammet­
te una sottile differenza tra i due termini (358d-e).
Eros Phobos Epithymia 37

apparso impossibile che qualcuno vada volontariamente "incontro a


ciò che considera temibile".
Dopo questo riferimento alla complessa argomentazione del
Protagora, che veste di forma logica una materia psicologica, non ci
resta che annotare la differenza che separa la definizione del corag­
gio nel quarto libro della Repubblica da quella che troviamo in
questo dialogo. Quando Platone scriverà la Repubblica, il coraggio
non soltanto non sarà più identificato con il sapere, ma non sarà
identificato nemmeno con quella opinione vera che il Menone farà
fatica a distinguere dal sapere, tanto ad esso è simile negli effetti60;
ma sarà ridotto soltanto, come abbiamo visto, alla capacità di con­
servare l'opinione vera, "la capacità di salvaguardare in ogni circo­
stanza l'opinione corretta e basata sulla l�gge circa le cose temibili"
(Resp. 429e7-430b5). Non è soltanto nella definizione che i due
dialoghi platonici mostrano la loro differenza nella considerazione
del coraggio. Probabilmente a marcare la distanza tra le due diverse
considerazioni della medesima virtù, sta il fatto che esse si collocano
in due diverse tappe sul medesimo percorso che porterà Platone
fino a quella considerazione del coraggio che troviamo nelle Leggi.
La distanza può essere abbozzata alla luce di una riflessione che
focalizza l'attenzione non tanto sul coraggio, ma sull'emozione ad
esso contraria, e cioè quella nozione di paura sulla quale torneremo
nel seguito di questo lavoro. La paura, per il sofista del Protagora,
è ciò che si oppone al coraggio; per l'Ateniese delle Leggi, invece,
è ciò che si oppone alla serena quiete dell'esistenza quotidiana. In
entrambi i casi, come abbiamo visto e come vedremo, essa ha per
amico il piacere. Ma questo amico è valutato nei due diversi contesti
in modo molto diverso.
La Repubblica, in questa prospettiva, si colloca a metà strada:
valutare il coraggio tout court come sapere, come avviene nel Pro­
tagora, significa costruire un'argomentazione ad hominem, avente
per scopo la confutazione di un'opinione corrente che identifica
banalmente i coraggiosi come coloro che affrontano le cose temibili,
laddove, secondo Socrate, il coraggio è la conoscenza delle cose
temibili, e dunque aumenta nella misura in cui aumenta la compe­
tenza degli uomini nei vari settori delle attività sociali in cui è

60 Su questa argomentazione del Menone cfr. S. RoTONDARO, Il sogno in Platone.

Fisiologia di una meta/ora, Napoli, Loffredo, 1999, pp. 242-249.


38 Lidia Palumbo

necessario avere coraggio. Chi affronta le cose temibili senza cono­


scerle dimostra di essere non coraggioso, ma pazzo (350c), e dunque
inutile al contesto sociale sullo sfondo del quale vanno valutate le
virtù. In questa prospettiva Socrate non considera allora la paura,
ma la viltà (BEtÀ.ia), che è, contrariamente al coraggio, ignoranza
delle cose temibili; essa, a dispetto delle affermazioni di Protagora,
potrebbe paradossalmente essere individuata in coloro che affronta­
no le cose temibili, in coloro cioè che, ignorando ciò che è temibile
e ciò che non lo è, si gettano nel pericolo spinti dall'ignoranza,
affrontando - come si dice in 360b - "brutte imprese audaci". Nel
contesto della Repubblica, invece, definire il coraggio come "la ca­
pacità di salvaguardare in ogni circostanza l'opinione corretta e
basata sulla legge circa le cose temibili", significa identificare nel
coraggio, virtù dei guerrieri, la possibilità di difendere una città in
guerra. Tale possibilità riposa, però, com'è noto, sulla rigida divisio­
ne dei compiti tra coloro che devono combattere e coloro che
devono decidere quando e come i guerrieri devono combattere,
perché possiedono un sapere della pace e della guerra. In questa
prospettiva non soltanto il coraggio non è un sapere, ma non deve
assolutamente esserlo, perché nella prospettiva della Repubblica vi è
coraggio soltanto laddove si rinuncia alla velleità di sapere e si
comincia ad obbedire (a chi ha il sapere), e dunque, lungi dall'essere
una conoscenza, il coraggio diventa la capacità di conservare un'in­
dicazione data da chi ha la conoscenza, e dunque è in grado di
distinguere ciò che bisogna affrontare e come, e quando. Molto più
complessa la prospettiva delle Leggi.

4. Sull'inizio delle Leggi


A proposito di quel pathos che consiste nel vincere se stessi

TI discorso che non annoia (oÙK à:rtBcilç, 625a6), che l'Ateniese il


Cretese e lo Spartano faranno, ed insieme ascolteranno (ÀÉyov-rci.ç -rE
KaÌ t:ÌKouv-raç, 625a7), lungo il cammino, riguarda ·le leggi e la
costituzione della città. Esso conforterà i viandanti che, come richie­
de l'ora ardente e la stagione della vita, riposeranno spesso, dalla
fatica del viaggio, all'ombra dei boschi sacri.
Clinia analizza l'opera del legislatore cretese e dice che egli ordi­
nò tutto in funzione della guerra, poiché «c'è sempre la guerra»
(625e) e «quella che la maggior parte degli uomini chiamano 'pace'
Eros Phobos Epithymia 39

non è altro che nn nome, ma nella realtà delle cose, per forza di
natura, c'è sempre una guerra, pur se non dichiarata, di tutti gli stati
contro tutti gli stati» (626a). L'Ateniese domanda se questo rapporto
di guerra, che si pone a fondamento del sistema legislativo cretese,
riguarda solo gli stati o anche i villaggi, le famiglie, gli individui, e
se addirittura vale anche all'interno di ognuno dei singoli individui,
per cui anche «per ciascuno rispetto a sé>> bisogna pensare come
«per un nemico di fronte a un nemico» (626c-d).
n lettore, davanti a questo passo, ha la sensazione che si sia
toccato l'argomento fondamentale: il discorso sulle leggi di una
comunità riguarda innanzitutto la capacità degli uomini di dare leggi
a quella comunità di cui ciascuno di essi è formato, la capacità di
governare quella "moltitudine di parti" che è conosciuta sotto il
nome unitario di in-dividuo. L'Ateniese, nella forma consueta della
domanda, dà innanzitutto una indicazione di metodo: anche per
ciascuno rispetto a sé bisogna pensare come per un nemico di fronte
a un nemico. O come dobbiamo dire invece? (626c-d). n senso di
questa domanda riguarda il modello ermeneutico da adottare al fine
di meglio comprendere ciò di cui si parla. Per stabilire quale sia la
migliore forma di legislazione per una comunità, bisogna innanzitutto
decidere secondo quale modello si deve pensare la "cosa" comunità.
Una volta scelto il modello bellico, ed una volta argomentata la
necessità di questa scelta61, è necessario misurare il grado di
estendibilità del modello scelto a tutti gli esempi di comunità, primo
fra tutti quel tipo di comunità, non immediatamente percepibile
come tale, che è l'individuo.
Che si tratti non di un esempio tra gli altri, ma precisamente di
quello primario, è immediatamente chiarito da Clinia che dice
all'Ateniese: <<tu hai ricondotto al suo vero principio questo discorso
e l'hai reso più chiaro e così più facile ti sarà ora capire che con
ragione è stato detto da noi poco fa essere nemici tutti a tutti
pubblicamente e privatamente ancora ognnno a se stesso» (626d-e).
La struttura dialogica dell'opera platonica consente di vedere
come, attraverso il confronto dialettico tra interlocutori, le afferma­
zioni, passate al vaglio della critica, assumano uno spessore di con-

6 1 Cfr
. 626a. Sulla presenza del modello della guerra, e addirittura sulla filosofia
come guerra, in Platone, cfr. ora U. Curu, Polemos. Filosofia come guerra, Torino,
Bollati Boringhieri, 2000.
40 Lidia Palumbo

sapevolezza che sarebbe impensabile in assenza di una situazione


dialogica.
A questo punto il discorso compie un altro passo nella direzione
della propria chiarificazione: se nella ricerca dei fondamenti della
legislazione di una comunità è corretta l'applicazione del modello
bellico, e se il primo tipo di comunità è quello rappresentato dall'in­
dividuo, allora si potranno dedurre tutte le conseguenze che deriva­
no da tale applicazione, relativamente alla vittoria e alla sconfitta:
<<Vincere se stesso - dice Clinia - è la prima e la più bella di tutte
le vittorie, cedere a se stesso ('tÒ BÈ itnéicr9at62 aÙ'tÒV u4J' Èautou,
626e3 ) è la cosa peggiore e la più vergognosa>> (626e).
L'Ateniese propone di «rifare il ragionamento rivedendolo all'in­
dietro»: poiché è stato stabilito che ciascuno di noi o vince se stesso
o cede a se stesso, "possiamo dire che la stessa cosa accada anche
alle famiglie ed ai villaggi ed agli stati, o non lo possiamo dire? " . Si
tratta ancora una volta della verifica della correttezza del modello
ermeneutico, a partire dalle implicazioni che la sua estensione com­
porta: se ogni comunità è una moltitudine in guerra con se stessa,
e se ogni guerra comporta dei vincitori e dei vinti, ognuna delle
comunità si trova esposta alla possibilità di vincere se stessa o . di
essere da se stessa sconfitta. Clinia trova «giusta>> questa conseguen­
za (627a) e la esplicita nei termini seguenti: «quegli stati dove i
migliori dominano la cieca moltitudine e i peggiori, si potrà dire
senza timore di sbagliare che hanno vinto se stessi e nel modo più
giusto sarebbero lodati di una tale vittoria: il contrario dove avviene
il contrario» (627a). L'Ateniese afferma di aver compreso ciò che il
suo interlocutore intende dire: quando in una comunità i migliori
sono sottomessi ai peggiori, questa comunità è correttamente detta
inferiore a se stessa e cattiva; quando invece in essa sono i peggiori
ad essere sottomessi, la comunità è vittoriosa su se stessa e buona.
E Clinia conferma che, pur potendo sembrare strano, è impossibile
convenire che non sia così (627c).
Prima di proseguire nell'analisi del testo, è opportuno fare alcu­
ne notazioni. È possibile osservare come in queste prime pagine

62 Sull'espressione i)néicr8at che indica proprio il soggiacere ad un desiderio,

espressione che sorse in Attica ai tempi di Euripide, cfr. B. SNEll, Die Entdeckung
des Geistes. Studien zur Entstehung des europiiischen Denkens bei den Griechen, tr.
it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, Einaudi, 1963, p. 259.
Eros Phobos Epithymia 41

dell'ultimo dialogo di Platone, sia Clinia, e non l'Ateniese, quello tra


gli interlocutori che appare più preoccupato della correttezza delle
parolé3• Al contrario, l'Ateniese, all'affermazione di Clinia relativa
alla convenienza dell'espressione "inferiore a sé e cattiva" , applicata
ad una città nella quale prevalga la sua parte peggiore, risponde che
non sarebbe di nessuna convenienza stabilire che, prevalendo i di­
sonesti, bisognerebbe dire la famiglia e l'intera parentela "inferiore
a sé", ed invece "vittoriosa di sé" se questi fossero sconfitti. Noi
infatti - egli dice "non stiamo esaminando adesso l'uso delle paro­
le" , non ci interessa "stabilime la proprietà e la precisione distin­
guendole dalla improprietà che quelle deforma"; noi cerchiamo ora
nella formulazione delle leggi " ciò che è giusto e ciò che è sbagliato,
secondo la vera natura loro" (627c-d). Questa attenzione alle cose
più che alle parole non è nuova nei dialoghi di Platoné4, ma non
useremmo questa osservazione per caratterizzare l'Ateniese, piutto­
sto che Clinia, come il portavoce del punto di vista platonico: Nel
contesto di un discorso che presenta l'individuo come una moltitu­
dine in guerra, ci sembra infatti più interessante pensare al punto di
vista dell'autore come strutturalmente conflittuale, ricostruibile sulla
base non dell'identificazione con questo o quello dei personaggi, ma
piuttosto con il loro dialogo, con i risultati cui il dialogo perviene,
pensando se stesso come verità in fieri, come tentativo di dare forma
ermeneutica ad una realtà che, per essere compresa, deve innanzitutto
consentire che siano messi insieme i pezzi di cui è fatta, i sensi
diversi di cui è pervasa; e ciò può avvenire soltanto se chi dà corpo
all'operazione ermeneutica comincia innanzitutto con il mettere

6l
All'apertura del discorso, alla domanda se a Sparta e a Creta si ritenesse
essere un dio oppure un uomo l'autore delle leggi, Clinia ha risposto che "è
assolutamente più giusto dire che sia stato un dio" (624a). È di Clinia l'importante
notazione secondo cui "quella che la maggior parte degli uomini chiamano 'pace'
non è altro che un nome, ma nella realtà delle cose, per forza di natura, c'è sempre
una guerra, pur se non dichiarata, di tutti gli stati contro tutti gli stati" (626a). È
attribuita a Clinia anche una frase di questo genere: "Ospite ateniese, non mi piace
infatti dirti 'attico', perché mi pare che tu sia degno piuttosto di prender nome
dalla tua dea Atena" (626d).
c..� Si veda, ma è solo un esempio, Polit. 261e. Sull'argomento cfr. G. CASERTANO,

Il problema del rapporto nome-cosa-discorso nel Politico (277 -87), in Reading the
Statesman. Proceedings of the III Symposium Platonicum, edited by Ch. J. Rowe,
Sankt Augustin, Academia Verlag, 1995, pp. 141-154 e Il nome della cosa, cit., pp.
215-312.
42 Lidia Palumbo

ordine tra i molti pezzi di cui egli stesso è formato, portando la pace
laddove, più pericolosa che altrove, infuria la guerra. Tutti gli
interlocutori delle Leggi, allora, rappresentano il punto di vista di
Platone, che non è unitario ma conflittuale, ed è conflittuale perché
è dialettico ed è dialettico perché è animato da una forte tensione
a superare la conflittualità strutturale che connota l'in-dividuo.
La notazione dell'Ateniese, relativa alla necessità di soffermarsi
non sulla correttezza delle parole, ma sulla giustizia delle leggi,
introduce un'argomentazione che fa crollare l'intero modello er­
meneutico bellico che era stato introdotto da Clinia nelle pagine
precedenti.
Viene riformulata l'ipotesi di una famiglia, nella quale i peggio­
ri governano i migliori. Ci si domanda quale è, nei confronti di
questa famiglia, il miglior giudice; quello che decide di sopprime­
re i disonesti, affidando il potere ai migliori, o invece quello che,
affidato il potere ai migliori, lascia sopravvivere i disonesti, co­
stringendoli ad ubbidire loro malgrado? n miglior giudice - con­
vengono gli interlocutori - non è né l'uno né l'altro, ma piuttosto
chi è in grado, raccolta una famiglia rotta dalla discordia, di met­
tere pace per il tempo futuro, dando ai cittadini nuove leggi e
vegliando sulla loro concordia. Affermare però che un tal giudice
sarebbe il migliore legislatore significa negare che le leggi debba­
no essere pensate in vista della guerra; Al contrario significa affer­
mare che guardando non alla guerra esterna, ma a quella guerra
che sorge all'interno, a quella guerra che ognuno vorrebbe che
mai sorgesse nel proprio stato, o che, una volta sorta, fosse caccia­
ta al più presto, bisognerebbe conformare la vita dello stato (cfr.
628b).
Non è mai da preferire una pace (eip-rlvTt, 628b6) figlia della
distruzione di una parte ad opera di un'altra, ad una pace amica
(�tA.l.a n: KaÌ eip-rlvT), 628b8) sorta dalla riconciliazione, che consen­
te di rivolgere la mente ai nemici esterni. La cosa migliore non è la
guerra, ottima è la pace e la benevola concordia (�tA.o�pocruvTt,
628c l l ) .
A quanto sembra, dunque, quel "vincere s e stesso, per l o stato,
non è una delle cose migliori, ma una necessità dettata da determi­
nate condizioni" (-.ò VtKiiv, roç SOtlCtV, aÙ'LÌ"JV aÙ'LÌ"JV 7tOÀ.tV OÙIC �v
nov à.pl.cr-.rov à.A.A.à. nov à.vayJCal.rov, 628c l l -dl). Come se un corpo
ammalato, e poi curato, fosse giudicato in migliore stato di salute di
un corpo che non abbia bisogno di alcuna cura.
Eros Phobos Epithymia 43

Abbiamo riportato questa riflessione platonica sulla pace e la


guerra che esistono all'interno di ciascuno di noi, per rilevare come
sia cambiata la prospettiva di queste considerazioni dai tempi del
Protagora. Anche n, si parla dell'"essere vinti da se stessi", ma tale
"affezione"65 viene velocemente liquidata come una forma di igno­
rar1Za66; qui, invece, essa è oggetto di una considerazione complessa
che rifiuta innanzitutto, esplicitamente, di essere soltanto logico­
linguistica, come avviene invece nel Protagora; ed in secondo luogo
di essere sottomessa ad un modello ermeneutico di tipo bellico67,
che si rivela inappropriato all'analisi dell'oggetto in esame. Vincere
se stessi, in questa prospettiva, non è la cosa migliore, ma solo una
necessità nella quale bisognerebbe evitare di trovarsi, l'estrema ratio
cui ci si riferisce in caso di pericolo grave. La capacità di evitare la
guerra, questa è la cosa migliore, la capacità di creare un accordo tra
le parti potenzialmente conflittuali, questa la vera sapieilZa. Tale
saggia valutazione della questione è una costante del testo delle
Leggi, straordinaria testimonianza filosofica del Platone vecchio, acuto
conoscitore delle cose umane. Più avanti torneremo ancora a questo
testo; ora, invece, ritorniamo all'analisi di quella che per Platone è
la natura dell'emozione.

6� TI termine greco è miBoç, che Croiset traduce "caractère", Adorno "quid",


Zambaldi "particolarità", Cambiano "affezione" "perché - scrive - sta ad indicare
ciò che una cosa subisce" (cfr. PLATONE, Dialoghifiloso/id, cit., p. 273 n. 29, si veda
anche la voce "affezione" del Dizionario filosofico curato da Abbagnano per i tipi
della UTET). Contrario a questa traduzione è Lanza che scrive: "Ci sono traduttori
platonici che, senza riguardo al contesto, preferiscono rendere sistematicamente
miBoç con l'ostico e spesso incomprensibile 'affezione', calco gergale del medievale
a/fectio, incuranti della colloquialità platonica" (cfr. D. LANZA, Pathos, in I Gred,
cit., p. 1151, n. 16).
66 Come abbiamo visto, Socrate si propone di insegnare alla massa dei polloi che

cos'è questa affezione, che essi chiamano "essere vinti dal piacere, al punto di non
fare il meglio pur conoscendolo" (Protag. 252e-253a). Se alcuni piaceri sono cattivi,
perché sfociano in dolori e alcuni dolori del presente sono buoni in quanto sfocia­
no in piaceri - egli argomenta - la condizione di coloro che sono vinti dal piacere
è una condizione di ignoranza, perché è la mancanza di quella forma di sapere che
ci consente di misurare quali dolori e quali piaceri deriveranno in futuro dai dolori
e dai piaceri del presente (Protag. 352e-358c).
67 Cfr. A.W.H. ADKINS, Men·t and Responsability. A Study in Greek Values, tr.
it. La morale dei Gred. Da Omero ad Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp.
401407.
44 Lidia Palumbo

5. Sul Fedro
A proposito della natura dell'emozione d'amore

Sopra abbiamo detto che l'emozione è per Platone un evento


psicofisico. In realtà esistono nel corpus platonico alcuni testi nei
quali il soggetto di quei turbamenti che nel nostro linguaggio sono
psicofisici, il protagonista dell'emozione, è soltanto l'anima. Ciò ac­
cade, per esempio, in certi passi del Fedro; ma, a ben guardare, la
descrizione dei turbamenti che si attribuiscono all'anima nel Fedro ci
consente non soltanto di analizzare da vicino la descrizione platonica
della più importante delle emozioni intendendola come un fenomeno
psico-fisico, ma anche di individuare come tale emozione sia scom­
ponibile in due componenti, in due diversi insiemi di fenomeni.
La prima componente dell'evento emozionale vissuto dall'anima
è un insieme di sensazioni, la seconda, invece, si manifesta come una
certa forma di pensiero. Come vedremo, ognuna di queste compo­
nenti può a sua volta essere analizzata: la sensazione è l'espressione
di uno stato per così dire corporeo dell'anima: essa ribolle, si riscal­
da, trema; avverte spinte ad agire, tensione, movimento in alcune
zone. Quella certa forma di pensiero, che rappresenta .la seconda
componente dell'emozione, è invece quell'insieme di logoi, emotiva­
mente connotati, che accompagna ognuna delle sensazioni che co­
stituiscono la prima componente dell'evento emozionale: l'anima
sviluppa pensieri d'amore, pensieri d'ira, pensieri di paura. In ogni
emozione l'anima sviluppa pensieri che esprimono la particolare
natura dell'emozione che vive, e questi pensieri sono parte costitutiva
dell'emozione che vive.
Leggiamo la descrizione dell'emozione dell'amore68• Com'è noto,
secondo il celeberrimo mito del Fedro, le anime degli uomini, al
seguito di quelle degli dei, simili a bighe alate, prima di incarnarsi

68 Parlando di questa "descrizione" dell'emozione amorosa, Socrate dirà a Fedro:

"nd raffigurare la condizione amorosa (,:ò Èpco'tllcÒ v mieoç ànEtKal;;ovtEç, 265b6),


forse cogliendo qualcosa di vero, ma forse anche sviandoci in qualche altra direzio­
ne, dopo aver combinato un discorso non dd tutto privo di persuasività, abbiamo
scherzosamente innalzato un inno mitico con misura e riverenza al tuo e al mio
padrone, Fedro, ad Amore protettore dei bei giovani" (Phaedr. 265b). D verbo
ànEtKal;;co significa ritrarre, copiare, rappresentare, ma anche esprimere con la
parola, come in Theaet. 169b5, dove il verbo è usato, ancora una volta, in riferimen­
·
to all a rappresentazione dell'amore (nç Épcoç oEtvéç, 169cl).
Eros Phobos Epithymia 45

nei corpi umani, hanno volato verso la sommità del cielo e lì, alcune
meglio e altre peggio, alcune di più ed altre di meno, hanno contem­
plato la vera realtà dell'essere. Ognuna delle anime è simile ad una
biga alata, guidata da un auriga, "i cavalli e gli aurighi degli dèi, dice
Platone, sono tutti buoni e di buona razza, mentre quelli degli altri
sono misti"69• Nel caso degli uomini, è l'auriga che conduce la biga
e, dei due cavalli, uno è eccellente e di razza eccellente, l'altro
opposto e di razza opposta (246a-b).
L'ala consente alla biga di volare70, di portare in alto ciò che è
pesante, innalzandolo là dove risiede la stirpe degli dei. L'ala del­
l'anima degli uomini partecipa del divino e si nutre di ciò che è bello
sapiente e buono (246d-e). Quella tra le anime che meglio sta al
seguito di un dio e gli si rende simile - dice Platone - "innalza la
testa del suo auriga nella regione esterna ed è condotta nel moto
circolare anch'essa, ma, disturbata dai cavalli, a stento riesce a scor­
gere gli enti. Un'altra, invece, ora innalza, ora abbassa la testa e, per
la violenza dei cavalli, vede alcuni enti, ma altri no" (248a)7 1 • Tutte
le anime degli uomini, anche se in misura diversa, hanno contempla­
to la verità, è infatti legge che l'anima che non abbia mai visto le
cose che sono non possa assumere figura umana (249b). Ciò accade
perché l'uomo "deve comprendere secondo ciò che è chiamato
idea", procedendo da una molteplicità di sensazioni ad una unità
afferrata nel suo insieme con un ragionamento. E questo non è altro
che reminiscenza72, reminiscenza di quegli oggetti che un tempo la

69 TI testo del Fedro è quello oxoniense stabilito da Bumet (Platonis opera, cit.,
tomus II, Oxford, 1976). La traduzione che riportiamo, lievemente modificata, è
quella di G. Cambiano, in PLATONE, Dialoghi Filoso/ici, cit.
7° Cfr. L. PALUMBO, Eros luogo privilegiato della contraddizione. Note sul discorso
di Sacra/e nel Simposio, in "Discorsi", VI (1986), pp. 79-93.
7 1 Se consideriamo che i cavalli rappresentano nell'anima la dimensione del
sentimento e quella del desiderio, vale a dire tutto intero l'apparato emotivo del­
l'uomo, comprendiamo come, nella prospettiva mitologica del Fedro, l'esistenza
dell'anima, prima di diventare esistenza corporea, è "una contemplazione disturba­
ta dall'emozione", eppure, dopo l'incarnazione - e siamo ancora all'interno della
prospettiva mitologica del Fedro - sarà proprio un'emozione, cioè quella dell'amo­
re, a consentire la memoria della contemplazione, il recupero di una visione del
vero che, altrimenti, sarebbe inesorabilmente perduta.
72 Cfr. J. TRINDADE SANTOS, Nota sobre a anamnese no Fedro, in Anamnese e
saber. Organizaçao e introduçao de}. Trindade Santos, Usboa, Imprensa Nacional­
Casa da Moeda, pp. 243-255.
46 Lidia Palumbo

nostra anima ha visto, quando, viaggiando in compagnia di un dio,


guardò dall'alto 'le cose che diciamo che sono' e sollevò il capo
verso quello che è il vero essere" (249b-c).
In questa prospettiva, secondo Platone, solo il pensiero del filo­
sofo ha le ali, egli, infatti, "col ricordo, per quanto può, è sempre in
rapporto con quegli oggetti, che rendono divino un dio quando è in
rapporto con essi" (249c). TI filosofo - dice Platone - "poiché si
stacca dagli impegni umani ed entra in rapporto col divino, è rim­
proverato dai più di essere demente, ma i più non si accorgono che
egli è invasato da un dio" (249d).
Questa singolare affermazione, che lega il filosofo all'essenza
della divinità e all'apparenza della demenza, è considerata da Socrate
"il punto d'arrivo dell'intero discorso concernente la quarta forma
di follia73 - quella per cui, quando si vede la bellezza di quaggiù e
ci si ricorda della vera bellezza, si acquistano le ali e, nuovamente
alati e anelanti di sollevarsi in volo, ma nell'impossibilità di farlo, si
ricava l'accusa di essere in una condizione di follia" (249d).
"La vista, infatti - spiega Socrate - è la più acuta delle sensazioni
che abbiamo attraverso il corpo, ma con essa non si vede l'intelli­
genza, perché ci procurerebbe amori terribili, se offrisse di se stessa
una immagine altrettanto evidente che giungesse alla nostra vista; né
si vedono altre cose degne d'amore. Ora, invece, alla sola bellezza
toccò questa sorte di essere la più appariscente e la più amabile"
(250d). Pertanto, chi74 ha molto contemplato gli oggetti di lassù,
quando scorge un volto di aspetto divino, buona imitazione della
bellezza, o qualche forma corporea, dapprima rabbrividisce, ed è
invaso da qualcuno degli sgomenti di allora, poi, contemplandolo, lo
venera come un dio e, se non avesse paura della taccia di follia
completa, farebbe sacrifici all'amato come a un simulacro e a un dio
(25 1 a). Alla sua vista, come succede al passar del brivido, lo prende
un mutamento, un sudore e un calore insolito, perché avendo rice­
vuto attraverso gli occhi l'afflu sso della bellezza, ne è riscaldato là

71 Sulla quarta forma di follia cfr. G. CASERTANO, l;etema malattia del discorso,

cit., pp. 56-58; M. DIXSAUT, Le figure della mania nei dialoghi di Platone, in Nella
dispersione del vero, a cura di G. Borrelli e F. C. Papparo, cit., pp. 9-32; E.R Dooos,
I Gred e l'I"azionale, cit., pp. 264-265.
74 In questo caso il soggetto è l'uomo nella sua unità psicofisica. n senso dell'af­
fermazione è ucolui nel quale abita un'anima che ha molto contemplato".
Eros Phobos Epithymia 47

dove la natura dell'ala ne è irrorata75• E per effetto del calore si


fondono le parti intorno al germoglio, quelle che, chiuse dall'induri­
mento, gli impedivano di germogliare, ma con l'affluire del nutrimen­
to s'inturgidisce e preme a crescere dalla radice il gambo dell'ala
sotto tutta la forma dell'anima, perché un tempo era tutta alata
(251a-b).
Tutta, dunque, ribelle e gronda in questo momento e, quel che
nella dentizione patiscono i bambini ai denti, quando stanno spun­
tando, prurito e irritazione alle gengive, lo stesso patisce l'anima di
chi comincia a mettere le ali: ribolle, si irrita e prova un solletichio.
Quando dunque fissando lo sguardo sulla bellezza di un ragazzo ne
accoglie le particelle che ne partono e ne fluiscono - che appunto
per questo sono dette ht"meros (flusso di desiderio) - e ne è irrorata
e riscaldata, allora cessa di soffrire e gioisce (251c). Quando invece
se ne trova separata e inaridisce, gli orifizi dei condotti, dove pre­
mono le penne, seccandosi e accludendosi, ostruiscono i germogli
dell'ala, che, ostruiti internamente, insieme col flusso del desiderio,
palpitando come le arterie pulsanti, premono ciascuno contro il
proprio condotto, tanto che l'anima punta tutt'intorno, s'infuria e si
tormenta76, ma, d'altra parte, avendo il ricordo della bellezza, gioisce
(25lc-d). Dalla mescolanza di questi due sentimenti viene a trovarsi
in affanno per la stranezza della sua situazione e, non avendo via
d'uscita, smania, ed essendo in preda alla follia, non può dormire di
notte né trovar quiete di giorno, ma corre anelante là dove crede di
poter scorgere il possessore della bellezza. E come lo ha visto e
rimane inondata dal flusso del desiderio, le si sbloccano i condotti
prima ostruiti e, preso respiro, trova requie da punture e tormenti
e coglie, invece, nel momento presente, il frutto di questo piacere
dolcissimo (25 1d-e).
In questa condizione, che è di dolore e paura, ma anche di
piacere, l'anima amante - dice Platone - di sua iniziativa non si
allontana mai dall'amato, né apprezza qualcuno più di lui; "anzi di
madri, di fratelli, di compagni tutti non ha più memoria" , e se le sue
sostanze vanno in rovina per incuria non vi dà alcun peso E di-
:

7� Da questo momento il soggetto della descrizione noo è più l'uomo nella sua

realtà psico-fisica, ma è la sola sua anima che, come si dice subito dopo, ribolle, si
irrita e sente solletico. Poi, ancora, si infuria, si tormenta, gioisce.
76 Cfr. G.RE FERRARI, The struggle in the soul: Plato, Phaedrus 253c-255a, in

"Ancient Philosophyn, V (1985), pp. 1-10.


48 Lidia Palumbo

sprezza tutte le regole di condotta e le convenienze di cui prima si


faceva bella: è pronta ad asservirsi e a dormire dovunque la si lasci
il più vicino possibile all'oggetto agognato, perché "oltre al venerare
colui che possiede la bellezza, essa ha trovato in lui l'unico medico
delle sue gravissime pene" (251e-252a).
Questa situazione, bel ragazzo destinatario del mio discorso, -
dice Socrate - è denominata amore dagli uomini.
Con questa affermazione si conclude la descrizione dell'emozio­
ne erotica. In essa possiamo distinguere le due componenti diverse
di cui parlavamo sopra: innanzitutto le sensazioni di un'anima inna­
morata, che esprimono uno stato per così dire corporeo dell'anima:
l'anima ribolle, prova solletichio, è riscaldata. In secondo luogo
quella certa forma di pensiero, che rappresenta la seconda compo­
nente dell'emozione: l'anima crede di scorgere l'amato, lo apprezza
più di ogni altra persona, si ricorda soltanto di lui, non dà peso ad
altro che a lui. Oltre a quelle propriamente corporee elencate sopra,
nella "classe" delle sensazioni rientrano le esperienze indicate con le
espressioni seguenti: l'anima innamorata soffre e gioisce, smania, è
in preda alla follia, è anelante. Si potrebbero denominare sentimen­
ti, ma senza dimenticare che si tratta comunque di sensazioni. n
sentimento, infatti, viene legato da Platone ad una serie di compor­
tamenti strettamente fisiologici: è quando fissa lo sguardo sulla bel­
lezza di un ragazzo, quando ne accoglie le particelle che ne partono
e ne fluiscono, quando ne è irrorata e riscaldata, che l'anima "cessa
di soffrire e gioisce" (25 1c). E, inversamente, è per l'occlusione degli
orifizi dei condotti che "l'anima punta tutt'intorno, . s'infuria e si
tormenta" .
I; amore non è allora una sensazione, un sentimento o un pensie­
ro, ma è precisamente l'insieme di queste tre componenti, un insie­
me strutturato nel modo descritto.
Anche la descrizione della biga alata ci consente di individuare
notazioni importanti ai fini della determinazione della natura del­
l'emozione: "Come al principio di questo mito - dice Platone -
abbiamo diviso ciascun'anima in tre parti, di cui due specie in forma
di cavallo e la terza di auriga, manteniamo ancora queste divisioni"
(253c). Esse si prestano bene, infatti, evidentemente, alla rappresen­
tazione di ciò di cui si parla. Dei due cavalli, si dice che "uno è
eccellente e l'altro invece no" (253 d).
Innanzitutto viene descritto il cavallo eccellente: esso è bianco, di
figura eretta e ben fatta, alto di cervice, di profilo adunco, ha gli
Eros Phobos_ Epithymia

occhi neri, "è amante dell'onore con temperanza e pudore" (•tJ.I.f)ç


èpacr•Ì]ç Jl&•IÌ crco$pocruvT)ç n: KctÌ. aioouç; 253d6), è amico dell'opinio­
ne vera (!ÌÀT)8tvijç 06!;T)ç È'tc:i'ìpoç, 253d7) f! noli hà bisogno di ess-ere
frustato: si lascia guidare solo con l'incitamento e la pàrok (253 d).
L'altro cavallo è invece nero, storto, tozzo, rcizzarhente confcitrtuito; ha;
la testa grande e il collo piccolo, i peli sugli or�cchi, -gli occhi iniettati
di sangue, è sordo e obbedisce solo alla frusta (253d-e),
Quando l'auriga vede l'amato ed è al colmo dell'eccitazione e del
desiderio, il cavallo bianco è trattenuto dal pudore,·-m:entre -niente
può più trattenere il cavallo nero, né la frusta, né i pungoli dèWaUriga;
esso trascina entrambi, anzi, verso l'amato in bafia del rkordo dei
piaceri afrodisiaci ( •fìç 'tcOV ci$poùtcricov xapt'toç, 254a6-7). Essi "dàp­
prima resistono "sdegnati di essere costretti a cose terribili e illedte"
(ùstvà KctÌ. napavoflct civayKai;of..I.Évco, 254bl), ma quando ormai rion
c'è più un limite al male (éhav f..I.T)OÈv � nÉpaç KctKou, 254b2)77, sl._
lasciano trascinare ad avanzare, cedono e acconsentono a fare ciò a·
cui li si invita. Allora si avvicinano all'amato e ne scorgono la visione
folgorante.
Quasi tutti gli studiosi sono d'accordo sulla possibilità di leggere
il mito della biga alata nel Fedro in termini simili a quelli con i quali
si legge la tripartizione dell'anima nel libro quarto della Repubblica:
l'auriga corrisponde all'intelletto (Fedro 247c); il cavallo bianco,
compagno dell'opinione vera (Fedro 253d), alla parte irascibile; il
cavallo nero (Fedro 253d-254a) alla parte desiderante. L'immagine
del Fedro coglie le parti dell'anima nella loro struttura dinamica,
laddove nella Repubblica abbiamo della relazione tra le parti una
immagine più statica.
Ma continuiamo a seguire il racconto del Fedro: quando l'auriga
contempla la bellezza dell'amato, si ricorda della natura della bellez­
za: essa è eretta su un piedistallo accanto alla temperanza e, a
vederla, preso da timore e venerazione (EùstcrÉ 1:s KctÌ. crs$8s1cra,
254b7-8)18, egli cade riverso e tira indietro le redini così violente­
mente che i due cavalli, l'uno senza opporre resistenza, l'altro
ricalcitrando fortemente, si accasciano sulle anche (254c). TI cavallo

77 Sulla problematizzazione morale degli aphrodi'sia nd pensiero greco antico

cfr. M. FoUCAULT, I.:urage des plairirs, tr. it. I.:uro dei piaceri. Storia della rerrualità
2, Milano, Fdtrindli 1984, pp. 41-98.
78 Cfr. ivi, p. 93.
50 Lidia Palumbo

bianco, inoltre, suda per la vergogna e lo sgomento; il cavallo nero,


dolorante per il morso e la caduta, riprende fiato solo per insultare
l'auriga e il compagno di giogo. E se accetta di allontanarsi dall'ama­
to, lo fa solo fino alla prossima occasione, quando tornerà a ricor­
rere alla violenza per ottenere quello che vuole.
Quando è vicino all'amato accade che gli altri due gli parlano, il
cavallo nero, invece, protende il collo, rizza la coda, morde il freno
e tira sfrontatamente19; ciò accade parecchie volte, ma alla lunga
l'auriga ha la meglio ed allora il cavallo aggressivo desiste dalla sua
aggressività, la bestia viziosa rinuncia alla dismisura, accetta di se­
guire l'auriga, e quando scorge l'amato, muore di paura. In questa
condizione del cavallo nero, l'amante, anzi l'anima dell'amante, pudica
e timorosa, segue l'amato.
L'amato, dal canto suo, ha una certa riluttanza ad ammettere
l'amante nella propria intimità, ma poi, col procedere del tempo,
l'età e il bisogno lo inducono ad accettarlo, ad accoglierne le parole
e la compagnia, ed egli si rende conto che neppure tutti insieme,
familiari ed amici gli offrono una philia paragonabile a questa di un
philosB0 posseduto da un dio (Èv9eov) (255b). Ed allora, dalla con-

79 Secondo questa immagine del Fedro, la parola è cosa della ragione e del
sentimento, non del desiderio: muto, in grado di ascoltare nient'altro che l'urlo
assordante del suo bisogno di contatto fisico, di congiungimento carnale, il deside­
rio, "mentre gli altri parlano", "morde il . freno e tira sfrontatamente". A ben
guardare, però, al cavallo nero è data facoltà di parola nel dialogo intrapsichico che,
violento, si accende nell'anima con la passione d'amore. La battuta che gli viene
attribuita, però, non è propriamente un parlare, ma un insulto, un'ingiuria, un'ag­
gressione verbale che egli scaglia contro gli altri attori della rappresentazione,
l'auriga e il suo fedele servo quadrupede. Portato dalla sua natura, che è la natura
del desiderio, non a parlare né ad agire, ma a correre, il desiderio non ha bisogno
di parlare; soltanto quando qualcuno o qualcosa si frappongono tra sé e la sua
realizzazione di se stesso come desiderio, soltanto allora, egli parla, e la sua parola
assume la forma dell'insulto. Razionale nella sua essenza più profonda, infatti, la
parola - il logos - non abita quel luogo inaccessibile alla ragione che è la caverna
del desiderio allo stato puro. In quella caverna non ci sono discorsi ma solo il suono
assordante di un'assenza, non c'è dialogo, ma solo la ripetizione senza senso di un
unico nome, non ci sono parole, ma solo parolacce. Sono probabilmente solo
parolacce, infatti, quelle che il cavallo nero "ha da dire" all'auriga quando, a letto
con l'amato, essi si trovano a discutere animatamente (•ou J.IÈV kpacr'tou 6 àK6A.acr•oç
"innoç EX&l on MylJ ltpoç 'tÒV iJvloxov, 255e5-6).
80 Comincia a farsi strada un cambiamento del termine philia che fino a prima di

Platone si riferiva più alla dimensione sociale e giuridica che a quella affettiva (Cfr.
J.C. FRAISSE, Philia. La Notion d'amitti! dans la philosophie antique, Paris, Vrin, 1974).
Eros Phobos Epithymia 51

suetudine a stare insieme, ad un certo momento, ecco finalmente


sgorgare quel flusso di desiderio che corre veloce verso l'amante, lo
penetra e, quando questi ne è colmo, rifluisce fuori, e di nuovo,
come un soffio di vento, o come un'eco che rimbalza da superfici
levigate, rimbalza e torna nuovamente all'amato: il flusso della bel­
lezza viaggia attraverso gli occhi, che sono la via naturale per arri­
vare all'anima.
Ora anche l 'amato ama, ma non sa nulla di questo amore, e non
si accorge che nell 'amante vede se stesso come in uno specchio
(255d). Ora anche l'amato cessa di soffrire quando vede l'amante,
ed in sua assenza lo desidera; egli possiede un'inunagine dell'amore,
un amore di riflesso e lo crede amicizia. Egli desidera vedere, toc­
care, baciare l 'amante e, quando essi giacciono insieme, il cavallo
nero dell'amante discute animatamente con l'auriga8I, quello del­
l'amato, invece, non parla, ma è turgido di desiderio, è in preda
all'incertezza e coglie il frutto dei piaceri d'amore. n cavallo bianco
e l'auriga dell'amato, a loro volta, si oppongono al piacere con
pudore e logos.
Se, in questa situazione complicata, prevalgono del pensiero gli
aspetti migliori, che conducono alla vita regolata e all'amore per la
sapienza, gli amanti, padroni di se stessi, avendo nella vita di quag­
giù dominato il vizio e liberato la virtù, al termine dell'esistenza
terrena, alati e leggeri coglieranno quel frutto che né la saggezza
umana né la follia divina possono procurare. Se invece in essi pre­
varrà il modo della vita volgare, quello di chi ama non la sapienza
ma l'onore, complice il vino, accadrà che i due cavalli scuri trasci­
neranno le due anime verso quel piacere che i pollai giudicano il più
grande. Ma ciò non accadrà molte volte perché non si ripetono
molte volte - dice Platone - le azioni che non sono approvate dalla
totalità del pensiero. Anche per questi due amanti vi sarà un giorno
la possibilità di volare: essi resteranno insieme, e insieme un giorno
voleranno verso la luce (256b-e).
Non staremo qui a sottolineare la straordinaria bellezza del testo
platonico; altri, molto prima di noi, lo hanno fatto mirabilmente82•

61
Questa "scena" ricorda la "tentazione di Alcibiade" nel Simposio (217d-218b-
219e).
112 Si veda la ricca bibliografia riportata da Brisson in PLATON, Phèdre.

Traduction inédite, introduction et notes par Luc Brisson, Paris, Flammarion, 1997.
52 Lidia Palumbo

Ciò che vorremmo tentare, invece, è un esame di questo testo teso


ad individuare l'analisi platonica dell'emozione dell'amore. Essa ci
servirà da modello per analizzare altre emozioni.
Un dato, a nostro avviso, appare immediatamente chiaro, ed è
che l'emozione, dal punto di vista descrittivo, è una collezione com­
plessa di sensazioni, alcune più localizzate, altre più diffuse83• Ma
non solo. In quella pluralità di elementi che costituisce un'emozione
è presente senz'altro, come accennavamo sopra, un certo numero di
pensieri. Tali pensieri non sono puri pensieri: sono pensieri senti­
mentalmente connotati, sentimenti che si esprimono come pensieri.
Tra questi elementi per così dire spuri il più complesso è il senti­
mento che si esprime come pensiero, di questo - come vedremo -
il testo di Platone offre un esempio interessante.
Oltre ai pensieri che costituiscono l'interno, per così dire, del­
l'emozione, che sono cioè parte integrante dell'emozione stessa, vi
sono poi pensieri che rivestono l'emozione dall'esterno, e lo fanno
affinché essa possa essere descritta. Essi stanno ll, nella descrizione
dell'emozione, a testimoniare l'impossibilità per l'emozione di essere
descritta senza rivestirsi, per così dire, di pensiero, cioè di un'attività
mentale relazionale. Tale attività relazionale può essere di varia na­
tura. n tipo più frequente di attività relazionale, compiuta dal pen­
siero per coprire di sé un'emozione, è il paragone, l'analogia. n testo
di Platone offre in questo senso vari esempi: l'amante contempla
l'amato come un dio (25 la); quando lo vede, come succede al passar
del brivido (251b), è colto da un sudore e un calore insolito (25lb);
come nella dentizione patiscono i bambini, allo stesso modo patisce
l'anima innamorata (251c); come un soffio di vento o un'eco, rimbal­
zando da superfici levigate e solide, viene rinviata al punto di emis­
sione, così il flusso della bellezza. . . (255c); l'amato manifesta affetto
all'amante come ad uno molto benevolo con lui (256a). L'amato
avverte che nessuno dei familiari o degli amici gli può offrire una
minima parte di amicizia a paragone di questo amico posseduto da
un dio (255b). In modo simile a lui, benché meno intensamente,
l'amato desidera vedere toccare baciare l'amante (255e), al pari di
lui desidera ed è desiderato. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

B} Naturalmente, quando parliamo di sensazione come parte integrante del­

l'emozione, non parliamo di un evento puramente corporeo, ma di un evento


corporeo e della sua cattura psicologica.
Eros Phobos Epithymia 53

Alla base di questa necessità, da parte dell'emozione, di essere


ricoperta di pensiero per essere descritta, c'è naturalmente il fatto
che l'emozione non ha natura discorsiva e dunque per entrare in
un discorso deve vestire panni non suoi, panni che in certo senso
la modificano, impastandola con un linguaggio e una razionalità
che le sono in certo modo estranei. In quanto emozione, essa ha
natura intemporale: in un certo senso la dimensione del mythos,
molto più di quella del logos, si presta a vestire di sé la descrizione
di un'emozione.
Ecco perché nel Protagora, quando si parla di paura e coraggio,
si fa una cosa molto diversa dal descrivere la paura e il coraggio. In
quel testo, come abbiamo visto, infatti, Platone si propone di con­
futare Protagora, di confutare una tesi sulla virtù del coraggio, in­
tende dunque costruire una teoria sulle emozioni che consenta ad
esse di essere parte di una teoria sulle virtù. Nella Repubblica, inve­
ce, quando presenta la tripartizione dell'anima, egli sta compiendo
un tentativo diverso, che è quello di analizzare cosa siano le emozio­
ni, e in che cosa esse si differenziano dal pensiero. In quel testo,
però, come abbiamo visto, tale analisi usa a volte un metodo logico,
altre volte un metodo fenomenologico, ed è solo nel secondo caso,
come meglio vedremo più avanti, che ci si trova davanti alla descri­
zione delle emozioni. Quando infatti è in uso un metodo logico, ciò
che si sta facendo è una dimostrazione, non una descrizione. Ed
allora si rischia -di assumere un tono didascalico che si lascia sfuggire
alcune sfumature fondamentali della cosa di cui si parla.
Nel registro logico della trattazione della tripartizione dell'anima
che troviamo nel quarto libro della Repubblica, la parte superiore
dell'anima è detta razionale (logistikon). Essa sembra esistere soltan­
to come forza di opposizione alle forze irrazionali. La ragione e il
desiderio, in quel testo, sembrano appartenere a quel genere di
correlativi nel quale ciascuno dei due termini non si qualifica che
opponendosi all'altro. Ma in questo caso, come scrive Dixsaut "non
vi sarebbe che una sola maniera di dire sì, di portarsi verso, e questa
maniera sarebbe il movimento irrazionale del desiderio"84• L'analisi
logica dei conflitti dell'anima serve solo a stabilire l'esistenza di una
forza altra dal desiderio, uguale o superiore, che ha il potere di
invertire di segno l'assenso trasformandolo in rifiuto. Ora, la resi-

Sl C&. M. DIXSAUT, Le nature! philosophe, cit., p. 133.


54 Lidia Palumbo

stenza al desiderio rivela l'esistenza di una forza diversa da quello,


ma non implica affatto che tale forza sia soltanto una forza di
resistenza. Se lo slancio e l'impulso fossero propri soltanto del de­
siderio, bisognerebbe sempre negarsi ad essi per salvare la possibi­
lità del pensiero. Se il piacere fosse solo il riempimento di un vuoto
secondo il modello della mancanza, e il pensiero fosse solo la sag­
gezza della moderazione secondo il modello della misura, tra il
piacere e il pensiero non vi sarebbe mescolanza possibile, e sarem­
mo presi - scrive Dixsaur'5 - "tra l'aridità di un pensiero senza
piacere, mai inventivo e sempre critico, e l'anestesia di un piacere
senza pensiero, ripetizione di un vuoto, negazione di negazione" .
Per scoprire che il pensiero può non solamente rifiutare o acconsen­
tire, ma "tendere verso", produrre piacere e desiderare, bisogna
lasciare il registro della dimostrazione logica.
TI Fedro, allora, in questa prospettiva, in quella sezione che ab­
biamo appena riportato, ove si è scelto il registro del mito per
descrivere l'emozione dell'amore, si rivela il testo più significativo
per il nostro tipo di indagine.
Naturalmente anche la descrizione dell'emozione, operata con
metodo fenomenologico, presenta una emozione descritta, non
un'emozione sentita, dunque un'emozione rivestita di pensiero: ma
in questo caso non si tratta di una forma di pensiero completamente
estranea all'emozione, bensì di una forma di pensiero la più vicina
possibile a quell'attività relazionale che è parte integrante della
emozione stessa.
Nel descrivere l'amante memore della bellezza pura, Platone -
come abbiamo visto - dice: "quando scorge un volto di aspetto
divino, buona imitazione della bellezza, o qualche forma corporea,
dapprima rabbrividisce ed è invaso da qualcuno degli sgomenti di
allora, poi, contemplandolo, lo venera come un dio e, se non avesse
paura della taccia di follia completa, farebbe sacrifici all'amato come
a un simulacro e a un dio" (25 1a). Questo passo presenta l'amante
nell'istante in cui esso scorge un oggetto d'amore. Egli rabbrividi­
sce, è invaso da sgomento, contempla e venera tale oggetto d'amore,
ha paura di essere considerato completamente pazzo e questa paura
lo condiziona. In questa paura è nascosto un ragionamento che
potrebbe essere descritto così: "se mi lasciassi andare totalmente a

8� Ibidem.
Eros Phobos Epithymia 55

questo amore che mi porterebbe a comportarmi verso il mio amato


come verso un dio, sarei considerato completamente pazzo" . n ri­
sultato di questo pensiero è una forma di autolimitazione dell'aman­
te nel suo comportamento adorante. Platone esprime questo pensie­
ro dicendo "se non avesse paura della taccia di follia completa . . . " ,
esprime questo pensiero, cioè, come se esso fosse immediatamente
un'emozione di paura. Si tratta di una descrizione molto pregnante
di quell'evento complesso che è l'emozione, e che al suo interno
possiede una componente di pensiero. Tale componente, in questo
caso, è costituita da un pensiero connotabile come pensiero impau­
rito: quando Platone scrive questo passo sta descrivendo l'emozione
della paura senza snaturarla, senza tradurla cioè in forme di pensie­
ro che sono estranee all'emozione stessa, ma facendo uso di un'at­
tività proposizionale che somiglia a quella che è parte integrante
dell'emozione stessa. L'emozione è così rivestita di pensiero e diven­
ta emozione descritta, ma al suo interno è ancora possibile indivi­
duare, distinguendoli tra loro, alcune sensazioni corporee, il brivido,
la tensione, ed un pensiero impaurito, che ha alcuni effetti sulle
manifestazioni esteriori dell'emozione. Oltre a questi elementi, vi
sono poi, nella descrizione, quelli che attengono all'attività stessa del
descrivere. Primo fra tutti l'uso di scansioni temporali: l'amante
"dapprima rabbrividisce ed è invaso da qualcuno degli sgomenti di
allora, poi, contemplando l'amato lo venera come un dio" . Tali
scansioni temporali sono estranee all'emozione in quanto tale: essa,
infatti, è qualcosa di intemporale, l'emozione dell'amante è contem­
poraneamente � rabbrividire, un essere sgomento, un contemplare
e un venerare. E il pensiero discorsivo che, per descrivere l' emozio­
ne, la scandisce come se essa fosse qualcosa che si dispiega nel
tempo, che accade, che ha un prima e un poi. È il pensiero, per sua
natura, invece, che si dispiega nel tempo, che accade, che ha un
prima e un poi. n pensiero, e tutto ciò che viene pensato, descritto,
raccontato86• n punto fondamentale è che le attività del pensare

86 Come scrive Matte Bianco, per sua natura la sensazione è semplice, il pensie­

ro invece, ha sempre aspetti o parti. La sensazione è semplice anche se possono


contribuirvi molti dementi, mentre il pensiero è un'unità complessa, una struttura
composta. La sensazione è intemporale, il pensiero, invece, si sviluppa nd tempo.
"Se ci sembra di sperimentarla come un evento, ciò è dovuto al fatto che la
ricopriamo di pensiero; in altre parole cerchiamo di descriverla, di pensacla" (cfr.
L MATTE BLANCO, op. dt., pp. 258-259).
56 : Lidi'a Palumbo

descrivere raccontare .p·oss()nO �essere!'profondamente snaturanti la


natUra di . ciò-·che ·. Ja .. d?:·oggetto i'al:· ·p-ensiero, alla descrizione, al
re o O; - olt
racconto, oppu ' p òss n essere J m 6 vicine alla natura di tali
oggetti. : La · qescrizione mitoi6'gica rdeltemozione ·dell'amore che ri­
ùovianie> nel Fedro e)senz'altro·:ri.nr:esem.pio:del secondo tipo. Su di
;- ; .
e5sa : si : posscmo ifare�altreo notazioni•. : : , ·.�-, -< r o �::o:-:: (:·' �,;_:ç; .,
NeLsuo: lJellissimÒ'testo'�su;LJGred· e··l'irrazionale;:Dodds;: :distin­
a
guendò lo stato:di-Neglia: d ·quello:di: sonn ; scrive: �'iLmoridn;dello o
stato di veglia ha;;sì( cerii �vantaggi·�di :èoncretez�a-. e �continùità;?.mf!
.s c ali
le ·sue possibilità · o i · :sòn0: ·assai ristì:-ette; vi 'incontriarnmsòltanto
ri
i · nost ·con6scenti;: mentre nel : mon
do� dei'· sogni 'sLpbsdono,; 1!v.vici­
nare;•sia'·pure· di sfuggita;i·glYamici �lontaru;-!i :morti;cgli•:dei; .nçmnìll­
mente 'è l'unicar:esp.er:ienza··�che :<::h so ttraè i:alla , tirannia·::penosa·Ye
incomprensibil� del :iempo' :� dellò.;.spazio�''!l; Questa�:affermaiiorie
dd grande c studioso :del: m'orido� antico ·:a mostro .·avviso:nonrè:)}éàt,
perche an2he:l�esp-erienza dell�errioziode, al: pari: di·quella ronil'fca, rei
consente. di sottrarci-:::'�alla•:tirannia' •;penosa·! :e- :mcomprensibile •:dd
a p all
t�mp6 e: dello. sp:azioY . Non·.è:un c so · o ra ; h , nel .tentativo di 1c e
stucliare J;emoziol).e :in : uii· ·testo::imtico)i !sbpossano �seguire ;percorsi
gw
si±nili ?a � quelli: ·se ti •da, <E>odd.S _:per: :studiarvi:· Eesperienzàconirica.
Egli::delincil: innanzituttO.:due modi: diversi dii�Considerare:ìi':docu­
menti.'sull�esp�rienza·. psicD.id: il:primo modo 'consiste.nel'.ten�a_tivò
di''considerarli corrgliocwhi stessi deLsogg�tto dell':esperienza th�isi
c
intender: studiare; ricostiuendòi i. osì; :per_;quant6; rè -�ppssibile-;'Ì quale
e ri a cc
valore:.· avesse,. que11' spe enz · �p'eL ]a. osci z di·:.chi :)a ::.,Visse:� eli eri aj
secondo� modo ·consiste ip.vece:.:nell'applicare ari dompnentldrr;nostrQ
pòssesso1 i· pri.Ocipr· deQa. ·modema::a.ri.'ali:si ·.psichica'e . di:; penetr:arne
così ril;coptenutm ,Dodds. 'diqhiara=di ·essereointeressato :hl primd tipo
m'tentf1,tivo,c non perché· il•second6 . .-Qon sia interessante;-'ri:ra .pé;r.ché
oggetto:- specifico:della·sua<?ttenzione no.q::-è':l' ésperienza�psichica dei
Greci� ma• p'iuttos_to .· il-ilorci :atteggiamento;verso� thle: ·esperienzm i :·:;
: "� N el; tentati\io rdi: cogliere ;l'arieggiamento platm;Ucb .verso J(espe­
rienza dell'emozione, abbiamo raccolto molti elementi che confer­
mano l'interpretazione dell'esperienza emozionale come - EJ.uak:osa
checa.ccade· nell'anima, e.·dal qualersi è)� presi!.�l ·Se �in:-1=/latone;::·èome
m' tiitta= l�f 'cultùt�· :greca,sPesperienza :onirica.':e'per lo·:.piu descritta
'��#:.�'J�§��g�jl)��-��AY-6 d.�,a�,�� ·? � -?�����. �R?rt: � �:c!i ��;��Jt� �
'� i ri ' =- . i c
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: i

l � ..) ,, -' 1 1J -- ! { : ! .
. q ·:nJ!!�
l!i E.R Donns, I Gred e l'Irrazionale, cit:�: pÙl�.q
Eros Phobos Epithymia 57

ha o si fa un sogno, ma sempre che si vede un sogno (ovap Ìùcl.v,


ÈvuJtvtov ì.ì5éìv)88; l'emozione, oltre che con i verbi specifici che
indicano il godere, il soffrire, il desiderare, viene espressa mediante
il verbo yiyvoflat, che indica il nascere, l'aver luogo, l'accadere: il
piacere e il dolore che nascono nell'anima (1·6 yE i(ùù Èv 'JIUXlJ
ytyVOflEVov KaÌ tÒ A.um]p6v, Resp. 583e9- 10) ; la generazione di sof­
ferenze (yÉvEcrtv àA.n86vwv) che ha luogo (yiyvccr8m, Phil. 3 1 d 5-
6), il piacere che si genera (i(ùovÌ] yi.yvccr8at, Phil. 3 1 d9) . Altre volte,
invece di trovare il verbo yiyvoflat per indicare l'accadere di un
mi8oc;, troviamo la situazione inversa: il vocabolo 1ta8oc; per indicare
un accadere; così nel Pedone, ave Socrate dice a Cebete "se vuoi, ti
esporrò ciò che accadde a me" (-rà yE ÈflÙ 1ta8T], Phaed. 96a2). Vi
sono anche contesti in cui 1ta8oç significa precisamente " evento " ,
'�cosa che capita" come, ad esempio nella Repubblica, ove Socrate
afferma;-''ci ,capita una cosa piuttosto stupida" (�A.aKtK6v yc ftflWV -rò
1ta8o(;j ;Ne:o/.ri432d5).
<:i:Sopra. 'abqiamo• detto che l'emozione nel testo d i Platone appare
come ' qualcosìÙ dj-:: c0'rnplesso e che in essa vi sono sensazioni e
pensieri� Abbian:J.Oòp·di détt0 che un'emozione descritta è un'emazia­
né: rivestiti di .pensiero,·!ed?abbiamo individuato nel paragone un
modo tipico:debp'ensrero rdeù:rittivo89 di rivestire un'emozione. Poi
abbiamò incontrato. iln ·eserripio di1pensiero implicito nell'emozione,
un ·pensiero: di ;p�uta, 'c� e.r,era::anche:ù.n"pensiero d'amore. A questo
puÌ:l.to:della:nostta(analisi dobbiamoJ aggiungere alcune specificazio­
ru., che:;cicpermhnino rdi!distinguehi�megljò:H ·p'ensiero componente
deli''emozi0net dal;pensiér6 iche�tiv�ste Eemozionéper descriverla. È
al primo.-tipn dr:pensiero , che� cl.obbia.nlo: ora: �riferirci.r'
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58 Lidia Palumbo

proprio dell'emozione dell'amante. Attribuire caratteristiche divine


ad un uomo è infatti la forma tipica dell'esagerazione, e il pensiero
implicito nell'emozione è un pensiero che esagera. Adesso appare
più chiaro quello che intendevamo quando dicevamo che la descri­
zione platonica è una descrizione che non snatura l'oggetto che
descrive: il tipo di paragone usato da Platone per descrivere l'emo­
zione d'amore è infatti simile a quel pensiero esagerante che carat­
terizza l'emozione descritta. L'amore è precisamente quell'insieme di
sensazioni che accompagnano una forma specifica di pensiero: quel­
la che riconosce nell'amato un dio. Ma non è tutto.
Un'altra caratteristica del pensiero implicito nell'emozione è l' as­
similazione del soggetto all'oggetto, nel caso specifico dell'amante
all'amato. Platone sottolinea come gli amanti agiscano in modo da
condurre l'amato "quanto più è possibile ad una somiglianza totale
con loro stessi e con il dio che essi onorano" (253b-c) e spiega, come
abbiamo visto, che quando l'amore è finalmente ricambiato, il "flus­
so di desiderio, scorrendo copioso verso l'amante, in parte penetra
in lui e in parte, quando questi ne è colmo, rifl.uisce fuori". E "come
un soffio di vento, o un'eco", "rimbalzando da superfici levigate e
solide, viene rinviata al punto di emissione", "così il flusso della
bellezza arrivando nuovamente al bell'amato attraverso gli occhi,
che sono la via naturale per arrivare all'anima", stimola il formarsi
delle ali e colma d'amore l'anima, a sua volta, dell'amato. Quando
ciò è accaduto, l'amato ama, dunque, ma che cosa non sa; e né sa
che cosa stia subendo né può dirlo, anzi, come chi ha contratto da
un altro un'oftalmia, non è in grado di dirne la causa, e non si
accorge che nell'amante vede se stesso come in uno specchio".
Con la metafora dello specchio, Platone corona tale esemplare
descrizione dell'amore come emozione che comporta l'assimilazione
del soggetto all'oggetto. A tale assimilazione, naturalmente, contri­
buisce l'intero apparato del mito del Fedro, secondo il quale ognuna
delle anime, quando ha contemplato l'essere alla sommità del cielo,
era al seguito di uno degli dei, ed è per questo che, incarnatasi in
un corpo, cerca sempre un oggetto d'amore che sia simile a quel dio.
Tutto ciò dimostra con quanta raffinatezza poetica Platone costrui­
sca una descrizione dell'emozione che non snaturi, razionalizzandolo,
l'oggetto che descrive.
Come vedremo più avanti, le caratteristiche dell'emozione che
abbiamo individuato nella descrizione dell'emozione dell'amore nel
Fedro, sia per quanto riguarda la sua componente sensazione, sia per
Eros Phobos Epithymia 59

quanto riguarda la sua componente pensiero, si ritroveranno nelle


descrizioni di altre emozioni. Non sempre però ritroveremo la pu­
rezza di questa narrazione che rappresenta il caso felice di una
scrittura90 in cui la forma (il mito) e il contenuto (la descrizione di
un'emozione) sono in perfetta armonia, e lo sono precisamente perché
la razionalità narrante ha scelto per narrare quella stessa forma di
pensiero immaginifico, esagerato, privo di confini tra il sé e l'altro,
che si nascondeva implicita nell'oggetto della narrazione.
Per operare un riscontro tra i risultati di questa breve analisi
del testo del Fedro ed altri luoghi platonici dedicati alla descrizio­
ne di un'emozione, non ci sarà utile ritornare al libro quarto della
Repubblica, ove si definiscono i confini tra le tre parti_ dell'anima.
Quel testo, infatti, come abbiari:l.o visto, non è una descrizione, ma
la presentazione di una teoria, una presentazione che, per essere
compresa, non manca di fare uso di diversi approcci fenomenologici,
primo fra tutti il riferimento all'esperienza quotidiana del conflitto
tra ragione e desiderio (437b), o tra desideri diversi (439e), ma
che, nel suo significato complessivo, resta la proposta forte di un
modello teorico con cui ordinare, razionalizzandola logicamente,
la complessità dell'esperienza psichica91• Se c'è una descrizione, in
quel contesto, è la descrizione di una griglia ermeneutica con cui
leggere le dinamiche relazionali che esistono all'interno dell'io.
Non è, se non in tratti brevissimi, e funzionalmente collocati in
luoghi strategici del discorso, la descrizione di queste dinamiche,
come invece avviene, nel linguaggio · del mito, nei luoghi già visti
del Fedro.
Ma c'è un altro luogo della Repubblica ove invece possiamo
trovare ciò che cerchiamo.

90 In un dialogo "contro" la scrittura! Sull'argomento cfr. G. CERRI, Il ruolo

positivo della scrittura secondo il Fedro di Platone, in Unterstanding the Phaedrus.


Proceedings of the Symposiwn Platonicurn, ed. by L. Rossetti, Sankt Augustin,
Academia Verlag, 1992, pp. 280-284; M. VEGETTI, Nell'ombra di Theuth. Dinamiche
della scrittura in Platone, in Les savoirs de l'écriture en Grèce andenne, tr. it. Sapere
e scnttura in Grecia, a cura di M. Detienne, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 201-227;
E TRABATIONI, Oralità e scrittura in Platone, Milano, CUEM, 1999, e, dello stesso
Autore, Scrivere nell'anima. Verità, dialettica e persuasione in Platone, Firenze, La
nuova Italia, 1994. Su quest'ultimo testo si veda la recensione di G. Giannantoni
in "Elenchos", XVII (1996), pp. 1 1 1 - 1 19.
91 Cfr. M. VEGETTI , Passioni antiche: l'io collerico, in Storia delle passioni, a cura
di S. Vegetti Finzi, Bari, Laterza, 1995, pp. 39-73, p. 48.
60 Lidia Palumbo

6. Sull'ottavo e il nono libro della Repubblica


A proposito della natura del desiderio

Si tratta di un lungo passo, che attraversa i libri ottavo e nono.


In esso Platone intende descrivere l'emozione sfrenata del desiderio
e lo fa in un modo molto singolare, perché la descrive creando di
essa una sorta di incarnazione: il desiderio sfrenato è un tipo umano,
che ha una storia, non soltanto dei genitori, ma degli avi, vive in un
certo tipo di città e ha determinati amici.
La sua storia è introdotta nel testo a partire da un intervento di
Glaucone, che ricorda a Socrate il suo proponimento di esaminare
quattro specie di uomini, corrispondenti a quattro specie di costitu­
zioni, "per discorrere e vedeme gli errori"92, affinché, visti tutti
costoro, e "accordatici su quale sia il migliore e il peggior uomo ",
si possa poi esaminare se il migliore è il più felice e il peggiore il più
misero o altrimenti (544a).
Dopo avere elencato le forme di costituzione esistenti, ed avere
abbozzato la descrizione della timocrazia, una sorta di via di mezzo
tra l'aristocrazia e l'oligarchia (547c), ci si propone di delineare il
profilo dell'uomo "fatto a seconda di una tal costituzione" (548d).
Secondo Adimanto, costui, per lo spirito battagliero, somiglierà a
Glaucone. Secondo Socrate se ne differenzierà profondamente per
molti altri aspetti: sarà più duro, più estraneo alle Muse, benché
ancora loro amico, desideroso di ascoltare ma non di parlare. Aspro
con i servi, senza però nutrire verso di loro quel disprezzo che
nutrono coloro che sono veramente educati; affabile con i liberi,
obbediente verso le autorità; desideroso di onori e cariche pubbli­
che, vorrebbe riceverle per meriti di guerra e non per capacità
oratorie; amico della caccia e della ginnastica; col passare del tempo
sempre più interessato alle ricchezze e sempre meno interessato a
quella virtù che è salvata dal logos (548e-549b).
Descritto per sommi capi in questo modo il tipo d'uomo
timocratico, gli interlocutori del dialogo si propongono di indivi­
duame la genesi: "costui nasce all'incirca così" (549c): suo padre è
un uomo dabbene che, abitando in una città non ben governata,
rifugge dagli onori e dalle cariche. Sua madre, invece, è una donna

92 La traduzione dd testo dei libri ottavo e nono della Repubblica è, lievemente


modificata, quella di E Gabrieli, in PLATONE, La Repubblica, Firenze, Sansoni,
1950.
Eros Phobos Epithymia 61

ambiziosa, che non approva il comportamento del marito. Ella vor­


rebbe occupare nella città il ruolo di moglie di un uomo importante
e dunque con il figlio si lamenta del marito, dicendo che non è un
uomo (<iva.vBpoç, 549d6)93• Anche i servi di casa incitano il ragazzo
ad essere più uomo del padre (O:vi]p J.uiA.A.ov Ècr-ra.t -rou 1ta.-rp6ç,
550al). Per strada, egli sente sempre disprezzare la discrezione e
vantare l'intraprendenza, ma, d'altra parte, riceve dal padre un'edu­
cazione alla ragione. n risultato è che, se il padre coltiva in lui il
logistikon, gli altri fomentano l'epithymetikon e il thymoeides. n
risultato di sollecitazioni così diverse è che il ragazzo affiderà il
governo di se stesso all'elemento intermedio, diventando così ambi­
zioso e superbo (550b).
TI ragazzo così descritto non è ancora il tipo umano che cerchia­
mo, l'incarnazione del desiderio sfrenato, ma ne è per così dire
l'antenato. Costui, infatti, crescerà ambizioso e superbo, ed un gior­
no sarà un uomo ed avrà un figlio. TI figlio comincerà dapprima ad
emulare il padre e a seguirne le orme (553a) , ma poi, quando vedrà
il padre "urtare come in uno scoglio contro lo Stato, e perdere nel
naufragio la sua roba e se stesso" , proverà paura (Bsicra.ç, 553b8):
suo padre è caduto in disgrazia dopo aver fatto da stratego o aver
ricoperto qualche altra importante carica, finendo poi in tribunale
per opera di sicofanti, o morto o bandito o privato dei diritti civili
(553 b). Sorpreso dall'evento nella sua esistenza "protetta" , il ragaz­
zo - dice Platone - proverà paura, ed allora accadrà che "dal trono
dell'anima sua" ruzzoleranno giù il desiderio degli onori e tutto
intero il thymoeides, ed egli, "abbassatosi per povertà al commer­
cio", comincerà tenacemente e lentamente a raccogliere ricchezze
lavorando. Tale stile di vita comporterà un nuovo cambiamento di
forze all'interno della sua anima: il potere del thymoeides, ereditato
dal padre, sarà sostituito da quello dell'epithymetikon, e questo,
salito sul trono della sua anima, sarà da lui trattato come un Gran
Re e avrà la tiara, i braccialetti e la scimitarra (533 c).
TI padre di questo ragazzo era un uomo timocratico, egli invece
incarna il tipo dell'uomo oligarchico, che tiene in conto soltanto il

93 È interessante notare che l'accusa di à.vavSpia è precisamente quella che il


cavallo nero rivolge continuamente all'auriga e al cavallo bianco quando questi si
rifiutano di cedere al desiderio d'amore (cfr. Phaedr. 254c8). Nel contesto di
Repubblica VIII, dunque, quest'accusa ha indubbiamente anche un significato
sessuale.
62 Lidia Palumbo

denaro e che, mancando completamente di educazione, comincia ad


ospitare presso di sé KTtc!JTJvcOOEtç &m8oJ.I.iaç, desideri "da fuco"
(554b7), passioni parassitarie, le une da pitocco e le altre da malfat­
tore (554b-c). Altri desideri, più malvagi, egli li tiene a freno "non
già persuadendoli come di cosa non buona né ammansendoli con la
ragione, ma con la necessità e la paura, temendo per il resto della
sua sostanza" (555a-d). Un tale uomo, dice Platone, è troppo avaro
per dare sfogo ai suoi desideri più malvagi, questi, infatti, costano
molto denaro, e dunque egli tenterà di soddisfarli solo di tanto in
tanto, quando potrà farlo con il denaro degli altri. Conserverà allora
l'aspetto di un lavoratore onesto, ma dentro di lui, nascosta, avrà
una pericolosa discordia.
Tale uomo economo e trafficante, per il quale Platone prova un
profondo disprezzo, è l'antenato più prossimo dell'uomo democra­
tico. La città in cui vive e che concorre egli stesso a costruire, infatti,
è una città nella quale chi detiene il potere non vuole frenare con la
legge gli scapestrati fra i giovani, proibendo loro di spendere e
rovinare le ricchezze di famiglia, perché ha un preciso interesse a
che ciò accada, potrà arricchirsi sempre di più, infatti, comprando
le sostanze di chi va in rovina, e proponendole poi sotto forma di
prestiti agli stessi a cui le ha sottratte. La storia di questi uomini
dimostra che è impossibile che si abbiano in pregio contemporanea­
mente la ricchezza e la temperanza, che "è forza trascurare o l'una
o l'altra cosa" (555c-d)94• Nelle strade di una città abitata dal genere
di uomini oligarchici, è necessario allora che si aggirino altri generi
di uomini, originariamente non ignobili, ora completamente rovinati
economicamente a causa della brama di ricchezze degli altri. Questi
uomini se ne staranno nella città "muniti di pungiglione e armati, gli
uni indebitati, gli altri notati d'infamia, gli altri ancora in entrambi
questi guai, odiando e insidiando coloro che hanno acquistato la
loro roba e gli altri tutti, vagheggiando nuovi rivolgimenti" (555d­
e). Gli affaristi "chini sul loro mestiere" non si accorgono, occupati
come sono solo ad accumulare denaro, che sta per scoppiare una
rivolta. I poveri, che per lo più sono giovani in buona salute, mentre

94 Si veda anche Leg. 742e: "è impossibile essere insieme molto ricco ed onesto,

è impossibile che lo siano quelli almeno che i molti scelgono come ricchi. Si dicono
in genere ricchi quei pochi uomini che hanno acquisito per sé proprietà di alto
valore in denaro".
Eros Phobos Epithymia 63

i ricchi sono grassi e pieni di affanni, ad un certo punto rovesceran­


no i rapporti di forza, e verrà instaurata la democrazia, nella quale
le cariche hanno luogo per sorteggio (556c-557a).
In questa costruzione della preistoria del tiranno, uomo epithyme­
tico, incarnazione del desiderio, Platone usa diversi registri espres­
sivi, alterna momenti semplicemente narrativi a vere e proprie "sce­
ne" dipinte con immagini verbali, scene di vita cittadina quotidiana
in cui si vedono, vivissimi, questi uomini disperati, una volta ricchi,
ed ora completamente rovinati, che se ne vanno in giro a meditare
vendetta, ad escogitare un mezzo per rovesciare la situazione poli­
tica che li inchioda all'umiliazione della povertà e dell'esclusione dal
potere e dal prestigio. Tra una scena e l'altra, sapientemente inserite,
incontriamo alcune frasi ricche di potenza ermeneutica, in grado di
fungere da didascalie delle scene appena descritte, oppure da intro­
duzione a quelle che ci si appresta a descrivere: la città democratica
- dice Platone ad un certo punto - è una città piena di libertà
(ÈÀ.EU9eptaç TÌ 1tOÀtç Jlf:G't'Tl, 557b4-5).
n lettore viene introdotto alla storia della città democratica con
questa affermazione sulla libertà, essa funge per così dire da vettura,
e conduce il lettore dove vuole l'Autore. Nella città democratica ­
dice Platone - si dice che ognuno abbia facoltà di fare ciò che vuole
(557b). "Come un abito variopinto e svariato d'ogni sorta di fiori",
allo stesso modo, questa forma di governo, per la sua varietà, per il
fatto di generare uomini di tutte le guise, può apparire bellissima"
(557c).
In una città così governata abiterà il figlio del nostro uomo
oligarchico, che a sua volta, come sappiamo, era figlio di un uomo
ti.mocratico. Egli sarà, all'inizio, simile a suo padre, teso cioè a
dominare "a forza i propri piaceri, quelli che sono spenderecci e
non utilitari, e che si chiamano non necessari" (558d).
A questo punto di questa singolare narrazione, Platone interrom­
pe il discorso per definire i desideri che sono necessari e distinguerli
da quelli che non lo sono (558d) e dice: "quelli che noi non siamo
in grado di stornare si potran giustamente chiamare necessari, e tutti
quelli che soddisfatti ci san di giovamento: entrambi questi tipi è
forza alla nostra natura il desiderarli" (558d-e). Giustamente (8ucal.roç)
allora applicheremo a loro questo termine, di necessario ( 't'Ò
avayKatOV, 559al). "Quelli invece che uno potrebbe allontanare,
ove sin da giovane si esercitasse, e che agiscono in noi per nulla di
buono, alcuni anzi al contrario, tutti questi non diremmo bene
64 Lidia Palumho

chiamandoli non necessari?"95 (559a). L'esempio di desiderio neces­


sario che viene riportato è quello di "mangiare pane e companatico
fino al limite della salute e del benessere" (559a-b). L'esempio di
desiderio non necessario, invece, è quello di chi ha appetito "oltre
che di questi, anche di altri cibi da questi diversi", tale appetito
sarebbe possibile, "frenandolo ed educandolo sin da giovani, elimi­
nare dalla più parte degli uomini", esso è "dannoso al corpo e
dannoso all'anima, agli effetti dell'intelligenza e della temperanza"
(559b). I desideri di questo tipo li si potrebbe giustamente chiamare
non necessari (oÙK àvayKal.a, 559cl).
Una volta stabilite le definizioni, il pensiero analizzante che giu­
dica del desiderio si interroga intomo alla collocazione degli
aphrodisia, dei piaceri venerei e si domanda: "quello che noi poco
fa chiamavamo fuco (cfr. 554b7 ), non era appunto questo, ripieno
di tali piaceri e appetiti, e governato dai non necessari?" (559c-d).
La digressione definitoria rivela subito la sua importanza ai fini
della comprensione del discorso che si andava facendo. L'attenzione
degli interlocutori viene di nuovo spostata sulla storia del giovane
figlio di padre oligarchico che, dopo avere ricevuto un'educazione
rozza e taccagna, un giorno, improvvisamente, gusta il miéle dei
fuchi, incontra "rutilanti e terribili fiere, capaci di procurare ogni
sorta di piaceri svariati e per tutti i gusti" (559d). Questo è il
momento dell� sua storia in cui egli si trasforma da oligarchico in
democratico. E un momento fortemente .conflittuale, perché in lui si
scontrano l'elemento oligarchico innato e l'elemento democratico
che viene dal di fuori. È interessante notare che, in queste analisi
etico-politiche dell'ultima parte della Repubblica, da fuori arriva
sempre qualcosa di negativo, o di più negativo, di ciò che invece
viene da dentro96• Così come dalla madre. In questa sorta di archetipi,

� Si vedano le precisazioni di P. Cosenza in Il piacere nellafilosofia greca, a cura

di P. Cosenza e R Laurenti, Napoli, Loffredo, 1993, p. 122.


96 1n realtà il rapporto tra il "dentro" e il "fuori" non può essere definito
semplicisticamente, assegnando al "dentro".una positività e al "fuori" una negatività,
o viceversa. I termini "dentro" e "fuori" diventano carichi di significato quando
sono usati per indicare un dentro nascosto e un fuori manifesto. Quando dentro si
nasconde qualcosa, allora il fuon·, che nasconde, è esteriorità ingannatrice, masche­
ra da rimuovere. Una volta rimosso l'inganno del fuori, che è l'inganno dell'appa­
renza, viene infatti portata alla luce la vera realtà di un ente, ed è questa operazione
di disvelamento, per la sua funzione veritativa, ad essere positiva. Talvolta, come
nel caso di queste analisi dell'ultima parte della Repubblica, il dentro è il luogo ove
Eros Phobos Epithymia 65

coniati da Platone con straordinaria efficacia narrativa, l'eredità


materna97 rappresenta anch'essa qualcosa di esterno, di meno pro­
prio per un individuo, di quanto invece non rappresenti il padre.
n giovane abitato dal conflitto - che è conflitto tra diverse costi�
tuzioni, educazioni, maniere di concepire la vita; abitato da un
conflitto che è tra interno ed esterno, desiderio e desiderio, padre e
madre - sarà in grado, la prima volta, grazie ad un certo pudore, di
"tornare a vita ordinata" (560a); ma poi, quando appetiti affini a
quelli cacciati torneranno alla carica, molti e gagliardi, non potrà
evitare che questi ultimi si impadroniscano della sua anima. Essa,
infatti, è completamente priva di quel discorso vero, coltivato con
l'educazione, che è l'unica sentinella di cui dispongano gli uomini
cari agli dei (560b).
In balìa del pericolo venuto dall'esterno - che si è fatto strada
grazie all'assenza di quelle difese che vengono dall'interno98, esposto
al nemico perché incapace di essere amico di se stesso - il nostro
uomo celebrerà la propria sconfitta credendola una vittoria e codi­
ficandola con l'accettazione di un nuovo vocabolario, che servirà a
sancire il linguaggio dell'avvenuta rivoluzione.
Secondo questo nuovo vocabolario, il pudore (aioroç) si chiama

si custodisce un'educazione patema sempre migliore di quella dis-educazione che


viene da fuori, da una città mal governata, ed allora il dentro viene presentato come
qualcosa di incommensurabilmente migliore del fuori, qualcosa da custoqrre e
proteggere.
'71 Cfr. C. MoNTEPAONE, Lo spazio del margine. Prospettive sul femminile nella

comunità antica, Roma, Donzelli, 1999, p. 235: "anche per Platone, la donna non
viene presa in esame per ciò che è o potrebbe essere in sé, ma all'interno di
relazioni che formano la propria identità. Moglie, madre, figlia, sorella sono le
tradizionali relazioni 'familiari', a cui corrispondono determinate funzioni e diritti
nell'ambito domestico. In esse la differenza rispetto ai ruoli maschili non è di
grado, ma qualitativa ed è colta da Platone nel suo fondamento riproduttivo,
familiare, che emerge dall'irriducibile differenza tra il partorire e il fecondare (Resp.
454 d-e)". Ma, aggiunge l'Autrice, "sono'proprio questo fondamento e la differenza
da cui emerge, che Platone intende negare nel nome di una prospettiva più ampia,
politica. La prospettiva di uno stato che riposi interamente su se stesso e non sulle
stratificazioni genetiche secondo cui storicamente si è concretato".
98 La prospettiva platonica che emerge da queste pagine, in cui molto accurata

è la corrispondenza tra l'anima e la città (che rappresentano non soltanto la prima


un "dentro" e la seconda un "fuori", ma ciascuna di esse un "dentro" e un "fuori")
è che la negatività del "fuori" può aver libero accesso al "dentro" - al "dentro"
politico come a quello psichico - soltanto quando trova "dentro" un alleato.
66 Lidia Palumbo

stoltezza {ifÀ.t9t6·nJç), la temperanza (crro�pocruvll) viltà (à.va.vopl.a.)99,


le spese ordinate e la moderazione (J.1&-rpt6'tllç oÈ Ka.Ì KOO"J.lta. oa.miv11)
rozzezza ed illiberalità (à.ypotKta. Ka.Ì à.vsÀ&u9&pia.) (560d). Ed anco­
ra, a sottolineare l'importanza che hanno le parole nei rivolgimenti
delle cose, Platone dice che costoro chiamano la ul3ptç buona edu­
cazione (sÙ7ta.tOsucr1a.), l'à.va.pxl.a. libertà, la dissolutezza (à.crro'tta.)
magnificenza (J.1&ya.Ào7tpÉ7tEta.), l'impudenza (à.va.l.osta.) coraggio
(à.vopsia.) (560e-561a) ; il disordine (7ta.pa.voJ.ll.a.) libertà (f:uu9spl.a.,
572el) .
Questi dunque i costumi della città i n cui vive il nostro giovane.
A poco a poco, con il procedere dell'età, egli comincia ad assumere
un modo di vita che prevede un commercio egualitario con tutti i
tipi di piaceri: messili tutti sullo stesso piano, nello stesso modo in
cui .nella città democratica in cui vive sono trattati tutti gli uomini,
egli si dedicherà "a quello che di volta in volta gli capita, sino a
saziarsene, e poi a un altro, senza nessuno spregiare, ma coltivandoli
anzi alla pari" (561b).
Con l'uomo egualitario, causa e ad un tempo effetto della città in
cui vive, non siamo ancora all'incarnazione del desiderio sfrenato,
ma a quel punto della storia che immediatamente precede tale iDear­
nazione. Essa infatti si identifica con l'uomo tirannico.
Gli interlocutori del dialogo, a questo punto, sottolineano che è
molto simile il modo in cui dalla oligarchia nasce la democrazia e
dalla democrazia la tirannide (562a-b)100• Questo "modo molto simi­
le" è il modo dell'insaziabilità, l'insaziabilità di ricchezza nel caso
dell'oligarchi�, l'insaziabilità di libertà nel caso della democrazia.
"Ciò che io stavo per domandare" - dice Socrate - è proprio

99 Abbiamo incontrato questo termine almeno altre due volte (una prima volta

in Phaedr. 254c8, ed un'altra in Resp. 549d7), ed in entrambi i casi si trattava di


temperanza che veniva scambiata per àvavapla. Ciò dimostra la pregnanza, nella
prospettiva platonica, di un dato che sembrava invece paradossale quando veniva
presentato nd secondo libro della Repubblica (cfr. Resp. 362a-367 c) e cioè che allo
statuto antologico della virtù appartiene necessariamente il sùo apparire il contrario
di ciò che è: più una virtù è pura, più è grande la possibilità che essa appaia un
vizio. Così come, naturalmente, è vero l'inverso: più un uomo è vizioso, più grande
sarà la sua cura di apparire virtuoso. Sul rapporto di inversa proporzionalità tra
l'essere e l'apparire in qud contesto, c&. L. PALUMBO, "Soggettività" e "oggettività"
nel discorso introduttivo della Repubblica di Platone, cit., pp. 80-85.
100
Cfr. P. CoBY, Socrates on the decline and fa/l o/ regimes. Books 8 and 9 o/ the
Republic, in "Interpretation", XXI (1993-94), pp. 15-39.
Eros Phobos Epithymia 67

questo. Non sarà proprio l'insaziabilità della libertà e l'incuranza


degli altri beni a mutare questa costituzione, e a far sì che abbia
bisogno della tirannide? In una democrazia colma di libertà i padri
si fanno simili ai figli e i figli simili ai padri. Nessuno di essi ha più
né paura né vergogna dei genitori (562e). n meteco diventa uguale
al cittadino, il cittadino uguale allo straniero. n maestro accarezza
gli scolari e questi se ne infischiano del maestro. I giovani sono alla
pari dei vecchi e i vecchi, per non sembrare autoritari, si riempiono
di giocosità e piacevolezza (563a-b). Soprattutto, in una tale città,
saranno ugualmente liberi gli schiavi e quelli che non lo sono (563b),
gli uomini e le donne (563b-c), le persone e gli animali.
Quando le cose sono piene di libertà non si sopporta più il
benché minimo briciolo di schiavitù, e dunque neanche quella ser­
vitù che si suole conservare nei confronti delle leggi (562c-563e).
La descrizione dello stato delle cosenel regime democratico viene
giudicata sufficiente; si passa perciò ad enunciare un principio di
carattere generale: "lo spingere all'eccesso qualsiasi cosa - dice Pla­
tone - suole produrre per converso un gran mutamento nel senso
opposto, nelle stagioni nelle piante e nei corpi, e non meno nei
regimi politici" (Ka.Ì 'tctl ovn 'tÒ aya.v n 1t0tÉÌ.V J..U>"YMTtV $tA..st sÌ.ç
'tOÙV<X.V'tlOV JlE"ta.poJ.:tìv aV"ta1t08tB0va.t, Ì::V ropatç 'tE Ka.Ì Èv $motç K<lÌ
ÈV O"cOJ.l<lO"tV, K<lÌ 81Ì K<lÌ Èv 1tOÀt"tEtatç OÙX llKtO"'t<l, 563e9-564al).
Questa enunciazione svolge, nel testo di Platone, lo stesso ruolo che
svolgeva l'affermazione sulla libertà a pagina 557. Lì, per condurre il
lettore alla comprensione della democrazia, Platone aveva scelto, a
mo' di vettura, la nozione di ÈÀsu9spl.a; ora, per condurlo alla com­
prensione della tirannide, sceglie un'altra nozione, quella di eccesso.
Poiché "l'eccesso della libertà (ti à..yav ÈÀsu8sp1.a) 1°1 in nient'altro
si converte se non nell'eccesso della schiavitù (O.yav 8ouÀsiav
JlEmpaÀÀstv, 564a3 -4) ", dalla democrazia nascerà la tirannide che è
la massima e la più feroce delle schiavitù (564a). L'uomo democra­
tico che si trasformerà in tiranno, determinando la trasformazione in
tirannide dell'intera città è l'uomo che cercavamo, quello che, tra gli
infiniti tipi umani possibili, è stato scelto da Platone per rappresen-

101
C&. ] .. CHANTEUR, Platon, le désir et la dté, Paris, Editions Sirey, 1980, p. 37:
"L'anarchie est, si l'on peut s'exprimer ainsi, la forme politique logique qui
correspond à l'affirmation pure et simple de l'f:rnBu!!ia: anarchie politique, anarchie
en chaque homme, sauf en celui, exceptionnel, qui est 'doué d'une nature

extraordinaire'" ..
68 Lidia Palumbo

tare il simbolo del desiderio sfrenato, dell'epithymia allo stato puro.


Esso, secondo l'analisi platonica di queste pagine, è colui che si
mette a capo (o 7tpocrtatlJç) del popolo in rivolta. Ed il principio
della sua evoluzione da capopopolo a tiranno (J.1EtaJ3o).:iìç ÈK 1tocrtatou
È1tÌ tupavvov, 565d4) avrà luogo quando costui comincerà a fare ciò
che si dice in quel mito che si racconta sul Santuario di Zeus Liceo
in Arcadia (565d).
_ A partire da questo momento, il testo platonico cambia per così
dire le sue caratteristiche cromatiche: si fa tetro, cupo, spaventoso,
e in tutto il seguito della trattazione prediligerà il riferimento a
particolari macabri. Ciò accade perché, a partire da questo momen­
to, ciò che leggiamo altro non è che la descrizione emotivamente
colorata della natura di un'emozione, delle condizioni in cui essa
nasce, delle situazioni che determina. L'emozione è descritta per
così dire allo stato puro, la si guarda quando essa è solo se st�ssa:
non è nascosta, non è travestita, non è mescolata con altro. E se
stessa portata all'eccesso, anzi è essa stessa l'eccesso, e rende ecces­
sivo tutto ciò che tocca.
Secondo il rnito102 di cui parla Platone in questo testo, chi ha
gustato viscere umane, tagliate e frammiste a quelle di altre vittime, è
necessario che diventi un lupo (565d-e). "E così chi, messo a capo del
popolo, e disponendo di una assai docile folla, non si astenga dal
sangue dei concittadini, ma -accusando ingiustamente come soglion
fare, e traendo l'avversario in tribunale, si lordi di sangue distruggen­
do la vita di un uomo, e gustato che abbia con l'empia lingua e bocca
il sangue della stessa sua razza, cacci in esilio e ammazzi, e proclami
cancellazioni di debiti e divisioni di terre, forse che non è necessario
e fatale dopo ciò per un essere siffatto o di cadere ucciso dai nemici
o di farsi tiranno, e diventare da uomo lupo?" (565e-566a).
n tiranno è un uomo violento, destinato ad una morte violenta,
ma ciò che fa di lui l'incarnazione dell'emozione più sfrenata che gli
esseri umani conoscano è quella serie di connotazioni che il testo gli
attribuisce per così dire nascostamente.
Ciò che accade ad un uomo quando si trasforma in tiranno è
qualcosa che non si racconta in modo diretto, ma per mezzo di un
mito. Questa notazione ci riporta a quanto osservavamo sopra, quan-

102
Nel riferirsi a questa "storia", Platone usa, una prima volta, in 565d6, il
termine J.1u9oç, una seconda volta, in 565el, il te�e Àoyoç.
Eros Phobos Epithymia 69

do dicevamo che il pensiero descrittivo ricorre all'immagine e al


paragone quando ha a che fare con qualcosa che a rigore non si
spiega ma si sente. Ciò che viene comunicato in questo caso, attra­
verso il ricorso al mito, non è infatti un dato, ma una sensazione,
innanzitutto una sensazione di orrore, legata alle immagini macabre
del pasto cannibalistico responsabile della metamorfosi dell'uomo in
lupo, ed in secondo luogo una sensazione di pericolo. Pericoloso
per gli altri, il tiranno è in pericolo egli stesso, i suoi nemici, infatti,
dice Platone, "se sono incapaci di cacciarlo o di farlo morire accu­
sandolo presso lo stato, allora macchineranno di ucciderlo di nasco­
sto con una morte violenta" (566b).
Qui incontriamo un'altra caratteristica tipica dell'emozione, anzi
di quella parte dell'emozione che è il pensiero implicito in essa, il
pensiero emozionale. Tale forma di pensiero, come abbiamo visto,
ha la caratteristica di assimilare soggetto e oggetto: l'amato, dice
Platone nel Fedro, "nell'amante vede se stesso come in uno spec­
chio" , e lo specchio è la metafora che meglio si presta ad esprimere
quella sorta di proiezione dell'osservatore sull'oggetto osservato103,
che fa sì che il mondo guardato da una persona triste è triste e da
una persona allegra è allegro. Lo sguardo di un osservatore, se è uno
sguardo emotivamente colorato, assimila a sé l'oggetto osservato. n
tiranno è descritto come un pericolo ma, ad un certo punto della
descrizione, il pericolo avvolge il tiranno stesso, perché esso è spa­
ventoso e contemporaneamente, come dirà esplicitamente Platone
più avanti, muore di paura104• L'emozione della paura è la vera

103
Un altro esempio di pensiero emozionale che tende all'assimilazione tra
soggetto e oggetto, in Leg. 865d-e. Si parla di antiche favole di paura, secondo le
quali l'uomo ucciso di morte violenta, se abbia vissuto con la fiera coscienza di
essere libero, appena morto monta in collera contro il suo uccisore e, poiché egli
stesso è pieno di paura e di terrore per la violenza subita, nel vedere il suo omicida
aggirarsi nei luoghi già a lui un tempo familiari, si spaventa e sconvolto sconvolge
l'uccisore, 11,1.i e tutte le sue azioni, quanto più può, e trova come alleata la memoria.
Sul "gioco degli specchi" della paura cfr. A. OLIVERIO FERRARIS, Paure individua!t;
paure collettive. Aspetti psicologici, antropologici e storici, in Stona e paure. Imma­
ginario collettivo, riti e rappresentazioni della paura in età moderna, a cura- di L.
Guidi, M.R Pelizzari, L. Valenzi, pp. 17-29, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 27.
J0-1 Sull'argomento dr. L. PALUMBO, Platone e la paura, in Il dibattito etico e

politico in Grecia tra il V e il N secolo, a cura di M. Migliori, Napoli, La città del


sole, 2000, pp. 283-304, p. 301; si veda anche D. PASINI, Tirannide e paura in
Platone, Seno/onte e Aristotele, Napoli, Jovene, 1975, p. 181.
70 Lidia Palumbo

protagonista dell'intero passo dedicato alla descrizione della genesi


del tiranno : per paura del tiranno, i suoi nemici tentano di ucciderlo
(566b); per paura di questi nemici, il tiranno chiede al popolo che
gli vengano concesse le guardie del corpo (566b); per paura, il
popolo gliele concede (566b); ed una volta commesso questo errore
fatale avrà esso stesso, il popolo, paura del tiranno, ed il tiranno
stesso paura del popolo.
A mostrare la difficoltà di descrivere con un normale registro
narrativo la situazione determinata dal potere del tiranno, stanno, a
brevissima distanza l'una dall'altra, due citazioni che si incollano sul
testo platonico senza amalgamarsi con esso. La prima è in 566c, e
riguarda l'ipotesi di un ricco che con le . sue ricchezze abbia guada­
gnato l'accusa di essere un nemico del popolo. Costui, dice Socrate,
"secondo il vaticino fatto a Creso

verso l'Ermo ghiaioso


fugge senza ristar né ha vergogna d'esser vile".

Ed è Adimanto a completare l'immagine affermando: "un'altra


volta, infatti, non avrebbe più possibilità di vergognarsi".
Ciò accade - aggiunge Socrate preparando una nuova citazione,
questa volta dall'Iliade105 - perché il capopopolo non già si giace

"grande e lungo disteso"

ma, buttati lui giù molti altri, si sta ritto sul carro della città (Èv •cf�
8l.�pq1 •iìç 7tOÀ.f:ffiç, 566d2)106, divenuto invece di capopolo perfetto
tiranno (566c-d).
TI tiranno, dice Platone, all'inizio nega di essere tiranno, affetta di
essere con tutti benigno e mite, e fa grandi promesse in pubblico e
in privato (566d-e). In realtà, invece, ha un marcato interesse a
mantenere sempre viva la guerra, perché la guerra obbliga il popolo
ad avere un capo, e a finanziarne le attività belliche. Egli vuole che
diventino tutti poveri, perché la povertà rende gli uomini meno

10� Cfr. XVI, 776, ove si dice dell'auriga Cebrione cadut� già morto dal carro.
1 06 'O Si�poç è la parte del cocchio che portava l'auriga. E evidente il parallelo
con il carro dell'anima di cui si parla nel Fedro. Qui però si tratta di Wl carro
psichico che non è guidato da un auriga, ma - stando alla metafora del Fedro - dal
cavallo nero.
Eros Phobos Epithymia 71

pericolosi per lui, e non esita a consegnare a l nemico chiunque sia


sospettato tramare contro di lui (567a).
A poco a poco, intorno al tiranno si crea un deserto di morte: i
suoi amici, quelli che lo hanno aiutato a prendere il potere, ad un
certo punto lo rimproverano per le sue azioni, ed allora il tiranno li
elimina, e poi elimina chiunque altro sia intelligente e ricco (567b­
c) : la sua azione è opposta (-ròv Èvav-ri.ov) a quella che fanno i
medici; questi infatti, quando operano, portano via il male (oi JlÈV
yàp 'tÒ XElplO"'tOV Ò:fjlatpOUV'tEç) e lasciano ciò che è positivo (A.ebtOUO"l
-rò j3ÉA.ncr-rov) per il corpo, quello invece il contrario (6 BÈ -roùvav-rl.ov,
567c5-7).
Un'altra sua caratteristica è dunque quella di nascondere la sua
identità, di insinuarsi sotto mentite spoglie107 nel cuore della città e
di tramare di nascosto contro la sua salute. In questo si comporta
come una malattia, o forse come una droga, che nasconde la sua
natura di veleno sotto un aspetto invitante, ma che, appena assunta,
indebolisce il corpo, lo priva delle sue forze vitali, impegnandolo in
uno sforzo che serva soltanto a stornare il pericolo che il corpo le
si rivolti contro. Ed anche in questo suo somigliare ad una droga, ad
una malattia, il tiranno rivela di essere l'incarnazione di un'emozio­
ne, un'emozione fatale per un vivente mortale.
Privo di amici, il tiranno si circonderà di Bopufjlopot (567d6), di
"portatori di lancia" , di guardie del corpo prezzolate, e avrà bisogno
che questi siano numerosissimi, dati i nemici da cui deve difendersi.
Tali "satelliti" formeranno la forza armata del tiranno "bella e nu­
merosa, variopinta e sempre cangiante" (568d), e per mantenerla
egli attingerà alle ricchezze sacre della città, e poi imporrà sempre
maggiori tributi, e quando il popolo si ribellerà, accadrà una cosa
terribile.
La cosa terribile che ad un certo punto accade al popolo è quella
di capire. Finora esso soffriva, temeva, si impoveriva, ma non capi­
va: prima viveva l'illusione di avere un capo, poi una lenta disillu-

107 Come scrive Rotondaro, "il difficile compito da affrontare è quello di sfatare

le apparenze con cui il tiranno si mostra agli altri, screditando le false opinioni che
gli altri hanno di lui e lui di se stesso. La strada scelta è quella della riduzione del
tiranno a simulacro, apparenza che si spaccia per realtà. Platone la p�rcorre giun­
gendo a dimostrare che tutto ciò che il tiranno esibisce è solo un'immagine illusoria
del suo vero essere: irreale è la sua felicità, non veri sono i suoi piaceri, fittizia è
la sua potenza" (cfr. S. RoTONDARO, Il sogno in Platone cit., pp. 120-121).
72 Lidia Palumbo

sione; ora, improvvisamente, comprende di avere generato un terri­


bile nemico, un nemico mortale. Di averlo generato, e contempora­
neamente di averlo ancora dentro di sé. Madre e ad un tempo padre
del tiranno, "il popolo - dice Adimanto - conoscerà che razza di
animale ha generato, accarezzato e cresciuto, e che lui più debole
pretende di cacciare dei più forti" {569a-b). "Oserà il tiranno far
violenza al padre - gli domanda Socrate - e percuoterlo se non gli
obbedisce? " {569b). E naturalmente la risposta è che oserà farlo,
perché non c'è nulla, tra le cose più abiette, che un tiranno non osi
fare per garantirsi il potere e la sopravvivenza108•
Platone fornisce indicazioni ancora più preziose sulla natura del­
l'emozione mortale incarnata dal tiranno quando si propone - come
fa nel libro successivo della Repubblica - di esaminare {OKÉ'Vacreat)
l'uomo tirannico {Ò wpaVVtKÒç avt1p, 571al): "quale è e in che
modo vive" {mit6ç ·d.ç Ècrnv KaÌ. ·d.va -rp67tov çij, 571a2-3 ) .
L'analisi che segue questa dichiarazione programmatica è parti­
colarmente interessante, perché in un certo senso non è un'analisi,
ma un affresco, o forse una rappresentazione multidimensionale, a
tinte forti, costruita con immagini verbali, che presenta un oggetto
in movimento e lo presenta guardandolo da più prospettive, com­
presa quella dalla quale il soggetto di tale rappresentazione guarda
a se stesso.
L'approccio all'argomento è immediato: ciò di cui si parlerà è -rò
-rffiv i:meu,.uffiv, "quanto riguarda i desideri", {571a7) "quanti e quali
essi siano" {oiai. -rs KaÌ. 8crat Eicri.v, 571a7); finché non si parla di
questo, infatti - dice Platone - "non chiara {acracjlscr-rÉpa, 571a8)
sarà la ricerca di ciò che cerchiamo" {ti l;;t1-r'lcrtç où l;;T]'tOUJ.ISV, 571bl).
Tra i desideri e i piaceri che non sono necessari ve ne sono alcuni
che sono 7tUpUVOJ.Iot, illegittimi {571b5)1°9• fl loro giusto destino è di
essere soppressi110 dalla legge e dalla ragione. Talvolta in questo

108 Cfr. anche Leggi 714a: "se un uomo solo o un gruppo di oligarchi o anche
una democrazia hanno un'anima che tende ai piaceri e ai desideri e ne cerca con
avidità riempimento e nulla sa trattenere ed è posseduta da un male insanabile e
senza fine, e gente così verrà a governare uno stato o anche un solo individuo
calpestando le leggi, allora, come or ora si diceva, non c'è via di salvezza".
109 Su questo passo c&. E. VEGLERIS, Platone e il sogno della notte, in Il sogno
in Grecia a cura di G. Guidorizzi, Bari, Laterza 1988, pp. 103-120, pp. 108-110.
110 ll verbo che usa Platone è KOAai;Cil che significa "mutilare", "recidere" e che
- quando viene usato a proposito delle bn9u!-lio.t - viene normalmente tradotto con
Eros Phobos Epithymia 73

modo essi scompaiono del tutto, talvolta, invece, quando sono più
forti e numerosi, essi permangono.
Questa prima presentazione dell'argomento è fatta secondo la
prospettiva del logistikon. Esso, infatti, come abbiamo visto più
sopra, è fondamentalmente capacità di analisi: dire che esistono
desideri necessari e desideri non necessari, che tra questi ultimi è
possibile individuare quelli illegittimi, è precisamente il modo di
procedere di quell'elemento dell'anima che distingue e discerne, e
così facendo giudica secondo il valore degli enti. Tale prospettiva
anatomizzante, per così dire, non è però, come vedremo, l'unica
usata da Platone nel presentare i desideri 1tapci.voJ.L01.
Essi si collocano nel mondo negativo di ciò che è altro dalla
ragione e dalla leggem, e condividono con tutti gli elementi di tale
mondo un destino diverso da quello della normalità. Ed esiste tutto
un vocabolario, per così dire rovesciato, fatto di opposizioni e di
mancanze, di significati che sono in parte speculari rispetto a quelli
della normalità, che descrive gli elementi di questo mondo capovol­
to: i desideri illegittimi si destano (èyetpoJ.LÉvaç, 571c3) m:pì -ròv
u1tvov, durante il sonno, quando ciò che vi è di bestiale e di selvag­
gio in ogni uomo 01Ctp-r�, "salta su " 1 12 e, pieno di cibo e di ebbrezza,
cerca di sfogare i propri istinti113•
La scena della rappresentazione è doppia: da un lato vi è il
ÀoytCJ'ttKOV che dorme, e COn lui dorme fiJ.LEpOV KaÌ apx;ov ÈKEtVOU
(571c4-5), vale a dire ciò che in un uomo è in grado di dominare;
dall'altro lato, sveglio proprio perché quello dorme, vi è l'elemento
ferino e selvaggio che, libero da ogni aicrx;uv11 e da ogni <jlp6v11mç,
"osa qualsiasi cosa" (7tci.vm -roÀJl� 1tote'ì.v, 57 1c7-8). E lo fa senza
indugio.
La caratteristica primaria di questo elemento bestiale è quella di
essere capace di tutto, senza frapporre nessun tempo tra il momento

"moderare" (cfr. Gorg. 491). n verbo ha anche un significato legato all'educazione:


"punire", "castigare", "infliggere una pena" (cfr. Leg. 784).
111
È fondamentale, nell'universo platonico, l'identità tra ragione e legge: essa è­
stata stabilita nella corrispondenza tra anima e città nel quarto libro della Repub­
blica e viene sempre ribadita, fino alle Leggi.
112
n verbo è quello usato da Euripide nelle Baccanti. 'O :EKip-roç è il satira,
"colui che salta", il ministro di Dioniso.
113 'A
7tOmJ..l7tÀaro: è uno dei verbi legati all'orizzonte delle i:m9UJ.1Lal, significa
appunto "soddisfare", "appagare" i desideri.
74 Lidia Palumbo

del desiderio e quello dell'appagamento. OùoÈv ÒKvs'ì, dice Platone,


che significa contemporaneamente "non esita, non indugia affatto"
e "non teme nulla" (57 1dl}. Si tratta di una notazione importante.
La capacità di differire nel tempo un desiderio è stata infatti consi­
derata già nel libro quarto caratteristica del A.oytcntKOV. n desiderio,
nella sua più intima natura, invece, non conosce indugi, perché non
ha a che vedere con il tempo. n tempo è una categoria dell'elemento
che distingue e collega, che stabilisce relazioni e dis-corre; è in gioco
il tempo quando si valuta l'opportunità, quando si getta un ponte
tra cose differenti o si scava un abisso tra cose che sembrano somi­
glianti, quando cioè si gestiscono le distanze che esistono tra gli enti;
ma nel desiderio, in un certo senso, non c'è tempo, perché non ci
sono distanze. n desiderio immagina il piacere perverso dell'ince­
sto114 ed immediatamente lo appaga, e così quello dell'omicidio,
·
ed
ogni altra dissennatezza ed impudenza (57 1d) .
Questa notazione si rivela importantissima ai fini della compren­
sione del discorso platonico sulla natura dell'emozione. Come ab­
biamo già avuto modo di osservare, il pensiero implicito nell'emo­
zione è un pensiero diverso, profondamente diverso da quello del
A.oytcrnKov, e tale profonda differenza è innanzitutto nella valutazio­
ne del tempo. n pensiero, attività analizzante e collegante, è qualco­
sa di temporale, l'emozione, invece, dura il non-tempo di un istan­
tem e ciò accade perché l'emozione, a differenza del pensiero, non
ha parti, ma è qualcosa di monolitico che si prova, si sente, si
sperimenta e non si può, a rigore, spiegare.
Quando la si spiega la si riveste di pensiero, ed allora essa perde
la sua natura arazionale. Ciò che è interessante è il fatto che Platone
prova a rappresentare il dèsiderio non soltanto spiegandolo dal

11�
Per la posizione di Platone sull'incesto cfr. Leg. 838a sgg. Sul divieto dell'in­
cesto nella cultura greca dr. E.R Dooos, I Gred e l'Irrazionale, eit., p. 227 e n. 2.
Sui rapporti tra Freud e Platone cfr. tra l'altro L. PALUMBO, Platone e la paura, ci.t.,
p. 297 n. 37; S. RoTONDARO, Il sogno in Platone, cit., p. 123 n. 7, pp. 128-129 n.
10; M. STELLA, Freud e la Repubblica: l'antina, la sodetà, la gerarchia, in PLATONE,
La Repubblica. Traduzione e commento di M. Vegetti, cit., pp. 287-336; G. SANTAS,
op. dt., p. 224.
m Sulla natura dell'istante cfr. G. CASERTANO, L'istante: un tempo fuori del

tempo, secondo Platone, in Filosofia del tempo, a cura di L. Ruggiu, Milano, Bruno
Mondadori, 1998, pp. 3-11. Si veda anche L. PALUMBO, Struttura narrativa e tempo
nel Teeteto, in La struttura del dialogo platonico, cit., pp. 225-237, pp. 236-237.
Eros Phobos Epithymia 75

punto di vista della ragione analizzante, ma anche dal punto di vista


del desiderio stesso, ed allora costruisce un testo paratattico, in cui
esso viene presentato contemporaneamente desiderare i propri og­
getti e realizzarli. Ed in questo testo singolare viene sottolineata
proprio questa caratteristica fondamentale dell'emozione, di essere,
_per così dire, al di là del tempo. Non soltanto di avere una temporalità
tutta sua, rovesciata rispetto a quella della ragione (il desiderio si
sveglia quando la razionalità dorme), ma in un certo senso di essere
priva della possibilità di una misurazione temporale.
Tale specie di desideri, terribile selvaggia sfrenata - dice Platone
- è in ognuno di noi, anche in quelli di noi che sembrano del tutto
moderati, e ciò si manifesta nel sonno. Collocare nella dimensione
del sonno la specie dei desideri illegittimi è un altro espediente
adottato da Platone per alludere al mondo altro di questo tipo di
emozioni, un mondo diverso rispetto a quello diurno della veglia e
della ragione, del tempo e della misura, della forma e della distanza.
In questo mondo valgono leggi diverse da quelle normaliu6 e non è
vero che non c'è alcuna legge, né è vero che le sue leggi sono
precisamente il riflesso speculare, inverso, di quelle del mondo della
ragione. Per decodificare questo mondo, è necessario acquisire un
nuovo linguaggio e Platone fornisce indicazioni al riguardo. Qui i
nomi delle cose sono diversi: quello che normalmente si chiama
disordine (7tapavoJlta, 572el) in questo mondo si chiama libertà
(èM:u8Epta, 572el); la libertà non è il contrario del disordine, si
lascerebbe sfuggire il senso del mondo dell'epithymia chi lo credesse
contrario al mondo del logistikon. Due termini contrari, infatti, sono
in certo modo soggetti alle stesse leggi. Si tratta piuttosto di un
mondo altro, di un punto di vista diverso sulla natura delle cose, per
comprendere il quale si deve sì pensare ad una sorta di rovesciamen­
to del mondo normale. Ma tale operazione ermeneutica non basta.
Anche la mancanza di simmetria che esiste tra razionalità e irrazio­
nalità nell'anima, per cui ad un elemento razionale corrispondono

116 L'
approccio descrittivo - scrive Vegleris - cede così il posto a una vera e
propria psicologia del profondo, che indaga le cause generatrici del sogno e nello
stesso tempo le dinamiche che lo organizzano. In questa nuova prospettiva le
immagini non sono più considerate in rapporto alle cose esteriori a cui assomiglia­
no, bensì in relazione al substrato irrazionale dell'anima. Perciò l'analisi psicologica
del sogno notturno presenta quest'ultimo non in termini di immagini ma in termini
di tendenze (cfr. E. VEGLERIS, op. cit., p. 108).
76 Lidia Palumbo

due elementi irrazionali, diversi tra loro, ci consente di comprendere


che il rapporto non è quello semplice della contrarietà, ma quello
variegato e complesso della differenza. Platone si propone di com­
prendere questa differenza, di esplicarla con lo strumento dell'im­
maginazione, che è l'unico strumento di cui disponiamo per indaga­
re il mondo delle emozioni senza snaturarlo del tutto con un'analisi
razionale. Egli immagina quello che accade all'interno dell'animo di
quel ragazzo che diventerà un tiranno. n gruppo dei "desideri
moderati" , che ha nel padre del ragazzo, uomo economo, un alleato
esterno (572e), si scontra con il gruppo dei desideri sfrenati, che ha
all'esterno, per alleati, "uomini raffinati" , pieni di desideri non ne­
cessari (572c). La lotta così strutturata sarebbe eterna se non acca­
desse ad un certo punto un fatto nuovo, in grado di rovesciare le
sorti di quell'equilibrio democratico che provvisoriamente regna
nell'animo dell'uomo condannato ad un ben più atroce destino:
"quando questi terribili maghi e fabbricatori di tiranni - scrive
Platone - non abbiano più altra speranza di rendersi padroni del
giovane, gli ordiscono e gli insinuano nell'animo un amore che si
metta a capo dei desideri oziosi e distributori di ricchezze, un gran­
de e alato fuco" (572e-573a).
È una mossa fatale. Nello scenario della psyche in guerra, impe­
gnata nella più difficile delle guerre intestine, quella che l'Ateniese
delle Leggi definisce "quella guerra che sorge all'interno, quella guer­
ra che ognuno vorrebbe che mai sorgesse nel proprio stato, o che,
una volta sorta, fosse cacciata al più presto"117, questa è la mossa del
nernic9 che determina la disfatta. Ciò che accade a questo punto è
descritto da Platone con un linguaggio immaginifico che non attinge
a nessuno dei registri descrittivi usuali, ma piuttosto a quello della
favola, del mito, del racconto simbolico: "or quando gli altri desideri
ronzantigli (PoJ.l.Poi3crat)118 attorno, pieni di aromi e unguenti e coro­
ne e vino, e dei rilassati piaceri che hanno luogo in tali compagnie,
fomentandole e alimentandole all'estremo, infiggano a questo fuco il
pungolo del desiderio, allora questo capopopolo dell'anima si fa
scortare dai satelliti della pazzia, e infuria, e se trova in quell'uomo

117
Cfr. Leg. 628b e supra.
118
Lo stesso verbo è usato da Platone nella descrizione di un'assemblea che
avviene sotto un governo democratico: a l'elemento più acuto - egli dice - parla ed
agisce, e il restante seduto attorno alle tribune ronza (PoJJPéì) e non tollera chi parli
altrimenti" (Resp. 564d).
Eros Phobos Epithymia 17

delle opinioni o desideri tenuti per buoni e ancora capaci di pudore,


li ammazza e li caccia fuori da lui, sino a che non lo purghi di
saggezza, e non lo riempia di importata pazzia" (573a-b).
La scena della disfatta è "disegnata" con estrema cura, ed è non
soltanto visiva, ma coinvolge per così dire tutti gli altri sensi del
lettore, che sente il "ronzio" dei desideri, il profumo degli unguenti
e degli aromi, il sapore inebriante del vino, la sensazione rilassata
del piacere lascivo, e poi la puntura del desiderio furioso, e quella
sorta di sgomento con cui si assiste ad una scena di follia.
L'uomo tirannico nasce quando nella sua anima arriva Eros, che
fin dall'antichità (miì..cu, 573b6) è detto infatti tupa.vvoç. Subito
dopo aver affermato questa identificazione tra Eros e tirannia, Socrate
procede a detenninare altre due identificazioni, quella con l'ubria­
chezza e quella con la pazzia. E giunge ad una definizione: "tiran­
nico dunque, o egregio amico" 119, diss'io, diventa precisamente un
uomo quando o per natura ($uau) o per abitudini (t7tt"tTJ8tuJ..La.cnv)120
o per entrambi questi moventi (ci:J..L$o-rÉpotç) sia soggetto all'ebbrez­
za, all'amore o alla pazzia (J..Le8ucrtuc6ç -re Ka.Ì ÈpontKÒç KaÌ
J...lf:À.UYXOÀ.tKÒç yÉVT]"tU1, 573c9).
La "scena" seguente, nel discorso platonico fatto di immagini
verbali, si svolge per così dire su due piani, che però sono identici,
nel senso che presentano la stessa scena: un primo piano è il luogo
in cui vive il tiranno, o meglio, una sintesi dei luoghi in cui ama
trattenersi; un altro piano, invece, è l'interno dell'anima governata da
Eros tiranno: è in atto una festa, anzi tante feste e bagordi e baldorie,
vi sono etère "e tutte le cose simili" (-.à -rota.(ha. miv-ra., 573d4).
L'approssimazione di questa espressione indeterminata e, a rigore,
incomprensibile, fa pensare alla descrizione di una scena onirica, ove
possono comparire non soltanto personaggi determinati, ma anche,
insieme a questi, moltitudini indefinite, di cui si danno solo le carat­
teristiche generali, figure che servono a dare il tono ad un ambiente,
a renderlo, pur nell'approssimazione, chiaramente riconoscibile. Que­
sto è l'habitat, per così dire, del tiranno, della sua anima tiranneggiata

1 19 Qui
Socrate si rivolge ad Adimanto chiamandolo BatJ.IOVtE (573c7).
120
Nd verbo Èm1"11Bturo è implicito il significato dd!' abitudine che si acquisisce
coltivando un'arte, esercitandola, praticandola, occupandosi di essa con cura. Con­
trapposta alla condizione che è �oo&t, per natura, essa indica tutto ciò che si acqui­
sisce ddiberatamente, a bdla posta, con impegno. Tiranni dunque si può nascere, ma
si può anche diventare, coltivando con arte l'ubriachezza, l'eros o la follia.
78 Lidia Palumbo

da Eros; in essa germogliano "molti e violenti desideri ogni giorno e


ogni notte" (573d) 121·, e si tratta di desideri la cui soddisfazione,
assolutamente indilazionabile, costa molto denaro.
La scena a questo punto si veste di temporalità e diventa narra­
zione di una storia: presto - dice Platone - si consumeranno le
entrate del tiranno ed egli contrarrà debiti e vedrà assottigliarsi
sempre di più il suo patrimonio (573d-e). Ancora una volta, le parti
narrate - per così dire - della storia del tiranno si alternano a quelle
in cui invece si presentano soltanto delle scene, ed il risultato è
quello di una straordinaria efficacia comunicativa: in questa parte
del nono libro della Repubblica, Platone raggiunge, in termini di
efficacia comunicativa, il risultato più alto di ogni altro luogo della
sua opera.
Eternamente tormentato dal desiderio, ora il tiranno ha un altro,
ennesimo, motivo di tensione a causa della mancanza di denaro.
All'interno della sua anima "i desideri gridano fitti e violenti" (1tUKvaç
ts KaÌ cr�oopaç, 573e4), infuriati, ed allora Eros, che è il loro capo,
li guida all'esterno; essi sono un esercito furioso, e sono alla ricerca
di qualcuno "che abbia qualcosa che sia possibile togliergli con
l'inganno e la violenza" (573e-574a). In questa condizione il tiranno
soffre orribilmente, e per rendere efficacemente questa condizione
del tiranno, Platone dice che flEYUÀatç roOìcri 'tS KaÌ òouvatç
cruvéxscrem (574a3 -4), gli attribuisce cioè grandi dolori e qualcosa
di simile alle doglie delle partorienti.
TI vizio del tiranno è la pleonexia. Così come Eros, sopravvenuto
di recente, ha soverchiato gli altri desideri che prima di lui abitavano
l'anima, allo stesso modo chi è in balia di Eros soverchierà il padre
e la madre - lui giovane, loro vecchi - e li spoglierà di ogni ricchezza
(574a-b) . E non basta: "ma per Zeus, o Adimanto, per una innecessaria
etèra divenutagli da poco cara, non credi tu che un tal uomo osereb­
be alzar le mani addosso alla madre un tempo cara e necessaria, o per
un bel giovane da poco divenutogli caro, e innecessario, altrettanto
fare col vecchio e necessario padre non più nel fiore degli anni , e col
più vecchio amico; e che sia capace di asservir questi a quelli, ove li
conducesse nella stessa casa?" (574b-c).

121
Si veda anche Leggi 734a: "la vita intemperante in tutto è estrema e i dolori
ci dà violenti e violenti i godimenti, i desideri morbosamente tesi e assillati e
l'amore come illimitata follia".
Eros Phobos Epithymia 79

Nessun rispetto dunque per gli altri, né per le loro sostanze. Egli,
"raccoltosi fitto in lui lo sciame dei piaceri" (574d), comincerà a
rubare nelle case e nei templi, a borseggiare i viandanti nella notte,
e "tutte quelle opinioni che aveva un tempo da bambino sul bello
e sul brutto" accadrà che " saranno sopraffatte con il suo aiuto da
quelle di recente sciolte dalla servitù, e facenti da satelliti ad Amore"
(574d). Queste ultime, opinioni nuove sul bello e sul brutto, opinio­
ni legate alla tirannia di Eros, sorta di etère della mente, che prima
si scioglievano solo in sogno dormendo, quando l'individuo era
ancora sottoposto alle leggi e al padre, avendo in sé un regime di
democrazia, ora, soggiaciuto egli alla tirannia di Amore, e "divenuto
di continuo da sveglio tale quale sol di rado diveniva in sogno", ora
esse porteranno il tiranno a non astenersi (574e) da alcun atroce
fatto di sangue né da cibo ed atto alcuno; ma, servendo Eros come
soltanto un tiranno può essere servito, lo aiuteranno ad osare ogni
cosa da cui possa nascere alimento per lui e per la tumultuosa turba
che gli sta intorno, "sia quella entratagli dal di fuori per la cattiva
compagnia, che quella sfrenata e liberata dal di dentro" (575a) i22•
L'affresco di Platone è perfetto. Esso "dipinge" l'esistenza di un
tiranno con tutte le tinte fosche di cui dispone la tavolozza di un
pittore che voglia colorare il suo discorso con i colori persuasivi della
disapprovazione e della paura, della sorpresa e della nostalgia. Non
soltanto, infatti, come nel discorso di un sapiente oratore, si fa appello
a quella parte dell'animo del lettore che non sopporterà la mancanza
di rispetto per i genitori, che si scandalizzerà per la preferenza accor­
data alle etère piuttosto che alla vecchia madre, a quella parte che si
spaventerà del pericolo di essere borseggiato, derubato nel patrimo­
nio morale e materiale da tale esempio di umana abiezione, ma, en
passant, si parla anche del periodo perduto dell'infanzia, quello in cui
si avevano opinioni pulite sul bello e sul brutto, si era protetti dalla
legge e dai genitori, e le cose avevano i contorni netti: si rispettavano
le cose antiche più delle nuove, e la tirannia tormentosa del desiderio
erotico era ancora assolutamente lontana.
È impossibile negare l'intento morale con cui Platone scrive
queste pagine sulla miseria di una vita asservita alla tirannia del
desiderio, ed è altrettanto impossibile non vedere la straordinaria

122 Cfr
. J. FRERE, Les Grecs et le desir de l'Etre. Des Préplatoniciens à Aristate,
Paris, Vrin, 1981, p. 447.
80 Lidia Palumbo

capacità di coinvolgere il lettore in un meccanismo emotivo di iden­


tificazione con il soggetto di cui si parla.
A questo punto, nel testo, Socrate, dopo avere ricordato "la
somiglianza tra l'uomo e la città" (577 cl-2), si interroga sulla con­
dizione del tiranno per ciò che concerne la libertà e la schiavitù:
"Se dunque l'uomo è simile alla città" - domanda Socrate - "non
sarà necessario vi sia anche in lui quello stesso regime, e che la sua
anima sia piena di molta schiavitù e ignobiltà, e che di essa siano
schiave quelle parti che sono migliori, e una piccola parte invece,
la più malvagia e folle, sia padrona? "123• Essa, è ormai chiaro, sarà
schiava (oouA.Tt, 577d9), sarà piena di turbamento e pentimento
(·rapaxiìç KaÌ �E't'a�eA.eiaç �Ecr't'TÌ Ecr't'at, 577 e3 ), sarà sempre neces­
sariamente povera e insaziata (7tevtxpàv KaÌ a7tATJcr't'ov àvciyKTt àeì
s1vm, 578a l -2). Come dirà esplicitamente ed efficacemente nelle
Leggi, infatti, Platone ritiene che la povertà non sia data dalla
diminuzione dell'avere, ma dall'accrescimento del desiderare124• E
soprattutto, sarà "piena di paura" (�6J3ou yÉ�Ew, 578a4), e "gemiti,
sospiri, pianti e dolori" è impossibile trovarne in maggior numero
in altri che non in "quest'uomo tirannico, infuriante per desideri e
passioni"125 (578a).
Eppure, a questo punto, il discorso non è ancora finito, perché
- afferma Socrate - l'uomo che è stato appena dipinto in tutta la
miseria e l'angoscia della sua condizione non è ancora "il più infelice
di tutti gli altri uomini" (à8A.tro't'a't'ov eivat 't'cOV aA.A.rov U7taV't'rov,
578b6). Chi ha natura tirannica, infatti, ma vive la propria vita
privatamente, senza occuparsi di politica, somigli'a nella sua infelici­
tà all'infelicità di una città governata tirannicamente - ma si tratta
soltanto di una somiglianza, di un felice paragone che ci ha consen­
tito di comprendere i meccanismi psichici confrontandoli con quelli
politici - ma è meno infelice di chi, avendo identica a quello la
natura dell'anima, si dia poi a governare una città: "abbia la disgra-

123 È evidente il parallelo con il passo delle Leggi che leggevamo sopra, in cui
si dice che "quando in una comunità i migliori sono sottomessi ai peggiori, questa
comunità è correttamente detta inferiore a se stessa e cattiva; quando invece in
essa sono i peggiori ad essere sottomessi, la comunità è vittoriosa su se stessa e
buona" (627c).
12� Cfr. Leg. 736e.
IV L'
intemperante soffre più del temperante e la sua scelta di vita, intrisa di
dolore, è in un certo senso involontaria: cfr. Leg. 732e-734e.
Eros Phobos Epithymia 81

zia, per qualche mala sorte, di riuscire a diventare tiranno " (578c).
Glaucone ritiene che questo sia vero, ma Socrate sottolinea che in
argomenti di importanza così capitale non basta semplicemente
opinare, ma è necessario esaminare a fondo con un ragionamento
(578c). Per compiere questo esame si usa uno strumento dimostra­
tivo caro a Platone, quello della analogia: così come il tiranno co­
manda su molti uomini liberi - si osserva - l'uomo ricco comanda
su molti schiavi. Normalmente l'uomo ricco che ha molti servi non
teme i suoi servi e la ragione della sua mancanza di timore, della sua
sicurezza sociale, sta nel fatto che "l'intera città presta man forte ad
ogni singolo privato" (578d). Se allora compiamo una sorta di espe­
rimento mentale; e ci figuriamo quella che sarebbe la sua condizione
se egli venisse privato della solidarietà della sua classe sociale, del­
l'appoggio dell'intero corpo cittadino, e ce lo immaginiamo per
esempio nel cuore di un deserto, isolato lì con i suoi averi, i suoi
affetti e i suoi servi, lì dove nessuno potrebbe portargli aiuto, "in
quale e quanta paura pensi che egli sarebbe su se stesso, i figli e la
moglie, di essere ammazzati dai servi?" (578e). Tutti concordano
sull'idea che egli sarebbe in preda ad "un'estrema paura", e che
"sarebbe costretto ad accarezzare alcuni degli schiavi stessi: a far
loro una quantità di promesse" , risultando alla fine "adulatore dei
suoi stessi servi" (579a).
Dopo essere passato più volte dal registro immaginifico-descrit­
tivo a quello argomentativo-dimostrativo, dopo avere usato talvolta
mescolati tali due registri espressivi, Platone ritiene di avere mostra­
to con sufficiente chiarezza che l'esistenza di un tiranno (cioè di un
uomo che sia tale per natura, che abbia un'anima tirannica, che sia
l'incarnazione della più tirannica delle emozioni) che abbia anche la
ventura di diventare un tiranno (cioè un uomo che abbia nelle sue
mani da solo il potere della città) è estremamente simile all'esistenza
di quell'uomo ricco che, improvvisamente, sia condotto da un dio in
un deserto, ed in quella terribile solitudine sia costretto a sperimen­
tare la natura ambigua, violenta, precaria, ricattatoria del potere, del
potere che gli uomini esercitano sugli altri uomini. Nella città da lui
stesso governata, infatti, il tiranno è come in una prigione: pieno di
paure diverse126, avido nell'anima, desideroso di uscire, è costretto a

126
TI potere - scrive Ferrero - uè la manifestazione suprema della pama che
l'uomo fa a se stesso, malgrado gli sforzi per liberarsene. E questo è forse il segreto
82 Lidia Palumbo

starsene rintanato in casa come una donna, invidiando gli altri cit­
tadini liberi di muoversi (579b-d). Lui che, non essendo padrone di
se stesso, è "costretto" a fare da padrone agli altri, somiglia a chi,
malato nel corpo, e quindi già impegnato a combattere il proprio
male, a non soccombere del tutto a causa della sua debolezza fisica,
sia " costretto" a combattere anche con altre persone, ad aprire, già
così provato nel corpo e nell'anima, un nuovo fronte di guerra
(579c-d). A dispetto di ogni apparenza, allora, il vero tiranno è un
vero schiavo (o 1:4} òvn 1:upnvvoç 1:4} òvn 8ou/..oç, 579d9-10) e lo è
della massima schiavitù, ed è un adulatore degli uomini più malvagi.
Egli non può soddisfare alcuno dei suoi desideri e - a chi sappia
contemplare l'anima intera - apparirà povero e bisognoso, pieno di
paure e di dolori, di invidia, di ingiustizia, privo di amici e comple­
tamente infelice (579e-580a).
A nostro avviso, nella storia dell'uomo tirannico raccontata da
Platone nell'ottavo e nel nono libro della Repubblica, è possibile
individuare tutte le caratteristiche di quel discorso platonico teso a
descrivere la natura di un'emozione che abbiamo già incontrato nel
mito del Fedro, ove si trattava della passione d'amore. Se, infatti,
come ci eravamo proposti, usiamo quella descrizione come un mo­
dello per analizzare questa, che tratta del desiderio, troviamo che
anche il desiderio, come la passione d'amore, viene configurato
come una collezione complessa di sensazioni, alcune più localizzate,
altre più diffuse. Le sensazioni citate da Platone come parte inte­
grante dell'emozione del desiderio sono le tipiche sensazioni
dell'epithymetikon: la fame, la sete, la sfrenata voglia di sesso e di
lucro. Tali sensazioni sono descritte all'interno di ciascuno dei re­
gistri espressivi usati da Platone: quello della narrazione colora­
ta, come quando leggiamo degli affaristi della città oligarchica che
vivono " trafiggendo e iniettando denaro" (ÈvtÉvn:ç cipyupwv
n1:pmcrKOV1:Eç (555e4-5); quello della narrazione metaforica, come
quando del figlio dell'uomo oligarchico, educato rozzamente e tac­
cagnamente, si dice che poi, all'improvviso, "gusta il miele dei fuchi"
(yEucrTJ'tUl KTJcpftvrov J!É/..uoç, 559d8); quello mitologico e macabro,
come quando, nel focalizzare il momento in cui il capopolo demo­
cratico si trasforma in tiranno, si dice che "chi ha gustato viscere

più oscuro e profondo della storia" (cfr. G. FERRERO, Pouvoir. Les génies invisibles
de la cité, tr.. it., Potere. I geni invisibili della città, Milano 1981, p. 35).
Eros Phobo.r Epithymia 83

umane, tagliate e frammiste a quelle .di altre vittime, è necessario che


diventi un lupo" (565d-e). E poi ancora " e gustato che abbia con
l'empia lingua e bocca il sangue della stessa sua razza" (565e-566a).
E gli esempi potrebbero moltiplicarsiu7•
Ma non solo. In quella pluralità di elementi che costituisce un'emo­
zione è presente senz'altro, come accennavamo sopra, un certo nu­
mero di pensieri. Tali pensieri non sono puri pensieri: sono pensieri
sentimentalmente connotati, sentimenti che si esprimono come pen­
sieri. Anche di questo genere di elementi spuri è ricca la descrizione
platonica della natura del desiderio. Un primo esempio lo incontria­
mo in 574a, ove del tiranno si dice "come i piaceri sopravvenuti in
lui di recente soverchiavano gli antichi e li spogliavan del loro, così
anch'egli presumerà (àçuocrst, 574a8), più giovane qual è, soverchia­
re il padre e la madre, e spogliarli, ove abbia consumato128 la propria
parte, attribuendosi le ricchezze paterne". n verbo àl;t6co, scelto da
Platone per esprimere questo pensiero del tiranno, questo pensiero
impregnato dei peggiori sentimenti di ingratitudine filiale, è già in
assoluto un verbo sentimentalmente connotato, che indica un pen­
sare, un credere, che sono già un "pensare conveniente", un "giu­
dicare doveroso" , un reclamare, un pretendere, oppure anche uno
"stimare qualcuno degno di" , significato, quest'ultimo, per lo più
connotato negativamente. Usato poi in questo contesto, il verbo si
spoglia completamente dei suoi significati legati alla sfera del pen­
sare e del giudicare, e diventa l'espressione del più torbido dei
sentimenti, che per di più abita in una parte dell'anima che è ormai
priva di qualunque pensiero che non si intoni con questo sentimen­
to. n lettore del passo platonico è stato già informato, infatti, a
pagina 573a-b, sul fatto che Eros tiranno "se trova in quell'uomo
delle opinioni o desideri tenuti per buoni e ancor capaci di pudore,
li ammazza e li caccia fuori da lui, sino a che non lo purghi di

1 27 In tutti questi casi il testo esprime una contrapposizione che non è contrap­
posizione tra realtà e immaginario, ma tra la realtà dell'immaginario e la realtà
concepita dalla conoscenza razionale.
128
Molto pregnante, a questo proposito, la notazione di Bodei relativa all'ori­
gine della parola "consumo", nella quale confluiscono due etimologie: cum-sumere
("prendere con", "usare interamente") e cumsummare ("fare la somma", "portare
a compimento"): cfr. R WILLIAMS, "Consumer", in Key Word.r. A Vocabulary o/
Culture and Sodety, Oxford, 1976, pp. 68-70, citato in R BoDEI, Geometria delle
passioni, cit., p. 16, n. 9.
84 Lidia Palumbo

saggezza, e non lo riempia di importata pazzia". In questo contesto,


quando Platone dice che il tiranno "presume" "progetta" "medita"
di derubare i genitori, sta in realtà dipingendo un pensiero-senti­
mento, un sentimento travestito da pensiero, un sentimento che ha
usurpato il posto tradizionalmente riservato ai pensieri; e non po­
trebbe essere altrimenti, dal momento che si sta descrivendo la vita
di un'emozione, che come tutte le emozioni è fatta di sensazioni
fisiche e di questa sorta di pensieri speciali, spuri, diversi da quelli
elaborati dal logi'stikon. Oltre ai pensieri che costituiscono l'interno,
per così dire, dell'emozione, che sono cioè parte integrante del­
l' emozione stessa, vi sono - come abbiamo visto nella nostra lettura
della passione d'amore nel Fedro - pensieri che rivestono l'emozione
dall'esterno, e lo fanno affinché essa pOssa essere descritta.
n modo più usato di esprimere un pensiero, un'attività mentale
relazionale atta a coprire di sé una sensazione, come abbiamo visto,
è il paragone. n testo di Platone dell'ottavo e del nono libro della
Repubblica offre in questo senso vari esempi: uno lo abbiamo appe­
na citato, ed è quello che mette in relazione il comportamento dei
piaceri giovani, appena nati nell'animo del tiranno, con il compor­
tamento del tiranno stesso, che, a somiglianza di quelli, che inten­
dono sopraffare i piaceri antichi, intende commettere pleonexia nei
confronti dei propri genitori (574a). Ma non è il solo esempio. Non
soltanto, infatti, l'intero discorso si svolge su due piani costantemen­
te paragonati, e cioè il piano della organizzazione politica della città
e il piano dell'organizzazione psichica dell'individuo, ma il numero
dei piani da tenere presenti e tra i quali operare un continuo para­
gone, via via che si procede in questo discorso che vuole essere la
descrizione della natura di un'emozione, il numero dei piani, dice­
vamo, aumenta continuamente.
Al parallelo tra l'anima e la costituzione politica si aggiunge
quello tra l'anima, intesa come l'interiorità dell'individuo, e lo spa­
zio domestico, in cui egli organizza le sue attività; e dunque ai
conflitti interni corrispondono conflitti esterni, ai bagordi dell'ani­
ma bagordi del corpo. A poco a poco il fuori diventa ciò cui si
guarda per comprendere il dentro, e l'intera descrizione delle attività
del tiranno diventa funzionale alla comprensione delle sue pulsioni
emozionali; lo strumento privilegiato di questa comprensione è ap­
punto il paragone: per Platone, infatti, come abbiamo visto, la maniera
di misurare la realtà psichica, altrimenti non misurabile, è quella di
metterla in relazione con la realtà materiale, che offre tutte le pos-
Eros Phobos Epithymia 85

sibilità di essere misurata. Dall'uso abbondante e raffinato del para­


gone tra psichico e materiale, nascono passi come quello in cui si
accusa il tiranno di essere un parricida129; tale accusa, infatti, riposa
sul paragone tra un padre che genera un figlio, da un lato, e,
dall'altro, il popolo che genera nel tiranno il responsabile della
propria schiavitù.
Ad un certo punto, però, conformemente alla sensazione di smar­
rita confusione, che l'intero discorso sulla genesi e il destino del
tiranno intende trasmettere, si determina nel testo una moltiplica­
zione ed un'assimilazione dei piani da paragonare, e dunque, non
soltanto l'esterno sarà metafora dell'interno, la generazione materia­
le metafora della creazione politica, la rivoluzione dei significati
delle parole metafora della rivoluzione nei valori delle cose, ma
l'ubriachezza diventa follia, la violenza furia omicida, l'onirico real­
tà. E così incontriamo, anche in questo testo, quell'altra caratteristi­
ca, già incontrata nel testo del Fedro, della maniera platonica di
descrivere l'emozione. Tale caratteristica è quella dell'esagerazione.
Come osservavamo sopra, il pensiero che comporta esagerazione è
il pensiero implicito nell'emozione stessa e dunque una descrizione
esagerante di un'emozione è in certo senso una descrizione che non
snatura l'oggetto che descrive contaminandolo con misure che pro­
vengono dalla regione della ragione. Se sopra, alla luce dell'analisi
del testo del Fedro in cui si descrive la passione d'amore, dicevamo
che l'amore è definibile come "quell'insieme di sensazioni che ac­
compagnano una forma specifica di pensiero, quella che riconosce
nell'amato un dio", ora, usando quella definizione come un modello
che ci aiuti a leggere il testo platonico sul tiranno come il luogo della
descrizione della natura del desiderio, possiamo dire che il desiderio
è "quell'insieme di sensazioni che accompagnano una forma speci­
fica di pensiero, quella che riconosce la sua dipendenza dai suoi
oggetti" . Tale dipendenza, infatti, nel caso del desiderio, è assoluta.
Ed è proprio tale dipendenza assoluta, la coscienza di tale dipen­
denza assoluta, ciò che rende desiderio un desiderio. A tale dipen­
denza assoluta sono legate tutte le caratteristiche di questo tipo di
emozione dalla struttura capovolta, la cui misura è l'eccesso e il cui
destino è la morte.

12'J Cfr. 569b: "Panicida dunque, diss'io, tu chiami il tiranno e cattivo sostentatore

della sua vecchiaia".


86 Lidia Palumbo

È possibile ritrovare in altri testi platonici, il cui tono è completa­


mente diverso da questo testo della Repubblica, la stessa interpretazio­
ne del desiderio, strutturata .secondo gli stessi schemi ermeneutici
comuni all'interpretazione dell� natura di ogni emozione.
Se però finora abbiamo 'verificato la tenuta, per così dire, di tali
schemi ermeneutici, saggiandC>ll .sulla descrizione dell'amore nel Fedro
e del desiderio nella Repubblica, vorremo tentare, a mo' di conclu­
sione di questa prima indagine sulla natura dell'emozione nei dialo­
ghi di Platone, di leggere nel testo delle Leggi la descrizione del­
l'emozione della paura.
Come abbiamo visto, tale emozione è già apparsa nella Repubbli­
ca e nel Protagora. In entrambi i contesti essa è trattata in relazione
al coraggio. Nel quarto libro della Repubblica, come abbiamo visto,
Platone ha usato a questo proposito un'immagine: ha paragonato
l'educazione secondo legge all'operazione della tintura della lana, il
coraggio al trattamento usato dai tintori per evitare che la lana
stinga entrando in contatto con sostanze detergenti: la paura, nel
contesto di questa immagine, era un detersivo (pUJ.l!.La). Un sapone.
Un sapone che lava via il coraggio. Nel Protagora, invece, la paura
è stata definita "una certa attesa del male" (358c-e), e tale definizioc
ne in quel contesto, come abbiamo visto, era funzionale alla identi­
ficazione del coraggio al sapere, dunque alla inscrizione dell'emozio­
ne nella regione della ragione. Tale assimilazione appartiene ad una
fase del pensiero platonico decisamente diversa da quella in cui
appare, vivissima, la volontà del filosofo di indagare invece la diffe­
renza tra emozione e ragione, differenza teorizzata appunto nella
Repubblica, e corredata di tutte quelle analisi dell'esperienza psichica
che consentono di ordiname la complessità, assegnando una regione
alla ragione ed un'altra, distinta da questa, e a sua volta duplice, alle
pulsioni emozionali.
Entrambi puraniente teorici, però, i due contesti citati, come
abbiamo visto, non si sono rivelati utili al nostro tipo di indagine,
tesa ad individuare nel testo platonico non tanto l'approccio razio­
nale del filosofo al mondo dell'irrazionale, ma piuttosto il suo ten­
tativo di offrire una descrizione emotivamente connotata della natu­
ra dell'emozione. TI testo delle Leggi è, in questo senso, un testo
misto, perché, come quello della Repubblica e del Protagora, presen­
ta un approccio razionale al mondo dell'emozione, un approccio nel
quale fortissima è la preoccupazione che il discorso sia un discorso
educativo. Ma è anche un testo dalle grandi capacità descrittive, che
Eros Phobos Epithymia 87

si propone di presentare la natura dell'uomo prima di elaborare le


modalità della sua educazione.

7. Ancora sulle Leggi


E sulla natura dell'emozione della paura

Di questo dialogo intendiamo qui leggere, da un lato, i passi in


cui si descrive l'emozione della paura nel contesto generale del
discorso sulle passioni e, dall'altro, quelli in cui si citano casi della
storia umana in cui gli uomini hanno avuto paura. Tra i due gruppi
di passi si collocano, poi, altri luoghi del testo delle Leggi, ai quali,
anche, abbiamo dedicato un po' d'attenzione. Si tratta di quei passi
in cui si trovano descritte caratteristiche del comportamento umano
che fanno paura al legislatore, sulle quali egli deve intervenire per­
ché la sua città sia la migliore.
In questo modo speriamo di ottenere della paura platonica un'im­
magine per così dire a tutto tondo, un'immagine che, costruita sull'ul­
timo dei suoi scritti, ci consenta di comprendere che cosa sia per il
filosofo la paura e di che cosa egli ebbe paura, quando si propose di
istituire quella straordinaria riforma morale che descrive nelle Leggi.
Abbiamo già incontrato, all'inizio del loro lungo cammino, i tre
interlocutori dell'ultimo dialogo di Platone, e perciò già sappiamo
che il loro discorso, che riguarda le leggi e la costituzione della città,
è un discorso che non annoia (625a). Sappiamo anche che esso
conforterà i viandanti, come richiede l'ora ardente e la stagione della
vita, quando essi riposeranno dalla fatica del viaggio, all'ombra dei
boschi sacri.
Queste parole introduttive delle Leggi infondono nel lettore un
sentimento di tranquilla serenità: non soltanto, infatti, questo è lo
stato d'animo che Platone considera il migliore per affrontare la
ricercano, ma esso è anche in un certo senso il fine della ricerca,
essendo l'intero discorso finalizzato alla elaborazione di una legisla­
zione che consenta di vivere serenamente131•

13° Cfr. supra, quanto osservavamo a proposito del discorso introduttivo della
Repubblica.
131 Cfr. 792c-d: "il mio discorso infatti dice che la vita retta non deve rincorrere
i piaceri, né rifuggire del tutto dai dolori, ma amare proprio il giusto mezzo, che
io ho chiamato poco fa con il nome di serenità (iJ.Erov)".
88 Lidia Palumbo

Siamo nel primo libro. Gli interlocutori hanno discusso sull'im­


portanza del valore che gli uomini dimostrano in guerra, e l'Ateniese
dice: "Ma noi diciamo allora che, anche se questi sono uomini di
valore, migliori, e di molto migliori, sono quelli che nella guerra più
difficile si manifestano luminosamente come i· più valorosi" (630a).
La "guerra più difficile" di cui si parla è la rivolta Uhxocrmcrl.a,
630a6). L'Ateniese chiama a testimone il poeta Teognide che dice:
"un uomo fedele vale ricchezze d'oro e d'argento, Cimo, nel giorno
grave della rivolta (Èv xaì..Enij 8txocr-.acrt1J, 630a6)"m. 11 valore nella
guerra interna - convengono gli interlocutori - è di tanto superiore
a quello nella guerra esterna, di quanto la giustizia, la temperanza e
l'intelligenza sono superiori al coraggio (630a-b). TI legislatore, allo­
ra, nel compiere il suo lavoro, non deve, come sembrerebbe sia
accaduto a Creta e a Sparta, privilegiare un punto di vista bellico,
che lo porterebbe a riservare un valore speciale alla virtù del corag­
gio, ma deve piuttosto considerare la pienezza della virtù, che è la
perfezione della giustizia; soltanto essa infatti consente di allontana­
re dalla città ogni/orma di guerra, quella che si combatte con corag­
gio contro i nemici esterni, e quella che si combatte con giustizia
temperanza e intelligenza contro i nemici interni (630a-63 1a).
TI lettore della Repubblica, che già conosce l'importanza dei ne­
mici interni e i pericoli della rivolta che insanguina le viscere del­
l'anima e della città, si trova ora di fronte ad un ulteriore tassello
della creazione platonica.
Per legiferare considerando la pienezza della virtù, afferma
l'Ateniese, sarà necessario tenere presente la distinzione che esiste
tra i beni. "I beni, infatti, sono di due specie: quelli umani e quelli
divini" (63 1b). Poiché i beni umani dipendono dai beni divini, se
uno stato possiede quelli, che sono maggiori, possiede anche questi,
se invece non possiede i beni divini, non possiede né quelli, né
questi (63 1b-c). Fra i beni umani troviamo la salute, la bellezza, la
forza di correre e di compiere tutti i movimenti del corpo, la ric­
chezza, quella "non cieca, ma di vista acuta, che cioè si accompagna
all'intelligenza" (631c). Fra i beni divini, invece, "il primo, e la
guida, è l'intelligenza", il secondo è la saggia e temperante condizio­
ne dell'anima che si accompagna all'intelligenza, il terzo, che nasce
quando l'intelligenza e la temperanza si fondono con il coraggio, è

132
TI-IEOGN. 77-8.
Eros Phobos Epithymia 89

la giustizia, il quarto è il coraggio (631c-d)133• n legislatore deve


osservare quest'ordine nella stessa misura134, e sorvegliare i cittadini
"nel dolore e nel piacere e nel desiderio, nelle cure di tutti i loro
amori . . . nell'ira, così come nella paura, per quanti sono i turbamenti
che sconvolgono l'anima nella sfortuna, e per quante volte se ne può
sfuggire nella buona ventura, per quante sono le passioni che inve­
stono gli uomini nelle malattie e nelle guerre, nella miseria ed anche
nella salute, nella pace e nella ricchezza" . In tutte queste circostanze
bisogna insegnare e definire nell'atteggiamento di ognuno "ciò che
è buono e ciò che non lo è" (631e-632a).
Fatta questa premessa, si comincia dalla considerazione del co­
raggio e così, nel testo delle Leggi, troviamo un'altra definizione del
coraggio, che ricorda sia quella che abbiamo incontrato nel Protagora
sia quella che abbiamo incontrato nel quarto libro della Repubblica.
Qui l'Ateniese domanda ai suoi interlocutori: "E allora come defi­
niremo il coraggio? Diremo che è semplice lotta soltanto alla paura
e al dolore, oppure anche resistenza ai desideri e ai piaceri e a quelle
terribili carezze degli adulatori che rendono come cera morbida il
cuore anche di quelli che amano credersi santi? " (633 d) 135• Poco
prima si era parlato, come sappiamo, di quella strana affezione,

m Cfr. A.WH. AmaNs, La morale dei Gred, cit., pp. 401-403.


m "Una domanda - scrive Robin - si pone a questo proposito: di quale natura
è questa unità della virtù? . . . Nel primo libro si procede ad una syntaxis delle virtù
che consiste nel porre ognuna al suo posto sotto il primato del Pensiero (631cd):
non vi è infatti vera Temperanza se non è accompagnata dalla Prudenza, ed è una
combinazione delle due che genera la Giustizia, per cui infine il Coraggio, per
essere una virtù, deve essere un aiuto sotto l'autorità delle due prime virtù. Così
l'unità della virtù sarebbe un'unità di analogia, l'unità di un ordine gerarchico di
cui ogni termine, a modo suo e al suo posto, manifesta una stessa eccellenza, che
è il Pensiero" (cfr. L. RoBIN, Platon, tr. it., Platone, Milano, Istituto Editoriale
Cisalpino, 1988, p. 189).
m Nel Protagora, come abbiamo visto, il coraggio si identifica con il sapere, con

il saper distinguere ciò che è temibile e ciò che non lo è (360d); nella Repubblica
con la "capacità di salvaguardare in ogni circostanza l'opinione corretta e basata
sulla legge circa le cose temibili" (429e7-430b5). Nel Xll libro delle Leggi, sulla
differenza tra il coraggio e l'intelligenza (cjlp6vTJmç) si dirà che "l'uno è in relazione
con la paura, di cui partecipano anche le fiere. . . ed anche le indoli, almeno, dei
bambini, quelli del tutto piccolissimi. Senza discorso della mente, infatti, e per
natura l'anima viene ad essere coraggiosa, ma d'altra parte senza il discorso l'anima
mai è venuta ad essere, né è, né mai poi verrà ad essere dotata di intelligenza e di
intelletto, e infatti l'intelligenza è diversa " (963e).
90 Lidia Palumbo

apparentemente incomprensibile, che capita agli uomini e alle città,


e che consiste nel "cedere a se stessi". In relazione a ciò che .si è
detto allora, dunque, vile apparirà non soltanto chi cede al dolore,
ma anche chi cede ai piaceri. Anzi, soprattutto chi cede ai piaceri:
"chi è dominato dai piaceri cede a se stesso più vergognosamente di
quanto non faccia chi è sconfitto dall'angoscia che è nel suo cuore" ,
(633e-634a).
Se le cose stanno così, però, afferma l'Ateniese, il legislatore di
Zeus e quello di Apollo nelle loro leggi hanno lasciato il coraggio
come un essere monco, "capace solo di rivolgersi contro la sinistra
violenza, ma impotente sotto la destra carezza dei piaceri e delle
adulazioni" (634a). Nelle legislazioni di _ Creta e di Sparta, infatti,
Clinia e Megillo non trovano nulla che abitui a resistere al piacereu6,
mentre molta parte della legislazione esistente è dedicata a rendere gli
uomini capaci di resistere al dolore e alla paura137• n legislatore spar­
tano - sottolinea l'Ateniese - ritenne che, "se qualcuno fin da bam­
bino fugge del tutto il timore e il dolore, quando lo prende poi la
necessità del male e del terrore e dell'angoscia (omhav siç à.vayKa1ouç
ÈÀ.91J 1tovouç KaÌ lji6J3ouç KaÌ À.u7taç, 635 cl-2), questi non può allora
che cedere di fronte a quelli esercitati a reagire, e ne è fatto schiavo"
(635b-c). "Bisognava, credo, che nello stesso modo quel legislatore
pensasse anche per il piacere, confessando egli a se stesso che nella
sua patria, se fin da giovani i cittadini siano rimasti inesperti dei più
intensi piaceri e non esercitati a resistere loro . . . essi dovranno subire
per la dolce seduzione del piacere la stessa sorte di chi soggiace alla
paura"; e dunque in altro modo, e più vergognosamente, essi diven­
teranno schiavi di chi sa sopportare il piacere, ed avranno la loro

136
A Sparta, anzi, il piacere è assolutamente vietato: "A voi soli dei Greci e dei
Barbari - dice l'Ateniese - il legislatore ha prescritto di astenervi dai piaceri - più
intensi e dalle feste, di non trame mai godimento" (635b).
m Gli Spartani - scrive Balbi - erano più degli altri popoli vulnerabili alla

paura e, proprio per curare questo loro "difetto nazionale", si imposero la ferrea
disum�a disciplina per cui sono passati alla storia. Ma il rimedio funzionava solo
a condizione che gli avvenimenti seguissero lo svolgimento previsto: in questo caso
- come avvenne alle Termopili - grazie all'addestramento ricevuto, gli uomini erano
in grado di controllare la paura, ma davanti ad un avvenimento inaspettato le difese
crollavano, come avvenne, secondo il racconto di Tucidide, nel decimo anno della
guerra del Peloponneso (cfr. R BALBI, Madre paura. Quell'istinto antichissimo che
domina la vita e percorre la stona, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1984, p. 6).
Eros Phobos Epithymia 91

anima da una parte libera, ma da un'altra serva, e non saranno mai


degni d'essere chiamati, senza riserva, liberi cittadini e coraggiosi
(635c-d).
La proposta dell'Ateniese è, dunque, quella di trattare il piacere
come la paura, cioè di escogitare anche per il piacere, come esiste
eer la paura, un sistema che renda gli uomini in grado di resistergli.
E assolutamente imperdonabile che le altre legislazioni non si siano
preoccupate di ciò, l'analisi di chi studia le leggi, infatti - egli dice
- verte quasi totalmente sul piacere e sul dolore "(636d); "come due
fonti", il piacere e il dolore "scorrono liberamente per natura" , e chi
attinge a loro nel luogo e nel tempo e nella misura giusta è felice, lo
stato l'individuo e ogni essere vivente, chi invece lo fa senza discer­
nimento e fuori di ogni opportunità, vivrà infelice. (636d-e).
L'affermazione è tra quelle che sono strutturate per essere ricor­
date. n lettore immediatamente immagina le due fonti, esse scorro­
no libere per natura, eppure il modo umano di avvicinarsi ad esse
non può essere naturale, ma deve essere strutturato dall'educazione.
L'intero edificio della paideia può essere sintetizzato nella formula
che insegna quando bere a queste fonti e in che misura dissetarsi.
Chi sa farlo, infatti, è educato alla virtù , e l'educazione alla virtù è
l'unica degna di chiamarsi paideia (644a5). Che la misura del piacere
e del dolore sia la fonte, l'origine, la causa, della felicità138 non è
un'idea che Platone presenta per la prima volta, ma è la prima volta
che l'affermazione assume la trasparenza cristallina dell'acqua di
sorgente. Si ha la sensazione di una sorta di semplificazione di quei
dispositivi della virtù e della-felicità di cui si discute nei dialoghi
precedenti. Anche nella descrizione dei meccanismi intimi del com­
portamento, si ha la sensazione di una semplificazione. Non si parla
di parti dell'anima, ma si dice semplicemente che ciascuno possiede
(K&K'tTJJ.!ÉVov, 644c6) "in sé" (èv aùnp) due consiglieri (ouo <ruJ.113oUì..ro)139
COntrari ed istintivi (Èva.V'tl(l) 'tB KUÌ aljlpOVB, 644c6-7), che noi chia­
miamo piacere e dolore" (ro 7tpocrayopeuoJ.1BV it8oviJv Ka.Ì AU7tTJV,
644c7). Oltre ad essi, ed in certo senso secondariamente, "ci sono"
anche le opinioni delle cose future (861;a.ç J.1BÀ.À.6v'trov), che hanno in

na
I termini eudaimonia-eudaimon - scrive ]. Frère (op. dt., p. 423) - non
appaiono nell'Iliade e nell'OdiSseo; esistono, ma sono ancora rari, in Esiodo Pindaro
e Saffo. È con Platone ed Aristotele che cominciano ad assumere una grande
importanza e a sganciarsi dal loro contesto di necessità materiali.
1J9 Cfr. Timeo 69d: "temerarietà e paura, dissennati consiglieri".
92 Lidia Palumbo

comune il nome di "attesa" (ÈÀ:n:tç), e che poi, oltre a questo nome


comune, divise in due gruppi, hanno anche un nome proprio, e si
chiamano "paura" (cjlopoç), quando l'attesa è attesa di una sofferen­
za (M7tTt<; ÈÀ.7ttç)140, e "fiducia", "speranza" (9appoç) quando l'attesa
è attesa del contrario (Ti 7tpÒ -rou Èvav-rtou, 644dl). Su tutta quanta
la regione interiore dell'attesa si estende il governo del À.oylcrJ.loç
(644d2), che decide quale di queste attese è migliore e quale peggiore.
n dominio del ragionamento rappresenta l'irrompere dell'artificia­
le nel regno della physis: naturale il piacere, naturale il dolore141,
naturali le attese, dolorose e piacevoli, naturali, dunque, la paura e la
speranza; arti/ida/e, invece, il ragionamento sulla paura e la speranza,
il tentativo di leggere in esse qualcosa di diverso dal piacere e dal
dolore futuri142, qualcosa di simile al bene e al male. La cifra dell'ar­
tificio è il tentativo di dissociare il piacere dalla sua naturale identifi­
cazione con il bene, e il dolore dalla sua naturale identificazione con
il male. Tutto il testo delle Leggi è teso ad operare questa dissociazione,
a giustificarla, ad argomentarla, a difenderne la necessità143• n nome
stesso di "legge" - dice l'Ateniese - è il nome che si dà al ragionamen­
to che giudica sul bene e sul male quando tale ragionamento diventa
comune decisione di uno stato (644d). Noi pensiamo - egli dice in
quello che forse è il passo più famoso delle Leggi - che ciascuno di
noi viventi sia "una macchina meravigliosa fatta dalle mani di un dio,
o per un suo svago o per una sua cura precisa; questo non lo sappia­
mo" (644d-e)144• Sappiamo però che tutti i pathe enumerati fin qui

140 Sulla paura come primaria causa degli errori dell'uomo, cfr. 864b.
141
Si veda anche 732e: "È per natura cosa umana soprattutto godere e soffrire
e desiderare ed è necessità che tutto ciò che vive ed è mortale sia semplicemente,
direi, da tutto ciò condizionato e come sospeso a ciò, con le più grandi preoccu­
pazioni".
142 Nel Protagora, come abbiamo visto, invece, il ragionamento è precisamente
il calcolo dei dolori e dei piaceri futuri. È proprio questa differenza (tra il Protagora
e gli altri testi che trattano dell'argomento), questa differenza nella valutazione della
ragione che gestisce le emozioni, ciò che, nella lettura del Protagora, ha creato tutti
i problemi di interpretazione dell'"edoni.smo socratico" di cui parlavamo sopra.
w "TI disaccordo di piacere e dolore con il giudizio della ragione io dico che
è l'estrema ignoranza e la più grande perché è nella parte più grande dell'anima;
infatti quella sua part;e di cui è proprio soffrire e godere è in essa ciò che il popolo
e la folla sono nello stato" (689a-b), su questo rapporto psyche = p/ethos cfr. M.G.
CIANI, Psicosi e creatività nella scienza antica, Venezia, Marsilio, 1983, p. 66.
144 Si veda anche 803c, 804b.
Eros Phobos Epithymia 93

"stanno dentro di noi come fossero nervi o una specie di fili e ci


trascinano e, poiché sono contrari tra loro, ci inducono ad azioni
contrarie, e qui sta la differenza tra la virtù e il vizio" (644e).
È innegabile che questa sia una prospettiva semplificata rispetto
all'articolazione elaborata dello spazio psichico che troviamo de­
scritta nella Repubblica. Lì vi erano parti differenziate in modo
accurato, e a ciascuna di queste parti era assegnata una .funzione,
una virtù , una forma di eccellenza o di mediocrità. Qui, invece,
soltanto fili, secondo qualche famosa interpretazione del passo, fili
mossi dagli dei145, che ci trascinano in opposte direzioni. Tutto
molto più semplice e in un certo senso più tragico. Uno di questi fili
è un filo d'oro, si tratta della sacra guida del ragionamento che ha
il nome di legge, ed essendo d'oro è dolce e delicato, è una guida
non violenta che ha bisogno di collaboratori; senza collaboratori,
infatti, la. guida d'oro rischia di essere ignorata e il vivente finisce
per essere guidato da altri fili, fatti di materia volgare e perciò duri
e ferrosi. Un collaboratore del ragionamento è il mito della virtù (ò
J.u38oç àp&-riìc;, 645bl-2), secondo il quale si può essere superiori o
inferiori a se stessi (644e-645b).
Nel contesto di questo "mito della virtù", che si identifica con il
tentativo, tutto politico, di elaborare una paideia in grado di rendere
gli uomini buoni cittadini, è focalizzata l'attenzione sul fatto che
esistono due specie di paura (8Uo $6Prov iiùTt, 646e4), opposte e
contrarie fra loro. La prima specie di paura è quella che si verifica
quando temiamo le cose cattive se ne prevediamo la venuta (646e).
La seconda, invece, da tutti chiamata vergogna (ai.crxuvTt, 647a2), è
quella che si verifica quando temiamo per la nostra reputazione,
temiamo di essere considerati cattivi, se facciamo o diciamo qualco­
sa che non è bene (646e-647a). n legislatore avrà massima conside­
razione di questa forma di paura e la chiamerà pudore (ai.ùro,
647a10) 146, il suo contrario è l'impudenza (àvaiù&ta, 647a10)147• n
pudore è uno dei due elementi che determinano la vittoria, l'altro è
il coraggio. Infatti si vince dimostrando coraggio di fronte ai nemici
e paura di fronte agli amici, paura della brutta vergogna (647a-

145 Cfr. I.;Introduzione a PLATONE, Dialoghi politici e Lettere, I, a cura di F.


Adorno, Torino, UTET, 1988, p. 78.
146 Sull'argomento cfr. D. PASINI, op. cit., pp. 181-184.
1 47 J.;àvailìEta è l'impudenza, la mancanza di pietà, l'implacabilità. Nei tribunali
greci l'accusatore sedeva nell'àvatlìdaç i..i8oç, l'accusato, invece, nel i..i8oç ii�pECilç.
94 Lidia Palumbo

b)148• In questa prospettiva, la paura diventa una cosa positiva, una


cosa alla quale il legislatore deve educare l'animo del cittadino, e-le
modalità di questa educazione saranno formalmente identiche a
quelle adottate per educare al coraggio. Se per rendere un uomo
coraggioso, lo si conduce all'esperienza della paura, per rendere un
uomo pauroso, lo si condurrà all'esercizio dell'impudenza (647b-c).
La virtù, infatti, non nasce conservando il proprio animo incantami­
nato dal vizio, ma piuttosto esercitandolo nella battaglia con il vizio,
misurandosi con esso, affrontandolo a viso aperto: "Sarà forse
compiutamente saggio - domanda l'Ateniese - chi non avrà combat­
tuto e vinto col pensiero e con l'opera e con l'arte, e giocando e
lavorando, i molti piaceri e desideri che eccitano all'impudenza e
all'ingiustizia, ma sarà rimasto intatto da tutte queste esperienze?"
"Non credo che questo sarebbe verosimile", risponde Clinia (647 d) .
La necessità di temprare l'animo, misurando la sua capacità di
gestire la paura e il rischio, suggerisce all'Ateniese l'idea interessante
del filtro della paura (cjloJ3ou cjlnpJ.la.Kov, 647el ). Se esso esistesse ­
convengono gli interlocutori - si potrebbe far provare agli uomini lo
sgomento della paura in tutta sicurezza; si tratterebbe in un certo
senso di una paura virtuale, una paura che duri il tempo dell'effetto
del pharmakon e che poi sparisca; ma che, dopo essere sparita, si
lascerebbe alle spalle un uomo diverso, un uomo che ha provato
paura, e che dunque può diventare più saggio.
L'Ateniese appare particolarmente entusiasta della propria idea
della bevanda della paura e, come chi si convinca dell'utilità di
qualcosa nel parlame con altri, ad ogni domanda di Clinia aggiunge
nuovi dettagli, tesi a sottolineame la straordinaria utilità: potrebbe
servire a provare gli uomini, a saggiame le capacità di gestione del
pericolo, consentendo così al legislatore di operare una scelta tra i
cittadini più coraggiosi; potrebbe essere usata in gruppo o indivi­
dualmente, potrebbe spingere gli uomini a sfidarla, a sfidarsi l'un
l'altro, ad ostentare davanti ad una moltitudine la capacità di resi­
stere alla sua potenza senza vacillare, e così via (647e-648e).
Purtroppo, però, questo "filtro della paura" nessun dio l'ha mai
dato agli uomini, e nessun uomo se l'è mai fabbricato (649a); esiste

Hs
Le due forme di paura indicate da Platone potrebbero anche essere distinte
come paura delle cose e paura delle opinioni, paura degli eventi e paura dell'inter­
pretazione degli eventi.
Eros Phobos Epithymia 95

perÒ un filtro della temerità (tilç acj10f3l.aç cjliXpf.laKov, 649a4), una


bevanda in grado di produrre un coraggio eccessivo e sconveniente,
un coraggio, cioè, in relazione . a cose per le quali non dovrebbe
darsi coraggio (649a)149• Tale straordinaria bevanda è il vino. Esso ha
infatti esattamente le proprietà contrarie a quelle che avrebbe, se
esistesse, il farmaco della paura. n vino in principio rende l'uomo
più allegro, poi, "più ne prende, di un più grande numero di spe­
ranze si colma e di un senso di potenza", infine, l'uomo che ha
bevuto il vino "spazia in una totale libertà di parola150 e di volontà
come fosse un saggio ( tEÀ.SU'tcOV Bit 1tclcrttç o totoihoç 1tappttcrl.aç roç
crocjl6ç ffiv f.!Ecrtoihat, 649b3 -4), libertà da ogni paura (KaÌ Èku9epl.aç,
1tclcrttç OE acjlof3taç, 649b4), e dice senza timore (aOKVroç, 649b5)
tutto ciò che ha da dire, fa tutto ciò che ha da fare" (649a-b).
Sulla base di questi dati, l'Ateniese elabora una sorta di "sillogismo
pedagogico": se, come abbiamo detto sopra, nell'animo bisogna col­
tivare sia il più grande coraggio che la più grande paura151, e, se il
coraggio si acquista sperimentando la paura152, vediamo - dice l'Ate­
niese - "se si debba curare il contrario nel contrario" (tò Èvavti.ov f:v
to'ì.ç Èvavti.mç 9epa1teuecr9at, 649c5)153, se si debba cioè coltivare il
coraggio col fine di abituare alla paura.

149
La formulazione dell'affermazione conferma la sostanziale costanza dell'at­
teggiamento platonico relativamente ad un'idea di coraggio che non sia capacità di
affrontare il pericolo, come pensano i più, ma piuttosto, pur nelle differenti sfuma­
ture di significato che abbiamo via via evidenziato, capacità di valutare quando è
il caso di affrontare il pericolo e quando non è il caso. È interessante confrontare
questa interpretazione platonica del coraggio con quella che troviamo in Aristotele
(cfr. Etica Eudemia 1229 b34-38).
150
Sulla pa"esia in Platone cfr. M. FouCAULT, Discourse and Truth. The Proble­
matization ofPatrhesia, tr. it. Discorro e verità nella Grecia Antica, Roma, Donzelli,
1996, pp. 59-70. Si veda anche L. SPINA, Il cittadino alla tribuna. Diritto e libertà
di parola nell'Atene democratica, Napoli, Liguori, 1986.
m Come abbiamo appena visto, il più grande coraggio è quello che è necessario

contro i nemici, la più grande paura, invece, è la seconda specie di paura, quella
denominata pudore, che si prova nei confronti degli amici e, in generale, del
contesto sociale al quale si appartiene.
m Quest'ipotesi è stata assunta, come abbiamo visto, sia guardando alla legisla­

zione esistente, che prescrive una sorta di addestramento alla paura, sia analizzando
quella sorta di esperimento mentale, che è l'idea del phobou pharmakon.
151 Sembrerebbe una formula medica: cfr. anche l'autore ippocratico del De

flatibus cap. 1: f:v\ lìÈ cruv'tOf.lf9 1..oyf9 'tà f:vavna 'tffiv f:vav'ttiDv Ècrnv liJf.la'ta. Sull'ar­
gomento cfr. G.E.R LLOYD, Polarità ed analogia, cit., p. 33; M. VEGETTI , La medi­
cina in Platone, Venezia, ll Cardo, 1995.
96 Lidia Palumbo

Esistono infatti affezioni - quali l'ira, il desiderio amoroso, l'ar­


roganza, l'ignoranza, l'amor del guadagno, la viltà, la ricchezza, la
bellezza, la forza "e tutto ciò che ci ubriaca di godimento facendoci
cieca la mente" (649d) - che rendono naturalmente gli uomini teme­
rari e violenti; è importante imparare a liberarsi dalla impudenza e
dalla violenza in queste situazioni, imparare a temere di dire subire
o fare una cosa non bella. Ecco l'utilità del vino, di questo à.�o�\aç
�upJlaKov, che ci consentirà di sperimentare la temerità come per
gioco, e a poco prezzo; il vino è la bevanda del pudore, e non come
dice "il discorso degli altri" della pazzia (672b-673 d); esso consen­
tirà un divertimento virtuale in grado di saggiare l'indole umana
senza esporla ai rischi del divertimento reale (649e-650b) .
Platone nel secondo libro dedica molte pagine ai simposi, ed in
generale alle forme di divertimento; convinto che ognuno trovi belle
le cose simili al proprio modo di esistere (655d-e), convinto che " chi
gode si assimila a quel genere di cose di cui gode, anche se poi ha
pudore a lodarle" (656b). Per quanto riguarda la musica, per esem­
pio, è vero che bisogna giudicarla dal diletto che dona, ma non da
quello che dona a chiunque. "Io direi - afferma l'Ateniese - che
l'arte più bella è quella che piace ai migliori, a quelli che sono bene
educati; e che è superiore a tutte quella che piace a quell'uomo che
è superiore per virtù ed educazione" (658e-659a). "TI vero giudice
non deve giudicare apprendendo il giudizio dal teatro, commosso
dal tumulto del popolo, ingannato dalla sua ignoranza" (659a), perché ·
"non come scolaro, ma piuttosto come maestro degli spettatori siede
il giudice, così è giusto che sia" (659b). n piacere, infatti, muta con
l'età, il grado di cultura e la condizione sociale, ma in una città ben
governata "l'anima del giovane deve essere abituata a non godere e
a non soffrire per cose di cui godere e soffrire è contrario alla legge"
(659d), deve abituarsi ad essere lieta e triste seguendo ciò di cui il
vecchio è lieto o triste (659d).
Oltre al piacere, viene con cura considerato il desiderio. Nel
terzo libro si dice che esiste un desiderio comune a tutti gli uomini
(Kotvòv ÈmOUJlllJla, 687cl ), ed è quello che le cose avvengano se­
condo quanto suggerisce la nostra anima, preferibilmente tutte, e se
no almeno le umane (687c). Ma in realtà "non bisogna pregare e
sollecitare che tutto consegua alle proprie intenzioni, ma che molto
di più siano le intenzioni ad essere conseguenti alla propria intelli­
genza: lo stato e ciascuno di noi deve pregare e cercare con cura di
avere acuta la mente" (687e).
Eros Phobos Epithymia 97

n primo dei rimedi contro i pericoli che all'uomo vengono dal


desiderio154, in un passo fondamentale delle Leggi, è proprio la paura:
"io vedo che tutte le cose umane - dice l'Ateniese nel sesto libro ­
dipendono da tre bisogni, da tre desideri, e la virtù ne deriva agli
uomini quando essi trovano la giusta linea su cui dirigerli" (782d). I
primi due desideri sono mangiare e bere, già per chi è appena nato;
"ogni animale, infatti, ha connaturale per essi, nel loro complesso, un
amore impetuoso, ed è pieno di tormento e incapace di ascoltare se
uno invita a dover fare altra cosa che soddisfare il piacere e il deside­
rio di tutte queste cose e sempre liberarsi necessariamente di tutto il
tormento" (782e). "C'è poi un terzo e il più grande nostro bisogno,
il più acuto e l'ultimo amore che sorge in noi, rendendo gli uomini
brucianti di follia, completamente, ed è quello che con estrema vio­
lenza ci spinge ardenti a seminare la nostra specie" (782e-783 a)155•
"Questi tre vocrTJI.Hl'ta - sono infatti tre sciagure, tre infermità -
volgendoli al meglio, al di là di ciò che volgarmente è detto piacevole
al maggior grado, si deve provare a contenerli (Ka-rÉXetv) coi tre più
grandi rimedi, la paura, la legge, e il discorso vero" (783a).
Come agirà la paura per diventare disciplina del desiderio, è
spiegato in un lungo passo dell'ottavo libro, a partire da 836a. In
questo passo l'Ateniese spiega che è necessario convincere i cittadini
che la vittoria sul piacere dà la felicità, e questa convinzione, unita
con il timore e con l'obbedienza, sarà in grado di far rispettare la
legge. Dai piaceri di quell'Mrodite che viene chiamata "colei che è
senza legge" ((haKtoç, 840e4) i cittadini dovranno astenersi; essi
non saranno infatti inferiori agli uccelli, che sanno conservarsi intatti
da nozze illecite (840d). Ciò che consentirà agli uomini questo sfor­
zo, sarà la paura: "la paura che in nessun modo da nessun punto di
vista quella cosa sia nei limiti della pietà, tale paura non avrà per noi
forza tale da farli trionfare di nemici sui quali hanno trionfato altri,
inferiori per valore ai nostri figli?" (840c).
Chiuderemo così, con questo riferimento alla paura del legislato­
re per "Mrodite senza legge" , questa nostra breve analisi dei passi
delle Leggi dedicati alla conoscenza dell'emozione della paura.

154 L'intero sistema educativo - afferma l'Ateniese in 836a - è stato regolato al


fine di controllare il desiderio.
155 Sui tre tipi di amori, quello per il corpo dell'amato, quello per la sua anima,
e quello che è misto dei due precedenti, dr. 837a-e: Sull'eros come desiderio
furioso di generazione dr. Tim. 9la-d.
98 Lidia Palumbo

Di questa emozione importantissima, conoscendo la quale, sol­


tanto, si può elaborare una legislazione vera, si parla anche in altri
luoghi del testo, in cui si citano alcune antiche e recenti paure
dell'uomo; come all'inizio del terzo libro, dove gli interlocutori si
domandano quale sia stata l'origine delle costituzioni dello stato
(676a) e dunque decidono di percorrere, per così dire, con il pen­
siero, "un tempo immenso e inconcepibile" (676b), l'intera storia
universale, cominciando da quell'epoca di cui parlano le leggende
antichissime, epoca di stragi, di epidemie, di inondazioni, e di molti
altri avvenimenti (677a). Dopo queste catastrofi la condizione degli
uomini - essi ipotizzano - fu quella di "una sconfinata paurosa
solitudine" ()lupia �of3epà ÈPTtJlia, 677e7-8); in " quell'età che è
all'origine di questa" (678a), "io credo - afferma l'Ateniese - che
dominasse in tutti una paura di recente origine (�6J3oç EvauÀ.oç,
678c3) a discendere dai luoghi alti al piano " . Dopo molto tempo
dalle inondazioni, quella paura fu superata, perché gli uomini la
dimenticarono, ma fu "una sciagurata dimenticanza" (682b), infatti
essi presero a costruire città sotto i fiumi scorrenti dall'alto, fidan­
dosi di colli. non certo elevati (682c); poi, ad un certo momento,
fecero la spedizione contro ilio e già allora "si servivano tutti del
mare senza paura" (à�of3roç, 682c10). Dopo la guerra di Troia passò
ancora del tempo, e si formò la costituzione degli stati dorici e, "così
come noi ora temiamo il Gran Re (Ka8,i7tep vuv •Òv )ltyav f3amA.ia
�of3ouJ.1B8a ÌJJ.le'ìç, 685c6-7) - dice l'Ateniese - anche allora si temeva
quella coalizione ordinata di popoli " .
A mano a mano che gli eventi considerati s i avvicinano a l tempo
in cui avviene il cammino dei nostri tre vecchi da Cnosso all'Antro
di Zeus, a mano a mano, cioè, che le cose di cui si parla diventano
oggetto della memoria, della memoria storica del popolo greco, e
non sono più avvenimenti antichissimi di cui si è persa ogni traccia,
gli interlocutori del nostro dialogo si riferiscono ad essi parlandone
in prima persona.
Nel tempo in cui la spedizione persiana piombò sui Greci - dice
l'Ateniese - "c'era dentro di noi la signoria di un certo pudore, per
cui eravamo noi che volevamo vivere servendo le leggi di allora"
(698b). E poi " quell'enorme turba sopravvenuta per terra e per
mare seminando un invincibile terrore (�6J3ov a1topov, 698b8) fece
più stretta la nostra dipendenza dai governanti e dalle leggi, e per
tutto ciò si diede fra noi una più intensa e concorde amicizia"
(698b-c). Quasi dieci anni prima della battaglia di Salamina accadde
Eros Phobos Epithymia 99

che Dario mandò Dati contro gli Eretriesi e gli Ateniesi. Egli, dopo
avere conquistato i primi, "fece correre verso di noi una notizia
paurosa: nessuno degli abitanti di Eretria gli era sfuggito" . (698d); i
suoi soldati, infatti, tenendosi per mano, avevano preso nella loro
rete tutta la regione. "La notizia - dice l'Ateniese - vera o no,
comunque sia arrivata, prostrò gli altri Greci e gli Ateniesi" (698d),
e dunque a questi nessuno volle prestar soccorso. Tutti, tranne gli
Spartani, si rifiutarono, ed anche gli Spartani, che erano allora im­
pegnati nella guerra· contro Messene, giunsero ad Atene con ritardo,
quando la battaglia di Maratona era già avvenuta156 (698c-d). In
seguito si sparse la voce che i Persiani intendevano ancora attaccare
Atene. In quella situazione, nella quale non sembrava esistere alcuna
via d'uscita, due forme di paura salvarono la patria: la prima è quella
che nei discorsi precedenti è stata chiamata pudore, essa, nata dal­
l'obbedienza alle leggi, coalizzò tutti gli uomini retti e stabilì tra essi
la concordia. I:altra è invece il terrore che nasceva dalla situazione
di grande ed immenso pericolo. Questo terrore fece sì che anche i
non retti si coalizzassero a difesa dei templi, delle tombe e di quan­
t'altro di familiare c'era da difendere (699c-d).
La paura che si prova davanti all'esercito nemico è innanzitutto
paura di morte, in secondo luogo paura della schiavitù. Gli uomini
provano un'immensa paura della schiavitù e questa paura ha anche,
nascosta, un'altra componente irrazionale157• TI più sapiente dei nostri
poeti, dice l'Ateniese nel sesto libro, quando parla di Zeus, afferma:

�6 Documento significativo dell'importanza che la battaglia di Maratona rivesti­

va nella coscienza degli Ateniesi, l'epigramma inciso sulla tomba di Eschilo, com­
posto dallo stesso poeta: "Questa tomba in Gda frugifera racchiude le spoglie di
Eschilo ateniese figlio di Euforione: il suo valore inclito può dire la piana di
Maratona e il chiomato Meda, che lo ha provato" (cfr. l'Introduzione di R Cantarella
a EsCHn.o, Tutte le tragedie. Introduzione di R Cantarella, note di Sergio Musitdli,
traduzione di Felice Bellotti, Milano, Eietti, 1974, p. V). Incredibilmente, Eschilo
volle essere ricordato per il suo valore di soldato e non per quello di poeta: nessun
riferimento sulla tomba è infatti riservato alla sua arte.
157 n legame tra paura e schiavitù non è solo nd fatto di temere la schiavitù ma
anche nd fatto, più profondo, che ogni forma di paura è in certo senso una
schiavitù. Secondo Diogene Laerzio Antistene scrisse un libro dal titolo m:pì
È1..Eu9Ep1aç KaÌ BouJ..E1aç dd quale si conserva un frammento in Stob. m 8,14 = v
A79 (cfr. SOCRATICORUM RE:uQUIAE. Collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit
G. Giannantoni, Napoli, Bibliopolis in coedizione con le Edizioni dell'Ateneo di
Roma, 1985, vaL m, p. 222). Tale frammento suona pressappoco così: "chi teme
gli altri è uno schiavo anche se non lo sa" (ibidem, vol. ll, p. 350).
100 Lidia Palumbo

Zeus dall'occhio spaziante priva della metà della mente gli uomi­
ni cui sopravviene il giorno della schiavitù (777 a) 158•
La paura della morte, allora, quella del disonore, quella della
schiavitù sono essenziali ingredienti di una organizzazione statale
che voglia essere solida e duratura. Ma non basta. Queste, infatti,
sono soltanto quelle, tra le specie di paura, che vanno coltivate
nei cittadini, che fungono da rimedio contro la tentazione del
tradimento, della irresponsabilità, contro la tentazione della li­
bertà. Esistono poi altre specie di paura, che sono invece proprie
del legislatore. Sono le cose che egli teme, perché sa che mine­
rebbero alla base la sua faticosa, artificiale, costruzione della
legge.
Tra di esse la prima è la paura del nuovo; di essa, nelle Leggi, si
parla in relazione al "genere del divertirsi". n discorso che "dice"
questa paura - è lo stesso Ateniese a riconoscerlo nel settimo libro
- è a sua volta un discorso che "non è da dire senza timore" (797 a),
e viene articolato così: "se questo genere del divertirsi, infatti, una
volta stabilito, partecipa anche del divertire sempre gli stessi, nello
stesso modo, secondo gli stessi punti di vista e per la stessa via, e del
dilettarsi degli stessi giochi, permette allora che anche le leggi fissate
ad uno scopo serio abbiano una tranquilla stabilità, ma se gli stessi
giochi mutano e si rinnovano continuamente con sempre nuove
variazioni, e i giovani non dicono mai piacevoli a loro le stesse cose,
sì che né per quanto riguarda gli atteggiamenti del loro corpo, né,
per il resto, nei loro ornamenti, ciò che è corretto o non corretto sia
sempre per loro concordemente stabilito, ma invece venga da loro
onorato, in modo a tutti superiore, colui che sempre riesca ad
innovare qualche cosa o a introdurre qualche cosa di diverso dal
solito negli atteggiamenti, nei colori, in tutte le cose siffatte, di
questo fatto noi potremmo dire, senza sbagliare affatto, non esserci
peggior rovina per lo stato" (7 97a-c).
La paura del legislatore per l'attrazione che · i cittadini possono
provare nei confronti del mutamento è più volte ribadita, e ad un
certo punto diventa una regola di carattere generale: "il mutamento
in ogni cosa è ciò che vi è di più pericoloso, sopra tutto (a parte
quello di ciò che è per sé male), in tutte le stagioni, nei venti, nel
regime dei corpi, nelle abitudini delle anime e non, per così dire, in

158
HoM. Od. XVII, 322-323.
Eros Phobos Epithymia 101

alcune sì, in altre no" (797d-e)159• E l'esempio è, ancora una volta,


tratto dal "genere del divertirsi": se infatti i bambini cambiano,
rispetto a quello che è stato dei loro padri, il modo di giocare,
"diventeranno necessariamente altri uomini, diversi da quelli che
diventarono i bambini del tempo che precedeva, e divenuti tali,
cercheranno di vivere un'altra vita e nel cercare questa vita diversa
vorranno altre leggi e altri costumi" (798c), e dopo di ciò avverrà
"quel male enorme per lo stato" (798c) del quale nessuno sembra
preoccuparsi.
Un'altra paura del legislatore ha per oggetto il tempo libero dei
cittadini: "bisogna - dice l'Ateniese - che tutti gli uomini liberi,
direi, abbiano un piano in cui sia distribuito l'impiego di tutto il
loro tempo, da un'aurora all'altra, fino al levar del sole, senza inter­
ruzione" (807d-e).
Un'altra ancora riguarda il genere del comico: non è possibile ­
leggiamo nel settimo libro - "conoscere ciò che è serio senza il
ridicolo, né tutti i contrari senza tutti i loro contrari, se si vuole
essere tale da usare l'intelligenza . . . si devono così apprendere anche
le cose comiche per se stesse e ciò perché mai, a causa di ignoranza,
si metta in pratica nelle azioni o si dica nei discorsi quanto è ridicolo
senza necessità" (81 6d-e).
Con questa citazione sulla paura per il comico chiudiamo per ora
la nostra ricerca sull'emozione in Platone. In questa paura si nascon­
de, a nostro avviso, l'intuizione filosofica del legame tra comicità e
società, un legame pericoloso, che va nella direzione opposta a
quella della razionalità. Nel comico, infatti, scrive Bergson, è in atto
una logica dell'immaginazione che è diversa dalla logica della ragio­
ne, essa "è qualcosa come la logica del sogno, ma d'un sogno che
non venga abbandonato al capriccio della fantasia individuale, bensì
sia il sogno sognato dall'intera società"160•

m Anche l'Autore dd De aeri bus scrive che bisogna guardarsi dai bruschi
mutamenti delle stagioni. Egli descrive le conseguenze, spesso negative e pericolo­
se, di queste metabolai nell'ambito delle malattie; segnala la loro influenza sul
carattere degli individui: in quest'ultimo caso, però, la metabole è considerata
positiva, "i mutamenti di ogni genere infatti tengon più desta la mente degli uomini
e non le permettono di infiacchitsin (cfr. Le arie le acque, i luoghi, 16, in Opere di
Ippocrate, a cura di M. Vegetti, Torino, Utet, 1965, pp. 191-192).
160
Cfr. H. BERGSON, Le rire. Essai sur la signi/ication du comique, tr. it. Il riso.
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Indice dei nomi

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Barilier E. 14 n
Anacreonte 19 n Barthes R 16 n
Antistene 99 n Bellotti F. 99 n
Aristofane 13 n Bergson H. 101 e n
Aristotele 13 n, 91 n, 95 n Bodei R 10 n, 17 n, 19 n, 22 n, 28 n,
83 n
Diogene di Sinope 13 n Borrelli G. 9 n, 46 n
Diogene Laerzio 99 n Bria P. lO n
Brisson L. 18 n, 51 n
Eschilo 9 n, 99 n Burnet L 15 n, 17 n, 32 n, 45 n
Esiodo 91 n
Euripide 26 n, 35 n, 40 n, 73 n Calabi F. 31 n
Calvino I. 15 n
Cambiano G. 11 n, 32 n, 43 n, 45 n
Omero 9 n, 19 n, 29 e n, 100 n
Campese S. 15 n, 21 n
Cantarella R 99 n
Pindaro 91 n
Casertano G. 10 n, 13 n, 14 n, 15 n,
17 n, 20 n, 24 n, 41 n, 46 n, 74 n
Saffo 9 n, 91 n Centrone B. 10 n, 13 n
Sofocle 26 n Cerri G. 59 n
Chanteur J. 67 n
Teognide 9 n, 26 n, 88 e n Ciani M.G. 92 n
Tirteo 9 n Coby P. 66 n
Concato G. 18 n
Cosenza P. 64 n
Moderni Croiset A. 43 n
Curi U. 39 n
Abbagnano N. 43 n
Adkins A.WH. 43 n, 89 n Deleuze G. 13 n
Adorno F. 43 n, 93 n Detienne M. 59 n
110 Indice dei nomi

Di Capua L. 16 n Palumbo L. 16 n, 28 n, 45 n, 66 n,
Dixsaut M. 15 n, 23 e n, 27 e n, 46 n, 69 n, 74 n
53 n, 54 Papparo F.C. 9 n, 46 n
Dodds E.R 11 n, 19 n, 25 e n, 26 e n, Pasini D. 69 n, 93 n
31 n, 34 n, 35 n, 36 n, 56 e n, 74 n Patillon M. 18 n
Duncan R 34 n Pelizzari M.L. 69 n

Ferrari G.RF. 47 n Robin L. 89 n


Ferrere G. 81 n, 82 n Rossetti L. 59 n
Foucault M. 49 n, 95 n Rotondaro S. 37 n, 57 n, 71 n, 74 n
Fraisse J.C. 50 n Rowe C.J. 41 n
Frere J. 79 n, 91 n Ruggiu L. 74 n
Freud S. 74 n
Santas G. 17 n
Gabrieli F. 60 n Settis S. 9 n
Giannantoni G. 59 n, 99 n Snell B. 40 n
Giarratano C. 18 n Spina L. 95 n
Graz L. 14 e n Stella M. 74 n
Guidi L. 69 n Szlezak T.A. 17 n
Guidorizzi G. 72 n
Taylor C.C. 32 n
lldefonse F. 32 n, 34 n
Trabattoni F. 59 n
Trindade Santos J.G. 45 n
Kenny A. 22 n

Valenzi L. 69 n
Lanza D. 9 n, 35 n, 43 n
Vegetti Finzi S. 59 n
Laurenti R 64 n
Vegetti M. 9 n, 10 n, 11 n, 15 n, 17 n,
Leing RD. 21 n
19 n, 21 n, 28 n, 3 1 n, 59 n, 74 n,
Lloyd G.E.R 57 n, 95 n
95 n, 101 n
Matte Blanco I. 10 n, 55 n Vegleris E. 72 n, 75 n
Migliori M. 69 n Vemant J.P. 35 n
Montepaone C. 65 n Vidal-Naquet P. 35 n
Musitelli S. 99 n
Williams R 83 n ·
Nonvd Pieri S. 15 n
Zadro A. 17 n
Oliviero Ferraris A. 69 n Zambaldi 43 n
Indice generale

Introduzione p.

l. Sull'inizio dell a Repubblica (ma anche sul Timeo e le Leggz)


A proposito della natura del piacere » 15

2. Sul quarto libro della Repubblica (ma anche sul Filebo)


A proposito della struttura dell'anima » 19

3 . Sul Protagora
A proposito del coraggio. Ma anche del piacere e del dolore » 31

4 . Sull'inizio delle Leggi


A proposito di quel pathos che consiste nel vincere se stessi » 38

5. Sul Fedro
A proposito della natura dell'emozione d'amore )) 44

6. Sull'ottavo e il nono libro della Repubblica


A proposito della natura del desiderio )) 60

7. Ancora sulle Leggi


E sulla natura dell'emozione della paura )) 87

Bibliografia )) 103

Indice dei nomi )) 109


Finito di stampare
nel mese di settembre 2001
daUe Arti Grafiche Solim�e
CASORIA (NA)

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