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Concetti essenziali sul corso di materiali

Matteo R.

Basato su:

Lezioni e dispense del prof. De Sanctis

M. De Sanctis, “Appunti sulla metallurgia degli acciai al carbonio e acciai inox”

W. Callister, D. Rethwisch “Scienza e ingegneria dei materiali”

In bocca al lupo!

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Sommario
Teoria delle dislocazioni 3
Frattura 10
Diagrammi di fase 19
Trasformazioni di fase 29
Trattamenti termici nei materiali metallici 38
Acciai al carbonio 44
Acciai inossidabili 52
Le ghise 61
Alluminio e leghe di alluminio 62
Indurimento per precipitazione 63
Rame e leghe di rame 64
Titanio e leghe di titanio 65
Magnesio e leghe di magnesio 66
Superleghe 66
Principali strutture metallografiche negli acciai 67
Materiali ceramici 69
Vetri 72
Cementi 76
Materiali polimerici 78
Materiali compositi 90
Autotensioni 92

La parte di corrosione verrà fornita dal professore durante le lezioni. E’ utile integrare la parte sui
compositi con i grafici relativi alla lunghezza delle fibre. Per il resto credo di aver messo un po’ di
tutto, spero risulti utile per un ripassone!

Domande possibili all’orale 98

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Teoria delle dislocazioni
I materiali si dividono in due specie, a seconda della diversa orientazione dei cristalli che li compongono:
1. Monocristallini, se la disposizione periodica degli atomi si ripete perfettamente lungo l’intero
campione, senza alcuna interruzione. Tutte le celle unitarie sono allora interconnesse allo stesso
modo e possiedono la stessa orientazione;
2. Policristallini, se la disposizione periodica degli atomi non segue uno schema preciso e univoco, ma
varia casualmente dando origine a orientazioni sempre diverse, i cui confini sono detti bordi di grano.
Tra i vari difetti che un materiale metallico può avere ricordiamo:
1. Difetto di punto;
2. Difetti di linea, o dislocazioni;
3. Difetto di superficie, tra cui bordi di grano, difetti di impilamento…
Analizziamo ora il difetto di punto. Questi difetti possono essere di svariati tipi, tra i quali menzioniamo i
più importanti, che sono:
1. Vacanza, situazione che consiste nel mancato occupamento di alcune posizioni reticolari da parte di
alcuni atomi;
2. Sostituzionale, che consiste in atomi di soluto che occupano posizioni reticolari del metallo base;
3. Interstiziale, cioè, al contrario, atomi di soluto che per errore non occupano le posizioni reticolari che
dovrebbero nel metallo base;
4. Difetto di Schottky, cioè la presenza di una coppia di vacanze in un materiale a legame ionico. A
causa di questo difetto, sia l’anione sia il catione devono essere eliminati per mantenere la neutralità
elettrica;
5. Difetto di Frenkel, ovvero una coppia costituita da una vacanza seguita da un interstiziale, formata
quando un atomo “salta” in posizione interstiziale lasciandosi alle spalle una posizione vuota, cioè
una vacanza;
Il numero di vacanze, in particolare, risale al processo di solidificazione o riscaldamento ad elevata
temperatura del materiale. La relazione che lega il numero di vacanze in equilibrio alla temperatura è,
introdotta 𝑄 come l’energia di attivazione per la produzione di una vacanza, misurata in 𝐽/𝑚𝑜𝑙:
𝑄
𝑛𝑣𝑎𝑐 = 𝑛𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖 ∙ 𝑒 −𝑅𝑇
Passiamo ai difetti di linea. Considerando il processo di formazione di un cristallo, e supponendo che muti
la sua forma mediante uno scorrimento rigido di un piano atomico rispetto ad un altro, lo sforzo teorico
calcolato risulta essere:
2𝜋𝑥
𝜏 = 𝜏𝑚 sin
𝑎
Dove 𝜏𝑚 risulta essere la tensione a taglio massima per uno spostamento pari ad una distanza interatomica
𝑎. Lo sforzo teorico calcolato risulta essere di parecchi ordini di grandezza minore rispetto a quello verificato
sperimentalmente, e questa discrepanza può essere calcolata grazie alla teoria delle dislocazioni. Si
assume quindi che la deformazione nel cristallo non avvenga attraverso uno scorrimento in blocco di una
parte del cristallo rispetto all’altra, ma che lo scorrimento inizi in una regione localizzata nel reticolo e si
espanda poi gradualmente nella parte rimanente del piano. In questo modo, per realizzare lo scorrimento
progressivo di un piano atomico rispetto ad un altro, è necessaria la rottura di un numero limitato di legami
interatomici relativi solo alla linea di scorrimento avanzante e non, come nel caso dello scorrimento rigido,

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estesa a tutti gli atomi del piano. Una volta innescato un movimento di dislocazioni, quindi, i legami
interatomici del piano di scorrimento vengono interrotti lungo il piano di taglio per consentire il passaggio
della dislocazione, prima di formare nuovamente altri legami con atomi diversi distorcendo così la forma del
reticolo. Il movimento avviene quindi per successive e ripetute interruzioni locali di legami e conseguente
scivolamento di una distanza interatomica dei semipiani superiori, scomponendo la forma ordinata e
perfetta del reticolo non prima né dopo, ma solo durante il passaggio, e dando luogo, alla fine del processo,
alla formazione di uno spigolo largo quanto una distanza interatomica sul bordo della superficie dell’ultimo
semipiano aggiuntivo del cristallo. Il moto delle dislocazioni si muove quindi “a gradini”, o “a gobbe di
bruco”, distorcendo localmente il reticolo lungo l’asse dello scorrimento avanzante per guadagnare un
avanzamento in lunghezza pari ad una distanza interatomica. Una dislocazione può essere di diversi tipi:
1. Dislocazione a vite, che è il risultato di una deformazione del reticolo dovuta ad uno sforzo di puro
taglio, il cui asse si trova al centro di una rampa di piani atomici disposti a forma di spirale;
2. Dislocazione a spigolo, in cui il reticolo viene deformato all’estremità di un semipiano aggiuntivo di
atomi sul quale si trova anche l’asse della dislocazione;

Il processo che produce deformazione plastica per moto di dislocazioni è chiamato scorrimento. Il piano
cristallografico sul quale si sposta l’asse della dislocazione è quindi detto piano di scorrimento. Tutti i metalli
e le leghe contengono dislocazioni, le cui cause possono essere:
1. Processi di solidificazione;
2. Processi di deformazione plastica;
3. Stati tensionali dovuti alla temperatura durante il processo di raffreddamento;
Il numero di dislocazioni si misura grazie alla densità di dislocazioni, espressa in millimetri di dislocazione su
millimetri cubi di volume, e raggiunge valori molto elevati di 109 − 1010 per metalli fortemente deformati
plasticamente, valori medi di 102 − 104 per alcuni materiali ceramici o valori bassissimi per il monocristallo
di silicio usato per i circuiti integrati, il cui valore non supera 0,1 − 1. Le proprietà meccaniche dei materiali
vengono influenzate dalle caratteristiche delle dislocazioni. Infatti, un metallo quando viene deformato
plasticamente trattiene una piccola parte dell’energia di deformazione sfuggita alla dispersione termica, che
servirà per il moto delle dislocazioni. Ne consegue che all’interno del reticolo si andranno a creare zone in
cui le posizioni di alcuni atomi subiranno delle deformazioni reticolari di compressione, trazione o taglio:
infatti, gli atomi immediatamente sopra o adiacenti all’asse della dislocazione sono tra loro compressi, e si
possono immaginare come soggetti ad una deformazione di compressione rispetto al cristallo perfetto. Gli
atomi immediatamente sottostanti, invece, saranno sottoposti alla deformazione inversa, ovvero subiranno
un carico di trazione. Le deformazioni del reticolo possono essere considerate come campi di deformazioni
che si irradiano a partire dall’asse delle dislocazioni, estendendosi agli atomi circostanti ma diminuendo di
intensità con l’inverso della distanza. I campi di deformazione che interessano zone molto vicine possono
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essere soggetti ad alcune interazioni che ricordano il modello Coulombiano per le forze elettrostatiche. Due
dislocazioni a spigolo di trazione e compressione giacenti sullo stesso piano di scorrimento e direzioni
opposte tenderanno quindi a respingersi e a separarsi, mentre due dislocazioni dotate di segno opposto
tenderanno ad attrarsi, e quando si incontreranno si annulleranno a vicenda, formando di nuovo il reticolo
perfetto. Nel corso della deformazione plastica, il numero delle dislocazioni, è sempre in crescita. Importanti
sorgenti di nuove dislocazioni, infatti, sono:
1. Moltiplicazione di dislocazioni esistenti dovute a sforzi di
trazione/compressione; è dovuta alle sorgenti di dislocazioni
come quelle di Frank-Read, in cui una linea di dislocazione
bloccata alle estremità da due difetti reticolari, sotto l’azione a
trazione del vettore di Burgers, si incurva e si ripiega su se
stessa fino ad unirsi e a formare una dislocazione, per poi
riniziare da capo il processo;
2. Bordi di grano, graffi o intagli possono agire da
intensificatori di sforzi e generare nuove dislocazioni;
Le dislocazioni non si muovono con la stessa facilità su tutti i possibili piani cristallografici e in tutte le
direzioni: ovviamente devono esistere alcune direzioni di movimento privilegiate, dovute a condizioni più
favorevoli di altre il cui discriminante è come al solito, il bilancio energetico. La combinazione tra il piano di
scorrimento e la direzione di scorrimento viene definita sistema di scorrimento, che dipende dalla struttura
del reticolo cristallino del metallo e agisce in maniera tale che la distorsione atomica dovuta al passaggio di
una dislocazione sia minima. Per una particolare struttura cristallina, quindi, il piano di scorrimento è quel
piano che ha la più densa compattazione atomica, cioè quello che possiede la maggiore densità planare,
ovvero il rapporto tra l’area occupata dagli atomi nel reticolo e l’area disponibile in totale. Un dato piano di
scorrimento può contenere più di una direzione possibile, per cui per una particolare struttura del cristallo
possono esistere svariati sistemi di scorrimento, intesi come le possibili combinazioni tra i piani di
scorrimento e le direzioni di scorrimento percorribili su tali piani. Ad esempio, per un reticolo cristallino
cubico a facce centrate, sulla famiglia dei quattro piani di scorrimento {111} vi sono le tre possibili direzioni
<110>, il che dà origine a 12 possibili sistemi di scorrimento. Nel cubico a corpo centrato, invece, scegliendo
la famiglia di piani {321} e le direzioni <-111> si può arrivare anche a 24 sistemi di scorrimento, mentre per la
struttura esagonale compatta si va da un minimo di 3 ad un massimo di 6 sistemi di scorrimento disponibili
per il titanio e il magnesio. I metalli con strutture cristalline cubiche a corpo o a facce centrate, che hanno un
numero relativamente elevato di sistemi di scorrimento possibili, sono quindi più predisposti a deformarsi
plasticamente, proprietà che conferisce loro un certo grado di duttilità che non è ripetibile per i metalli con
configurazione reticolare esagonale compatta, che possedendo pochi sistemi di scorrimento, sono in genere
piuttosto fragili. Anche il movimento delle dislocazioni dipende in maniera notevole dalla temperatura:
infatti, a seconda della temperatura di esercizio si possono attivare due meccanismi diversi di movimento:
1. Per basse temperature, si attiva il meccanismo di scorrimento glide, che corrisponde
essenzialmente a quello visto fino ad ora, e cioè il moto lungo un piano di scorrimento che non
implica uno spostamento vero e proprio di materia ed è quindi conservativo;

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2. Per alte temperature, invece, si può attivare per le dislocazioni a spigolo un meccanismo di
movimento a climb con cui la dislocazione può muoversi lungo una direzione addirittura non
giacente sul proprio piano di scorrimento, che implica uno spostamento di materia ed è quindi non
conservativo. Ad alta temperatura o per elevati sforzi di taglio, inoltre, le dislocazioni a vite possono
anche superare degli ostacoli che trovano lungo il proprio piano di scorrimento, grazie ad un
meccanismo a scorrimento deviato cross slip.

Le dislocazioni hanno in sintesi queste proprietà:


1. Sono essenzialmente discontinuità di linea;
2. Formano loop interni al cristallo, oppure devono emergere sulla sua superficie formando dei gradini;
3. La differenza dell’entità dello scorrimento attraverso la linea della dislocazione è costante e pari al
vettore di Burgers, che è:
i) Parallelo alla linea della dislocazione per le dislocazioni a spigolo;
ii) Perpendicolare alla linea della dislocazione per le dislocazioni a vite;
Esaminiamo ora il processo di scorrimento attraverso di un monocristallo. Si può risolvere con i principi della
meccanica, definendo due angoli, l’angolo 𝜆 tra la direzione della sollecitazione indotta e la direzione di
scorrimento e l’angolo 𝜙 tra la direzione della sollecitazione indotta e la normale al piano di scorrimento.
Detta 𝐴0 l’area della superficie nominale del provino, ricaviamo che una sezione inclinata di tale provino avrà
equazione:
𝐴0
𝐴=
cos 𝜙
E ricordando la definizione di sforzo nominale:
𝐹
𝜎=
𝐴0
Inseriamo queste due condizioni nell’equazione dello sforzo di taglio risolto per ottenere:
𝐹 𝐹
𝜏𝑅 = cos 𝜆 → 𝜏𝑅 = cos 𝜆 cos 𝜙 → 𝜏𝑅 = 𝜎 cos 𝜆 cos 𝜙
𝐴 𝐴0
In generale 𝜆 + 𝜙 ≠ 𝜋/2, lo sarebbe se la direzione dello sforzo fosse parallela al piano di scorrimento o
perpendicolare alla normale al piano di scorrimento, che si verifica raramente e nei metalli dotati di pochi
sistemi di scorrimento, come quelli a struttura esagonale compatta. In queste orientazioni estreme, a
conferma della fragilità di tali tipi di strutture, il metallo si frattura direttamente piuttosto che deformarsi
plasticamente. Negli altri casi più comuni, un sistema di scorrimento è in genere orientato nel modo più
favorevole, e cioè in quello capace di avere uno sforzo di taglio indotto massimo:
𝑅
𝜏max = 𝜎 (cos 𝜆 cos 𝜙)max
Lo scorrimento in un cristallo inizia, nel sistema di scorrimento orientato nel modo più favorevole, non
appena lo sforzo di taglio indotto raggiunge e pareggia lo sforzo di taglio indotto critico 𝜏𝑠𝑡𝑖𝑐 , che
rappresenta lo sforzo di taglio minimo richiesto per poter iniziare lo scorrimento e costituisce una proprietà
del materiale il cui valore viene definito dal carico di snervamento 𝜎𝑠 . Il metallo passa da un campo elastico
a un campo a comportamento plastico (si snerva) quando lo sforzo indotto critico raggiunge il valore del
carico di snervamento, e cioè:

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𝜏𝑠𝑡𝑖𝑐
𝜎𝑠 =
(cos 𝜆 cos 𝜙)max
Il cui minimo, tenendo costanti i carichi, si ottiene quando 𝜆 = 𝜙 = 𝜋/4. In queste condizioni, si ottiene:
𝜎𝑠 = 2𝜏𝑠𝑡𝑖𝑐
La deformazione di un monocristallo sollecitato a trazione si ottiene quindi grazie ad uno scorrimento che
avviene attraverso un certo numero di piani e direzioni equivalenti e favorevoli, che forma dei piccoli gradini,
paralleli tra loro che si sviluppano lungo il profilo della circonferenza del cristallo. Nei materiali
policristallini, invece, la deformazione plastica e lo scorrimento sono più complessi, dato che i grani
cristallini hanno una orientazione cristallografica del tutto casuale. In un materiale policristallino, ad
un’intensa deformazione plastica corrisponde una intensa deformazione per scorrimento di ogni singolo
grano. Lungo i bordi di grano viene infatti conservata sia l’integrità meccanica sia la coesione, e come
conseguenza, ciascun bordo di grano viene costretto dai grani adiacenti ad assumere, entro certi limiti, una
determinata forma, più allungata verso la direzione di scorrimento. I materiali policristallini sono più forti di
un loro policristallo, il che significa che per iniziare lo scorrimento e il concomitante snervamento si
richiedono sforzi maggiori:
𝜎𝑠 = 3𝜏𝑠𝑡𝑖𝑐
Anche se un singolo grando, infatti, può risultare ai fini dello scorrimento orientato favorevolmente con lo
sforzo applicato, non può iniziare a deformarsi fino a che i grani ad esso adiacenti ed orientati meno
favorevolmente non siano in grado di scorrere a loro volta. In alcuni metalli la deformazione plastica può
avvenire per geminazione, ovvero uno sforzo di taglio può produrre spostamenti di atomi in modo tale che
su un lato di un piano geminato gli atomi si dispongono con una particolare simmetria, per formare
un’immagine speculare degli atomi presenti sull’altro lato. L’ampiezza dello spostamento all’interno della
zona di geminazione è proporzionale alla distanza tra due piani di geminazione, inoltre il piano geminato
compare su un piano cristallografico ben definito, con una precisa orientazione, che dipende dalla struttura
cristallina, ad esempio nel cubico a corpo centrato il piano geminato e la direzione associato sono (112) e
[111]. Se in un monocristallo la deformazione procedeva per gradini, in un policristallo, il perimetro della
deformazione risulta essere omogeneo per due motivi:
1. Per lo scorrimento nel monocristallo si parlava di distanze interatomiche quantizzate o quantomeno
multiple di una distanza interatomica, mentre per la geminazione si possono raggiungere
spostamenti anche di molto inferiori ad una distanza interatomica.
2. Per scorrimento l’orientazione cristallografica sopra e sotto il piano di scorrimento resta la stessa
prima e dopo la deformazione, mentre per geminazione si verifica una riorientazione nel piano
geminato.
La geminazione compare nei metalli con strutture caratteristiche cubiche a corpo centrato e esagonali
compatte, a basse temperature e a velocità di sollecitazione piuttosto elevate, condizioni in cui sono pochi i
sistemi di scorrimento che risulterebbero operativi. La quantità di deformazione plastica ottenuta per
geminazione è comunque inferiore a quella che si otterrebbe per scorrimento, ma l’importanza della
geminazione è quella dovuta al riorientamento cristallografico sul piano geminato, condizione che può
fornire nuovi sistemi di scorrimento più favorevoli rispetto alla direzione di sollecitazione in maniera da
innescare nuovi sistemi di scorrimento più probabili.
Tra i difetti di superficie i più importanti sono i bordi di grano, ovvero quelle regioni ad elevata distorsione
reticolare che separano cristalli ad orientazione cristallografica differente. Per la loro elevata difettosità, i
bordi di grano possono ostacolare efficacemente il movimento delle dislocazioni all’interno del materiale e
quindi contribuire all’aumento della resistenza del materiale stesso. Quanto più il materiale è a grana fine
quanto maggiore sarà la presenza di bordi di grano e quindi il rafforzamento microstrutturale. E’ valida la
relazione di Hall-Petch:
𝜎𝑠 = 𝜎0 + 𝑘 𝑑−1/2
Dove 𝜎𝑠 rappresenta il carico di snervamento del materiale metallico, 𝑑 è il diametro medio dei grani, e le
altre due sono costanti relative al metallo. Si vede quindi che all’aumentare della dimensione dei grani,
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diminuisce il carico di snervamento e quindi la resistenza, che invece aumenta per dimensioni sempre più
piccole dei grani. Tale relazione è affidabile specialmente a basse temperature, almeno inferiori a quelle di
fusione del metallo, dato che al alte temperature possono avere luogo scorrimenti relativi tra i grani che
falsano l’esperienza. La dimensione del grano austenitico influenza apprezzabilmente le proprietà
meccaniche dell’acciaio, che è definita con un numero 𝑁 da ricavare nella relazione:
𝑛 = 2𝑁−1
Dove 𝑛 è il numero dei grani per pollice al quadrato misurato a 100 ingrandimenti e 𝑁 è il parametro della
dimensione A.S.T.M.
Vediamo ora alcune tecniche di rafforzamento resistenziale nei metalli. Dato che la deformazione plastica
macroscopica comporta il movimento di un gran numero di dislocazioni, riducendo la mobilità delle
dislocazioni si può aumentare la resistenza meccanica. In pratica, limitando o ostacolando il movimento
delle dislocazioni si rende un materiale più duro e resistente.
1. Riduzione della dimensione del grano: Il bordo del grano, al passaggio di una dislocazione, si
comporta come una barriera per due ragioni:
a. Dal momento che due grani hanno differenti orientazioni, una dislocazione che passa in un
altro grano deve cambiare direzione di movimento; questo diventa ovviamente più difficile
all’aumentare della diversità di orientazione;
b. Lo stato di disordine degli atomi in corrispondenza dei bordi di grano porta ad una
discontinuità di scorrimento dei piani passando da un grano all’altro;
Dalla relazione di Hall-Petch, quindi:
𝑘
𝜎𝑠 = 𝜎0 +
√𝑑
Si vede subito che riducendo la dimensione dei grani, il carico di snervamento e cioè quello
necessario per indurre una deformazione plastica, aumenta, rendendo il materiale non solo più
resistente ma anche più tenace. Vediamo ora di completare la relazione di Hall-Petch, andando a
specificare meglio la dipendenza della resistenza del singolo grano cristallino 𝜎0 da altri parametri,
immaginando di tenere costante, stavolta, la dimensione del grano:
𝜎0 = 𝜎𝑃𝑁 + 𝜎𝑆𝑆 + 𝜎𝐷𝐼 + 𝜎𝑃𝑅
Dove 𝜎𝑃𝑁 è la resistenza intrinseca del cristallo di Piers-Nabarro che è quindi una costante che
dipende dal materiale e non si può modificare, 𝜎𝑆𝑆 è il rafforzamento per soluzione solida, 𝜎𝐷𝐼 è il
rafforzamento per dislocazioni/incrudimento e 𝜎𝑃𝑅 è il rafforzamento per precipitazione. Vediamo
il contributo di questi fattori.
2. Indurimento per soluzione solida: un’altra tecnica per aumentare la resistenza di un metallo è
quello di alligarlo con atomi di impurezza in modo da formare una soluzione solida interstiziale o di
sostituzione. Il valore di 𝜎𝑆𝑆 è dato dalla legge:
𝜎𝑆𝑆 = ∑ 𝐾 ∙ % elementi di lega
Dove 𝐾 è una costante tipica del materiale. Si vede bene che aumentando l’alligazione aumenta la
resistenza del singolo grano cristallino che fa, di conseguenza, aumentare anche il carico di
snervamento necessario per indurre una deformazione plastica. Infatti, la presenza di atomi di
soluto disciolto in soluzione solida interstiziale o sostituzionale induce distorsioni reticolari e quindi
campi tensionali capaci di interagire con il movimento delle dislocazioni. Per esempio, se un atomo
di impurezza è più piccolo di quelli del reticolo cristallino, sugli atomi che lo circondano saranno
indotte deformazioni a trazione. Gli atomi di soluto tendono a diffondere e a segregare intorno alle
dislocazioni in modo da ridurre l’energia di deformazione totale, cioè in maniera da annullare parte
della deformazione del reticolo che circonda una dislocazione. Gli atomi di soluto attirati dai campi
elastici relativi alle dislocazioni danno origine alle cosiddette atmosfere di Cottrell. La dislocazione
pertanto risulterà ancorata così che lo sforzo per innescarne il moto sarà maggiore rispetto a quello
relativo ad una dislocazione libera. Durante l’allungamento un provino è caratterizzato dalla
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presenza di bande di Luders, bande inclinate a 45° rispetto alla direzione dello sforzo, che
dipendono dalla concentrazione chimica, dal tempo e dalla temperatura, che è segno di una certa
disuniformità nell’applicazione delle tensioni all’interno del materiale. Si può risolvere con skin-pass;
3. Indurimento per precipitazione: La presenza di una fine dispersione di precipitati all’interno di una
lega può determinare un sensibile incremento del relativo limite elastico. L’effetto indurente è
significativo quando le dimensioni delle particelle non sono più grandi di 10−6 millimetri, il loro
numero è elevato e la separazione tra le particelle molto contenuta. In questo caso, le particelle
possono interferire col movimento delle dislocazioni, anche se presenti in frazioni volumetriche
molto piccole rispetto alla matrice:
frazione volumetrica
𝜎𝑅𝑃 = 𝐾 ∙
diametro medio particelle
Il massimo effetto indurente si realizza nel passaggio da un meccanismo di interazione con
attraversamento del precipitato ad un meccanismo di aggiramento da parte delle dislocazioni,
secondo Orowan-Looping: quando la dislocazione ha attraversato l’ostacolo di precipitato
aggirandolo, lascio intorno a quest’ultimo un anello di dislocazione situato sul piano di scorrimento.
Ciascun anello esercita una retrotensione e pertanto aggiunge una difficoltà complementare per le
altre dislocazioni che tentano di superare l’ostacolo sullo stesso piano di scorrimento.

4. Rafforzamento per dislocazioni/incrudimento: una deformazione plastica a freddo porta


generalmente a un aumento della densità delle dislocazioni con aumento della probabilità di
interazioni che rallentano ed ostacolano il moto delle dislocazioni stesse. La relazione è:
𝜎𝑅𝐼 = 𝐾 ∙ √𝜌𝑑
Dove 𝜌𝑑 è la densità delle dislocazioni. Si vede che quindi, all’aumentare della densità delle
dislocazioni aumenta la resistenza del singolo grano cristallino e secondo Hall-Petch aumenta di
conseguenza anche il carico di snervamento. A livello microscopico, il diminuire della distanza tra le
dislocazioni ha come conseguenza l’intralcio per il propagarsi delle dislocazioni stesse. Dopo ogni
deformazione plastica il carico di snervamento, anche dopo un certo recupero elastico, non è mai
uguale a prima, ma sempre maggiore, fino a coincidere col carico a rottura. La percentuale di
deformazione a freddo si ottiene dalla relazione:
𝐴0 − 𝐴
LF % = ( ) × 100
𝐴0
Le caratteristiche connesse con la lavorazione a freddo sono:
1) Si può raffreddare il materiale e produrre nel contempo la forma desiderata;
2) Si possono ottenere buone finiture superficiali ed eccellenti tolleranze dimensionali;
3) Basso costo ed è molto adatta alla produzione di grandi quantità di piccoli pezzi;
4) La duttilità, la tenacità e la resistenza alla corrosione possono essere modificate;
5) Variazioni non molto rilevanti sulla conducibilità elettrica;
6) Si introducono nel materiale autotensioni che, a seconda del segno e dell’entità,
possono essere dannose;
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Un metallo che ha subito un’intensa deformazione a freddo accumula parte dell’energia di deformazione
plastica sotto forma di energia potenziale elastica accumulata in corrispondenza dei difetti reticolari. E’
possibile eliminare gli effetti di una deformazione a freddo riportando il materiale nelle condizioni di duttilità
originarie mediante un trattamento termico denominato ricottura di ricristallizzazione. Il materiale viene
portato ad una temperatura indicativamente superiore alla semitemperatura di fusione ma inferiore alla
temperatura di trasformazione di fase. Il processo si articola attraverso tre possibili stadi:
1. Recovery: Parte dell’energia interna immagazzinata viene rilasciata in virtù del movimento di
dislocazioni che si verifica per la diffusione degli atomi che si attiva ad alta temperatura. Si attivano
i moti di climb delle dislocazioni che superano così gli ostacoli più difficili e, incontrandosi tra loro,
aumenta la probabilità di annullarsi tra dislocazioni opposte. Le dislocazioni residue, tutte dello
stesso segno, si riorganizzano in una configurazione di minor energia mediante il processo di
poligonalizzazione e nel materiale si generano dei grani a piccolo angolo chiamati subgrani.
2. Ricristallizzazione primaria: in questa fase nel materiale nucleano dei nuovi grani non deformati ed
equiassiali, con basse densità di dislocazioni che sostituiscono totalmente la struttura preesistente.
Viene così fortemente ridotta l’energia elastica con marcato effetto sulle caratteristiche meccaniche
che ritornano simili a quelle antecedenti alla lavorazione a freddo.
3. Ricristallizzazione secondaria: Questa fase si attiva solo se il materiale permane in temperatura
per tempi piuttosto lunghi. Il risultato è un aumento anche rilevante delle dimensioni del grano
secondo la relazione:
𝑑𝑛 − 𝑑0𝑛 = 𝐾𝑡
Che comporta un decadimento delle caratteristiche meccaniche del materiale per cui, in genere,
quest’ultimo processo è da evitarsi.
La ricristallizzazione dipende fortemente dalla temperatura e dal tempo di esposizione in temperatura. Si
noti che:
1. Affinché il materiale ricristallizzi è necessario superare un certo livello critico di deformazione:
maggiore è la deformazione, minore sarà la temperatura di ricristallizzazione;
2. Al crescere della temperatura di ricristallizzazione diminuisce corrispondentemente il tempo
necessario a compiere il processo;
3. Tempo e temperatura sono collegati tra di loro, ma il contributo più importante spetta alla
temperatura: infatti raddoppiando il tempo di esposizione, ad esempio, la temperatura di
ricristallizzazione si modifica di pochi soli gradi;
4. La presenza di atomi estranei, come impurezze o soluti innalza la temperatura di inizio di
ricristallizzazione;
Si può ovviamente deformare un metallo a caldo, anziché a freddo, e cioè esercitando un lavoro sul metallo
a temperature di esposizione superiori a quelle di ricristallizzazione. Ad alta temperatura le dislocazioni,
bloccate nel loro movimento provocato da una deformazione plastica, possono muoversi con più facilità e
interessare rapidamente altri piani atomici. Il materiale così deformato a caldo ha una densità molto bassa
di dislocazioni, e pertanto subisce minor incrudimento di uno lavorato a freddo, mostrando inoltre un minor
valore del carico di snervamento e una maggior duttilità. Durante la deformazione a caldo i grani sono
allungati, anisotropi e ricristallizzano immediatamente. Gli effetti di una deformazione a caldo sono:
1. Distruzione delle strutture di solidificazione, fortemente anisotrope e generazione di strutture più
fini e tendenzialmente isotrope;
2. Parziale ridistribuzione di eventuali segregazioni con omogeneizzazione della composizione
chimica;
3. Assenza di rafforzamento del materiale;
4. Possibilità di imporre deformazioni plastiche elevatissime;
Frattura
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La frattura consiste nella separazione di un corpo in uno o più elementi costituenti per effetto di un carico
statico e a temperature molto più basse rispetto alla temperatura di fusione. La frattura, generalmente, può
essere di tre tipi:
1. Frattura duttile;
2. Frattura fragile;
3. Frattura per fatica;
La classificazione si basa sulle caratteristiche del materiale, soprattutto sul grado che possiede di subire una
deformazione plastica. I metalli duttili mostrano una notevole capacità di deformarsi plasticamente,
assorbendo grandi quantità di energia prima della rottura. La rottura di tipo fragile è invece caratterizzata
da scarsa o nulla deformazione plastica ed è accompagnata da un basso assorbimento di energia. Il fatto che
una rottura avvenga in maniera duttile o fragile dipende dalla situazione particolare in cui questa avviene: la
duttilità può essere quantificata in termini di allungamento percentuale o di riduzione percentuale della
sezione, inoltre la duttilità è funzione anche:
1. Della temperatura del materiale:
deformazione nominale 𝜀 = 𝐾 ∙ Δ𝑇
2. Della velocità di deformazione;
3. Delle modalità di sollecitazione;
Per effetto di una sollecitazione, il processo di rottura avviene in due stadi:
1. Formazione della cricca;
2. Propagazione della cricca;
La rottura duttile è caratterizzata da un’intensa deformazione plastica che si sviluppa nelle immediate
vicinanze della cricca che avanza, e il processo di evoluzione della frattura è piuttosto lento: questo tipo di
cricca viene perciò definito stabile, perché resiste ad ogni ulteriore avanzamento finché non si aumenta il
carico applicato. Si verifica inoltre una marcata deformazione delle superfici di rottura. Nella frattura di tipo
fragile, invece, le cricche possono propagarsi in modo estremamente rapido, con deformazione plastica
molto contenuta: tali cricche vengono definite instabili, in quanto la propagazione, una volta innescata,
continua inesorabilmente e spontaneamente senza bisogno di aumentare il carico applicato. Per questo la
frattura duttile è sempre preferibile ad una frattura fragile per due motivi:
1. La frattura fragile avviene improvvisamente ed in modo catastrofico, senza nessun preavviso, a
causa della propagazione spontanea della cricca senza bisogno di aumentare il carico applicato,
mentre nella frattura duttile la presenza di deformazione plastica è un chiaro segnale del pericolo di
frattura che consente, quindi, di adottare misure preventive;
2. Per provocare una frattura duttile, inoltre, è richiesta un’energia di deformazione superiore, per cui
questi metalli sono in genere più tenaci. Sotto l’azione di uno sforzo di trazione molte leghe
metalliche presentano comportamento duttile, mentre i ceramici sono tipicamente fragili e i
polimeri possono mostrare comportamenti sia fragili che duttili;
La frattura duttile avviene principalmente in diversi stadi:
1. Il processo di rottura è anticipato da una moderata strizione;
2. Una volta iniziata la strizione, nella sezione trasversale allo sforzo applicato al materiale cominciano
a formarsi delle piccole cavità o microvuoti;
3. Al proseguire della trasformazione, i microvuoti si ampliano e si avvicinano fino a coalescenza,
formando una cricca ellittica, il cui asse maggiore risulta perpendicolare alla direzione dello sforzo;
4. La cricca continua a crescere in larghezza, in direzione parallela all’asse maggiore, in virtù della
continua coalescenza dei microvuoti;
5. Alla fine, si ha rottura a causa della rapida propagazione della cricca lungo il perimetro esterno della
sezione ridotta per strizione. La rottura avviene per deformazione di taglio, mostrando un angolo di
circa 45° rispetto all’asse di trazione, angolo corrispondente al massimo sforzo di taglio risolto
secondo la relazione di Schmidt. Una frattura di questo genere è detta frattura a coppa e cono data

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la forma dei pezzi separati. La parte centrale appare fibrosa e irregolare, chiaro sintomo di
deformazione plastica;
L’analisi frattografica al microscopio a scansione di una cricca può rivelare importanti fattori, ad esempio:
1. Il modo in cui è avvenuta: la zona fibrosa della zona a coppa e cono, infatti, presenta delle fibrosità
che al microscopio risultano essere delle depressioni emisferiche, ognuna delle quali corrisponde ad
una metà del microvuoto formatosi e separatosi durante il processo di rottura, struttura
caratteristica di uno sforzo a trazione uniassiale; le cavità sul margine a taglio inclinato di 45°, invece,
risultano allungate, a forma di C, con una geometria simile a quella di una parabola, che è indicativo
di uno sforzo a taglio.
2. Stato tensionale;
3. Punto di innesco della cricca;
La meccanica della frattura permette di quantificare le relazioni che intercorrono tra le proprietà del
materiale, il livello di sforzo, la presenza di difetti capaci di indurre formazioni di cricche e i meccanismi di
propagazione della cricca. I valori sperimentali della resistenza a frattura sono, di solito, di parecchio inferiori
rispetto a quelli calcolati teoricamente in base alle energie di legame degli atomi. Questa differenza viene
spiegata con la presenza di microscopici difetti che esistono sempre, in condizioni normali, sia in superfici
che all’interno di un materiale. Tali difetti sono in
grado di ridurre la resistenza alla rottura dato che
ai loro apici il carico applicato può essere
amplificato o concentrato e l’intensità di
amplificazione dipende dall’orientazione della
cricca e dalla sua geometria. In particolare,
l’intensità dello sforzo puntuale diminuisce
allontanandosi dall’apice della cricca, per cui in un
punto sufficientemente distante, lo sforzo
intensificato non è diverso dallo sforzo nominale,
tipico del materiale, ovvero al carico applicato
diviso per la sezione iniziale trasversale. Questi
difetti, per la capacità di aumentare il carico
applicato, vengono chiamati intensificatori di
sforzi. Assumendo che una cricca sia simile ad un
foro ellittico passante, orientato
perpendicolarmente al carico applicato, lo sforzo massimo all’apice della cricca è approssimativamente
uguale a:
𝑎
𝜎𝑚 = 2𝜎0 √
𝜌𝑡
Che deriva dal criterio di Inglis:
𝑎
𝜎𝑚 = 𝜎0 (1 + 2√ )
𝜌𝑡
Dove 𝜎0 è l’intensità dello sforzo nominale a trazione applicato, 𝜌𝑡 è il raggio di curvatura all’apice della cricca
e 𝑎 è la semilunghezza dell’asse maggiore della cricca ellittica. Si nota che per fori circolari il valore dello
sforzo è doppio rispetto a quello nominale. Lo sforzo intensificato potrebbe non far variare di molto il valore
dello sforzo nominale se la cricca fosse disposta con l’asse maggiore parallelo all’asse di applicazione del
carico, mentre per grandi larghezze e piccoli raggi di curvatura potrebbe intensificare lo sforzo anche di
diversi ordini di grandezza. Si introduce un fattore di concentrazione degli sforzi definito come:

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𝜎𝑚 𝑎
𝐾𝑡 = = 2√
𝜎0 𝜌𝑡
Che corrisponde al grado di amplificazione relativa dello sforzo all’apice di una cricca. Tale intensificazione
può manifestarsi inoltre anche in corrispondenza di vuoti, inclusioni, angoli appuntiti e intagli. L’effetto di
intensificazione dello sforzo è più significativo per i materiali fragili che per quelli duttili. Per un metallo
duttile, la deformazione plastica si ottiene quando il carico applicato supera il carico di snervamento, che
porta ad una più uniforme distribuzione degli sforzi in prossimità dell’intensificatore e a un fattore di
concentrazione degli sforzi massimo minore di quello teorico. Utilizzando i principi della meccanica della
frattura, è possibile dimostrare che lo sforzo critico richiesto affinché si abbia propagazione della cricca in
un materiale fragile è descritto dall’equazione di Griffith:
2𝐸𝛾𝑠
𝜎𝑐 = √
𝜋𝑎
Dove 𝐸 è il modulo elastico del materiale, 𝛾𝑠 è l’energia superficiale specifica e 𝑎 è la solita semilunghezza di
una cricca interna. Quando il valore di uno sforzo di trazione all’apice di una cricca supera quello critico, la
cricca si propaga portando alla rottura del pezzo. Inoltre possiamo introdurre un altro parametro molto
importante, detto tenacità a frattura, che misura la resistenza del materiale alla frattura fragile a seconda
dello sforzo critico di propagazione della cricca:
𝐾𝑐 = 𝑌𝜎𝑐 √𝜋𝑎
Dove 𝑌 è un parametro adimensionale che dipende dalle dimensioni, dalla geometria del provino e dal modo
in cui si applica il carico. Tale parametro è parecchio vicino all’unità per piastre contenenti cricche molto più
corte rispetto alla loro larghezza. Nella geometria del provino è incluso anche il suo spessore: se però tale
spessore è molto più grande delle dimensioni della cricca siamo nel campo della deformazione piana,
condizione per cui applicando un carico non si manifestano deformazioni in direzioni perpendicolari alle
facce della piastra. Il valore della tenacità alla frattura in condizioni di deformazione piana diventa:
𝐾𝐼𝑐 = 𝑌𝜎√𝜋𝑎
I materiali fragili hanno bassi valori di tenacità a frattura e portano spesso a rotture catastrofiche. La tenacità
alla frattura in condizioni di deformazione piana è una proprietà fondamentale di un materiale e dipende da
diversi fattori, tra cui i più influenti sono:
1. La temperatura: al diminuire della temperatura, il valore della tenacità a frattura diminuisce;
2. La velocità di deformazione: all’aumentare della velocità di trasformazione, la tenacità a frattura
diminuisce;
3. La microstruttura;
Le variabili da prendere in considerazione per valutare la possibilità di rottura di un componente strutturale
sono quindi tre:
1. La tenacità della frattura (eventualmente in condizione piana);
2. Lo sforzo imposto;
3. Le condizioni del difetto;
Per la scelta di un componente in fase di progettazione inoltre è spesso comodo tenere in considerazione
alcune proprietà tipo la densità e la resistenza a corrosione ambientale. E’ importante capire, però, che una
volta adottata una combinazione di due tra questi tre parametri elencati, il terzo risulta univocamente
determinato. Se si sceglie di vincolare la tenacità a frattura e la dimensione del difetto, si può calcolare lo
sforzo critico di progetto come:
𝐾𝐼𝑐
𝜎𝑐 =
𝑌√𝜋𝑎
Oppure, se il livello di carico e la tenacità a frattura sono già stati inclusi nel progetto, si può calcolare il valore
massimo ammissibile per le dimensioni del difetto come:

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1 𝐾𝐼𝑐 2
𝑎= ( )
𝜋 𝜎𝑌
Vediamo il meccanismo della frattura duttile. Suddividiamo in diversi punti le varie fasi della rottura duttile
e diamone una interpretazione:
1. Inizia la deformazione plastica legata allo
scorrimento su piani inclinati di 45° essendo
questi ultimi quelli privilegiati come già visto per
la legge di Schmidt. La presenza di impurità
presenti nella matrice provoca impilamento
progressivo di dislocazioni all’interfaccia
particella-matrice, in tal modo vengono a
formarsi delle microcavità nel materiale. Questo
fenomeno è più marcato nella parte centrale del
provino, dove il livello di sollecitazione raggiunto
è maggiore.
2. Col procedere della deformazione plastica
gli impilamenti di dislocazioni diventano più
consistenti e le microcricche aumentano di
conseguenza la propria dimensione. Il materiale compreso tra due cavità vicine subisce un
fenomeno di strizione, in questo modo si verifica una graduale coalescenza di microcricche, che
porta alla formazione di una cricca centrale a forma lenticolare, inclinata di 90° rispetto all’asse del
provino. Da tale difetto interno del materiale seguirà poi la frattura.
3. A questo punto, sui bordi della cricca si realizza una forte concentrazione degli sforzi: per l’esattezza,
la deformazione plastica si concentra su due bande partenti dall’apice della cricca e inclinate di
30/40° rispetto all’asse del provino. Su ognuna di queste bande la tensione può essere scomposta in
due componenti, una tangenziale e una normale: la componente normale spinge a decoesione tra i
piani cristallini nel materiale, mentre la componente tangenziale comporta ulteriore scorrimento
delle bande di deformazione, con conseguente formazione di ulteriori microcavità.
4. Queste nuove microcriche vengono anch’esse a coalescere determinando un ulteriore avanzamento
della cricca lungo una delle bande. Il diffondersi di una cricca lungo una banda non può proseguire
indiscriminatamente, perché questo provocherebbe un eccessivo allontanamento della sezione
centrale della provetta, sezione dove la sollecitazione e quindi la deformazione è maggiore.
Pertanto all’estremità della cricca vengono a formarsi ad un certo punto altre due bande di
scorrimento sempre inclinate come sopra. Si assiste in sostanza ad un avanzamento a “zig-zig” della
cricca, in modo che la frattura proceda lungo una direzione di avvicinamento al piano di massima
sollecitazione.
Vediamo il meccanismo della frattura fragile. Essa avviene senza alcun preavviso tipo ad esempio una
apprezzabile deformazione plastica. La
direzione del moto della cricca è molto
vicina a quella perpendicolare alla
direzione del carico. Si possono spesso
trovare, in un acciaio, delle serie di linee
a V rovesciata vicino al centro della
sezione trasversale della frattura che
puntano verso il sito di innesco. Altre
superfici tipiche di fratture contengono
linee o creste che si irradiano a ventaglio
dal punto di origine della cricca. La
frattura fragile forma di solito delle
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superfici di frattura molto lisce e levigate. Nella maggior parte dei materiali cristallini fragili, la cricca si
propaga attraverso rotture successive e ripetute dei legami atomici, lungo piani cristallografici ben precisi:
tale processo è detto clivaggio. La frattura a clivaggio viene detta transgranulare, perché le cricche passano
attraverso i grani. Macroscopicamente, la superficie di rottura può avere una struttura granulosa o
sfaccettata, come risultato dei cambi di orientazione dei piani di clivaggio da grano a grano. In alcune leghe
la frattura avviene lungo i bordi di grano ed è quindi detta intergranulare. Questo tipo di rottura è
normalmente dovuto ai processi di indebolimento o di infragilimento dei bordi dei grani.
Per valutare l’energia da impatto si usano le prove Charpy e Izod, che consistono nell’applicare un bilancio
energetico ad un martello che rompe un pezzo, lanciato da una data altezza. L’energia da impatto sarà
quindi la differenza di energia mancante a costituire tutta l’energia potenziale gravitazionale. Una delle
funzioni più importante di tale prova è quella di fornire indicazioni sul fatto che il materiale presenti una
transizione duttile-fragile al diminuire della temperatura. La transizione duttile-fragile, infatti, è legata alla
temperatura attraverso l’energia di impatto assorbita. Questa transizione comporta un utilizzo del materiale
a temperatura più elevate di quelle rispetto alla temperatura di transizione, indicata approssimativamente
come quella temperatura per cui il metallo ha un’energia di impatto pari a 20 Joule o un certo valore
percentuale di fibrosità. Vediamo la dipendenza impatto-temperatura:
1. Al diminuire della temperatura si può avere una transizione duttile fragile, che comporta un
accumularsi dei difetti nelle microcricche e una rottura improvvisa;
2. I metalli a bassa resistenza, ad esempio cubici a facce centrate ed esagonali compatti hanno una
elevata energia di impatto e si mostrano insensibili alla temperatura;
3. I materiali ad alta resistenza invece hanno una bassa energia di impatto e anch’essi non dipendono
dalla temperatura;
4. Negli acciai a bassa resistenza cubici a corpo centrato, i ceramici e i polimeri la curva energia di
impatto-temperatura mostra una transizione duttile fragile, che dipende da:
a. La composizione della lega;
b. La microstruttura;
Ad esempio, riducendo la dimensione dei grani di un acciaio, si ha una corrispondente diminuzione
della temperatura di transizione, quindi affinare le dimensioni del grano fa aumentare la resistenza
come già visto. Invece, l’aumento del contenuto di carbonio, sebbene provochi un aumento della
resistenza dell’acciaio, aumenta anche la temperatura di transizione duttile-fragile, con
conseguenze importanti sulla frattura.
La fatica è un tipo di cedimento che si verifica in strutture sottoposte a sforzi dinamici e fluttuanti. In queste
situazioni di carico è possibile che la rottura si manifesti a livelli di sforzo considerevolmente inferiori ai
carichi nominali di rottura o addirittura di snervamento. La fatica rappresenta la causa principale della
rottura dei metalli, all’incirca il 90%. Sono rotture catastrofiche e insidiose, perché si manifestano senza
alcun preavviso. Tale rottura avviene in maniera simile alla rottura fragile, anche in metalli che presentano
caratteristiche duttili. Lo sforzo applicato può essere di tipo assiale (trazione-compressione) oppure di
flessione o di torsione. In generale, sono possibili tre modi diversi di fluttuazione sforzo tempo:
1. Uno ha un andamento sinusoidale, regolare nel tempo, di ampiezza simmetrica rispetto ad un livello
medio di sforzo pari a zero, ad esempio alternando uno sforzo di trazione ad uno sforzo di
compressione di uguale ampiezza. Tale ciclo viene detto ciclo a carico invertito.
2. Un altro tipo, detto ciclo a carico ripetuto, presenta una asimmetria tra massimo e minimo rispetto
al livello di sforzo nullo, che può variare casualmente in ampiezza e in frequenza.
3. L’ultimo ciclo è detto ciclo a carico casuale.
Lo sforzo medio è definito come la media aritmetica dei carichi massimi e minimi applicati al ciclo:
𝜎max + 𝜎min
𝜎𝑚 =
2
L’intervallo di sforzo è la differenza di ampiezza tra lo sforzo massimo e quello minimo:
𝜎𝑟 = 𝜎max − 𝜎min
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L’ampiezza del ciclo di sforzo è la metà dell’intervallo di sforzo:
𝜎𝑟
𝜎𝑎 =
2
Il rapporto di carico è inoltre il rapporto tra
le ampiezze minima e massima dello
sforzo:
𝜎min
𝑅=
𝜎max
Anche le proprietà a fatica possono essere
determinate con prove di laboratorio. Una
campagna di prova inizia sottoponendo un
provino ad uno sforzo ciclico con
un’ampiezza di carico massimo
relativamente grande, normalmente pari a
due terzi della resistenza alla trazione
statica; viene contato il numero dei cicli a
rottura e la procedura è ripetuta su altri provini ad ampiezze di carico massimo progressivamente
decrescenti. I risultati vengono infine riportati in grafico come logaritmo del numero dei cicli a rottura in
funzione del carico applicato per ogni provino. Per alcune leghe ferrose si ha un asintoto orizzontale detto
limite di fatica e la rottura per fatica non avviene, che rappresenta il valore più grande di sforzo fluttuante
che non causerà rottura per un numero sostanzialmente infinito di cicli. Per molti acciai, il limite a fatica varia
tra il 35% e il 60% della resistenza a trazione. Molte leghe non ferrose, come alluminio, rame e magnesio
non presentano un limite di fatica e quindi la curva di Wohler o S-N prosegue nel suo andamento
decrescente all’aumentare del numero N dei cicli: in questo caso si avrà sempre fatica, indipendentemente
dall’ampiezza dello sforzo. Per questi materiali si può misurare la resistenza a fatica, che è il livello di sforzo
a cui si ha rottura per un numero definito di cicli. Un altro parametro importante è la vita a fatica, che
rappresenta il numero di cicli che provoca rottura ad un determinato carico. Il processo di rottura per fatica
avviene secondo tre fasi distinte:
1. Innesco della cricca, in cui si forma una piccola cricca in un punto dove si verifica un’alta
concentrazione di sforzo;
2. Propagazione della cricca, durante la quale la cricca avanza ad ogni ciclo di carico secondo il
fenomeno di blunding;
3. Frattura finale, che si verifica molto rapidamente una volta che la cricca raggiunge le dimensioni
critiche;
Le cricche associate alle rotture per fatica si innescano quasi sempre in corrispondenza della superficie di un
componente in un punto di concentrazione di sforzo. Siti di nucleazione della cricca possono essere:
1. Scalfitture superficiali;
2. Bruschi raccordi;
3. Sedi di chiavette e linguette;
4. Filetti, denti e simili;
In più, il carico ciclico può produrre microscopiche discontinuità superficiali risultanti dallo scorrimento di
dislocazioni che possono agire da intensificatori di sforzo locali ed essere perciò siti di innesco preferenziali
per le cricche. La regione di innesco della frattura può essere caratterizzata da due tipi di impronte, dette:
1. Linee di spiaggia;
2. Striature;
Entrambe appaiono come linee concentriche che si propagano dal sito di innesco della cricca , solitamente
in modo circolare o semicircolare. Le linee di spiaggia, a volte dette anche rigature di conchiglia, si possono
osservare ad occhio nudo e sono tipici di uno stadio di lavoro che include brusche interruzioni. Le striature

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invece sono microscopiche e la loro larghezza è in qualche modo proporzionale allo sforzo. Fattori
fondamentali nella fatica per i materiali metallici sono:
1. Presenza di intagli o concentrazioni dello sforzo;
2. Microstruttura;
3. Presenza di inclusioni;
4. Stato superficiale (rugosità, durezza superficiale, autotensioni)
5. Corrosione ambientale;
6. Autotensioni: sollecitazioni interne che non sono dovute all’applicazione di forze esterne e si vanno
a sommare alle sollecitazioni dovute all’applicazione del carico. Sono di origine elastica e possono
arrivare al massimo al valore del carico di snervamento. Sono dovute, di solito, a:
a. Deformazioni plastiche non omogenee;
b. Cicli termici;
c. Trasformazioni di fase;
Vediamo quali sono i trattamenti superficiali che possono migliorare la vita a fatica:
1. Finitura superficiale mediante lucidatura, che riduce la presenza di microintagli che possono
svolgere la funzione di intensificatori degli sforzi;
2. Introdurre una tensione residua di compressione in uno spessore sottile della superficie esterna. In
questo modo, un eventuale sforzo di trazione viene parzialmente annullato, o ridotto di intensità
dalla tensione residua di compressione, con conseguente riduzione delle probabilità di formazione
delle cricche, e quindi rottura per fatica. Viene ottenuta, di solito mediante:
a. Pallinatura: piccole sfere dure avente diametri dell’ordine di un decimo di millimetro
vengono proiettate ad alta velocità sulla superficie da trattare. La deformazione plastica
risultante induce sforzi di compressione a una profondità compresa tra un quarto e metà del
diametro dei pallini. Questo trattamento riesce a traslare in alto la curva di Wohler,
aumentando considerevolmente l’intensità dello sforzo applicato per giungere a rottura.
3. Col trattamento della cementazione (nitrurazione, borurazione), che porta ad aumentare sia la
durezza superficiale che la vita a fatica degli acciai. Si tratta di un processo di carburazione o
nitrurazione, che consiste nell’immergere i componenti ad elevata temperatura in un’atmosfera
ricca di carbonio o azoto. Si ottiene, per effetto della diffusione gassosa, uno strato superficiale
cementato profondo di solito un millimetro che è più duro del materiale interno e inoltre con questo
processo vengono introdotte anche delle autotensioni termiche e di compressione.
La vita a fatica di un pezzo dipende anche da fattori ambientali, come al solito merita una citazione la
temperatura. La fatica termica agisce ad alta temperatura ed è in genere imputabile a carichi termici
fluttuanti, anche senza il bisogno di applicare carichi meccanici esterni. L’origine di queste tensioni termiche
risiede nell’impossibilità delle strutture, sottoposte a variazioni di temperature, di espandersi o contrarsi
liberamente. L’intensità dello sforzo termico dovuto a una variazione di temperatura è funzione del
coefficiente di espansione termica e del modulo elastico secondo l’equazione:
𝜎 = 𝜆𝑙 𝐸Δ𝑇
Un modo ovvio per prevenire questa fatica è quello di eliminare o almeno ridurre le cause che non
consentono variazioni dimensionali. Esiste anche una rottura per corrosione-fatica: le violature chimiche
prodotte dalla corrosione possono agire da intensificatori di sforzi, inoltre la velocità di propagazione viene
esaltata dalla cinetica della corrosione.
Le deformazioni che avvengono a temperature elevate e sottoposti a sforzi meccanici di tipo statico sono
dette per scorrimento a caldo o creep. Per i metalli, lo scorrimento a caldo diviene fastidioso e rilevante per
temperature superiori alle 0,4 volte la temperatura assoluta di fusione. Al momento dell’applicazione del
carico si verifica una deformazione istantanea, che è completamente elastica. La curva di scorrimento
deformazione-tempo può essere suddivisa in tre regioni:

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1. Il creep primario o creep transitorio è caratterizzato da una velocità di scorrimento continuamente
decrescente, cioè suggerisce che il materiale sta aumentando la resistenza al creep o l’incrudimento
da deformazione;
2. Il creep secondario, o creep
stazionario, in cui la velocità è costante
e la curva diviene lineare. E’ lo stadio
che ha la durata maggiore. La velocità è
resa costante da una cooperazione dei
fenomeni di incrudimento e di
recovery, in quanto il primo rallenta la
deformazione innalzando il carico di
snervamento e il secondo scioglie i nodi
delle dislocazioni e rende il materiale
più duttile e di nuovo deformabile.
3. Il creep terziario comporta una
accelerazione della velocità fino al
cedimento finale, che è il risultato di modificazioni microstrutturali e metallurgiche, come la
separazione dei bordi dei grani e formazione di cricche interne, cavità e microvuoti. In caso di carichi
di trazione si ha anche una contrazione all’interno della regione deformata che porta ad una
diminuzione dell’area della sezione trasversale ed a un conseguente aumento della velocità da
deformazione.
All’aumentare della temperatura, si nota che:
1. La deformazione istantanea al momento dell’applicazione dello sforzo è maggiore;
2. La velocità del creep stazionario aumenta;
3. Il tempo di vita a rottura diminuisce;
La velocità del creep stazionario in funzione dello sforzo applicato e dalla temperatura viene definita dalla
relazione:
𝑑𝜀
= 𝐾𝜎 𝑛
𝑑𝑡
Dove 𝐾 e 𝑛 sono costanti del materiale. Se si considera anche l’influenza della temperatura, si ottiene:
𝑑𝜀 𝑄
= 𝐾𝜎 𝑛 𝑒 −𝑅𝑇
𝑑𝑡
L’esponente dello sforzo dipende dai meccanismi a creep, per esempio:
1. Azione di uno sforzo applicato;
2. Diffusione di vacanze;
3. Diffusione al contorno dei grani;
4. Movimento di dislocazione;
5. Scorrimento dei bordi di grano;
Sono correlate tra loro anche l’energia di attivazione della diffusione con l’energia di attivazione del creep. I
tre parametri fondamentali per cui conoscendone due il terzo è univocamente determinato sono:
1. Temperatura;
2. Livello di sforzo;
3. Velocità di deformazione;
In maniera ingegneristica, si forniscono per ogni materiale con metodi di estrapolazione di dati, delle curve
che ad ogni valore di sforzo fanno corrispondere un parametro, detto parametro di Larson-Miller, che
mette in relazione temperatura e tempo a rottura con la formula:
𝑇(𝐶 + log 𝑡𝑟 )
Dove 𝐶 è una costante adimensionale, in genere pari a 20.

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Sono state inoltre costruite delle mappe di Ashby dei meccanismi di frattura per leghe metalliche con
struttura cristallina cubica a facce centrate impiegando per assi 𝜎/𝐺 e 𝑇/𝑇𝑚 dove 𝐺 è il modulo di taglio, 𝑇𝑚
la temperatura di fusione e 𝑇/𝑇𝑚 la temperatura omologa. Queste mappe sono più importanti dei
meccanismi di deformazione perché evidenziano i processi di danneggiamento e di frattura e ci consentono
utili linee guida per la valutazione del danno e per la stima della vita rimanente per i pezzi di un impianto.
Dovendo progettare pezzi che operino ad alte temperature, è importante adoperare materiali con delle
caratteristiche opportune. Dato che il creep è un fenomeno diffusivo, ci serviranno quindi:
1. Materiali cubici a facce centrate che hanno minore diffusività come inox austenitici;
2. Metalli e leghe ad alto punto di fusione;
3. Superleghe di Nichel e Cobalto;
4. Materiali monocristallini o a grano grosso;
Diagrammi di fase
La genesi della microstruttura di una lega dipende essenzialmente dai suoi diagrammi di fase. I componenti
sono i metalli puri da cui una lega è formata, mentre una soluzione solida è formata da atomi di almeno due
tipi: gli atomi di soluto occupano, nel reticolo cristallino del solvente, posizioni interstiziali o di sostituzione
e viene mantenuta la struttura cristallina del solvente. Per determinati sistemi di leghe esiste una
concentrazione massima di atomi di soluto che possono venire disciolti nel solvente per formare una
soluzione solida: questa concentrazione massima viene definita limite di solubilità. L’aggiunta ulteriore di
soluto dà luogo alla formazione di un’altra soluzione solida con caratteristiche completamente differenti
dalle precedenti. Il limite di solubilità dipende dalla temperatura, e viene rappresentato in un diagramma
che riporta sulle ascisse la composizione percentuale in peso di soluto (e, per complementare a 100 anche
quella del solvente) e sulle ordinate la temperatura. Una fase può essere definita come una porzione
omogenea di un sistema che ha caratteristiche chimiche e fisiche uniformi. Ogni materiale puro viene
considerato una fase. Se in un sistema si troveranno più fasi, tutte queste avranno caratteristiche chimiche
e fisiche differenti ed esisterà una superficie di separazione tra di loro. Un sistema monofasico viene definito
omogeneo, mentre si dice miscela un sistema costituito da più fasi. Abbiamo fino ad ora incontrato diverse
proprietà che dipendono dalla microstruttura di un materiale. Nelle leghe metalliche, la microstruttura è
caratterizzata sostanzialmente:
1. Dal numero delle fasi presenti;
2. Dalla loro quantità relativa;
3. Dal modo in cui sono costituite e disposte;
4. Presenza di elementi di lega;
5. Eventuali trattamenti termici cioè:
a. La temperatura raggiunta;
b. La durata del soggiorno;
c. La velocità di raffreddamento fino alla temperatura ambiente;
Il concetto di equilibrio può essere spiegato efficacemente in termini della energia libera, che è una funzione
dell’energia interna di un sistema combinata con l’entropia intesa come casuale disposizione degli atomi o
delle molecole. In determinate condizioni di temperatura, pressione e concentrazione, un sistema è
all’equilibrio se la sua energia libera è al minimo, che in senso macroscopico si traduce nella stazionarietà del
sistema. L’equilibrio di fase si riferisce ai sistemi in ci può esistere più di una fase. I diagrammi di equilibrio di
fase sono utili per distinguere le varie fasi, ma non includono la presenza della variabile tempo: può
succedere che un sistema non acquisisca mai completamente uno stato di equilibrio perché la velocità di
avvicinamento all’equilibrio è troppo bassa. E’ questo il caso di un sistema metastabile. Le informazioni
fondamentali sulla struttura delle fasi di un sistema sono comunque riassunte in un diagramma di fase, o
diagramma di equilibrio. La struttura delle fasi dipende da tre parametri controllabili dall’esterno:
1. Temperatura
2. Pressione
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3. Composizione
In un diagramma di fase che riporta, per esempio, la temperatura in ascissa e la pressione (eventualmente
in scala logaritmica) in ordinata, le aree delimitate dalle curve di separazione rappresentano zone di
equilibrio di fase; Quando si attraversa una curva di separazione, una fase si trasforma nell’altra. Il punto di
incontro delle curve di separazione è il punto in cui a quei
determinati valori di pressione e temperatura, le fasi del
sistema coesistono all’equilibrio e viene chiamato punto
invariante per il sistema. Un altro tipo di diagramma
spesso usato è quello in cui viene mantenuta costante la
pressione e i parametri variabili sono la temperatura e la
composizione percentuale. I diagrammi di fase binari
sono mappe che descrivono le relazioni tra la
temperatura, le composizioni e il numero delle fasi
all’equilibrio, che influenzano la microstruttura di una
lega. Uno tra i sistemi binari isomorfi più semplice è
quello del Rame-Nichel. Sulle ordinate viene riportata la
temperatura e sulle ascisse la composizione percentuale
della lega. Sul diagramma compaiono tre diverse regioni
di fase, un campo 𝛼, un campo liquido e un campo due
fasi 𝛼 + 𝐿. Ciascuna regione viene definita dalla fase che
esiste entro un intervallo di temperatura e di
composizione delimitato dalle curve di confine delle fasi. Il liquido 𝐿 è una soluzione liquida omogenea di
rame e nichel, la fase
𝛼 è una soluzione solida di sostituzione formata sia da atomi di rame che di nichel con struttura cristallina
cubica a facce centrate, raggio atomico ed elettronegatività pressoché uguali e valenza simile, che soddisfa
in pratica le regole di Hume-Rothery. Il sistema si dice isomorfo a causa della completa solubilità dei due
componenti sia nel liquido che nel solido. La curva che separa il liquido 𝐿 dal campo bifasico 𝐿 + 𝛼 viene
chiamata curva di liquidus e la fase liquida è presente a tutte le temperature e composizioni al di sopra di
essa. La curva, invece, che separa le regioni 𝛼 e 𝛼 + 𝐿 è detta curva di solidus. Le temperature riportate nel
diagramma agli estremi delle curve sono le temperature di fusione del rame e del nichel. Analizzando un
diagramma di fase si possono riscontrare le seguenti informazioni:
1. Fasi presenti: si localizza esattamente il punto temperatura-composizione sul diagramma
e si osservano le fasi presenti in corrispondenza di quel tracciato;
2. Determinazione della composizione delle fasi: La prima operazione è localizzare il punto
temperatura-composizione. Per calcolare la concentrazione all’equilibrio di una sostanza
nella regione bifase si segue questo schema:
a. Si traccia in corrispondenza della temperatura richiesta una linea isoterma, o linea
coniugata che termini sulla curve di separazione di fase da entrambi i lati;
b. Si annotano le intersezioni con le linee di confine su entrambi i lati;
c. Proiettando sull’asse orizzontale i punti di intersezione tra le linee coniugate e le
linee di confine si ottiene la composizione relativa ad una delle due rispettive fasi;
3. Determinazione della quantità delle fasi: si deve usare, per calcolare la percentuale di fase
presente in una regione bifasica, la regola della leva:
a. Si traccia una linea coniugata alla temperatura in cui si trova la lega;
b. La composizione globale si legge sulla linea coniugata;
c. La frazione con cui una fase è presente viene calcolata misurando la lunghezza della
linea coniugata che va dal punto di composizione globale della lega alla curva limite
di fase dell’altra fase e dividendo per la lunghezza totale della linea coniugata;

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d. La frazione dell’altra fase si determina allo stesso modo, o per complementarità a
100;
e. Per conoscere la percentuale di fase, si moltiplica la frazione per 100;
A questo punto analizziamo l’evoluzione della microstruttura nelle leghe isomorfe durante due sistemi di
raffreddamento, e cioè:
1. Evoluzione della microstruttura durante riscaldamento di equilibrio. Il raffreddamento viene
indicato sul tracciato con una linea verticale tratteggiata, diretta verso il basso. Partendo da un
punto in cui la fase è completamente liquida, si inizia a raffreddare e non si riscontrano variazioni
della microstruttura fino a che non si incontra la linea di liquidus, punto dal quale si cominceranno a
formare dei grani di fase solida 𝛼 all’interno della struttura della sostanza. Per determinare la
composizione della fase 𝛼 si una la regola della linea coniugata e si va a leggere sull’asse orizzontale
del diagramma la composizione percentuale di tale fase solida (essendo sulla curva di liquidus la
percentuale della fase liquida non è ancora cambiata da quella di partenza). Proseguendo nel
raffreddamento all’interno della regione 𝛼 + 𝐿 punto per punto si hanno variazioni della quantità
percentuale di sostanza solida o liquida, misure riscontrabili sempre con le linea isoterma. Ad un
certo punto si raggiungerà la curva di solidus, punto in cui usando la regola della linea coniugata si
scoprirà che la percentuale di fase solida sarà tornata uguale a quella di partenza ma sarà diminuita
la percentuale di fase liquida, dato che la linea coniugata incontra la curva di liquidus a sinistra del
punto di inizio raffreddamento. Da questo punto in poi il processo di solidificazione è virtualmente
completo e dà luogo ad una soluzione solida contenente però ancora un po’ di fase liquida nella sua
composizione percentuale, fino a che non si raffredda abbastanza a lungo da non fare incontrare più
alle linee coniugate la curva di liquidus. Da quel punto la struttura del cristallo è completamente
solida, e raffreddando ulteriormente non si avranno più alterazioni nella microstruttura o nella
composizione percentuale.,
2. Evoluzione della microstruttura durante raffreddamento di non equilibrio: il raffreddamento di
equilibrio viene ottenuto solamente adoperando velocità di solidificazione estremamente basse.
Questo perché al variare della temperatura si devono verificare dei continui riaggiustamenti tra le
fasi solide e liquide che sono da imputare a dei processi di diffusione, che essendo un fenomeno che
dipende dal tempo, ne consegue che per effettuare una trasformazione di equilibrio bisogna
aspettare un tempo lungo, che nelle trasformazioni reali è praticamente irrealizzabile. Supponiamo
per semplicità che la velocità di diffusione in fase liquida sia sufficientemente rapida da mantenere
l’equilibrio in fase liquida. Iniziando il raffreddamento da un punto completamente liquido, ad una
data temperatura e composizione percentuale, non si verificano, come prima, cambiamenti, fino a
che non si incontra la linea di liquidus in cui si cominciano a formare le prime particelle di fase 𝛼 la
cui composizione percentuale si legge con una linea coniugata che interseca la linea di solidus. Per
un ulteriore raffreddamento all’interno della fase 𝛼 + 𝐿, si leggerà con una linea coniugata la
percentuale di fase liquida, ma per quanto riguarda la fase 𝛼, dato che la diffusione reale è
relativamente bassa, la fase 𝛼 successiva al secondo raffreddamento può anche non aver cambiato
composizione rispetto al primo in modo apprezzabile: in questo modo, anziché formare dei nuovi
grani a composizione diversa, la composizione nei grani preesistenti può variare con continuità in
maniera radiale, e per la regola della leva, infatti, la quantità di fase liquida reale è maggiore rispetto
a quella nominale, come se la curva di solidus, a partire dal punto di inizio formazione di fase 𝛼,
avesse aumentato la propria pendenza scivolando verso contenuti di nichel più elevati. Il grado di
scostamento della curva di solidus di non equilibrio rispetto a quella di equilibrio dipende dalla
velocità di raffreddamento: quanto più è lenta la velocità di raffreddamento, tanto più è minore il
grado di scostamento. Vi sono importanti conseguenze dovute ad una solidificazione di non
equilibrio da parte delle leghe:

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a. La distribuzione dei due elementi all’interno del grano non è uniforme ma dà origine ad un
fenomeno detto segregazione, attraverso la quale si stabiliscono all’interno dei grani dei
gradienti di concentrazione per cui il centro del grano è ricco dell’elemento più altofondente
mentre la concentrazione dell’elemento bassofondente cresce progressivamente
allontanandosi dal centro del grano: questa configurazione viene chiamata struttura a
cuore, le cui proprietà sono inferiori a quelle ottimali. Non appena un getto dotato di una
struttura a cuore viene nuovamente riscaldato, le regioni al bordo del grano fondono prima
in quanto sono più ricche del componente più bassofondente, che produce una perdita
dell’integrità meccanica a causa del sottile film di liquido che separa i grani. Inoltre questa
fusione può iniziare a temperature anche inferiori rispetto a quella del solidus di equilibrio
della lega. La struttura a cuore può comunque venire eliminata con un trattamento termico
di omogeneizzazione condotto ad una temperatura inferiore al punto di solidus in relazione
ad una certa composizione della lega, facendo verificare una diffusione degli atomi che
porta finalmente a grani di composizione omogenea.
La formazione di leghe ha forti conseguenze sulle proprietà meccaniche dei metalli, ad esempio:
1. La curva sforzo di rottura a trazione-composizione percentuale ha la forma di una parabola con la
concavità rivolta verso l’alto, presenta quindi un massimo e l’aggiunta di elementi di lega migliora la
resistenza;
2. La curva allungamento percentuale-composizione percentuale ha la forma di una parabola con la
concavità rivolta verso il basso, presenta quindi un minimo e l’aggiunta di materiali di lega peggiora
il grado di duttilità;
Un altro tipo comune di sistemi binari per i diagrammi di fase è il cosiddetto sistema binario eutettico.
Innanzitutto nel diagramma si trovano tre regioni monofase:
1. Fase 𝛼;
2. Fase 𝛽;
3. Fase liquido 𝐿;
In un diagramma rame-argento la fase 𝛼 è ricca in rame e ha l’argento come componente soluto, mentre al
contrario la fase 𝛽 è ricca in argento e ha il rame come componente soluto. Entrambe hanno una struttura
cristallina cubica a facce centrate. La solubilità di queste due fasi solide non riguarda tutte le temperature
ma è limitata da una retta
orizzontale presente sul grafico,
che rappresenta quindi una
isoterma e può essere vista
anche come una curva di solidus
e rappresenta la temperatura
più bassa a cui può esistere la
fase liquida. Agli estremi sinistro
e destro, per un piccolo tratto di
composizioni percentuali, si
trova la curva che rappresenta
l’equilibrio di solubilità. Il
massimo della solubilità è dato
dall’intersezione di questa curva
con la retta orizzontale di cui
sopra, che dà luogo ad un punto
di discontinuità, per cui la curva
di solubilità si può ance dividere
in due semicurve: una, quella di passaggio tra la fase 𝛼 e la fase 𝛼 + 𝐿 la abbiamo già incontrata ed è quella

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di solidus, mentre l’altra rappresenta il confine tra la fase 𝛼 e la fase 𝛼 + 𝛽 e prende il nome di curva di solvus.
Il punto di intersezione tra le curve di solidus e gli assi verticali rappresenta, come finora, la temperatura di
fusione dei componenti puri. Le due curve di liquidus, che uniscono i punti di fusione dei componenti puri col
punto invariante dell’eutettico situato sulla retta isoterma, separano la fase liquida dalle due regioni di fase
𝛼 + 𝐿 e 𝛽 + 𝐿. Se ci si trova ad una composizione percentuale pari a quella del punto invariante e si raffredda
la miscela fino ad arrivare alla temperatura della retta isoterma eutettuca, si dà luogo alla reazione
eutettica, che è schematizzabile con:
raffredd/riscald
𝐿(𝐶𝐸 ) ↔ 𝛼(𝐶𝛼𝐸 ) + 𝛽(𝐶𝛽𝐸 )
E cioè raffreddando alla composizione eutettica una miscela liquida si ottiene una miscela bifase composta
da una composizione percentuale di sostanza 𝛼 e da una composizione percentuale di sostanza 𝛽. La
reazione eutettica al raffreddamento è simile a quella della solidificazione dei componenti puri, in cui la
reazione decorre a temperatura costante fino alla solidificazione completa. Il solido che si produce nella
solidificazione eutettica è sempre composto da due fasi. Alcune regole per descrivere un sistema binario
sono:
1. In un sistema binario possono essere in equilibrio una o al massimo due fasi. L’unica eccezione in cui
possono essercene in equilibrio tre può essere una retta come l’isoterma eutettica.
2. Inoltre le regioni monofasiche sono sempre separate da una regione bifasica che comprende le due
fasi che separa.
Un altro sistema eutettico molto famoso è quello piombo-stagno usato per le saldature, in cui si usa una
composizione 60% Sn e 40% in peso di Pb per avere un punto eutettico di completa fusione a 183°, che è
una temperatura piuttosto bassa e facilmente raggiungibile.
Vediamo quali sono le possibili evoluzioni della microstruttura nelle leghe eutettiche raffreddando a
seconda della composizione di lega scelta. Per fare questo distinguiamo quattro casi:
1. Raffreddamento per basse percentuali in peso dell’elemento più altofondente (prima della linea di
solvus):
La lega si mantiene liquida fino a che la retta verticale di raffreddamento non incontra la curva di
liquidus e si iniziano a formare nella matrice dei grani di sostanza 𝛼, la cui composizione aumenta
mano a mano che si continua a raffreddare. La solidificazione risulta completa quando la retta di
raffreddamento interseca la curva di solidus e non si modifica più;
2. Raffreddamento per composizioni che vanno dalla solubilità limite a temperatura ambiente a quella
massima a temperatura eutettica:
Le trasformazioni che intercorrono fino all’attraversamento della retta di raffreddamento della linea
di solvus sono le stesse incontrate finora. Appena al di sopra dell’intersezione con la linea di solvus,
quindi, la microstruttura è completamente solidificata e formati da grani 𝛼 di composizione pari a
quella scelta in partenza. Superando la linea di solvus si va oltre alla solubilità dell’elemento più
bassofondente, che giunge a saturazione per cui si ha la formazione di piccoli grani di fase 𝛽. Al
proseguire del raffreddamento, questi grani aumentano di dimensione in quanto al diminuire della
temperatura aumenta la loro frazione in massa, verificabile per mezzo della regola della leva;
3. Raffreddamento di una composizione coincidente con quella eutettica.
Raffreddando a partire da una composizione eutettica, non si verificano cambiamenti fino a che non
si raggiunge la temperatura eutettica, e di conseguenza il punto invariante. Non appena si supera la
temperatura eutettica il liquido si trasforma nelle due fasi 𝛼 e 𝛽 secondo la relazione dell’eutettica
vista poco sopra. Nel corso di questa trasformazione vi deve essere necessariamente una
ridistribuzione dei componenti dei due elementi puri, dal momento che le due diverse fasi hanno
ognuna la propria composizione (che si legge alle estremità dell’isoterma eutettica), diverse dalla
composizione del liquido. Questa ridistribuzione viene effettuata attraverso diffusione degli atomi.
La microstruttura che risulta da un solido così formato è caratterizzata da lamine alternate delle fasi
𝛼 e 𝛽 che si formano simultaneamente durante la trasformazione. Questa microstruttura viene
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denominata microstruttura eutettica. Il successivo raffreddamento porta a trasformazioni
microstrutturali di scarso rilievo. La crescita delle lamelle di fasi 𝛼 e 𝛽, che piano piano rimpiazza la
fase liquida, avviene per diffusione della fase liquida in prossimità dell’interfaccia liquido-solido. Gli
atomi del materiale più altofondente diffondono verso le lamine di fase 𝛼, essendo esse le più ricche
di tale materiale; la direzione di diffusione del materiale bassofondente è ovviamente quella
opposta. Le struttura eutettiche quindi assumono questa struttura lamellare alternata perché solo
questa configurazione consente la necessaria diffusione degli atomi dei vari materiali puri su
distanze così brevi.
4. Raffreddamento di una composizione diversa da quella eutettica, ma che raggiunge comunque
l’isoterma eutettica.
Prima di incontrare l’isoterma eutettica, una composizione di sostanza in fase di raffreddamento a
sinistra dell’eutettica sarà entrata nel campo bifasico 𝛼 + 𝐿 con composizioni di fase liquida o 𝛼
riscontrabili per mezzo della regola delle isoterme coniugate. Non appena si raggiunge la soglia della
temperatura eutettica, la fase 𝛼 non presenta variazioni significative, mentre la trasformazione
eutettica si innesca per la fase 𝛼 + 𝐿, che inizia a formare una struttura lamellare tipica
dell’eutettica. La fase 𝛼 è presente quindi nella matrice sia in grani come risultato del
raffreddamento di una fase 𝛼 + 𝐿 (fase primaria), sia sotto forma di lamelle dovute al formarsi della
microstruttura eutettica (fase eutettica). E’ possibile calcolare le quantità relative di entrambi i
microcostituenti primario ed eutettico: dato che quello eutettico si forma sempre da un liquido con
composizione eutettica, si può assumere che questo microcostituente abbia composizione pari alla
composizione eutettica. A questo punto si applica la regola della leva sulla linea coniugata, tra la
curva di confine 𝛼 − 𝛼 + 𝛽, visto che la frazione del microcostituente eutettico è la stessa della
frazione di liquido da cui prende origine. Allo stesso modo, la frazione di 𝛼 primario è la frazione
della fase 𝛼 che si è formata prima della trasformazione eutettica, ottenuta con la regola della leva.
La frazione totale di 𝛼 primario ed eutettico si ottiene con la regola della leva su di una linea
coniugata che attraversa tutta la regione bifasica 𝛼 + 𝛽.
Se durante il raffreddamento, all’interno delle zone 𝛼 + 𝐿 o 𝛽 + 𝐿 non vengono rispettate le condizioni di
equilibrio si possono verificare sulla microstruttura, una volta superata l’isoterma eutettica i seguenti effetti:
1. I grani del microcostituente primario presentano segregazione a cuore, ovvero hanno una
disuniforme distribuzione del soluto all’interno del grano, tra il centro e il bordo;
2. La frazione del microcostituente eutettico formato risulta, rispetto alla situazione di equilibrio,
maggiore;
I diagrammi di soluzione possono rivelare, come nel caso dei diagrammi isomorfi o eutettici, delle soluzioni
solide terminali, se si verifica che le
due fasi solide 𝛼 e 𝛽 esistono in un
intervallo di composizione che si
estende fino alle estremità destre e
sinistre del diagramma. Altri sistemi di
leghe possono invece presentare delle
soluzioni solide intermedie, come nel
sistema rame-zinco, in cui vi sono 6
diverse soluzioni solide. Alcuni sistemi
possono presentare nel diagramma di
fase un certo numero i composti
intermedi, anziché di soluzioni solide, e
questi composti hanno formule
chimiche ben distinte: i sistemi
metallo-metallo vengono chiamati

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composti intermetallici, come il sistema magnesio-piombo, nel quale è presente una linea verticale
corrispondente al composto Mg 2 Pb che può esistere come tale solo a una certa composizione. Inoltre la
solubilità del piombo nel magnesio è piuttosto elevata, mentre quella del magnesio nel piombo è molto
bassa. Questo diagramma può anche essere pensato come due diagrammi eutettici affiancati, uno relativo
alla zona a sinistra della linea verticale del composto intermetallico e uno relativo alla zona alla sua destra.
La possibilità di scomporre in “pezzi” i diagrammi di fase li rende perciò molto più semplici e comprensibili,
facilitandone l’interpretazione. In alcuni sistemi di leghe si trovano altri punti invarianti oltre agli eutettici, in
cui sono coinvolte tre fasi differenti, come si verifica, ad esempio, nel sistema rame-zinco. Definiamo altri
due tipi di reazioni tra fasi:
1. La reazione eutettoide:
raffredd/riscald
𝛿↔ 𝛾+𝜀
Secondo cui, per raffreddamento una soluzione solida si trasforma in altre due soluzioni solide
diverse. Il punto invariante è detto eutettoide e la linea coniugata orizzontale viene chiamata
isoterma eutettoide. L’eutettoide differisce dall’eutettico perché anziché formare un liquido che si
trasforma in due fasi solide, qui è una fase solida che si trasforma in altre due fasi solide.
2. La reazione peritettica:
raffredd/riscald
𝛿+𝐿↔ 𝜀
Secondo la quale una fase solida, per riscaldamento, si trasforma in una fase liquida e in un’altra fase
solida, diversa dalla prima. La fase solida a bassa temperatura può essere una soluzione solida
intermedia come nel caso del 𝜀 in rame-zinco oppure una soluzione solida terminale come la 𝜂
sempre nel rame-zinco. Ci sono altri tre peritettici sempre in questo diagramma.
Le trasformazioni di fase per cui non si verificano variazioni della composizione delle fasi sono dette
trasformazioni congruenti, come le trasformazioni allotropiche o la fusione dei materiali puri. Le reazioni
eutettiche, eutettoidi, peritettiche e la fusione di una lega di un sistema isomorfo sono tutte trasformazioni,
invece, incongruenti. Esistono anche localmente dei punti di fusione che sono classificabili come congruenti
o incongruenti: ad esempio, i composti intermetallici come il già incontrato Mg 2 Pb fondono in maniera
congruente senza trasformazioni di composizione da parte delle fasi, così come fa una soluzione solida 𝛾 ad
una certa composizione nel diagramma nichel-titanio.
I principi che regolano le condizioni di equilibrio delle fasi derivano dalle leggi della termodinamica. Una di
queste è la regola delle fasi di Gibbs, che stabilisce un criterio per determinare il numero delle fasi che
coesistono in un sistema all’equilibrio ed è espressa da una semplice equazione:
𝑃+𝐹 =𝐶+𝑁
Dove 𝑃 sta per il numero delle fasi presenti, 𝐹 è il numero di gradi di libertà che coincide con i parametri
controllati dall’esterno (cioè temperatura, pressione, composizione), 𝐶 è il numero dei componenti
indipendenti del sistema e 𝑁 è il numero delle variabili fisiche, cioè temperatura e pressione. Quando sono
presenti tre fasi, il sistema risulta avere zero gradi di libertà, quindi tutte le variabili fisiche sono
univocamente già definite: è il caso, come già visto sopra, della retta isoterma eutettica.
Il sistema ferro-carbonio.
Cominciando a leggere il diagramma da sinistra, si nota che subito il ferro puro, senza nemmeno andare a
cercare composizioni di elementi di lega, presenta per riscaldamento, prima di fondere, due modificazioni
della struttura cristallina. A temperatura ambiente la forma stabile chiamata ferro−𝛼 o ferrite ha una
struttura cristallina cubica a corpo centrato. A 912°C la ferrite subisce una trasformazione polimorfa in
austenite, o ferro−𝛾, con struttura cristallina cubica a facce centrate. L’austenite si mantiene fino a 1394°C,
temperatura a cui il reticolo cristallino torna ad una configurazione cubica a corpo centrato conosciuta come
ferrite−𝛿, che fonde a 1538°C. Guardando ora l’estremo destro del diagramma ci si accorge che l’asse delle
composizioni non giunge fino al 100%, ma si ferma al 6,70% in peso di carbonio: a questa composizione,
infatti, si forma il composto intermedio, il carburo di ferro Fe3 C o cementite che viene rappresentato come
una linea verticale, come già visto nel diagramma magnesio-piombo. Pertanto, il sistema ferro-carbonio può
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essere diviso in due parti: una porzione ricca in ferro, e un’altra ricca in carbonio che va tra composizioni da
6,70 a 100% fino a giungere alla grafite pura. In pratica, tutti gli acciai e le leghe hanno un contenuto di
carbonio sempre inferiore al 6,70% in peso. Il carbonio è un’impurezza interstiziale del ferro e forma
soluzioni solide sia con le ferriti 𝛼 e 𝛿 sia con l’austenite.
1. Nella ferrite−𝛼 cubica a corpo centrato il carbonio si vede essere molto poco solubile: la solubilità
massima si ottiene infatti allo 0,022% in peso e a 727°C. Questa limitata solubilità viene spiegata in
base alla configurazione e alle dimensioni delle posizioni interstiziali del reticolo cubico a corpo
centrato, che rendono difficile l’accomodamento degli atomi di carbonio. Anche se presente in
concentrazioni relativamente basse, il carbonio ha notevole influenza sulle proprietà meccaniche
della ferrite. Questa particolare fase del sistema ferro-carbonio è infatti relativamente tenera,
magnetica a temperature inferiori di 768°C e dotata di una densità di 7,88 Mg/mm3 ;
2. L’austenite, o ferro−𝛾, quando è legata col solo carbonio diventa instabile al di solo di 727°C. La
solubilità massima del carbonio nell’austenite è pari al 2,14% in peso e si ottiene a 1147°C, che è
all’incirca 100 volte maggiore di quella per il carbonio nella ferrite, in quanto le posizioni interstiziali
del reticolo cubico a facce centrate sono più grandi e quindi le tensioni indotte sugli atomi di ferro
circostanti sono molto minori. L’austenite, inoltre, non è magnetica.
3. La ferrite−𝛿 è virtualmente la stessa ferrite−𝛼, nella scala di temperatura entro cui esiste. Essendo
stabile solo a temperature relativamente alte, non è particolarmente importante da un punto di vista
tecnologico.
4. La cementite si forma quando si supera il limite della solubilità del carbonio nella ferrite−𝛼 al di
sotto di 727°C per composizioni comprese nella regione 𝛼 + Fe3 C. La cementite coesiste con la fase
𝛾 tra 727°C e 1147°C ed è molto dura e fragile. La sua presenza in un acciaio ne fa aumentare
notevolmente la resistenza. In realtà la cementite è una fase metastabile, e non essendo stabile a
temperatura ambiente si mantiene come composto per un tempo indefinito. Se riscaldata tra 650 e
700°C per diversi anni, invece, si modifica in ferro−𝛼 e carbonio sotto forma di grafite.

Nel sistema ferro-cementite, troviamo:


1. Una reazione eutettica al 4,30% in peso di carbonio e alla temperatura di 1147°C:

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raffredd/riscald
𝐿↔ 𝛾 + Fe3 C
Attraverso la quale il liquido che solidifica forma le fasi austenite e cementite;
2. Una reazione eutettoide al 0,76% in peso di carbonio e alla temperatura di 727°C:
raffredd/riscald
𝛾(0,76%) ↔ 𝛼(0,022%) + Fe3 C(6,70%)
Vale a dire che la fase solida ferro−𝛾 si trasforma, raffreddando, in ferro−𝛼 e cementite.
Oltre al carbonio, le leghe ferrose possono contenere altri elementi. La classificazione delle leghe ferrose
prevede per le normative tre tipi di leghe:
1. Ferro, che contiene meno dello 0,008% in peso di carbonio ed è composto a temperatura ambiente
da ferrite;
2. Acciaio, che contiene tra lo 0,008% e il 2,14% in peso di carbonio e che si trova comunemente nelle
fasi 𝛼 e cementite, sebbene per raffreddamento una lega di questo genere debba attraversare per
forza una fase di ferro−𝛾;
3. Ghise, che contengono dal 2,14% al 6,70% in carbonio sebbene difficilmente nelle ghise commerciali
si superi difficilmente il 4,5%.
Vediamo ora le varie microstrutture nelle leghe del ferro e del carbonio. La microstruttura dipende
ovviamente sia dal contenuto di carbonio sia dalle trasformazioni termiche effettuate. Vediamone alcune:
1. Quando si passa dalla regione 𝛾 a quella 𝛼 + Fe3 C le variazioni di fase sono simili a quelle descritte
per i sistemi eutettici.
Consideriamo una lega di
composizione eutettoide
che viene raffreddata da
una temperatura
all’interno della regione
della fase 𝛾. All’inizio del
raffreddamento la lega è
dotata di una
composizione percentuale
in peso di carbonio dello
0,76% e di una fase
austenitica e non si
verificano reazioni fino a
che non si raggiunge la
temperatura eutettoide di
727°C: nell’attraversare
questa temperatura
l’austenite si trasforma
secondo la legge
dell’eutettoide in ferrite e
cementite. La
microstruttura di questo
acciaio eutettoide,
raffreddato lentamente
attraverso il passaggio
dalla temperatura
eutettoide, è costituito da
un’alternanza di lamelle
delle due fasi ferrite e
cementite che si formano
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simultaneamente nel corso della trasformazione. Questa microstruttura è chiamata perlite a causa
del suo aspetto a forma di madreperla. La perlite si presenta in grani, spesso in “colonie” all’interno
delle quali le lamelle sono orientate parallelamente secondo la stessa direzione che varia da una
colonia all’altra. Gli strati sottili più chiari sono formati dalla fase ferrite, mentre la cementite appare
sotto forma di lamelle più scure. Alcune lamelle di cementite sono così sottili da avere i bordi di
confine con le fasi adiacenti molto vicini tra loro, per cui appaiono indistinguibili. Da un punto di vista
meccanico, la perlite ha proprietà intermedie tra la ferrite tenera e duttile e la cementite dura e
fragile. La ragione per cui nella perlite si formano strati a forma di lamelle di ferrite e cementite è la
stessa che porta alla formazione della struttura eutettoide, dovuta al fatto cioè che la composizione
della fase di origine è differente da quella delle fasi prodotte per cui la trasformazione di fase richiede
che vi sia una ridistribuzione del carbonio per diffusione. Gli atomi del carbonio dunque diffondono
dallo 0,022% in peso delle regioni ferritiche al 6,70% in peso delle regioni di cementite, mano a mano
che la perlite si sviluppa all’interno del grano austenitico non ancora completamente trasformato.
La perlite si forma a lamelle perché solo la configurazione lamellare consente la necessaria
diffusione degli atomi di carbonio su distanze relativamente brevi.
2. Quando siamo in campo ipoeutettoide, vale a dire per trasformazioni che si verificano a sinistra del
punto eutettoidico, cioè tra lo 0,22 e lo 0,76% in peso di carbonio. Raffreddando a partire da una
fase 𝛾 non si verificano cambiamenti finché non si incontrerà la linea A3, ossia la linea di separazione
tra la fase 𝛾 e la fase 𝛼 + 𝛾. In questa regione quindi coesistono queste due fasi, e la maggior parte
delle piccole particelle 𝛼 si forma lungo i bordi dei grani originari della fase 𝛾. Nel corso del
raffreddamento, la composizione della ferrite
cambia con la temperatura lungo la linea A3
diventando leggermente più ricca in carbonio. La
variazione della composizione dell’austenite al
diminuire della temperatura è invece più drastica. Il
raffreddamento appenda sopra l’isoterma
eutettoide produce un incremento della frazione
della fase 𝛼 e una microstruttura con le particelle di
ferrite di dimensione maggiore. Appena al di sotto
dell’eutettoide, tutta la fase gamma che era
presente come austenite alla temperatura
eutettoide si trasforma in perlite secondo la
relazione dell’eutettoide, mentre la fase 𝛼 non
presenta variazioni e rimane presente nella matrice
come ferrite che avvolge colonie di perlite. La ferrite
è presente quindi in due fasi, sia come ferrite
derivante dal raffreddamento di una fase 𝛼, sia
come lamelle di perlite, che infatti è formata da
ferrite e cementite. La ferrite che è presente nella
perlite viene chiamata ferrite eutettoide, mentre
quella derivante dal raffreddamento di una fase 𝛼
viene detta ferrite pro-eutettoide. Per la perlite, lo spazio tra gli strati di ferrite e cementite varia
da grano a grano.

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3. Quando siamo in campo ipereutettoide, vale a dire per composizioni percentuali in peso di carbonio
comprese tra 0,76% e 2,14% , il raffreddamento di una
fase 𝛾 non riscontra modificazioni fino a che non
incontra la linea di separazione tra le fasi 𝛾 e 𝛾 + Fe3 C
detta linea 𝐴𝐶𝑀 . In questa nuova zona, viene a formarsi
la fase cementite lungo i bordi del grano originari della
fase 𝛾 (dato che la formazione di soluto lungo i bordi del
grano richiede una minore energia interfacciale rispetto
a quella che richiederebbe all’interno del grano), che
viene chiamata cementite proeutettoide, che si
ingrossa al diminuire della temperatura seguendo la
pendenza della linea 𝐴𝐶𝑀 ma la cui composizione
rimane costante, mentre la composizione della fase
austenite perde in carbonio fino a giungere alla
isoterma eutettoide. Una volta oltrepassata questa
linea di confine, tutta l’austenite rimasta viene
convertita in perlite. La microstruttura risultante,
quindi, è formata da microcostituenti cementite
proeutettoide e perlite (ferrite e cementite eutettoide).
Se si effettua un riscaldamento di non equilibrio, si
devono considerare due effetti importanti:
1. La comparsa di cambiamenti di fase o di trasformazioni a temperature diverse rispetto a quelle
previste in base alle curve che delimitano le varie regioni nel diagramma di fase;
2. L’esistenza a temperatura ambiente di fasi di non equilibrio che non appaiono nel diagramma di
fase;
L’aggiunta di altri elementi di lega, invece, porta a sostanziali modifiche nel diagramma di fase ferro-carburo
di ferro. Un cambiamento importante riguarda la traslazione del punto eutettoide rispetto alla
temperatura e alla concentrazione del carbonio. Pertanto, con l’aggiunta di elementi di lega si altera non
solo la temperatura di reazione eutettoide, ma anche le relative frazioni di perlite e della fase proeutettoide
(ferrite o cementite) che si formano. In generale l’alligazione serve a migliorare la resistenza, anche alla
corrosione, e per massimizzare gli effetti dei trattamenti termici.
Trasformazioni di fase
A partire da modifiche da apportare alla microstruttura, sono disponibili diverse tecniche che permettono
una modificazione delle proprietà meccaniche dei materiali. La microstruttura delle leghe è dovuta
principalmente da determinati tipi di trasformazione di fase con cui si modificano sia il numero delle fasi
presenti sia le loro caratteristiche. Di fondamentale importanza diventa la dipendenza del tempo intesa
come velocità di trasformazione, dato che praticamente pochissimi fenomeni avvengono per via istantanea.
Le trasformazioni di fase possono essere divise in tre classi:
1. Trasformazioni che dipendono solo dalla diffusione, in cui non si verificano modificazioni sia nel
numero sia nelle caratteristiche delle fasi presenti, come:
a. La solidificazione di un metallo puro;
b. Le forme allotropiche;
c. La ricristallizzazione;
d. L’ingrossamento del grano;
2. Le trasformazioni che dipendono dalla diffusione, ma che modificano la composizione delle fasi
presenti e spesso anche il loro numero. La microstruttura finale è spesso formata da due fasi, come
avviene nella reazione eutettoide;

29
3. Le trasformazioni che avvengono senza il contributo della diffusione e che generano fasi
metastabili, categoria a cui appartengono le trasformazioni martensitiche.
La trasformazione di fase di solito avviene gradualmente, a partire dalla formazione di un gran numero di
particelle molto piccole della nuova fase che aumentano di dimensione fino a che la trasformazione non si
completa. Il progredire della trasformazione di fasi può essere diviso in due stadi:
a. La nucleazione, che consiste nella comparsa di particelle molto piccole o nuclei della nova fase
spesso formati da qualche centinaio di atomi in grado di accrescersi successivamente;
b. La fase di crescita, in cui i nuclei aumentano di dimensione fino alla scomparsa di una parte o di tutta
la fase originaria.
La trasformazione si può completare solo se la crescita delle particelle delle nuove fasi è in grado di
procedere fino a che non si raggiunge la frazione di equilibrio. In base al sito in cui avviene la nucleazione, si
distinguono due tipi di nucleazione, una, quella omogenea, che avviene in modo uniforme in tutta la fase di
origine, mentre l’altra, quella eterogenea, in nuclei si formano preferenzialmente in corrispondenza delle
disomogeneità strutturali, sulle pareti dei contenitori, sulle impurezze insolubili, sui bordi dei grani e nelle
dislocazioni. Vediamole nel dettaglio:
1. Nucleazione omogenea. Il parametro termodinamico che governa le trasformazioni di fase, come
già visto, è l’energia libera di Gibbs: una trasformazione può avvenire se e solo se la differenza di
energia libera, che dipende dall’energia interna proporzionalmente all’entalpia e dalla casualità
proporzionalmente all’entropia, è negativa, minore di zero. Supponiamo di trattare la solidificazione
di un metallo puro. Ipotizziamo che all’interno del liquido si vadano a formare un certo numero di
nuclei della fase solida in seguito a un raggruppamento di atomi che formano un insieme compatto
per semplicità a geometria sferica, di un dato raggio. Ci sono due termini che contribuiscono alla
variazione totale di energia libera:
a. La differenza tra l’energia libera del solido e quella del liquido, o energia libera di volume, il
cui valore è negativo quando la temperatura è al di sotto di quella di equilibrio di
solidificazione e il suo valore è uguale al prodotto dell’energia libera di volume moltiplicata
per il volume del nucleo sferico elementare;
b. L’energia richiesta per formare le superfici di separazione tra le fasi solido-liquido nel corso
della trasformazione di solidificazione. Questa energia coincide con l’energia libera di
superficie, che è sempre positiva e il cui contributo è dato dal prodotto dell’energia di
superficie per la superficie del nucleo sferico elementare.
La variazione di energia libera, pertanto, sarà uguale a:
4
Δ𝐺 = Δ𝐺𝑣 ( 𝜋𝑟 3 ) + 𝛾(4𝜋𝑟 2 )
3
Il primo contributo dell’energia decresce con la terza potenza del raggio, mentre il secondo cresce
con il raggio al quadrato. Questo dà origine ad una curva risultante che prima crescerà, poi avrà un
massimo e poi tornerà a decrescere. Fisicamente, questo significa che nello stadio iniziale, quando
si forma una particella solida cioè quando gli atomi di liquido si raggruppano l’energia libera
aumenta. Se il raggruppamento detto cluster raggiunge una dimensione pari al raggio critico che
coincide con l’ascissa del punto di massimo, allora la crescita prosegue con diminuzione dell’energia
libera. Un raggruppamento che ha raggio minore, si può ridurre di dimensioni e disciogliere
nuovamente. Una particella di dimensioni sub-critiche è detta embrione mentre una particella che
riesce a raggiungere il raggio critico in dimensione è detta nucleo. L’ordinata del punto di massimo
rappresenta difatti l’energia di attivazione per la nucleazione di un nucleo stabile. Differenziando
l’equazione della curva e ricercandone le coordinate del punto di massimo, si ottiene:
2𝛾
𝑟∗ = −
Δ𝐺𝑣
Che è il valore del raggio critico che, inserito nell’equazione di partenza, ci darà il valore della energia
di attivazione per la nucleazione:
30
16𝜋𝛾 3
Δ𝐺 ∗ =
3 Δ𝐺𝑣2
Come già visto, il valore dell’energia critica di attivazione dipende fortemente dalla temperatura. In
particolare, quando la temperatura coincide con la temperatura di solidificazione di equilibrio il suo
valore è nullo. Applicando la definizione dell’energia libera di Gibbs si mette in risalto la dipendenza
dalla temperatura:
Δ𝐻𝑓 (𝑇𝑓 − 𝑇)
Δ𝐺𝑣 =
𝑇𝑓
Dove Δ𝐻𝑓 è il calore latente di fusione, cioè il calore ceduto durante la solidificazione e 𝑇𝑓 è la
temperatura di solidificazione di equilibrio. Sostituendo questa relazione per i valori del raggio
critico e dell’energia di attivazione otteniamo:

2𝛾𝑇𝑓 1 ∗
16𝜋𝛾 3 𝑇𝑓2 1
𝑟 = (− )( ) Δ𝐺 = ( 2 )[ 2]
Δ𝐻𝑓 𝑇𝑓 − 𝑇 3Δ𝐻𝑓 (𝑇𝑓 − 𝑇)
In base a queste due relazioni si vede che sia l’energia di attivazione sia il raggio critico decrescono
al diminuire della temperatura: in pratica, più si diminuisce la temperatura al di sotto di quella di
solidificazione, più facilmente avviene la nucleazione. Anche il numero dei nuclei stabili è funzione
della temperatura e si ottiene:
Δ𝐺 ∗
∗ −
𝑛 = 𝐾1 𝑒 𝑘𝑇
Dove 𝐾1 si riferisce al numero totale di nuclei nella fase solida. Abbassando la temperatura, si vede
quindi che aumenta il numero dei nuclei stabili prodotti. Esiste anche un altro fattore che dipende
dalla temperatura e influenza la nucleazione, e cioè il raggruppamento degli atomi mediante
diffusione a corto raggio durante la formazione dei nuclei. L’effetto di tale diffusione dipende dalla
frequenza 𝑣𝑑 con cui gli atomi del liquido vanno a legarsi col nucleo solido secondo la relazione:
𝑄𝑑
𝑣𝑑 = 𝐾2 𝑒 −𝑘𝑇
Che è simile a quella sopra, ma ha concavità opposta perché 𝑄𝑑 è positivo e Δ𝐺 ∗ era negativo, quindi
la frequenza con cui gli atomi si legano alla fase solida decresce al diminuire della temperatura.
Introduciamo ora un altro concetto molto importante, che è detto velocità di nucleazione, che è
proporzionale al prodotto del numero dei nuclei stabili moltiplicato per la frequenza di legame degli
atomi del liquido con quelli della fase solida in formazione:
𝑑𝑛 Δ𝐺 ∗ 𝑄𝑑
= 𝐾3 𝑛∗ 𝑣𝑑 = 𝐾1 𝐾2 𝐾3 [(𝑒 − 𝑘𝑇 ) (𝑒 −𝑘𝑇 )]
𝑑𝑡
In cui 𝐾3 è il numero di atomi sulla superficie di un nucleo. Si può notare che al diminuire della
temperatura al di sotto della temperatura di equilibrio di fusione la velocità di nucleazione prima
aumenta, poi raggiunge un massimo e infine diminuisce. Per il tratto di curva in cui la velocità di
nucleazione aumenta, infatti, l’energia di attivazione è molto più grande del parametro di
attivazione per la diffusione: in altre parole, alle alte temperature, la velocità di nucleazione viene
ostacolata dalla scarsa energia di attivazione che ne costituisce la forza motrice. Diminuendo la
temperatura, si arriva al punto in cui l’energia critica di nucleazione diventa minore del parametro di
diffusione, e cioè col risultato che a temperature basse la velocità di nucleazione tende a diminuire
fino ad arrestarsi a causa di una minore mobilità degli atomi. Si dice sottoraffreddamento la misura
di temperatura al di sotto della temperatura di equilibrio di fusione al di sotto della quale si deve
scendere per ottenere un raffreddamento apprezzabile della sostanza in questione.
2. Nucleazione eterogenea. I valori del sottoraffreddamento ideali per la nucleazione omogenea
possono essere anche dell’ordine delle centinaia di gradi, ma nelle situazioni reali difficilmente si
discostano da molti meno gradi di temperatura. Questo perché alla nucleazione omogenea è più
favorevole quella eterogenea in quanto il dispendio di energia di attivazione per la nucleazione
quando i nuclei si formano su superfici preesistenti o su interfacce è molto minore, dato che l’energia
31
libera di superficie si riduce sensibilmente. Consideriamo la nucleazione su di una superficie piana di
una particella solida a partire da una fase liquida. Vi sono dunque tre superfici di interfaccia:
a. 𝛾𝑆𝐿 è l’energia di superficie di contatto solido-liquido;
b. 𝛾𝑆𝐼 è l’energia di superficie di contatto solido-interfaccia superficiale;
c. 𝛾𝐼𝐿 è l’energia di superficie di contatto interfaccia superficiale-liquido;
Inoltre 𝜃 è l’angolo di bagnabilità o di contatto tra le energie 𝛾𝑆𝐼 e 𝛾𝑆𝐿 . Bilanciando le forze delle
tensioni superficiali sul piano dell’interfaccia si giunge alla relazione:
𝛾𝐼𝐿 = 𝛾𝑆𝐼 + 𝛾𝑆𝐿 cos 𝜃
Come fatto sopra, otteniamo i valori del raggio critico e dell’energia di attivazione della nucleazione:
3
2𝛾𝑆𝐿 16𝜋𝛾𝑆𝐿
𝑟∗ = − Δ𝐺 ∗ = ( ) 𝑆(𝜃)
Δ𝐺𝑣 3Δ𝐺𝑣2
Dove 𝑆(𝜃) dipende solo da teta e cioè dalla forma del nucleo e assume un valore che è compreso tra
zero e uno. Si nota che il valore del raggio critico per la nucleazione eterogena è simile a quello per
la nucleazione omogenea, in cui 𝛾𝑆𝐿 rimpiazza 𝛾. La barriera energetica di attivazione per la
nucleazione eterogenea, inoltre, è più piccola di quella relativa all’omogenea di un termine che
dipende dalla forma del nucleo:
∗ ∗
Δ𝐺𝑒𝑡𝑒𝑟 = Δ𝐺𝑜𝑚𝑜𝑔 ∙ 𝑆(𝜃)
Per questo la nucleazione eterogenea avviene più facilmente rispetto a quella omogenea. La velocità
di nucleazione dell’eterogenea è simile a quella omogena, ma viene traslata a temperature più alte.
Per questo il grado di sottoraffreddamento è, come visto, minore rispetto a quello presentato dalla
omogenea.
Esaurita la nucleazione, iniziamo ora a parlare della crescita. Lo stadio della crescita in una trasformazione
di fase inizia nel momento in cui un embrione supera la dimensione critica e diviene un nucleo stabile. La
nucleazione non cessa, ma continua a verificarsi anche durante la crescita delle particelle della nuova fase,
senza, ovviamente, manifestarsi nelle regioni in cui è già comparsa. Il processo di crescita termina nel
momento in cui le particelle della nuova fase vengono tra loro a contatto. La crescita della particella avviene
per diffusione atomica a lungo raggio, che di solito si compie in diversi stadi:
1. Diffusione attraverso la fase originaria;
2. Diffusione attraverso la superficie di separazione della fase;
3. Diffusione all’interno del nucleo;
La velocità di crescita è determinata di conseguenza dalla velocità di diffusione e la sua dipendenza dalla
temperatura è simile a quella del coefficiente di diffusione:
𝑑𝐺 𝑄
= 𝐶𝑒 −𝑘𝑇
𝑑𝑡
Dove 𝑄 è l’energia di attivazione e 𝐶 un fattore che non dipende dalla temperatura. A una determinata
temperatura, la velocità complessiva di trasformazione è data dalla combinazione delle curve velocità di
nucleazione e velocità di accrescimento. Si vede che la temperatura e il tempo sono in questo modo
correlate attraverso una relazione di proporzionalità inversa: se si riporta in grafico il logaritmo del tempo di
trasformazione in funzione della temperatura, si ottiene una curva che è l’immagine speculare rispetto ad
una retta verticale. Le dimensioni delle particelle di fase prodotte dalla trasformazione dipendono dalla
temperatura a cui conduce il processo:
1. Una trasformazione condotta a una temperatura prossima alla temperatura di fusione decorre con
bassa velocità di nucleazione e alta velocità di crescita per cui forma pochi nuclei che si accrescono
rapidamente. La microstruttura risultante è costituita da poche particelle relativamente grandi a
frani grossolani.
2. Le trasformazioni condotte a temperature inferiori, invece, con velocità quindi di nucleazione
piuttosto elevate e con velocità di crescita piuttosto basse producono particelle più numerose e più
piccole, a grani fini.

32
3. Se si raffredda molto rapidamente un materiale da una temperatura dell’intervallo racchiuso dalla
curva della velocità di trasformazione a una temperatura relativamente bassa in cui anche la velocità
è estremamente bassa, è possibile ottenere fasi di non equilibrio.
La dipendenza della velocità di trasformazione dal tempo anziché dalla temperatura viene chiamata
cinetica delle trasformazioni. Mediante indagini cinetiche è possibile misurare il decorso della reazione in
funzione del tempo ad una temperatura mantenuta costante durante la trasformazione. I dati vengono
riportati su un diagramma come frazione di materiale trasformato in funzione del logaritmo del tempo: il
comportamento cinetico è dato quindi dalle tipiche curve a forma di “S” che si ottengono. Per trasformazioni
in fase solida, vale l’equazione di Avrami che illustra la dipendenza dal tempo della frazione trasformata:
𝑛
𝑦 = 1 − 𝑒 −𝑘𝑡
La velocità di una trasformazione, per convenzione, è data dal reciproco del tempo richiesto per completare
metà del processo di trasformazione:
1
𝑣=
𝑡0,5
La temperatura ha una influenza fondamentale sulla cinetica e quindi sulla velocità di trasformazione. In
particolare, al diminuire della temperatura, la curva di Avrami si trasla verso destra, va cioè per tempi più
lunghi.
Nei sistemi metallici è possibile produrre trasformazioni di fase agendo sulla temperatura, sulla
composizione e sulla pressione esterna. Il modo più conveniente è comunque quello di agire sulla
temperatura. Una lega procede quindi durante una trasformazione attraverso diversi sistemi di equilibrio,
caratterizzati sul diagramma delle fasi che vengono prodotte dalle loro composizioni e quantità relative. La
maggior parte delle trasformazioni richiede tempi finiti per arrivare a completamento, ma per i sistemi solidi
la velocità di avvicinamento all’equilibrio è così lenta che vere strutture di equilibrio si incontrano raramente.
Per raffreddamenti diversi a quelli di equilibrio, le trasformazioni vengono traslate a temperature più basse
rispetto a quelle indicate dal diagramma di stato, il contrario avviene per i riscaldamenti. Questi fenomeni
sono chiamati sottoraffreddamento e sovrariscaldamento, il grado di ognuno di questi dipende dalla
rapidità con cui varia la temperatura: più rapido è il riscaldamento, maggiore sarà il sovrariscaldamento. La
temperatura eutettoide del diagramma ferro-carbonio, ad esempio, viene spostata di 10-20°C rispetto a
quella ideale, in condizioni di raffreddamento relativamente rapidi. Per diverse leghe, lo stato o la struttura
preferibile è quella metastabile, che è intermedia tra
lo stato prima della trasformazione e lo stato dopo di
essa di equilibrio.
Vediamo ora le variazioni della microstruttura e
delle proprietà nelle leghe del ferro e del carbonio.
Partiamo dalla trasformazione eutettoide del
sistema ferro-carburo di ferro:
raffredd/riscald
austenite ↔ ferrite + cementite
Per raffreddamento l’austenite che ha una
concentrazione di carbonio intermedia, si trasforma
in ferrite, che ha un contenuto di carbonio minore e
in cementite che ha un tenore di carbonio molto più
alto. La perlite è il prodotto microstrutturale di
questa trasformazione. La temperatura svolge un
ruolo fondamentale sulla velocità di trasformazione
austenite-perlite. La dipendenza dalla temperatura si
legge dalle curve di Avrami a forma di “S” che
riportano la percentuale di trasformato per unità
logaritmica di tempo. Un modo più conveniente di
33
rappresentare questa trasformazione, mettendo in evidenza sia la dipendenza dalla temperatura che quella
dalla pressione può essere un nuovo tipo di diagramma detto curve di Bain: gli assi verticale e orizzontale
riportano rispettivamente la temperatura e il logaritmo del tempo. In questi diagrammi sono tracciate due
curve continue: una rappresenta il tempo richiesto, ad ogni temperatura, per far iniziare la trasformazione,
l’altra quello per concluderla. La curva tratteggiata corrisponde al 50% della trasformazione. Queste curve
vengono individuate da una serie di punti corrispondenti alla percentuale di trasformazione in funzione del
logaritmo del tempo, per varie temperature prese con continuità. La temperatura dell’eutettoide, a 727°C,
viene indicata da una linea orizzontale. Alle temperature superiori all’eutettoide esiste solo austenite. La
trasformazione austenite-perlite esiste solo se una lega viene raffreddata al di sotto dell’eutettoide e il
tempo necessario per completare la trasformazione varia con la temperatura. Le curve di inizio e fine
trasformazione sono all’incirca parallele e tendono entrambe asintoticamente alla isoterma eutettoide. A
sinistra della curva di inizio trasformazione è presente solo austenite, mentre a destra della curva di fine
trasformazione è presente solo perlite. Lo spazio tra le due curve rappresenta lo stadio in cui l’austenite si
sta trasformando, procedendo verso l’alto sul grafico di Avrami: i microcostituenti sono presenti entrambi.
La velocità di trasformazione a una data temperatura è inversamente proporzionale al tempo richiesto per
ottenere il 50% della reazione di trasformazione, espressa nella curva tratteggiata: vale a dire che più breve
è questo tempo, più veloce sarà la trasformazione. A temperature prossime a quella dell’eutettoide, si vede
che si necessita di tempi dell’ordine della quinta potenza di 10 per completare la trasformazione, mentre a
540°C ci vogliono solo 3 secondi per
far avvenire metà della
trasformazione. Questi diagrammi
sono accurati nel caso in cui la
temperatura è mantenuta costante
per tutta la durata della reazione:
sono per questo chiamati
diagrammi temperatura-tempo-
trasformazione o più bravemente
diagrammi TTT. Immaginando di
eseguire un trattamento termico per
una lega ferro-carbonio eutettoide,
rappresentandolo su di un
diagramma TTT. Il raffreddamento
molto rapido dell’austenite viene
indicato con un tratto quasi verticale,
mentre il trattamento termico vero e
proprio viene rappresentato dalla
retta isoterma orizzontale che
incontra le curve di inizio e fine
trasformazione sul diagramma di
Bain. Il tempo che intercorre durante
la trasformazione si può leggere
proiettando i punti di inizio e fine sull’asse dei tempi e calcolandone la differenza. Normalmente, il rapporto
di spessore tra le lamine della ferrite e della cementite all’interno della perlite è di 8 a 1. Lo spessore delle
lamine dipende tuttavia dalla temperatura alla quale avviene la temperatura isotermica. A temperature
appena al di sotto dell’eutettoide si producono per le due fasi ferrite e cementite, lamine relativamente
spesse, in una struttura detta perlite grossolana. A questa temperatura infatti le velocità di diffusione sono
abbastanza elevate per cui durante la trasformazione gli atomi di carbonio possono diffondere su distanze
discretamente lunghe, il che comporta un maggiore spessore delle lamine. Col diminuire della temperatura,

34
le velocità di diffusione del carbonio diminuiscono e le lamine diventano progressivamente più sottili: la
struttura a lamine sottili prodotta in vicinanza a 540°C viene detta perlite fine. Per leghe del ferro e del
carbonio in composizione differente da quella eutettoide, si devono inserire nei diagrammi TTT anche le
relative curve di trasformazioni proeutettoidi, come visto in precedenza.
Oltre alla perlite, vi sono altre strutture che sono prodotte a partire dall’austenite:
1. La bainite, dotata di una microstruttura formata dalle fasi di ferrite e cementite e perciò sono
coinvolti al suo interno i processi di diffusione. In relazione alla temperatura di trasformazione la
bainite può essere formata da aghi o placchette. Un grano di bainite è costituito da una matrice
ferritica e particelle allungate di Fe3 C. Nel diagramma TTT la trasformazione austenite-bainite, si
note che essa si forma al di sotto del “naso” della curva di Bain in cui la velocità di trasformazione è
massima, cioè al di sotto della zona in cui si forma la perlite. Non si può passare da perlite a bainite
o viceversa: l’unico modo per farlo è riscaldare nuovamente la lega per riformare l’austenite ed
innescare un altro processo di riscaldamento.
2. La sferoidite, che si ottiene riscaldando un acciaio con microstruttura perlitica o bainitica e
mantenuto a una temperatura inferiore all’eutettoide per un periodo di tempo sufficientemente
lungo, come 18-24 ore. Al posto dell’alternanza di lamelle di ferrite e cementite (perlite) o delle
microstrutture osservate nella bainite, cementite assume stavolta la forma di piccole particelle
sferiche che si trovano disperse in una matrice continua di fase−𝛼 (ferrite). Questa trasformazione
si attua mediante una ulteriore diffusione del carbonio, senza produrre variazioni nella composizione
o nelle quantità relative delle fasi di ferrite e di cementite. Il motivo per cui succede questa
trasformazione è la riduzione della superficie di separazione tra ferrite e cementite: la sferoidite è
più stabile sia della perlite che della bainite, altrimenti la trasformazione non avverrebbe.
3. La martensite, che si ottiene raffreddando velocemente le leghe ferro-carbonio una volta portate in
fase austenitica fino ad una temperatura relativamente bassa. La martensite è una struttura
monofasica di non equilibrio che risulta dalla trasformazione senza diffusione dell’austenite. E’ un
prodotto di trasformazione in competizione con la perlite e la bainite. La trasformazione martensitica
si verifica quando la velocità di tempra è sufficientemente elevata in modo da prevenire la diffusione
del carbonio, che porterebbe alla formazione di fasi ferrite e cementite. L’austenite cubica a facce
centrate subisce una trasformazione polimorfa che la porta a martensite tetragonale a corpo
centrato, la cui cella unitaria è praticamente un cubo a corpo centrato allungato lungo una sua
dimensione. Gli atomi di carbonio che erano presenti nell’austenite rimangono nella martensite sotto
forma di impurezze interstiziali, in maniera tale da venire a costituire una soluzione solida
sovrassatura che riesce a trasformarsi rapidamente in altre strutture solo se riscaldata a temperature
alle quali le velocità di diffusione diventano apprezzabili. Il grano della martensite nuclea e si accresce
a velocità talmente elevate che potrebbe quasi essere definito istantaneo entro la matrice
austenitica. I grani di martensite assumono un aspetto aghiforme o a forma di placchette, e la
martensite può coesistere anche insieme ad altri componenti, come ad esempio, la bainite o la
perlite. Essendo una fase di non equilibrio non appare nel diagramma ferro-cementite, ma è
rappresentata, invece, nel diagramma TTT. Dato che è un processo praticamente istantaneo e senza
diffusione, non assume la forma di una curva ma di una retta orizzontale che sancisce il punto di
inizio della trasformazione austenite-martensite ed è seguita da una serie di rette orizzontali più in
basso che indicano la percentuale di martensite trasformata. Le rette orizzontali indicano che questa
trasformazione non dipende dal tempo, ma solo dalla temperatura alla quale è fatta avvenire: una
trasformazione di questo tipo è detta trasformazione atermica.
Vediamo quali sono i fattori che modificano le curve di Bain:
1. Aumentando il tenore di carbonio dell’acciaio e curve TTT si spostano verso destra, ovvero
aumentano i tempi di incubazione;

35
2. L’aggiunta di elementi di lega sposta a destra le curve TTT, con l’eccezione del cobalto che le sposta,
invece, a sinistra. In generale, gli elementi di lega hanno due effetti:
a. Diminuire l’energia motrice di tipo chimico;
b. Ostacolare i processi diffusivi del carbonio necessari per le trasformazioni allo stato solido;
Per questo motivo l’aggiunta di elementi di lega rallenta la velocità di nucleazione della nuova fase
e quindi aumentano i tempi di trasformazione. Anche le temperature martensite-start e martensite-
finish vengono abbassate dall’aggiunta di altri elementi di lega;
3. L’aumento delle dimensioni del grano sposta a destra le curve TTT, che è uno dei rari casi in cui
l’aumento delle dimensioni del grano può essere auspicabile, per esempio per semplificare una
trasformazione martensitica;
4. Un’alta temperatura di austenizzazione sposta a destra le curve TTT perché comporta un maggior
tenore di carbonio nella fase−𝛾 e anche un ingrossamento del grano;
5. Una deformazione plastica a freddo sposta a sinistra le curve TTT e verso l’alto le linee martensite-
start e martensite-finsish dato che l’incrudimento aumenta la trasformazione solido-solido e
aumenta la velocità di nucleazione. Inoltre, ad alte temperature, la temperatura di ricristallizzazione
ricostruisce completamente la struttura;
I trattamenti isotermici sono
comunque non molto pratici da
condurre, in quanto di deve fare in odo
che una lega venga raffreddata molto
rapidamente e mantenuta a quella
temperatura per un certo periodo di
tempo. La maggior parte dei
raffreddamenti termici prevede invece
un raffreddamento continuo: il tempo
necessario per iniziare e completare
una trasformazione, nei nuovi
diagrammi, viene quindi ritardato. Il
grafico delle curve di inizio e fine
reazione così modificato viene
chiamato diagramma di
trasformazione in raffreddamento
continuo, o più semplicemente CCT.
Le curve di raffreddamento non sono
quindi più rette orizzontali o quasi
verticali, ma sono più dolci. Il
procedimento di lettura non cambia.
Normalmente una lega di
composizione eutettoide non forma
mai bainite se riscaldata in maniera
continua fino a temperatura
ambiente, dato che tutta l’austenite si trasforma in perlite prima che diventi possibile la trasformazione
bainitica: infatti, se la regione che rappresenta la trasformazione austenite-perlite termina appena sotto il
naso con la linea tratteggiate che unisce le due curve non tratteggiate, ogni curva che attraverserà le linee
continue trasformerà tutta l’austenite in perlite, mentre ogni curva che attraverserà la linea di inizio
trasformazione austenite-perlite ma poi intersecherà la linea tratteggiata sotto al naso della curva avrà
trasformato un po’ di austenite in perlite e trasformerà la restante parte di austenite in martensite una volta
raggiunta la linea di martensite-start. Le temperature di inizio martensite sono le stesse sia a ciclo rapido

36
che a ciclo continuo. Nel raffreddamento continuo di un acciaio, si definisce una velocità di tempra critica
che rappresenta la minima velocità di
raffreddamento necessaria per ottenere una
struttura completamente martensitica. Gli
elementi di lega spostano a tempi più lunghi
i nasi della perlite ed eventualmente della
fase proeuttoide e della bainite: ne consegue
che la velocità critica di raffreddamento
diminuisce, ed è una ragione per cui si
favorisce l’alligazione di un acciaio per
formare martensite, con sezioni trasversali
anche di ampio spessore dato che al
diminuire della velocità di raffreddamento
aumenta lievemente la velocità di diffusione
e quindi la diffusione invece che essere
inesistente può arrivare anche a distanze di
medio raggio.
Vediamo ora il comportamento meccanico
delle leghe ferro-carbonio:
1. Perlite: La cementite è di molto più
dura, ma anche più fragile della ferrite. Al
crescere della frazione di cementite in un
acciaio, quindi, a parità di contenuto degli
altri elementi microstrutturali, aumentano la
durezza e la resistenza aumentando lo sforzo di snervamento, lo sforzo di rottura e la durezza Brinell
ma diminuendo l’energia di impatto, la zona di strizione e la duttilità. Il comportamento meccanico
dipende anche dallo spessore delle varie lamine di ferrite e cementite: la perlite fine, ad esempio, è
più dura della perlite grossolana. La ragione di questo comportamento risiede nei fenomeni che
avvengono alle interfacce tra le fasi 𝛼 e Fe3 C, tra le quali c’è grande aderenza, pertanto nelle zone
adiacenti all’interfaccia la fase di cementite, rigida e resistente, è in grado di contenere fortemente
la deformazione della fase di ferrite più tenera. La cementite va praticamente a rinforzare la ferrite.
Il grado di rinforzo è maggiore per la perlite fine perché maggiore è anche l’area dell’interfaccia tra
le fasi per unità di volume di materiale. I bordi delle fasi inoltre fungono da barriera al movimento
delle dislocazioni molto più che i bordi dei grani: un rinforzo maggiore, e un maggiore ostacolo al
movimento delle dislocazioni comportano quindi una migliore resistenza. La perlite grossolana, al
contrario, è più duttile della perlite fine.
2. Sferoidite: In questa configurazione microstrutturale la cementite ha forma e disposizione
notevolmente differente rispetto a quella della perlite, essendo a forma di piccola sfera. Nella
sferoidite c’è minore interfaccia per unità di volume, per cui viene meno ostacolata la deformazione
plastica e il materiale diviene meno duro e meno resistente. Tra tutti gli acciai, quelli meno duri e
meno resistenti hanno una microstruttura sferoiditica, ma sono estremamente duttili molto più di
quelli a perlite grossolana e sono notevolmente tenaci perché ogni cricca, propagandosi nella
matrice duttile di ferrite può incontrare solo frazioni molto piccole di cementite fragile.
3. Bainite: Gli acciai bainitici, avendo una struttura più fine cioè con più particelle di ferrite−𝛼 e di Fe3 C
più minute, sono generalmente più duri e resistenti rispetto agli acciai perlitici e mostrano inoltre
una favorevole combinazione di resistenza e duttilità. La temperatura di trasformazione ha
influenza sulla durezza e sullo sforzo di rottura di una lega, in quanto più bassa è la temperatura di
trasformazione, tanto più alta sarà la durezza e lo sforzo a rottura.

37
4. Martensite: La martensite è la microstruttura più dura e resistente in assoluto raggiungibile per un
acciaio, ma anche la più fragile, tanto da avere una duttilità quasi trascurabile. La sua durezza
dipende dal contenuto di carbonio, in genere fino allo 0,6% in peso. A differenza delle strutture
perlitiche, la resistenza e la durezza non sono correlate con la microstruttura , ma sono da imputare
all’efficacia che hanno gli atomi di carbonio situati in posizione interstiziale nell’ostacolare il
movimento delle dislocazioni e allo scarso numero di sistemi di scorrimento nei sistemi tetragonali
a corpo centrato ad alto fattore di compattazione atomica.
5. Austenite: è leggermente più densa della martensite e quindi con la trasformazione di fase a seguito
della tempra si verifica un deciso aumento di volume, di conseguenza pezzi grandi se temprati
rapidamente possono fessurarsi a seguito delle tensioni interne indotte dalla tempra, il che
costituisce un problema, soprattutto quando il tenore di carbonio è maggiore dello 0,5%.
Trattamento termico dei metalli
Il primo processo che analizziamo è quello della ricottura, che si riferisce ad un trattamento durante il quale
il materiale viene portato e mantenuto ad elevata temperatura per un periodo di tempo abbastanza lungo e
quindi raffreddato lentamente. Di solito, la ricottura serve a:
1. Eliminare gli stati di autotensione;
2. Ridurre la durezza e aumentare la tenacità e la duttilità;
3. Ottenere una determinata microstruttura;
Ogni processo di ricottura si divide inoltre in tre stadi:
1. Riscaldamento alla temperatura desiderata;
2. Mantenimento o permanenza a questa temperatura;
3. Raffredamento fino, di solito, alla temperatura ambiente;
Il tempo è come al solito un parametro importante per questo processo. Durante il riscaldamento e il
raffreddamento, si possono determinare gradienti di temperatura tra le zone interne ed esterne del pezzo,
la cui ampiezza dipende dalla geometria. Se la velocità di variazione della temperatura è elevata, i gradienti
di temperatura hanno intensità tale da produrre tensioni interne a deformazione o addirittura a rottura. Il
tempo di ricottura, inoltre, deve essere abbastanza lungo da consentire le reazioni di trasformazione
necessarie. Aumentando la temperatura, la ricottura può essere accelerata, coinvolgendo maggiormente i
processi di diffusione. La ricottura intermedia è un trattamento termico usato per annullare gli effetti di
una lavorazione a freddo, cioè per attenuare la durezza e aumentare la duttilità di un metallo in precedenza
incrudito. Di solito questo processo viene usato nelle lavorazioni che richiedono una grande deformazione
plastica, per continuare a deformare senza il rischio di rottura o di eccessivo dispendio di energia. In questo
trattamento si verificano i fenomeni di recovery e ricristallizzazione. Dato che di solito è preferibile ottenere
una microstruttura a grana fine, si arresta il trattamento prima della fase di ingrossamento del grano. Si può
controllare l’ossidazione o la formazione di scaglie superficiali conducendo la ricottura a temperature
relativamente basse ma sempre al di sopra della temperatura di ricristallizzazione o in ambiente non
ossidante. La distensione, invece, è il processo per mezzo del quale si possono eliminare le tensioni interne
che si erano formate a seguito di:
1. Processi di deformazione plastica, lavorazione alle macchine utensili o molatura;
2. Raffreddamento non uniforme di pezzi lavorati o prodotti a temperatura elevata, come nelle
saldature a getto;
3. Trasformazione di fase indotta per raffreddamento in cui la fase originaria e quelle successive hanno
una marcata differenza di densità;
Con la distensione, queste tensioni possono essere eliminate, risaldando i pezzi alla temperatura stabilita e
mantenendoceli per un tempo sufficiente a raggiungere la temperatura uniforme e quindi raffreddandoli in
aria fino a temperatura ambiente. La temperatura di ricottura è di norma relativamente bassa, in maniera
tale da non innescare processi di ricottura, non influendo quindi sull’incrudimento e su altri processi di natura
termica. Si possono attuare delle ricotture delle leghe ferrose, andando a migliorare questa o quella
38
proprietà. In questa sede, all’interno del diagramma di fase ferro-carburo di ferro, chiamiamo 𝐴1 o
temperatura critica inferiore la retta isoterma del punto eutettico, chiamiamo 𝐴3 o temperatura critica
superiore dell’ipoeutettoide la linea che separa l’austenite dalla fase 𝛼 + 𝛾 e chiamiamo 𝐴𝐶𝑀 o temperatura
critica superiore dell’ipereutettoide la linea che separa l’austenite dalla fase 𝛾 + Fe3 C. Alcuni tra i
trattamenti di ricottura possibili, sono:
1. La normalizzazione: gli acciai che hanno subito deformazione plastica, ad esempio per
laminazione, sono costituiti da grani di perlite (e probabilmente anche da una fase proeutettoide) di
forma irregolare e relativamente grandi, allungati. La normalizzazione è un processo di ricottura che
serve ad ottenere una migliore e più uniforme distribuzione dimensionale, con lo scopo di
omogeneizzare e affinare i grani, riducendo così la dimensione media del grano, migliorando la
tenacità dell’acciaio. La normalizzazione viene ottenuta riscaldando almeno 55°C al di sopra della
temperatura critica superiore, consentendo alla lega di trasformarsi tutta in austenite in un processo
detto austenitizzazione dopo un tempo sufficiente, per poi essere raffreddata in aria in maniera
quindi moderatamente veloce, a formare quindi perlite fine.
2. La ricottura completa viene effettuata sugli acciai a medio e basso tenore di carbonio destinati alla
lavorazione alle macchine utensili. La lega viene riscaldata a temperature superiori di 50°C rispetto
alla temperatura critica superiore per formare austenite ed è quindi raffreddata in forno, in maniera
tale che sia il forno sia l’acciaio si raffreddano alla stessa velocità, che risulta molto più lenta che di
quella della normalizzazione. Il prodotto microstrutturale di questo trattamento è perlite
grossolana, che è relativamente tenera e duttile e può consentire di avere grani piccoli e uniformi.
3. La sferoidizzazione riguarda gli acciai a medio-alto tenore di carbonio con microstruttura perlitica
anche grossolana, che possono essere parecchio duri per le lavorazioni alle macchine utensili. Gli
acciai sferoidizzati hanno la minima durezza e la massima duttilità, dato che la sferoidizzazione
induce la coalescenza della cementite per formare particelle sferoidali, realizzabile secondo diversi
procedimenti tra cui:
a. Riscaldando la lega a una temperatura appena al di sotto di quella dell’eutettoide nella
regione 𝛼 + Fe3 C del diagramma di fase. Se la microstruttura contiene perlite, il tempo
necessario è all’incirca tra le 15 e le 25 ore.
b. Riscaldando a una temperatura appena al di sopra di quella dell’eutettoide e
successivamente raffreddando molto lentamente in forno oppure mantenendo la lega ad
una temperatura di poco più bassa a quella eutettoide.
c. Riscaldando e raffreddando alternativamente entro ±50° rispetto alla temperatura critica
inferiore, in un processo detto ricottura pendolare.
Entro certi limiti, la velocità di formazione della sferoidite dipende dalla microstruttura di partenza.
Tale velocità è minima per la perlite piuttosto che per la bainite, e tanto più veloce risulta quanto più
è affinata la perlite, aumentando inoltre anche con l’incrudimento.
Analizziamo ora i vari trattamenti termici degli acciai. Le procedure di trattamento per ottenere un acciaio
martensitico prevedono di norma un raffreddamento rapido e continuo di un pezzo austenitizzato in vari tipi
di mezzi tempranti, come acqua, olio o aria. Un acciaio temprato e rinvenuto può conseguire proprietà
ottimali solo se col trattamento di tempra ha acquisito efficaci proprietà martensitiche. Col trattamento di
tempra risulta inoltre impossibile raffreddare un pezzo con velocità uniforme, dato che la superficie si
raffredderà sempre più rapidamente nelle zone interne. La trasformazione dell’austenite è costretta
pertanto ad avvenire entro un arco di temperature che danno luogo all’interno del pezzo a microstrutture e
proprietà che variano con la distanza dalla superficie. La riuscita di un trattamento termico per produrre
negli acciai una struttura prevalentemente martensitica dipende essenzialmente da tre fattori:
1. La composizione della lega;
2. Il tipo e le caratteristiche del mezzo temprante;
3. La dimensione e la forma del pezzo;

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L’influenza della composizione di lega sulle capacità di un acciaio di trasformarsi in martensite è detta
temprabilità, che rappresenta una misura qualitativa della rapidità con cui la durezza crolla con la distanza
all’interno di un materiale, come diminuzione del
contenuto di martensite. Un acciaio con alta
temprabilità è un acciaio che forma martensite
indurendosi non solo in superficie, ma anche in
profondità. La prova per determinare la
temprabilità è la prova di tempra Jominy, in cui
sono mantenuti costanti tutti i valori che possono
influenzare il trattamento eccetto la composizione
della lega. La procedura prevede di austenitizzare
un provino e temprarlo all’estremità inferiore con
un getto d’acqua con flusso e temperatura di
uscita determinati. La velocità di raffreddamento
è quindi massima all’estremità e diminuisce con la
distanza lungo il provino. Una volta raffreddato a
temperatura ambiente, sul provino vengono
ricavate per molatura due strisce sulle quali
effettuare la prova di durezza Rockwell. La curva di
temprabilità si ottiene diagrammando la durezza
in funzione della distanza dell’estremità temprata.
Al diminuire della velocità di raffreddamento, il
carbonio ha più tempo a disposizione per
diffondere e per formare maggiori quantità della
più tenera perlite, che può trovarsi miscelata con
la bainite o con la martensite. Talvolta è più
conveniente diagrammare la durezza in funzione della velocità di raffreddamento, correlandola con le curve
di raffreddamento continuo. La temprabilità aumenta con l’aggiunta di materiali di lega, e aumenta anche
insieme all’aumentare del tenore di carbonio. Di solito, quando si produce un pezzo, è inevitabile riscontrare
delle leggere variazioni delle composizioni e della dimensione media dei grani da un’estremità all’altra. La
curva di temprabilità viene quindi fornita non come una curva, ma come una banda, in quella che si chiama
banda di temprabilità.
La velocità con cui un pezzo si raffredda dipende inoltre anche dalla rapidità con cui si riesce a dissipare
l’energia termica, che è funzione sia delle caratteristiche del mezzo temprante in contatto con la superficie
sia della geometria del pezzo. Per dare una valutazione della velocità con cui si raffredda viene introdotta la
scala di tempra. Dei tre mezzi più comuni di tempraggio, che sono acqua, olio e aria, l’acqua produce la
tempra più severa, seguita dall’olio che è a sua volta più efficace dell’aria. Anche il grado di agitazione del
mezzo influenza la velocità di rimozione del calore: aumentando la velocità di passaggio del mezzo
temprante sulla superficie temprata del materiale si migliora l’efficacia del trattamento. Di solito si usa un
trattamento in olio, dato che la tempra in acqua ha un grado di drasticità, definita come:
1 per l′acqua
𝑐 scambio termico del mezzo
drasticità 𝐻 = = { 0,3 per l′olio
2𝑘 conduttività dell′ acciaio
0,02 per l′ aria calma
troppo elevato che porta a fessurazioni o a tensioni interne troppo elevate che favoriscono la rottura, mentre
la tempra in aria calma dà luogo a strutture quasi interamente perlitiche. Perché un acciaio si tempri, è
necessario che l’energia termica da esso posseduta sia in grado di raggiungere la superficie del pezzo, in
maniera tale che il mezzo temprante possa dissiparla. Ecco perché la velocità di raffreddamento è funzione
anche della geometria del pezzo, dipendendo dal rapporto tra l’area di superficie e la massa del pezzo.
Maggiore è questo rapporto e più rapida sarà la velocità di raffreddamento e quindi anche la profondità
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dell’indurimento. Forme irregolari hanno rapporti superficie massa maggiori e sono quindi più favorevoli ad
indurire per tempra.
Nello stato temprato, la martensite oltre ad essere molto dura è comunque anche così fragile da non essere
utilizzata per specifiche applicazioni. Inoltre, le tensioni interne che possono essere state introdotte con la
tempra hanno effetti di indebolimento. E’ tuttavia possibile aumentare di nuovo il tasso di duttilità e tenacità
attraverso un trattamento termico che prende il nome di rinvenimento. Il rinvenimento è realizzato
riscaldando un acciaio martensitico a una temperatura inferiore dell’eutettoide per un determinato periodo
di tempo, di solito a temperature comprese tra 250 e 650°C, anche se le tensioni interne possono essere
eliminate anche per temperature minori di 200°C. Il trattamento termico riguarda la formazione di
martensite rinvenuta secondo la relazione:
martensite tetragonale a corpo centrato, monofasica → martensite rinvenuta (fasi 𝛼 + Fe3 C)
In cui la martensite tetragonale sovrassatura di carbonio si trasforma in martensite rinvenuta che è costituita
da due fasi, la ferrite stabile e la cementite. La microstruttura della martensite rinvenuta è formata da
particelle di cementite estremamente piccole e uniformemente disperse in una matrice continua di ferrite,
simile alla struttura della sferoidite ma con particelle estremamente più piccole. La martensite rinvenuta
può essere dura e resistente quasi quanto la martensite tetragonale ma con duttilità e tenacità
sostanzialmente accresciute. La buona durezza e resistenza possono essere spiegate in base alla grande
superficie per unità di volume dell’interfaccia ferrite-cementite che si viene a formare con particelle di
cementite molto fini e numerose. La fase dura di cementite va a rinforzare la matrice di ferrite lungo
l’interfaccia che agisce da barriera al movimento delle dislocazioni sotto deformazione plastica. La fase
continua di ferrite è anche molto duttile e relativamente tenace. La dimensione delle particelle di cementite
influenza il comportamento meccanico della martensite rinvenuta: all’aumentare della dimensione delle
particelle diminuisce la superficie dell’interfaccia ferrite-cementite e di conseguenza il materiale risulta più
tenace e duttile, meno duro e resistente. La dimensione delle particelle di cementite dipende da come è
condotto il trattamento, cioè dalla temperatura e dal tempo. Dato che nella trasformazione martensite-
martensite rinvenuta viene interessata la diffusione del carbonio, all’aumentare della temperatura si
accelera la diffusione, la velocità conseguente di crescita delle particelle di cementite e anche la velocità di
addolcimento. Il trattamento di rinvenimento può però portare ad una certa diminuzione della tenacità
quando il pezzo viene scaldato fino a temperature tra 375°C e 575°C dando luogo ad un fenomeno detto
fragilità da rinvenimento. La presenza degli elementi di lega, infatti, fa spostare la temperatura di
transizione duttile-fragile verso valori sensibilmente più alti: in questo modo, alla temperatura ambiente ci
si viene a trovare al di sotto di questa transizione e quindi in regime di fragilità. La propagazione delle cricche
nei materiali infragiliti avviene in maniera intergranulare, seguendo i bordi della fase austenitica. La fragilità
da rinvenimento può essere evitata:
1. Agendo sulla composizione;
2. Conducendo il rinvenimento ad una temperatura inferiore a 375°C o superiore a 575°C facendo
seguire una tempra fino a temperatura ambiente.
La tenacità degli acciai che sono stati infragiliti può essere sensibilmente migliorata per riscaldamento fino
a 600°C e quindi rapido raffreddamento al di sotto dei 300°C
Microcostituente Fasi presenti Disposizione delle fasi Proprietà meccaniche
Sferoidite Ferrite−𝛼 + Fe3 C Particelle sferiche Tenera e duttile
piccole di cementite
disperse in una matrice
ferritica
Perlite grossolana Ferrite−𝛼 + Fe3 C Strati alternati di ferrite Più dura e resistente
e cementite dotati di un della sferoidite, ma non
certo spessore così duttile

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Perlite fine Ferrite−𝛼 + Fe3 C Strati alternati di ferrite Più dura e resistente
e cementite che hanno della perlite grossolana
delle lamelle sottili ma non così duttile
Bainite Ferrite−𝛼 + Fe3 C Particelle di cementite Durezza e resistenza
molto minute e maggiori rispetto alla
allungate disperse in perlite fine
una matrice ferritica
Martensite rinvenuta Ferrite−𝛼 + Fe3 C Particelle sferiche di Resistenza elevata,
cementite molto piccole anche se non tanta
disperse in una matrice quanto la martensite,
ferritica ma molto più duttile
Martensite Monofase tetragonale a Grani aghiformi Molto dura e molto
corpo centrato fragile
Vediamo in sintesi uno schema utile per memorizzare meglio i trattamenti termici:
1. Ricottura completa: serve a portare il materiale il più vicino possibile alle condizioni di equilibrio,
sia in senso termodinamico, sia in senso chimico eliminando la segregazione di soluto conseguente
alla solidificazione favorendo la diffusione, sia infine in senso meccanico eliminando le autotensioni
presenti nel materiale. Il risultato è un acciaio in cui gli effetti dei precedenti trattamenti termici
vengono annullati completamente. Il materiale raggiunge una lavorabilità molto elevata, tale da
permettere condizioni favorevoli per eseguire lavorazioni meccaniche, limitando però la durezza. Il
ciclo termico consta di una fase di riscaldamento e di una fase di raffreddamento. Si distinguono due
casi:
a. Gli acciai ipoeutettoidici vengono scaldati fino ad entrare in campo 𝛾, con temperature di
riscaldamento superiore alla 𝐴3 di una trentina di gradi, in maniera tale che durante il
raffreddamento si formerà una microstruttura di ferrite−𝛼 proeuttettoidica che circonderà
colonie isolate di perlite costituita da cementite e perlite eutettoidica;
b. Gli acciai ipereutettoidici vengono scaldati senza entrare completamente in campo 𝛾, di
solito fino a temperature superiori di una trentina di gradi rispetto all’isoterma eutettoidica.
Quando si raffredda, oltrepassata la linea di trasformazione 𝐴𝐶𝑀 comincia a formarsi sul
bordo del grano austenitico la fase cementite Fe3 C, finché una volta giunti alla linea di
trasformazione di fase 𝐴1 , l’austenite residua si trasformerà anch’essa in cementite
eutettoidica. Se la cementite è concentrata sul bordo di grano rende il materiale parecchio
più fragile, quindi si cerca di evitare questa situazione non entrando completamente in
campo 𝛾;
I tempi di permanenza sono in linea di massima di un’ora per pollice di spessore. Le alte temperature
consentono di innescare processi diffusivi che fanno raggiungere al materiale configurazioni
strutturali piuttosto
omogenee e comunque
di trasformare tutta la
ferrite in austenite. Il
tempo di permanenza
aumenta aumentando il
tenore degli elementi di
lega presenti, dato che
essi spostano le curve di
Bain verso destra, cioè
verso tempi maggiori. Il
raffreddamento deve essere molto lento in maniera tale da evitare trasformazioni bainitiche, a
velocità di circa 10°C per ora.

42
2. Ricottura di globulizzazione (sferoidizzazione): Viene effettuata sui materiali che abbiano giù
subito una ricottura completa, serve a trasformare la perlite lamellare in perlite globulare, o
sferoidite, che fornisce maggior lavorabilità al materiale. Si sottopone il materiale a delle oscillazioni
termiche attorno alla isoterma eutettoidica alternando cicli di dissoluzione delle lamelle di perlite e
cicli di formazione di sferoidi di cementite.
3. Ricottura isotermica: Può essere applicata solo quando si conoscono bene le curve di Bain del
materiale. Possono essere di due tipi, a seconda del grado di finezza della perlite che si vuole
raggiungere:
a. Risultati simili alla ricottura completa, ma in tempi molto minori, portando il materiale al di
sotto della linea di trasformazione per formare perlite lamellare, e mantenendocelo per un
tempo opportuno fino a completare la trasformazione e raffreddarlo successivamente a
temperatura ambiente;
b. Patentamento: questo trattamento è indicato per acciai vicini alla composizione
eutettoidica e consente di ottenere la perlite più fine possibile, garantendo un’alta
resistenza meccanica per la messa in opera. Ci si allontana sensibilmente alla temperatura
di equilibrio fino a poco sopra la temperatura del naso delle curve di Bain, all’incirca 540-
550°C.
4. Ricottura di ricristallizzazione: processo già trattato più sopra, non avvengono cambiamenti di fase
e vengono eliminati tutti gli effetti dell’incrudimento;
5. Ricottura di distensione: Non porta a cambiamenti strutturali quindi non è un vero e proprio
processo di ricottura, ma è un semplice riscaldamento del materiale che ha lo scopo di diminuire le
autotensioni presenti. Infatti, le autotensioni sono sottomultipli del carico di snervamento, che
dipende linearmente dalla differenza di temperatura: aumentando la temperatura di esposizione,
diminuiscono sia il carico di snervamento che l’entità delle autotensioni.
6. In tutti i trattamenti termici si tende a limitare per quanto possibile le temperature di esposizione:
infatti, oltre ad un maggior costo di trattamento l’esposizione alle alte temperature comporta un
processo di decarburazione degli acciai, che interessa un esiguo spessore della superficie e che può
essere rimosso mediante azioni meccaniche, ma genera problemi negli acciai da messa in opera
senza ulteriori lavorazioni, in quanto lo strato superficiale decarburato può innescare con facilità
fenomeni di rottura.
7. Normalizzazione: serve semplicemente a ridurre i tempi della ricottura completa. Il ciclo termico si
articola in due passaggi:
a. Si riscalda il materiale a temperature più alte dell’ordine di una cinquantina di gradi sopra
alla temperatura di trasformazione in modo da accelerare il processo di austenitizzazione;
b. Si effettua un raffreddamento rapido in aria;
Un’alta velocità di raffreddamento non solo limita i tempi ma consente anche di allontanarsi più in
fretta dalla temperatura di equilibrio, rendendo la struttura più fine rispetto a quella ottenuta per
ricottura. Se però la velocità di raffreddamento è inferiore alla velocità critica il fenomeno può
trasformarsi in tempra: questo fenomeno è praticamente escluso negli acciai con basso tenore di
lega, che hanno le curve di Bain più spostate verso sinistra e che rendono pertanto più difficile
raggiungere velocità maggiori di quella critica di raffreddamento;
8. Tempra: con la tempra si ottiene una struttura martensitica estesa possibilmente a tutto il pezzo. Il
materiale assume quindi alte proprietà resistenziali, ma non è quasi mai buono da messa in opera, a
causa dell’allungamento percentuale a rottura praticamente nullo. I materiali allo stato come-
temprato sono ottimi materiali di partenza per trasformazioni successive. Il limite di temprabilità va
come 0,25% < C% < 0,6% e riguarda quindi acciai ipoeutettoidici. Il materiale viene scaldato
secondo modalità analoghe alla ricottura, cioè 30°C sopra la A3 per gli acciai ipoeutettoidici e
sempre sotto la 𝐴𝐶𝑀 per gli acciai ipereutettoidici. Infatti, per contenuti di carbonio superiori allo

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0,5-0,6% la temperatura di fine martensite sta sotto alla temperatura ambiente, quindi la
trasformazione martensitica non sarebbe completata. Rimanendo sotto alla linea 𝐴𝐶𝑀 , invece, il
tenore di carbonio non è 100% austenite come sarebbe sotto a tale retta, a causa della dissoluzione
di parte dell’austenite 𝛾 in in cementite Fe3 C. Il tenore di carbonio austenitico non è pertanto 100%
ma sarà una frazione ottenibile con la regola della leva, la temperatura di trasformazione
martensitica non si abbassa troppo come sarebbe accaduto a temperature maggiori. Il
raffreddamento deve essere condotto a velocità superiori a quella critica, ma è sempre opportuno
scegliere la velocità di raffreddamento più bassa possibile, a causa dell’accumulo di sovratensioni
dipendenti dai gradienti di temperatura elevati ottenuti ad alte velocità di raffreddamento. La
capacità di raffreddamento di un mezzo temprante viene detta drasticità.
9. Rinvenimento: serve a migliorare la tenacità della struttura come-temprata a scapito della sua
durezza. Il trattamento viene effettuato sempre al di sotto della temperatura isoterma eutettoidica,
i cui tempi di mantenimento sono sempre di un’ora per pollice di spessore. Spesso, non si aspetta
nemmeno che dopo un trattamento di tempra il pezzo sia giunto all’equilibrio termico, dato che le
autotensioni impiegano diverse ore prima di comparire. Il punto di partenza è quindi una struttura
sovrassatura di carbonio e instabile: riscaldando il pezzo tenderà alla configurazione di equilibrio. Si
distinguono tre scale di temperature di rinvenimento:
a. 150-250°C: consente di ottenere una struttura ancora più dura e meno tenace della
martensite, eseguendo la trasformazione:
MAR altoC → MAR bassoC + carburi 𝜀
La martensite a basso tenore di carbonio può essere paragonata alla ferrite, mentre i carburi
𝜀 hanno un tenore di carbonio più alto della cementite e precipitano in maniera
estremamente fine e coerente. La durezza dell’acciaio, in questo modo, riesce addirittura a
crescere;
b. 250-450°C: Aumenta la tenacità a scapito della durezza, secondo la trasformazione:
MAR altoC → ferrite aciculare + cementite Fe3 C
La ferrite aciculare è una struttura molto fine, con ottime proprietà: la ferrite−𝛼 ottenuta
per rinvenimento ha quindi una qualità migliore della ferrite−𝛼 ottenuta sottoforma di
perlite grazie ad un trattamento termico di ricottura;
c. 550-650°C: La trasformazione eseguita è la seguente:
MAR altoC → ferrite aciculare + cementite Fe3 C sferica
Questa struttura conserva i vantaggi della struttura aciculare ma ha anche la cementite nella
forma più favorevole e meno dannosa possibile, cioè la cementite sferica. Si ottiene quindi
una struttura detta sorbite che ha il miglior compromesso possibile tra durezza e tenacità.
Il trattamento tempra+rinvenimento in questo intervallo di temperature è detto bonifica.
Una permanenza troppo prolungata potrebbe comunque portare a dei fenomeni di
ingrossamento del grano: bisogna quindi controllare bene il tempo di esposizione.
d. Nell’intervallo di temperatura 450-550°C si incontra un fenomeno detto fragilità da
rinvenimento, in cui si verifica un forte addensamento di impurezze sul ricordo del grano
austenitico della martensite. In questo caso si verificano spesso fratture intergranulari.
Questo fenomeno non si verifica a temperature più basse perché non favoriscono i processi
diffusivi, mentre non si verifica nemmeno a temperature più alte perché in un range di
temperatura più elevato vi è scarsa tendenza delle impurezze a nucleare sui bordi del grano.
Il molibdeno in tenori pari a circa lo 0,3% elimina quasi completamente questo problema.
Gli elementi aggiunti negli acciai possono prendere la forma di:
1. Impurezze;
2. Aggiunte standard;
3. Elementi di lega;

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Tra le impurezze ricordiamo:
Impurezza Conseguenze
Provocano una notevole riduzione delle
caratteristiche meccaniche dell’acciaio: lo zolfo è
responsabile della fragilità a caldo, il fosforo della
ZOLFO, FOSFORO fragilità a freddo. Lo zolfo atomico per esempio
tende a diffondere nella matrice metallica ed ad
addensarsi sul bordo di grano, provocando fratture
intergranulari.
L’idrogeno sottoforma di idrossidi è sempre
IDROGENO dannoso e si accumula durante il processo di
formazione, o durante le saldature e può dare vita a
processi corrosivi.
Presente sotto forma di ossidi, è l’impurezza meno
OSSIGENO dannosa perché gli ossidi sono particelle molto fini
e non deformabili, di conseguenza non danno
anisotropia sul materiale.
Aumenta la resistenza del materiale ma ne
diminuisce la tenacità e duttilità. E’ causa
dell’invecchiamento per deformazione: un
AZOTO materiale che viene deformato plasticamente vede
aumentare il numero delle dislocazioni, bloccate
dalle atmosfere di Cottrell che diminuiscono però
l’azione ancorante in presenza di azoturi o carburi,
dando luogo alle bande di Luders

Tra le aggiunte standard, invece ricordiamo:


Aggiunta standard Tenore percentuale Effetto
Molto capace a formare solfuri.
Evita quindi la formazione da
parte dello zolfo di solfuri di ferro
MANGANESE 0,3%-0,5% bassofondenti, in virtù dei solfuri
di manganese, che sono
altofondenti e combattono la
fragilità a caldo.
Limitano l’accrescimento del
grano, dato che hanno una
elevata affinità con carbonio e
MICROALLIGANTI (Nb, Ti, Ta) 0,03% zolfo a formare carburi e nitruri
estremamente fini, che migrano
verso il bordo del grano con
l’effetto di impedirne lo
spostamento.
SILICIO, ALLUMINIO 0,3% Si 0,06% Al Eliminano l’ossigeno libero, dato
che formano ossidi molto fini e
altofondenti.
L’azione dello zolfo è quella di
formare un gran numero di solfuri
ZOLFO 0,08%-0,13% che forniscono una sorta di
lubrificazione che impediscono al
truciolo di aderire all’utensile
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Viene aggiunto per migliorare la
lavorabilità dell’acciaio alle
macchine utensili. Questo
elemento è solubile nel ferro e
FOSFORO <0,1% pertanto la sua azione principale
è quella di rafforzare per
soluzione solida la ferrite, in
modo da favorire ulteriormente
la rottura del truciolo e
migliorando la finitura
superficiale del componente.
Il piombo è pressocché insolubile
nell’acciaio liquido e va poi a
formare una fine dispersione di
particelle nell’acciaio solido.
Queste particelle si aggregano in
PIOMBO 0,15%-0,35% buona parte con le inclusioni di
zolfo e permettono di
incrementare ulteriormente le
velocità di taglio e migliorare la
finitura superficiale.
Entrambi questi elementi sono
utili nello stabilizzare la forma
SELENIO, TELLURIO 0,04%-0,05% tondeggiante delle inclusioni di
solfuri e quindi migliorare la
lavorabilità dell’acciaio.

Gli elementi di lega, invece, servono ad aumentare i limiti resistenziali del’acciaio senza impoverire troppo
la tenacità. La presenza di elementi di lega permette anche di eseguire trattamenti termici particolari per
pezzi soprattutto di elevato spessore. Gli elementi di lega, in sintesi, migliorano la trattabilità del materiale.
Si possono trovare in soluzione solida con il ferro, oppure possono formare nuove fasi. Le regole di solubilità
si rifanno alle regole di Hume-Rotery: la solubilità è alta se
1. I metalli hanno raggi atomici che non differiscono di più del 15%;
2. I metalli hanno la stessa struttura cristallina;
3. I metalli hanno elettronegatività simile;
4. I metalli hanno la stessa valenza;
Gli elementi di lega si possono classificare in base alla loro affinità col carbonio, ovvero in base alla loro
percentuale di formare carburi, allontanando il ferro dalla cementite. Il grado di affinità al carbonio, in ordine
crescente, è:
N Co Al Si Fe Mn Cr Mo V Ta Nb Ti
Gli elementi di lega in aggiunta al ferro si possono classificare in due gruppi, ognuno dei quali diviso a sua
volta in due sottogruppi:
1. Elementi di lega 𝛼 −geni o austenitizzanti: allargano il campo di esistenza della fase 𝛾 austenitica,
stabilizzano la fase cubico a facce centrate e abbassano la temperatura eutettoidica
proporzionalmente ad una migliore solubilità secondo Hume-Rotery. Il campo austenitico del ferro
viene ad estendersi dalla temperatura di fusione fino alla temperatura ambiente. Questi elementi
diffondono molto difficilmente nel ferro−𝛼 o nel ferro−𝛾 e quindi, a basse temperature, è difficile
raggiungere temperature di equilibrio. Si dividono in due sottogruppi:
a. Elementi a campo 𝛾 aperto: Ni, Mn, Co
b. Elementi a campo 𝛾 chiuso: Cu, C, N

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2. Elementi di lega 𝛼 −geni o ferritizzanti: allargano il campo di esistenza della fase 𝛼 ferritica,
stabilizzano la fase cubico a corpo centrato e aumentano la temperatura dell’isoterma eutettoidica.
Si dividono in:
a. Elementi a campo 𝛼 aperto: Ti, V, Cr, Al, Si, P
b. Elementi a campo 𝛼 chiuso: Nb, Zn, Ta, S, B

Gli elementi di lega, sia austenitizzanti che ferritizzanti, comportano uno spostamento verso sinistra della
concentrazione percentuale eutettoidica del tenore di carbonio.
Il diagramma ferro-carbonio si modifica a seconda degli elementi di lega:
1. Fe + C + 𝛾 − geno tende a far diminuire la temperatura eutettoidica, la curva di trasformazione 𝛾 +
𝛼 ↔ 𝛾 viene spostata verso il basso e a sinistra, mentre la curva di trasformazione 𝛾 → 𝛾 +
cementite si sposta verso l’alto.
2. Fe + C + 𝛼 − geno tende a far aumentare la temperatura eutettoidica, si restringe il campo 𝛾
facendo spostare la linea di trasformazione 𝛾 → 𝛾 + cementite verso l’alto e a sinistra;
Vediamo quali sono i tipi fondamentali di acciai:
1. Acciai da bonifica. Bonifica = tempra + rinvenimento (550°C-650°C). Questi acciai devono subire
bonifica, quindi devono avere un’alta
temprabilità. Nella norma UNI si usano i
seguenti acciai: C25 e C50, dunque si va da una
percentuale di C dello 0.25 a una dello 0.5.
Ovviamente, se diminuiamo troppo il
carbonio, le curve di Bain si spostano a sinistra,
e quindi diminuisce la temprabilità; se invece
lo aumentiamo oltre lo 0.5 %, la
trasformazione martensitica avviene solo in
parte. Gli acciai da bonifica hanno il migliore
compromesso tra resistenza meccanica e
tenacità; valori indicativi: 𝜎𝑆 = 500 - 1000 MPa e 𝜎𝑅 = 600 -1500 MPa. Si possono aggiungere certi
elementi di lega:

47
a. Cromo (1% - 2%): in questi tenori il cromo è di solito aggiunto per migliorare la temprabilità
(sposta a destra le curve di Bain).
b. Molibdeno (0.3 % - 0.5 %): è aggiunto per fugare il pericolo di fragilità da rinvenimento.
c. Nichel (0.5 % - 4 %): il nichel è un elemento che aumenta temprabilità e tenacità, dunque
sarebbe bene aggiungerlo in ogni tipo di acciaio; purtroppo costa molto.
d. Manganese: a volte si aggiunge anche manganese che aumenta la resistenza del materiale.
La struttura di questi acciai è ferrite aciculare e cementite sferica. Quando non di riesce a temprare
il pezzo fino al cuore (soprattutto quando questo è di grandi dimensioni) si può formare bainite (vedi
curve TTT), la quale non è in nessun caso desiderata perché ha bassa tenacità. Tuttavia, essendo
presente in piccole percentuali, e soprattutto trovandosi nel cuore del pezzo (dove minori sono le
tensioni), può essere accettata. Gli acciai al carbonio si raffreddano in acqua o acqua agitata. Gli
acciai al C + Cr si raffreddano in olio, riducendo così gradienti termici e possibilità di frattura. Questi
acciai sono i classici acciai da costruzione e vengono impiegati in tutti i particolari altamente
sollecitati (alberi a gomito, assi, strutture ad alta resistenza etc.).
2. Acciai autotempranti: sono acciai che prendono tempra in aria. Poiché l’aria è un mezzo
raffreddante a bassa drasticità (bassa velocità di
raffreddamento), dobbiamo spostare a destra le curve TTT
per permettere la tempra: questi acciai hanno in genere
quantità elevate di elementi di lega. Un esempio è: 34 Ni Cr
Mo 16; questi tre elementi permettono il raffreddamento in
aria. Il vantaggio di raffreddare in aria, è quello di poter
temprare pezzi con forma complicata senza provocare
fratture (nei pezzi di forma complicata i gradienti termici
creano tensioni che nei punti angolosi raggiungono livelli
molto alti). Il riscaldamento di rinvenimento viene fatto in
base alle esigenze, seguendo il solito grafico.
3. Acciai per molle: questi acciai hanno un elevato carico di snervamento, in genere prossimo al carico
di rottura. Non ci si preoccupa quindi della tenacità. In genere, infatti, la tenacità è richiesta per
cautelarsi da carichi inattesi. Questo pericolo, tuttavia, non sussiste per quello che riguarda le molle;
il loro impiego, infatti, prevede certi carichi facilmente ricavabili che non vengono mai superati.
Perciò, l’allungamento percentuale a rottura può essere anche molto piccolo. Si possono creare due
tipi di acciaio:
a. Acciai con lo 0.8 % di carbonio: L’acciaio al C viene sottoposto ad un trattamento di
patentamento, che consiste, in pratica, in una ricottura a 500°C; si ottiene così perlite
finissima ad alta resistenza. Successivamente si deforma plasticamente il pezzo in modo da
incrudirlo. Purtroppo l’efficacia di questo trattamento
dipende dallo spessore del pezzo; se eseguiamo
ricottura isoterma su un pezzo ad elevato spessore, si
crea una disparità di temperatura tra cuore e superficie,
il che rende il procedimento meno efficace: più è alto lo
spessore più la perlite è grossolana (almeno nel cuore).
Ma lo spessore interviene anche in fase di incrudimento:
tanto maggiore è lo spessore, tanto meno
l’incrudimento influisce sul cuore del pezzo. In base allo
spessore 𝜎𝑆 può variare dai 3000 MPa ai 1500 MPa.
b. Acciai debolmente legati: vengono usati quando lo
spessore è molto elevato. L’acciaio è temprato, se possibile in olio, e rinvenuto a
temperature più basse rispetto a quelle scelte per gli acciai da bonifica: ora vogliamo, infatti,

48
privilegiare la durezza rispetto alla tenacità. La temperatura è di circa 400°C. Elementi di
lega:
i. Silicio (1.2%-2.2%): alza il carico di
snervamento a danno della tenacità.
ii. Nichel, Cromo: hanno lo stesso ruolo che
negli acciai da bonifica.
iii. Vanadio: aumenta la resistenza.
Come trattamento alternativo si può adottare
l’austentempering (trattamento isotermo in
campo bainitico) utilizzato per limitare la
rottura a fatica (infatti non crea stress termici).
4. Acciai per cuscinetti a rotolamento: questi materiali devono avere una buona resistenza ad usura
da rotolamento, buona
resistenza a fatica e quindi
tenacità. Il motivo è dovuto alla
presenza dei carichi concentrati
variabili, che causano rottura per
fatica; si possono creare
microcricche superficiali, la cui
propagazione porta ad un’usura
di delaminazione, ed al distacco
di scaglie di materiale; se poi il
materiale non è tenace le
microcricche si propagano
rapidamente portando alla
rottura per fatica. Queste caratteristiche vengono ottenute fornendo un’ottima qualità al materiale,
ovvero riducendo al minimo le impurezze. Acciaio tipico di questa famiglia: 100 Cr 6.Questi materiali
sono spesso ottenuti per rifusione sottovuoto: in generale si fa, come trattamento termico, una
tempra con rinvenimento alle basse temperature per privilegiare la durezza (150-200°C). L’elevato
tenore di cromo impedisce la lavorabilità dei pezzi; anche con una ricottura completa, la lavorabilità
può risultare insoddisfacente. In tali casi è usuale sottoporre il pezzo anche a ricottura di
sferoidizzazione, che spinge al massimo la lavorabilità.
5. Acciai per utensili: sono caratterizzati per l’elevato tenore di elementi di lega formatori di carburi
per conferire grande durezza al materiale. Questi acciai si possono dividere in due categorie: acciai
per le lavorazioni a freddo e acciai per le
lavorazioni a caldo. Gli acciai per le lavorazioni
a freddo (cesoie, punzoni, lime, utensili
manuali) devono garantire alta durezza e
resistenza all’usura ma solo per temperature
inferiori ai 150°C. Sono acciai sostanzialmente
ad alto C con eventuali modeste aggiunte di
Cr, Mn e V. Raggiungono il massimo grado di
durezza (intorno ai 66HRC) degli acciai ma se
la temperatura di lavoro dell’utensile sale la
durezza diminuisce per il rinvenimento della
martensite. Gli acciai per le lavorazioni a
caldo, invece, hanno elevati tenori di W, Cr e V
(in percentuali del 18% W-4% Cr-1% V) con lo 0.8% di C e questi materiali dopo la tempra

49
martensitica subiscono un rinvenimento a circa 600-650°C che provoca un indurimento di
invecchiamento. La struttura che si viene così a creare ha elevata resistenza e durezza anche fino ai
500-550°C raggiungibili dagli utensili durante le lavorazioni meccaniche (punte di trapano, utensili
da tornio, frese etc.). A volte in questi acciai viene aggiunto il Co (acciai super-rapidi) per evitare la
formazione di austenite residua durante la tempra che ne comprometterebbe la durezza. Infatti
elevati tenori di elementi di lega possono spostare la temperatura di Ms sotto la T ambiente ed il Co
è l’unico elemento, come noto, in grado di spostare verso l’alto le curve di trasformazione
martensitica.
6. Acciai al carbonio risolforati: L’acciaio AISI 12L14 (UNS G12144) impiegato per il corpo valvola degli
iniettori è un acciaio risolforato, rifosforato e con aggiunta di piombo (indicato dall’inserzione della
lettera L), tutte aggiunte effettuate per migliorare la lavorabilità alle macchine utensili. L’aggiunta
di zolfo migliore sensibilmente la lavorabilità dell’acciaio rispetto allo stesso grado con solo
carbonio. Normalmente il tenore di zolfo negli acciai al carbonio sono limitati ad un massimo dello
0,05 %, mentre negli acciai risolforati si raggiungono normalmente tenori di 0,08-0,13 %. L’azione
dello zolfo è quella di formare un gran numero di inclusioni (sulfuri di manganese MnS) che, in
funzione delle loro dimensioni, forma e orientazione, causano frantumazione del truciolo e
forniscono una sorta di lubrificazione che impedisce a quest’ultimo di aderire all’utensile. Il risultato
è la possibilità di velocità di taglio molto superiori, nonché una minor richiesta di potenza e una
migliore finitura superficiale. Aumenta in tal modo la velocità di produzione dei componenti. E’
importante osservare che la dimensione e forma delle inclusioni è molto importante nello stabilire
l’effettivo miglioramento di lavorabilità meccanica. Sono in tal senso preferibili inclusioni di
maggiori dimensioni e di forma tondeggiante. Gli acciai risolforati costano mediamente il 10% in più
dell’analogo acciaio al carbonio non risolforato. Pertanto, è da valutare attentamente l’effettivo
vantaggio di un loro impiego. Grosso modo, il loro impiego conviene se con la lavorazione
meccanica si va ad asportare il 20% di materiale dal semilavorato.
7. Acciai da costruzione effervescenti: Messi in opera senza trattamenti termici, al massimo dopo una
normalizzazione. Durante la solidificazione
degli acciai effervescenti, l’ossigeno sotto forma
di ossido di ferro tende a reagire con il carbonio
presente nell’acciaio formando monossido di
carbonio allo stato gassoso secondo la relazione
FeO + C → COg + Fe. Il monossido di carbonio,
gorgogliando nella massa liquida, in parte di
disperde nell’ambiente diminuendo il tenore di
carbonio nell’acciaio e in parte rimane
intrappolato nella massa liquida andando a
formare microporosità. Gli acciai effervescenti
non hanno quindi cavità di ritiro e il basso tenore
di carbonio conferisce loro un’alta deformabilità a freddo. Sono adattissimi per le lamiere di
automobile.
8. Acciai da costruzione calmati: Messi in opera senza trattamenti termici, al massimo dopo una
normalizzazione. Vengono aggiunti silicio e alluminio che hanno un’elevata affinità con l’ossigeno
in maniera da formare ossidi non gassosi. Si ha dunque un processo di solidificazione con relativo
accumulo di impurezze nella zona di fine solidificazione, che dà luogo ad una cavità di ritiro che
obbliga alla rimozione della parte finale del getto. Questi acciai hanno un’ottima saldabilità. Il
processo di saldatura comporta tra importanti problemi:
a. La saldatura porta il materiale nella zona termicamente alterata a temperature tra gli 800 e
i 1000°C. In questa zona l’acciaio è abbondantemente in campo austenitico. In fase di

50
raffreddamento, quindi, la zona termicamente alterata, può subire tempra, e la martensite
che si andrebbe a formare faciliterebbe l’innesco di fratture fragili nella zona saldata.
Bisogna quindi che il tenore di carbonio e degli elementi di lega degli acciai siano controllati
e le curve di Bain spostate adeguatamente verso sinistra. Si adotta una formula empirica:
𝑀𝑛 𝐶𝑟 + 𝑀𝑜 + 𝑉 𝑁𝑖 + 𝐶𝑢
𝐶𝑒𝑞 = 𝐶 + + + ≤ 0,41%
6 5 15
b. La saldatura può portare ad un notevole ingrossamento del grano, che rende il materiale
meno resistente. Possiamo intervenire diminuendo i tempi di saldatura oppure aggiungere
microalliganti che impediscono l’espansione dei bordi del grano;
c. La solidificazione comporta la presenza di autotensioni per il ritiro del fuso e per i gradienti
di temperatura nel pezzo. La presenza dello zolfo si possono innescare criccature a caldo,
mentre in presenza di idrogeno si possono effettuare fratture a freddo. Le autotensioni,
comunque, possono essere eliminate con un trattamento di distensione;
9. Acciai da costruzione microlegati HSLA: contengono elementi come Ti, V, Nb che consentono un
controllo delle dimensioni del grano, che si può affinare mediante laminazione in controllo. Il
rafforzamento di questi acciai è dovuto quindi all’affinamento del grano. Questi acciai sopportano
fino a 350-550 MPa come carico di snervamento e hanno rimpiazzato i classici acciai al carbonio nelle
tubazioni per i gas e negli oleodotti, ponti e recipienti in pressione. Una composizione tipica preve C
0,12% Mn 1,35% Nb 0,03% oppure C 0,12% Mn 1,33% Nb 0,02% V 0,04%. Per carichi di snervamento
superiori a 450 MPa si aumentano i tenori degli elementi microalliganti.
10. Acciai da cementazione: La cementazione consiste nell’arricchimento degli strati più superficiali di
carbonio al fine di aumentare la temprabilità e condurre tempre superficiali lasciando il cuore del
componente tenace. Il tenore di carbonio di questi acciai in genere non supera lo 0,2% ed è tanto
più basso quanto si desidera che il cuore del pezzo rimanga duttile e tenace. Altri elementi come Ni,
Cr, Mo, Mn possono essere presenti con lo scopo preciso di conferire consistenza e tenacità al nucleo
del pezzo. Sono usati nella costruzione di parti meccaniche soggette ad usura come ingranaggi,
perni, boccole, alberi e il trattamento che li caratterizza, di tipo termochimico, promuove un
arricchimento di carbonio dello strato più esterno del materiale rendendolo particolarmente duro
dopo il successivo trattamento di tempra e rinvenimento a circa 150°C. Le durezze massime
superficiali ottenibili sono dell’ordine dei 700 HV.
11. Acciai da nitrurazione: Sono essenzialmente acciai da bonifica modificati con tenori di alluminio più
alti (circa l’1%). La nitrurazione permette di raggiungere durezze superficiali anche più alte che la
carbocementazione (fino a 1000HV) ma per spessori minori, fino a mezzo millimetro. In questo caso
si opera intorno a 550°C per indurre diffusione di azoto e formazione di nitruri: lo stato nitrurato
conserva le sue caratteristiche di durezza fino a temperature vicine ai 500°C.
Nella categoria degli acciai al carbonio, si può dire in generale che:
1. Gli acciai a basso carbonio (<0,15 %C) sono in genere basso-resistenziali nelle condizioni di ricotto;
in questo caso si lavorano male, poiché sono soffici, gommosi e aderiscono all’utensile. Per questi
acciai la lavorabilità migliora sensibilmente se sono preventivamente incruditi per lavorazione a
freddo, in modo da innalzare le caratteristiche resistenziali e decrementare la duttilità; Gli acciai con
carbonio 0,15-1,30 %C si lavorano invece bene in condizioni sia di ricotto che di normalizzato e quindi
con una microstruttura perlitica;
2. Gli acciai a medio carbonio, cioè intorno a 0,55 %C, si lavorano bene allo stato ricotto con una
struttura perlitica mista di tipo lamellare e sferoidale (se la struttura è tutta lamellare, la durezza
dell’acciaio potrebbe essere eccessiva);
3. Gli acciai con tenore di carbonio >0,55 %C si possono lavorare bene solo se allo stato ricotto con
struttura completamente sferoidale;

51
Acciai inossidabili
Gli acciai inox sono essenzialmente leghe ferro-cromo o ferro-cromo-nichel caratterizzate da un’alta
resistenza alla corrosione, grazie alla formazione sulla superficie del metallo di un film di ossido capace di
proteggere il materiale sottostante dall’attacco corrosivo dell’ambiente. Affinché un acciaio possa essere
definito inossidabile, il tenore di cromo deve essere almeno del 12%. La resistenza a corrosione può essere
migliorata sensibilmente diminuendo il tenore di carbonio di un acciaio inox. Il cromo è un elemento
ferritizzante a campo 𝛼 aperto, ma avendo dimensioni atomiche molto simili a quelle del ferro, questo
elemento esibisce una buona solubilità anche nella fase 𝛾 nonostante sia un cubico a corpo centrato: grazie
a questa caratteristica, il cromo riesce a formare soluzioni solide in fase austenitica fino ad un tenore del
12%. La presenza del carbonio modificherà il diagramma ferro-cromo, infatti il carbonio è un elemento
austenitizzante e quindi avrà come effetto quello di allargare il campo 𝛾 e quello relativo alla fase 𝛼 + 𝛾. Il
ciclo produttivo di un acciaio inossidabile, si parte dall’altoforno per la produzione della ghisa, si esegue una
defosforazione e si opera con un convertitore con lancia di ossigeno per produrre l’acciaio convenzionale,
aggiungendo in questo caso leghe ferro-cromo e minerale di cromo. Si ottiene un acciaio di composizione
prossima a quella voluta con l’eccezione del carbonio ancora presente in tenori troppo alti. Da qui, esistono
due processi per l’elaborazione dell’acciaio fuso:
1. VOD, o Vacuum Oxigen Decarburization, che consiste in una ossidazione sotto vuoto dell’acciaio
fuso, con insufflaggio di ossigeno. L’allontanamento continuo dell’ossido di carbonio permette di
scendere a tenori di carbonio dell’ordine di 0,015% ed inferiori senza avere parallelamente
ossidazione del cromo;
2. AOD, o Argon Oxigen Decarburization, che consiste in una variante del trattamento descritto sopra
in cui si insuffla una miscela di ossigeno e argon allo scopo di diluire l’ossido di carbonio che si
sviluppa nella massa liquida. E’ possibile quindi decarburare l’acciaio fino a tenori molto bassi, senza
ossidare sostanzialmente il cromo;
Per particolari caratteristiche di purezza, si ricorda il trattamento ESR, o Electo Slag Remelting, che è un
processo di rifusione di lingotti inox ottenuti in modo convenzionale, qualora si desiderino materiali a bassa
densità di inclusioni non metalliche e di segregazioni. Il procedimento consiste nel rifondere il lingotto,
utilizzato come elettrodo di un normale procedimento ad arco sommerso. La fusione avviene sotto
protezione di una scoria basso fondente ed elettroconduttrice. Le gocce di acciaio fuso si affinano
disponendosi nella sottostante lingottiera, così da riformare goccia a goccia il nuovo lingotto.
L’influenza degli elementi di lega può essere riassunta con una tabella:

Aumenta la stabilità della pellicola passivante,


MOLIBDENO specie in ambienti riducenti, ha un’influenza
positiva sulle caratteristiche meccaniche a caldo.
SILICIO Aumenta la resistenza alla ossidazione a caldo.
TANTALIO, NIOBIO, TITANIO Forte tendenza a formare carburi, affinano il grano
e inibiscono la corrosione intergranulare.
ALLUMINIO Aumenta la resistenza all’ossidazione a caldo negli
acciai refrattari.
MANGANESE Negli acciai austenitici può sostituire parzialmente
il nichel come elemento austenizzante.

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1. Gli acciai inox martensitici hanno i più alti tenori di carbonio (0,1%-1,2%) e i minori tenori di cromo
(13%-18%): infatti il carbonio come elemento austenitizzante dilata la fase 𝛾 e risulta più facile, come
si vede dal diagramma di fase, rientrare in tale regione di spazio anche a bassi tenori di cromo.
Variando l’uno o l’altro elemento si può entrare o uscire dal campo austenitico: infatti, al di sopra del
12% in cromo in una lega binaria ferro-cromo si uscirebbe dal campo austenitico. Con l’aggiunta del
carbonio, però, il campo 𝛾 viene allargato fino a tenori del 18% in cromo. Affinché esista martensite,
deve essere possibile entrare ad alta temperatura in campo 𝛾, quindi i tenori di cromo e di carbonio
devono essere accuratamente bilanciati. La struttura martensitica si può ottenere per semplice
normalizzazione cioè per raffreddamento in aria, e per questo rientrano nella caratteristica degli
acciai autotempranti. La resistenza a corrosione non è eccezionale per diversi motivi:
a. Tra le categorie di acciai inox, quelli martensitici hanno la più bassa concentrazione di
cromo, che è l’elemento capace di formare il film di ossido a protezione dagli attacchi
dell’ambiente esterno;
b. La struttura martensitica è una struttura ad alta densità di difetti reticolari e come tale,
incrudita, è più facile preda dei fenomeni corrosivi, specie vista la sensibilità all’attacco di
cloruri, corrosione puntiforme e sotto tensione;
53
Tuttavia questi acciai hanno comunque una resistenza a corrosione che è migliore rispetto agli acciai
da bonifica e agli acciai al carbonio in generale. Aumentando il tenore di carbonio si migliora la
durezza, ma peggiora la resistenza a corrosione. Questi acciai sono usati per fare coltelli da cucina e
nell’utensileria a freddo. A volte si può trovare un’aggiunta di vanadio, per incrementare
ulteriormente i limiti resistenziali dell’acciaio e la sua resistenza ad usura. La microstruttura di un
acciaio martensitico è essenzialmente costituita da martensite e da carbonio sotto forma di carburi,
che conferiscono all’acciaio un’ottima resistenza all’usura.

Gli acciai al centro AISI 403 e AISI 410 hanno buona possibilità di formatura a freddo, discreta
lavorabilità alle macchine utensili per asportazione di truciolo e si usano in viti autofilettanti, canne
per armi da fuoco, calibri e strumenti di misura, palette per turbine a vapore, coltelleria. Gli acciai
AISI 420, dopo trattamento termico hanno alta durezza e buona tenacità, si usano per strumenti
chirurgici, valvole e alberi per pompe. Gli acciai AISI 414 e AISI 431, a maggior tenore di carbonio e
grazie alle aggiunte di nichel, hanno la maggior resistenza alla corrosione con elevata durezza e
resistenza meccanica e si usano in molle, centrifughe per industria alimentare e cartiere, viti ad alta
resistenza. Gli acciai AISI 440 hanno una microstruttura costituita da martensite e carburi, che
incrementano durezza e resistenza all’usura. Si usano in cuscinetti a sfere, strumenti chirurgici,
blocchetti di riscontro.
2. Gli acciai inox ferritici hanno un tenore di carbonio normalmente inferiore allo 0,2% mentre il cromo
varia tra il 16% e il 27%. Non c’è il nichel, ma a volte viene aggiunto molibdeno che risulta però molto
costoso ma è utile per prevenire la resistenza al pitting, la corrosione localizzata. Perché si tratti di
un acciaio ferritico, deve accadere che si debba rimanere all’interno della fascia che va dal punto
estremo della zona 𝛼 + 𝛾 → 𝛼 all’inizio della zona 𝛼 → 𝛼 + 𝜎. Normalmente si parla di ferrite 𝛼 alle
basse temperature e di ferrite 𝛿 alle alte temperature, ma in questo caso, non essendoci linea di
separazione, le due denominazioni vanno a coincidere. L’intervallo prima indicato del cromo pari a
16%-27% dipende anche in questo caso dal tenore di carbonio dell’acciaio, dato che se non ci fosse
carbonio basterebbe anche un 13% di cromo per entrare in campo ferritico, ma siccome un po’ di
carbonio c’è sempre, è ragionevole parlare di tenori in cromo superiori al 16%. Per acciaio ferritico,
si intende una struttura ferritica stabile dalla temperatura di fusione del metallo fino a temperatura
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ambiente: gli acciai al carbonio, ad esempio, non sono ferritici come a volte si dice, perché se
opportunamente scaldati si assiste al processo dell’austenizzazione, dove la ferrite contenuta nella
struttura perlitica si trasforma in austenite. Un acciaio ferritico non può subire trattamenti termici,
in particolare non è soggetto a tempra. Se questi acciai vengono sottoposti ad una saldatura non si
può rimediare all’ingrossamento del grano nemmeno con un processo di ricottura completa. L’unico
trattamento possibile è la ricottura di ricristallizzazione, dopo l’incrudimento per deformazione
plastica. La resistenza meccanica degli inox ferritici è mediocre, simile a quella di un acciaio al
carbonio non legato. La fase 𝜎 deve essere possibilmente evitata, dato che:
a. E’ una fase molto dura e fragile, per cui gli inox ferritici e austenitici possono perdere
resilienza;
b. E’ una fase molto ricca in cromo, e la matrice circostante potrebbe essere depauperata in
cromo e scendere anche a tenori minori del 12%, che è la soglia di ossidabilità.
Mostrano comunque, tra i vantaggi:
a. Buona resistenza a corrosione, molto superiore ai martensitici;
b. Maggior resistenza alla corrosione sotto sforzo rispetto agli austenitici;
c. Sono magnetici;
d. Buona deformabilità, anche se minore agli austenitici;
e. Sono però meno costosi degli austenitici dato che il nichel costa molto;
Alle alte temperature, questi acciai hanno come caratteristiche:
a. Resistenza all’ossidazione a caldo;
b. Resistenza a fatica temica;
c. Resistenza a creep inferiori a quelli austenitici;
A temperature superiori alla temperatura ambiene, invece:
a. A seguito di un mantenimento per tempi lunghe a 550-850°C o ad un lento raffreddamento
in questo intervallo si ha la formazione della fase 𝜎 che diminuisce la duttilità, la tenacità e
la resistenza a corrosione;
b. A seguito della permanenza a 400-600°C si ha la precipitazione di una fase 𝛼′ ai bordi di
grano più ricca in cromo della matrice, che aumenta la resistenza ma fa diminuire la
resilienza;
Essendo la ferrite una struttura cristallina a configurazione cubica a corpo centrato, la temperatura
di transizione duttile-fragile è presente e determinante, e dipende dall’influenza in composizione
percentuale della lega. Dal diagramma di fase pseudo-binario ferro cromo carbonio, si vede che
riscaldando il materiale a alte temperature si entra in campo 𝛿 (ingrossamento del grano) e nel
raffreddamento si origina in parte fase 𝛾 che origina martensite se il tenore di carbonio è basso (AISI
430). Questo succede, per esempio, durante saldatura nella zona alterata termicamente.
Gli inox ferritici ELI, o Extra Low Interstitial, sono acciai a bassissimo livello di interstiziali tanto da
raggiungere dei tenori di carbonio e azoto inferiori allo 0,02%-0,05%, capaci di resistenza a
corrosione migliori di quelli tradizionali seppur ancora più bassi degli austenitici. In linea di massima,
la resistenza a corrosione massima di un acciaio ELI pareggia la resistenza minima di un inox
austenitico. La resilienza inoltre presenta una temperatura di transizione duttile-fragile più bassa. Si
usano in pompe, scambiatori di calore, nell’industria alimentare e in quella farmaceutica.

55
3. Gli acciai inox austenitici hanno il più basso tenore in carbonio possibile tanto da essere inferiore
allo 0,1%, mentre il cromo può variare tra 18% e 25% e il nichel tra l’8% e il 20%. Nel caso degli acciai
austenitici, non abbiamo austenite stabile, ma metastabile. Tuttavia, questa trasformazione non è
cineticamente favorita e non riesce a completarsi a temperatura ambiente, e non riesce a
trasformarsi né in perlite né in nessun’altra struttura.

Il nichel è un elemento austenitizzante e quindi restringe il campo 𝛼 ferritico. Combinato col cromo
che, al contrario, è un elemento ferritizzante, il diagramma modifica la propria forma:

56
Si vede quindi per tenori di nichel tra l’8% e il 20% e per tenori di
cromo tra il 18% e il 25% la struttura austenitica (meta)stabile
rimane tale a qualsiasi temperatura e quindi rende questi acciai
non suscettibili a nessun trattamento termico. La struttura
rimane metastabile perché le curve di Bain, in presenza di un
tenore così alto di elementi di lega sono spostate verso destra a
tempi lunghissimi, e la trasformazione austenite-perlite
richiederebbe tempi altissimi. Le temperature di inizo e fine
martensite sono inoltre spostate verso il basso, a temperature
inferiori alla temperatura ambiente e quindi la trasformazione
austenite-martensite è talmente sconveniente da risultare, in
pratica, impossibile. Allo stato solubilizzato sono amagnetici,
mentre se sottoposti ad un certo numero di lavorazioni a freddo
(laminazione, imbutitura, trafilatura) si incrudiscono e assumo
un certo magnetismo. Questi acciai si dividono in tre gruppi, a
seconda delle loro caratteristiche:

a. Al cromo-nichel, caratterizzati da composizioni di Cr 16-20% e Ni 7-12% con possibili


aggiunte di zolfo o selenio per facilitare le lavorazioni, oppure di microalliganti come Nb e
Ti come stabilizzanti per evitare la formazione di carburi dannosi. Possiedono un’ottima
resilienza a temperature molto basse e hanno un’ottima resistenza a fatica;
b. Al cromo-nichel-molibdeno, caratterizzati da composizioni Cr 16-18% Ni 10-18% Mo 2-6%,
in cui la presenza di molibdeno
conferisce resistenza alla corrosione
sotto tensione e puntiforme,
consentendo l’impiego anche in
ambienti di forte aggressività
chimica contenenti ioni cloro;
c. Austenitici per alte
temperature, caratterizzati da un
tenore di cromo e nichel superiore al
20% e un’aggiunta di Si maggiore
dell’1%, sono adatti per impieghi a
temperature fino a 1150°C,
mantenendo buona inossidabilità e
adeguate proprietà meccaniche;
Gli acciai inox austenitici hanno
basse proprietà resistenziali ed un
costo tra i più alti; offrono però la
migliore resistenza alla corrosione,
un’ottima tenacità e resistenza a
scorrimento viscoso a caldo e
nondimeno non presentano
temperatura di transizione duttile-
fragile, dato che tale fenomeno non
si presenta per le strutture cubiche a
facce centrate come l’austenite.

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Gli acciai inox austenitici, a seconda delle aggiunte di elementi di lega, costituiscono delle variazioni
costruite sull’acciaio di base AISI 304 (X8CrNi 18 8). In particolare, gli effetti degli elementi di lega
sulla composizione dell’acciaio AISI 304 si riassumono in questa tabella:
Aggiunta di MOLIBDENO Aumenta la resistenza al AISI 316, AISI 317
fenomeno del pitting
Riduce la sensibilizzazione, in
Diminuzione di CARBONIO particolare nelle saldature: acciai AISI 304L, AISI 316L
low carbon
Aggiunta di TITANIO, NIOBIO, Servono per prevenire la
TANTALIO sensibilizzazione: acciai AISI 32, AISI 347
stabilizzati
Aumentano la resistenza
Aggiunta di CROMO, NICHEL all’ossidazione a caldo: acciai AISI 309, AISI 310
refrattari alle alte temperature
Gli acciai inox superaustenitici raggiungono un tenore di molibdeno del 2%-3% per garantire un grado
ancora più alto di resistenza alla corrosione. Per verificare questo, è utile fornire la definizione di PREN, o
Pitting Resistance Equivalent Number, che è il fattore di resistenza alla corrosione localizzata di tipo pitting,
che si calcola con la formula empirica:
𝑋 = 0 → ferritici
PREN = [%Cr] + 3,3[Mo] + 0,5[%W] + 𝑋[%N] {𝑋 = 16 → austenitici
𝑋 = 30 → duplex
Dalla composizione chimica dell’acciaio inossidabile si può in linea di principio prevedere a quale classe di
inox appartenga. Invece che andare a studiare i diagrammi di fase su vari diagrammi ternari o quaternari, si
può usare il Diagramma si Shaeffler in cui sono riportate:
1. Sulle ordinate la percentuale di Nichel equivalente, cioè la somma degli elementi di lega
austenitizzanti moltiplicati per opportuni coefficienti:
nicheleq = [%Ni] + 30[%C] + 0,5[%Mn]
2. Sulle ascisse la percentuale di cromo equivalente, cioè la somma degli elementi di lega ferritizzanti
moltiplicati per opportuni coefficienti:
cromoeq = [%Cr] + [%Mo] + 1,5[%Si] + 0,5[%Nb]

58
Si è detto che la fase 𝛾 negli acciai inox austenitici è stabile a temperatura ambiente. Se però si porta il
materiale ad una temperatura di 450-850°C, il carbonio si trova in sovrassaturazione e promuove la
formazione di precipitati, in particolare carburi di cromo. Questo fenomeno, a temperature minori di 450°C
in pratica non avviene perché è cineticamente sfavorito, mentre a temperature superiori di 850°C, invece, i
carburi tendono a scioglersi nella matrice. Nell’intervallo che abbiamo indicato sopra, i carvuri di cromo e gli
altri precipitati vanno ad accumularsi sul bordo del grano, che è la zona più favorevole per la nucleazione.
Questi carburi sono molto ricchi in cromo, e possono per questo comportare un sostanziale impoverimento
in cromo in tutta la zona adiacente al bordo del grano. In tale situazione, le regioni a ridosso del bordo del
grano possono andare al di sotto del limite di ossidazione pari al 12% in cromo. In un ambiente anche non
fortemente corrosivo, quindi, tale disomogenetità può favorire un innesco di corrosione inergranulare, con
dissoluzione preferenziale del materiale a ridosso del bordo dei grani e graduale decoesione tra grano e
grano del materiale, dando luogo ad un fenomeno detto sensibilizzazione. Una causa molto frequente della
sensibilizzazione è la saldatura, in cui i carburi di cromo precipitano nella zona termicamente alterata. I
rimedi contro la corrosione intergranulare sono tre:
1. Si può intervenire sul carbonio cercando di abbassarne il tenore, passando dallo 0,1% a tenori ancora
più bassi per acciai detti low carbon, in cui il carbonio più che un elemento diventa una impurezza e
i carburi sono talmente pochi da non essere pericolosi;
2. Si possono aggiungere nell’acciaio elementi che hanno più affinità col carbonio rispetto a quella che
il carbonio aveva col cromo, come il titanio e il niobio, così da formare carburi di questi elementi
invece che carburi di cromo. Per ottenere questo risultato si imposta un ciclo termico che prevede
un trattamento di solubilizzazione a 1050°C in modo da avere tutta l’austenite disciolta e poi si porta
l’acciaio a 900°C per far precipitare tutto il carbonio sotto forma di carburi di niobio o titanio,
dopodiché si può raffreddare tutto fino a temperatura ambiente;
3. Dopo la saldatura, se possibile, si rimette il pezzo in forno intorno a 1100°C per qualche ora in modo
tale da sciogliere i carburi di cromo che si sono formati e dunque ripristinare la struttura austenitica
del materiale. Questo modo è valido se l’acciaio viene messo in opera a temperature inferiori a
450°C, altrimenti si riformerebbero di nuovo carburi di cromo;
Gli acciai duplex DSS, o Duplex Stainless Steel, contengono austenite e ferrite in circa eguali proporzioni e
rappresentano la parte più innovativa degli accai inox. La struttura bifasica è ottenuta bilanciando
opportunamente il tenore degli elementi di
lega, in modo da coolocare il nostro
materiale nel campo 𝛼 + 𝛾 in genere
riducendo il nichel e aumentando il
molibdeno. Questi materiali uniscono alla
buona saldabilità degli acciai inox ferritici
alle elevate caratteristiche meccaniche e
resistenza alla corrosione degli acciai
austenitici. La loro composizione è in
genere Cr 18,5%-28% Ni 4,5%-6,5% Mo
1,5%-3%. A partire dalla fase liquida, e
raffreddando per successivi stati di
equilibrio, si forma ferrite 𝛿 e poi, sotto la
linea 𝛿 → 𝛿 + 𝛾 la struttura diventa bifasica
e vi resta fino a temperatura ambiente. Gli
acciai inossidabili austeno-ferritici hanno
un tasso di resistenza al pitting maggiore a
seconda del tenore di cromo, in ordine:

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basso legati 23%Cr, mediolegati 22%Cr, alto legati 25% Cr e superduplex 25% Cr.
Gli acciai inox indurenti per precipitazione, invece, hanno una buona resistenza al creep o scorrimento
viscoso a caldo, possono lavorare anche a 700°C ma non devono essere sottoposti a sollecitazioni
meccaniche sensibili. Possono avere una struttura:
1. PH martensitica;
2. PH austenitica;
3. PH semi-austenitica, con una struttura 5%-20% ferritica, una frazione martensitica e il resto
austenite;
Quelli martensitici sono i più diffusi e di migliore resistenza meccanica. Tra le aggiunte ricordiamo il rame,
con tenori intorno al 3,5%, ma anche punte di titanio e niobio. Se sono forniti allo stato martensitico, si
effettua un rinvenimento e si invecchia la martensite portandola a temperature di 450°C, temperatura a cui
si formano dei precipitati coerenti, che sono intermetallici titanio-nichel o rame-nichel. Per gli acciai
austenitici invece, si effettua un indurimento a temperature più basse con aggiunta di fosforo in tenori
attorno allo 0,3%, a temperature un po’ più alte, dell’ordine dei 600°C. Questi precipitati di nichel e titanio o
alluminio e nichel sono stabili anche ad alte temperature, quindi sono resistenti a corrosione ed
estremamente resistenti meccanicamente fino ai 1000 MPa anche alle alte temperature.
Gli acciai MARAGING, da Martensite-Aging,
sono acciai alto-resistenziali con buona
resistenza a frattura. Sono caratterizzati da
elevate quantità di elementi di lega (fino al 40%
di nichel) e con carbonio molto basso
addirittura inferiore allo 0,03% a formare
martensite non tetragonale, ma cubica. Il
trattamento termico a cui sono sottoposti è
una tempra martensitica unita ad un
trattamento di invecchiamento e
precipitazione di materiali intermetallici
attorno ai 480°C. Questo è possibile grazie alla
notevole isteresi della trasformazione 𝛼 → 𝛾 in
riscaldamento. Si raggiungono carichi di
rottura altissimi, in genere tra 1600 e 2400 MPa
e non presentano fortunatamente una curva di transizione duttile-fragile. Si usano in campo aeronautico
per la costruzione di elementi fortemente sollecitati, come carrello di atterraggio, elementi motore,
ingranaggi e anche per le migliori spade da scherma.
La lavorabilità alle macchine utensili degli inox prevedono l’uso di utensili a spigolo tagliente che premuti
contro il pezzo esercitano pressioni specifiche da rompere la struttura del materiale. Le tre principali
modalità di formazione del truciolo sono:
1. Truciolo continuo che scorre senza interruzioni e provoca spesso problemi di intralcio per materiali
duttili;
2. Truciolo continuo con formazione di tagliente di riporto con incollamento del materiale incrudito sul
tagliente dell’utensile. Il riporto periodicamente si distacca e si riforma, modificando la geometria
dell’utensile e comportando surriscaldamenti locali e cattiva finitura superficiale del pezzo;
3. Formazione di truciolo discontinuo che si allontana dalla zona di lavoro, tipico dei materiali fragili e
dei materiali a “fragilità migliorata”.
La lavorabilità dipende da numerosi parametri e spesso si quantifica con un criterio comparativo definendo
un indice di lavorabilità che si calcola:
𝑉𝑡20
𝐼= × 100
𝑉𝑡20 (𝐴𝐼𝑆𝐼 𝐵1112)

60
Dove 𝑉𝑡20 è la velocità di taglio espressa in metri al minuto che per prefissate condizioni di lavoro permette
una durata dell’utensile di 20 minuti quando questo lavora il materiale di interesse. L’acciaio AISI B 1112 è
un acciaio al carbonio risolforato. Gli acciai inossidabili sono in genere poco lavorabili alle macchine utensili
rispetto agli acciai al carbonio: gli austenitici ancora meno dei ferritici e dei martensitici, per le seguenti
ragioni:
1. I carichi di rottura degli acciai inox, anche allo stato addolcito, sono sensibilmente superiori di quelli
degli acciai al carbonio nelle medesime condizioni;
2. Il rapporto tra carico di rottura e carico di snervamento è più elevato negli inox che non negli acciai
al carbonio nelle analoghe condizioni di ricottura;
3. La tendenza all’incrudimento per deformazione plastica a freddo è maggiore per gli inox e questo
comporta una maggior sollecitazione sul tagliente dell’utensile;
4. Gli acciai martensitici ad alto carbonio contengono un’alta frazione di carburi di cromo molto duri
che provocano una rapida usura degli utensili;
5. La conducibilità termica degli inox, in special modo per gli austenitici è minore rispetto agli acciai al
carbonio e questo comporta maggiori surriscaldamenti nell’utensile:
6. Il coefficiente di dilatazione termica degli austenitici è superiore rispetto a quello degli acciai al
carbonio e c’è maggior tendenza del pezzo a forzare sull’utensile;
7. Il truciolo prodotto risulta continuo e di difficile spezzettamento;
Negli acciai inox risolforati viene aggiunto zolfo in modo da provocare la formazione di solfuri di manganese
che facilitano la penetrazione dell’utensile, spezzettano il truciolo e facilitano e lubrificano l’utensile. A volte
viene aggiunto anche un po’ di calcio, che serve ad “avvolgere” le inclusioni non metalliche disperse nella
massa del materiale. L’aspetto negativo è un certo decremento di caratteristiche meccaniche ed una perdita
di resistenza a corrosione. Gli inox a lavorabilità migliorata sono AISI 303 e AISI 316f tra gli austenitici, AISI
416, 420F tra i martensitici e AISI 430 F tra i ferritici.
Le ghise
Le ghise hanno un tenore di carbonio superiore al 2,14% e fino al 4,5%. Hanno temperature di fusione
comprese tra 1150 e 1300°C e basso ritiro che conferiscono loro una buona colabilità. La cementite è un
composto metastabile sotto 860°C e in certe circostanze può dissociarsi e dare origine a ferrite−𝛼 e grafite,
secondo la relazione:
Fe3 C → 3Fe(𝛼) + C(grafite)
La tendenza a formare grafite è regolata dalla presenza di elementi di lega grafitizzanti o meno e dalla
velocità di raffreddamento. La formazione di grafite è promossa dalla presenza di silicio in concentrazioni
maggiori dell’1% e da basse velocità di raffreddamento. Le ghise si dividono in:
1. Ghise bianche, per ghise a basso contenuto di silicio e elevate velocità di raffreddamento in cui la
maggior parte del carbonio si trova sotto forma di cementite invece che di grafite. La superficie di
frattura di queste leghe ha un aspetto bianco. E’ un materiale estremamente duro e non lavorabile
alle macchine utensili. II loro utilizzo è limitato ad applicazioni che necessitano di superfici
particolarmente resistenti all’usura e senza richiesta di duttilità, come i cilindri di laminazione.
2. Ghise grigie, con un contenuto di silicio tra l’1% e il 3%. Nella maggior parte delle ghise il carbonio
si trova in forma di fiocchi simili a cereali “corn-flakes” che sono generalmente circondati da una
matrice di ferrite – 𝛼 o di perlite. La superficie di frattura ha un colore grigio. Sono poco resistenti e
fragili ai forzi di trazione: i fiocchi di carbonio possono fungere anche da intensificatori degli sforzi.
Hanno inoltre ottime proprietà di smorzamento vibrazionale e un’elevata resistenza all’usura.
Hanno un’alta fluidità alla temperatura di colata che permette la realizzazione di pezzi di forma
complicata e costano relativamente poco.
3. Ghise sferoidali, o ghise duttili, si ottengono aggiungendo piccole quantità di manganese o di cerio
alla composizione di una ghisa grigia prima della colata in maniera tale da formare noduli o particelle
sferoidali di grafite. La fase che costituisce la matrice in cui sono immerse le particelle è perlite o
61
ferrite, a seconda della velocità di raffreddamento. Le ghise sferoidali sono più resistenti e duttili
delle ghise grigie e hanno caratteristiche meccaniche più simili a quelle degli acciai. Per esempio, le
ghise sferoidali a matrice ferritica hanno una resistenza a trazione tra 380 e 480 MPa e un
allungamento percentuale del 10%-20%. Si usano per valvole, pompe, alberi a gomito, cambi e altre
componenti delle automobili.
4. Ghise malleabili,
ottenute dalle ghise
bianche per
riscaldamento a
temperature dell’ordine
di 800-900°C per un
prolungato periodo di
tempo e in un’atmosfera
neutra per evitare
l’ossidazione e per
indurre decomposizione
della cementite in grafite.
La grafite risulta disposta
a “rosetta”, circondata da
una matrice perlitica o
ferritica, a seconda della
velocità di
raffreddamento. La
microstruttura è simile a
quella di una ghisa
sferoidale, che conferisce
una elevata resistenza e
una buona duttilità e
malleabilità. Si usano per
bielle, ingranaggi di
trasmissione, supporti del
differenziale, flange, raccordi per tubi, industria automobilistica, ferroviaria o marina.
5. Ghise vermicolari, a grafite compattata, hanno la microstruttura della grafite che ha un aspetto
vermicolare, evitando la presenza di grafite a fiocchi dotati di spigoli vivi che riducono la resistenza
a frattura del materiale. Vengono quindi fatte aggiunte di magnesio e cerio, anche se in quantità
minori rispetto alle ghise sferoidali. In rapporto alle altre ghise, esse hanno:
a. Maggiore conduttività termica;
b. Migliore resistenza allo shock termico;
c. Minore ossidazione alle temperature elevate;
Si usano nei blocchi motore diesel, nei collettori di scarico, scatole del cambio, freni a disco per treni
ad alta velocità e volani.
Leghe di alluminio
L’alluminio è un materiale importante, dato che è caratterizzato da diverse proprietà utili, che sono, tra
tutte, per esempio:
1. Il basso peso specifico, pari a un terzo di quello dell’acciaio o delle leghe di rame;
2. Elevata resistenza alla corrosione;
3. Alta conducibilità termica ed elettrica;
4. Atossicità;
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5. Elevata duttilità e plasticità grazie alla struttura cubica a facce centrate, mantenuta pertanto anche
alle basse temperature;
6. Basso potere radiante;
7. Ottima saldabilità;
Il limite delle leghe di alluminio è quello del suo basso punto di fusione, all’incirca intorno a 660°C, che limita
la massima temperatura di utilizzo. I principali elementi alliganti che ne migliorano la resistenza meccanica
sono il rame, il magnesio, il silicio, il manganese e lo zinco. Queste leghe sono classificate come leghe da
fonderia o leghe da lavorazione plastica. Un’importante caratteristica di queste leghe è l’alta resistenza
specifica, data dal rapporto tra la resistenza alla trazione e il peso specifico: anche se molto meno resistente
di un acciaio, a parità di peso l’alluminio mostra una migliore resistenza specifica. Per questo in campo
aeronautico si stanno creando nuove leghe di alluminio e litio dotate di un sorprendente modulo elastico,
ma di alto prezzo dato che il litio ha bisogno di particolari trattamenti chimici per essere impiegato.
Indurimento per precipitazione
La resistenza e la durezza di alcune leghe metalliche possono essere aumentate mediante dispersione nella
matrice metallica di particelle estremamente piccole e uniformemente distribuite di una seconda fase. Il
processo è chiamato indurimento per precipitazione, dato che le particelle della nuova fase sono dette
precipitati. Alcuni tipi di leghe si servono di questo procedimento detto anche indurimento per
invecchiamento, tra cui ricordiamo le leghe alluminio-rame, rame-berillio, rame-stagno e magnesio-
alluminio. L’indurimento per precipitazione e il trattamento di tempra martensitica sono due procedimenti
estremamente diversi. L’indurimento per precipitazione è dovuto alla formazione di particelle di una nuova
fase: purché possa essere possibile questo trattamento, i diagrammi di fase devono avere:
1. Una apprezzabile solubilità massima di un componente nell’altro;
2. Un limite di solubilità come concentrazione del componente maggiore che diminuisce con la
temperatura;
La composizione di una lega deve essere inoltre minore della solubilità massima, che è una condizione
necessaria ma non sufficiente per ottenere l’invecchiamento per precipitazione. Esso viene realizzato
mediante due differenti trattamenti termici:
1. Un trattamento termico di soluzione, in cui tutti gli atomi di soluto sono disciolti per formare
un’unica soluzione solida: a questo punto la lega è costituita solo da una fase di una data
composizione. Questo procedimento prevede un rapido raffreddamento, ovvero una tempra a
temperatura ambiente che impedisca la diffusione e quindi la rigenerazione di particelle dell’altra
fase solida precedentemente disciolta. Si viene quindi a formare una soluzione solida monofasica
che è soprassatura di atomi di soluto, che conferisce alla lega, in questo stadio, una certa tenerezza
e una bassa resistenza;
2. Un successivo trattamento termico di precipitazione, in cui la soluzione solida viene normalmente
scaldata ad una temperatura intermedia entro la regione bifasica, in maniera tale da rigenerare
particelle dell’altra fase solida precedentemente disciolta. Dopo un adeguato periodo di tempo, la
lega è raffreddata a temperatura ambiente, con una velocità che non è significativa. La resistenza
ottenuta dipende dalla temperatura di precipitazione e dal tempo di permanenza a tale
temperatura. Questa dipendenza può essere rappresentata da curve simili a delle “C” che cambiano
diverse volte la loro concavità: di conseguenza la resistenza, in funzione del tempo di esposizione
avrà un massimo dopo del quale la curva diminuirà in resistenza in una zona detta
sovrainvecchiamento.

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L’indurimento per precipitazione
è generalmente usato nelle leghe
dell’alluminio ad alta resistenza.
Nel diagramma di fase alluminio-
rame, la fase 𝛼 è una soluzione
solida di sostituzione di rame in
alluminio, mentre la fase è una
soluzione solida di sostituzione di
rame in alluminio, mentre la fase
𝜃 è il composto intermetallico
CuAl2 . Nel corso del trattamento
termico di precipitazione di una
lega alluminio-rame per esempio
al 96% in peso di alluminio, la
formazione della fase 𝜃 di
equilibrio viene preceduta da
diverse fasi di transizione. Durante lo stadio di indurimento iniziale, gli atomi di rame si raccolgono insieme
in dischi molto piccoli e lunghi e sottili, spessi uno o due atomi e di diametro pari a 25 atomi, che sono molto
numerosi nella fase 𝛼. I grappoli, talvolta chiamati zone, sono così piccoli da non poter essere neppure
considerati come particelle precipitate distinguibili. Con la diffusione degli atomi di rame, le zone crescono
di dimensione e diventano particelle, che passano attraverso due fasi di transizione dette 𝜃′′ e 𝜃′ prima di
formare la fase di equilibrio 𝜃. La massima resistenza si ottiene con la formazione della fase 𝜃′′, quella in cui
si forma una fase metastabile di precipitato, che può essere mantenuto a temperatura ambiente. Un
ulteriore tempo di esposizione comporterebbe la formazione di fasi 𝜃′ e 𝜃, con sovrainvecchiamento. Il
meccanismo di incremento della resistenza può essere accelerato se si aumenta la temperatura. La
temperatura e il tempo di esposizione ideali sono quelle che comportano nel grafico una resistenza
massima. Affinché una lega sia sensibile ad un indurimento per precipitazione è necessario anche che
all’interfaccia matrice-precipitato si verifichi una distorsione del reticolo, che impediscono i movimenti delle
dislocazioni e di conseguenza rendono la lega più dura e resistente.
Rame e leghe di rame
Il rame e le sue leghe possiedono una combinazione favorevole di proprietà fisiche. Il rame non legato è
tenero, duttile e difficile da lavorare alle macchine utensili, ma può essere deformato a freddo in modo
illimitato. Resiste bene alla corrosione in numerosi ambienti come quello atmosferico e quello marino. Le
proprietà resistenziali possono, come sempre, essere migliorate tramite l’alligazione. La maggior parte delle
leghe di rame, però, non può essere indurita o rafforzata per trattamento termico, pertanto per migliorarla
bisogna sottoporle ad incrudimento o all’alligazione in soluzione solida. Vengono fatte delle aggiunte
mirate, tra cui:
FOSFORO Riduce l’infragilimento da idrogeno
ARSENICO Migliora il carico a rottura a temperature elevate
TELLURIO Migliora la lavorabilità
BERILLIO Migliora la trattabilità ad alte temperature
Le leghe di rame più comuni sono:
1. Gli ottoni, che contengono mediamente dal 10% al 45% di zinco. Dal diagramma di fase rame-zinco
si osserva che la fase 𝛼 è stabile fino al 35% in peso di zinco ed è una fase che ha una struttura
cristallina cubica a facce centrate e gli ottoni 𝛼 sono pertanto teneri, duttili e facilmente lavorabili a
freddo. Questi ottoni, che hanno una composizione fino al 20% in zinco, sono detti ottoni
monofasici rossi e sono immuni ai problemi di dezincificazione e season cracking. Gli ottoni in
campo alfa con un tenore di zinco dal 20% al 36% sono detti ottoni monofasici gialli e sono soggetti
64
ai problemi di cui si parlava sopra: problemi
che vengono risolti grazie a delle piccole
aggiunte di stagno o di alluminio. Si può
aggiungere anche un po’ di piombo per
migliorare l’asportazione di truciolo alle
macchine utensili. Gli ottoni aventi un tenore
più alto di zinco, invece, contengono a
temperatura ambiente sia le fasi 𝛼 che 𝛽′ e
sono detti ottoni binari. La fase 𝛽′ ha una
struttura cristallina cubica a corpo centrato
ed è più dura e resistente dell’altra: di
conseguenza, le leghe rame-zinco in queste
composizioni sono generalmente lavorate a
caldo invece che a freddo. Gli ottoni più comuni sono gialli e si usano per cartucce, gioielli, radiatori
di auto, strumenti musicali e monete.
2. I bronzi sono leghe di rame con numerosi altri elementi, come lo stagno, l’alluminio, il nichel e il
silicio. Queste leghe hanno una resistenza meccanica migliore degli ottoni e sono più resistenti di
corrosione. Generalmente, si usano queste leghe quando oltre ad una buona resistenza alla
corrosione si vuole un’ottima resistenza alla trazione. I bronzi al fosforo, ad esempio, contengono
dall’1% al 12% di stagno e mostrano caratteristiche di resistenza all’usura e di opposizione al
bifouling, ossia l’accumulo di particolato di microrganismi sulla superficie di un materiale. I bronzi al
silicio, il cui tenore di silicio varia dall’1,5% al 3%, vengono alligati anche con ferro, manganese, zinco
o stagno in quantità tra lo 0,25% e l’1,25% e mostrano caratteristiche meccaniche e resistenza a
corrosione buone che migliorano con la quantità di elementi di lega, mentre decresce la lavorabililtà.
Si usano per scambiatori e parti di valvole e pompe. I bronzi all’alluminio sono leghe rame-alluminio
che resistono molto bene all’usura, all’ossidazione a caldo e alla corrosione, grazie alla formazione
superficiale di un sottile strato di allumina che anche se asportato, si riforma quasi istantaneamente.
Il cupronichel è una lega destinata ad applicazioni speciali, in cui la resistenza a corrosione è
apprezzatissima soprattutto ina ambiente marino, anche evitando l'erosione-corrosione. Per tenori
di nichel superiori al 20% hanno un colore grigio tipico delle monete da 1 o 2 euro. I cuproallumini,
invece, si usano per serbatoi o recipienti a contatto con soluzioni acide o saline, per tubi e piastre di
scambiatori e condensatori. I bronzi al manganese esibiscono una grande resistenza a corrosione e
alla cavitazione, tanto da essere usati nelle eliche delle navi.
Titanio e leghe di titanio
Il titanio è caratterizzato da una bassa densità, un altissimo punto di fusione (1668°C), un discreto modulo
elastico e buone resistenze meccaniche tanto da avere carico a rottura fino a 1200 MPa. Il titanio esibisce
quindi anche un’ottima resistenza a creep e un’ottima resistenza a corrosione e a comportamento attivo-
passivo. Il titanio non legato ha una struttura esagonale compatta denominata fase 𝛼. A 883°C la fase 𝛼 si
modifica in una fase cubica a corpo centrato detta fase 𝛽. Vanadio, niobio e molibdeno abbassano la
temperatura di transizione tra queste fasi e promuovono la formazione di fase 𝛽 che può essere stabilizzata
fino a temperatura ambiente. Questi materiali si trovano quindi spesso allo stato ricotto o ricristallizzato. Il
titanio a temperature superiori a 500°C assorbe ossigeno, azoto e idrogeno e reagisce col carbonio, bisogna
quindi predisporre un’adeguata protezione. L’alluminio stabilizza la fase 𝛼 mentre vanadio, molibdeno,
niobio, cromo e ferro stabilizzano la fase 𝛽. Vediamo la differenza tra queste leghe:
1. Leghe 𝜶: spesso contengono alluminio e stagno, sono preferite per applicazioni ad alta
temperatura, resistono bene al creep e il rafforzamento termico non può essere applicato dato che
si tratta di una struttura stabile. Resistenza e tanacità sono buone, sono duttili e facilmente
saldabili.
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2. Leghe 𝜷: contengono vanadio e molibdeno cosicché dopo un raffreddamento abbastanza veloce la
fase metastabile permane a temperatura ambiente. Hanno un’elevata forgiabilità e una elevata
tenacità alla frattura;
3. Leghe 𝜶 + 𝜷: contengono elementi stabilizzanti di entrambe le fasi costituenti. La resistenza può
essere controllata e aumentata mediante trattamenti termici come tempra o invecchiamento ed è
possibile ottenere una varietà di microstrutture.
4. Leghe quasi 𝜶: hanno una quantità molto piccola di fase beta e proprietà migliori rispetto alle
leghe 𝛼.
Magnesio e leghe di magnesio
La densità del magnesio è la più bassa tra tutti i materiali strutturali, e le sue leghe sono importanti quando
il peso rappresenta un ingombro. Ha un reticolo cristallino esagonale compatto, è duttile ed ha un basso
modulo elastico. A temperatura ambiente, il magnesio e le sue leghe sono difficilmente deformabili, di
conseguenza la produzione avviene a getto o per lavorazione a caldo. Le leghe di magnesio sono
chimicamente instabili e fortemente passibili di corrosione, specie in ambiente marino. La polvere fina di
magnesio molto fine è comunque incendiabile nell’aria. Il magnesio sta sostituendo le plastiche strutturali
di pari densità dato che è più rigido, più facilmente riciclabile e meno costoso da produrre, ad esempio per
piantone dello sterzo, volanti delle automobili, apparecchiature audio-video-computer. Le principali leghe
sono magnesio-alluminio, magnesio-zinco e magnesio-alluminio-zinco.
Superleghe
Le superleghe offrono eccezionali combinazioni di proprietà. Si classificano sulla base dei principali elementi
leganti:
1. Leghe a base nichel: INCOLNEL, NIMONIC, HASTELLOY;
2. Leghe a base cobalto: STELLITI;
3. Leghe a base metalli refrattari, come cromo, vanadio, molibdeno, niobio.
Per una lega resistente ad alta temperatura si può pensare come prima cosa di impiegare un metallo base
con elevato punto di fusione, in lega con elementi capaci di fornire un rafforzamento per dispersione stabile
ad altissima temperatura, come precipitati per invecchiamento artificiale o per metallurgia delle polveri. Le
superleghe a base nichel sono molto impiegate per palettature di turbine a gas e hanno grande resistenza
in ambienti corrosivi ad eccezione di quelli contenenti zolfo fino a 1300°C e un’ottima resistenza a creep.
Queste superleghe, pur avendo una composizione piuttosto complessa, hanno comunque una
microstruttura di base semplice, soprattutto se comparata con quella degli acciai o delle leghe del titanio.
La microstruttura è data da una matrice austenitica indurita per soluzione solida, da precipitati coerenti, da
vari tipi di carburi e da altre fasi distribuite nella matrice stessa e lungo i bordi del grano.
1. Leghe nichel-rame si usano in ambienti fortemente acidi e corrosivi, vengono aggiunte piccole
quantità di alluminio e titanio nella lega MONEL;
2. Leghe di nichel-silicio si usano per elementi sottoposti all’azione dell’acido solforico a qualsiasi
concentrazione fino alla temperatura di ebollizione, come la lega HASTELLOY;
3. Leghe di nichel-cromo-molibdeno si usano per dispositivi metallici a contatto con acido solforico e
nitrico come pompe e valvole di impianti;
4. Leghe di nichel-molibdeno si usano per elementi soggetti a corrosione e a temperature di esercizio
elevate, come valvole di sicurezza di impianti chimici;
I più efficaci elementi indurenti per soluzione solida sono il titanio, il colombio e l’alluminio, che distorcono
il reticolo impedendo il passaggio delle dislocazioni: essi formano composti con il nichel del timpo Ni3 (Al, Ti)
che formano fasi 𝛾′ cubica a facce centrate e 𝛾′′ tetragonale a base centrata, i quali conferiscono il maggior
effetto di indurimento alle alte temperature. Il titanio è il principale formatore di fase 𝛾′ mentre il niobio di
fase 𝛾′′. La superlega INCOLNEL 718 è formata da una discreta quantità (15%-20%) di ferro e di niobio (2%-

66
6%) indurito per precipitazione da un composto intermetallico tetragonale a corpo centrato di composizione
Ni3 Nb.
1. Le leghe di nichel-cromo si usano alle alte temperature e al ciclaggio termico per turbine, diffusori
di razzi e tubi di scappamento, tra cui le INCOLNEL, NIMONIC;
2. Le leghe di nichel-cromo-ferro si usano per resistenza a corrosione ad elevate temperature come
forni e resistenze, come la lega INCOLOY;
A volte, per aumentare le prestazioni ad elevate temperature di esercizio, e migliorare anche la resistenza a
creep, si può usare una solidificazione direzionale, in cui si effettua una modificazione del grano orientano
i bordi di grano di un componente in fase di solidificazione nella stessa direzione dello sforzo che deve
sopportare, oppure talvolta eliminando del tutto i bordi del grano dando luogo a monocristalli.
Principali strutture metallografiche degli acciai

FERRITE:
Grani poligonali di forma tondeggiante;
Aspetto chiaro;
Non sembra attaccata ad ingrandimenti non troppo elevati.

AUSTENITE
Grani poligonali maggiormente squadrati rispetto a quelli della ferrite;
Presenza di piani geminati;
Evidenziabile in acciai inox austenitici, non è una fase stabile a temperatura ambiente.

67
PERLITE
Si presenta in noduli non omogenei formate da laminette alternate di ferrite e cementite;
Negli acciai è difficilmente distinguibile anche con l’ausilio del microscopio ottico, più evidente
nelle ghise;
Negli acciai ipo- i noduli di perlite sono circondati da grani di ferrite; in quelli iper- da placche di
cementite

MARTENSITE
Presenta aspetti differenti a seconda delle tipologie di acciai e di raffreddamento;
In generale si presenta in forme aciculari: cioè ad aghetti e a placchette.

FERRITE PERLITE
Struttura tipica degli acciai ipoeutettoidici normalizzati;

68
Costituita da noduli di perlite immersi in una matrice ferritica;
Il microscopio ottico non è in grado di risolvere la struttura delle lamelle di perlite, che appaiono
quindi come grani uniformemente scuri.
Materiali ceramici
I materiali ceramici, essendo formati da più elementi, hanno strutture cristalline generalmente più
complesse di quelle relative ai materiali metallici. Il legame atomico in questi materiali varia da puramente
ionico a completamente covalente. Per quei materiali ceramici in cui il legame atomico è principalmente
ionico, la struttura cristallina si può pensare formata da ioni elettricamente carichi invece che da atomi. I
cationi sono carichi positivamente in quanto hanno ceduto i loro elettroni di partenza agli ioni non metallici,
mentre gli anioni sono carichi negativamente. La struttura cristallina è determinata da un paio di
caratteristiche degli ioni che formano il materiale ceramico:
1. L’entità della carica elettrica su ciascuno degli ioni componenti;
2. Le dimensioni relative dei cationi e degli anioni;
Dato che gli elementi metallici perdono elettroni se ionizzati, di solito i cationi sono più piccoli degli anioni;
inoltre, sia cationi sia anioni tendono ad essere circondati dal massimo numero possibile di ioni di segno
opposto. Quando gli anioni che circondano un catione sono tutti in contatto con quel catione, si formano
strutture ceramiche stabili. Il numero di coordinazione, cioè il numero di anioni immediatamente vicini al
catione, dipende dal rapporto dei raggi del catione e dell’anione. Per valori di questo rapporto minori di 0,155
il catione è molto piccolo e si lega in modo lineare a due anioni; per valori tra 0,155 e 0,225 il numero di
coordinazione è pari a 3, per valori tra 0,225 e 0,414 diventa 4, e così a crescere con un massimo numero che
arriva ad 8 anioni in contatto con un unico catione. Il raggio ionico tende ad aumentare in funzione del
numero di coordinazione e della carica posseduta, infatti quando un elettrone si allontana da uno ione,
quest’ultimo si lega maggiormente al nucleo diminuendo il suo raggio. Alcuni materiali ceramici hanno lo
stesso numero di cationi e anioni, e spesso sono detti composti AX. La più comune struttura di un composto
AX è quella del salgemma, o cloruro di sodio NaCl, in cui il numero di coordinazione per l’anione e per il
catione è uguale a 6, la cella unitaria è cristallina ed ha una disposizione degli anioni cubica a facce centrate.
Si ottiene una struttura analoga anche per la disposizione dei cationi, quindi si può pensare che il salgemma
sia costituito dalla sovrapposizione di due strutture cristalline cubiche a facce centrate, una costituita da
cationi e una da anioni. Il cloruro di cesio, invece, ha un numero di coordinazione pari a 8 e gli anioni sono
situati ai vertici della struttura cubica mentre al centro è situato un singolo catione: non è però una struttura
cubica a corpo centrato perché sono coinvolti ioni di due specie diverse. La blenda di zinco, o sfalerite, invece
ha numero di coordinazione pari a 4, in cui tutti gli ioni sono organizzati in modo tetraedrico. Ci sono anche
strutture cristalline di tipo 𝐀𝐦 𝑿𝒑, come nella fluorite, in cui gli ioni calcio sono posizionati al centro dei cubi
mentre gli ioni cloro occupano i vertici, o strutture di tipo 𝐀𝐦 𝑩𝒏 𝑿𝒑, in cui sono presenti due tipi di cationi A
e B, come il titanato di bario che possiede una struttura cristallina perovskitica, che è cubica con lo ione
titanio posto al centro, gli ioni dell’ossigeno al centro delle sei facce, e gli ioni bario posizionati ai vertici.
Nelle disposizioni atomiche dei metalli, l’impilamento dei piani di massima densità atomica dava origine a
struttura cubiche a facce centrate o esagonali compatte. Di solito, nei materiali ceramici, i piani di massima
densità sono quelli che contengono gli anioni più grandi, e impilandoli uno sopra all’altro si formano delle
piccole cavità in cui possono inserirsi i cationi. Le posizioni interstiziali possono essere:
1. Interstiziali tetraedriche, se a partire dal centro delle sfere è possibile formare a un tetraedri a
quattro lati tracciando delle linee dritte. Il numero di coordinazione è pari a 4;
2. Interstiziali ottaedriche, se congiungendo i sei centri di tali sfere si ottiene un ottaedro. Il numero di
coordinazione è pari a 8;
La densità teorica di un materiale ceramico cristallino si può ottenere con la formula:
𝑛′ (∑ 𝐴𝐶 + ∑ 𝐴𝐴 )
𝜌=
𝑉𝐶 𝑁𝐴

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Dove 𝑛′ è il numero totale di unità formula del composto, 𝐴𝐶 è la somma dei pesi atomici di tutti i cationi,
𝐴𝐴 è la somma dei pesi atomici di tutti gli anioni, 𝑉𝐶 è il volume della cella unitaria e 𝑁𝐴 è il numero di
Avogadro.
I silicati sono materiali formati essenzialmente da silicio, componente che abbonda sulla Terra. La struttura
cristallina, invece che basarsi sulla forma complessiva, si basa sulle diverse disposizioni che può assumere il
tetraedro SiO4− 4 . Ogni atomo di silicio è legato a quattro atomi di ossigeno per formare la neutralità
elettrica. Spesso i silicati non sono considerati ionici a causa del legame covalente che c’è tra il silicio e
l’ossigeno, direzionale e relativamente forte. Le unità base SiO4− 4 possono essere disposte in maniera mono-
, bi- e tri-dimensionale. Il silicato più semplice è il biossido di silicio SiO2, o silice, costituito da una struttura
tridimensionale che si forma dato che un atomo di ossigeno al vertice di ogni tetraedro viene condiviso col
tetraedro adiacente. Se questi tetraedri si dispongono in maniera ordinata, si forma una struttura cristallina,
di cui ne esistono tre tipi:
1. Il quarzo;
2. La cristobalite;
3. La tridimite;
Gli atomi non sono molto compatti e questo si riflette sulla bassa densità, mentre il valore molto elevato del
legame covalente porta ad un punto di fusione molto elevato. La silice può avere anche una forma solida
non cristallina, allo stato di vetro, con un elevato grado di disordine atomico tipico dei liquidi, detta
sodiosilice o silice fusa/vetrosa. Le strutture vetrose sono vetri di silice a cui sono stati aggiunti alcuni ossidi
come l’ossido di calcio e l’ossido di sodio che servono da modificatori di reticolo, mentre altri ossidi come
l’ossido di titanio e l’ossido di alluminio non modificano il reticolo, ma sostituiscono il silicio e si inseriscono
nel reticolo, stabilizzandolo, e sono detti ossidi intermediari. Queste aggiunte fanno diminuire il punto di
fusione del vetro, rendendolo più facilmente lavorabile. Il carbonio non ha caratteristiche tipiche ceramiche,
ma presenta una struttura simile a quella della blenda ed esibisce polimorfismo in tre forme:
1. Diamante: è una forma polimorfa metastabile del carbonio a temperatura ambiente e a pressione
atmosferica. Ogni carbonio è legato ad altri quattro carboni in una struttura cubica simile a quella
della blenda. E’ il materiale più duro attualmente conosciuto e a causa dei forti legami covalenti ha
una bassissima conducibilità elettrica.
2. Grafite: la sua struttura cristallina è più stabile a pressione e temperatura ambiente. La struttura
della grafite consta di vari strati di atomi di carbonio disposti in modo esagonale, ognuno di questi
strati presenta un atomo di carbonio che è legato ad altri 3 complanari adiacenti mediante forti
legami covalenti. Il quarto elettrone di legame prende parte ad un legame debole del tipo di Wan
Der Walls che s’instaura tra gli strati. A causa di questi legami deboli, lo scorrimento interplanare ne
risulta facilitato, il che conferisce alla grafite elevate proprietà lubrificanti. Ha un’ottima
conducibilità elettrica e termica.
3. Fullereni: esistono in forma di raggruppamenti sferici vuoti costituiti da 60 atomi di carbonio,
formata da configurazioni geometriche a forma di esagono e pentagono come in un pallone da
calcio, sono chiamati buckminsterfullereni dal nome dello scopritore.
I meccanismi per la deformazione plastica dei materiali ceramici sono relativamente più complessi che in
quelli per i materiali metallici. Quando viene raggiunta la velocità critica di propagazione, la cricca inizia a
ramificarsi, comportando un aumento della rugosità sulla superficie del materiale. Nel corso di un evento di
frattura, vengono generate onde elastiche ed il luogo dei punti di intersezione di queste onde con il fronte
di propagazione della cricca crea le cossidette linee di Wallner, che sono a forma di arco e forniscono
indicazioni sulla distribuzione delle sollecitazioni e delle direzioni di propagazione della cricca. La resistenza
a flessione di un materiale ceramico è data dalla formula:
3𝐹𝑓 𝐿
𝜎𝑓𝑠 =
2𝑏𝑑2
Dove 𝐹𝑓 è il carico di frattura, 𝐿 è la distanza tra i punti di appoggio e 𝑏, 𝑑 sono le dimensioni del rettangolo.
Il coefficiente a flessione dipende dal volume, e all’aumentare del volume cresce quindi la possibilità di
70
trovare un difetto in grado di generare una cricca e di conseguenza la resistenza a flessione diminuisce. La
relazione sforzo-deformazione è lineare come per i metalli, e la pendenza della curva rappresenta il modulo
elastico. Anche se a temperatura ambiente la maggior parte dei materiali ceramici subisce rottura ancor
prima di deformazione plastica, questo meccanismo può comunque verificarsi, e si diversifica a seconda del
tipo di struttura che accompagna un materiale ceramico:
1. Per i ceramici cristallini, avviene sempre attraverso il movimento delle dislocazioni. La durezza e la
fragilità sono dovute alla difficoltà di scorrimento delle dislocazioni e dato che il legame è
prevalentemente ionico, esistono pochissimi sistemi di scorrimento lungo i quali le dislocazioni si
possono muovere, per via dei legami ionici che hanno potere repulsivo tra ioni dello stesso segno.
Nei ceramici a legame covalente, invece, lo scorrimento è sempre sfavorito rendendoli duri e fragili,
ma per altri motivi:
a. Il legame covalente resta un legame parecchio forte;
b. Il numero dei sistemi di scorrimento è ancora limitato;
c. Le strutture delle dislocazioni sono piuttosto complesse;
2. Per i ceramici non cristallini, la deformazione plastica non avviene per scorrimento di dislocazioni
dato che non c’è una struttura atomica regolare, avviene quindi per scorrimento viscoso, nello
stesso modo in cui i liquidi assumono la forma di un contenitore. La velocità di deformazione è
proporzionale allo sforzo applicato. Per reazione ad uno sforzo applicato, infatti, gli ioni scorrono
l’uno rispetto all’altro rompendo e riformando i legami atomici, ma non esiste una direzione
preferenziale come avveniva per le dislocazioni. La proprietà caratteristica dello scorrimento viscoso
è detta viscosità che si misura in Poise (pascal al secondo) ed è una misura della resistenza che un
materiale non cristallino offre alla deformazione. In un liquido sottoposto ad uno sforzo di taglio
imposto tra due piani paralleli, la viscosità è il rapporto tra lo sforzo di taglio applicato e la variazione
di velocità infinitesima, con la distanza in una direzione perpendicolare e lontana dai piani, cioè:
𝜏 𝐹 𝑑𝑦
𝜂= =
𝑑𝑣/𝑑𝑦 𝐴 𝑑𝑣
I liquidi hanno viscosità molto bassa, mentre i vetri anche a temperatura ambiente hanno una
viscosità parecchio elevata grazie ai loro forti legami interatomici. Aumentando la temperatura, la
forza di legame diminuisce, il moto di scorrimento viene facilitato e di conseguenza la viscosità
diminuisce.
A seguito della compattazione nella forma desiderata, verranno a formarsi in un materiale ceramico dei pori.
La porosità ha un effetto sulle proprietà meccaniche, infatti il modulo di elasticità dipende dalla frazione
volumetrica di porosità secondo l’equazione:
𝐸 = 𝐸0 (1 − 1,9𝑃 + 0,9𝑃2 )
Dove 𝐸0 è il modulo di elasticità del materiale non poroso. Sulla resistenza alla flessione, la porosità ha i
seguenti effetti:
1. I pori riducono l’area della sezione trasversale resistente sulla quale viene applicato il carico;
2. I pori si comportano come intensificatori di sforzo;
L’influenza della porosità sulla resistenza è quindi drammatica, dato che una porosità del 10% dimezza la
resistenza alla flessione rispetto al materiale non poroso. La resistenza alla flessione diminuisce
esponenzialmente col volume della frazione porosa secondo la legge:
𝜎𝑓𝑠 = 𝜎0 𝑒 −𝑛𝑃
Dove 𝜎0 e 𝑛 sono costanti sperimentali. I ceramici mostrano un certo grado di deformazione a creep,
similmente a come avveniva per i metalli, anche se nei ceramici avviene a temperature maggiori. La
formazione dei manufatti ceramici può avvenire in due maniere:
1. Nella formatura per colaggio, i materiali ceramici si preparano per la pressatura a caldo e la cottura.
La polvere ceramica è in sospensione in una soluzione acquosa detta barbottina e l’impasto viene
versato all’interno di uno stampo poroso, ad esempio ricoperto internamente di gesso, in grado di

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assorbire parte dell’acqua in eccesso. Si possono costruire pezzi massivi o pezzi di sottile spessore
facendo defluire l’impasto in eccesso dopo il riempimento della forma. Il pezzo ottenuto, una volta
stabile, dimensionalmente, viene essiccato per rimuovere tutta la parte acquosa e quindi scaldato
a 200-300°C in un processo di essiccamento per rimuovere i componenti organici volatili e infine
cotto ad elevata temperatura, tra 900 e 1400°C, magari sotto l’azione di una pressione esterna. In
questa fase, detta sinterizzazione, si hanno fenomeni di diffusione allo stato solido con
l’ottenimento di legami tra le particelle. Il materiale comunque presenta lo stesso una certa porosità
che influisce sulle proprietà meccaniche del pezzo;
2. Nella formatura idroplastica, spesso si estrude il componente nella forma voluta, per mattoni,
tubazioni, piastrelle.
I vetri costituiscono un gruppo di ceramici piuttosto familiare di cui conosciamo bene le tipiche applicazioni.
I vetri sono silicati non cristallini che contengono al loro interno altri ossidi, come l’ossido di calcio o di sodio
per deformare il reticolo o l’ossido di potassio o di alluminio per sostituire parte del silicio e stabilizzare il
reticolo. Il vetro si distingue dagli altri materiali ceramici in quanto i suoi componenti vengono portati a
fusione e poi raffreddati ad uno stato solido senza
cristallizzazione, con struttura finale amorfa. Le
molecole in un vetro cambiano la loro orientazione in
maniera casuale all’interno del materiale solido. A
diminuire della temperatura nel corso del
raffreddamento un vetro diviene sempre più viscoso
fino a diventare un solido, anche se la temperatura di
solidificazione non è ben definita. Il volume specifico
(l’inverso della densità) ha una forte dipendenza con la
temperatura, ed è ciò che li distingue dagli altri
materiali cristallini. I materiali cristallini, in effetti, in
corrispondenza di una temperatura di fusione
presentano una brusca diminuzione del volume,
mentre per i materiali vetrosi il volume diminuisce in
modo continuo con la temperatura, presentando una
leggera diminuzione della pendenza nella curva in
corrispondenza di quella che si chiama temperatura
di transizione vetrosa al di sotto della quale il materiale viene considerato vetro, mentre al di sopra è
considerato prima un liquido sotto-raffreddato, poi un liquido. I vetri possono essere di tre tipi:
1. Vetri sodio-calcici: sono i vetri più comuni, con composizioni di base del 71%-73% di SiO2 e la
restante composizione di ossidi di sodio e di calcio che hanno l’effetto di diminuire il punto di
rammollimento da 1600°C a 730°C rendendo un vetro di questo tipo molto più facile da lavorare.
Viene utilizzato per produrre lastre piane, recipienti, manufatti pressati, prodotti di illuminazione
per i quali non è richiesta un’elevata resistenza al calore;
2. Vetri al borosilicato: la sostituzione degli ossidi alcalini da parte dell’ossido di boro nel reticolo
vetroso della silice produce un vetro con un’espansione minore. Quando il B2 O3 entra nel reticolo
della silice, ne indebolisce la struttura e ne abbassa considerevolmente il punto di rammollimento.
Viene fuso a 1500°C e poi temprato da 650°C, ed esibisce alte resistenze agli shock termici, non si
graffia. Questo vetro è detto vetro Pyrex e viene usato per attrezzature di laboratorio, tubazioni,
forni e fari;
3. Vetri al piombo: l’ossido di piombo è un modificatore del reticolo della silice, ma può anche agire
come formatore di reticolo. I vetri al piombo con alto contenuto di ossido di piombo sono
bassofondenti e utilizzabili per vetri a tenuta saldati. Questi vetri sono inoltre usati anche per le

72
protezioni da radiazioni ad alta energia e trovano applicazioni per bulbi di lampade fluorescenti o
per televisori.
Per i processi di formatura è anche importante conoscere il comportamento viscosità-temperatura del
vetro, dato dalla relazione importante:
𝑄
𝜂 = 𝜂0 ∙ 𝑒 𝑅𝑇
In un grafico che riporta sulle ascisse la temperatura e sulle ordinate la viscosità in Poise, si distinguono alcuni
punti caratteristici importanti ai fini del processo di fabbricazione e lavorazione:
1. Il punto di fusione corrisponde a quella temperatura alla quale la viscosità corrisponde a 100P, in cui
il vetro è sufficientemente fluido da poter essere considerato un liquido;
2. La soglia di lavorabilità rappresenta la temperatura alla quale la viscosità raggiunge 104 P ed a
questa temperatura il vetro è facilmente deformabile;
3. Il punto di rammollimento è la temperatura alla quale la viscosità è pari a 4 × 107 P, è la massima
temperatura alla quale un oggetto in vetro può essere maneggiato senza causare significative
alterazioni dimensionali;
4. Il punto di ricottura è la
temperatura alla quale la viscosità è 1013 P,
a questa temperatura la diffusione atomica
è sufficientemente rapida da far sì che ogni
tensione residua possa essere rimossa in un
quarto d’ora;
5. La soglia di deformazione è la
temperatura alla quale la viscosità
raggiunge 3 × 1014P e per temperature al
di sotto della soglia di deformazione si ha
frattura prima dell’inizio della deformazione
plastica. La temperatura di transizione
vetrosa è poco al di sopra della soglia di
deformazione;
La maggior parte delle operazioni di
formatura del vetro è portata a termine
nell’intervallo di viscosità compreso tra la
soglia di lavorabilità e il punto di
rammollimento. La temperatura alla quale
si possono trovare questi punti caratteristici
dipende dalla composizione del vetro. Il
vetro viene prodotto portando a fusione le
materie prime per riscaldamento ad una
elevata temperatura. La silice è utilizzata comunemente sotto forma della sabbia di quarzo, mentre l’ossido
di calcio e di sodio vengono aggiunti come carbonato di calcio e sodio. L’omogeneità è ottenuta attraverso
la completa fusione e il mescolamento delle materie prime, mentre la porosità è ottenuta alla formazione di
piccole bolle di gas, che devono essere assorbite o eliminate. I prodotti in vetro vengono ottenuti mediante
cinque metodi di formatura:
1. La pressatura, in cui l’elemento in vetro viene ottenuto per stampaggio sotto pressione, con stampi
in ghisa rivestiti di grafite e riscaldati aventi la forma desiderata;
2. La soffiatura viene eseguita a mano, di solito per oggetti artistici, o in modo automatizzato per la
produzione di bottiglie. Il vetro grezzo altamente viscoso viene pressato in uno stampo a formare
un parison che viene poi inserito nello stampo finale e forzato a prenderne la forma mediante la
pressione di un getto di aria compressa;
73
3. La trafilatura si usa per sezioni che si sviluppano in lunghezza, in cui il vetro fuso viene colato
all’interno di una forma piana con le facce rettificate e lucidate;
4. La trafilatura per formatura di fibre, in cui il vetro fuso galleggia sopra dello stagno liquido e la forza
di gravità rende la lastra perfettamente piana, con uno spessore uniforme, poi viene lucidata a
fuoco;
5. La formatura di lastre sottili;
I trattamenti termici dei vetri possono essere:
1. Ricottura: quando un materiale ceramico viene raffreddato da una temperatura elevata, si possono
indurre delle tensioni interne di natura termica, a causa della differente velocità di raffreddamento
e di contrazione termica tra la superficie e il cuore; queste tensioni termiche sono importanti nei
materiali ceramici dato che possono condurre ad una frattura detta shock termico. Si cerca di
evitare la formazione di queste tensioni mediante un raffreddamento più lento ed omogeneo.
Queste tensioni si possono comunque eliminare mediante un trattamento di ricottura, in cui il
manufatto in vetro viene scaldato fino al punto di ricottura e raffreddato lentamente a temperatura
ambiente;
2. Tempra del vetro: è possibile aumentare la resistenza meccanica di un vetro introducendo
volontariamente degli stati tensionali residui di compressione sulla sua superficie. Si può ottenere
questo risultato mediante un trattamento che viene detto tempra termale. Il trattamento consiste
nel riscaldare il vetro a una temperatura inferiore a quella di transizione vetrosa, ma superiore al
punto di rammollimento. Il successivo raffreddamento fino a temperatura ambiente viene
effettuato mediante un getto d’aria o in alcuni casi in un bagno d’olio. A causa delle diverse velocità
di raffreddamento tra le regioni interne e quelle superficiali, insorgono nel pezzo delle tensioni
residue. Inizialmente la superficie, che si raffredda più velocemente, una volta raggiunta una
temperatura inferiore alla soglia di deformazione diviene rigida. A questo punto, le zone più interne,
raffreddandosi più lentamente, sono ancora a temperature elevate, superiori alla soglia di
deformazione e perciò sono ancora plastiche. Proseguendo nel riscaldamento, l’interno tende a
contrarsi maggiormente rispetto alla superficie esterna rigida, e per questo motivo, al termine del
trattamento, l’interno tende a tirare a sé l’esterno e a imporre tensioni radiali dirette verso l’interno.
Pertanto, una volta raggiunta la temperatura ambiente, sul vetro si avranno sforzi di compressione
in corrispondenza della superficie e sforzi di trazione nelle regioni interne. Prima che avvenga la
rottura, quindi, gli sforzi applicati devono superare oltre al carico di rottura del vetro, anche le
tensioni residue di compressione sulla superficie. In alternativa, si può effettuare un tempra
chimica, che presenta il vantaggio di richiedere temperature meno elevate e quindi di non creare
distorsioni nel vetro. Si effettua immergendo il vetro in un bagno di sali potassici a circa 350°C in
modo da effettuare uno scambio tra gli ioni Na+ della superficie del vetro e gli ioni K + di maggiori
dimensioni. Lo strato superficiale tende a dilatarsi, ma rispetto agli strati interni è in compressione.
Lo sforzo in compressione della tempra chimica è più elevato rispetto a quella termale, ma lo
spessore interessato è minore. Si può avere un vantaggio nei confronti di carichi concentrati e
all’abrasione, ma il comportamento a frattura non è molto buono.
La rottura di un materiale ceramico è dovuta quasi sempre ad una cricca che si forma in superficie a causa di
uno sforzo di trazione applicato. Perché si abbia rottura di un vetro temprato, l’intensità dello sforzo di
trazione applicato deve essere abbastanza elevata da superare in primo luogo gli sforzi di compressione
residua e da porre successivamente la superficie a contatto con uno sforzo sufficiente a innescare una cricca
in grado di propagarsi. La differenza di temperatura tra interno ed esterno dipende dallo spessore, quindi è
per questo che i vetri temprati sono leggermente più spessi.
La maggior parte dei vetri inorganici possono passare da uno strato non cristallino a uno cristallino mediante
un appropriato trattamento termico ad elevata temperatura, che prende il nome di cristallizzazione e il
prodotto che si viene a formare è un materiale policristallino a grana fine che viene chiamato vetro

74
ceramico. La formazione di questi piccoli grani vetro-ceramici è una trasformazione di fase che passa
attraverso gli stadi di nucleazione e di crescita. La cinetica di cristallizzazione può essere descritta con le
stesse modalità con cui si faceva per i materiali metallici. La dipendenza del grado di trasformazione dalla
temperatura e dal tempo può venire rappresentata con diagrammi a temperatura isoterma e con quelli in
raffreddamento continuo. Di solito, per favorire la cristallizzazione si aggiunge al vetro un promotore di
nucleazione come il biossido di titanio, che sposta le curve di inizio e fine trasformazione più a sinistra, verso
tempi minori. I materiali vetro-ceramici hanno le seguenti caratteristiche:
1. Basso coefficiente di espansione termica per evitare frattura per shock termico;
2. Resistenza a temperature elevate;
3. Buone proprietà dielettriche;
4. Buona compatibilità biologica;
Questi materiali sono molto facili da fabbricare, e sono comunemente usati per articoli da forno, schede di
circuiti, scambiatori di calore.
I prodotti argillosi derivano dall’argilla, che spesso viene utilizzata così com’è, senza aggiunte o raffinazioni.
Una volta mescolata insieme all’acqua, l’argilla forma una massa plastica facilmente modellabile e il pezzo
formato è poi messo ad essiccazione per rimuovere parte dell’umidità e quindi cotto a temperatura elevata
per migliorare la resistenza meccanica. Le argille contengono allumina e silice con acqua e impurezze che
possono essere ossidi di vario tipo. La maggior parte dei prodotti a base di argilla rientra in due categorie
principali:
1. I prodotti argillosi strutturali, come i mattoni da costruzione, le piastrelle e i condotti fognari, che
mostrano una buona integrità strutturale;
2. Le porcellane bianche, tra cui gli articoli da arredo e i sanitari. Contengono elementi non plastici
come selce o quarzo finemente macinati e un feldspato (alluminosilicati di potassio, sodio, calcio e
berillio). La tipica composizione della porcellana è 50% argilla, 25% feldspato con cottura a 1200-
1400°C;
Quando un materiale a base argillosa viene sottoposto a cottura, avviene la vetrificazione cioè la graduale
formazione di un vetro liquido che fluisce e riempie parte dei pori. Il grado di vetrificazione dipende dalla
temperatura e dal tempo di cottura, oltre che dalla composizione del materiale. L’aggiunta di materiali
fondenti, come i feldspati abbassano la temperatura in cui si forma fase liquida che riempie i pori per le azioni
capillari che si formano. Durante il raffreddamento, questa matrice vetrosa dà luogo ad un corpo rigido e
resistente e la microstruttura è formata da una fase vetrificata, da particelle di quarzo che non hanno reagito
e da porosità. La resistenza meccanica e la densità aumentano con il grado di vetrificazione. I mattoni da
costruzione sono in genere cotti a 900°C e sono molto porosi, mentre le porcellane dai bordi traslucidi
avviene a temperature ben più elevate. La vetrificazione completa viene comunque evitata durante la
cottura, in quanto il ceramico diventerebbe troppo tenero per mantenere la forma e tenderebbe a collassare.
I cementi hanno la caratteristica che una volta mescolati all’acqua formano una pasta che successivamente
fa presa e indurisce. Alcuni elementi si comportano come una fase legante che unisce chimicamente
aggregati particellari in una singola struttura coesiva. La presa ha luogo a temperatura ambiente. La calce è
un legante aereo che fa avvenire presa e indurimento grazie all’evaporazione di parte dell’acqua dell’impasto
e per una reazione chimica detta carbonatazione della calce: l’anidride carbonica atmosferica si combina con
l’idrossido di calcio per formare carbonato. Il grassello di calce è composto quindi da calcio, acqua e sabbia
che facilita il ritiro dell’impasto provocato dall’evaporazione dell’acqua e favorisce la carbonatazione, ma
non si può usare a contatto con l’acqua. Il cemento portland è un prodotto di macinazione di argilla e
minerali contenenti ossido di calce dopo trattamento di calcinazione, ossia un riscaldamento a 1400°C, con
cui si ha la formazione di un clinker a cui viene aggiunto gesso (acqua e solfato di calcio) come ritardante di
presa. Mescolando il cemento Portland con l’acqua si ottiene una pasta cementizia che si indurisce a seguito
di idratazione. Gli alluminati sono i responsabili della presa, mentre i solfati tengono sotto controllo la
cinetica della reazione. Il cemento Portland è impiegato per il confezionamento di:

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1. Malte, costituite da acqua, cemento e sabbia fine di fiume;
2. Calcestruzzi, costituiti da acqua, cemento, sabbia e aggregati grossolani;
I materiali cementizi hanno un ottimo comportamento a compressione, ma un pessimo comportamento a
trazione, che li accomuna ai materiali ceramici. La resistenza alla trazione è migliorata inserendo delle barre
metalliche di armatura, in questo caso si parla quindi di calcestruzzo armato. Esistono cementi in cui, in
aggiunta al clinker (miscela riscaldata di argilla e calcare) si trovano vari elementi di miscela, che
garantiscono una minor porosità al prodotto indurito e quindi una minore permeabilità agli agenti aggressivi
come acque con cloruri o anidride carbonica. La presa è una complessa reazione di idratazione del tipo:
2CaO − SiO2 + 𝑥H2 O → 2CaO − SiO2 − 𝑥H2 O
La pasta cementizia, inizialmente plastica e lavorabile, perde in plasticità fino alla completa solidificazione
col passare del tempo, in una fase detta tempo di presa. Il tempo di indurimento, invece, è la fase successiva
e serve a migliorare le proprietà meccaniche della pasta cementizia. Un requisito per ottenere un manufatto
con buone proprietà meccaniche è garantire nel periodo di idratazione un umidità relativa possibilmente
vicina al 100%. A determinare un ruolo importante nel processo di presa è l’idratazione degli alluminati, una
reazione molto rapida che avviene nelle prime ore dopo la miscelazione di acqua e cemento ed è controllata
dalla presenza di gesso nel cemento, che rallenta tale reazione. Il cemento Portland indurisce attraverso
delle reazioni con l’acqua chiamate reazioni di idratazione. Queste reazioni producono dal silicato tricalcico
e dal silicato bicalcico che costituiscono all’incirca il 75% del cemento e che reagiscono con l’acqua durante
l’indurimento del cemento, un silicato tricalcico idrato, che è formato da particelle estremamente piccole
ed è un gel colloidale. Le idratazioni del C3 S e del C2 S prouducono inoltre l’idrossido di calcio che è un
composto cristallino secondo le reazioni:
2C3 S + 3H2 O → C3 S2 ∙ 3H2 O + 3Ca(OH)2
2C2 S + 4H2 O → C3 S2 ∙ 3H2 O + 3Ca(OH)2
La pasta di cemento indurita presenta una struttura porosa con tre tipologie di pori:
1. I pori di gel, di dimensioni inferiori ad un centesimo di micrometro;
2. I pori capillari, grandi fino a 5 micrometri;
3. I pori da inglobamento di aria, grandi anche qualche millimetro.
La porosità del gel non influenza le proprietà meccaniche e le proprietà del calcestruzzo, ma la porosità
capillare invece si ripercuote anche sulla permeabilità della pasta cementizia. Al procedere dell’idratazione
del cemento, il volume dei prodotti di idratazione cresce e di conseguenza diminuisce anche il volume dei
pori capillari. La porosità finale sarà influenzata da due parametri:
1. Il grado di idratazione, ossia il tempo di stagionatura a umidità 100%
2. Il rapporto tra massa di acqua e cemento;
La porosità diminuisce all’aumentare del grado di idratazione e al diminuire del rapporto A/C. I pori possono
contenere sia acqua che aria: l’acqua contenuta nei pori è
una soluzione satura di idrossido di calcio contenente anche
idrossidi di sodio e potassio, che comportano una soluzione
alcalina con pH intorno a 13, che è fondamentale per il
calcestruzzo armato: infatti, le barre di acciaio al carbonio a
tale valore alcalino di pH si passivano e perciò, in assenza di
agenti passivanti, la loro velocità di corrosione è
praticamente nulla. Miscelando cemento, acqua e aggregati
si ottiene il calcestruzzo, il materiale da costruzione
ingegneristicamente più impiegato nella costruzione di
opere a destinazione civile. Il calcestruzzo può vantare:
1. Una buona resistenza alla compressione, all’acqua e
agli agenti atmosferici;
2. Compatibilità con le armature in acciaio al carbonio;

76
3. Facilità di produzione e messa in opera nelle forme più svariate;
4. Materiale economico, materie prime reperibili in tutto il mondo;
Il calcestruzzo prima della fase di presa, e quello indurito si differenziano per diverse caratteristiche:
1. Il calcestruzzo fresco ha un impasto plastico fluido e scorrevole, compatto e coeso per non far
separare gli aggregati grossi da quelli fini, che gli conferiscono una buona lavorabililtà, che è
influenzata dal contenuto di acqua, dalle caratteristiche degli aggregati e dalla presenza di additivi
fluidificanti, che la portano ad aumentare;
2. Il calcestruzzo indurito deve il suo comportamento meccanico alla presenza di fessure, vuoti e pori.
Un ruolo importante è svolto dalla cosiddetta zona di transizione, un’area porosa localizzata tra la
superficie degli aggregati e la pasta cementizia; la pasta cementizia idratata non riesce a penetrare
gli aggregati, che danno luogo quindi a livello strutturale a micofessure che influenzano la porosità
e quindi la resistenza meccanica. Un altro fattore importante è il rapporto delle masse
acqua/cemento, in quanto un basso rapporto A/C comporta un incremento delle caratteristiche
meccaniche del calcestruzzo, tuttavia non è sempre possibile impiegare bassi rapporti A/C in quanto
il basso contenuto di acqua influisce negativamente sulla lavorabilità del calcestruzzo fresco,
abbassandola e favorendo l’innesco di macro-porosità. La durata del calcestruzzo dipende anche
dalla durata e dalle condizioni della stagionatura. Le condizioni ottimali sono quelle di massima
umidità o saturazione per almeno 7 giorni.
Il silicato tricalcico indurisce rapidamente ed è il maggior responsabile della durezza meccanica iniziale del
cemento portland. La maggior parte dell’idratazione di questo silicato è completata nell’arco di due giorni
dal getto e quindi i cementi portland a rapido indurimento contengono una maggiore quantità di questo
silicato. Il silicato bicalcico, invece, ha una reazione di idratazione molto lenta ed è il maggior responsabile
dell’aumento della resistenza meccanica dopo una settimana. Nella progettazione strutturale il calcestruzzo
viene principalmente sollecitato a compressione. La capacità di resistere a trazione del calcestruzzo può
essere aumentata rinforzandolo con tondini di
acciaio. La resistenza del calcestruzzo è una
funzione del tempo, in quanto essa si sviluppa in
seguito alle reazioni di idratazione. Tra le
grandezze più importanti per la resistenza a
compressione ricordiamo:
1. Il rapporto in peso acqua/cemento
2. Il dosaggio di cemento (quantitativo di
cemento in metri cubi di calcestruzzo) e la classe di
resistenza del cemento;
3. La granulometria degli inerti.

Per modulo di elasticità del calcestruzzo si


intende il valore della tangente all’origine
della curva sforzo-deformazione che si
ottiene da una prova di compressione
semplice. All’aumentare della resistenza
del calcestruzzo, aumenta il valore del
modulo di elasticità, cioè un calcestruzzo
è tanto più rigido quanto più è resistente.
La normativa italiana fissa il seguente
valore del modulo di elasticità all’origine:
𝐸𝐶 = 5700 ∙ √𝑅𝑐𝑘

77
Materiali polimerici
I polimeri che si trovano in natura, provenienti da piante e animali, come la gomma, il cuoio, il legno, la lana,
la seta, il cotone, sono già noti da moltissimi anni, insieme agli enzimi prodotti dal nostro corpo. A partire
dalla seconda guerra mondiale, invece, sono stati condotti molti studi sui polimeri arrivando alla creazione
dei polimeri sintetici, prodotti a basso costo e con proprietà che possono essere dosate a volontà. La natura
dei polimeri è organica, sono quindi composti da molecole idrocarburiche, costituite quindi da idrogeno e
carbonio dotati di legami intermolecolari di natura covalente. Ogni carbonio ha quattro elettroni che
possono partecipare alla formazione di un legame covalente, che si forma per condivisione elettronica. Le
molecole che presentano legami doppi o tripli sono dette insature, dato che ogni atomo di carbonio non è
legato al massimo numero di altri atomi. In un idrocarburo saturo, invece, tutti i legami sono singoli. Gli
idrocarburi più semplici appartengono alla famiglia delle paraffine, come il metano, l’etano, il propano e il
butano. I legami covalenti all’interno della molecola sono legami forti, mentre i legami che intercorrono tra
molecole diverse rispondono alle forze di Wan Der Walls, pertanto questi idrocarburi hanno punti di fusione
piuttosto bassi. Le temperature di ebollizione aumentano però col peso molecolare. Alcuni composti
presentano la stessa composizione, ma differenti disposizioni atomiche, in un fenomeno detto isomeria: ad
esempio, il butano ha due isomeri, che sono il normal-butano e l’iso-butano. Le molecole dei polimeri sono
molto più grandi rispetto a quelle degli idrocarburi: in virtù delle loro dimensioni, esse sono chiamate
macromolecole, in ciascuna delle quali gli atomi sono legati tra loro da legami interatomici covalenti. Lo
scheletro di ciascuna catena è quasi sempre una fila di atomi di carbonio, e ogni atomo di carbonio disposto
lungo una fila forma un legame con altri due atomi di carbonio che gli si posizionano a destra o a sinistra.
Ciascuno degli altri due elettroni di valenza è quindi a disposizione della formazione di nuovi legami con
atomi o radicali che si posizionano a lato della catena. Queste lunghe molecole sono composte da unità
strutturali dette unità ripetute, che si ripetono in successione lungo la catena. Con monomero si intende la
piccola molecola dalla quale viene originato il polimero. In determinate condizioni, un monomero si può
trasformare in un polimero solido, quando si forma un centro attivo di reazione tra un iniziatore o specie
catalitica e un monomero. Attraverso altre addizioni in sequenza, la molecola cresce fino a formare un
polimero. Quando tutte le unità ripetute sono dello stesso tipo, si parla di omopolimero, mentre quando le
catene sono composte da diverse strutture ripetute si parla di copolimeri. La funzionalità indica un dato
numero di legami che un monomero può formare. Nei polimeri dotati di catene molto lunghe, si possono
trovare dei pesi molecolari piuttosto elevati. Durante il processo di polimerizzazione, non tutte le molecole
raggiungono la stessa lunghezza e quello che si ottiene è un peso molecolare medio, definito come la
percentuale di catene che appartengono ad un dato intervallo oppure che con un altro basato sulla frazione
in peso delle molecole che si trovano all’interno dei diversi intervalli di peso. Un altro modo per esprimere la
dimensione media delle catene polimeriche è il grado di polimerizzazione DP, che rappresenta il numero
medio di unità ripetitive appartenenti ad una catena, ed è collegato al peso molecolare medio numero
mediante la relazione:
𝑀𝑛
𝐷𝑃 =
𝑚
Dove 𝑚 è il peso molecolare dell’unità ripetuta. Molte proprietà dei polimeri dipendono dalla lunghezza delle
catene polimeriche, come la temperatura di fusione o di rammollimento, che aumentano all’aumentare del
peso molecolare, come il modulo elastico e la resistenza meccanica. I polimeri sono costituiti da un gran
numero di catene molecolari, ognuna delle quali può ripiegarsi, arrotolarsi e formare cappi: anche le
molecole adiacenti quindi si aggrovigliano e si intrecciano. Questi gomitoli casuali e gli aggroviagliamenti
molecolari sono la causa della proprietà dei polimeri di essere molto estensibili elasticamente. Le
caratteristiche fisiche di un polimero non dipendono solo dalla sua forma e dal suo peso molecolare, ma
anche dalle differenze di configurazione strutturale delle catene molecolari:

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1. I polimeri lineari sono quelli nei quali le unità ripetitive sono unite da un estremo all’altro, sono
flessibili e possono essere immaginate come una massa di spaghetti. Tra una catena e l’altra si
possono instaurare molti legami di van der Walls e legami a idrogeno;
2. I polimeri ramificati, invece, presentano delle ramificazioni della catena che possono essere
generate dalle reazioni laterali che avvengono durante la sintesi del polimero. Con la formazione
delle ramificazioni, si riduce la capacità di compattazione delle catene per cui la densità del
polimero diminuisce;
3. I polimeri a legami incrociati hanno le catene lineari adiacenti unita l’una all’altra in vari punti
mediante legami covalenti. La formazione di legami incrociati è ottenuta mediante l’aggiunta
di atomi o molecole che si attaccano alla catena principale per mezzo di legami covalenti. Molti
materiali gommosi presentano legami incrociati;
4. I polimeri reticolati hanno un network tridimensionale dovuto dalla formazione di tre o più
legami covalenti attivi;
Le proprietà di un polimero possono dipendere anche dalla regolarità e dalla simmetria del gruppo laterale.
Ad esempio, ai lati della catena, è più facile incontrare una disposizione dei radicali di tipo testa-coda
piuttosto che di testa-testa, perché a piccole distante vigono le forze repulsive tra le due teste vicine. Nelle
molecole polimeriche è ben presente il fenomeno dell’isomeria, per il quale composti aventi la stessa
composizione chimica presentano diverse configurazioni atomiche:
1. La stereoisomeria si ha quando gli atomi sono collegati tra loro nello stesso ordine testa-coda, ma
differiscono per la disposizione spaziale. Quando due radicali sono posti in configurazione testa
coda su due piani differenti, si parla di configurazione isotattica, e questo schema spiega
l’andamento a zig-zag degli atomi di carbonio nella catena. Nella configurazione sindiotattica,
invece, i radicali si alternano ai lati della catena, mentre un posizionamento casuale è detto
configurazione atattica. La conversione da un tipo di stereoisomeria all’altra non può avvenire per
semplice rotazione, ma deve assolutamente passare entro una fase di rottura e ricomposizione dei
legami;
2. L’isomeria geometrica si manifesta in quelle unità ripetitive che presentano un doppio legame tra
gli atomi di carbonio della catena. Legato a ciascun atomo di carbonio interessato al doppio legame,
infatti, vi può essere un gruppo laterale situato da un lato o dall’altro della catena:
a. La struttura cis- si ha quando due gruppi laterali sono posizionati dallo stesso lato della
catena;
b. La struttura trans- si ha quando due gruppi laterali sono posizionati ai lati opposti della
catena;
Le caratteristiche di un polimero si possono quindi classificare a seconda di:
1. Dimensione, definita dal peso molecolare o dal grado di polimerizzazione;
2. Forma, correlata dal grado di torsione, avvolgimento e ripiegamento delle molecole;
3. Struttura, che dipende dalla maniera con cui le unità di base sono collegate tra loro;
Il comportamento meccanico di un polimero ad alta temperatura è legato alla sua struttura molecolare
dominante. Una possibile classificazione dei materiali polimerici si basa infatti sul loro comportamento
all’aumentare della temperatura. I polimeri vengono quindi suddivisi in:
1. Polimeri termoplastici che se riscaldati si ammorbidiscono fino a liquefarsi, dato che all’aumentare
della temperatura i legami secondari si indeboliscono e per applicazione di una sollecitazione
esterna il movimento relativo delle catene adiacenti diventa più facile. Sono relativamente morbidi
e duttili;
2. Polimeri termoindurenti che sono dei polimeri reticolati e diventano permanentemente duri nel
corso del processo di formatura e non mostrano rammollimento se vengono scaldati in seguito.
Presentano perciò legami covalenti trasversali tra molecole situate su piani differenti, che si
stabiliscono nel corso del trattamento termico, per cui le catene si trovano impossibilitate a

79
rispondere con rotazioni e vibrazioni all’aumentare della temperatura. I legami trasversali sono in
genere molto lunghi ed estesi e solo un trattamento a temperature molto elevate può spezzarli.
Sono in genere dei materiali molto duri e resistenti.
I copolimeri presentano diverse unità fondamentali ripetute, e a seconda della configurazione delle
molecole ripetute possono essere statistici (random), alternati, a blocchi e a innesto. Le gomme sintetiche
sono in genere copolimeri. I materiali polimerici possono esistere anche allo stato cristallino. Tuttavia,
poiché si tratta di molecole anziché di atomi o di ioni, le disposizioni atomiche sono più complesse. La
cristallinità dei polimeri è una specie di compattazione delle catene molecolari al fine di produrre una
disposizione atomica ordinata. Le strutture cristalline possono sempre essere descritte sulla base di celle
unitarie, la più famosa delle quali è quella ortorombica del polietilene. Le molecole dei polimeri sono
parzialmente cristalline, e presentano regioni cristalline disposte all’interno di una restante massa amorfa.
Il grado di cristallinità di un polimero dipende dalla densità del campione e dalle densità dei materiali
perfettamente cristallini e totalmente amorfi secondo la:
𝜌𝑐 (𝜌𝑠 − 𝜌𝑎 )
%cristallinità = × 100
𝜌𝑠 (𝜌𝑐 − 𝜌𝑎 )
Il grado di cristallinità di
un polimero dipende
inoltre sia dalla velocità
di raffreddamento
durante la
solidificazione che dalla
configurazione delle
catene e dalla
composizione chimica
della struttura. La
cristallizzazione si può
facilmente ottenere nel
caso dei polimeri lineari,
dal momento che ci
sono poche limitazioni
all’allineamento delle
catene, per cui i polimeri
ramificati non
presentano mai un alto grado di cristallinità. La maggior parte dei polimeri reticolati e a legami incrociati è
praticamente amorfa. I polimeri isotattici e sindiotattici, invece, grazie alle loro regolarità nelle strutture,
cristallizzano più facilmente. Nei copolimeri, tanto più sono causali le disposizioni delle unità rispettive,
tanto più è maggiore la tendenza a non cristallizzare. Un polimero semicristallino si ritiene che possa essere
formato da piccole regioni cristalline dette cristalliti aventi un preciso allineamento e disperse all’interno di
una matrice amorfa composta da molecole orientate in modo del tutto casuale. Questa struttura è detta
modello a catena ripiegata, in cui ciascuna lamella è costituita da un certo numero di macro-molecole
anche se la lunghezza media di ciascuna catena è molto più grande dello spessore di ogni lamella. Molti
polimeri che sono cristallizzati da un fuso sono semicristallini e formano una struttura sferulitica. Ogni
sferulite cresce con una forma approssimativamente sferica ed è costituita da un aggregato di cristalliti a
forma di nastro a catene ripiegate che si irradiano da un unico sito centrale di nucleazione verso l’esterno.
Le lamelle vengono tenute insieme da macromolecole che attraverso le regioni amorfe servono da punti di
giunzione. Quando il processo di cristallizzazione di una struttura sferulitica giunge al completamento, le
sferuliti adiacenti si trovano in contatto tra loro e formano bordi di confine più o meno piani, che hanno una
caratteristica forma che ricorda quella della croce di Malta. Le sferuliti possono essere considerate come

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l’equivalente polimerico dei grani metallici o
ceramici, anche se ciascuna sferulite è in realtà
composta da molti cristalli lamellari e da materiale
amorfo. Il comportamento dei polimeri amorfi è
fortemente influenzato dalla termperatura: infatti,
in un grafico che riporta l’andamento del modulo
elastico in funzione della temperatura, si vede che
esiste una temperatura di transizione vetrosa
anche per i polimeri, intesa come una temperatura
alla quale i movimenti delle catene si riducono a tal
punto che il materiale diviene compatto e rigido. A
questa temperatura si assiste ad un salto di circa 3
ordini di grandezza del modulo elastico: questa
temperatura non è fissa e costante in ogni
condizione, ma dipende dal modo di raffreddare il
polimero, dato che raffreddando molto
velocemente non si dà il tempo alle macromolecole
di impacchettarsi e di addensarsi il più possibile
senza ottenere quindi materiale rigido. In funzione
della temperatura si assiste quindi anche ad una
sostanziale variazione di
volume. All’aumentare della
temperatura diminuisce la
rigidezza, cosa che provoca
una grande resistenza alle
basse temperature. Inoltre,
per temperature alte, si
assiste al fenomeno dello
scorrimento viscoso. Quando
le temperature si abbassano,
si vede che diminuisce la
mobilità delle molecole e al di
sotto della temperatura di
transizione vetrosa anche i
moti delle catene laterali si

bloccano. La temperatura di transizione vetrosa dipende dalla lunghezza


media delle molecole, o dal loro peso molecolare, attraverso delle
relazioni del tipo:
𝐴
𝑇𝑔 = 𝑇𝑔∞ −
𝑀𝑤
Dove 𝐴 è una costante, 𝑀𝑤 è il peso molecolare medio della molecola e
𝑇𝑔∞ è la temperatura di transizione del polimero a peso molecolare
infinito. In effetti, più è piccola la molecola e più sarà libera di muoversi
anche quando la temperatura decresce. Bisognerà quindi raggiungere
temperature più basse per bloccarne il moto e quindi vetrificare il
materiale. Le proprietà di un materiale polimerico termoplastico
dipendono dalle condizioni di solidificazione e cioè da:

81
1. Temperatura di stampaggio o reticolazione;
2. Tempo richiesto per tale processo;
Esistono due diversi procedimenti di solidificazione, che sono:
1. Cristallizzazione
2. Vetrificazione

Nello studio della solidificazione è utile il diagramma simile alle curve di Bain per i metalli, detto TTT con
scala dei tempi logaritmica. Le curve di inizio e fine rappresentano l’inizio e la fine della cristallizzazione. La
linea di fine cristallizzazione non corrisponde alla formazione di un materiale cristallino al 100% ma soltanto
il raggiungimento del massimo
grado di cristallinità che il
materiale può ottenere. Molto
importante è la curva di
transizione vetrosa che incide
sull’addensamento delle
macromolecole e sul volume
libero del polimero, cioè sullo
spazio che rimane tra le
macromolecole: più vi è ordine e
regolarità nella struttura, e più è
facile che il materiale cristallizzi.
Se la catena è ordinata e non
presenta legami laterali con altre
catene, è più facile
impacchettarla per ottenere una
struttura cristallina. In caso contrario, la cristallizzazione è inibita molto fortemente e il materiale rimane
allo stato amorfo. Le curve di raffreddamento possibili sono tre:

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1. Una curva di raffreddamento rapido: con questo passaggio si ottiene un materiale come-temprato,
e cioè vetrificato in circa 10 secondi. Per alcuni materiali non è possibile avere un raffreddamento di
questo tipo perché potrebbero servire velocità di raffreddamento anche dell’ordine di 1000°C al
secondo, come nel caso del polietilene, che ha tra l’altro una bassa conducibilità termica;
2. Una curva di solidificazione isoterma: si ottiene ad alte temperature, per formare strutture
cristalline e va mantenuta per tempi parecchio lunghi;
3. Una curva di raffreddamento continuo: viene effettuata con velocità tali da realizzare il materiale
in tempo utile ed è la più usata.
Il polimero considerato in questo caso arriva al 60% di cristallinità: per le bottiglie d’acqua addirittura si arriva
a valori più bassi, tipo il 15%-20% di cristallinità. Queste vengono prodotte però con un procedimento
particolare perché dovrebbero essere amorfe per acquisire il colore trasparente, ma al contempo cristalline
per non essere permeabili ai gas.
I modelli morfologici dei polimeri termoplastici possono essere di due tipi, ovvero:
1. A micelle frangiate: il materiale di base è diviso in due parti che sono zona cristallina e zona amorfa.
Essendo la lunghezza delle catene tipicamente maggiore della lunghezza delle zone cristalline, si ha
che una stessa catena fa parte di più zone cristalline;
2. A catene ripiegate: dalla solidificazione di una soluzione molto diluita si è scoperto che il cristallo
singolo aveva la forma di una lamella, la quale aveva un’altezza minore dello spessore delle catene;
Le catene ripiegate possono essere spezzate e penetrare in un’altra lamella, intrecciandosi con essa
formando la tie molecole (molecola legaccio) che lega tra loro diverse molecole. Nel caso di un polimero
ottenuto dal fuso si forma una super-struttura, in cui la lamella è l’elemento base, chiamata sferulite. La
dinamica della formazione della sferulite si articola in diverse fasi, tra cui:
1. Durante la solidificazione si forma il primo germe di lamella;
2. In seguito si assiste alla nucleazione secondaria, con ripiegamenti della catena e formazione di una
nuova lamella secondo un accrescimento sferico, formando una fibrilla;
3. Mano a mano che questo processo prosegue, si forma la sferulite;
4. Quando le sferuliti crescono possono incontrarsi le une con le altre dando origine al bordo di sferuliti.
Questo bordo risulta essere una zona particolarmente fragile del materiale polimerico;
Non si può comunque avere materiale cristallino al 100% dato che tra lamella e lamella vi è comunque
presenza di materiale amorfo. I polimeri semicristallini presentano una elevatissima deformabilità, e questa
proprietà deriva dal fatto che le sferuliti si srotolano e le macromolecole tendono ad allinearsi nel senso dello
sforzo creando una forte instabilità. Quando si lava un maglione di lana sintetica a 80-100°C, si fornisce alle
fibre l’energia termica sufficiente per recuperare lo “snervamento” subito e tornare quindi nella situazione
più stabile. Così facendo il maglione si “ritira” un po’. La velocità di accrescimento delle sferuliti è molto
importante dato che la grandezza di queste ultime stabilisce le caratteristiche del materiale. In particolare,
quindi:
velocità di accrescimento alta → sferuliti poco accresciute → alta deformabilità
velocità di accrescimento bassa → sferuliti molto accresciute → bassa deformabilità
Più la catena è lunga e cioè maggiore è il peso molecolare, minore sarà la velocità di accrescimento in quanto
la macromolecola deve muoversi con tutto il suo seguito e riuscire ad “impacchettarsi” tutta quanta. Il grado
di cristallizzazione è definito come il rapporto tra le quantità di polimero ordinato e amorfo. E’ molto
importante in quanto maggiore è il grado di cristallizzazione e migliori sono le caratteristiche meccaniche
del polimero. Per i polimeri amorfi è importante che il loro utilizzo avvenga a temperature inferiori della
temperatura di transizione vetrosa. Sopra tale temperatura, l’amorfo è in condizione viscosa, mentre il
polimero cristallino sarebbe in condizione semi-rigida. Al di sotto il solido cristallino è amorfo, duro e fragile.
Il materiale semicristallino può essere impiegato sia sotto che sopra la temperatura di transizione vetrosa:
al di sopra, la parte amorfa tende a diventare viscosa ma essendo bloccata tra le lamelle non può scorrere,
generando quindi uno scorrimento fluido che si può considerare come un muro di mattoni uniti da una malta
gommosa: il materiale avrà quindi alti carichi di snervamento e bassa fragilità. In un materiale semicristallino
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una determinata proprietà può essere scritta come somma della proprietà della parte cristallina e della parte
amorfa:
𝑃𝑝𝑜𝑙 = 𝑃𝑐𝑟𝑖𝑠𝑡 + 𝑃𝑎𝑚𝑜𝑟𝑓
Si può passare alle quantità specifiche, introducendo 𝑥 = 𝑀𝑐𝑟𝑖𝑠𝑡.𝑝𝑢𝑟𝑜 /𝑀𝑝𝑜𝑙𝑖𝑚𝑒𝑟𝑜 come rapporto tra parte
cristallina e parte intera:
𝑃𝑝𝑜𝑙 = 𝑥 ∙ 𝑃𝑐𝑟𝑖𝑠𝑡 + (1 − 𝑥) ∙ 𝑃𝑎𝑚𝑜𝑟𝑓
In questo modo si può calcolare la densità della parte amorfa di polimero a partire dalla conoscenza della
densità del cristallo puro e di quella della miscela:
𝑑𝑝𝑜𝑙 − 𝑥 ∙ 𝑑𝑐𝑟𝑖𝑠𝑡
𝑑𝑎𝑚𝑜𝑟𝑓 =
1−𝑥
L’effetto del grado di cristallinità è molto importante sulle caratteristiche meccaniche fondamentali come il
modulo elastico. La gomma è un polimero con macromolecole allungate e cioè con catene molto lunghe e
poco reticolate. Tra due punti di legame sono presenti numerose unità monomeriche. Strutturalmente le
gomme hanno catene poco flessibili e possono lavorare a temperatura molto alta rispetto alle temperature
caratteristiche dei polimeri. La funzione che ne descrive il comportamento energetico è l’energia libera:
𝐺 = 𝐻 − 𝑇𝑆
Considerando un pezzo di gomma cilindrico e trazionato, è naturale attendersi che si allunghi molto e che
ritorni indietro velocemente una volta che si elima la trazione. Deriviamo l’energia libera nella direzione 𝐿:
𝜕𝐺 𝜕𝐻 𝜕𝑆
= −𝑇( )
𝜕𝐿 𝜕𝐿 𝜕𝐿
La variazione di entalpia è trascurabile rispetto a quella entropica, a patto che non vi siano grosse interazioni
tra le molecole. La gomma ideale ha variazione nulla di entalpia lungo una certa direzione. Allungano il
provino si passa da una situazione di disordine ad una di maggiore ordine, perché le catene si allungano tutte
nella stessa direzione disponendosi parallelamente, quindi la variazione di entropia è negativa e l’energia
libera del sistema aumenta. La derivata direzionale dell’energia libera corrisponde alla forza lungo la
direzione di allungamento, cioè:
𝜕𝐺
𝐹=
𝜕𝐿
E così nasce una forza di richiamo dovuta allo stiramento delle molecole del polimero. Le molecole sono in
movimento e il sistema tende a tornare nella stessa posizione iniziale di attorcigliamento corrispondente ad
una entropia maggiore; per questo motivo le gomme sono anche dette gomme entropiche. Una
caratteristica delle gomme è che si comportano sia come liquidi, sia come solidi, sia come gas:
1. La gomma è un solido;
2. La gomma è praticamente incomprimibile, non varia il volume se sottoposta ad una pressione anche
molto alta;
3. Se allungo una gomma, la forza di allungamento cresce con l’aumentare della temperatura, mentre
tutti gli altri materiali rammolliscono. Questo comportamento si riscontra nei gas perfetti.
Analizzando la temperatura di transizione vetrosa, gli elastomeri hanno la temperatura di transizione
inferiore alla temperatura ambiente e quindi sono comunque strutture reticolate.
La vulcanizzazione è un processo per il quale si riesce ad inserire una specie di memoria nel materiale
gommoso, cosicché dopo averlo deformato, si possa sempre tornare alle condizioni iniziali. Si deve
introdurre un piccolo numero di legami in modo che l’oggetto possa ritornare allo stato iniziale. Per questo
si può usare dello zolfo, che è presente negli pneumatici in tenori del 2%-3%. Se si aggiungono troppi
elementi però c’è il rischio di perdere completamente l’elasticità. La forma di cui si vuole un ritorno va data
sempre prima di iniziare la vulcanizzazione, altrimenti dopo non sarà più possibile. Il modulo di elasticità di
una gomma vulcanizzata è inizialmente basso poiché la maggior parte della deformazione elastica è dovuta
all’attorcigliamento delle catene. Dopo che le catene si sono srotolate si ha un’ulteriore deformazione
elastica dovuta allo stiramento dei legami che porta ad un alto modulo di elasticità. In alcuni elastomeri si
può creare anche un diverso meccanismo di reticolazione rispetto a quello contenente zolfo: le gomme
84
siliconiche si basano su una catena lineare di silicio e di ossigeno e non hanno legami insaturi: si legano le
varie catene tramite un perossido che rimuove l’idrogeno dal gruppo metile e permette agli atomi di
carbonio delle catene di legarsi. Le resine termoindurenti, come la resina ipossidica, costituita da anelli
benzenici con un gruppo epossidico che forma un anello grazie alla diammina, sono resine che si induriscono
all’aumentare della temperatura. Si può quindi distorcere, ma non cambiare, la forma originale. Si parte da
un materiale che ha la consistenza del miele al quale viene aggiunto un agente reticolante che fa da ponte
tra un gruppo e l’altro. Per le resine si ha un diagramma simile a quello delle curve di Bain: al di sotto della
temperatura di transizione abbiamo un prepolimero, cioè resina non ancora reticolata. Arrivati alla
temperatura di fusione, si introduce l’indurente che può entrare a far parte della struttura della resina. Si può
procedere in due metodi:
1. Se si è a temperatura bassa si può attendere che la reazione proceda ma con tempi lunghi. Può
avvenire a temperatura costante purché il calore prodotto dalla reazione di reticolazione possa
essere smaltito verso l’esterno, dando luogo ad una reticolazione omogenea e senza tensioni
interne;
2. La resina si decompone, e la reazione di reticolazione produce calore, quindi mano a mano che si
evolve la temperatura aumenta accelerando la reazione e a sua volta producendo più calore.
Essendo le resine a bassa conducibilità termica si arriva ad una temperatura in cui si decompongono,
iniziano a bollire e a fare fumo.
Le curve A e B sono molto
importanti. La gelazione è
il momento in cui si
stabilisce la forma, cioè il
momento in cui almeno
una macromolecola è
diventata così grande da
occupare tutta la
dimensione del materiale.
La vetrificazione è il
processo in cui la
temperatura di transizione
vetrosa della resina
diventa uguale alla
temperatura di cura, cioè
alla temperatura in cui
ottengo la massa di resina.
Ciò non sempre si verifica,
ma dipende dalla quantità
di resina e di indurente che
è stata aggiunta, perché l’aumento della temperatura di transizione vetrosa dipende dall’aumento del peso
molecolare della resina stessa. Se la temperatura di gelazione è inoltre troppo alta, quando poi si raffredda
la resina si contrae in maniera apprezzabile. Un sistema si considera completamente curato quando il grado
di reticolazione è sufficiente a fornire l’ottimo in proprietà fisiche in relazione alle particolari esigenze
applicative. Le caratteristiche finali dell’oggetto vengono date nel momento in cui viene formato l’oggetto,
cioè nel momento della reticolazione finale che sancisce le caratteristiche del materiale.
Le lunghe catene molecolare formate dai polimeri si formano per mezzo di un processo che è detto
polimerizzazione. Le materie prime per i polimeri sintetici sono ricavate dal carbone, dai gas naturali e dal
petrolio e la reazione attraverso cui avviene la polimerizzazione può essere di due tipi:

85
1. Polimerizzazione per addizione: In presenza di calore o pressione o di un catalizzatore, il doppio
legame tra gli atomi di carbonio dell’etilene si rompe ed è sostituito con un legame singolo
covalente. Ogni atomo di carbonio ha quindi ora 7 elettroni nel livello di energia sp più esterno. La
molecola di etilene è detta mer. Per soddisfare le richieste di legame il monomero si combina con
altri monomeri di etilene assicurando così che ogni atomo di carbonio condivida di nuovo 4 legami
covalenti. La polimerizzazione per addizione avviene perché la molecola originale contiene un
doppio legame, che è insaturo; trasformandosi in un singolo legame, gli atomi di carbonio sono
ancora uniti, ma fanno posto ad altri monomeri addizionali per allungare la catena. Il numero di
posizioni nelle quali le nuove molecole possono attaccarsi al mer definisce la funzionalità.
Nell’etilene vi sono 2 posizioni (una per ogni atomo di carbonio), quindi è bifunzionale e forma una
catena. Se ci fossero tre posizioni il mer potrebbe formare una rete tridimensionale, che produce di
solito polimeri più forti rispetto a quelli equipaggiati con un mer bifunzionale. L’inizio del
meccanismo di addizione avviene grazie ad un iniziatore, che potrebbe essere come nel caso
dell’etilene il perossido di idrogeno H2 O2 che porta alla rottura dei doppi legami nell’atomo di
carbonio e quelli covalenti dell’ossigeno nel perossido di idrogeno: un gruppo ossidirilico –OH si
attacca all’estremità del mer di etilene. Il gruppo –OH reagisce poi come nucleo per una catena. Una
volta che la catena è iniziata, la reazione procede spontaneamente in quanto per rompere il doppio
legame del carbonio servono 721 KJ/mol di energia, ma quando due singoli legami si combinano per
estendere la catena vengono liberati 738KJ/mol, quindi l’allungamento della catena è
entropicamente favorito. La terminazione della catena di addizione può avvenire invece in due
modi:
a. Le parti terminali attive di due catene possono unirsi per produrre una singola catena larga;
b. La parte finale attiva di una catena può attrarre un gruppo iniziatore –OH, che si comporta
da radicale e termina la catena;
Alla fine del processo di polimerizzazione si ottiene un materiale polimerico formato da molecole di
diversa lunghezza. Nelle strutture polimeriche tipo il polietilene, sostituendo alcuni atomi di
idrogeno con altri atomi o gruppi di atomi si ottengono polimeri diversi: ad esempio, sostituendo
tutti gli atomi di idrogeno con atomi di fluoro si ottiene il politetrafluoroetilene (PTFE) noto come
teflon; sostituendo un atomo di idrogeno una volta ogni 4 con un atomo di cloro si ottiene il
polivinilcloruro (PVC); sostituendo un atomo di idrogeno una volta ogni 4 con un gruppo metilico
−CH3 si ottiene il polipropilene; se mettiamo il gruppo −COOCH3 si ottiene il plexiglass.
2. Polimerizzazione per condensazione: le strutture che si formano sono molto simili a quelle formate
per addizione. Un esempio classico è quello del polietilene tereftalato (PET) in cui una molecola di
dimetil tereftalato si unisce con una di glicole etilenico per dare una molecola di polietile tereftalato e
una di alcool metilico. Il gruppo metilico −CH3 si unisce con l’ –OH e come sottoprodotto si ottiene
l’alcool metilico e inizia il primo gruppo di PET. Questa molecola da una parte può reagire con un
altro etilene glicole e dall’altra anche con un altro PET, e si dimostra quindi in grado di allargarsi in
entrambi i lati, producendo durante ogni reazione una molecola di alcool metilico. Le due molecole
saranno sempre alternate lungo la catena. Il primo passaggio è l’unione di due molecole a formare
un dimero. Questo tipo di polimerizzazione dà comunque origine a dei prodotti di reazione che
devono essere allontanati per aumentare la velocità di reazione. La polimerizzazione deve essere
condotta su coppie di composti, ciascuno dei quali deve avere due gruppi funzionali, uguali o diversi,
nella sua molecola. Ciascuno deve essere in grado di reagire con quelli dell’altro composto, in modo
da legarsi ad esso con contemporanea eliminazione di sottoprodotti di reazione.
Gli additivi presenti nei polimeri possono essere:
1. Riempitivi: sabbia, farina di legno, vetro, calcare, migliorano le caratteristiche meccaniche e
termiche;

86
2. Plastificanti: aumentano tenacità e duttilità andando ad aumentare la distanza intercatena e
causando una diminuzione dei legami secondari intermolecolari. Abbassano la temperatura di
transizione vetrosa;
3. Stabilizzanti: evitano il fenomeno di deterioramento causato dall’esposizione ai raggi ultravioletti,
che può rompere alcuni legami covalenti;
4. Coloranti: materiali di riempimento che non si sciolgono, ma formano una fase separata all’interno
dei legami;
5. Ritardanti di fiamma: servono a diminuire l’alta infiammabilità dei materiali polimerici;
Le plastiche sono dei materiali che presentano una certa rigidità strutturale sotto carico e si prestano ai più
svariati impieghi. Rientrano in questa categoria il polietilene, polipropilene, polivinilcloruro, polistirene,
fluorocarburi, resine epossidiche, poliesteri. I cristalli liquidi sono invece molecole di forma allungata, a forma
di barretta rigida che non ricadono in nessuna delle categorie tra cui amorfi, cristallini o semicristallini, ma
possono essere considerati come un nuovo stato della materia, lo stato liquido cristallino. Allo stato fuso si
possono ordinare secondo configurazioni ben orientate e una volta solidificati l’orientamento permane. Gli
schermi LCD sono impiegati cristalli liquidi di tipo colesterico che a temperatura ambiente si presentano
come liquidi fluidi, trasparenti e otticamente anisotropi. Gli schermi sono composti da due strati di vetro
all’interno dei quali è contenuto il materiale a cristalli liquidi. La superficie esterna di ogni vetro è rivestita da
una pellicola trasparente ed elettricamente conduttrice, mentre dalla parte in cui si vedono le immagini sono
impressi gli elementi che formeranno numeri e lettere. Se si applica una certa differenza di potenziale tra le
pellicole conduttive, si modifica l’orientamento dei cristalli liquidi e di conseguenza si mostrano le immagini.
Il comportamento meccanico di un polimero può essere molto diverso a seconda della tipologia a cui
appartiene. I materiali amorfi sono in genere molto fragili, mentre i materiali polimerici si comportano in
maniera piuttosto differenziata, dato che un polimero possiede in genere legami forti lungo la catena ma
anche legami deboli tra catena e catena. Dove la mobilità molecolare è elevata si hanno dei materiali duttili,
dove invece essa è impedita si hanno dei materiali fragili. In generale:
1. I termo-indurenti hanno un comportamento elastico fragile;
2. I termo-plastici hanno un comportamento elasto-plastico;
3. Gli elastomeri hanno un comportamento altamente elastico;
Le proprietà meccaniche risultano notevolmente influenzate sia dalla temperatura che dal peso molecolare
e dal grado di cristallinità: all’aumentare della temperatura aumenta la duttilità. Si possono distinguere tre
casi di deformazione:
1. Completa deformazione elastica: si ha unicamente variazione dell’angolo di legame. La catena viene
stirata, l’angolo varia ma essendo in campo elastico questa deformazione viene recuperata.
2. Le gomme hanno in condizioni di equilibrio una catena attorcigliata, che se sollecitata si allunga,
facendo allineare le catene e quindi perdendo entropia.
3. Deformazione plastica: le catene scivolano le une sulle altre e le deformazioni non sono più
recuperabili;
Se si analizza la curva sforzo-
deformazione per un materiale
semicristallino, all’inizio si ha un
comportamento elastico con
deformazione omogenea della sferulite.
Quando si arriva al punto di sforzo
massimo siamo al punto di
snervamento, in cui si forma la prima
strizione. Le sferuliti cominciano a
sfaldarsi e le catene ad allinearsi e la
strizione permette lo scorrimento delle

87
catene con un carico minore. Eventualmente poi, col progredire della strizione a tutto il provino, le catene
diventano quasi parallele e si impacchettano. Finito il tratto costante, i legami di van der Waals, ora più forti
tra le catene allineate, richiedono sforzi più alti per continuare il processo di deformazione, e la curva
riprende a crescere. SI arriva infine alla rottura del provino. Le sferuliti, una volta che si sono sfaldate, iniziano
a srotolarsi, allineandosi nella direzione dello sforzo e imprimendo al materiale una certa cristallinità che
porta ad una maggiore resistenza, è il meccanismo che sta alla base dello stiro a freddo, che può essere
utilizzato per ottenere delle fibre. Vi sono due meccanismi di deformazione per i materiali policristallini:
1. Scorrimento interlamellare: avviene nella parte amorfa del materiale, è una deformazione che nel
caso del polietilene a bassa densità riguarda solo il 10% di allungamento;
2. Scorrimento fibrillare: è lo scorrimento maggiore, che riguarda il movimento delle catene.
La tecnica dello stiro a freddo si basa sul peculiare comportamento plastico dei polimeri di tipo cristallino.
Infatti considerando la curva tensione-deformazione reale, possiamo scrivere che per ogni variazione
dell’area corrisponde una variazione della lunghezza tale da conservare il volume, cioè:
𝐴0 𝑙0 = 𝐴𝑙
Derivando si ottiene inoltre:
𝑑𝑙 𝑑𝐴
=
𝑙 𝐴
Quindi la deformazione reale in funzione del tempo, che coincide con la velocità di deformazione, può essere
scritta come:
𝑑𝜀 1 𝑑𝐴
=− = 𝑔𝜎 𝑚
𝑑𝑡 𝐴 𝑑𝑡
Per i polimeri termoplastici 𝑚 vale circa uno quindi si ottiene che la riduzione di area nel tempo non dipende
dalla sezione e quindi questi materiali possono essere stirati in forma di fili senza bisogno di utensili di trafila,
contrariamente a quanto succede per i materiali metallici. Procedimenti di stiro a freddo si applicano per
esempio a dei fili di Nylon. Le proprietà meccaniche variano a seconda del tipo di polimeri che incontriamo:
1. I polimeri termoplastici amorfi a temperatura minore della transizione vetrosa sono rigidi: mano a
mano che la temperatura sale, il modulo elastico decresce per poi abbassarsi drasticamente in
corrispondenza della transizione vetrosa. Al di sopra, si ha un rammollimento, cioè si raggiunge il
limite di capacità di sopportare carichi e si ha la perdita di stabilità dimensionale. In assenza di carichi
esterni mantengono la forma loro impressa per quasi tutto l’intervallo di transizione che si può
estendere anche fino a 50°C, ma dopo si comportano come liquidi viscosi. La deformazione avviene
per scorrimento di catena. A basse temperature hanno comportamento fragile, mentre ad alte
temperature si ha scorrimento;
2. I polimeri termoplastici semicristallini sopportano carichi a temperature maggiori della transizione
vetrosa, grazie alla presenza delle rigide zone cristalline ed alla loro interconnessione mediante
legami chimici con zone amorfe. Dopo si ha un dimezzamento del modulo elastico;
3. I polimeri reticolati conservano bene le caratteristiche meccaniche anche a temperature elevate,
non mostrando fenomeni di rammollimento e non presentando un limite ben definito per la stabilità
di forma. Alcuni presentano una transizione del modulo elastico, da mettere in relazione con
l’eccitamento dovuto alle vibrazioni di natura termica tra i legami trasversali.
4. Gli elastomeri hanno una forza di trazione che dipende dalla temperatura. Lo sforzo a
compressione risulta essere:
𝐹 1
𝜎 = = 𝐺 [𝜆 − 2 ]
𝐴 𝜆
Dove 𝐺 è il modulo elastico e 𝜆 il rapporto tra lunghezza reale e lunghezza iniziale.

I materiali polimerici esibiscono anche proprietà meccaniche dipendenti dal tempo. Lo sforzo e la
deformazione indotti quando viene applicato un carico sono quindi funzioni anche del tempo. Nella forma
più generale possibile, possiamo pensare ad un grafico tridimensionale le cui coordinate siano sforzo-
deformazione-tempo. Se si applica un carico lentamente, lo scorrimento delle catene avverrà facilmente; se
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si applica un carico molto rapidamente, lo scorrimento delle catene avverrà con maggiore difficoltà. Quando
un materiale plastico è soggetto all’azione di un carico costante, esso si deforma in maniera continua, fino a
giungere a rottura. La prima fase, quella in cui la velocità di trasformazione decresce con il tempo, è detta
creep primario, mentre il creep secondario si ha quando la velocità di deformazione è stazionaria. Il creep
terziario, invece, si ha quando il provino giunge a rottura, con una velocità di deformazione in aumento. Se
il carico applicato viene rimosso prima che il materiale giunga a rottura, si ha un immediato recupero della
deformazione elastica, seguito da un recupero più lento della deformazione subita. La prova di creep può
essere condotta fino a indurre la rottura del materiale, e una volta conosciuto il tempo necessario ad uno
sforzo per rompere un materiale si può tracciare una curva di sicurezza sotto al quale operare in maniera
sicura, costruita in maniera da raccordare i punti di inizio del creep terziario, entrati nel quale non si opera
più in modo sicuro. Anche la temperatura alla quale si verifica scorrimento viscoso di un materiale polimerico
è un fattore importante nel determinare la velocità di creep. A temperature al di sotto della temperatura di
transizione vetrosa, la velocità di creep è relativamente bassa a causa della limitata mobilità delle catene
molecolari. Al di sopra, i termoplastici si deformano con un comportamento detto viscoelastico, in cui le
catene molecolari scivolano le une sulle altre più facilmente. Il rilassamento degli sforzi è definito come la
graduale diminuzione dello sforzo sotto una deformazione imposta costante. Tale proprietà è misurata
imponendo ad un materiale polimerico una deformazione costante e misurando lo sforzo necessario per
mantenerla tale. Nel caso dei tappi delle bottiglie di plastica, con filettatura, è richiesto un basso valore di
rilassamento degli sforzi, che ha un decadimento esponenziale, dove 𝜏 è il tempo di rilassamento:
𝑡
𝜎 = 𝜎0 𝑒 −𝜏
Quando si utilizza in fase di progettazione un materiale plastico, si può richiedere o meno che possegga un
certo grado di resistenza oppure una certa rigidezza. La resistenza di un componente è fissata dal carico di
snervamento e dal carico di rottura del materiale di cui è fatto. Un grafico ci permette di determinare il
massimo livello di sforzo a cui può essere sottoposto per evitare una rottura a creep. La progettazione del
pezzo del quale pretendiamo una certa stabilità tridimensionale procede invece al contrario. Si stabilisce la
massima deformazione che possiamo accettare e lo sforzo che il materiale subisce, e otteniamo il valore
della massima aspettativa di vita del pezzo. Ci si riferisce al comportamento dei materiali dipendente dal
tempo come alla viscoelasticità. Se si applica un carico costante ad un materiale viscoelastico, la
deformazione che ne risulterà sarà dipendente dal tempo e dall’entità del carico applicato. Se la
deformazione è proporzionale allo sforzo applicato a parità di tempo di applicazione, si dice che il materiale
ha un comportamento viscoelastico lineare e il valore del coefficiente angolare è funzione del tempo di
applicazione del carico. Vale quindi la relazione:
𝜀1 (𝑡) 𝜀2 (𝑡)
=
𝜎1 (𝑡) 𝜎2 (𝑡)
Il coefficiente angolare prende il nome di cedevolezza e risulta essere il rapporto tra la deformazione e lo
sforzo. Nel corso degli anni sono stati presentati molti modelli teorici ed empirici per prevedere la
dipendenza della deformazione da creep da sforzo e temperatura per i materiali plastici. Uno dei modelli più
semplici è il modello di Kelvin-Voigt che consiste nella schematizzazione del comportamento del materiale
nel parallelo tra una molla elastica e uno smorzatore newtoniano: un materiale che si comporti in maniera
perfettamente elastica segue la legge di Hook, cioè lo sforzo è proporzionale alla deformazione attraverso
il modulo elastico:
𝜎 = 𝐸𝜀
Un materiale che si comporta in modo viscoso, invece, segue la legge di Newton, cioè lo sforzo applicato è
proporzionale non alla deformazione ma alla velocità di deformazione attraverso il coefficiente di viscosità:
𝑑𝜀
𝜎=𝜂
𝑑𝑡

89
Che significa che alle alte velocità di deformazione si avrà uno sforzo elevato e a basse velocità uno sforzo
esiguo. Basta pensare agli ammortizzatori: un ammortizzatore che è allungato lentamente fluisce con poco
sforzo, mentre se gli diamo un impulso lo sforzo risulta essere elevatissimo. Un materiale viscoelastico
assumerà un comportamento che sarà la somma di questi due effetti:
𝜎 = 𝐸𝜀 + 𝜂𝜀̇
Risolvendo questa equazione rispetto ad uno sforzo costante che parta dal tempo 𝑡 = 0 si ottiene la
seguente soluzione:
𝜎0 𝑡
𝜀(𝑡) = (1 − 𝑒 −𝜏 )
𝐸
Dove 𝜏 = 𝜂/𝐸. Il tempo 𝜏 è detto tempo di rilassamento ed è il tempo al quale la deformazione è pari al 63%
del suo valore massimo.
Materiali compositi
Sono materiali multifase ottenuti combinando attentamente due o più materiali di caratteristiche chimico-
fisiche diverse al fine di ottimizzare specifiche proprietà. La matrice è una fase continua che contiene l’altra
fase, detta fase dispersa. Le proprietà finali costitutive di questi materiali sono:
1. Le proprietà delle fasi costitutive;
2. Le quantità relative;
3. La geometria della fase dispersa (forma, distribuzione, orientamento, dimensione);
I compositi possono essere rinforzati con particelle in due metodi:
1. Rafforzamento con particelle di grandi dimensioni;
2. Rafforzamento per dispersione;
Per il primo tipo, un esempio classico è il già visto calcestruzzo, ma anche gli pneumatici rinforzati, a cui
viene aggiunto il 15%-30% di nerofumo. Per quanto riguarda i compositi rafforzati per dispersione, invece, il
blocco delle dislocazioni è meno efficiente dell’indurimento per precipitazione ma ha una maggiore stabilità
con la temperatura. Di solito vengono aggiunti ossidi, tipo quello di alluminio. Alcuni compositi possono
essere rafforzati con fibre, che conferiscono loro elevate resistenze meccaniche e rigidità. I compositi a fibre
allineate sono altamente anisotropi e il carico massimo è raggiunto nella direzione di allineamento delle
fibre. In direzione trasversale, invece, l’effetto di rinforzo è praticamente nullo, con carichi di rottura
tendenzialmente bassi. Si ha però la possibilità di formare strutture multistrato ottenute sovrapponendo
lamine di composti unidirezionali secondo orientazioni differenti. Per applicazioni con carichi
multidirezionali si impiegano spesso compositi con fibre discontinue, cioè casualmente orientate. Con
questi compositi si ottengono proprietà meccaniche isotrope, ma efficienze di rinforzo assai inferiori che
con i compositi a fibre unidirezionali allineate nella direzione longitudinale. Le caratteristiche delle fibre di
rinforzo si possono riassumere come:
1. Whiskers: cristalli esenti da difetti con resistenze meccaniche elevatissime;
2. Fibre: policistalli amorfi in matrici polimeriche o ceramiche, con diametri molto piccoli;
3. Fili: maggiori diametri, come i fili di rinforzo radiale in acciaio degli pneumatici;
Le matrici hanno le seguenti funzioni:
1. Sono leganti delle fibre e mezzi di trasmissione del carico alle fibre;
2. Buona duttilità e modulo elastico inferiore a quello delle fibre;
3. Protezione delle fibre dai danneggiamenti superficiali (abrasione) o reazioni con l’ambiente;
4. Separazione tra le fibre e la barriera alla propagazione della frattura;
Il legame adesivo interfacciale tra la matrice e le fibre è essenziale per massimizzare la trasmissione dello
sforzo dalla matrice debole alle fibre forti. I compositi a matrice polimerica possono essere:
1. PMC rinforzati con fibre di vetro (vetroresina): il vetro viene impiegato perché poco costoso,
facilmente estrudibile per aumentare la resistenza, chimicamente inerte con diversi polimeri.
Durante la filatura si impiega una apparato protettivo per poi rimuoverlo e sostituirlo con un agente

90
di accoppiamento per migliorare il legame tra fibra e matrice. Ha una scarsa rigidità e basse
temperature di esercizio, viene impiegato per parti di autovetture e imbarcazioni;
2. PMC rinforzati con fibre di carbonio: chimicamente inerti, processi di produzione economici e alte
resistenze specifiche. Si usano per attrezzature sportive, recipienti in pressione e parti di elicotteri;
3. PMC rinforzati con fibre aramidiche (kevlar, nomex): le fibre aramidiche sono costituite da poli
parafenilene tereftalammide con eccezionali rapporti resistenza/peso e capaci di mantenere le
proprietà meccaniche in un discreto range di temperature. Sono flessibili e duttili, si usano per
giubbotti anti-proiettili, attrezzature sportive, pneumatici, al posto dell’amianto nelle pasticche dei
freni;
4. Compositi a matrice metallica: si una una matrice metallica con leghe duttili, si può incrementare il
range delle temperature di esercizio e si usano per componenti meccaniche e motoristiche;
5. Compositi a matrice ceramica: i ceramici sono molto resistenti all’ossidazione ad elevata
temperatura ma hanno basse tenacità a frattura e il loro impiego è pertanto limitato. Si sfruttano
particolari metodi di tenacizzazione con ossidi di calcio e magnesio.

91
Inserto sulle autotensioni scritto dal prof. De Sanctis
2.5.1 _ GENERALITA’
Gli sforzi residui o autotensioni sono sforzi di trazione o di compressione presenti in un componente non
risultanti dall’applicazione di carichi esterni. Solitamente sono presenti in zone ben delimitate ed hanno il
loro massimo in superficie. Possono generarsi a causa di una deformazione plastica non omogenea che può
derivare, oltre che dall’applicazione di un carico, anche da una contrazione o dilatazione termica o da una
trasformazione di fase avvenuta durante il processo di produzione del componente. Essendo le autotensioni
di origine elastica, il loro limite naturale è il carico unitario di snervamento del materiale alla temperatura
considerata.
Un classico esempio è quello di una barretta sottoposta a flessione oltre il limite di snervamento (Fig. 2.29).
Sul lato esterno della barretta si ha una deformazione plastica di trazione, mentre su quello interno la
deformazione permanente è di compressione (b). Quando il carico applicato viene rimosso (c), il materiale
sottostante, deformato elasticamente, non riesce a rilassarsi completamente e genera un campo di sforzi di
compressione sulla superficie che era deformata plasticamente a trazione e un campo di sforzi a trazione si
genera su quella compressa plasticamente (d). Il sistema di sforzi residui presenti nel pezzo è sempre a
risultante nulla e garantisce comunque l’equilibrio statico del componente. Se l’equilibrio del componente
viene rotto, per esempio alterandone la geometria per mezzo dell’asportazione di uno strato di materiale, il
pezzo si deforma in modo da raggiungere una nuova situazione di equilibrio.
Quanto detto può essere esteso ai diversi casi pratici in cui un materiale è sottoposto a una deformazione
plastica, per esempio nella laminazione a freddo o estrusione/trafilatura, nelle lavorazioni per asportazione
di truciolo, nella pallinatura o nei trattamenti termici.
Oltre ai processi di deformazione plastica, possono indurre autotensioni i cicli termici imposti al
componente (ad esempio il rapido raffreddamento durante tempra o il ciclo termico durante saldatura) e le
trasformazioni di fase come quella martensitica negli acciai che, come noto, avvengono con aumento di
volume specifico

Fig. 2.29 – Sforzi residui che si sviluppano in una barretta sottoposta a flessione. Lo scarico è equivalente
all’applicazione di un momento uguale e opposto.

Gli stati autotensionali nel materiale si sommano pressocché algebricamente con le sollecitazioni indotte
dai carichi esterni. Stati autotensionali di compressione superficiale sono in generale favorevoli, in quanto si
oppongono a sollecitazioni di trazione trainanti nel cedimento meccanico (statico e di fatica) e corrosivo
(tensocorrosione).
Tuttavia, è buona norma sempre evitare di raggiungere moduli elevati delle autotensioni, perché in ragione
della geometria del pezzo e della possibile localizzazione delle stesse autotensioni, sono possibili
redistribuzioni di stress e deformazione nel materiale che si risolvono in variazioni dimensionali o addirittura
rotture improvvise.

2.5.2 - AUTOTENSIONI INDOTTE DA DEFORMAZIONE PLASTICA.

92
Si consideri il caso della laminazione a freddo di una lamiera spessa, vedi Fig.2. Se il rapporto di riduzione
non è troppo elevato, durante passaggio sotto i rulli le fibre più superficiali della lamiera subiscono
deformazioni plastiche a trazione di entità maggiore rispetto alle fibre più interne. Se idealmente si
dividesse la lamiera in tre zone distinte, le due regioni superficiali e il cuore centrale, la lunghezza delle fibre
a fine laminazione risulterebbe diversa: le regioni esterne sarebbero più lunghe e quella centrale più corta.
Tuttavia, la lamiera quando esce fuori dai rulli non ha alcuna discontinuità ed è tutt’una. Ciò significa che si
devono essere generati sforzi interni di compressione sulle due regioni più esterne e sforzi interni di trazione
nella regione centrale, in modo che i tre elementi possano di fatto risultare della stessa lunghezza. Il sistema
di autotensioni risultante sarà quindi di tensioni di compressione in superficie e tensioni di trazione a cuore.
Ciò che genera le autotensioni è quindi il diverso ritorno elastico delle fibre all’interno del materiale, cioè la
disomogeneità delle deformazioni plastiche nello spessore. Se idealmente il materiale si fosse deformato
plasticamente in modo omogeneo nello spessore, non si sarebbero originate autotensioni.
E’ utile osservare che, rispetto all’esempio precedente, se il rapporto di riduzione cresce sensibilmente, il
sistema risultante potrebbe invertirsi.
Si possono quindi distinguere due casi:
a) Rulli di diametro piccolo o riduzioni basse tendono a plasticizzare il metallo solo in superficie; questo
genera sforzi residui di compressione in superficie e sforzi di trazione a cuore (figura 2a).
b) Rulli di diametro maggiore e alte riduzioni tendono a deformare più il cuore che la superficie a causa del
vincolo rappresentato dall’attrito lungo l’arco di contatto. Questa situazione genera sforzi residui opposti al
caso precedente (figura 2b).
La situazione più comune di distribuzione degli sforzi residui nei laminati è rappresentata dal secondo caso,
con un massimo di trazione su entrambe le superfici e un massimo di compressione nel piano di simmetria.
.

Fig. 2.30 – Effetto del raggio dei rulli sul tipo di autotensioni nel processo di laminazione piana.

Quando la distribuzione è simmetrica rispetto alla linea centrale, gli sforzi residui sono in equilibrio e il
laminato non presenta nessuna tendenza a incurvarsi (fenomeno chiamato con i termini anglosassoni
“curling” o “coilset”), ma qualora questo equilibrio venga alterato, tagliando il materiale o rimuovendone
uno strato, il manufatto può assumere una nuova forma per garantire il bilancio della forze interne e quindi
esibire deformazioni.

93
Fig. 2.31 – Sforzi residui in una barra di acciaio trafilato: T= trasversale, R=radiale.

Un altro tra i processi in cui è comune riscontrare l’insorgere degli sforzi residui è la trafilatura. A causa della
deformazione plastica non omogenea, una barra o un tubo trafilati a freddo contengono sforzi residui.
Anche in questo caso, per riduzioni di diametro piccole, gli sforzi residui in superficie sono di compressione,
in caso contrario sono di trazione, vedi Fig. 2.31 e 2.32.

Nell’estrusione a freddo le deformazione plastica non omogenee nel volume generano sforzi residui. Lo
stato di sforzo dipende dal grado di deformazione diminuisce il valore assoluto(=ln Ai/Af). All’aumentare
di degli sforzi residui e quindi anche le differenze nella sezione.

94
Fig. 2.32 – Sforzi residui al variare della riduzione nella trafilatura di tondi in acciaio (riduzione = (h0 – h) / h0.

Anche nei processi di stampaggio a freddo il materiale è sottoposto a deformazioni non omogenee dovute
all’attrito tra stampo e pezzo: tali fenomeni generano sforzi residui e provocano il fenomeno di bulging del
pezzo.

Fig. 2.33 – Modello termomeccanico di Morrow, diversi strati di materiale.

Tensioni residue superficiali si generano anche durante le lavorazioni per asportazione di truciolo, in cui il
materiale subisce elevate deformazioni plastiche. Gli sforzi residui dipendono sia dai parametri di
lavorazione che dalle caratteristiche del materiale. Il modello termomeccanico di Morrow considera il
materiale sottoposto a lavorazione diviso in tre strati (Fig. 2.33). Un primo strato (S) in superficie, in cui il
materiale subisce sia un effetto termico che un effetto meccanico, per cui la deformazione totale è pari alla
somma delle deformazioni elastica, plastica e termica. Un secondo strato (D) interessa la zona
subsuperficiale; in esso si ha solo un effetto meccanico e la deformazione è pari alla somma di deformazione
elastica e plastica. Infine il resto del materiale (B) che non risente né dell’effetto meccanico né di quello
termico. Gli sforzi residui che si misurano in pezzi lavorati per asportazione di truciolo presentano,
solitamente, un andamento simile a quello di figura 5. Nello strato superficiale prevale l’effetto termico che
comporta sforzi residui di trazione, mentre nella zona subsuperficiale (D) si misurano sforzi residui di
compressione dovuti all’effetto meccanico, vedi Fig. 2.34.

Fig. 2.34 – Andamento degli sforzi residui nel materiale lavorato con asportazione di truciolo. L’andamento
della linea a punti rappresenta l’andamento degli sforzi in presenza di solo effetto meccanico.
95
Stati autotensionali compressione si generano invece nei processi di pallinatura, dove biglie di materiale
molto duro e di dimensioni diverse viene sparato ad alta velocità contro la superficie metallica deformandola
plasticamente a trazione. Tale deformazione è contrastata dalla rigidezza delle regioni più a cuore del pezzo,
risultando così uno strato posto in compressione in superficie. In ragione dell’intensità del trattamento
(misurata in Almen) si inducono tensioni di compressione anche di diverse centinaia di MPa per spessori
intorno a 0-2-0.4 mm.

2.5.3 - AUTOTENSIONI DI ORIGINE TERMICA.


L’imposizione di cicli termici drastici può comportare la genesi di stati tensionali all’interno del componente.
Si supponga di raffreddare un cilindro metallico da alta temperatura mediante un getto d’acqua, vedi Fig.
35a. La superficie esterna e il cuore del cilindro si raffredderanno a velocità diverse, come ad esempio
rappresentato dalle diverse curve temperatura-tempo schematizzate in Fig. 35b. Si consideri adesso lo stato
autotensionale al tempo t1: La superficie si è contratta per la diminuzione di temperatura, mentre il cuore è
ancora caldo ed alla dimensione iniziale. Le regioni superficiali saranno quindi poste in trazione, mentre
quelle più interne in compressione, vedi Fig. 35c. All’istante t2, la superficie è già fredda, mentre il cuore inizia
a contrarsi: la situazione autotensionale si ribalterà rispetto all’istante t1 e la superficie verrà posta in
compressione come mostrato in Fig. 35d. Occorre osservare che il modulo delle autotensioni finali può
aumentare in modo considerevole soprattutto durante le fasi finali del raffreddamento, in ragione
dell’incremento del carico di snervamento del materiale al decremento di temperature.
Cicli termici drastici, come ad esempio durante tempra degli acciai o durante operazione di saldatura, si
risolvono sempre nella genesi di stati autotensionali.

Fig. 2.35 – Genesi delle autotensioni nel corso di un raffreddamento rapito da alta temperatura.

2.5.4 - AUTOTENSIONI DA TRASFORMAZIONE DI FASE.


La trasformazione martensitica negli acciai dalla fase gamma alla fase tetragonale corpo centrato della
martensite avviene con aumento di volume, proporzionale al contenuto di carbonio dell’austenite di
partenza (fino al 3%). In campioni spessi, in ragione dell’applicazione di cicli termici drastici, si può verificare
un ritardo sensibile nei tempi di trasformazione martensitica tra superficie e cuore. Come mostrato in Fig.
2.36a, al tempo t1, quando la superficie subisce trasformazione e si espande, si avrà uno stato di
compressione in superficie e trazione a cuore, Fig. 2.36 b. Al tempo t2, quando si trasforma il cuore, la
superficie verrà tendenzialmente posta in trazione, vedi Fig. 2.36 c. Nel processo di tempra a cuore di un
componente, pertanto, il sistema autotensionale finale deriverà dal bilanciamento tra autotensioni termiche
96
(di compressione) e autotensioni fasiche (di trazione). Potendo essere quest’ultime anche di modulo
elevato, è buona norma scegliere il mezzo temprante meno drastico possibile in relazione alla penetraziona
di tempra desiderata.

Fig. 2.36 – Genesi delle autotensioni da trasformazione di fase nella tempra a cuore di un componente in
acciaio al carbonio.
Dall’insieme di queste considerazioni, appare chiaro che l’operazione di tempra superficiale su componenti
carbocementati induce tendenzialmente stati autotensionali favorevoli di compressione (le regioni più a
cuore non si trasformano e si espande solo la superficie) e le tempre martensitiche laser inducono
tendenzialmente autotensioni sfavorevoli di trazione superficiale (il flusso termico è diretto verso l’interno
del materiale).

97
Domande possibili all’orale:
Alluminio e le sue leghe

L’alluminio è un materiale molto importante, dato che è caratterizzato da alcune proprietà significative,
come il basso peso specifico che risulta essere addirittura un terzo rispetto a quello di un acciaio, un’elevata
resistenza alla corrosione grazie alla sua capacità di formare un film di ossido che gli conferisce un
comportamento passivo in ambienti aggressivi, un’alta conducibilità termica ed elettrica, una eccellente
plasticità, duttilità e malleabilità. E’ inoltre un materiale che risulta atossico. Le leghe formate a partire da
questo materiale risultano avere una bassa temperatura di fusione, una grande conducibilità termo-elettrica
e un grande contenuto in alluminio che arriva anche al 96% in peso. Il sistema di designazione dell’alluminio
“all’americana” prevede un codice numerico che indica il principale elemento di lega, in una configurazione
𝑛𝑥𝑥𝑥, dove il valore 1 corrisponde all’alluminio puro, il valore 2 corrisponde all’elemento di lega rame
(alluminio avional, il valore 3 al manganese, il 4 al silicio, il 5 al magnesio (peraluman), il 6 al magnesio e silicio
(anticorodal), il 7 allo zinco (ergal). Le leghe di alluminio possono essere destinate alla lavorazione plastica o
alla fonderia: quelle da lavorazione plastica si ottengono mediante un colaggio a caldo seguito da una
lavorazione plastica a caldo e un trattamento termico adeguato, mentre quelle da fonderia si ottengono per
getto in sabbia, getto in conchiglia o getto pressofuso. Le leghe di alluminio possono essere soggette ad un
trattamento termico di indurimento per precipitazione, che migliora la durezza e la resistenza del materiale.
Condizione necessaria affinché si possa ottenere un trattamento di indurimento per precipitazione sono
un’ottima solubilità, in particolare che deve decrescere in senso solidale alla temperatura. Questo
trattamento consta di due fasi, una di solubilizzazione, seguita da una tempra e da un successivo
invecchiamento articificiale, in cui si porta il materiale ad una temperatura in cui varia il prodotto di solubilità
in maniera tale da ottenere dei precipitati coerenti che si dispongono sui bordi del grano e ostacolano i
movimenti delle dislocazioni. C’è da prestare attenzione, comunque, alla fase di invecchiamento in quanto
da una soluzione solida sovrassatura, all’aumentare del tempo di invecchiamento, aumenta la precipitazione
di atomi di rame spessi qualche passo reticolare che formano prima una fase solida 𝜃′′ in cui il reticolo è
distorto e poi altre fasi solide 𝜃′ e 𝜃 in cui si torna a raggiungere l’equilibrio attorno alla matrice di fase 𝛼
perdendo i vantaggi della deformazione reticolare e dando luogo al sovrainvecchiamento. La temperatura
può modificare il meccanismo di aumento della resistenza, in quanto maggiori temperature accelerano il
meccanismo di rinforzamento resistenziale.

Rame e leghe di rame

Il rame e le sue leghe possiedono una combinazione favorevole di proprietà fisiche. Il rame non legato è
tenero, duttile e difficile da lavorare alle macchine utensili, ma può essere deformato a freddo in modo
illimitato. Resiste bene alla corrosione in numerosi ambienti come quello atmosferico e quello marino. Le
proprietà resistenziali possono, come sempre, essere migliorate tramite l’alligazione. La maggior parte delle
leghe di rame, però, non può essere indurita o rafforzata per trattamento termico, pertanto per migliorarla
bisogna sottoporle ad incrudimento o all’alligazione in soluzione solida. Vengono fatte delle aggiunte
mirate, tra cui:
FOSFORO Riduce l’infragilimento da idrogeno
ARSENICO Migliora il carico a rottura a temperature elevate
TELLURIO Migliora la lavorabilità
BERILLIO Migliora la trattabilità ad alte temperature
Le leghe di rame più comuni sono:
1. Gli ottoni, che contengono mediamente dal 10% al 45% di zinco. Dal diagramma di fase rame-zinco
si osserva che la fase 𝛼 è stabile fino al 35% in peso di zinco ed è una fase che ha una struttura
cristallina cubica a facce centrate e gli ottoni 𝛼 sono pertanto teneri, duttili e facilmente lavorabili a
freddo. Questi ottoni, che hanno una composizione fino al 20% in zinco, sono detti ottoni
98
monofasici rossi e sono immuni ai problemi
di dezincificazione e season cracking. Gli
ottoni in campo alfa con un tenore di zinco
dal 20% al 36% sono detti ottoni monofasici
gialli e sono soggetti ai problemi di cui si
parlava sopra: problemi che vengono risolti
grazie a delle piccole aggiunte di stagno o di
alluminio. Si può aggiungere anche un po’ di
piombo per migliorare l’asportazione di
truciolo alle macchine utensili. Gli ottoni
aventi un tenore più alto di zinco, invece,
contengono a temperatura ambiente sia le
fasi 𝛼 che 𝛽′ e sono detti ottoni binari. La
fase 𝛽′ ha una struttura cristallina cubica a corpo centrato ed è più dura e resistente dell’altra: di
conseguenza, le leghe rame-zinco in queste composizioni sono generalmente lavorate a caldo
invece che a freddo. Gli ottoni più comuni sono gialli e si usano per cartucce, gioielli, radiatori di
auto, strumenti musicali e monete.
2. I bronzi sono leghe di rame con numerosi altri elementi, come lo stagno, l’alluminio, il nichel e il
silicio. Queste leghe hanno una resistenza meccanica migliore degli ottoni e sono più resistenti di
corrosione. Generalmente, si usano queste leghe quando oltre ad una buona resistenza alla
corrosione si vuole un’ottima resistenza alla trazione. I bronzi al fosforo, ad esempio, contengono
dall’1% al 12% di stagno e mostrano caratteristiche di resistenza all’usura e di opposizione al
bifouling, ossia l’accumulo di particolato di microrganismi sulla superficie di un materiale. I bronzi al
silicio, il cui tenore di silicio varia dall’1,5% al 3%, vengono alligati anche con ferro, manganese, zinco
o stagno in quantità tra lo 0,25% e l’1,25% e mostrano caratteristiche meccaniche e resistenza a
corrosione buone che migliorano con la quantità di elementi di lega, mentre decresce la lavorabililtà.
Si usano per scambiatori e parti di valvole e pompe. I bronzi all’alluminio sono leghe rame-alluminio
che resistono molto bene all’usura, all’ossidazione a caldo e alla corrosione, grazie alla formazione
superficiale di un sottile strato di allumina che anche se asportato, si riforma quasi istantaneamente.
Il cupronichel è una lega destinata ad applicazioni speciali, in cui la resistenza a corrosione è
apprezzatissima soprattutto ina ambiente marino, anche evitando l'erosione-corrosione. Per tenori
di nichel superiori al 20% hanno un colore grigio tipico delle monete da 1 o 2 euro. I cuproallumini,
invece, si usano per serbatoi o recipienti a contatto con soluzioni acide o saline, per tubi e piastre di
scambiatori e condensatori. I bronzi al manganese esibiscono una grande resistenza a corrosione e
alla cavitazione, tanto da essere usati nelle eliche delle navi.

Fattori che influenzano la resistenza a fatica di un materiale

La fatica è un tipo di cedimento che interessa strutture sottoposte a sforzi dinamici e fluttuanti, grazie ai
quali è possibile che il fenomeno di rottura si manifesti a livelli di sforzo considerevolmente minori rispetto
al carico di rottura proprio del materiale. Il meccanismo di frattura è simile a quello che descrive la frattura
fragile, con un innesco e una rapida e asintomatica propagazione della cricca fino a giungere a rottura, ma
si manifesta dopo un certo intervallo di tempo più o meno lungo nel quale il materiale è stato sottoposto ad
un carico ciclico. Le proprietà di fatica di un materiale si possono leggere dalla cosiddetta curva “S-N”, che
mette in relazione il logaritmo del numero di cicli temporali sulle ascisse con lo sforzo sopportato, sulle
ordinate. Per alcune leghe di ferro e di titanio la curva presenta un asintoto orizzontale detto limite di fatica,
al di sotto del quale la rottura per fatica non avviene, e che rappresenta il valore più grande di sforzo
fluttuante che non causerà rottura per un numero pressoché infinito di cicli; per la maggior parte delle leghe,
99
comunque, la curva prosegue nel suo andamento decrescente all’aumentare del numero dei cicli, e si avrà
sempre una condizione di fatica. La risposta che un materiale offre alla fatica è detta resistenza a fatica ed è
il livello di sforzo in cui si ha rottura ad un numero definito di cicli: aumentando la resistenza di a fatica e
sottoponendo un materiale per una stessa durata temporale, questo si romperà quindi ad uno sforzo
maggiore. I fattori che influenzano la vita a fatica possono essere di vario tipo, tra i quali ricordiamo:
1. Lo sforzo medio, per cui a sforzi maggiori diminuirà la vita a fatica di un componente;
2. Gli effetti di superficie, tra cui:
a. I fattori di progetto, che comprendono tutte le sfaccettature che può avere la forma
geometrica del pezzo, tra cui spigoli appuntiti, incavi per chiavette, filettature, raccordi sulle
variazioni del diametro di alberi, fori che possono avere la funzione di intensificatore di sforzi
oppure riguardanti la finitura superficiale, infatti è più semplice innescare una cricca su una
superficie rugosa;
b. I trattamenti superficiali, che consistono nell’introduzione da parte delle macchine utensili
in fase di lavorazione di piccoli graffi e intagli che possono limitare la vita a fatica. Uno dei
metodi più efficaci per aumentare la resistenza a fatica è indurre una tensione residua di
compressione in modo tale da annullare, o almeno ridurre di intensità uno sforzo agente
dall’esterno, riducendo la probabilità di scalfitture e propagazione di microcricche. Questa
si ottiene tramite un trattamento detto pallinatura, che consiste nell’introdurre sforzi
meccanici di compressione sulla superficie del materiale ad una profondità tra mezzo
decimo di millimetro e un decimo di millimetro mediante una deformazione plastica
localizzata ottenuta con la proiezione di piccole sfere dure, ad alta velocità, sulla superficie
da trattare. La cementazione, invece, è un altro trattamento che può aumentare la vita a
fatica, ma anche la durezza superficiale ad esempio di un acciaio. Si tratta di un processo di
carburazione o di nitrurazione, in cui il componente viene immerso in un’atmosfera ad alta
temperatura ricca di carbonio o azoto, e per effetto della diffusione degli atomi della fase
gassosa, si ottiene uno strato superficiale cementato che è più duro rispetto al cuore del
pezzo. Per ottenere la cementazione si parte dall’equazione di Fick:
𝐶𝑥 − 𝐶0 𝑥
= 1 − erf ( )
𝐶𝑠 − 𝐶0 2√𝐷𝑡
In cui si conosce il tenore di carbonio iniziale 𝐶0 , e si stabilisce il tenore di carbonio
superficiale 𝐶𝑠 e il tenore di carbonio 𝐶𝑥 ad una data profondità arbitraria 𝑥. A questo punto
si ricava il membro di sinistra e si effettua un’interpolazione lineare per calcolare il valore
dell’argomento della funzione d’errore gaussiana. Si devono conoscere inoltre il coefficiente
di attivazione 𝑄𝑑 e il coefficiente di diffusione 𝐷0, per usare la relazione:
𝑄𝑑
𝐷 = 𝐷0 𝑒 −𝑅𝑇
A questo punto avremo una costante ottenuta per interpolazione che sarà uguale a:
𝑄𝑑
2√𝐷0 𝑒 −𝑅𝑇 ∙ 𝑡 ∙ 𝑐𝑜𝑠𝑡 = 𝑥
Da cui si ricavano quindi il tempo e la temperatura di esposizione necessari.

Cos'è il fattore di impacchettamento atomico e provare a calcolarlo per il cfc


Il fattore di impacchettamento atomico è il rapporto tra il volume di atomi contenuti in una cella unitaria e il
volume totale della cella unitaria. Nella configurazione atomica cubica a facce centrate gli atomi sono tutti
in contatto tra di loro e si toccano lungo la diagonale principale di una faccia del cubo. Se un atomo ha raggio
𝑟, la diagonale principale, formata da 2 mezzi atomi e 1 atomo intero avrà lunghezza 4𝑟, mentre il lato del
cubo sia detto 𝑎. Vale allora per il teorema di Pitagora: 2𝑎2 = 16𝑟 2 , quindi 𝑎 = 2√2 𝑟. A questo punto il
volume della cella unitaria può essere calcolato come 𝑎3 = 16√2 𝑟 3 , mentre il volume degli atomi può

100
essere calcolato considerandole sfere di raggio 𝑟 e dato che il numero di coordinazione per il reticolo cubico
a facce centrate è 4, scriveremo:
4 16 3
𝑉𝑐 = 4 ∙ ( 𝜋𝑟 3 ) = 𝜋𝑟
3 3
Eseguendo il rapporto tra i volumi si ottiene il fattore di compattazione atomica:
𝑉𝑠 16√2 𝑟 3
FCA = = = 0,74
𝑉𝑐 16/3𝜋𝑟 3

Fenomeno dell'incrudimento

L’incrudimento è un fenomeno metallurgico per il quale un materiale metallico sottoposto ad una


deformazione a freddo ne risulta rafforzato. Nei solidi metallici le deformazioni plastiche sono
generalmente causate, a livello microscopico, da difetti del reticolo chiamati dislocazioni, che facilitano lo
scorrimento dei piani cristallini muovendosi attraverso il materiale. A bassa temperatura questi difetti
tendono a moltiplicarsi e ad accumularsi quando il materiale viene lavorato (ad esempio a causa del
meccanismo di Frank-Read), finendo per interferire tra loro, bloccandosi a vicenda, incrementando i difetti
puntiformi ed aumentando quindi la resistenza meccanica. Un meccanismo di deformazione plastica
aumenta quindi la densità delle dislocazioni, che sono messe in relazione con lo sforzo di trazione mediante
la relazione:
𝜎𝐼 = 𝐾 √𝜌
Che inserito nella equazione di Hall-Petch, tenendo costanti sia le dimensioni dei grani sia tutte le altre
variabili, si ottiene:
𝜎𝑠 = 𝐴 + 𝜎𝐼
Quindi, all’aumentare dell’indurimento per incrudimento aumenta anche il carico di snervamento e quindi
la resistenza del materiale, dato che per ottenere un certo grado di deformazione plastica, sarà necessario
uno sforzo maggiore per un materiale incrudito. C’è da dire comunque che il fenomeno dell’incrudimento di
manifesta, collocandolo nel diagramma sforzo-deformazione, nella zona delle deformazioni plastiche: dopo
ogni deformazione plastica quindi il carico di snervamento aumenta sempre, fino a giungere alla rottura. Per
rompere un sottile filo di ferro basta deformarlo più volte: in questo modo il carico di snervamento va a
coincidere col carico a rottura grazie al fenomeno dell’incrudimento.

Pitting e PREN

Il pitting è una forma di corrosione localizzata che intacca la superficie di film di ossido passivante che si era
in precedenza formata sulla superficie del metallo da proteggere grazie a delle aggiunte di alcuni elementi
passivanti come alluminio, nichel, rame, titanio. Questi elementi, al contrario di quello che si potrebbe
pensare interpretando alla lettera la funzione del cromo nei cosiddetti “acciai inossidabili”, hanno un elevato
grado di affinità con l’ossigeno, e quindi sono ossidabilissimi, ma la loro particolarità è quella di non formare
un deposito di materiale a causa del superamento del prodotto di solubilità dovuto al meccanismo di
riduzione/ossidazione anodica e catodica da parte degli ioni metallici che vanno in solvatazione cedendo
elettroni e di elementi polarizzatori che acquistano elettroni, riducendosi, ma di formarlo direttamente in
concomitanza con questo processo, formando un film non per deposito o accumulazione sulla superficie
come potrebbe essere la classica ruggine o ematite rossa. Il film che ne consegue è estremamente più sottile,
ma è anche più omogeneo e riesce quindi, in condizioni di passività, ad essere protettivo per il metallo
sottostante. Non sempre però succede che questo film sia omogeneamente distribuito, dato che potrebbero
esserci micro-regioni in cui il film passivo è più debole, in prossimità di microinclusioni o di bande di
scorrimento. Laddove il film è lacerato, l’ambiente aggressivo raggiunge direttamente il metallo e l’area
scoperta diviene anodica rispetto al resto della pellicola dando luogo ad un rapporto tra la superficie anodica

101
e catodica esageratamente grande che implica un’elevata velocità di corrosione. Segue una fase di
propagazione, in cui si instaura una coppia galvanica tra le aree interne al pit e quelle esterne, come nella
situazione della goccia su una lastra di acciaio, in cui la corrosione avviene in maniera localizzata grazie allo
scarso rifornimento di ossigeno al centro, che diviene ancora più anodico. In questo modo il processo è auto-
stimolante. Il fenomeno di pitting avviene di solito in condizioni di lavoro che consistono in ambienti troppo
poco ossidanti, o troppo ossidanti in condizioni di trans-passività. Gli ioni alogenuri, come cloruri, inoltre,
tendono ad abbassare il potenziale di innesco pitting favorendo l’attacco aggressivo da parte dell’ambiente.
Anche la temperatura o l’acidità dell’ambiente esterno hanno una forte influenza, dato che in entrambi i casi
aumenta la solubilità degli ossidi superficiali passivanti. La resistenza a pitting è legata quindi all’abilità di
formare e mantenere stabile e compatto un certo film passivante. Una comparazione qualitativa si può
ottenere con il Pitting Resistance Equivalent Number, che si calcola:
𝑎𝑢𝑠𝑡 𝑑𝑢𝑝𝑙𝑒𝑥
PREN𝑖𝑛𝑜𝑥 = %𝐶𝑟 + 3,3%𝑀𝑜 + 16%𝑁 PREN𝑖𝑛𝑜𝑥 = %𝐶𝑟 + 3,3%𝑀𝑜 + 30%𝑁

Caratteristiche dei vetri

I vetri appartengono alla categoria dei materiali ceramici amorfi, in particolare dei silicati amorfi. Questi
sono anche detti vetri sodio-silicati e hanno la particolarità di non possedere un certo reticolo cristallino
esteso nelle tre dimensioni spaziali, ma di avere una natura completamente amorfa, con legami covalenti
tra atomi di silice e ossigeno che possono essere intervallati qua e là da alcuni elementi detti modificatori di
reticolo come l’ossido di calcio o l’ossido di alluminio che hanno la funzione di distorcere il reticolo di partenza
o da elementi intermediari, come ossido di titanio o di niobio, che hanno la funzione, invece, di stabilizzare il
reticolo. Facendo parte dei ceramici non cristallini, i vetri presentano un comportamento viscoso in relazione
al loro modo di reagire ad una deformazione plastica: se un materiale cristallino si deforma in virtù del moto
delle dislocazioni che distorcono il reticolo in regioni localizzate e provocano uno scorrimento di una
distanza interatomica dei piani atomici, i materiali viscosi reagiscono alle deformazioni plastiche un po’
come fa un liquido nel prendere la forma del recipiente in cui è stato versato. La misura della resistenza che
un materiale non cristallino offre alle deformazioni plastiche è la viscosità, che si misura, nel caso di sforzo
uniassiale, come rapporto tra lo sforzo di taglio e un parametro che dipende dalla velocità di scorrimento
viscoso e dall’altezza delle pareti di scorrimento. Un materiale cristallino ha come caratteristica quella di
presentare un brusco decadimento del volume specifico al diminuire della temperatura, mentre la curva che
rappresenta un materiale non cristallino, come nel caso del vetro, è meno marcata e piuttosto che un punto
di discontinuità a salto presenta un punto angolo, in corrispondenza del quale si può leggere la coordinata
della temperatura di transizione vetrosa, cioè quella temperatura che fa da discriminante tra un materiale
sotto forma di vetro, o di liquido sotto-raffreddato. La viscosità per un vetro si può ottenere da una relazione
di tipo esponenziale che mette in relazione un’energia di attivazione e la temperatura:
𝑄
𝜂 = 𝜂0 𝑒 −𝑅𝑇
In cui si vede che la viscosità, ovvero la resistenza che un materiale offre alla deformazione, aumenta al
diminuire della temperatura. Si può diagrammare la viscosità misura in Poise con la temperatura in gradi
Celsius, ottenendo una curva sulla quale, a diversi valori di viscosità, si fanno corrispondere dei valori
fondamentali per quanto riguarda la fisionomia di un vetro, come il punto di fusione, la soglia di lavorabilità,
il punto di rammollimento, il punto di ricottura e la soglia di deformazione. Il punto di rammollimento, in
particolare, rappresenta la massima temperatura alla quale un vetro può essere maneggiato senza causare
significative alterazioni dimensionali, mentre al di sotto della soglia di deformazione si ha frattura prima
ancora della deformazione plastica. L’aggiunta di elementi di lega insieme all’impasto di silice hanno la
funzione di diminuire la temperatura di transizione vetrosa, nonché il punto di rammollimento:
praticamente, la diminuzione del tenore di silice sposta le curve viscosità-temperatura verso temperature
minori, a sinistra. Si possono distinguere alcune categorie di vetri, tra cui:

102
1. I vetri sodio-calcici, che sono quelli più comuni impiegati nelle pratiche quotidiane, che hanno
aggiunte di ossido di sodio e ossido di calcio che stabilizzano il reticolo e quindi diminuiscono il punto
di rammollimento, migliorando la lavorabilità;
2. I vetri al borosilicato, in cui l’ossido di boro sostituisce gli ossidi alcalini indebolendo la struttura e
abbassando considerevolmente il punto di rammollimento. Questi tipi di vetri, detti vetri Pyrex,
esibiscono una grandissima resistenza allo shock termico e non si graffiano;
3. I vetri al piombo contengono ossido di piombo e sono bassofondenti, fornendo un’ottima affinità
con le saldature, i vetri a tenuta, e proteggono bene dalle radiazioni, sono quelli usati per le
lampadine o i televisori;

Ghise

Le ghise sono materiali leghe di ferro e carbonio che contengono un tenore di carbonio superiore al 2,11% e
comunque inferiore al 6,7% anche se in pratica non superano quasi mai il 4,5%. Le ghise sono caratterizzate
da una durezza altissima che va a coincidere quasi sempre anche son un allungamento percentuale molto
ridotto: sono inoltre ottimi smorzatori delle onde sonore rispetto agli acciai ed hanno un elevato grado di
colabilità, che garantisce loro un buon grado di formabilità per svariati impieghi. Sono inoltre più
altofondenti degli acciai e si ottengono senza affinare la carica dell’altoforno al convertitore. Anche le ghise
possono essere lette interfacciandosi al diagramma ferro-cementite, che presenta un punto eutettico al
4,3% di carbonio e quindi possono esistere, come per gli acciai, anche ghise di tipo ipo-eutettico o iper-
eutettico. Le ghise sfruttano lo stato metastabile della cementite, che è in grado di trasformarsi sotto
l’azione di elementi grafitizzanti come il silicio, in grafite e ferrite. Un ruolo importante è giocato dalla
temperatura di raffreddamento, in quanto basse velocità di raffreddamento implicano più tempo dedicato
alla diffusione e quindi una maggior formazione di grafite. Le ghise si dividono in:
1. Ghise bianche, con un basso contenuto di silicio e velocità di raffreddamento elevate che
comportano una piccola formazione di grafite immersa in una matrice di cementite che ne
conferisce il colore chiaro. E’ un materiale estremamente duttile e fragile, utile per le applicazioni
che necessitino di un grande grado di resistenza a usura, come cilindri per laminatoi.
2. Ghise grigie, in cui il contenuto di silicio è tra l’1 e il 3% e il carbonio residuo si trova sotto forma di
grani a forma di “corn-flakes”, che sono circondati da una matrice perlitica o ferritica. I fiocchi di
carbonio possono fungere da intensificatori degli sforzi e sono quindi poco duttili, ma hanno una
buona colabilità e dissipazione vibrazionale;
3. Le ghise sferoidali si ottengono aggiungendo piccole quantità di manganese o cerio alla
composizione di una ghisa grigia per ottenere noduli o particelle sferoidali di grafite circondate da
una matrice ferritica o perlitica a seconda del raffreddamento lento o moderato. Sono le ghise che
più si avvicinano alle proprietà meccaniche degli acciai;
4. Le ghise malleabili si ottengono dalle ghise bianche per riscaldamento e mantenimento a
temperature di 800-900°C per indurre decomposizione della cementite in grafite, che risulta
disposta a rosette in una matrice ferritica o perlitica a seconda della velocità di raffreddamento lenta
o rapida, si usano per bielle e ingranaggi.
5. Le ghise vermicolari, invece, hanno la grafite in forma compattata, sono usate nei motori diesel e
nelle scatole del cambio dato che migliorano la resistenza allo shock termico e alla conduttività
termica;

Tensocorrosione

La tensocorrosione è un fenomeno di corrosione dovuto all’azione in sinergia di uno sforzo di carico costante
e all’attacco aggressivo dell’ambiente esterno. Uno sforzo può generare il cosiddetto effetto intaglio, per
cui in prossimità di un intaglio dovuto a lavorazioni a freddo o provocato da tensioni di natura termica, si può
103
assistere ad una intensificazione degli sforzi che potrebbe generare uno sforzo indotto maggiore dello
sforzo critico, per cui si avrebbe la propagazione della microcricca a tutto il materiale. Inoltre la corrosione
favorisce questo processo, dato che grazie al fenomeno della corrosione localizzata può andare ad aggredire
il materiale formando dei piccoli intagli dovuti all’ossidazione anodica. Inoltre è più facile per l’ambiente
esterno aggredire un punto in cui è già presente un difetto, e aumentare le dimensioni di questo difetto
grazie all’elevata velocità di corrosione dovuta al grande rapporto tra superficie anodica e superficie
catodica. In un punto di difetto, inoltre, risulta anche più difficile il rifornimento di ossigeno da parte della
zona catodica, che si allarga sui bordi della superficie concentrando sempre più puntualmente la zona
anodica. L’azione combinata di sforzo e corrosione può allora portare ad una relativamente rapida
propagazione di una microcricca, che può giungere a coalescenza con altre cricche e portare a rotture
catastrofiche, come nel caso del ponte Silver Bridge sul fiume Ohio, che nel 1967 cedette uccidendo una
cinquantina di persone grazie ad un fenomeno tensocorrosivo sulle strutture di sospensione delle travi.

Autotensioni e cause

Le autotensioni sono sforzi di trazione o compressione presenti in un componente senza l’applicazione di un


carico esterno. Tali tensioni residue si comportano in maniera algebrica andandosi a sommare agli sforzi
esterni al momento della loro applicazione, e a volte possono essere favorevoli tanto da essere indotte
artificialmente. Possono essere di natura termica, come nel processo della tempra, in cui si introducono
gradienti di temperatura cuore-superficie che risultano essere di compressione quelle in superficie e in
trazione quelle al cuore in maniera tale da “richiamare” la superficie verso l’interno, oppure di natura
plastica, come quelle generate dall’incrudimento o da un trattamento di pallinatura, o ancora di natura
termica intesa come cambiamento di fase, in quanto la carbocementazione ad esempio introduce stati
autotensionali di compressione favorevoli

Trasformazioni di fase
Le trasformazioni di fase sono processi di natura chimico-fisica che implicano la trasformazione di un
sistema da uno stato di aggregazione a un altro. Le più famose trasformazioni di fase sono l’eutettica, che
trasforma una sostanza liquida in due fasi solide divere, l’eutettoidica che trasforma una fase solida in altre
due fasi solide diverse o la peritettica che trasforma una fase solida in una regione bifasica liquida e costituita
da un’altra fase solida diversa dalla prima.

Processo di tempra
Il processo di tempra è un particolare trattamento termico da eseguire ad esempio, negli acciai per ottenere
martensite, o nei vetri per ottenere vetri temprati. Questo trattamento consiste nel riscaldamento del
materiale ad una temperatura di una trentina di gradi superiore alla linea A3 per un materiale ipo-
eutettoidico e nel successivo raffreddamento veloce fino a temperatura ambiente, stando attenti a
mantenere una velocità di raffreddamento che deve essere comunque superiore rispetto alla velocità critica
di raffreddamento, altrimenti non si avrebbe tempra martensitica, ma si formerebbe, ad esempio, bainite.
Il limite di temprabilità è tra 0,25% in carbonio e 0,6% in carbonio, né più né meno: non si effettua per tenori
minori dato che le curve di Bain sarebbero spostate troppo verso tempi minori e quindi non si avrebbe il
tempo fisico di raffreddare un materiale all’adeguata velocità richiesta, non si effettua per tenori maggiori
dato che le rette di trasformazione martensitica sarebbero diagrammate per temperature inferiori alla
temperatura ambiente, tuttavia esiste uno stratagemma a questa condizione: nel caso di un acciaio iper-
eutettoidico, si può temprare il materiale riscaldando ad una temperatura superiore ad una trentina di gradi
l’isoterma eutettoidica, in maniera tale che raffreddando, il tenore di carbonio sia minore a 0,6% grazie alla
sua dissoluzione nella fase cementite.

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Strutture cristallografiche, impilamento e piani di scorrimento

Le strutture cristallografiche più famose sono quelle ottenute dalla ripetizione di una cella unitaria, tra cui
ricordiamo quella cubica a corpo centrato dotata di numero di coordinazione 12 e 4 atomi atomi per cella,
quella cubica a facce centrate dotata di numero di coordinazione pari a 8 e 2 atomi per cella e quella
esagonale compatta dotata di numero di coordinazione 12 e 6 atomi per cella. I piani di impilamento sono
quelli a maggiore densità atomica planare e le loro direzioni dipendono da reticolo a reticolo, anche perché
si possono ottenere impilamenti di tipo ABCABC per strutture cubiche a facce centrate oppure di tipo ABAB
per strutture esagonali compatte. Il numero di piani di scorrimento varia anch’esso a seconda della struttura
considerata: i metalli dotati di struttura cfc o ccc hanno 12 piani di scorrimento fino ad arrivare a 24 e sono il
risultato del numero di piani a maggior densità atomica moltiplicato per le possibili direzioni di scorrimento.
Questi reticoli hanno quindi una grande mobilità e sono più duttili mentre i reticoli ec sono più fragili, avendo
da tre a sei sistemi di scorrimento.

Si parli dei materiali ceramici


I materiali ceramici sono materiali inorganici, formati da legami di tipo ionico puro o parzialmente covalente
tra elementi metallici ed elementi non metallici, che è misurabile mediante una formula empirica
esponenziale, che dipende dalla differenza di elettronegatività e cioè dalla distanza orizzontale sulla tavola
periodica dei due elementi costituenti. Le proprietà che li contraddistinguono sono il loro elevato punto di
fusione, la loro bassa conducibilità termica ed elettrica nonché la loro quasi proverbiale fragilità, tanto che,
se riflettere sugli ordini di grandezza sopportati da un acciaio può essere un po’ distante dalla vita di tutti i
giorni, a chiunque, invece, è capitato di rompere un oggetto di porcellana o di vetro. Nei materiali ceramici,
quindi, sono fondamentali le relazioni che intercorrono tra i vari ioni che si formano al momento dei legami
covalenti o ionici: i cationi, o ioni metallici, sono ioni dotati di una carica positiva e cioè che hanno perso un
elettrone, mentre gli anioni, o ioni non metallici, sono ioni equipaggiati con una carica negativa, cioè che
hanno preso con sé un elettrone. Il fatto che un catione perda un elettrone non è senza conseguenze: infatti,
la minor quantità di elettroni comporta un certa diminuzione dell’energia posseduta, con un certo grado di
avvicinamento al nucleo: i cationi saranno quindi sempre più piccoli degli anioni. Il numero di cationi che
circonda un anione è detto numero di coordinazione. Il rapporto tra il raggio del catione e il raggio
dell’anione ci dà informazioni importanti sul numero di coordinazione: esistono inoltre delle scale, o meglio
dei range di valori attribuiti a tale rapporto grazie ai quali si possono prevedere le eventuali strutture
cristalline: ad esempio, il sale da cucina NaCl ha numero di coordinazione pari a 6 e presenta la struttura
tipica del salgemma, ovvero due distinti reticoli cubici a facce centrate che ospitano uno dei cationi sodio ai
vertici del reticolo, e l’altro degli anioni cloro. Altre configurazioni cristalline possibili si discostano da quella
del salgemma in cui c’è una parità tra anioni e cationi: ad esempio, la struttura cristallina del titanato di bario
prende il nome di perovskite ed è costruita come un cubo a corpo centrato che riporta ai 4 vertici i cationi
bario e al centro il catione titanio, sovrapposta ad una struttura cubica a facce centrate che presenta gli
anioni ossigeno al centro delle 6 facce. Un’altra struttura abbastanza famosa è quella della blenda, o
sfalerite, tipica del solfuro di zinco, in cui gli atomi di zolfo sono posizionati sia sui vertici sia al centro delle
facce del cubo e gli atomi di zinco sono posizionati al suo interno in posizione tetraedrica, quest’ultima che
verrà ripresa anche nella disposizione reticolare del diamante che è una delle tre forme allotropiche del
carbonio, insieme alla grafite e al fullerene. I silicati sono composti formati essenzialmente da silice e da
ossigeno, che sono due tra i più abbondanti elementi situati sulla crosta terrestre. Invece che basarsi sulla
minima cella unitaria ripetuta, nel caso dei silicati si assuma come unità standard il tetraedro dell’ossido di
silicio SiO4−
4 , in cui ogni atomo di silicio è disposto ai vertici del tetraedro al cui centro giace l’atomo di
ossigeno. Il legame che intercorre tra il silicio e l’ossigeno ha però un carattere significativamente covalente,
che è direzionale e molto forte, ma all’ossido di silicio viene comunque assegnata a priori una carica quattro

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volte negativa dato che ogni atomo di ossigeno necessita di un elettrone in più per giungere alla stabililtà
elettronica. Le strutture dei silicati si possono combinare in disposizioni più o meno articolate. Il silicato più
semplice è la comune silice, intesa come biossido di calcio, che ha una struttura tridimensionale in cui un
atomo di ossigeno ai vertici del tetraedro viene condiviso col tetraedro adiacente realizzando la neutralità
elettrica. La silice esiste in natura in tre forme primarie polimorfe, che sono il quarzo, la cristobalite e la
tridimite, che non sono molto compattate atomicamente e quindi presentano basse densità. I vetri sodio-
silicati, invece, non hanno una forma cristallina ma si presentano amorfi, condizione che ne forma la classica
trasparenza. Ai vetri inorganici comuni possono essere aggiunti alcuni modificatori di reticolo che sono
perlopiù ossidi di calcio e sodio, oppure degli intermediari come l’ossido di titanio o di alluminio, che servono,
invece, a stabilizzare la forma del reticolo. Le forme allotropiche del carbonio sono il diamante, la grafite e
il fullerene, quest’ultimo conosciuto anche come buckminsterfullerene, dal nome dello scopritore. Il
carbonio è estremamente duro e ha struttura cristallina simile a quella della sfalerite o solfuro di zinco,
mentre la grafite ha una configurazione totalmente diversa, in quanto gli atomi di carbonio sono disposti in
maniera esagonale e giacciono sullo stesso piano: ogni atomo di carbonio forma un legame ionico con gli
altri, ad eccezione dell’ultimo che invece ha il compito di formare legami secondari, cioè molto più deboli,
con le “lastre” esagonali di carbonio dei piani sottostanti e sovrastanti, che conferisce l’elevata deformabilità
alla grafite, ma anche l’ottima conducibilità termica ed elettrica tanto da essere usata anche all’interno dei
forni. Il fullerene invece ha una classica configurazione a forma di “pallone da calcio”, essendo costituito da
20 esagoni e 12 pentagoni di carbonio. Le proprietà meccaniche dei materiali ceramici sono molto povere in
resistenza a rottura, tanto che per alcuni materiali come i vetri o l’ossido di alluminio, il grafico sforzo-
deformazione non presenta nemmeno una parte di deformazione plastica, ma evidenzia una rottura di
schianto praticamente in prossimità della fine della zona a comportamento elastico. La capacità di opporre
resistenza alla frattura da parte di un materiale ceramico può essere calcolata, come per i metallici, grazie al
fattore della tenacità alla frattura che dipende come al solito dalla geometria del provino, dall’entità del
carico applicato e dalla semilunghezza di una cricca in partenza. A volte però un materiale ceramico si può
rompere anche per sforzi che erano minori di quelli riportati dalla tenacità a frattura, dando origine ad un
fenomeno che è detto rottura a fatica, o rottura statica, che è sensibile dei fenomeni ambientali e
dell’umidità dell’aria, per cui all’apice di una micro-cricca si ha un fenomeno di tenso-corrosione (sforzo di
carico unita a corrosione localizzata) che appuntisce a allunga le cricche fino a che non risulta favorita la
propagazione di tale difetto: inoltre, il carico da applicare per la propagazione dello sforzo non è costante
nel tempo, ma diminuisce all’aumentare dello sforzo stesso. Se sottoposti a carichi di compressione, invece,
non si manifestano alcune azioni di intensificazione degli sforzi. La resistenza alla frattura di un ceramico
può essere migliorata mediante trattamenti termici che inducano delle tensioni residue all’interno del
materiale, cioè dei gradienti di temperatura tra cuore e superficie del pezzo che comportano differenti
velocità di solidificazione e quindi un certo grado di sollecitazione a trazione da parte del cuore e di
compressione da parte della superficie, che è ottenibile mediante un trattamento di tempra. Durante la
propagazione di una cricca, tale cricca accelera fino a raggiungere la velocità critica di propagazione che è
pari all’incirca alla metà della velocità del suono e comporta delle biforcazioni e ramificazioni che riguardano
tutto il pezzo e il cui punto di convergenza rivela l’origine della cricca. La propagazione della cricca ha
ripercussioni sulla microstruttura del materiale, in particolare le onde elastiche creano delle zone particolari
sulla superficie di frattura, che si può descrivere come composta di una zona lucida, specchiata, detta zona
a specchio, che è più o meno circolare e circonda il punto di innesco della cricca, con un raggio di base che è
inversamente proporzionale alla velocità di propagazione (e quindi, al tenore di sollecitazione subita), una
zona rugosa a grana fine e una zona e una zona striata, costituita da piccoli solchi che si allineano in maniera
radiale con il centro e il fronte della cricca. Le onde elastiche in propagazione sul fronte prendono il nome di
Linea di Wallner. Durante la prova meccanica di flessione, alcune fibre sono soggette a compressione, altre
a trazione: il carico di flexural strenght sarà pertanto addirittura maggiore del carico a rottura; inoltre il suo
valore dipende anche dalle dimensioni del provino, in particolare aumentando il volume del pezzo aumenta

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anche la probabilità di incontrare alcune cricche o difetti, quindi il carico di flexural strenght diminuisce. Un
altro effetto importante che riguarda le proprietà meccaniche dei materiali ceramici è la cosiddetta porosità,
ovvero la misura in cui sono presenti tra le particelle pori e spazi vuoti. La porosità ha effetti devastanti sulla
resistenza meccanica del provino, dato che all’aumentare di un 10% della frazione volumetrica di porosità
riesce addirittura a dimezzare la resistenza a flessione del materiale. Il modulo di elasticità diminuisce con la
porosità secondo un’equazione polinomiale 𝐸 = 𝐸0 (1 − 1,9𝑃 + 0,9𝑃2 ), e in relazione al carico di flexural
strenght, si vede che la resistenza a flessione diminuisce esponenzialmente secondo l’equazione: 𝜎𝑓𝑠 =
𝜎0 𝑒 −𝑛𝑃 . Nei casi in cui si verifica, la deformazione plastica si verifica in maniera diversa a seconda che il
materiale sia cristallino o meno. Infatti, nei materiali cristallini la deformazione plastica è dovuta, come al
solito, ai movimenti delle dislocazioni che distorcono il reticolo in particolari zone localizzate avanzando
nella matrice mano a mano di una distanza interatomica. In realtà, però, tali moti delle dislocazioni sono
fortemente sfavorevoli, dato che la presenza del legame ionico non rende possibile uno scorrimento
uniforme dato che due ioni con la stessa carica per repulsione elettromagnetica verrebbero a respingersi,
limitando quindi il numero dei piani di scorrimento possibili. Nei metalli, invece, tutti gli atomi in se per se
erano elettricamente neutri, e quindi erano attivi parecchi sistemi di scorrimento in più. Il legame covalente
sembrerebbe semplificare rispetto allo ionico il moto delle dislocazioni, ma le alte energie di legame unite
ad una struttura delle dislocazioni che è più complessa rispetto ai metalli, rende sfavorevole la deformazione
plastica anche in quei ceramici dove il legame più presente è quello covalente. Se un ceramico invece non
presenta una particolare struttura cristallina, la misura della resistenza che un materiale non cristallino offre
al moto delle dislocazioni prende il nome di viscosità, e si misura come rapporto tra lo sforzo di tagli applicato
al numeratore e la variazione della velocità divisa per la distanza tra i due piani al denominatore:
𝜏 𝐹 𝑑𝑦
𝜂= =
𝑑𝑣 𝑑ℎ 𝐴 𝑑𝑣
Lo scorrimento viscoso avviene nella stessa maniera in cui una sostanza liquida si comporta nel momento in
cui entra dentro un contenitore e ve ne assume la forma. L’unità di misura della viscosità è il Poise,
convenzionalmente indicato come Pascal per secondo e con la particolarità che 100 Poise corrispondono a
10 Pascal per secondo.
Si tratti l’argomento dei prodotti argillosi, refrattari, abrasivi e ceramici avanzati.
Una delle materie prime maggiormente usata per la produzione dei materiali ceramici è senza dubbio
l’argilla. Questo minerale infatti si trova in grandissima abbondanza in natura localizzato in ogni angolo del
mondo, ha un costo molto basso e spesso non ha bisogno di arricchimenti o raffinazioni una volta procurato.
Inoltre ha una facilità di impiego fuori dal comune, dato che, una volta combinate assieme, argilla e acqua
hanno già formato una massa plastica che è facilmente modellabile e deformabile. Il pezzo formato è poi
messo ad essiccare per rimuovere parte dell’umidità grazie alla diffusione delle molecole d’acqua in
superficie la cui velocità deve essere
controllata dato che una velocità di
evaporazione maggiore di una velocità di
diffusione comporterebbe il seccamento del
materiale e poi sottoposto ad una cottura ad
elevata temperatura affinché migliori la
resistenza meccanica grazie all’avvenire del
processo della vetrificazione, vale a dire la
graduale formazione di un vetro liquido che
fluisce e riempie parte dei pori. La
microstruttura finale sarà quindi composta
da una fase vetrificata, da particelle di quarzo
che non hanno reagito e da porosità. La
temperatura di cottura ovviamente influisce
sul grado di vetrificazione, dato che
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temperature relativamente basse (900°C) comportano una porosità maggiore e sono usate, ad esempio, per
i mattoni, mentre cotture a temperature molto più alte sono utilizzate per le porcellane da casa, in cui i bordi
vengono a risultare praticamente come traslucidi. Le argille contengono allumina Al2 O3 e silice SiO2 unita
ad acqua e a vari ossidi di impurezze. Esiste un diagramma di stato allumina-silice, che si legge come quelli
dei materiali metallici e che è fatto all’incirca come in figura a fianco, in cui si nota, tra l’altro, l’esistenza di
un punto eutettico circa all’8% di allumina in cui da una fase liquida, raffreddando, si passa ad una fase solida
costituita da mullite e cristobalite. Le categorie dei prodotti a base di argilla sono due: i prodotti argillosi
strutturali, che consistono in impasti di materie prime argillose come la caolina (silicato idrato di alluminio)
mista a quarzo e feldpsati per materie a bassa densità come le pavimentazioni oppure mista a quarzo e
carbonati per prodotti porosi per il rivestimento, e le porcellane bianche che sono gli articoli decorativi da
casa che sono cotte a più di 1300°C e che contengono anche composti non plastici come selce o quarzo uniti
ad un materiale fondente come il feldspato di potassio, calcio, bario o sodio, che abbassa il punto di
transizione vetrosa e permette quindi di ottenere un bordo più traslucido durante la fase di vetrificazione.
La formazione di manufatti argillosi può essere fatta in due processi: uno, detto formatura idroplastica, in
cui si estrude la massa idroplastica nella forma desiderata a partire dall’impasto argilloso, oppure la
formatura per colaggio in cui si ha della polvere ceramica in sospensione in una soluzione acquosa detta
barbottina e l’impasto viene colato all’interno di uno stampo poroso, per esempio contenente del gesso,
quindi il pezzo viene essiccato a 200-300°C e successivamente sottoposto a cottura con vetrificazione dopo
l’aggiunta di feldspati per favorirla. I materiali refrattari invece sono quelli capaci di resistere alle alte
temperature senza fondere e di rimanere inerti in ambienti particolarmente aggressivi. Questi materiali
possono essere di tre tipi: le argille refrattarie, che sono la tipologia più comune realizzate con un impasto
di ossido di alluminio e silice, e sono usate per la costruzione di forni capaci di sopportare anche 1600°C.
Aumentando la percentuale di silicio aumenta la resistenza allo shock termico ovvero diminuisce il
coefficiente di dilatazione termica, mentre aumentando la percentuale di alluminio aumenta la possibile
temperatura di esercizio, purché in ambienti isotermi. I refrattari di silice sono composti invece di allumina,
silice e ossido di calcio e sono usati per la produzione di volte ad arco per i forni di produzione di acciai e vetri.
I refrattari di bauxite invece contengono questo minerale molto ricco di idrossidi di alluminio e ferro e
riescono a resistere fino a 2000°C: vengono usati nei forni per la produzione del vetro dato che non sono
attaccabili dai silicati. Gli abrasivi sono usati invece per molare, abradere o tagliare materiali più teneri. Usati
come mole abrasive, ovvero particelle abrasive cementate in un disco con matrice vetrosa o polimerica e
superficie porosa, sono famosi il diamante, il carburo di silicio, il carburo di tungsteno, l’ossido di alluminio
e la sabbia di silice. Le polveri abrasive servono invece per lappatura o smerigliatura. Dei ceramici avanzati
fanno parte i sistemi microelettromeccanici, sistemi miniaturizzati intelligenti, costituiti da dispositivi
meccanici (microsensori + attuatori) integrati con elementi elettrici su un substrato di silicio. I sensori
raccolgono dall’esterno informazioni (meccaniche, termiche, chimiche, ottiche, magnetiche) e, dopo
elaborazione dai componenti microelettronici, indirizzano azioni ai microatturatori. Le fibre ottiche sono
capaci di non disperdere i raggi luminosi e infine i cuscinetti a sfera ceramici sono famosi per essere, grazie
al nitruro di silicio Si3 N4, più duri e leggeri dell’acciaio presentando allo stesso tempo un maggior modulo
elastico, una maggiore resistenza a compressione e corrosione, un minor coefficiente di attrito e un maggior
isolamento termoelettrico.

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