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Galluppi e Rosmini tra modernità e tradizione.

Dalla critica del soggettivismo ad una nuova filosofia della soggettività

Introduzione.

Il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia che ricorre quest’anno, costituisce un’ottima occasione per
ripercorrere il cammino che, anche nel campo del pensiero, oltreché delle istituzioni e della società
civile, l’Italia ha intrapreso nella riscoperta della propria identità nazionale e, in questo senso,
chiunque volesse seguire le tappe fondamentali dell’evoluzione spirituale ed intellettuale della
cultura italiana nel moto generale di rinascita dei valori nazionali che ha luogo nel corso del XIX
secolo, non potrebbe in alcun modo prescindere dalla figura e dall’opera dei tre grandi filosofi del
Risorgimento italiano, ovvero Pasquale Galluppi, Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti.
In questo videocorso concentreremo la nostra attenzione solo sui primi due, ma, introduttivamente,
è necessario prendere le mosse dall’intero trittico se si vuole comprendere il criterio ermeneutico
che ha guidato il presente lavoro, un criterio che, nel suo significato più ampio, si inquadra in una
interpretazione complessiva della filosofia risorgimentale italiana e della sua parte tutt’ora viva ed
operante nella cultura contemporanea.
Da questo punto di vista, risulta, a nostro avviso, particolarmente fruttuoso studiare il contributo
decisivo che i tre maggiori protagonisti della filosofia italiana di primo Ottocento hanno offerto al
processo di rinnovamento culturale proprio dell’epoca, ricorrendo al metodo del loro confronto.
Occorre subito precisare, tuttavia, che il ricorso al metodo comparativo nella comprensione dei
caratteri e motivi delle filosofie di Galluppi, Rosmini e Gioberti, ha condotto critici ed interpreti,
anche di diverso orientamento, ad evidenziare troppo spesso più le differenze ed i punti di
divergenza tra i tre autori che non le loro analogie e somiglianze.
Ciò ha determinato una situazione contraddittoria; infatti, da un lato, viene riconosciuto, in sede
storiografica, come un dato indiscutibile il fatto che Galluppi, Rosmini e Gioberti siano ascrivibili
ad una stessa temperie storico-culturale, e costituiscano, sia pur a diverso titolo, i massimi
rappresentanti del risorgimento specificamente intellettuale e filosofico, distinto, in questo senso,
dal filone risorgimentale politico-sociale, più improntato alla filosofia “civile”, e meno ai grandi
problemi filosofici, quale quello rappresentato, ad esempio, da Romagnosi, Cattaneo e Ferrari;
dall’altro lato, però, si continua a guardare alla triade italiana in una chiave troppo spesso
marcatamente ideologica, la quale, invece di promuovere e valorizzare una riconsiderazione
fondamentalmente unitaria delle loro dottrine, pur nello specifico ed originale apporto di ognuna di
esse alla riflessione filosofica, insiste sui motivi di contrasto e di irriducibilità tra esse,
contrapponendo troppo rigidamente l’una all’altra, con il risultato, in qualche caso, di enfatizzarne
oltre misura i punti di rottura, ridimensionandone, o, in qualche caso, ignorandone del tutto, gli
importanti elementi di continuità.
Certo, a giustificare il prevalere di una tale linea interpretativa, hanno concorso, a mio parere,
diversi fattori, per lo meno tre, che vado rapidamente ad illustrare e su cui torneremo più
diffusamente nel corso della nostra esposizione, ma a cui è necessario preliminarmente accennare
per far comprendere a chi ci ascolta lo scopo fondamentale della ricerca che abbiamo condotto per
la realizzazione del presente videocorso.
Il primo fattore per cui si è inteso schivare ogni rischio di omogeneizzazione tra Galluppi, Rosmini
e Gioberti, è certamente legato al tentativo, del tutto condivisibile, di sottrarre lo studio della
filosofia italiana di quell’epoca ad una certa retorica panegirica, largamente presente nella
storiografia filosofica italiana, sin dall’Ottocento, non sempre sorretta da una solida consapevolezza
storica, e portata a vedere in maniera acritica nei tre filosofi risorgimentali, i rappresentanti di una
autentica e ritrovata “italianità”, al termine di un lungo periodo di servaggio intellettuale da parte
dell’Italia nei confronti della filosofia d’oltralpe, soprattutto francese, periodo variamente
identificato, ma, secondo molti, iniziato con il pensiero post-rinascimentale, interrottosi
temporaneamente con Vico, e protrattosi lungo tutto il Settecento.
Il secondo fattore, collegato al precedente, consiste nel fatto che una tale mitizzazione del carattere
“nazionale” della riflessione filosofica italiana ottocentesca, è stata, paradossalmente, operata
proprio dagli esponenti di quella corrente idealistica e neoidealistica italiana, da B. Spaventa a G.
Gentile, ai quali si deve, indubbiamente, la riscoperta della ricchezza e della vitalità intellettuali dei
nostri pensatori risorgimentali. Sulla base della ormai notoria tesi spaventiana della “circolazione
del pensiero italiano” - secondo la quale con la triade Galluppi-Rosmini-Gioberti la problematica
filosofica moderna sarebbe ritornata in Italia, dove era nata per la prima volta nel Rinascimento con
Bruno, Telesio, Campanella e Vico, e da dove si era successivamente spostata in terra straniera, in
paesi caratterizzati da una maggiore libertà politica e civile, come Francia, Inghilterra, Olanda, con
Cartesio, Bacone, Locke, Spinoza, a fronte di una sostanziale stagnazione intellettuale, nello stesso
periodo, in terra italica - gli idealisti italiani hanno da un lato, esaltato il risorgimento intellettuale
dei nostri tre filosofi come un esempio specchiante di risveglio della coscienza nazionale del
pensiero italiano, ma, dall’altro lato, qui l’aspetto paradossale, essi hanno riposto tale rinascita
intellettuale non già nella capacità di una autonoma ed originale creatività filosofica italiana, bensì
nel tentativo, peraltro fallito a loro dire, di percorrere un cammino analogo e parallelo a quello
percorso, in Germania, prima da Kant e poi, soprattutto, nei primi decenni dell’Ottocento, da Fichte,
Schelling ed Hegel, gli autentici inveratori del pensiero moderno. Il vero disvelamento del
problema di fondo della modernità e della sua soluzione veniva, dagli idealisti, attribuito proprio
alla triade tedesca e non a quella italiana, ritenuta in realtà una copia imperfetta e difettosa della
prima; e così, attraverso una lettura per così dire teleologica dello svolgimento del pensiero
filosofico italiano lungo la linea Galluppi-Rosmini-Gioberti, quest’ultimo sarebbe colui che ha
portato a maturazione e compimento in Italia, ciò che, ancora implicito o confusamente espresso nei
primi due, era stato portato alla luce in Germania da Hegel, cioè la «chiarezza» dell’Idealismo
assoluto, che nel proprio sviluppo più rigoroso avrebbe condotto in ultimo allo stesso attualismo di
Gentile.
Nella falsata chiave di lettura idealistica, pertanto, l’individuazione delle divergenze teoriche tra i
tre filosofi e, quindi, delle loro peculiarità dottrinali, è stata in qualche modo strumentalmente
“mistificata” al fine di leggere lo sviluppo della filosofia italiana da Galluppi a Gioberti in un modo
piattamente subordinato al parallelo svolgimento della filosofia tedesca.
La necessità dunque di evitare la esaltazione retorica del nazionalismo filosofico dei tre filosofi si
collega alla necessità di “demistificare” il loro genuino pensiero, liberandolo dall’interpretazione
idealistica e spinge i sostenitori della interpretazione anti-idealistica, a rimarcare il contributo
originale e specifico dei tre pensatori alla riflessione filosofica italiana.
Il terzo fattore che giustifica una lettura differenziata dei tre autori consiste nel fatto che,
innegabilmente, furono gli stessi Galluppi, Rosmini e Gioberti a sviluppare il proprio pensiero in
contrapposizione polemica l’uno con l’altro, muovendosi vicendevolmente critiche ed accuse
spesso tra loro simili e vedendo ognuno nella propria filosofia il superamento di quella altrui, e
trascinando in tale tipo di polemica anche i loro seguaci e discepoli, più o meno fedeli al pensiero
del proprio maestro.
Tuttavia, la legittimità di questi tre fattori non impedisce di chiederci, partendo proprio dalla
considerazione per cui è possibile inquadrare Galluppi, Rosmini e Gioberti nella medesima cultura
filosofica, se non sussistano motivi di ordine teoretico e dottrinale e non solo di ordine cronologico,
tali da giustificare la loro appartenenza ad un comune orientamento di pensiero.
Su quale fondamento, infatti, si reggerebbe l’affermazione, condivisa sia sul fronte idealistico che
su quello anti-idealistico, secondo la quale Galluppi, Rosmini e Gioberti, costituiscono le tre figure
più rappresentative della filosofia italiana dell’età del Risorgimento ? Giacché se fosse vero che
siamo di fronte a dottrine radicalmente differenti, non resterebbe, per sostenere questa
affermazione, che il semplice dato cronologico della loro contemporaneità, o, daccapo, quello
nazionalistico e storicistico, due motivi ugualmente insufficienti a giustificare la loro appartenenza
ad un comune clima filosofico-culturale; siamo convinti, anzi, che motivazioni di questo tipo
finirebbero per semplificare banalmente il legame che unisce questi tre grandi filosofi, riducendolo
a qualcosa di estrinseco ed accidentale.
Un’interpretazione invece storico-culturale - né storicistica, dunque, né, d’altra parte, del tutto
decontestualizzata - è in grado, crediamo, di mostrare la possibilità di collocare la triade italiana
all’interno di una comune mentalità filosofica, certo articolata e anche conflittuale al suo interno,
ma comunque inclusiva, in cui la diversità degli stili e dei modelli teorici non è da leggere
immediatamente come incompatibilità.
Se, infatti, si esce dalla contrapposizione tra interpretazione idealistica e interpretazione anti-
idealistica dei tre filosofi, superando la lettura ugualmente unilaterale di entrambe, e si indaga più in
profondità nel groviglio di polemiche che li ha visti protagonisti, siamo in grado di leggere
diversamente il confronto tra di essi, scorgendo sempre più chiaramente la loro sostanziale affinità
di ispirazione ed il comune orizzonte filosofico-culturale entro il quale essi si muovono.
E’ abbastanza nota, anche per l’asprezza dei toni che la caratterizzò, la controversia tra Rosmini e
Gioberti, abbondantemente studiata dall’Ottocento fino ai giorni nostri; meno nota, invece, è la
polemica tra Rosmini e Galluppi, la quale non si può certo dire che sia stata, quanto meno dalla
storiografia più recente, indagata altrettanto approfonditamente e sufficientemente soppesata nella
sua giusta portata. A parte pochi studi, peraltro estremamente sintetici e circoscritti, degli anni
Ottanta del secolo scorso e dei primi anni Duemila dedicati specificamente a tale tematica - penso ai
lavori di F. Mercadante, che, nonostante abbiano l’indubbio merito di aver ripreso una tematica
quasi del tutto trascurata dalla critica negli ultimi cinquant’anni, non consentono tuttavia uno
1
sguardo sufficientemente particolareggiato e circostanziato sull’argomento in questione - non vi
sono, nella letteratura critica più recente, che brevi cenni a questo argomento, e, quando si trovano
studi più approfonditi, essi sono comunque inseriti in ricerche più ampie non direttamente dedicate
al confronto tra Galluppi e Rosmini.
Per rintracciare degli studi specificamente o comunque ampiamente ed approfonditamente incentrati
sulla controversia tra i due filosofi, si deve tornare agli anni Venti del Novecento, con i lavori di V.
Fazio-Allmayer e di G. Pusineri 2, (sebbene limitati all’espistolario) nonché con quelli di B.

1
Cfr F. MERCADANTE, Galluppi-Rosmini: un incontro mancato, in F. PUGLIESE…[et al.] (a cura di), Studi Galluppiani.
Atti del convegno galluppiano di Tropea (28-30 maggio 1987), tenutosi presso il Centro Studi galluppiani di Tropea
Edizioni Brenner, Cosenza 1991 e ID., Galluppi e la critica del rosminianesimo, in S. VENEZIA (a cura di), Gli Elementi
di Filosofia di P. Galluppi. Fra ragione teoretica e metodologia storica. Atti del V Convegno di Studi Galluppiani
(Tropea-Drapia, 23-25 ottobre 2003), Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.
2
Cfr. V. FAZIO-ALLMAYER, “Il carteggio tra P. Galluppi ed A. Rosmini (1827-1839)”, in «Giornale critico della
filosofia italiana», 2 (1921), pp. 23-32 e G. PUSINERI, “P. Galluppi e A. Rosmini nel loro carteggio”, in «Rivista
Rosminiana», Anno XIX, Fasc. 2°, 1925, pp. 92-108.
Spaventa e G. Gentile, le cui ricerche, però, orientate secondo un preciso progetto filosofico,
forniscono, come abbiamo appena detto, una immagine fuorviante dei rapporti tra Galluppi e
Rosmini 3. Scopo del presente videocorso è, appunto, esaminare o, meglio, riesaminare la
“polemica” tra Galluppi e Rosmini, ricorrendo però ad un approccio interpretativo diverso da quello
consueto.
La controversia tra Galluppi e Rosmini può essere, infatti, considerata da due diverse angolature:
innanzitutto, tale polemica si inserisce nella controversistica relativa alla ricezione del kantismo
nella cultura filosofica italiana di primo Ottocento e, in questo senso, essa si colloca, per quel che
riguarda più specificamente gli studi rosminiani, nella “prima fase”, quella segnata dall’insieme
delle reazioni seguite, nel dibattito culturale italiano, alla pubblicazione, nel 1830, del Nuovo saggio
sull’origine delle idee di Rosmini. La discussione suscitata dalla innovativa interpretazione
rosminiana di Kant si intreccia con le critiche che, da più parti, da Costa a Mamiani, da Cattaneo ad
Abbà, vengono mosse alla ideologia di Rosmini, in un clima filosofico-culturale fortemente segnato
ancora dal sensismo illuministico. Di questo contesto di polemiche la critica di Galluppi è
certamente parte integrante, ma sarebbe un grave limite ermeneutico assimilare sic et simpliciter
tale critica alle serie delle obiezioni mosse a Rosmini dagli autori sensisti, sia perché, come
vedremo, la posizione di Galluppi è ben lontana dall’essere risolvibile nel sensismo – anzi ne
rappresenta un superamento - sia perché è proprio la controversia con Galluppi, e poi con Gioberti,
a far entrare Rosmini a pieno titolo nel gruppo degli esponenti della cultura risorgimentale italiana.
La polemica tra Galluppi e Rosmini può essere, infatti, considerata da una seconda angolatura, vista
dalla quale il vivace e serrato confronto tra i due ci appare ben più che una semplice polemica
accidentale, d’occasione, e circoscritta quindi ad un determinato momento temporale, bensì la
manifestazione di un nuovo fermento ideale nel pensiero italiano di quegli anni, e di un confluire,
da parte dei maggiori ingegni filosofici dell’epoca, pur nella poligonia delle proprie originali e
specifiche posizioni dottrinali, verso la formazione, in Italia, di una Weltanschauung romantica, il
cui tratto peculiare è costituito dal felice incontro tra la nuova sensibilità moderna propria
dell’idealismo e l’atteggiamento tradizionalistico proprio dello spiritualismo cattolico.

3
Di Spaventa si veda, in particolare, B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a
cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1908 e di Gentile, G. GENTILE, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,
2 voll., II ed., Sansoni, Firenze 1929, vol. 2, in Opere Complete di Giovanni Gentile, a cura della Fondazione Giovanni
Gentile per gli studi filosofici, Sansoni, Firenze 1932 ss., nn. XVIII-XIX e ID., Rosmini e Gioberti, Saggio storico sulla
filosofia italiana del Risorgimento, III ed. accresciuta, Sansoni, Firenze 1958, (Opere Complete di Giovanni Gentile, n.
XXV).
Considerata in questa prospettiva, lo studio di quella controversia costituisce un punto di
osservazione privilegiato dal quale valutare la possibilità di un dialogo tra la cultura idealistica di
matrice tedesca e la cultura spiritualistica di matrice italiana, che, riportato nel nostro tempo,
significa dialogo tra le varie filiazioni della ragione moderna - che riattiva così una sua propria
incidenza culturale di contro alle nebbie disgregatrici e misologiche del “post-moderno” - e la
cultura della tradizione, che a sua volta recupera in un rinnovato classicismo, la ragione universale e
metafisica di stampo ellenico e cristiano.
La controversia tra Galluppi e Rosmini, dunque, può e deve essere esaminata soprattutto in
relazione all’impegno programmatico proprio della “quarta fase” degli studi rosminiani, volto a
ripensare la figura del Roveretano nella prospettiva del superamento della rigida contrapposizione
tra idealismo tedesco e spiritualismo italiano. Questa seconda angolatura, dalla quale guardare al
confronto tra i due filosofi, ci permette pertanto di portare alla luce gli importanti elementi di
continuità tra idealismo tedesco, soprattutto post-kantiano, e realismo spiritualistico italiano proprio
col mostrare che sia Galluppi che Rosmini (e, ovviamente anche Gioberti), percorrono cammini
diversi ma equivalenti, ritrovandosi uniti in quella medesima cultura romantica in cui le categorie di
“verità”, “libertà”, “coscienza”, “spirito”, “tradizione” e “fede” vengono felicemente equilibrate ed
armonizzate in un comune atteggiamento filosofico che si pone come alternativo all’immanentismo
idealistico e recupera in positivo la filosofia della coscienza entro una prospettiva di trascendenza e
di riapertura metafisica al problema dell’Essere.
L’approccio da noi seguito nel presente videocorso, ci consente, pertanto, di evidenziare non solo e
non tanto, come prevalentemente è avvenuto in sede storiografica, i fattori di divisione tra i due
pensatori, quanto quei motivi teorici e concettuali capaci di portare alla luce la sotterranea unità tra
le loro rispettive concezioni filosofiche; siamo infatti persuasi che il significato, il valore e, quindi,
l’attualità del confronto tra Galluppi e Rosmini, vadano ricercati proprio nel caratteristico terreno
comune su cui si sviluppa il loro contraddittorio, il quale, nella sua intrinseca dialetticità, rivela due
concezioni filosofiche tutt’altro che incomunicabili. Quello tra Galluppi e Rosmini è, dunque, a
nostro avviso, un dialogo possibile e non un «incontro mancato» o un «dissidio insanabile», come è
stato detto, semmai una «tormentata intesa» 4, come più correttamente è stato scritto, ma pur sempre

4
Cfr F. MERCADANTE, Galluppi-Rosmini: un incontro mancato, cit.; di «dissidio insanabile» ha parlato G. Pusineri, di
cui cfr. G. PUSINERI, “P. Galluppi e A. Rosmini nel loro carteggio”, op. cit., p. 104; una «tormentata intesa» l’ha invece
definita G. Tortora, di cui cfr. G. TORTORA, P. Galluppi e il materialismo del Settecento francese, Loffredo, Napoli
1989, p. 41.
“intesa”. Gentile scrisse perentoriamente che Galluppi e Rosmini «erano partiti dallo stesso punto:
ma battevano due vie diverse e divergenti; e non era possibile che si incontrassero» 5.
Ebbene, cercheremo, in questo videocorso, di dimostrare esattamente il contrario, e cioè che le due
vie, certamente diverse, percorse da Galluppi Rosmini, finiscono, nonostante tutto, per incontrarsi e
convergere; e tenteremo di farlo esaminando dapprima, nelle prime due lezioni, il carteggio tra i due
e poi, nella terza e quarta lezione, alcune delle loro rispettive opere; illustreremo, quindi, nella
quinta e sesta lezione la tesi fondamentale del nostro lavoro, ovvero la tesi della “equipollenza” o
della corrispondenza tra i sistemi filosofici galluppiano e rosminiano e, nella settima lezione, il
principio che sorregge tale tesi, per soffermarci, nell’ottava lezione e nelle osservazioni conclusive,
sul significato che tale confronto riveste per la riflessione filosofica contemporanea.

5
G. GENTILE, Rosmini e Gioberti, cit., p. 77.
Lezione n. 1. Per una riforma della filosofia.

Quando, nel 1827, il giovane Rosmini dà alle stampe il primo dei due tomi degli Opuscoli filosofici,
che raccolgono alcuni degli scritti più importanti del primo periodo della propria produzione
letteraria, egli avverte subito il bisogno di farne dono a Galluppi, il quale, ben ventisette anni più
vecchio di Rosmini, è, all’epoca, già molto noto nel mondo culturale italiano, e di lì a qualche anno
lo diverrà anche all’estero, avendo egli già pubblicato alcune delle sue opere fondamentali, come i
primi quattro volumi del Saggio filosofico sulla critica della conoscenza usciti tra il ’19 ed il ’22 (il
5° ed il 6° volume usciranno rispettivamente nel ’29 e nel ’31), gli Elementi di Filosofia, stampati
tra il ’20 ed il ’27 e la prima edizione delle Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia
relativamente ai princìpi delle conoscenze umane da Cartesio a Kant inclusivamente, pubblicata nel
’27.
E’ proprio per chiedergli un giudizio sui temi trattati nel primo volume degli Opuscoli, che
Rosmini, l’11 novembre del 1827 da Milano, scrive a Galluppi, manifestando al pensatore
Calabrese tutta la propria stima ed ammirazione per l’altezza del suo ingegno filosofico e
riconoscendo di essere, in qualche modo, in debito con lui, rispetto a quell’opera di rinnovamento
della cultura filosofica italiana, a cui egli stesso, a partire dalla pubblicazione, tre anni più tardi, del
Nuovo Saggio sull’origine delle idee, avrebbe fornito un contributo decisivo ed il cui iniziatore
Rosmini riconosceva certamente proprio in Galluppi.
Si apre, così, una corrispondenza epistolare, dai toni mai aspri o maliziosamente provocatori, ma
anzi sempre cortesi e caratterizzati vicendevolmente da profondo rispetto e onesta intellettuale, che,
complessivamente, andrà avanti fino al 1839, ma che è concentrata soprattutto tra il 1827 ed il 1832
e che, sebbene non sia particolarmente corposa, risulta ricca di contenuti teorici e dottrinali,
documentando quindi un intenso e proficuo scambio di idee tra i due filosofi, e rivelandosi oltreché
interessante per conoscere i loro rapporti personali, anche, come scrive Gentile, “assai istruttivo per
chi voglia conoscere le relazioni storiche delle rispettive dottrine” 6. Valutando, inoltre, l’intero
corpus delle lettere private di Galluppi, si può senz’altro affermare, con F. Ottonello, che “il
rapporto epistolare Galluppi-Rosmini costituisce il nucleo filosofico più significativo dell’intero
epistolario” 7.
Nella succitàta lettera, Rosmini così si esprime, rivolgendosi a Galluppi:

6
G. GENTILE, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, cit., vol. 2, p. 34.
7
F. OTTONELLO, Filosofia e cultura nelle lettere private di P. Galluppi, in S. VENEZIA (a cura di), op. cit., p. 82.
A Lei, che onora l’Italia con la sapienza, oso presentare un libro filosofico testè da me stampato, non per
altra ragione se non per farle quell’omaggio di cui ogni Italiano che s’occupa in questi studi Le va debitore
[…] Ella ha arricchita la filosofia, quella scienza avvilita e profanata nei nostri tempi, anzi distrutta; il che io
risguardo come un merito verso la scienza non solo, ma verso la stessa religione a cui serve la vera filosofia.
Consacrato a questo doppio studio dalla inclinazione della natura e dal sentimento della necessità del
medesimo nel presente stato delle cose umane, io ho contratto con Lei per l’opere di Lei stampate una
8
obbligazione speciale .

Come vediamo, Rosmini attribuisce al pensiero di Galluppi un valore fondamentale in relazione alla
ricerca di una possibile risposta filosofica alla crisi intellettuale, spirituale e morale ingenerata
dall’avvento sempre più pervasivo della “civiltà moderna”, e nelle forme del pensiero teorico e
nelle forme di azione pratica, una ricerca, della cui priorità su ogni altro tipo di studio o indagine, il
Roveretano si stava sempre più convincendo propri in questi anni, tant’è che egli interrompe, ma
solo provvisoriamente e proprio per riportarli alla loro radice filosofica, i suoi iniziali studi politici.
Il tono della lettera con la quale Galluppi risponde a Rosmini, testimonia quanto la stima e
l’ammirazione manifestate da Rosmini verso di lui fossero pienamente ricambiate, e quanto fosse
presente in Galluppi il convincimento che anche le meditazioni filosofiche che il giovane Rosmini
stava in quel periodo maturando andassero nella medesima direzione verso la quale si erano mosse
le proprie ricerche, ovvero verso la realizzazione del progetto di una vera e propria riforma radicale
del pensiero filosofico, che avrebbe dovuto altresì restituire alla cultura italiana originalità e nuovo
vigore intellettuale. Scrive, infatti, Galluppi da Tropea a Rosmini il 9 agosto del 1828:

Che un saggio scrittore di Milano siasi compiaciuto di gettare uno sguardo sulle pagine delle mie filosofiche
produzioni, non è cosa da destar meraviglia; ma che siasi poi diretto a me, abitatore di una piccola città nelle
Calabrie, inviandomi il prezioso dono del suo libro, e chiedendo il mio parere sullo stesso, ciò a ragione ha
dovuto recarmi della sorpresa […] Ho letto rapidamente il libro gentilmente inviatomi – scrive ancora
Galluppi – e vi ho ravvisato quella soda filosofia, che, in mezzo alle limitazioni del nostro spirito, non perde
giammai di vista la verità consolante di una eterna Provvidenza 9.

Il 23 gennaio 1829, Rosmini scrive a Galluppi da Roma: «Godo che andiamo perfettamente
d’accordo nella riforma della letteratura italiana: Ella potrà aiutare all’opera predicando gli stessi

8
A. ROSMINI, Epistolario filosofico, a cura di G. Bonafede, Celebes, Trapani 1968, p. 74.
9
P. GALLUPPI, Lettere all’Abate A. Rosmini, in ID, Lettere Filosofiche, a cura di G. Bonafede, E.S.A., Palermo 1974, p.
381.
10
grandi principii che suggerisce il Cristianesimo» ; in questa lettera, Rosmini risponde ad una
missiva di Galluppi andata smarrita, collocabile tra quella di Galluppi del 9 agosto ’28 e questa di
Rosmini del 23 gennaio ’29, nella quale è presumibile, dalla affermazione di Rosmini, che Galluppi
avesse fatto riferimento al contenuto del Saggio sull’idillio e sulla nuova letteratura italiana,
compreso nel 1° vol. degli Opuscoli filosofici, in cui Rosmini aveva sostenuto la necessità di un
rinnovamento, in senso cristiano, anche nel campo delle arti belle.
Nella missiva del 4 ottobre 1829 da Roma, Rosmini dichiara a Galluppi:

Io non manco di fare conoscere le sue opere a tutti quelli cui posso; poiché sono le più acconce, ch’io mi
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conosca, a risuscitare in Italia il morto spirito filosofico, e la solidità del pensare

e, in perfetta sintonia con Rosmini, nella lettera dell’11 novembre 1829 da Tropea, Galluppi
esprime in maniera icastica l’umile quanto deciso proposito di impegnarsi nel contrastare il
diffondersi di falsi e perniciosi sistemi filosofici:

Io non son di tanto merito fornito – scrive il filosofo Calabrese - da poter cambiare direzione al pensar
filosofico degli’Italiani […] Nulla di meno, son convinto del dovere di fatigare per la difesa della verità:
sono veramente afflitto dal vedere ancora che il materialismo, il sensualismo, il fatalismo, lo scetticismo, il
criticismo ed altri falsi metodi seguano a desolare il vero impero della filosofia in Europa; e perciò ho fatto e
fo tutti gli sforzi per combattere questi traviamenti dello spirito umano 12.

Della consapevolezza, da parte di Rosmini, della funzione storica svolta da Galluppi nell’aver
instradato per primo il pensiero italiano verso una sempre maggiore coscienza nazionale - funzione
storica, del resto, oggi unanimemente riconosciuta in sede storiografica, ma già rilevata, oltrechè dal
Roveretano, anche da altri contemporanei di Galluppi, ad esempio, da Mamiani e Gioberti, e poi,
successivamente, da Fiorentino, Spaventa, Gentile - è notevole testimonianza anche una lettera di
Rosmini dell’8 dicembre 1827 a Don Giulio Todeschi a Vienna, il quale aveva chiesto al
Roveretano di consigliargli un testo filosofico che avesse, insieme, un valore didattico e scientifico;
qui Rosmini, nell’illustrare il desolante stato in cui versa la filosofia in Europa e in Italia nel proprio
tempo e lamentando l’assenza di un testo filosofico privo di quei difetti di cui abbondano le
filosofie straniere, come il materialismo degli Inglesi e lo scetticismo idealistico dei Tedeschi e

10
A. ROSMINI, Epist. fil., cit., p. 90.
11
Ivi, p. 99.
12
P. GALLUPPI, Lett. all’Abate A. Rosmini, cit., p. 383.
degli Scozzesi, elogia proprio l’originalità della cultura filosofica del Mezzogiorno d’Italia e del
pensiero galluppiano in particolare:

Resterebbe - egli scrive - di cercare qualche cosa di meglio in Italia. In Italia non c’è nessuna scuola
nazionale […] un eclettismo forma il suo carattere generale […] Vi sono poi anche i settari di tutte le scuole,
giacché chi non è capace di fare da sé, si arruola sotto quel capitano che secondo il suo giudizio più gli
promette […] Nelle provincie Lombardo-Venete v’ha ancora molto Lockismo e Condillachismo. Sullo Stato
Romano ci sono molti Cartesiani e Malebranchiani. Nel regno di Napoli sono forse gli autori più originali e
più completi. Quando io calcolo ogni cosa, preferirei ancora alcuno di questi ultimi agli altri tutti, non perché
siano scevri da difetti ma perché ne sono meno macchisti. E se ne dovessi nominare alcuno, mi atterrei agli
Elementi di Filosofia di Pasquale Galluppi, sì perché in forma di corso scolastico, come perché di sani
13
principi, e nella facilità con cui è esposto, abbastanza profondo .

Per quanto riguarda la conoscenza che i due pensatori avevano delle rispettive opere, si può
affermare, alla luce delle informazioni contenute nelle lettere, che Galluppi dovette conoscere
certamente i due volumi degli Opuscoli filosofici, la prima edizione del Nuovo Saggio (con certezza
il primo volume, ma con buona probabilità anche gli altri tre), e i Principi della scienza morale.
Rosmini, pur non possedendo le opere di Galluppi, ci fa sapere di averle, comunque, già alla data
del 1829, “lette ed ammirate” (così egli precisa nella lettera a Galluppi del 23 Gennaio 1829 da
Roma) e in altre lettere successive egli ci informa di avere ricevuto da Galluppi stesso, dopo il
1829, gli Elementi di Filosofia, entrambe le edizioni delle Lettere filosofiche e di avere in avuto in
prestito da terzi il Saggio filosofico; ma egli dovette certamente aver letto anche le Lezioni di Logica
e Metafisica di Galluppi, dal momento che numerosi riferimenti a ques’ultima opera sono presenti
nel terzo e quarto dei Dialoghi filosofici sopra alcune sentenze di Pasquale Galluppi, facenti parte
di un gruppo di scritti postumi del Roveretano, pubblicati a Torino nel 1885 14.
Lo scambio epistolare tra i due pensatori lascia subito emergere, dunque, una prima, fondamentale
convergenza tra essi relativa al comune intento di costituire un sistema filosofico in grado di attuare
una rifondazione dell’intero organismo delle scienze e di porsi come sapere certo ed
incontrovertibile, come discorso metafisico-ontologico sulla Verità assoluta ed oggettiva. Vedremo
più appresso come essi vadano differenziandosi nel modo di realizzare tale progetto, ma, per il
momento, importa sottolineare il reciproco riconoscimento della medesima unità di intenti nel
contrapporsi ad un comune bersaglio polemico costituito, senza dubbio, sia per Galluppi che per

13
A. ROSMINI, Epist. fil. cit., pp.75-76.
14
Cfr. A. ROSMINI, “Scritti inediti di A. Rosmini”, in «La Sapienza», vol. XI, Anno VII-I semestre Torino, 1885, pp. 9-
29.
Rosmini, da quel soggettivismo o psicologismo da ambedue individuato come il tratto essenziale
dello sviluppo del pensiero moderno da Cartesio ad Hegel, dal quale, secondo i due filosofi, è
impossibile prescindere se si vuole comprendere e risolvere la crisi culturale, nonché politica,
morale e religiosa, che ha segnato il passaggio dal mondo classico e medievale, rettosi in
precedenza sulla tradizione filosofica greco-cristiana, alla “modernità”.
La svolta gnoseologistica impressa alla filosofia da Cartesio con il proprio sistema, aveva
rappresentato la raggiunta consapevolezza, all’interno del dibattito filosofico moderno, della priorità
del problema della conoscenza rispetto al problema dell’essere, sulla base del sempre più radicato
convincimento, già delineatosi nell’ambito della cultura filosofica rinascimentale, che è il secondo
dei due problemi a dipendere dal primo e non viceversa, come, al contrario, seppure in forme
diverse, era stato sostenuto dai filosofi tradizionali. Tale primato del conoscere sull’essere, della
gnoseologia sulla ontologia, conduce, nella cultura specificatamente moderna dei secoli XVII e
XVIII, all’affermazione della supremazia, sia in ambito conoscitivo che etico-politico, dell’ “uomo”
nella sua soggettività pensante e nella sua autonomia.
In tale prospettiva, la realtà dell’oggetto, che sia il mondo sensibile o quello dei valori – spirituali,
morali, politici, estetici, ecc. – si costituisce nella propria “oggettività” e consistenza ontologica a
partire dall’attività percettiva o rappresentativa del soggetto conoscente, sulla base della cui azione
soltanto è possibile, per l’uomo, ricercare e conseguire il criterio di verità e, quindi, di certezza, di
ogni sua forma di esperienza (anche religiosa) realizzando, quindi, per questa via, la corrispondenza
del pensiero o della conoscenza alla realtà o ai fatti, la tradizionale adaequatio rei et intellectus.
Tale è la tesi che, in modo sicuramente non univoco né monocorde, ma sostanzialmente costante,
permea lo sviluppo storico della filosofia moderna, a cominciare da Cartesio sul versante
razionalistico e da Locke su quello empiristico, passando per la “rivoluzione copernicana” di Kant,
per concludersi, infine, con l’idealismo di Fichte, Schelling ed Hegel.
Ma, sia per Galluppi che per Rosmini, risolvere il problema dell’essere sul fondamento del
problema del conoscere, sostenere che è l’Essere che ruota intorno al Pensiero e non viceversa, che
è lo spirito umano a determinare, in un qualsiasi modo, l’Ente e non quest’ultimo a manifestarsi ed
a rivelarsi allo spirito, vuol dire considerare la realtà, di qualsiasi genere, relativa all’uomo ed alla
sua esperienza soggettiva delle cose e perciò, in ultima analisi, insussistente in sé.
Sul fatto che ogni teoria moderna della conoscenza abbia assunto, dal Seicento fino ai primi decenni
dell’Ottocento, i caratteri di un vero e proprio gnoseologismo, conducendo così all’assolutizzazione
del soggetto conoscente, e, quindi – sia nella forma materialisticamente realistica del soggetto come
sensazione o esperienza, sia nella forma spiritualisticamente idealistica del soggetto come pensiero
o ragione - ad una conclusione essenzialmente scettica, Galluppi e Rosmini non hanno alcun
dubbio.
La sostanziale convergenza tra il pensiero di Galluppi e quello di Rosmini che emerge dalle prime
lettere del carteggio, è, in primo luogo, negativa, oppositiva, consistente nella identica
consapevolezza della necessità di arginare l’avanzata di un comune avversario, per così dire,
rappresentato dal soggettivismo moderno e da tutte quelle dottrine e correnti di pensiero da esso
scaturenti, ma, in secondo luogo, affermativa e propositiva, ovvero relativa ad una concezione della
realtà e della conoscenza che, pur declinata in modo diverso, è inquadrabile all’interno di una
medesima impostazione di fondo. Ciò è chiaramente desumibile dal comune atteggiamento che i
due pensatori assumono nei confronti del criticismo kantiano.
Per entrambi, infatti, Kant ha avuto il merito innegabile di porre il problema della conoscenza nei
termini della ricerca di una mediazione tra il razionalismo e l’empirismo. La ricerca del
“trascendentale” nell’esperienza umana, muove da un’esigenza che sia Galluppi che Rosmini
intendono fare propria e che consiste nel tentativo di superamento di due opposte quanto unilaterali
tendenze filosofiche, responsabili di aver lacerato l’unità e la totalità del sapere e della realtà, e di
aver, in modo riduzionisticamente dualistico, risolto il criterio della verità e della conoscenza o
nella pura ragione o nella pura esperienza.
La tesi del “soggetto” come criterio-guida del conoscere e dell’agire, che si era fatta strada,
innanzitutto, con la rivendicazione tipicamente rinascimentale dell’autonomia dell’uomo e del suo
essere nel mondo, e che aveva poi trovato la sua prima formulazione e giustificazione sistematica
con il pensiero di Cartesio, doveva inevitabilmente implicare il problema se considerare tale
soggetto essenzialmente come puro pensiero e, derivativamente, come sensazione, o, viceversa,
innanzitutto come sensazione, e solo dopo, come pensiero; detto in altri termini, si trattava di capire
se la possibilità da parte della mente umana di conoscere il mondo esterno è originata dalle proprie
nozioni primitive e rappresentazioni intellettuali o, al contrario, da nozioni elaborate a partire dal
mondo esterno e dalle proprie impressioni e sensazioni spazio-temporali.
Il progetto kantiano di rifondazione della conoscenza umana mediante il reperimento degli elementi
che, de iure, consentono di spiegare la genesi, la formazione, la natura delle idee, dei giudizi, delle
sensazioni, e di ogni operazione effettuata dal soggetto conoscente sul mondo esterno – che sia il
mondo delle impressioni sensibili, dei desideri o, ancora, dei sentimenti - consentiva, dal punto di
vista gnoseologico ed epistemologico, di equilibrare la parte soggettiva e formale della conoscenza
con quella oggettiva e materiale e di superare l’opposizione, propria della filosofia pre-kantiana, tra
razionalismo ed empirismo, reimpostando il problema della conoscenza come ricerca delle
condizioni che rendono possibile ogni forma di esperienza umana, e che giustificano la validità
della pretesa da parte del soggetto di conoscere in modo oggettivo, universale e necessario.
Come abbiamo accennato nell’introduzione, Galluppi e Rosmini sono tra i primi innovatori della
ricezione kantiana in Italia nel primo Ottocento, tra i primi – e Galluppi certamente il primo, in
Italia, ad aver studiato più in profondità Kant e ad aver contribuito a diffonderne, con i propri scritti,
segnatamente le Lettere Filosofiche e gli Elementi di Filosofia, il pensiero - ad aver colto il carattere
rivoluzionario della dottrina kantiana. A Kant entrambi i filosofi italiani attribuiscono l’indubbio
merito di aver posto per primo il problema di un’analisi critica delle effettive possibilità conoscitive
del pensiero di contro alle diverse forme di dogmatismo teoretico precedenti. Il titolo stesso di due
tra le opere basilari di Galluppi e di Rosmini, ovvero rispettivamente, il Saggio filosofico sulla
critica della conoscenza o sia analisi distinta del pensiero umano con un esame delle più importanti
quistioni dell’ideologia, del kantismo, e della filosofia trascendentale, ed il Nuovo Saggio
sull’origine delle idee, è rivelatore della imprescindibilità che per ambedue i filosofi assume la
problematica gnoseologica ed ideologica.
Entrambi vedono nell’innatismo formale kantiano un considerevole passo avanti nello sviluppo
della problematica gnoseologica rispetto all’innatismo dogmatico del razionalismo tradizionale, che
ignorava il potere costituente della mente nel giudizio scientifico 15 .
In tal senso si può condividere, pur con le dovute cautele, il giudizio di Gentile a proposito del
rapporto tra Galluppi e Rosmini proprio in riferimento alla tematica gnoseologica, secondo il quale
nel

Rosmini acquista grande consapevolezza il problema gnoseologico; ma bisogna intanto convenire che
questo problema egli lo prende dal Galluppi: e che in questo rapporto tra i due scrittori si fa manifesta tutta la
importanza storica del filosofo meridionale, se si considera che dalla esatta posizione di questo problema
deriva per gran parte il valore e la fecondità storica della dottrina rosminiana 16.

15
Cfr, ad esempio, P. GALLUPPI, Saggio filosofico sulla critica della conoscenza o sia analisi distinta del pensiero
umano con un esame delle più importanti quistioni dell’ideologia, del kantismo, e della filosofia trascendentale, 5 voll.,
Silvestri, Milano 1846, vol. 1, Libro I, Prefazione dell’Autore p. 9; ed inoltre, Ivi, vol. 3, Libro III, Capo XI, pp. 268-
269 e, ancora, P. GALLUPPI., Note autobiografiche [Tropea, 15.08.1822] in ID., Lettere Filosofiche, cit., p. 390, e Ivi,
Lettera n. XIV, p. 279. Cfr., inoltre, A. ROSMINI, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, 3 voll. (= Ediz. Crit., vol. 3-5), a
cura di G. Messina, Città Nuova, Roma 2003-2005, 340-341 e 393, (d’ora in poi NS).
16
G. GENTILE, Rosmini e Gioberti, cit., p. 60.
Il pensiero moderno aveva mostrato che uno dei limiti maggiori della metafisica dogmatica era stato
quello di partire da Dio per arrivare all’uomo, ed aveva invece posto le basi per percorrere il
cammino inverso, quello che dall’uomo risale a Dio.

Per Rosmini – scrive U. Muratore in proposito – è bene che il filosofo inizi il suo viaggio non da un
punto ideale, ma da quello in cui si trova a vivere. Egli, figlio del suo tempo, dovrà esaminare […] il mobile
orizzonte culturale che gli sta attorno [...] Rosmini accettò la scommessa e partì anch’egli dall’uomo.
Abbandonò quindi, nei suoi trattati, la classica impostazione delle Summae tradizionali, che iniziavano la
ricerca con il trattato su Dio (De Deo) e la creazione per scendere gradualmente a parlare dell’uomo, e scelse
quale punto di partenza il problema della conoscenza umana 17.

Entrambi recepiscono, dunque, da Kant la priorità del problema della conoscenza rispetto agli altri
problemi filosofici; si tratta, tuttavia, a differenza di quanto credeva Gentile, di una priorità
metodologica, non tematica, giacché, non bisogna dimenticarlo – ed è, questo, proprio il punto
decisivo in relazione al quale è possibile addentrarsi, come vedremo tra poco, nella comprensione
dei rapporti tra Galluppi e Rosmini - il problema della conoscenza costituisce, sia per Galluppi che
per Rosmini, solo il punto di partenza dell’indagine filosofica, non il punto di arrivo, il quale, anzi,
è già previamente fissato nel problema ontologico dell’essere che è il tema in relazione al quale
soltanto per entrambi i pensatori acquista senso la comprensione, che si propone di ottenere Kant
con il problema critico, delle possibilità conoscitive del soggetto umano. A proposito di Rosmini
scrive Sciacca che

la soluzione del problema gnoseologico è condizionata dalla fondazione della metafisica e dalla soluzione
previa del problema della metafisica stessa, non riducibile a quello gnoseologico […] Pertanto, a nostro
avviso, la teoria della conoscenza del Rosmini e per il Rosmini ha dentro di sé una metafisica implicita, che
resta sempre il problema primo, quella metafisica spiritualistica, che tanto aveva sofferto nelle teorie
illuministiche e a cui Kant nega il titolo secolare di “scienza” 18.

Analogamente Galluppi, pur attribuendo una importanza decisiva al problema critico e


gnoseologico, così come era andato delineandosi nel corso del pensiero moderno, subordina tale
problema al tentativo di riproporre, su basi rinnovate, la metafisica speculativa; scrive in proposito
Tortora:

17
U. MURATORE, Conoscere Rosmini, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa 2002, pp. 48-49.
18
M.F. SCIACCA, La filosofia morale di A. Rosmini, II ed., Fratelli Bocca Editori, Roma 1955, pp. 55-56.
Galluppi tenta – ed è forse questo il suo apporto specifico – proprio attraverso la riflessione empiristico-
ideologica, di offrire alla concezione metafisica nuova fondazione, liberandola da residui troppo
marcatamente dogmatici 19.

Da qui il vizio di fondo del trascendentalismo kantiano secondo i nostri due filosofi italiani; se da
un lato, infatti, esso reimpostava correttamente il problema del rapporto tra ragione ed esperienza di
contro al dogmatismo e del filone razionalistico e del filone empiristico, dall’altro lato, però, apriva
la strada alla graduale risoluzione dell’essere nel conoscere, alla progressiva cancellazione della
“Cosa in sé”, e, quindi, alla disintegrazione di ogni riferimento oggettivo e fondativo della
conoscenza; il copernicanesimo filosofico kantiano era cioè l’anticamera dell’idealismo
immanentistico assoluto di Fichte, Schelling e soprattutto di Hegel. Lo sbocco ultimo della dottrina
kantiana era, per entrambi, lo scetticismo ed il nihilismo. Pur partendo infatti dalla determinazione
della posizione della “coscienza” nell’atto conoscitivo, con il problema della deduzione
trascendentale Kant si era posto, in definitiva, il problema di come fondare la possibilità da parte del
soggetto di conoscere in modo oggettivamente valido non già la realtà, ma l’esperienza che il
soggetto stesso fa della realtà.
Su questo punto la consonanza tra Galluppi e Rosmini è fuor di dubbio: nelle Lettere Filosofiche, a
proposito della deriva scettica del criticismo scrive Galluppi:

Lo scetticismo antico si limitava a dire, che la verità non si era trovata; ma non insegnava l’impossibilità di
trovarla. Kant ha fatto dippiù; egli ci ha tolto qualunque realtà in sé; ed egli decise essere impossibile
all’uomo di possederla. Ma il metodo critico, di cui Kant è l’autore, è insieme dommatico e scettico. La
quistione su i principi delle conoscenze umane ha due parti distinte l’una dall’altra e che non bisogna
confondere. L’una è quella dell’origine e della formazione della nostra conoscenza, e l’altra quella della
realtà, e della certezza della conoscenza stessa, e per conseguenza de’ fondamenti sui quali noi giudichiamo
[…] Kant è dommatico su la prima quistione. Egli è più che scettico sulla seconda. Ma il dommatismo e lo
scetticismo si contraddicono scambievolmente. Una filosofia che li racchiude tutti e due nel suo seno non
20
può dunque essere che assurda .

Analogamente Rosmini, nel Nuovo Saggio, scrive che, nonostante i pregi del criticismo,

restava però a semplificare ancora: restava a ridurre al menomo possibile questa parte formale della
cognizione, che s’era conosciuto dover essere data dalla natura e non formata da noi […] Veramente il Kant

19
G. TORTORA, op. cit., p. 28.
20
P. GALLUPPI, Lett. fil., cit., Lettera n. XIV, pp. 259-260. Il corsivo è mio.
non trovò questo minimo; egli avea steso il formale del conoscimento a molto più che realmente non vada
[…] Non si avvide, che il senso non ha cosa, che appartenga alla cognizione formale; e che tutte le forme da
lui attribuite all’intelletto e alla ragione, si riducono ad una sola e semplicissima, cioè a quella di possibilità,
o d’idealità […] E dal non essere pervenuto a questa grande semplificazione, accadde al pensatore di
Koenisberg un gravissimo danno; chè egli fu privato di conoscere la natura dell’unica vera forma, la quale è
oggettiva, eccelsa, indipendente dall’anima stessa […] Indi il Kant non potè dare una solida base alla
21
scienza, alla verità, ed alla umana certezza .

Una cosa è, ci vuol dire Rosmini, il formale della conoscenza, quanto di puro e soggettivo vi è nella
conoscenza, «la parte formale della cognizione», ben altra cosa è la forma oggettiva della
conoscenza; «formale» è soltanto l’elemento che, nell’attività conoscitiva del soggetto, trae origine
e formazione spontaneamente dal soggetto stesso, la «forma», invece, è qualcosa di più che è
logicamente ed ontologicamente anteriore al formale, ossia è il fondamento, l’elemento che attua la
potenza di conoscere, anzi la realtà stessa del conoscere, secondo quella distinzione basilare, già
presente nitidamente a Galluppi come abbiamo visto nel brano citato dalle Lettere Filosofiche, per
cui il problema della conoscenza può essere posto o come ricerca, puramente gnoseologica, di
quanto di puro od empirico vi è nella relazione conoscitiva tra soggetto ed oggetto, o come ricerca,
propriamente metafisica, di ciò che rende possibile la stessa relazione conoscitiva tra soggetto ed
oggetto, indipendentemente dalla parte che, entro tale relazione, è prodotta dal soggetto o
dall’oggetto. Ma Kant si è fermato al primo tipo di ricerca, estromettendo dall’ambito scientifico il
secondo tipo di ricerca, ed ha posto le condizioni per la progressiva identificazione dell’Essere e del
Pensiero attuata da Fichte, Schelling ed Hegel.
Ecco fissato, dunque, il primo e decisivo elemento di continuità tra pensiero galluppiano e
rosminano attinente al loro scopo comune: ovvero mediare tra l’anima razionalistica e quella
empiristica della filosofia moderna, assumendo sì il nuovo presupposto di tale filosofia, cioè il
principio di “autocoscienza”, ma ripristinando il rapporto di priorità logico-ontologica dell’ordine
dell’essere rispetto all’ordine del conoscere; per conseguire tale scopo quello di ricostruire una
filosofia della soggettività sul fondamento della oggettività della conoscenza, non era più possibile
affidarsi al criticismo e neanche all’idealismo post-kantiano.

21
NS 394 - 395; cfr. pure Ivi, Sez. quarta, cap. III.
Lezione n. 2. Il problema dell’origine delle idee.

L’identità di scopi tra il Tropeano e il Roveretano che abbiamo sottolineato nella nostra prima
lezione, ci rivela, come s’è detto, non più solo una convergenza oppositiva, consistente nel comune
rifiuto del soggettivismo moderno, ma anche, e soprattutto, propositiva, evidente nella condivisa
volontà di ri-fondare ontologicamente e non più gnoseologisticamente, una nuova filosofia della
soggettività.
Senonché, è proprio in relazione al medesimo scopo di garantire l’oggettività e la realtà della
conoscenza in ogni sua forma (e, di conseguenza, anche di ogni forma di azione pratica dell’uomo)
ed alla comune esigenza di contrastare ogni tipo di filosofia soggettivistica o relativistica ed ogni
suo surrogato sensistico, idealistico, materialistico, naturalistico o anche dogmaticamente
spiritualistico, che vanno delineandosi le divergenze tra i due pensatori ed è proprio a questo punto
che la conversazione epistolare tra i due si incrina. Ma l’aspetto più singolare e paradossale della
loro polemica (un aspetto, come s’è accennato nell’introduzione, presente anche nella polemica tra
Rosmini e Gioberti) consiste nel fatto che pur partendo dichiaratamente dalla medesima esigenza e
pur perseguendo consapevolmente lo stesso scopo, ognuno dei due finisce per muovere all’altro la
medesima accusa, cioè quella di “soggettivismo” e di “psicologismo”. Proprio tale circostanza
avrebbe dovuto, a nostro avviso, indurre gli studiosi a ipotizzare che la loro polemica celasse, certo
in modo reciprocamente inconsapevole, una più o meno sotterranea intesa tra i due e che la loro
contrapposizione fosse possibile solo in rapporto ad uno stesso principio di fondo declinato
diversamente ed entro una comune impostazione di pensiero.
E’ proprio il richiamo a Kant che, nel corso del carteggio, spinge il dialogo tra i due verso un
serrato confronto tra le rispettive dottrine gnoseologiche e metafisiche; nella lettera, da noi citata in
precedenza, del 23 gennaio 1829 da Roma, dopo aver risposto ad un’obiezione sollevata da
Galluppi sui temi contenuti nel secondo saggio del I volume degli Opuscoli filosofici, con la lettera,
già menzionata del 9 agosto 1828, a proposito di questioni teologiche, in particolare quella
dell’origine del male e del rapporto tra Grazia e libero arbitrio - discussione, questa, che non offre,
però, spunti di particolare interesse, se non un timido indizio rispetto al diverso modo di intendere,
da parte dei due il rapporto tra ragione e fede, su cui comunque torneremo in seguito – Rosmini
chiede a Galluppi un giudizio più circostanziato in merito alle proprie critiche mosse a Kant nel
primo saggio del I volume degli Opuscoli:
Mi sarebbe caro – scrive il Roveretano – pure di sentire il suo giudizio sulla mia maniera di confutare
Kant, che ho brevemente toccato alla faccia 89 e segg. del primo volume degli Opuscoli Filosofici 22.

La nuova interpretazione rosminiana di Kant avrebbe avuto di lì a breve, con la stampa del Nuovo
Saggio, un ruolo determinante nell’influenzare le diverse reazioni, all’interno della cultura
filosofica italiana, al sistema ideologico e gnoseologico di Rosmini, per cui era naturale che il
giovane filosofo trentino tenesse in grande considerazione l’opinione di colui che, come ricordato in
precedenza, aveva per primo fatto conoscere in Italia il pensiero kantiano, ben più
approfonditamente che non, ad esempio, Soave e Borelli, che pure avevano già tentato di misurarsi
con le opere del pensatore di KÖnisberg.
Galluppi risponde con la lettera del 6 giugno 1829 da Tropea, esprimendo la propria totale sintonia
con la critica rosminiana di Kant:

Ella ragiona con esattezza e profondità, obiettando a Kant la contradizione, allora che egli afferma
sommamente vero quel sistema che tende a tòr via la possibilità di ogni vero […] il criticismo non può
vantare che una verità apparente e subbiettiva 23.

E’ fin troppo chiaro che per Rosmini, il richiamo alla propria confutazione di Kant, rappresenta
anche e soprattutto l’occasione per avere da parte di un pensatore già affermato come Galluppi, un
giudizio più ampio e complessivo sul suo stesso sistema filosofico, che egli avrebbe di lì a poco
reso pubblico con il Nuovo Saggio; infatti, nella già citata missiva del 4 ottobre 1829, Rosmini, oltre
ad invitare Galluppi a recarsi a Roma per conoscerlo personalmente (purtroppo i due filosofi non
avranno mai occasione per conoscersi di persona), informa il Tropeano di essere impegnato nella
stesura di un’opera incentrata sul tema dell’origine delle idee, il Nuovo Saggio appunto,
sollecitando Galluppi, stavolta non più attraverso il rimando a Kant, ma direttamente, ancorché con
massima discrezione e riverenza, ad esprimere la propria posizione in merito alla controversa
questione dell’innatismo delle idee:

Io mi sto stampando un’opera, alla quale molto Ella potrebbe giovare se fosse vicina. Appena oso dirle
l’argomento a Lei: sull’Origine delle idee […] Ah s’Ella facesse una scappata fino a Roma! Anzi gioverebbe
i progressi della filosofia italiana un suo giro per tutta l’Italia. La mia opinione circa l’origine delle idee è

22
A. ROSMINI, Epist. fil., cit., p. 90.
23
P. GALLUPPI, Lett. all’Abate Rosmini, cit., p. 382.
questa, che sieno inesplicabili, se non si pone un’idea innata, l’idea dell’essere in universale. Quest’unica
idea io metto innata; e da questa (unendosi alle sensazioni esterne ed interne) deduco tutte le altre 24.

La tesi espressa da Rosmini nel passo appena citato, racchiude concisamente il caposaldo principale
del suo intero sistema filosofico che, anche nei suoi sviluppi ulteriori, benché notevolmente chiarito
ed approfondito, rimarrà comunque fondamentalmente basato sulla tesi che afferma l’esistenza
innata, nella mente umana, dell’idea dell’essere o, detto in altri termini, dell’essere ideale. Tale tesi
- nelle lettere solo succintamente esposta ed argomentata in tutti i suoi passaggi logici per la prima
volta nel Nuovo Saggio, e poi ulteriormente sviluppata, nelle sue più notevoli implicazioni
ontologiche e teologiche, nelle sue successive opere, come la Teosofia - muove dalla constatazione
del circolo vizioso che, per Rosmini, sta alla base di tutti i tentativi di soluzione del problema della
conoscenza succedutisi dall’antichità fino al suo tempo, e consistente nella seguente contraddizione:
se il giudizio conoscitivo si compone delle idee di soggetto e predicato, è necessario che, prima di
giudicare, si trovino già nella mente umana le idee; ma le idee di soggetto e predicato non
sussistono al di fuori del giudizio, per cui si deve concludere che è il giudizio a precedere le idee e
non viceversa, cadendo così in un circolo. Da qui il duplice errore di assegnare o un ruolo eccessivo
all’elemento puro ed a priori nella conoscenza, vedendo nel giudizio un atto successivo all’esistenza
delle idee, e cadendo, così, nel razionalismo dogmatico o assegnando a tale elemento un ruolo
difettivo, vedendo, cioè, nel giudizio un atto precedente l’esistenza delle idee, e cadendo nell’errore
opposto dell’empirismo dogmatico.
Si può uscire da questo circolo solo ammettendo che nella mente si trovi, innata, non questa o
quella idea, non questo o quel predicato da unire a questo o quel soggetto, non una qualsivoglia idea
determinata, insomma, ma, al contrario, un’idea indeterminata, ovvero quella idea in virtù della
quale ogni altra idea può essere predicata di altre, e che contiene, perciò, la possibilità che ogni altra
idea sia. Tale è l’idea dell’essere possibile ed indeterminato che costituisce l’esser-idea dell’idea, la
realtà dell’idea, quindi ciò che tutte le idee devono supporre per essere idee e che sola può
concepirsi come la condizione del giudizio.
L’essere ideale assurge così a quel predicato generalissimo – l’esistenza in quanto tale – che, unito
ad ogni sorta di soggetto, ciò di cui si predica l’esistenza, cioè qualsiasi ente sentito, interno ed
esterno, dà luogo al giudizio dichiarativo sulla realtà sussistente dell’ente sentito, determinandolo
come oggetto cògnito. E’ chiaro che, per Rosmini, risulta decisivo aver ridotto ad uno il numero
delle idee innate, poiché solo in quanto unità assoluta è concepibile l’eidos, la “forma”, che
costituisce lo stesso essere intelligibile e, quindi, la possibilità stessa della intellezione.

24
A. ROSMINI, Epist. fil., cit., p. 99.
Ma, nella risposta di Galluppi con la lettera dell’11 novembre 1829, già citata, il Tropeano esprime
una tesi diversa da quella di Rosmini:

Io non ammetto – egli scrive - alcuna idea innata, ma pongo alcune idee soggettive, le quali sebbene
suppongano i dati dell’esperienza, non derivano niente di meno dalla stessa, ma dall’attività sintetica dello
spirito: tali sono, a mio credere, le idee di identità, di diversità, dell’assoluto per la ragione teoretica: quelle
del dovere e del merito per la ragione pratica 25.

Questo scambio di battute ci fornisce una prima significativa indicazione circa la differente
posizione dei due interlocutori sul tema dell’origine delle idee e, in particolare, sulla questione se le
idee umane debbano dirsi innate o acquisite.
Galluppi, che aveva già affrontato e risolto, in base al proprio sistema filosofico, la questione nel
terzo libro del Saggio filosofico, al quale egli, infatti, nella lettera rinvia Rosmini, sostiene che
risolvere il problema della conoscenza ammettendo anche solo una idea innata, non consente di
uscire dal soggettivismo, in quanto, per il filosofo Calabrese, un’idea innata è anche sempre
soggettiva, cioè prodotta dall’attività sintetica della mente, e quindi sì applicabile al dato reale
dell’esperienza, ma non ricavabile da esso e perciò inevitabilmente relativa, nella sua sussistenza, al
soggetto e, al di fuori di quest’ultimo, inesistente.
Rosmini si persuade, dopo la risposta di Galluppi, di trovarsi, come afferma nella lettera del 9
gennaio 1830 da Roma, su «un terreno diverso» da quello del suo interlocutore, e, pur non
mancando di esprimere ammirazione nei confronti del Saggio filosofico di Galluppi, respinge al
mittente l’accusa, per il momento solo implicita, di soggettivismo. Essendo il soggetto umano un
essere particolare e contingente, sostiene Rosmini nella missiva succitata, esso non può produrre un
effetto maggiore di sé e conferire universalità, necessità e validità oggettiva alle proprie cognizioni;
di conseguenza, quanto di universale e necessario vi è in esse deve trarre origine da qualcosa di
indipendente dal soggetto e ad esso preesistente, per cui negando che vi siano idee innate – ovvero,
il che è lo stesso per Rosmini, affermando che le idee provengono dai sensi – risulta inesplicabile la
presenza di conoscenze universali e necessarie e si ricade nello «scetticismo trascendentale di
Kant».
A questo punto la polemica si fa sempre più serrata e anche sottile sul piano concettuale e la
risposta di Galluppi non si fa attendere e, appena un mese dopo, egli con la lettera del 9 febbraio da
Tropea, replica a Rosmini affermando che, quando si parla di universalità e necessità, occorre
distinguere tra una necessità logica, scaturente dal soggetto e una metafisica, derivante dalla realtà

25
P. GALLUPPI, Lett. all’Abate Rosmini, cit., p. 383.
oggettiva, ma quest’ultima non può essere identificata con l’anima umana, costitutivamente
contingente in tutti i propri atteggiamenti conoscitivi.
Ma Rosmini, nella lettera del 25 marzo dello stesso anno da Roma, rigetta tale distinguo, in quanto
la necessità metafisica si riduce per lui a quella logica, poiché se di un ente si dice che non può non
essere, è perché la mente coglie innanzitutto un rapporto di necessità logica tra la semplice
esistenza di esso e l’idea della sua essenza oggettiva, e non vi è necessità metafisica se non sulla
base di quella logica pensata dalla mente; e Galluppi, nella missiva del 23 aprile da Tropea, ribatte
che la necessità logica è la necessità del pensiero umano, quindi, egli conclude, del soggetto
pensante, nel quale si finisce erroneamente per individuare la causa efficiente di tale necessità, della
quale, invece, è possibile reperire nel soggetto solo la causa formale. Fare del soggetto la causalità
producente della necessità significherebbe identificare il soggetto con le idee innate riproponendo
l’innatismo dogmatico del razionalismo prekantiano, «poiché si fa consistere – scrive Galluppi –
26
l’essenza o la natura del soggetto in queste idee innate, in queste forme a priori» e, obiezione
ancor più importante, poiché le idee innate sono idee universali, e le idee universali sono
similitudini, e perciò relazioni, «come conoscere» – chiede Galluppi a Rosmini – «le relazioni senza
conoscere i termini delle relazioni ?» 27.
Nella sua risposta, con la missiva del 16 giugno 1830 da Domodossola, Rosmini fa notare a
Galluppi che la conseguenza che egli trae dalla corretta affermazione secondo cui la necessità logica
è una necessità del pensiero umano - e cioè che, posta tale affermazione, dunque, la necessità logica
è una necessità del soggetto pensante - è errata.
Qui Rosmini espone un punto capitale del proprio pensiero, che è in realtà il presupposto di tutto il
proprio sistema e che consiste nella tesi per la quale il pensiero non si identifica con il soggetto
pensante; ovverosia, nell’attività pensante, vi sono due elementi tra loro inseparabili ma non
identici, cioè da una parte, il pensiero inteso come principio dell’atto pensante, appunto il soggetto
pensante, ma dall’altra parte, il pensiero inteso come termine dell’atto pensante, e questo termine
del pensiero è il suo oggetto, sostiene Rosmini, ed anche la sua forma, a priori sì, ma oggettiva,
«forma» che altro non è se non quell’essere ideale che, come più volte Rosmini dirà, è il lume
dell’intelligenza umana, la luce intelligibile che consente all’occhio della mente di vedere
immediatamente il proprio contenuto, di intellegere. Scrive, infatti, Rosmini:

26
P. GALLUPPI, Lett. all’Abate Rosmini, cit., p. 385.
27
Ibidem.
A mio parere, la necessità logica non viene già prodotta dalla natura del soggetto che fa l’atto, il quale
essendo contingente, non ha necessità né logica né metafisica, ma dallo stesso oggetto, nel quale il soggetto
termina il suo atto, e del quale l’atto stesso si informa 28.

La necessità logica, perciò, non può dirsi soggettiva, ma oggettiva perché prodotta non dalla natura
del soggetto del pensiero, cioè dal pensiero inteso come atto del soggetto, ma dalla natura
dell’oggetto del pensiero, ovvero dal termine dell’atto. Richiamandosi, nella medesima lettera, al
principio, aristotelico prima e scolastico poi, per cui intelligere est quoddam pati, Rosmini
sottolinea che il soggetto, nel percepire l’oggetto pensabile (vedremo più appresso in cosa consista
esattamente tale percepire per Rosmini, poiché questo è decisivo nella comprensione dei rapporti
con Galluppi), lo riceve, non lo genera. L’oggetto pensabile o idea dell’essere è dunque nell’uomo
ma non deriva dall’uomo ed è esso, non il soggetto, il fondamento dunque di ogni relazione ed
universalità:

L’analisi dell’ente ragionevole, ossia umano – dice Rosmini - ci conduce a riconoscerlo risultante: 1. da un
soggetto, che è lui stesso; 2. e da un oggetto, a lui bensì essenzialmente congiunto, cioè tale che la relazione
del soggetto con lui costituisca la sua specie, ma per natura da lui diverso ed opposto. Questo oggetto dato
all’essere ragionevole è per mio avviso l’idea dell’essere in universale, la quale non è un effetto del soggetto,
29
ma è causa in lui formale, per modo che il trae ad un atto che si chiama pensiero, e lo costituisce .

Stavolta Galluppi non risponde, e Rosmini gli invia nuovamente un’altra lettera l’11 dicembre
1831 da Trento, per chiedergli se ha ricevuto la copia del Nuovo saggio, e come fare per fargli
pervenire i Principi della Scienza Morale, appena stampati, sollecitandolo garbatamente a
riprendere la corrispondenza sui temi filosofici. Dopo due anni di silenzio, Galluppi scrive a
Rosmini con la lettera del 12 febbraio 1832 da Napoli, in cui però egli non fa alcun cenno a
questioni filosofiche specifiche, e si limita a informare il Roveretano della nomina appena ricevuta
dal Re delle Due Sicilie a professore di Logica e Metafisica all’Università di Napoli, dell’intenzione
di stampare le lezioni del corrente anno accademico, di inviargli il primo volume della Filosofia
della Volontà, l’opera di filosofia morale di Galluppi, prossima ad essere pubblicata, e di non aver
ancor potuto avere la copia del Nuovo Saggio inviatagli da Rosmini ma di aver avuto in prestito il
primo volume dell’opera «ove» – scrive Galluppi – «ho ammirato il profondo pensatore»,

28
A. ROSMINI, Epist. fil., cit., p. 115.

29
Ivi, p.116.
aggiungendo che «io al più presto possibile mi procurerò l’occasione di farne onorevole e ragionata
30
menzione» , informandolo, inoltre, sul modo più veloce per fargli pervenire i Principi della
scienza morale.
Per la mancata risposta di Galluppi sui temi filosofici, Rosmini esprime rammarico dodici giorni
dopo in una lettera del 24 febbraio 1832 a Tommaseo da Trento, in cui egli si lamenta dell’analogo
atteggiamento di Manzoni e di La Mennais:

Dal Galluppi – egli scrive - non ebbi che una lettera dove parla o piuttosto tocca del Saggio […] Prima di
questa lettera ebbi col Galluppi una corrispondenza filosofica sopra un punto capitale: ora all’ultima mia
lettera egli non ebbe replicato punto. Cercherò che vi siano copiate le due lettere del Manzoni, e la mia
risposta […] ma il Manzoni non fa che un cenno del suo pensiero, come vedrete, ed io ho la sventura, che
dopo andata e venuta qualche lettera di controversia, nessuno più risponde: così il Manzoni, così il Galluppi,
31
così La Mennais, così altri .

Questa volta è Rosmini a tacere, e Galluppi gli invia nuovamente una brevissima missiva il 2 marzo
1833 da Napoli che, però, stando ai dati in nostro possesso, Rosmini non dovette ricevere ed in cui
Galluppi comunque non affronta alcun problema filosofico ma constata semplicemente che è da
molto tempo che non riceve lettere dal Roveretano e comunica al suo interlocutore di avergli inviato
alcune sue pubblicazioni, aggiungendo, inoltre, che sta «ammirando la sua profonda opera del
Nuovo Saggio su l’origine delle idee» 32.
Il carteggio, che è ormai già terminato riguardo al confronto filosofico, si chiude definitivamente
nel 1839, quando Rosmini il 7 novembre, scrive a Galluppi da Stresa, per ringraziarlo dell’invio
della seconda edizione delle Lettere Filosofiche, stampata l’anno precedente, nonché per averlo
menzionato nella celebre XIVª Lettera, che analizzeremo in seguito, e per suggerirgli – ed è, tale
raccomandazione che Rosmini fa a Galluppi, di grande rilevanza per comprendere alcuni aspetti
della controversia tra i due e su cui torneremo nelle prossime lezioni nell’esaminare le rispettive
opere sistematiche – di valutare e discutere la propria teorie delle idee tenendo presente non solo il
Nuovo Saggio, di cui peraltro egli consiglia a Galluppi di considerare soprattutto l’edizione
milanese del 1836 e non solo quella romana del 1830, meno corretta dell’altra, ma anche le proprie
opere successive. Da questo momento in poi, Galluppi non scriverà più a Rosmini, e quest’ultimo

30
P. GALLUPPI, Lett. all’Abate Rosmini, cit., p. 386.
31
A. ROSMINI, Epist. fil., cit., p. 198.
32
P. GALLUPPI, Lett. all’Abate Rosmini, cit., p. 386.
tornerà a lamentarsene, estendendo il proprio rincrescimento anche nei confronti di Lamennais, in
una lettera a C. Cantù del 15 aprile 1841 da Stresa, in cui il Roveretano affermerà:

Galluppi, che io rispettai sempre in pubblico, venne una volta a carteggio; ma alla terza o quarta lettera non
rispose più. La Mennais fece lo stesso; alla prima, cioè, rispose che non poteva allora proseguire la disputa
da lui stesso provocata 33.

Ma, in verità, la conclusione della corrispondenza epistolare tra i due non significò la fine del loro
confronto filosofico poiché, come vedremo subito nella successiva lezione, tale confronto riprese,
ed in modo anche pregnante, nelle loro rispettive opere.

33
A. ROSMINI, Epist. fil., cit., p. 374.
Lezione n. 3. Le obiezioni di Galluppi alla teoria rosminiana dell’ «essere ideale»

Come abbiamo visto nelle prime due lezioni, il confronto diretto tra Galluppi e Rosmini, iniziato nel
1827, si interrompe, di fatto, nel 1830 e dopo questa data, come s’è detto, i due filosofi, nelle
pochissime lettere che si scambiano, non affrontano più tematiche filosofiche.
In realtà, l’interruzione del carteggio non pone fine alla discussione tra i due, la quale si rivela tanto
più interessante proprio in quanto essa non si limita alla sola corrispondenza epistolare ma prosegue
anche all’interno di alcune delle loro opere sistematiche, il che mostra quanto ognuno dei due
riconoscesse nell’altro un interlocutore col quale fare necessariamente i conti.
Certo, l’atteggiamento che sia Galluppi che Rosmini assumono l’uno verso l’altro nelle loro opere,
è conforme sostanzialmente al modo conflittuale in cui si era chiuso il carteggio, e, da questo punto
di vista, il loro confronto si va sviluppando entro una sempre maggiore contrapposizione dottrinale
che però, proprio per questo, come vedremo, si fa sempre più rilevante sul piano filosofico. Anche il
terreno dello scontro è lo stesso del carteggio, vale a dire quello caratterizzato dal problema della
conoscenza e dalle ripercussioni delle diverse soluzioni date a tale problema rispetto all’altra grande
questione, quella della realtà e del compito stesso della filosofia.
Le critiche che Galluppi aveva già mosso alla teoria rosminiana dell’ “essere ideale” nelle lettere,
vengono riprese, innanzitutto, nelle Lezioni di Logica e Metafisica, pubblicate da Galluppi tra il
1832 ed il 1834, e frutto del suo insegnamento universitario a Napoli ma, poi, soprattutto, nella
seconda edizione delle Lettere Filosofiche, del 1838, contenente l’importantissima XIVª lettera,
aggiunta proprio in questa seconda edizione alle tredici di cui si componeva la prima, che a
qualcuno è parsa rappresentare, forse un po’ esageratamente, «la condanna definitiva di Rosmini 34,
(così si esprime G. Bonafede), ma nella quale, innegabilmente, Galluppi precisa più e meglio di
quanto non abbia fatto in precedenza la propria posizione nei riguardi del pensiero rosminiano.
Rispetto al carteggio, già nella XVIª delle sue Lezioni, l’accusa di soggettivismo rivolta a Rosmini
viene sviluppata, nelle sue motivazioni teoriche, in modo più approfondito e puntuale da Galluppi,
sebbene neanche qui ancora in modo del tutto esplicito e diretto nei riguardi del Roveretano, ma
contestualmente ad una discussione più ampia sul tema della natura e dell’origine delle idee che
coinvolge anche altri autori. Tale discussione, che riprende l’antica questione degli universali, verte
sullo statuto delle idee generali e consiste nel chiedersi se esse siano da intendersi solo come un
flatus vocis, riducibili esclusivamente ai vocaboli corrispondenti, oppure se si riferiscano ad entità
reali, espresse sì attraverso i segni linguistici, ma preesistenti, nella loro essenza, ad essi.

34
G. BONAFEDE, Note sul pensiero di Galluppi, in P. GALLUPPI, Lettere Filosofiche, cit., p. 35.
Galluppi contesta recisamente la vecchia tesi nominalistica - di cui egli vede una versione moderna
nella posizione di Hobbes, Condillac, Hume, Berkeley e Dugald-Stewart - che vuole i termini
generali come puri nomi, ritenendola assurda, poiché, egli argomenta, in tanto è possibile ricorrere a
termini o vocaboli universali, costituendo così giudizi universali, in quanto è presente, nella mente,
la corrispondente idea universale, per cui non è possibile identificare più individui nella stessa
specie o genere, se non sulla base della nozione universale di identità, che deve perciò preesistere
agli oggetti individuali ai quali viene applicata ed essere ricavata esclusivamente dal pensiero,
indipendentemente dai sensi.
Ma, per il filosofo Calabrese – e qui si profila il motivo di dissenso con Rosmini - la presenza, nella
mente, delle idee universali non implica che l’idea di ogni cosa, in quanto idea, abbia una realtà
universale, poiché è possibile, per Galluppi, concepire direttamente la realtà individuale di un ente
anche senza il ricorso alle nozioni generali. Quest’ultime, che contengono le caratteristiche comuni
a più individui, come la nozione di specie o di genere, non sono certamente prodotte dal senso,
poiché esse sono costitutive dell’intelletto, e sono quindi a priori e pure, ma la nozione di
individuo, spiega Galluppi, pur non essendo ancora un’idea “generale”, è comunque frutto di
un’astrazione, poiché, come egli scrive, “sebbene il generaleggiare sia astrarre, l’astrarre non è
sempre generaleggiare” 35; il “percetto”, in quanto astratto, può dirsi già idea, benché individuale e
perciò tale idea entra già a costituire una forma peculiare di giudizio che non risulta però dal
rapporto tra gli oggetti individuali pensato dall’intelletto, bensì dal rapporto, astratto sì dal
pensiero, ma al tempo stesso percepito o sentito dalla coscienza pensante tra sé e l’oggetto
individuale, un rapporto, questo, a posteriori.
Galluppi non ammette, cioè, come invece fa Rosmini, che il giudizio in quanto tale sia possibile
solo sulla base di idee generali, perché, in tal caso, il costituirsi dell’oggetto cògnito dipenderebbe,
nella sua conoscibilità, da un atto sintetico del pensiero, perciò, soggettivo, da cui un inevitabile
scivolamento nel criticismo kantiano; è proprio su questo punto che Galluppi cita esplicitamente
Rosmini:

Io dunque non ammetto – scrive Galluppi riferendosi, con la consueta cortesia, al Roveretano – «che
ogni giudizio sia impossibile, senza idee generali, come crede l’illustre autore dell’opera profonda, uscita alla
luce ultimamente in Italia col titolo di Nuovo Saggio sull’origine delle idee 36.

35
P. GALLUPPI, Elementi di Filosofia, 2 voll., G. LO CANE (a cura di), Rubbettino, Soveria Mannelli 2001-2003, vol. 1,
Psicologia, Capo III, § 26, p. 149, e cfr. anche Ivi, Capo V, §§ 37-38.
36
ID, Lezioni di Logica e Metafisica, 4 voll., Borroni e Scotti, Milano 1845, vol. 1, Lezione n. XVI, p. 128.
Si tratta dell’unico, breve, ma importante cenno esplicito a Rosmini all’interno di questa lezione,
ma il tema dell’esistenza delle idee generali, su cui verte l’intera lezione, è fondamentale in tutta la
polemica tra i due filosofi per il peso che esso assume nella ricerca, comune ad entrambi, della
oggettività della conoscenza.
Il medesimo ragionamento viene ripreso da Galluppi nella lezione n° LXXXVI, nella quale il
confronto critico con il filosofo trentino è sviluppato più ampiamente rispetto alla lezione
precedente, soprattutto attraverso l’esame documentato di numerosi passi del Nuovo Saggio.
La posizione rosminiana viene qui discussa da Galluppi accanto a quella della Scuola scozzese e
dello scrittore siciliano V. Tedeschi, poiché in ognuna di queste posizioni egli ravvisa il pericolo di
idealismo critico. L’errore comune a tali posizioni, sebbene declinato diversamente, consiste nel
fare del giudizio la prima operazione dello spirito, ovvero nella tesi, di matrice kantiana, secondo la
quale pensare è giudicare.
Se, sostiene Galluppi, l’esistenza della cosa individuale mi è data in virtù di un atto sintetico, quale
il giudizio che unisce, appunto, un soggetto (il sentito) con il predicato (l’idea di esistenza) - vuoi
che tale atto sintetico sia istintivo, come per Tedeschi o per Reid, vuoi che sia comparativo, come
per Rosmini (ma vedremo più appresso che è lo stesso Rosmini a smentire Galluppi sulla presunta
caratterizzazione della sintesi a priori come “comparativa”) – allora è l’attività del soggetto a
costituire in oggetto il dato sensibile, per cui il fenomeno è reale, sussiste, permane, sotto le proprie
qualità e modificazioni, è sostanza, appunto, solo dopo l’azione legislatrice dell’intelletto, ma
allora, in ultima analisi, il dato sussiste ed è reale solo come oggetto pensato, ovvero solo
all’interno del pensiero 37.
Da questo punto di vista, Galluppi assimila la dottrina rosminiana delle idee a quella scozzese del
senso comune, sebbene egli non manchi mai, anche nel dissenso, di formulare giudizi elogiativi e di
stima nei confronti di Rosmini, che intendono metterne in risalto, pur nell’accostamento spesso
discutibile con altre teorie, l’originalità e l’altezza di ingegno, come quando egli scrive che pur
avendo Rosmini insegnato una dottrina, a suo dire, simile a quella scozzese,

l’illustre autore del Nuovo Saggio sull’origine delle idee l’aveva insegnata, ma sotto un aspetto diverso, e
con alcuni originali concepimenti, che onorano la penetrazione profonda di cui questo scrittore è dotato 38.

37
Cfr. Ivi, vol. 3, Lezione n° LXXXVI, pp. 41-47.
38
Ivi, pp. 40-41.
Galluppi, come Rosmini, nega che la sintesi possa aver luogo mediante una operazione istintiva, ma
ciò che egli non è disposto a concedere al Roveretano è che il giudizio sia la prima operazione
dell’intelligenza, quando invece, a suo avviso,

i giudizi quali sieno – scrive Galluppi - sono un’operazione secondaria dello spirito, la quale suppone la
semplice percezione degli oggetti reali, o la semplice apprensione degli stessi 39.

La prima operazione dell’intelligenza, infatti, è, per lui, la percezione sensibile, entro la quale si dà
al soggetto pensante l’oggetto; la sostanza, ciò che sussiste in modo indipendente dal soggetto e,
quindi, nella sua assolutezza ed oggettività, è il sentito e non il pensato. E’ vero, ogni idea, ribadisce
il Tropeano, in quanto tale, è il risultato di un’operazione di astrazione dalle qualità e accidenti
determinati percepiti nell’individuo, ma se ogni idea generale è un’idea astratta, non ogni idea
astratta è generale, ovvero, è possibile apprendere la realtà individuale indipendentemente dalla
nozione di classe e, quindi, dall’idea universale e generale di esistenza ed avere, perciò, idee astratte
ma individuali, poiché percepire un oggetto particolare non equivale a classificarlo. Riferendosi a
Rosmini, scrive Galluppi:

L’illustre autore [si intende del Nuovo Saggio, di cui Galluppi stava parlando], pretende, che aver
l’idea di oggetto particolare esistente sia lo stesso che classificare questo oggetto, e riporlo nella classe degli
oggetti esistenti; il che importa un giudizio nel quale si involve l’idea generale di esistenza. Ma ciò è appunto
supporre quello che è in quistione. Aver l’idea particolare di un oggetto esistente, io dico, è percepire questa
realtà particolare, questa esistenza particolare e nulla più. Il percepire un oggetto non è un classificarlo; non
si può classificarlo senza percepirlo, poiché la classificazione suppone l’idea della classe e della cosa che alla
classe si conduce, ma si può percepirlo senza classificarlo; anzi, la semplice percezione dell’oggetto deve per
natura precedere la sua classificazione […] Io posso percepire, per la prima volta, un albero, senza
40
riguardarlo come albero .

Insomma, i motivi della critica a Rosmini, già delineatisi nel carteggio, vengono, come vediamo,
meglio chiariti nelle Lezioni, nelle quali si comprende la ritrosia di Galluppi ad ammettere la
funzione fondante della rosminiana idea dell’essere, la quale, secondo il Tropeano, può certamente
essere assunta come elemento costitutivo dell’intelletto e, perciò, in-nato, già presente in esso e non
ricavato dal materiale sensibile, condizione, dunque, di ogni raziocinio e della scienza intera, ma,
appunto per questo, la priorità dell’idea dell’essere universale è di natura esclusivamente
39
Ivi, p. 55. Il corsivo è nel testo.
40
Ivi, p. 54.
epistemologica e non metafisico-ontologica; è necessario, per Galluppi, reperire un elemento che,
pur essendo un prodotto della facoltà attiva dell’intelletto e pur avendo quindi un’origine
soggettiva, “corrisponda” nel contempo ad un realtà fuori dallo spirito, ed abbia, quindi, un valore
oggettivo.
Ma è nella XIVª delle Lettere filosofiche, come s’è accennato, che Galluppi si rivolge in maniera
esplicita, più di quanto non abbia fatto in nessuna delle sue opere precedenti, a Rosmini, ribadendo
nettamente la propria convinzione che la teoria rosminiana della conoscenza sia intrinsecamente
soggettivistica, psicologistica, e, dunque, in ultima analisi, scettica. Scrive Galluppi:

Il profondo e rispettabile Rosmini, riguardo alla prima parte della teorica della conoscenza, cioè al modo
onde la conoscenza si genera, ha adottato la dottrina di Reid e di Kant; vale a dire ha preteso, che la
conoscenza non può aver esistenza se non per l’elemento a priori. So bene, che egli ha creduto di avere
ridotto tutti gli elementi a priori ad uno, che egli ripone nella nozione dell’Ente. Ma ciò non fa sì, che la
conoscenza non debba la sua esistenza all’elemento a priori. Questa riduzione non fa nulla al fondo della
questione circa la genesi della conoscenza; e perciò non toglie questo sistema dalle difficoltà e dalle
obbiezioni insormontabili che si adducono contro la realtà della conoscenza. Noi, dice questo valente
filosofo, non possiamo credere esistenti le nostre sensazioni, se non mediante un giudizio con cui
applichiamo alle sensazioni l’idea generale di esistenza. Questa dottrina stabilita, io penso fermamente, che
41
la realtà della conoscenza non ha più fondamento .

Il senso delle obiezioni galluppiane a Rosmini è, dunque, nella XIV ª lettera, definitivamente
chiarito: ogni elemento a priori è, per Galluppi, essenzialmente soggettivo, ovvero un risultato della
attività sintetica dello spirito, e, di conseguenza, capace sì di legittimare e giustificare la pretesa del
soggetto di conoscere in modo oggettivamente valido l’oggetto sensibile ma radicalmente incapace
di fondare la realtà e la certezza della conoscenza, cioè di mostrare l’orizzonte oggettivo
fondamentale e pre-conoscitivo sulla base del quale ogni altra operazione conoscitiva del soggetto
ha modo di attivarsi; immediatamente dopo l’ultimo passo citato, scrive Galluppi:

Lo spirito umano non crea, né può creare gli esseri; se questi non gli son dati, non gli son offerti, egli non
può conoscerli; in tal caso bisogna ammettere la percezione meramente sperimentale di alcune esistenze; e la
dottrina di Rosmini non sussiste più. L’ordine a priori è meramente ideale 42.

41
P. GALLUPPI, Lettere Filosofiche, cit., Lettera n. XIV, pp. 275-276.
42
Ibidem.
Se la verità si basa sulla struttura conoscitiva della natura umana, essa non è mai assoluta, ma solo
umana, e ogni filosofia che fa poggiare – come secondo Galluppi anche quella rosminiana fa – la
conoscenza su un ordine a priori, sbocca allo scetticismo, ed una filosofia scettica è un assurdo, egli
sostiene, poiché «la filosofia» – scrive sempre nella XIV ª lettera - «è essenzialmente dommatica, e
non può essere che dommatica. Essa dee contenere delle verità assolute» 43.
La sinteticità rosminiana, facendo dell’io pensante la norma della oggettività e sussistenza del
fenomeno, appare a Galluppi risolvibile in quella kantiana e l’essere ideale come “a priori
oggettivo” gli sembra un non-senso; l’essere o è reale o non è; se è ideale, come vuole Rosmini, è
perciò stesso irreale in sé e realmente oggettivo lo è solo per il pensiero. E’ per tale ragione che egli
vi contrappone una nuova e diversa sinteticità, scaturente non dalla potenza attiva dello spirito, ma
da quella passiva, la quale è sì un’operazione dell’intelligenza - esprimentesi in un giudizio, che di
per sé è sempre un atto sintetico - ma è fondata su un ordine di realtà, quello costituito dalle leggi
reali delle cose, del tutto indipendente dalle leggi logiche dell’intelletto e che l’intelletto si limita a
rispecchiare e ri-produrre, perché preesistente ad esso; tale operazione della mente è da lui
denominata sintesi reale, per distinguerla dalla sintesi ideale.
Mentre quest’ultima unisce percezioni od oggetti che nella natura sono divisi, e riferisce l’una
percezione all’altra paragonandole, generando così l’idea di rapporto, ed istituendo, a priori,
relazioni logiche tra gli oggetti sensibili o anche tra le stesse idee, la sintesi reale, invece, ri-unisce
percezioni od oggetti che nella natura sono già uniti, e la cui unità viene originariamente appresa
entro un’intuizione immediata rappresentata dalla percezione sensibile, la quale per il fatto di essere
“con-saputa”, non è mera sensazione, ma coscienza-della-sensazione ovvero sentimento.
La sintesi reale, cioè, dà luogo a giudizi in cui sia il soggetto che il predicato sono rappresentati da
individui e determinazioni reali, che esprimono verità primitive di fatto e a posteriori, contrapposte
– secondo una istanza di chiara ispirazione leibniziana – alle verità primitive pure e a priori, frutto,
queste ultime, della sola attività dello spirito ed inesistenti al di fuori di essa.
E’ evidente che, in tale ordine di ragionamenti, la unità sintetica del pensiero non può essere
concepita come spontaneità creatrice o anche solo come unità sintetica originaria dell’appercezione,
poiché il concetto stesso di sintesi reale importa un elemento di passività che rende l’atto sintetico
preceduto e condizionato dall’atto analitico, dal momento che riunire quanto in natura è già unito
presuppone che vi sia innanzitutto una percezione complessa e confusa che viene decomposta e
chiarita dall’analisi, la quale distingue gli oggetti percepiti e dispone l’intelletto a ricomporli nella
sintesi reale. La sintesi reale ha perciò un carattere ostensivo e non costituente o legiferante;
conoscere, dunque, non è giudicare, dato che il giudizio risulta dalla sintesi che a sua volta è un

43
Ivi, p. 278.
risultato dell’analisi; ma, allora, in ultima istanza, ogni atto, analitico e/o sintetico, è generato sì
dall’intelletto, ma si fonda sul senso.
Conoscere è, innanzitutto, sentire, per Galluppi, nella due forme del senso interno, da lui chiamato
anche senso intimo o sentimento, o, propriamente, coscienza e del senso esterno, denominato
sensibilità o, anche, sensazione; sono la coscienza e la sensibilità le due facoltà spirituali elementari
che presentano e mostrano allo spirito i due basilari oggetti del pensiero, di cui tutti gli altri non
sono che modificazioni, e cioè il Me, ovvero il soggetto interiore percipiente con le proprie
modificazioni e il fuori di Me, ovvero il soggetto esteriore percepito, con le proprie modificazioni.

Tutti i nostri giudizi particolari e concreti – scrive Galluppi negli Elementi di Filosofia - hanno dunque
per soggetto o l’io, cioè il proprio essere, o un soggetto esterno al me, un fuor di me; e tutte le nostre
percezioni particolari debbono essere o percezioni del me, e delle sue modificazioni, o di un fuor di me e
44
delle sue modificazioni

e, in un altro brano della medesima opera, egli scrive:

Consultando la testimonianza della coscienza, io posso esprimere questo fatto così: io sento il me, che sente
qualche cosa. Così un’esperienza incontrastabile mi obbliga a pronunciare questo fatto primitivo del nostro
essere intellettuale: la sensazione è distinta nella coscienza dalla cosa sentita, dalla cosa che sente, ed è
legata a tutte e due» 45 e poi, ancora: «La nostra intelligenza incomincia dalle sensazioni […] Ecco il primo
fatto, da cui, per non traviarsi, dee principiare la filosofia dello spirito: questo fatto è la percezione del me, il
quale percepisce un fuor di me 46.

La tesi dell’esperienza interiore come certezza primitiva e fonte primaria su cui fondare tutte le
conoscenze umane, è il principio basilare del coscienzialismo galluppiano, e torneremo a parlarne
più dettagliatamente nelle successive lezioni, nel confrontare congiuntamente e parallelamente i
sistemi filosofici di Galluppi e Rosmini.
Ma ora che abbiamo ricostruito le obiezioni di Galluppi alla teoria rosminiana dell’ “essere ideale”,
teoria che sarebbe, secondo il filosofo Calabrese, espressione di una filosofia soggettivistica, è
necessario esaminare, nella prossima lezione, le critiche che stavolta è Rosmini a rivolgere alla

44
P. GALLUPPI, Elementi di Filosofia, cit., vol. 1, Psicologia, Capo I, § 4, p. 121. Il corsivo è nel testo.
45
Ivi, Capo II, § 13, p. 132. Il corsivo è nel testo.
46
Ivi, Capo III, § 20, p. 140. Il corsivo è nel testo. Cfr. anche P. GALLUPPI, Saggio filosofico, cit., vol. 1, Libro I, Capo I,
e Libro II, Capo I.
dottrina di Galluppi per capire perché è invece proprio il pensiero galluppiano ad apparire a
Rosmini l’espressione di una filosofia soggettivistica.
Lezione n. 4. Le obiezioni di Rosmini alla «filosofia dell’esperienza» di Galluppi.

Paradossalmente, se la teoria rosminania dell’essere ideale doveva apparire a Galluppi infetta di


criticismo e, quindi, di scetticismo, proprio la dottrina di Galluppi, da quest’ultimo più volte
denominata «filosofia dell’esperienza», doveva risultare essa stessa, agli occhi di Rosmini, non solo
compromessa col kantismo ma, peggio, una filiazione più o meno diretta, del soggettivismo
sensistico ed empiristico. L’accusa principale rivolta da Galluppi a Rosmini, quella, cioè, di non
essere stato capace di salvare la realtà e l’oggettività della conoscenza dallo psicologismo, gli si
ritorce contro ad opera dello stesso Rosmini, nelle cui opere, soprattutto il Nuovo Saggio, il filosofo
di Tropea è peraltro largamente citato e discusso, molto più di quanto non lo sia Rosmini nelle
opere di Galluppi, il che dimostra la profonda ammirazione di Rosmini nei riguardi di Galluppi,
nonché quanto fossero per il Roveretano ineludibili le obiezioni galluppiane.
A questo proposito vale la pena ricordare che, nonostante la critica galluppiana - come già ricordato
nella nostra breve introduzione al presente videocorso - si collochi cronologicamente nel contesto
aggrovigliato delle prime polemiche e reazioni, all’interno del dibattito filosofico italiano
dell’epoca, seguite alla pubblicazione del Nuovo Saggio, accanto alle critiche di matrice sensista
come quella di Mamiani, Cattaneo, Abbà, o di matrice kantiana, come quella di Testa, occorre
precisare che, per profondità e complessità argomentative - nella direzione, tra l’altro, di un
superamento della prospettiva sensistica ed entro una più articolata ricezione del kantismo - le
obiezioni di Galluppi, al pari di quelle giobertiane, ebbero sempre sin dall’inizio per Rosmini un
peso speculativo di gran lunga superiore rispetto alle obiezioni di altri filosofi, come quelle
provenienti dal gruppo degli autori sensisti, non solo perché basate su una conoscenza più rigorosa
del pensiero kantiano, pensiero che spesso costituiva proprio il termine di riferimento principale
rispetto al quale quelle obiezioni venivano mosse, ma anche perché sorrette da dottrine filosofiche
originali e ben più poderose di quelle professate dai critici sensisti. Molto opportunamente M.
Krienke nel suo Rosmini e la filosofia tedesca, fa notare che, rispetto alla critica sviluppata dai
pensatori facenti capo a Mamiani,

si dimostra più convincente in termini filosofico-sistematici, ma anche più importante dal punto di vista
della Wirkungsgeschichte, la critica sul fronte dei pensatori del Risorgimento […] Se la critica del primo
gruppo [cioè quello costituito, appunto, da Mamiani, Cattaneo e Abbà] si può ridurre all’argomento sensista
(Rosmini stesso, coerentemente, attribuiva a questo argomento poca importanza, data la sua ridotta rilevanza
speculativa), Rosmini associava al secondo gruppo interessi speculativi fondamentali, motivo per cui questa
critica non lo aveva colpito esteriormente quanto la prima, ma anzi lo faceva entrare in uguale misura nella
serie degli esponenti significativi del Risorgimento italiano 47.

Non deve, dunque, sorprendere l’attenzione tutt’altro che sporadica che Rosmini dedica nei suoi
scritti a Galluppi e, sebbene, come già rilevato poco sopra, tale attenzione sia indubbiamente
maggiore, per quantità di citazioni e cenni, di quella che lo stesso Galluppi riserva a Rosmini, è
interessante ricordare che Galluppi, oltre alla rilevanza ed originalità del pensiero rosminiano più
volte sottolineata dal Tropeano nelle sue opere, come abbiamo visto, nella XIVª delle Lettere
Filosofiche, aveva espresso l’intenzione di tornare ad occuparsi più diffusamente della dottrina
rosminiana, dedicando ad essa una intera sezione all’interno di una sua annunciata opera, il che
dimostra quanto anche Galluppi stimasse importante il confronto con Rosmini per
l’approfondimento della sua stessa filosofia; così si esprime Galluppi in proposito:

I parti dei grandi ingegni meritano che siano esaminati partitamene: io esaminerò più a lungo la dottrina del
Nuovo saggio su l’origine delle idee, nella mia opera, che spero dare alla luce, e che avrò per titolo: La
filosofia dell’esperienza su l’esistenza dello spirito umano, del mondo e di Dio 48.

L’opera a cui si fa riferimento nel passo appena citato, in realtà non venne scritta, ma il contenuto di
essa, così come indicato nel titolo, fu in qualche modo ripreso in un breve articolo pubblicato da
Galluppi sul giornale napoletano Il Sibilo nel 1845, un anno prima di morire, intitolato Sulla fede
filosofica, sebbene non vi compaiano considerazioni sul pensiero di Rosmini; facciamo nostre, in
proposito, le parole di A. Guzzo il quale, in merito agli scritti di Galluppi progettati e non realizzati
od iniziati in età più avanzata e lasciati interrotti, scrisse garbatamente che «non bastarono al
Galluppi gli anni e le forze» 49. Tali parole richiamano quelle di E. Pessina, il quale, nel suo Elogio
funebre di Pasquale Galluppi del 1847, a proposito della monumentale Storia della Filosofia di
Galluppi, iniziata nel 1842 e mai portata a compimento, disse che «sarìa stata monumento novello
di gloria italiana, se a nostra disavventura la vecchiezza, le malattie, le sciagure, non avessero di tale
infievolito l’animo di lui, ch’ei non potè vederla compiuta, ed a perfezione condotta» 50.
Ma seguiamo più da vicino le critiche di Rosmini a Galluppi, e cerchiamo di ricostruire le
argomentazioni che ne stanno alla base. Particolarmente significativo è, innanzitutto, il cenno a

47
M. KRIENKE, Rosmini e la filosofia tedesca, in M. KRIENKE (a cura di), Sulla ragione. Rosmini e la filosofia tedesca,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 47-48.
48
P. GALLUPPI, Lettere Filosofiche, cit., Lettera n. XIV, p. 277.
49
Cfr. A. GUZZO, Introduzione a P. GALLUPPI, Lettere filosofiche, Vallecchi, Firenze 1923, pp. XIII-XX.
50
E. PESSINA, Elogio funebre di Pasquale Galluppi, Napoli 1847, 28 pp.
Galluppi presente nel Preliminare alle Opere ideologiche, anteposto alla quinta edizione del Nuovo
Saggio, in cui Rosmini rimprovera a G. M. Bertini di averlo posto, in una sua opera, per l’esattezza
lo scritto Idea di una filosofia della vita del 1852, tra i filosofi critici, proprio accanto, tra gli altri, a
Galluppi; essere annoverato tra i criticisti voleva dire, per Rosmini, essere confuso proprio con
pensatori come Galluppi, il quale, partito correttamente dal problema della conoscenza, non era poi
riuscito a passare dal significato epistemologico della soggettività al suo senso radicalmente
ontologico, confinando la ricerca filosofica nei limiti dell’Io.
Frequenti sono, ad ogni modo, le espressioni elogiative, nel Nuovo Saggio, nei riguardi di Galluppi,
il quale è definito da Rosmini «valentissimo», «rispettabile filosofo italiano», «pensatore di vaglia»
51
e dotato di «natural perspicacia» . Anzi, Rosmini riconosce a Galluppi, oltreché il merito, come
abbiamo detto nella prima lezione, di aver pionieristicamente risollevato con i suoi scritti gli italiani
dal precedente torpore intellettuale, anche quello di aver conseguito alcune indubbie acquisizioni
52
teoriche. “L’acuto Calabrese” , come dice Rosmini, ha mostrato, ad esempio, le imperfezioni del
pensiero di Locke a proposito della idea di sostanza, contrapponendo alla tesi nominalistica del
filosofo inglese l’affermazione della esistenza di idee pure, a priori ed indipendenti dall’esperienza;
egli ha, inoltre, secondo Rosmini, giustamente censurato la sentenza di Degerando secondo cui è
possibile avviare la conoscenza delle cose da un giudizio primitivo senza supporre alcuna idea,
opponendogli che il giudizio è di per sé sempre un’operazione dell’intelletto e che una percezione
semplice non può costituire mai un giudizio; ha criticato Reid per il modo erroneo in cui questi ha
distinto la sensazione dalla percezione, ha mostrato gli errori comuni al sensismo di Condillac ed
all’idealismo trascendentale, ha poi opportunamente negato, contro Destut de Tracy, che la
conoscenza dei corpi avvenga per mezzo del principio di causalità ed, infine, ha riconosciuto la
necessità, per la formazione delle idee, della sintesi oltreché dell’analisi 53.
Eppure, nonostante tutto - e qui il giudizio di Rosmini torna a farsi fortemente critico - Galluppi ha,
in definitiva, dato a problemi giusti risposte sbagliate o, in certi casi, incoerenti; secondo il
Roveretano, la filosofia galluppiana, infatti, ripropone, in una nuova forma, proprio quel sensismo
tanto combattuto dal Calabrese, e si condanna da sé a quello che è l’esito di tutta la filosofia
moderna, ovvero il soggettivismo e, dunque, lo scetticismo. Galluppi ha sì ammesso la sintesi a
priori, ma considerandola come un atto posteriore all’analisi ed identificando, erroneamente, l’“a
priori” con il “soggettivo”, non vedendo, invece, che - dice Rosmini, mettendo in luce un punto
decisivo del proprio pensiero già evidenziato nel corso del carteggio - «lo spirito può avere in se

51
Cfr. NS 667 n. 120, 51, 99 n. 40, 968.
52
NS 438 n. 9.
53
Cfr. NS 51, 64, 120 n. 59, 323 n. 112, 685 n. 133, 976, 967.
stesso ingenita qualche nozione comune senza che egli la cavi per questo da se stesso, anzi
ricevendola dal di fuori di sé, e una tale nozione sarebbe innata, ma non soggettiva» 54.
Riprendendo la tesi già succintamente formulata nelle lettere a Galluppi, Rosmini afferma
l’esistenza di un “a priori oggettivo” che è l’essere, la realtà universale, assoluta, indipendente,
oggettiva, permanente, non già, però, nell’aspetto reale, per cui l’essere è a sé, nella sua
sussistenza, ma nel suo aspetto ideale, nell’aspetto, cioè, per cui l’essere – pur sempre, per sua
natura, assoluto, indipendente, oggettivo, permanente e sostanziale - si dà, si rivela, si offre
all’intuizione immediata e naturale del soggetto che lo pensa, e che sta, perciò, a fondamento del
suo stesso pensare e di ogni altra idea. Ancora una volta, sostiene Rosmini, Galluppi non intende
che “innato” non è semplicemente il carattere di un’idea prodotta dall’attività sintetica della
coscienza, ma anche e soprattutto il carattere di un’idea intuìta, ovverosia ricevuta passivamente
perché presente alla coscienza, data entro l’attività della coscienza ma non da essa derivante e che,
quindi, è anteriore ad ogni operazione sintetica e giudicante dell’Io e ne costituisce la condizione 55.
Ecco perché, sostiene ancora il Roveretano, Galluppi, pur condannando Degerando, è in fondo
concorde con il filosofo francese nel ritenere che la prima operazione dello spirito sia la percezione
sensibile, sbagliando, inoltre, nel credere che l’idea non consista nella rappresentazione
dell’oggetto, ma nella semplice apprensione dello stesso, “apprensione” che, così, finirebbe per
precedere il giudizio sulla reale sussistenza dell’oggetto. Il pur corretto riconoscimento del ruolo
indispensabile della sintesi poi, non s’accompagna, in lui, all’esame della condizioni sotto le quali
sia l’analisi sia la sintesi sono possibili. Egli, ha, infine, equiparato erroneamente il «si fallor sum»
di Agostino al «cogito» cartesiano, privando il primo del suo significato spirituale e religioso 56.
Se l’a priori è qualcosa di soggettivo, non solo si ricade nel kantismo, ma, considerando il giudizio
posteriore alla percezione, si finisce per fare del senso il criterio universale del conoscere,
regredendo dal già erroneo trascendentalismo all’ancora più erroneo sensismo; e tale è, in verità, il
punto che, nella dottrina di Galluppi, doveva risultare più inaccettabile per Rosmini. Se è vero che
Galluppi critica giustamente la dottrina del “senso comune” di Reid contestando la distinzione
istituita dal pensatore scozzese tra sensazione e percezione, egli commette, da par suo, un errore
inammissibile, quello, cioè, di aver, al contrario, talmente unito i concetti di sensazione e di
percezione, da accordare ai sensi l’attitudine di percepire direttamente l’esistenza dei corpi e,
quindi, in ultima analisi, di attingere l’oggettività del reale.
54
NS 64 n. 11.
55
Cfr., per quel che riguarda natura e attributi dell’idea dell’essere, NS Sez. V, Parte Prima.
56
Cfr. NS 120 n. 59, 177 n. 79, 968. Su quest’ultimo punto controverso del corretto significato da attribuire al «Si fallor
sum» di Agostino, cfr. anche A. ROSMINI, Dialoghi filosofici sopra alcune sentenze di Pasquale Galluppi, in ID.,
“Scritti inediti di A. Rosmini”, cit., “Dialogo primo”, e P. GALLUPPI, Lettere Filosofiche, cit., Lettera n. XIV, p. 274.
Il Galluppi» – scrive Rosmini sempre nel Nuovo Saggio – «disse che […] la sensazione, lungi
dall’essere meramente soggettiva, come l’avea fatta il Reid, era essenzialmente oggettiva, come il Reid avea
fatta la percezione: in tal modo il Galluppi diede ai sensi l’attitudine di percepire l’esistenza dei corpi, il che
è ancora un manifesto sensismo 57.

Come vediamo, la componente soggettivistica della teoria galluppiana consiste, per Rosmini,
essenzialmente nella portata conoscitiva attribuita da Galluppi alla percezione sensitiva. Tale errore
nacque in lui appunto dal non aver ben distinto, sostiene Rosmini, tra percezione sensitiva e
percezione intellettiva; il percepire, di per sé, non è, secondo Rosmini, un atto capace di rivolgersi a
ciò che è fuori dal soggetto apprendendolo come altro da sé, come il non-io, cioè come mondo
oggettivo o come cosa, ma al massimo, come l’extra-soggettivo, come qualcosa da cui si è affetti,
modificati, impressionati, ecc., come il sentito. E’ solo mercé l’intervento dell’intelletto giudicante
e sintetizzante che l’io può percepire il sentito – come proprio corpo, nel «sentimento
fondamentale» o come corpo esterno, nella sensazione – in quanto cosa, oggetto, unendo ad esso
l’idea innata ed universale dell’essere, un’idea, scrive Rosmini, «presente per natura allo spirito
umano» 58.
Anzi, Galluppi, proprio per aver supposto l’imprescindibilità gnoseologica della sintesi, avrebbe
finito, per Rosmini, addirittura per dubitare della sua stessa dottrina, necessariamente confliggente,
nei suoi sviluppi, con tale presupposto 59.
A questo proposito, facciamo notare che Rosmini, ancora diversi anni dopo il carteggio con
Galluppi, quando quest’ultimo era già morto, sembrava davvero convinto del carattere aporetico
della dottrina galluppiana, tanto da prendere per buona una confidenza fattagli da L. Palmieri,
successore di Galluppi nella cattedra di Logica e Metafisica all’Università di Napoli, il quale, come
Rosmini stesso racconta in una lettera del 14 marzo 1852 a P. Bertetti, gli aveva assicurato «che il
Galluppi negli ultimi suoi anni si trovava poco soddisfatto del suo sistema e faceva dei passi verso il
mio [sc. di Rosmini]» 60.
In realtà tale notizia comunicata a Rosmini da Palmieri non trova alcun riscontro nell’evoluzione
del pensiero galluppiano e se è vero che, come noi stessi vogliamo dimostrare nella nostra ricerca,
pensiero galluppiano e pensiero rosminiano si lasciano ricondurre ad un medesimo principio di
fondo, è altrettanto vero che ciò risulta possibile non perché l’uno dei due, nella fattispecie
57
NS 323 n. 112.
58
NS 971; cfr., sulla differenza tra «sensazione», «percezione sensitiva», «percezione intellettiva», «idea», NS 417.
59
Cfr. NS 438 n. 9.
60
A. ROSMINI, Epist. fil., cit. p. 617.
Galluppi, avrebbe modificato il proprio pensiero per uniformarsi a quello dell’altro, ma perché
entrambi, pur avendo sviluppato concezioni filosofiche originali e differenti, anzi proprio in virtù di
tale originalità, sono giunti, indipendentemente l’uno dall’altro, allo stesso risultato.
Giustamente G. Lo Cane ha fatto notare, in merito all’affermazione di Palmieri, che, anche a
prescindere dallo sviluppo intrinseco del sistema galluppiano, anche solo basandoci, ad esempio,
sulle informazioni dello stesso Galluppi contenute nel carteggio con Cousin, possiamo
ragionevolmente concludere che non si può «escludere del tutto – dice Lo Cane - il dubbio circa
l’esattezza dell’intelligenza del suo pensiero [sc. di Galluppi] da parte di questo suo “infedele”
61
successore» , che, tra l’altro, occorre ricordare, si era accostato, sin dal 1842, al pensiero di
Gioberti, modificando, quindi, il pensiero del suo maestro; il giudizio di Calmieri rappresenta,
perciò, solo un’opinione soggettiva non suffragata da alcun dato oggettivo ricavabile dai testi
galluppiani.
Tornando alle critiche rosminiane contenute nel Nuovo Saggio, ed, in particolare, al dissenso del
Roveretano circa la priorità gnoseologica attribuita dal Tropeano alla “sensazione” nel processo
conoscitivo, possiamo capire facilmente in cosa consisterebbe, per Rosmini, il sensismo di
Galluppi. Sostenere, infatti, come fa Galluppi, che «le idee agiscono direttamente sugli oggetti e li
62
prendono» , anziché esserne una rappresentazione, vuol dire, secondo Rosmini, fare della
percezione sensitiva corporea una percezione dell’esistenza del corpo, ma l’universalità dell’idea di
esistenza non può trovarsi nel particolare sensibile, nel “sentito”, di per sé accidentale e privo di
universalità, oggettività ed assolutezza; in una concezione del genere, la realtà oggettiva della
conoscenza si disintegra nel caos delle sensazioni e degli stati psichici, e la verità diventa relativa al
soggetto.
La componente sensistica della teoria di Galluppi è speculare, ovviamente, per Rosmini, alla
componente trascendentalistica di tale teoria; se, infatti, la conoscenza è, essenzialmente,
conoscenza sensibile, allora, quanto di non empirico vi è nella conoscenza, avendo una mera
funzione trascendentale, è puramente mentale.

La verità - scrive Rosmini - non è un prodotto della mente (del soggetto), ma un’entità superiore alla mente
e al soggetto umano e veniente a quella e a questo da un fonte infinitamente all’uom superiore: il che è da
63
lamentare non aver raggiunto il Galluppi

61
G. LO CANE, Introduzione a P. GALLUPPI, Elementi di Filosofia, cit., p. XXXIV n. 112.
62
P. GALLUPPI, Saggio filosofico, cit., vol. 1, Libro I, Capo I, pp. 38-39.
63
NS 582 n. 89.
e, a proposito di tutti quei pensatori che negano una vera oggettività all’idea dell’essere, dicendo
che essa non sussiste fuori dalla mente e che è una pura modificazione del soggetto, egli aggiunge
che «né pure il Galluppi s’è guardato da questo sdrucciolo» 64.
Galluppi, pertanto, sarebbe soggettivista sia perché ha considerato le idee a priori, come quella di
unità, identità, diversità, sostanza, causalità, relative alla sola attività sintetica del soggetto, sia
perché ha attribuito alla sensazione una natura oggettiva, scambiando quella che è una facoltà
ricettiva come il senso - che è sì sempre simultaneamente connesso ad un che di estraneo al
soggetto senziente, ma che può essere definito semmai “extrasoggettivo” ma non ancora
propriamente “oggettivo” - con l’intelletto, che solo, in quanto facoltà attiva e sintetica, può
percepire l’extrasoggettivo come sussistente mediante il giudizio e lo può fare in quanto esso ha
previamente intuìto quell’elemento entro il quale soltanto il sensibile può costituirsi in oggetto, in
cosalità, vale a dire l’idea di essere.
Tale posizione di Rosmini nei confronti di Galluppi viene ribadita frequentemente nel corso del
Nuovo Saggio 65, e verrà confermata, oltreché in alcune lettere da lui inviate ad amici, anche in altre
successive sue opere; per quanto riguarda le lettere, ricordiamo, ad esempio, la lettera del 6 Giugno
1838 a Don A. Riccardi Prevosto a Bergamo, in cui Rosmini scrive che «la dottrina del celebre
professore calabrese è infetta di soggettivismo» 66, oppure la lettera del 29 Gennaio 1840 a Mons.
Paolo Cullen, in cui Rosmini dice che Galluppi «ed altri moderni hanno il soggettivismo della
67
scuola scozzese nelle ossa» o, ancora, la lettera del 18 Gennaio 1845 a M. Tarditi, nella quale
Rosmini riprende alcune delle questioni chiave della polemica con il Tropeano 68.
Per quanto riguarda la ricorrenza di riferimenti a Galluppi in opere successive al Nuovo Saggio,
ricordiamo che alla dottrina galluppiana Rosmini accennerà anche in altre importanti sue opere,
come la Psicologia, il Saggio storico-critico sulle categorie, la Teosofia, la Introduzione alla
filosofia, lo scritto di carattere pedagogico Del metodo filosofico ed, infine, in altri scritti non
sistematici come lo Schema di un lezione a modo di conferenza sul Tomo 4°, Capo 1°, del Saggio
filosofico del Galluppi, dettato probabilmente al suo discepolo M. Tarditi, e i Dialoghi filosofici
sopra alcune sentenze di P. Galluppi, facenti parti di un gruppo di inediti rosminiani a cui abbiamo
già accennato nella nostra precedente lezione 69.

64
NS 1442 n. 62.
65
Cfr., ad esempio, NS 599 e n. 97, 667 n. 120, 708 n. 150, 927 n. 239, 947 n. 247, 982, 1037.
66
A. ROSMINI, Epist. fil., cit., p. 302.
67
Ivi, p. 340..
68
Cfr. Ivi, pp. 486-487.
69
Cfr. A. ROSMINI, Psicologia, 4 voll. (= Ediz. Crit. vol. 9-10A), a cura di V. Sala, Città Nuova, Roma 1988, Pref. alle
opere metafisiche 15 n. 8, 77 n. 5, 95 e App. 121; ID., Saggio storico-critico sulle categorie (= Ediz. Crit. vol. 19), a
In particolare, nello scritto Del metodo filosofico, a proposito delle varie forme di sensismo,
Rosmini sostiene che tutti quei sistemi che attribuiscono al senso qualche cognizione, ovverosia che
distinguono l’atto del sentire dall’oggetto del sentire invece di distinguere il principio dell’atto del
sentire dal termine del medesimo atto, vanno considerati sensisti, e tra questi, egli scrive,

quelli che dichiarano che tutto ciò che viene a priori è soggettivo, e tutto ciò che viene dall’esperienza è
oggettivo. Tale è Galluppi, il quale nella Lettera filosofica XIV definisce gli empirici quelli che non
ammettono altri elementi nella cognizione che gli oggettivi ! Qui è da farsi la strada, che viene naturalissima,
a confutare quanto dice Galluppi nella citata lettera contro il nostro sistema 70;

e nella Teosofia egli così si esprime:

Il Soggettivismo ossia Psicologismo è quel sistema che riduce l’oggetto della mente, l’idea, ad essere il
soggetto stesso, od una sua modificazione. Quindi due sono i sistemi di soggettivismo 71,

e se al primo tipo di soggettivismo sono ascrivibili, ad esempio Schelling ed Hegel, al secondo,


spiega Rosmini,

appartengono i sensisti moderni di tutte le classi, da Locke fino a Galluppi. Benché confondendo essi le idee
colle sensazioni; perché queste sono modificazioni dell’anima; così pongono che anche quelle sieno tali 72.

Se, intende dire Rosmini, la realtà del percepito è un fenomeno del percipiente – esse est pércipi,
aveva detto Berkeley - allora il percepito esiste solo per il percipiente ed in sé è niente. Tale è
l’esito, per Rosmini, anche del galluppismo, ovvero il nihilismo.

cura di P.P. OTTONELLO, Città Nuova, Roma 1997, Sez. I, cap. V, art. III, p. 158; ID., Teosofia, 6 voll. (= Ediz. Crit.,
vol. 12-17), a cura di M.A. RASCHINI e P.P. OTTONELLO, Città Nuova, Roma 1998-2002, 180 n. 1, 1540, 1544, 1672,
1734 n. 3, 1860 (d’ora in poi T); ID., Introduzione alla filosofia, (= Ediz. Crit., vol. 2), a cura di P. P. OTTONELLO, Città
Nuova, Roma, 1979, Degli Studi dell’Autore, p. 24, VII, Sulla lingua filosofica, p. 375; ID., Del metodo filosofico, in
ID., Scritti pedagogici, a cura di G. PICENARDI, Edizioni Rosminiane, Stresa 2009, Lezione L, p. 202; ID., Schema di un
lezione a modo di conferenza sul Tomo 4°, Capo 1°, del Saggio filosofico del Galluppi, in G. PUSINERI, op. cit., pp. 118-
120; ID., Dialoghi filosofici sopra alcune sentenze di P. Galluppi, in A. ROSMINI, “Scritti inediti di A. Rosmini”, cit.,
pp. 9-29.
70
A. ROSMINI, Del metodo filosofico, cit., Lezione L, p. 202.
71
T 1538.
72
T 1540.
La controversia tra Galluppi e Rosmini ebbe, come era prevedibile, anche uno strascico tra i
rispettivi discepoli, come avvenne, ad esempio, tra l’Abate L. Bonelli, vicino alla posizioni di
Galluppi ed il già citato Tarditi, rosminiano, che era intervenuto, come è noto, nella disputa tra
Rosmini e Gioberti; in un articolo apparso nel Giornale letterario, Tarditi aveva criticato la
posizione di Bonelli sul problema dell’origine delle idee, e Galluppi, nel 1841, un anno dopo la
morte di Bonelli, in una lettera inviata a C. Troya, pubblicata sul giornale napoletano Lucifero,
prese posizione contro Tarditi in difesa di Bonelli. L’intervento di Galluppi in favore di uno
studioso che si era esplicitamente richiamato a lui nella questione discussa con Tarditi, dimostra che
– come scrive E. Di Carlo - «nel prendere le parti del Bonelli facesse in fondo il Galluppi la sua
causa e provvedesse a difendere se stesso contro la posizione rosminiana» 73.

73
E. DI CARLO, op. cit., pp.2-4, in cui è riportato anche il brano della lettera di Galluppi a Troya e altri particolari di
questo episodio.
Lezione n. 5. La «sintesi reale» e la «percezione intellettiva».

Come abbiamo visto nelle precedenti lezioni, Galluppi e Rosmini si accusano reciprocamente di
essere ricaduti, sia pur involontariamente, nel soggettivismo moderno. Anzi, della convinzione di
Rosmini secondo la quale Galluppi avrebbe dato vita ad una dottrina filosofica inefficace ma
sorretta da buone intenzioni, è testimonianza puntuale una lettera del Roveretano del 3 giugno 1840
a P. G. Mazio a Roma, in cui egli scrive:

Pare a Lei che la filosofia del prof. Galluppi sia veramente sana ? Noti bene, non metto in dubbio le
intenzioni dell’ottimo Calabrese, a cui professo sincera stima; parlo solo della sua filosofia; di questa dubito,
o piuttosto non dubito; perocché agli occhi miei ella si volge in circolo perpetuo dentro al soggetto-uomo, e
74
nel soggetto-uomo non vi ha nulla d’immutabile: manca il punto fermo a cui appoggiare la leva .

Analogamente, la critica di Galluppi a Rosmini, specialmente quella sviluppata nella XIVª delle
Lettere Filosofiche, per il modo stesso in cui viene elaborata, e cioè dimostrando che la teoria
rosminiana delle idee è errata perché inadeguata rispetto allo scopo che Rosmini intende conseguire,
indica che, anche per il pensatore Calabrese, Rosmini ha sbagliato negli esiti e non nei propositi.
Ma, al di là di tale reciproco riconoscimento delle buone intenzioni, rimane il fatto che, secondo
Galluppi, Rosmini sarebbe irrimediabilmente un soggettivista per via del suo innatismo aprioristico
ed ontologistico, consistente nell’aver “reificato” il concetto dell’essere possibile e nell’aver
scambiato, quindi, un ente puramente ideale ed astratto con un ente reale e concreto. Galluppi, dal
canto suo, sarebbe, per Rosmini, un soggettivista soprattutto per aver, al contrario, visto
nell’esperienza sensibile un criterio oggettivo di verità. L’uno è, agli occhi dell’altro o un
razionalista (Rosmini), o un empirista (Galluppi), e ognuno dei due avendo, dunque, concepito la
Verità non come Realtà in sé, ma come realtà relativa, rispettivamente, alla ragione ed
all’esperienza, appare all’altro inevitabilmente compromesso col criticismo di Kant.
Ma, ci chiediamo, è proprio così ? O, piuttosto, è legittimo ipotizzare che tutta la controversia tra i
due sia sostanzialmente il frutto di un equivoco, il medesimo equivoco, aggiungiamo, che è anche
alla radice dell’interpretazione dominante, nella storia della critica, dei rapporti tra Galluppi e
Rosmini ? Come è possibile che questi due uomini, impegnati assiduamente nel medesimo progetto
di ricostruzione metafisica della filosofia e della cultura contro ogni forma di scetticismo e
relativismo ed entrambi rappresentativi, come s’è detto all’inizio, di quel comune patrimonio di

74
Cfr. G. TORTORA, op. cit., p. 43.
valori e idee proprie della cultura filosofica risorgimentale, esprimano due filosofie così diverse, a
volte antitetiche, tanto da apparire inconciliabili ?
Ad una più attenta ed accurata indagine scopriamo che, in realtà, i sistemi di Galluppi e Rosmini
possono essere considerate come due facce della stessa medaglia, perché teoreticamente
equipollenti, si badi, equipollenti, appunto, non identici.
Confrontando, infatti, due coppie importanti di concetti, quella galluppiana di “sintesi reale” e di
“senso intimo” e quella rosminiana di “percezione intellettiva” e di “intuito dell’essere”, ci
accorgiamo che esse, pur essendo declinate in modo diverso, in verità si corrispondono nel loro
rispettivo ruolo all’interno del complesso rapporto tra dimensione psicologica della conoscenza e
dimensione ontologica, e tale rapporto di analogia ed equivalenza tra le due filosofie, scaturisce
dalle obiezioni stesse che i due pensatori si muovono reciprocamente.
Volendo riassumere in una parola l’insieme delle obiezioni di Galluppi a Rosmini, potremmo
affermare che l’accusa fondamentale rivolta dal Tropeano a Rosmini è quella di “ontologismo”;
secondo tale accusa, Rosmini avrebbe risolto l’ordine reale ed empirico delle verità di fatto
nell’ordine ideale e razionale delle verità di ragione, ed il nerbo dell’argomentazione che sorregge
tale obiezione, consiste nella tesi secondo la quale se il concetto di possibilità precede e fonda
quello di realtà, la conoscenza delle cose può dirsi reale soltanto in relazione al soggetto pensante,
perché fondata su una nozione, quella di possibilità, puramente ideale, alla quale non corrisponde
nulla al di fuori dello spirito. Da qui lo slittamento di Rosmini, secondo Galluppi, verso l’idealismo
trascendentale kantiano.
Ma qui emerge con chiarezza il motivo fondamentale del fraintendimento di Galluppi; quest’ultimo
non comprende, infatti, che non solo l’innatismo rosminiano è irriducibile all’innatismo
razionalistico pre-kantiano, ma che la sinteticità rosminiana differisce notevolmente anche dalla
sinteticità kantiana ed idealistica, in quanto la “sintesi” in Rosmini non è unità originaria, non è
spontaneità, né costruttrice né creatrice, essa, cioè, non pone in essere il reale, non lo determina
nella sua oggettività, ma lo “sussume”, per così dire, sotto l’idea dell’essere che è anteriore
all’attività sintetica del soggetto e sulla quale quest’ultima si modella.
Il soggetto ordina, è vero, le sensazioni e, in tal senso, costituisce in “oggetto” il sentito, il percetto,
lo costituisce come reale sussistente e lo percepisce intellettivamente come oggetto cògnito, ma
secondo un criterio – la “forma ideale” - che è logicamente ed ontologicamente più originario del
soggetto e indipendente da esso, anzi presente ad esso proprio perché sussistente fuori di esso, e
quindi, in ultima istanza, assolutamente oggettivo. La percezione intellettiva, nell’unire il sentito
con l’idea dell’essere, determina l’ente come reale conosciuto, non già come reale in sé, proprio
perché il reale in sé è già dato al soggetto, non certo, alla maniera di Gioberti, ovvero in modo
totalmente compiuto, ma in modo archetipico, come êidos, sul fondamento della cui oggettività
precostituita l’intelletto percepisce il materiale sensibile come oggettivamente esistente. E’ la forma
a priori, per Rosmini, a costituire e determinare la possibilità dell’intelletto di operare la sintesi, e
non già l’intelletto a rendere possibile la forma colla propria capacità sintetizzante.
Per Rosmini, infatti, l’intelletto percepisce il dato sensibile come oggetto unendo ad esso un
elemento puro, la forma, appunto, che l’intelletto stesso ha ricevuto, non generato, la cui nozione, a
differenza della nozione kantiana di categoria, non ha una funzione totalmente trascendentale e
costituente; essa assolve anche tale funzione, ma solo nell’atto di venire applicata al dato sensibile,
e nel dar luogo alle diverse determinazioni degli enti sensibili, a seconda delle diverse
modificazioni ed affezioni da essi prodotte sul soggetto. Cioè a dire, la forma ha sì anche un ruolo
gnoseologico, psicologico e trascendentale ma solo rispetto alle condizioni di conoscibilità della
realtà oggettiva sussistente, mentre rispetto alla realtà ed oggettività della conoscenza stessa, essa –
la “forma” – essendo il fondamento e la condizione di possibilità dello stesso intelletto, viene ad
assolvere una funzione eminentemente fondativa e metafisica.
Ciò che sfugge a Galluppi è proprio tale significato ontologico dell’a priori rosminiano, un
significato da Rosmini già delineato e sottolineato più volte nel Nuovo Saggio e da lui ulteriormente
chiarito soprattutto nelle opere successive dedicate più specificamente al problema dell’Ente, come
la Teosofia; ma l’aspetto che ci pare più singolare del fraintendimento di Galluppi - e che è
simmetrico, come vedremo tra poco, al fraintendimento in cui lo stesso Rosmini incappa nella sua
lettura del pensiero galluppiano – consiste nel fatto che Galluppi non vede che il ragionamento che
sta alla base della teoria rosminiana della percezione intellettiva, da lui avversata, è esattamente
analogo a quello che egli stesso sviluppa, anche se in una veste diversa, a proposito del concetto di
“sintesi reale”.
Il filosofo Calabrese, come abbiamo visto in precedenza, ammette due specie di sintesi: una è la
sintesi «ideale», puramente soggettiva, con cui lo spirito produce interamente da sé le nozioni pure
ed a priori dei “rapporti”, ovvero le relazioni logiche, e, a seconda che tali relazioni vengano
istituite tra le cose o tra le idee stesse, avremo rispettivamente una “sintesi ideale oggettiva” (dove,
si badi, il termine “oggettivo” indica qui esclusivamente l’applicabilità delle relazioni al mondo
esterno e non la natura delle relazioni ideali, di per sé sempre e comunque soggettive per Galluppi),
come nel caso delle nozioni “più alto”, “più basso”, “uguale”, “simile”, ecc., ed una “sintesi ideale
soggettiva”, come nel caso delle idee di unità, numero, identità, diversità, ecc.; l’altra specie di
sintesi è la sintesi «reale», con cui il soggetto non crea, non costruisce le relazioni tra le cose, non
legifera sul mondo, analogamente alla percezione intellettiva di Rosmini, bensì raffigura il mondo,
rispecchiandone l’intrinseca, precostituita oggettività, come nel caso delle idee di “sostanza” e di
“causalità”.
Per completezza, ricordiamo che Galluppi definisce anche un’altra specie di sintesi, che, però, a
differenza delle precedenti, benché coinvolta da un punto di vista funzionale nei processi
conoscitivi, risulta però sprovvista di un valore strettamente cognitivo, cioè quella che egli chiama
“sintesi immaginativa”, e che consiste nella facoltà dello spirito umano di riunire in una percezione
complessa, alla quale non corrisponde alcun oggetto naturale fattualmente esistente, diverse
percezioni che, singolarmente, si riferiscono ciascuna ad un oggetto naturale. Tale specie di sintesi
sta a fondamento, secondo il Tropeano, delle arti meccaniche e dello sviluppo tecnico, economico e
sociale dei popoli e, poiché consente di produrre e realizzare oggetti artificiali ma reali, essa è
definibile più propriamente come “sintesi immaginativa civile” e va a sua volta distinta da un’altra
specie di sintesi, la “sintesi immaginativa poetica” che, pur basandosi sulla facoltà immaginativa, si
riferisce ad oggetti fittizi, che non sono né oggetti naturali né prodotti artificiali, ma prodotti
dell’arte bella.
Ma sono le prime due specie di sintesi, quella ideale e reale, ad avere una portata cognitiva, ed è
proprio in relazione alla sintesi reale che Galluppi non si accorge della consonanza che tale nozione
presenta con quella rosminiana di “percezione intellettiva”, una consonanza che emerge rispetto al
carattere anche e soprattutto riflettente e non solo costituente dell’azione sintetizzante dell’intelletto.
In entrambi i casi, l’unificazione della molteplicità sensibile suppone il rispecchiamento da parte
dell’io di un modello originario di realtà puramente intelligibile sulla base del quale unificare i dati
empirici e sensoriali.
A proposito dell’accusa di ontologismo rivolta da Galluppi a Rosmini, accusa di cui torneremo a
parlare tra poco, richiamiamo qui quanto accennato nella nostra prima lezione in riferimento ad una
lettera di Rosmini del 7 Novembre 1839 a Galluppi, nella quale egli, nel ringraziare il Tropeano
dell’invio della seconda edizione delle Lettere Filosofiche, e nell’esprimere apprezzamento per la
intenzione di Galluppi di voler dare alle stampe un’opera in cui esaminare più a fondo la sua
dottrina delle idee, raccomandava a Galluppi di considerare la propria teoria in tutta la sua
estensione
cioè - dice Rosmini - non solamente in quella parte che sta nel Nuovo Saggio, ma ben anco in tutti gli
sviluppamenti posteriori; i quali, se non m’inganno, aggiungono luce non piccola alla teoria primitiva, e
75
impediscono ch’essa venga fraintesa .

Tale avvertimento di Rosmini è significativo in quanto rivela la sua consapevolezza del fatto che la
propria teoria della conoscenza potesse facilmente essere equivocata proprio rispetto alla facile
tentazione, a cui tale teoria poteva offrire il destro, di interpretare l’idea dell’essere come una mera
funzione trascendentale e soggettiva della mente, tanto che egli sente il bisogno di rinviare Galluppi
anche ad altre sue opere in cui la medesima teoria trovava una più ampia e definita configurazione
sistematica.
In effetti, Galluppi non conobbe gli sviluppi successivi della dottrina rosminiana, che seguirono
proprio la direzione del progressivo approfondimento ed ampliamento della base ontologica
dell’Ideologia; ma molto probabilmente, se anche li avesse conosciuti, come scrive giustamente
Bonafede,

egli avrebbe criticato i futuri sviluppi rosminiani della Teosofia […] e non avrebbe accettato l’astrazione
teosofica da Rosmini escogitata nella Teosofia per spiegare l’origine ontologica dell’idea dell’essere 76.

Ma, in realtà, noi crediamo, il punto è un altro; già nel Nuovo Saggio non mancavano elementi
concettuali considerevoli per riconoscere il valore essenzialmente ontologico dell’essere ideale, per
cui l’accusa di ontologismo a Rosmini non dipende tanto dal non aver Galluppi conosciuto la
produzione filosofica successiva di Rosmini, quanto dall’aver egli assimilato erroneamente
l’ontologia rosminiana ad una forma di esemplarismo e di innatismo in senso tradizionale.
Pertanto, Galluppi non coglie l’elemento comune esistente tra la propria dottrina della sintesi reale e
quella rosminiana della percezione intellettiva, ma, qui il passaggio importante, non lo coglie
neanche Rosmini, le cui obiezioni a Galluppi sono basate su un analogo fraintendimento del suo
pensiero; egli non individua, infatti, la valenza metafisico-onotologica della “sintesi reale” di
Galluppi perché non ne coglie la sottile differenza rispetto alla sintesi ideale. Rosmini identifica tout
court la sintesi reale con un giudizio sintetico a posteriori, ed essendo un tale tipo di giudizio
sprovvisto di oggettività, la sintesi reale è tanto impotente, secondo il Roveretano, a garantire la
realtà della conoscenza quanto la sintesi ideale la quale, avendo, per esplicita ammissione dello

75
A. ROSMINI, Epist. fil., cit., p. 334. Per la critica di Galluppi all’ontologismo in generale, cfr., oltre a P. GALLUPPI,
Saggio filosofico, cit., vol. 5, Libro III, Capo XIX, ed a ID., Elementi di Filosofia, cit., vol. 1, Ideologia, Capo VII,
anche lo scritto postumo Lettere sull’ontologia, in P. GALLUPPI, Lettere Filosofiche, cit., pp. 357-380.
76
G. BONAFEDE, Note sul pensiero di Galluppi, cit., p. 30, 37.
stesso Galluppi, un carattere meramente trascendentale e psicologico, rimane un risultato
dell’attività del soggetto.
Egli trascura, in verità, quella distinzione, capitale in tutto il sistema di Galluppi e ribadita dal
Tropeano di continuo nei suoi scritti, tra quanto è soggettivo od oggettivo riguardo all’«origine» e
quanto lo è riguardo al «valore». La sintesi reale, per l’appunto, istituisce una relazione tra un
soggetto e un predicato che – riguardo all’«origine» - è soggettiva, frutto cioè dell’attività sintetica e
produttiva dello spirito, ma che - riguardo al «valore» – è oggettiva, in quanto riferentesi ad un
nesso reale, indipendente, sussistente fuori dallo spirito, consistente nel legame tra un soggetto
individuale e la propria modificazione (predicato reale quest’ultimo e non puramente logico) e che
lo spirito, con la propria attività sintetica, si limita a “copiare” e rispecchiare.
E’ per questa ragione che mentre, ad esempio, le idee di unità, numero, identità, diversità, possono
dirsi, secondo Galluppi, soggettive sia riguardo all’origine che riguardo al valore - dal momento che
sono formate dal soggetto pensante e solo nelle entità logico-formali elaborate dal soggetto quelle
idee trovano rispondenza - al contrario, le idee di sostanza, di causa e di Assoluto o Dio, sono da
considerarsi soggettive solo riguardo all’origine, in quanto nozioni, ma non riguardo al valore, in
quanto il contenuto di tali nozioni è fondato non già nella natura della mente ma nella natura delle
cose. Tale contenuto corrisponde a quella relazione naturale che sussiste realmente, e non solo
idealmente, tra il soggetto, interiore od esteriore, e la sua modificazione e tra l’effetto e la sua causa,
e che viene appresa, per Galluppi, entro l’esperienza sensibile, interna ed esterna, ovvero entro il
sentimento del me che sente un fuor di me 77.
Ma, ancor più del presunto carattere soggettivo della sintesi reale, l’elemento che maggiormente
impedisce a Rosmini di accettare la teoria di Galluppi sta proprio nella portata conoscitiva attribuita
dal Tropeano alla “sensazione”, secondo Rosmini al contrario intrinsecamente inetta a farci
percepire l’oggettività di un qualsiasi ente, ed è in relazione a tale elemento che Rosmini confonde
la galluppiana “filosofia dell’esperienza” con il sensismo condillacchiano e l’empirismo lockiano.
Galluppi, in realtà, con il proprio innovativo concetto di “esperienza” si porta decisamente oltre il
sensismo e l’empirismo. Infatti, per il filosofo Calabrese, la sensazione, nell’uomo, non è mai una
semplice collezione di modificazioni, interne od esterne, ma sempre anche atto coestensivo alla
coscienza e, in quanto tale, sentimento interiore, «percezione della sensazione», cioè percezione

77
Sui concetti di sintesi reale ed ideale, cfr. P. GALLUPPI, Saggio filosofico, cit., vol. 2, Libro II, Capo XI; ID., Elementi
di Filosofia, cit., vol. 1, Psicologia, Capo V; per quanto concerne la distinzione tra “soggettivo” ed “oggettivo”
strettamente connessa a quella tra “origine” e “valore” della conoscenza, cfr., P. GALLUPPI, Saggio filosofico, cit., vol.
3, Libro III, Capi VIII-XII; ID., Elementi di Filosofia, cit., vol. 1, Ideologia, Capo I, pp. 244-245 e ID., Lettere
Filosofiche, cit., lettera n. XIV, pp. 281-282.
immediata della simultanea correlazione tra l’io ed il mondo esterno, tra i fatti del senso interno e
quelli del senso esterno.
Tali “fatti” non sono qui entità in senso naturalistico, determinazioni o impressioni esteriori,
empiriche e fenomeniche relative alla struttura ricettiva del senso, di per sé molteplici, mutevoli,
transeunti, provvisorie e prive di unità e di intelligibilità, bensì intuizioni, dati immediati della
coscienza, fenomeni sì, ma peculiari e propri della coscienza, contenuti originari ed oggetti
noumenici appresi non attraverso il medium dell’intelletto puro ed a priori, ma direttamente entro il
sentimento primitivo della realtà interiore del me, cioè l’Anima nella sua totalità e della realtà del
fuori di me, cioè il Mondo nella sua totalità.

Non bisogna confondere» - scrive Galluppi negli Elementi di Filosofia - il sentimento della sensazione
colla sensazione, e coll’oggetto della sensazione. Il sentimento della sensazione è la percezione della
sensazione; a questa percezione abbiamo dato il nome di coscienza. L’oggetto della coscienza è la
sensazione; ma della sensazione dee esservi un oggetto diverso dalla sensazione medesima, poiché altrimenti
la sensazione non avrebbe oggetto, il che è assolutamente falso. Da questo principio incontrastabile segue,
che ogni sensazione in quanto sensazione, ha necessariamente un oggetto esterno al principio che sente 78.

Ma ancora più rilevante è il passo di poco successivo al precedente, in cui Galluppi dice che

ogni sensazione dunque in quanto sensazione è la percezione d’una esistenza esterna. Io dico esterna, non
già estesa, perché non suppongo, che ogni sensazione ci faccia conoscere un essere esteso 79,

passo di estrema importanza, dal quale si evince che per Galluppi “sentire” non equivale
esclusivamente ad essere affetti o modificati da un sensibile ma, innanzitutto, ad “intuire”.
Opportunamente fa notare Guzzo che riguardo a Galluppi si deve parlare di

empiria, non empirismo; tutt’altro, anzi, che empirismo. Ché il padre del metodo sperimentale che egli
caldeggia è non Bacone, ma Cartesio. Egli segue Cartesio, ma evitando gli errori di metodo che crede di
scoprire in lui, e guardandosi di non confondere “ciò che è veramente sperimentale con ciò che si deduce
dall’esperienza” 80.

78
P. GALLUPPI, Elementi di Filosofia, cit., vol. 1, Psicologia, Capo II, p. 131.
79
Ibidem.
80
A. GUZZO, Idealisti ed empiristi, Vallecchi Editore Firenze 1935, p. 230.
Anzi, estremamente rivelatore del carattere essenzialmente ontologico del concetto galluppiano di
«esperienza» è proprio il giudizio di Galluppi verso Cartesio; questi, da un lato è elogiato per essere
- lui e non Bacone o Locke – il «padre delle filosofia sperimentale dello spirito umano», il che
mostra come per il Tropeano l’esperienza sia essenzialmente esperienza interiore, ma, dall’altro
lato, Cartesio è criticato proprio per aver concepito il “cogito” come mero atto del pensare, piuttosto
che come identità sostanziale e personale, per non aver, cioè, distinto «la verità sperimentale e
primitiva espressa dall’Io penso, dalle verità identiche le quali consistono nelle relazioni delle
nostre idee; [sc. Cartesio] ha creduto la prima della stessa natura delle seconde» 81, identificando, in
ultima analisi, l’anima umana con la scienza dell’anima umana.
Se di empirismo si può parlare, è semmai nel senso fenomenologico chiarito nel Novecento, da M.
Scheler, di cui ci pare assai illuminante il seguente passo tratto da Il formalismo nell’etica e l’etica
materiale dei valori:

Tutto ciò che è dato a priori» – scrive il filosofo tedesco – si fonda sull’ “esperienza” in generale
esattamente come tutto ciò che si manifesta nell’esperienza intesa quale osservazione e induzione. Se si
vuole, si può pure definire questa posizione come “empirismo” . La filosofia che si basa sulla fenomenologia
è in tal senso “empirismo”. I fatti e solo i fatti, e non le costruzioni di un “intelletto” arbitrario, ne sono i
fondamenti 82.

Ma è evidente che non si tratta più dell’empirismo classico ma, semmai, di una forma di empirismo
intuizionistico ed oggettivistico;

Chiamo filosofia dell’esperienza - chiarisce ancora Galluppi nel Saggio Filosofico - quella, la quale
ammette i seguenti due principi: 1) Lo spirito umano ha il sentimento di alcune realtà in sé stesse, e questo
sentimento è un fatto primitivo tanto nell’ordine di tempo, che nell’ordine scientifico; 2) Questo sentimento è
complesso, vale a dire offre allo spirito la congiunzione di alcune realtà, e siffatta congiunzione è un dato,
non un prodotto dello spirito stesso 83.

In tale ordine di ragionamenti, l’oggettività dell’ente sentito, del “percetto”, consiste non,
materialisticamente od empiristicamente, in una somma di dati e stati soggettivi, ma nel darsi
dell’ente alla coscienza, qualunque sia poi la definizione essenziale - la quiddità – di esso o

81
Cfr. P. GALLUPPI, Lezioni di Logica e Metafisica, cit., Lezione V, p. 38, 45.
82
M. SCHELER, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik (1916); trad. it. a cura di G. CARONELLO, Il
formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, San Paolo, Milano 1996, p. 78.
83
P. GALLUPPI, Saggio Filosofico, cit., vol. 3, Libro III, Capo VII, p. 149. Il secondo corsivo è mio.
qualunque siano poi le sue determinazioni naturali specifiche o generiche; l’oggettività è, in tale
ordine di ragionamenti, il che della sensazione non il che cosa o il come di essa.

I giudizi che pronunciano sull’esistenza del Me, e delle sue modificazioni – scrive sempre Galluppi nel
Saggio Filosofico - sono delle verità primitive di fatto, perché sono le analisi e le sintesi di una percezione
84
primitiva ch’è una intuizione diretta, immediata, infallibile

e ancora, in un altro passo contenuto nelle Lettere Filosofiche, egli scrive:

La credenza alle verità primitive non è mica una credenza cieca, come pretende Kant […] essa risulta
85
dall’intuizione immediata, la quale è luce diretta, e rischiara per se stessa .

Molto correttamente scrive in proposito Fazio Allmayer che

Galluppi con la sua teoria della sensazione pone un problema ignoto al Kantismo e che sarà discusso solo
sulla fine del secolo XIX: la distinzione del c h e e del c o m e nella sensazione. Egli fa fare all’empirismo un
vigoroso passo innanzi 86.

Ne consegue che Galluppi rinnova profondamente anche la vecchia metafisica dogmatica, proprio
perché l’essenza non è più la quiddità di una cosa e non risulta, sul piano logico, per deduzione
dalla definizione assiomatica della natura della cosa, ma consiste nel contenuto immediato di
coscienza, evidente, per intuizione, nell’unità relazionale tra pensiero ed essere.
La sensazione, senza l’idea – sostiene Rosmini - non può che essere un quid incognito, perché essa
ci è nota solo attraverso l’idea, mentre, per Galluppi, nella percezione sensitiva è già contenuta una
componente intellettiva, in senso latamente coscienziale, che ci consente di dire che qualcosa di
assolutamente certo, incontrovertibile, un quid appunto, in sé indeterminabile, ma indubitabile, è
presente in noi e fuori di noi e, di conseguenza, agisce causalmente su di noi dall’esterno e da noi
sull’esterno e la cui esistenza è da noi sentita prim’ancora che la mente giudichi e si pronunci
intorno ad essa.
S’è visto, infatti, come la prima operazione intellettuale per Galluppi sia l’analisi, che chiarisce
quanto già esiste, e che il primo tipo di giudizio, quello risultante dalla sintesi reale, sia individuale

84
Ivi, vol. 1, Libro I, Capo I, p. 42.
85
P. GALLUPPI, Lettere Filosofiche, cit., Lettera n. XIV, p. 273.
86
V. FAZIO ALLMAYER, op. cit., pp. 31-32.
e fattuale e non faccia che rispecchiare l’esistente. La coscienza e la sensibilità rivelano allo spirito
gli oggetti immediati delle sue conoscenze che esso prima decompone analiticamente, distinguendo,
nella iniziale percezione complessa e confusa, percezioni semplici e distinte, che sono già idee
astratte ma individuali - le quali, lo ricordiamo, non sono rappresentazioni degli esseri sensibili ma
intuizioni di essi - e poi ricompone, nella sintesi reale, tali percezioni o idee già unite in natura,
dando luogo ai giudizi primitivi di fatto, individuali e contingenti, consistenti nell’unione tra il me e
le sue modificazioni e tra gli oggetti esterni al me e le proprie modificazioni, cioè i rapporti di questi
oggetti con il me; indi, operando, nella sintesi ideale oggettiva, nuovi atti sintetici, l’intelletto
istituisce paragoni tra percezioni che nella natura sono divise, e che sono idee astratte ed universali,
creando così giudizi primitivi puri ed a priori, universali e necessari, gli assiomi, a loro volta tra loro
riuniti, nella sintesi ideale soggettiva, per produrre le categorie logico-formali ed aritmo-
geometriche 87.
Si può cioè parlare, a proposito della sensazione, come rilevato anche in precedenza, non già di una
mera modificazione o affezione provocata da una forza esterna sull’apparato sensibile del senziente,
bensì di “coscienza sensibile”, cioè di un atto entro il quale la coscienza vede immediatamente il
proprio contenuto; la premessa, in tale ordine di ragionamenti, è che la coscienza è sempre
“coscienza-di-qualcosa”, e, poiché la sensazione non è tale se non in quanto avvertita come presente
- sentita, appunto - nella coscienza, di conseguenza la sensazione, scrive Galluppi negli Elementi di
Filosofia,

è di sua natura sempre relativa all’oggetto sentito; essa o è sensazione di qualche cosa o non è sensazione
affatto […] possiamo esprimere la nostra dottrina dicendo: la sensazione è di sua natura oggettiva, o pure
l’oggettività è essenziale ad ogni sensazione 88.

Il “sentimento” o senso intimo a cui si riferisce di continuo Galluppi nei suoi scritti, è dunque già
una percezione sensitiva e intellettiva insieme, che afferra, entro una intuizione immediatamente
oggettiva, la sostanzialità degli enti e l’intrinseco ordinamento causale tra essi, e costituisce perciò
la base di ogni altra operazione conoscitiva che lo spirito attua sul mondo. Tale sentimento fa infatti
emergere l’esistenza stessa dell’essere spirituale e dell’essere materiale.
Lo stesso concetto di un Essere assoluto, immutabile, infinito, Causa creatrice, intelligente e
spirituale, pur non essendo verità primitiva di fatto, in quanto non esperibile direttamente, è tuttavia
certamente deducibile da una verità primitiva di fatto e non di ragione, e cioè dall’ordine causale

87
Cfr. P. GALLUPPI, Elementi di Filosofia, cit., vol. 1, Psicologia, Capo III, pp. 143-144, e Ideologia, Capo III.
88
Ivi, Psicologia, Capo II, p. 131.
condizionale tra le sostanze finite appreso immediatamente dal sentimento, a partire dal quale è
possibile risalire analiticamente alla nozione dell’Incondizionato, una nozione perciò soggettiva
riguardo all’origine ma oggettiva riguardo al valore perché ricavata dalla oggettività della causalità
e corrispondente ad una Realtà infinita esistente al di fuori ed al di sopra dell’uomo.
La distinzione tra aspetto soggettivo ed oggettivo del conoscere stabilita in base a quella tra origine
e valore della conoscenza, si rispecchia così nella importantissima differenza, ribadita dal Tropeano
in svariate sue opere, tra due forme di esperienza: da una parte, l’esperienza primitiva, originaria,
naturale, pre-analitica e pre-sintetica, che precede ogni operazione giudicante dell’intelletto e
composta di soli elementi oggettivi, l’Anima ed il Mondo, e, dall’altra parte, l’esperienza
secondaria, derivata, comparata, che è quella analitico/sintetica, la quale, segnando l’inizio
dell’intervento attivo dell’intelletto meditante sugli oggetti del pensiero, è composta sia di elementi
oggettivi che soggettivi e dà luogo alla conoscenza propriamente scientifica del mondo, e nella
quale rientra il terzo elemento oggettivo, Dio, la cui oggettività consiste, come abbiamo detto,
nell’essere ricavabile, per deduzione, dagli altri due elementi oggettivi appresi nell’esperienza
primitiva 89.
Per Rosmini, viceversa, una percezione a posteriori quale quella sensibile non può mai essere
oggettiva,

perché l’oggettività delle cose - scrive il Roveretano nello scritto, già menzionato, contenente lo Schema di
una lezione sul quarto libro del Saggio filosofico di Galluppi - vien tutta dalle idee, che sono l’oggetto per
essenza, e che appunto per ciò sono l’opposto di sensazioni […] Suppone [sc. Galluppi] che il sentimento,
soggettivo per natura, diventi oggetto dell’intendimento, senza dir come 90.

In sostanza, Galluppi avrebbe, nell’ottica rosminiana, sopravvalutato quella forma secondaria per
così dire, di “oggettività”, presente nella “extra-soggettività” di quello che Rosmini definiva
«sentimento fondamentale», ovvero il sentimento del proprio essere corporeo senziente, della
propria interiorità soggettiva o forma reale dell’essere, che egli definisce anche realità, da non
confondere con la realtà, che è oggettività, oggetto cognito; vero è, infatti, per Rosmini che il
sentimento interno è già rivelatore di una dimensione spirituale del soggetto-uomo, indice della
unicità e della medesimezza del soggetto reale, che è lo stesso soggetto che sente ed intende, ma è

89
Sul concetto di Dio cfr. P. GALLUPPI, Elementi di Filosofia, cit., vol. 1, Ideologia, Capo VI, e ID., Lettere Filosofiche,
cit., pp. 279-281. Sulla importantissima distinzione tra esperienza primitiva ed esperienza comparata, cfr. ID, Saggio
Filosofico, cit., vol. 3, Libro III, Capo XI, pp. 288-289 ed ID., Elementi di Filosofia, cit., vol. 2, Logica mista, Capo III,
e, ancora, ID., Lettere Filosofiche, cit., Lettera n. XIV, p. 282.
90
A. ROSMINI, Schema di una lezione….cit., pp. 119-120.
altrettanto vero, però, che la sensibilità, anche nella sua radice spirituale ed interiore, nella usa
purezza - distinguibile perciò da ogni sua modificazione e dalla sensazione del corpo esterno - non è
ancora per il Roveretano, inserito in una dimensione autenticamente e propriamente oggettiva, non
è ancora, cioè, autoconoscenza del proprio io. Tale inserimento è possibile solo grazie alla
percezione intellettiva, che realizza, mediante il pensiero dell’idea dell’essere, quella
“inoggettivazione” del soggettivo che consiste nell’elevare l’unità reale ma empirica del soggetto
intellettivo-sensitivo sul piano della realtà oggettiva ed assoluta della forma ideale dell’essere, sul
piano, cioè, della realtà intelligibile dell’“io penso”. Per Rosmini, perciò, solo nel caso del
sentimento fondamentale si può ammettere una forma di comunicazione immediata dello pensiero
con il sentito, come vorrebbe Galluppi, ma in tal caso non saremmo ancora entro l’intelligenza e,
quindi, in rapporto ad un termine metafisico, soprasensibile, oggettivo ed eterno e, quindi, in ultima
analisi, tale comunicazione immediata dello spirito con il sentito non garantirebbe alcuna certezza e
verità alla conoscenza umana.
Infatti, scrive Rosmini sempre nell’ultimo scritto citato, parlando di Galluppi:

La parola realità, per es., viene adoperata dall’autore per verità, ma ella significa tutt’altro […] La realità
viene anche talora confusa con l’oggettività. La coscienza è adoperata dall’autore, per indicare il sentimento
di ciò che accade in noi; ma il sentimento interno è diverso dalla coscienza: i sentimenti interni non sono
cognizioni fino a che l’intelligenza non li ha resi tali: hanno sentimenti interni anche le bestie, ma non la
coscienza […] Suppone (sc. Galluppi) che il sentire sia lo stesso che intendere, giacché fa cominciare dai
sentimenti del me e del fuori di me la vita intellettuale 91.

Ma, in verità, il fatto stesso che Rosmini assimili il “sentimento primitivo” di cui parla Galluppi alla
propria nozione di “sentimento fondamentale”, per poi mostrare che, siccome il Tropeano si sarebbe
fermato al piano empirico del conoscere, su cui si situa appunto ancora il sentimento del proprio
corpo “senziente-pensante”, di conseguenza, egli avrebbe costruito una dottrina ancora
soggettivistica, è la conferma ulteriore del fraintendimento rosminiano della nozione galluppiana di
“esperienza sensibile”, la quale è elaborata da Galluppi in una ottica non già empiristica e
sensistica, ma essenzialmente intuizionistica e, quindi, oggettivistica. Ciò consente di spiegare
anche il fraintendimento di quegli interpreti della polemica Galluppi-Rosmini (pensiamo a Gentile o
a Pusineri), che hanno individuato nell’attestarsi di Galluppi sul livello della sensibilità e del
sentimento interiore – cioè su quel livello che corrisponderebbe, in tale contesto interpretativo, a

91
Ivi, pp. 119-120. I corsivi sono nel testo.
quella che in Rosmini è la forma reale dell’essere - uno dei motivi principali della superiorità di
Rosmini su Galluppi.
Pertanto, se Galluppi non coglie la valenza ontologica dell’idea dell’essere, Rosmini non coglie da
par suo, la portata ontologica del «senso intimo» di Galluppi; eppure, così come la “sintesi reale”
corrisponde alla “percezione intellettiva”, allo stesso modo il “senso intimo” galluppiano
corrisponde non già al rosminiano «sentimento fondamentale» – per quanto, di primo acchito, si sia
portati facilmente ad un tale accostamento – bensì a quell’«intuito dell’essere» che sta a fondamento
della stessa percezione intellettiva e di tutto il sistema rosminiano del sapere e che, rimasto sullo
sfondo all’interno del Nuovo saggio (e probabilmente, anche per questo, nemmeno intravisto da
Galluppi), verrà da Rosmini sviluppato soprattutto nelle opere successive.
Cioè a dire, la funzione ed il ruolo che Galluppi assegna, nella soluzione dei problemi della realtà e
della conoscenza, al “sentimento interiore” corrispondono alla funzione ed al ruolo assegnati da
Rosmini, nella soluzione dei medesimi problemi filosofici, all’“intuito dell’essere” e non già a
quelli da lui attribuiti al “sentimento fondamentale”.
Lezione n. 6. Il «senso intimo» e l’ «intuito dell’essere».

Così come la «sintesi reale» di Galluppi può essere collegata, secondo quanto emerso dalle analisi
svolte nella lezione precedente, alla «percezione intellettiva» di Rosmini, allo stesso modo, la
distinzione galluppiana tra una forma di esperienza primitiva, originaria ed intuitiva, ed una forma
di esperienza secondaria, derivata, comparativa e/o scientifica, si ritrova, anche in questo caso
dietro una formulazione diversa, nella tesi di Rosmini, già accennata in precedenza, secondo la
quale il giudizio presuppone, anche per il filosofo trentino, un atto precedente ed originario grazie al
quale soltanto può aver luogo la conoscenza umana del proprio io e del mondo esterno, vale a dire
l’intuizione immediata dell’idea dell’essere. Il tipo di relazione conoscitiva che, secondo Rosmini,
sussiste tra l’io e l’idea dell’essere, è del tutto analogo al tipo di relazione sussistente, per Galluppi,
tra la coscienza da una parte e l’esistenza del Me e del fuori di Me dall’altra.
Quanto abbiamo illustrato in precedenza a proposito delle determinazioni fondamentali del “senso
intimo”, trova piena rispondenza in quella caratteristica basilare dell’“a priori” rosminiano per la
quale esso non risulta dall’operare attivo dell’intelletto, ma precede e rende possibile tale operare, in
quanto l’ “a priorità” dell’idea dell’essere è da intendersi come immediatezza del contenuto di
coscienza, ovverosia come il darsi alla coscienza del proprio oggetto. L’“essere ideale” è datità
originaria, fenomeno proprio della coscienza pensante alla quale esso si fa presente e si manifesta
senza il tramite di concetti o segni di sorta, ma immediatamente:

Lo spirito nostro – si chiede Rosmini nel Nuovo Saggio proprio a proposito della percezione
intellettiva – ricevendo delle sensazioni, è egli necessitato a percepire immediatamente qualche ente ? […]
Dato che il nostro spirito abbia presente l’idea dell’essere, e la veda sempre necessariamente; dato che questa
idea sia ciò che forma in lui l’intelletto e la ragione; dato per conseguente, che la natura dello spirito
intelligente consista nell’intuire l’essere: è dunque questa la legge dell’intelligenza, di non concepir nulla, se
non come un ente, come un qualche cosa […] Ma questa legge dell’intelligenza non è soggettiva, o
arbitraria; ella è necessaria […] In vero, non sarebb’ella una contraddizione ne’ termini il dire che il nostro
spirito conosce le cose che a lui si presentano, senza concepire un qualche cosa ? e concepire un qualche
92
cosa non è il medesimo che concepire un ente ? .

Anche per Rosmini, come per Galluppi, ogni operazione conoscitiva suppone la visione diretta
dell’essere, suppone, cioè, un rapporto immediato tra l’intelletto ed il proprio oggetto; l’intelletto è

92
NS 535-536.
93
definito da Rosmini appunto la «facoltà di veder l’essere indeterminato» . La distinzione tra il
momento fondativo e primario del conoscere, di carattere intuitivo, ed il momento derivato e
secondario di esso, di carattere trascendentale, viene alla luce in modo ancora più specchiante poco
dopo i passi appena citati del Nuovo Saggio, allorché Rosmini, proprio nello sciogliere due possibili
obiezioni alla propria teoria, mostra inequivocabilmente la sua inconsapevole convergenza con il
pensiero del Tropeano.
La prima obiezione a cui, secondo Rosmini, potrebbe prestare il fianco la propria dottrina
dell’essere ideale, è la seguente: se l’idea innata dell’essere, in quanto “idea”, suppone il giudizio, il
quale è un concepire l’idea, non si deve altresì supporre un giudizio mediante il quale noi
concepiamo l’idea innata dell’essere ?
Rosmini risponde che il giudizio è necessario solo per le idee di nostra formazione, frutto
dell’attività sintetica dello spirito, ma il rapporto tra lo spirito e quella idea mediante la quale esso
giudica non è a sua volta frutto della sintesi ma l’oggetto di un’intuizione immediata:

Il giudizio - scrive Rosmini - è sempre un’operazione della mente, colla quale s’accoppiano due termini;
sicché ove non fossero due i termini ma un solo fosse, non s’esigerebbe giudizio di sorte; anzi, il giudizio
sarebbe impossibile; e si darebbe un’intuizione immediata, e da nessun giudizio prevenuta […] Dunque
l’idea dell’essere da una parte non si può formare con una nostra operazione e si può solamente intuire:
dall’altra non si può intuire senza che sia presente al nostro spirito; nova ed evidente dimostrazione, ch’ella è
94
presentata all’uomo dalla natura .

Estremamente significativo è, a riguardo, il ragionamento che Rosmini, appena qualche rigo dopo il
passo citato, svolge sulla nozione di possibile, sviluppato proprio per fugare qualsiasi dubbio circa
l’assoluta anteriorità dell’intùito dell’essere rispetto ad ogni tipo di giudizio. Rosmini, infatti,
spiega, con grande sottigliezza, che quando si parla dell’essere ideale come dell’essere possibile,
non ci si vuol riferire al contenuto esprimibile in una proposizione del tipo: “può esistere un qualche
cosa”, che sarebbe comunque una forma di giudizio. L’essere possibile non indica la possibilità
reale, quindi affermativa, bensì la mera possibilità logica, negativa, in cui l’esser-possibile non è la
realtà, anche solo concettuale del possibile, ma l’assenza di contraddizione, il fondamento radicale
del possibile, la regola per giudicare della possibilità delle cose. Dunque, il possibile è il non-
impossibile, il non-contraddittorio, ovvero altro non è se non il contenuto medesimo del principio

93
NS 481.
94
NS 541.
rosminianio di «cognizione» e quindi del principio eleatico della contraddittorietà del nulla; il
possibile, qui, è la presenza dell’essere al pensiero.
Tale ragionamento costituisce implicitamente anche la migliore risposta di Rosmini alle critiche
galluppiane di ontologismo, a cui abbiamo fatto riferimento nella lezione precedente, poiché quando
Galluppi accusa Rosmini di aver personificato o “reificato” il possibile, non comprende che in
realtà l’essere possibile altro non indica se non il fatto che il pensiero è pensiero dell’essere e che il
non-essere è impensabile e contraddittorio, che è il principio da lui stesso ammesso 95.
Ciò deve essere tenuto presente anche per evitare di fraintendere la critica stessa di Galluppi, il cui
anti-ontologismo è sviluppato da un punto di vista oggettivistico ed intuizionistico e non certo
psicologistico o materialistico, come è documentato dai vari brani delle opere di Galluppi che
abbiamo citato fin’ora; non è mancato, infatti, chi ha talmente sopravvalutato la critica galluppiana
di ontologismo a Rosmini - quindi travisandola – da lasciarsi andare ad affermazioni, a nostro
sommesso avviso, fuori misura e nettamente difformi sia dalla lettera che dallo spirito dei testi
galluppiani, come fa F. Mercadante quando ne Galluppi e la critica del rosminianesimo, scrive che

Nell’opera filosofica di Galluppi [… ] il capitolo sull’ontologismo sua mole stat. E’ in quella trattazione la
premessa maggiore del sillogismo antirosminiano. Le Lettere cinque sull’ontologia […] documentano la
lunga fatica, sostenuta dal filosofo, per radunare ed irrigidire tutto un fascio di postulazioni antimetafisiche,
sotto l’insegna un po’ bottegaia della rivolta contro l’innatismo […] Queste lettere cinque sull’ontologia […]
aprono il sistema verso l’ésprit politecnique: verso l’imminente positivismo, insomma, che presto, con
Comte, avrà ragione del sincretismo 96.

Tornando all’esame delle opere rosminiane, risulta, dunque, del tutto evidente, soprattutto dagli
ultimi passi riportati del Nuovo Saggio, che anche il filosofo trentino sostiene l’esistenza di una
forma di esperienza in cui la coscienza apprende il proprio oggetto in modo totalmente originario,
primitivo, e che non è una mera modificazione del soggetto, bensì un atto oggettivo in cui non entra
ancora il giudizio, proprio come, in Galluppi, il sentimento primitivo del me che sente il fuor di me
– l’«esperienza originaria» - è anteriore a qualsiasi giudizio predicativo, ed è oggettivo non in
quanto risultato di una sintesi, ma in quanto risultato di una intuizione.
Ma, prosegue Rosmini, si potrebbe sollevare, contro la propria teoria, un’ulteriore difficoltà:
l’intuito dell’essere non può dirsi esso stesso ancora un giudizio dal momento che può essere
formulato nei seguenti termini: “io (soggetto) percepisco l’essere (predicato)” ? Egli risponde che

95
Cfr. NS 542-546.
96
F. MERCADANTE, Galluppi e la critica del rosminianesimo, cit., pp. 76-77.
«l’atto con cui intuisco l’essere, è interamente diverso dall’atto onde dico a me stesso: “io intuisco
l’essere”» 97.
Ma è appunto qui la nascosta consonanza tra il senso intimo galluppiano ed il rosminiano intuito
dell’essere, ovvero nella tesi secondo cui intuire l’essere (sia pur solo nel suo aspetto ideale e non in
modo compiuto come per Gioberti), ed il giudicare di intuirlo sono due atti dello spirito diversi, ed
il primo è logicamente, cronologicamente ed ontologicamente anteriore al secondo. Se è, infatti,
l’intermediazione intellettuale a costituire la garanzia trascendentale della oggettività
dell’esperienza che il soggetto fa del mondo, è, invece, proprio la visione immediata dell’essenza
dell’essere a costituire la garanzia metafisico-ontologica del riferimento del pensiero umano ad una
realtà assoluta ed indipendente da sé, una realtà che può rivelarsi all’interno della dimensione
soggettiva del pensiero proprio in virtù di tale assolutezza ed indipendenza.
La relazione del pensiero all’essere è anteriore all’atto con cui il pensiero volge la propria
attenzione alla relazione stessa, in quanto l’intuizione è un atto unico e semplice che non muta la
propria natura per il fatto che la coscienza attenda o meno ad esso e che è primitivo, spontaneo,
irriflesso, intrinseco e necessario: «Io posso pensare un oggetto» – dice Rosmini – «per esempio
l’essere, senza che io rifletta sopra di me medesimo, e mi ravvisi così pensante» 98, e così l’atto con
cui l’io intuisce l’essere è diverso da quello con cui l’io stesso giudica sé intuente, perché il secondo
atto è un giudizio che si compone del soggetto io e del predicato dell’esistenza e che non potrebbe
mai aver luogo se l’essere ideale non fosse dato – come dato “sperimentale”, ovvero come dato
primitivo ed originale – al pensiero in modo immediato.
Non si può non vedere nelle parole testé riportate di Rosmini il medesimo significato, seppur
formulato diversamente, di quello contenuto nelle seguenti parole di Galluppi, che, nelle Lezioni di
Logica e Metafisica, scrive:

Non bisogna confondere l’attenzione o la direzione del pensiero verso un oggetto, coll’attenzione o
direzione del pensiero verso la percezione di questo oggetto: io posso attendere ad un oggetto esterno, ed
eseguire su di esso varie operazioni dell’intelligenza; in tal caso è certo, che io ho la coscienza di tutte queste
operazioni intellettuali; mai io non attendo ad esse; io non dirigo l’attività del mio pensiero su di esse, io non
medito su le stesse; io ne ho solamente la coscienza o il sentimento interiore […] La coscienza è
involontaria, l’analisi è volontaria; la coscienza è inseparabile da qualunque operazione del nostro spirito:
99
l’attenzione o analisi non va necessariamente unita alle operazioni di cui parliamo .

97
NS 548.
98
NS 550.
99
P. GALLUPPI, Lezioni di Logica e Metafisica, cit., Lezione LXXXIV, p. 84.
Ma è davvero notevole che Rosmini, per delucidare meglio il significato dell’“intuito dell’essere”
ricorra ad una espressione che mostra ancora più chiaramente la propria corrispondenza con il
“senso intimo” di cui parla Galluppi, ovverosia quella di «senso intellettuale», che indica proprio
quella percezione sui generis, del tutto originale, in virtù della quale la coscienza riceve, accoglie,
sente passivamente - ma in un senso radicalmente differente dalla ricettività passiva del senso
corporeo ed a quest’ultimo irriducibile - la presenza in sé dell’essere ideale. Così si esprime
Rosmini, sempre nel Nuovo Saggio:

L’essere dunque è intuito dallo spirito nostro in un modo immediato, come il senso riceve l’impressione del
sensibile; egli è rispettivamente a questa presenza dell’essere allo spirito, che si può dire esser noi forniti
d’un senso intellettuale. La nostra intelligenza dunque, in quanto intuisce l’essere, si può chiamare un senso
(d’altro genere però da’ corporei); ma in quanto il nostro spirito giudica, o sia avvisa il rapporto tra il sentito
e l’essere in universale, egli fa un’operazione interamente diversa dal senso […] Sebbene la natura di senso
importi un’azione fatta nel soggetto, o una modificazione subìta da questo; tuttavia nel senso corporeo non si
comunica l’oggetto come oggetto, ma come forza agente; là dove nel senso intellettivo si manifesta un
oggetto, anziché un agente; ché dell’oggetto non è propria l’azione, ma solo la presenza e la manifestazione
100
.

Come si vede, il concetto rosminiano di «intuizione» è del tutto combaciante con quello
galluppiano:

Chiamo Intuizione - scrive Galluppi nel Saggio Filosofico – la percezione immediata dell’oggetto, in
101
modo che l’esistenza della percezione supponga necessariamente quella dell’oggetto .

Ma se teniamo presente quanto detto in precedenza a proposito della portata cognitiva della
percezione sensibile in Galluppi, ci accorgiamo della equivalenza tra il “senso intellettuale” di
Rosmini ed il “sentimento primitivo” galluppiano; quest’ultimo, infatti, non è il senso meramente
corporeo, ma la coscienza sensibile, la sensazione percepita nella coscienza, ovvero la sensazione-
di-qualcosa, ed essendo la coscienza sempre coscienza di qualcosa ed essendo la sensazione sempre
anche con-saputa, ne segue che la sensazione è sempre anche rivolta non semplicemente ad una
forza agente ma ad un oggetto; il sentito cioè è sempre anche oggetto, non in quanto oggetto
cògnito, ma in quanto oggetto intuìto e contenuto immediato di coscienza.

100
NS 553-554.
101
P. GALLUPPI, Saggio Filosofico, cit., vol. 2, Libro II, Capo IV, p. 158.
Lezione n. 7 : Il principio della “intenzionalità” della coscienza.

Ma qual è, dunque - ci chiediamo in questa settima lezione - il principio logico-teoretico in grado di


giustificare esplicitamente l’equipollenza tra la teoria galluppiana dell’esperienza e quella
rosminiana dell’essere ideale e di mostrare il convergere di queste due teorie rispetto al comune
obiettivo della elaborazione di una nuova filosofia, non soggettivistica, della soggettività ?
Ebbene, alla luce dei nostri precedenti ragionamenti, possiamo rispondere a tale interrogativo
richiamandoci ad un principio che, già presente agli Scolastici, riemergerà in tutta la sua fecondità
teorica nel Novecento, prima con Brentano e poi soprattutto con Husserl, e, sebbene in forma
diversa, anche con Heidegger, ma che proprio nei nostri pensatori italiani dell’Ottocento (compreso
Gioberti) era stato già sapientemente recuperato in modo da ripensare la soggettività moderna,
ovvero il principio della intenzionalità della coscienza.
E’ proprio il concetto di “intenzionalità”, infatti, a costituire sotterraneamente il punto di incontro
tra pensiero galluppiano e pensiero rosminiano. Rosmini ha sempre ripetuto che l’idea dell’essere
non domanda un nostro assenso o dissenso ma ci sta dinnanzi come un fatto, ma il termine “fatto”
ha, per lui, il medesimo valore che ha per Galluppi, il quale lo adopera a proposito del me e del
fuori di me, nonché, indirettamente, a proposito di Dio; “fatto” è, qui, il dato sperimentale, dove
“sperimentale”, ribadiamo, indica la presenza immediata alla coscienza del proprio oggetto, la
rivelazione diretta dell’Ente allo spirito, l’immediata comunicazione dello spirito con l’Ente, sia che
l’Ente rivelato venga inteso quale pensato, come per Rosmini, sia che esso venga inteso quale
sentito come per Galluppi. Infatti, o come “sentito” o come “pensato”, l’Ente si dà, si mostra, si
offre originalmente alla mente, ovverosìa, in entrambi i casi, l’Ente è oggetto intuìto.
Dire che la coscienza intenziona il proprio oggetto significa infatti affermare che essa è
costitutivamente, intrinsecamente diretta ad un oggetto, cioè a dire, qui il passaggio centrale, che la
coscienza non può riferirsi immediatamente al proprio oggetto se non presupponendolo.
Né per Galluppi né per Rosmini, la sintesi ha, quindi, una funzione esclusivamente trascendentale,
ma innanzitutto metafisico-ontologica, in quanto essa non è atto originario, ma a sua volta derivato
da un atto ancor più originario e primitivo in virtù del quale soltanto la coscienza ha modo di
sintetizzare. Sia per Galluppi che per Rosmini, pensare non è soltanto giudicare, anzi il pensiero
può dar luogo al giudizio solo perché in prima istanza esso si rivolge passivamente al proprio
oggetto o contenuto, secondo il principio classico, già emerso nel corso del carteggio tra i due, per
cui intelligere est quoddam pati.
Come abbiamo visto, sia la «sintesi reale» sia la «percezione intellettiva», sono due modi diversi di
esprimere l’identica tesi secondo cui la parte attiva del pensiero – che, operando, analiticamente o
sinteticamente, sul materiale sensibile, appreso con il senso interno e/o esterno, costituisce mercé le
proprie idee a priori, il sistema delle conoscenze umane – suppone una parte passiva, su cui quella
attiva si fonda e da cui è resa possibile. Per entrambi i pensatori, il momento riflessivo del pensiero
si fonda sul momento intuitivo di esso. Il che è come dire che la “sintesi reale” sta alla “percezione
intellettiva” come il “senso intimo” sta all’“intuito dell’essere” o “senso intellettuale”.
Ma, paradossalmente, il punto di incontro tra i due pensatori coincide con il loro punto di rottura, in
quanto è proprio laddove più stretta si presenta la loro intesa che sorge l’equivoco che sta alla radice
di tutta la loro controversia.
Per entrambi, infatti, il piano gnoseologico della conoscere oggettivo del mondo si fonda sul piano
ontologico della oggettività e realtà della conoscenza. Sia Galluppi che Rosmini hanno
ripetutamente affermato e dimostrato, da un capo all’altro del loro pensiero, che l’ordine del
conoscere è subordinato all’ordine dell’essere, e che se sul piano epistemologico può e deve essere
ammesso il ruolo attivo dello spirito, ruolo indispensabile per comprendere il costituirsi
dell’esperienza oggettiva delle cose, sul piano metafisico-ontologico, viceversa, il giudizio e la
sintesi sono insufficienti a garantire la realtà e la certezza della conoscenza, in quanto il pensiero
non può conoscere oggettivamente il mondo se non all’interno della relazione con l’essere.
Ciò vale non solo per il loro pensiero teoretico, ma anche per quello etico-politico; esiste, infatti,
una profonda sintonia tra Galluppi e Rosmini anche riguardo alla problematica morale, su cui non è
possibile in questa sede soffermarci oltremodo, perché, come abbiamo già accennato nella nostra
prima lezione, è rispetto alla tematica ideologica e metafisica che si staglia la loro controversia, non
solo per ciò che concerne il carteggio, ma anche rispetto alla posizione che ognuno dei due
pensatori assume esplicitamente verso l’altro all’interno delle rispettive opere, nelle quali essi si
confrontano sempre su temi teoretici, temi che, d’altronde, costituiscono i fondamenti anche della
loro riflessione morale. Basterà, qui, solo accennare al fatto che, anche in ambito etico, essi sono
d’accordo nel concepire il “bene” come manifestazione dell’oggettività dell’Essere, e quindi in
opposizione sia verso ogni forma di morale utilitaristica, edonistica ed eudemonistica, sia verso la
morale di tipo kantiano, in cui non è l’esistenza della legge morale a dipendere dal Valore, ma
quest’ultimo a dipendere dall’esistenza della legge, di per sé soggettiva ed incapace, secondo i due
filosofi italiani, di fondare in modo assoluto l’etica;

Il Galluppi e il Rosmini – scrive Sciacca a proposito delle loro opere di morale – si incontrano in più
punti, l’uno indipendentemente dall’altro, perché i loro scritti intorno al problema morale furono stampati
quasi contemporaneamente 102.

102
M.F. SCIACCA, op. cit., pp. 47-48.
Tale convergenza in etica, si riverbera anche in ambito politico, rispetto al quale facciamo rilevare
soltanto che i valori illuministici della sovranità popolare, della libertà e dei diritti nonché quelli
risorgimentali dell’unità nazionale e dell’indipendenza, sono, sia in Galluppi che in Rosmini,
decisamente affermati contro ogni forma di dispotismo, ma, nel contempo, ancorati saldamente ad
una concezione personalistico-spiritualistica della società politica che intende ristabilire un rapporto
non laicistico tra Chiesa e Stato e porsi come una forma moderata e non radicale di liberalismo.
L’intera concezione filosofica, sia metafisica che etica, di entrambi è dunque percorsa dalla tesi per
cui il soggetto in quanto conosce o vuole, suppone sempre il soggetto in quanto è, il soggetto
conoscente e morale suppone cioè l’esistenza di un criterio meta-soggettivo in base al quale poter
conoscere sé stesso ed il mondo esterno, e in base al quale poter determinare la propria volontà
all’azione.
Ma, sempre rimanendo nell’ambito ideologico e metafisico, così come Galluppi non riesce ad
intendere un “a priori oggettivo”, allo stesso modo Rosmini non riesce a comprendere un “a
posteriori oggettivo”, e ciò avviene perché ognuno dei due critica l’altro dal punto di vista
gnoselogico o psicologico, senza cogliere il radicamento che per entrambi tale punto di vista ha
nell’ordine ontologico. La polemica si svolge su un piano solo, quello epistemologico, ed è del tutto
comprensibile che, rimanendo solo su tale piano, non solo ognuno dei due dovesse apparire all’altro
un soggettivista - l’uno, Rosmini, più incline al razionalismo, l’altro, Galluppi, più incline
all’empirismo - ma anche che, nel tentativo comune di trovare una soluzione intermedia tra
razionalismo ed empirismo, nessuno dei due riuscisse, secondo l’opinione dell’altro, a svincolarsi
davvero dal criticismo di Kant.
Se infatti - poteva benissimo obiettare Galluppi a Rosmini - la «percezione intellettiva» non è altro
che un giudizio sintetico a priori, l’unione, cioè, tra un’idea prodotta spontaneamente dall’intelletto
e il dato sensibile, tale atto potrà certamente fondare la conoscibilità dell’esperienza, ma come potrà
fondare l’esistenza stessa della conoscenza ? Se l’idea è solo la rappresentazione dell’oggetti,
un’immagine che sta in luogo degli oggetti, ma che non corrisponde fedelmente e direttamente ad
essi, come lo spirito potrà passare dalle regione delle sue idee a quella delle cose esistenti ? La
realtà oggettiva della conoscenza, il fondamento inconcusso che rende certa l’esistenza stessa del
soggetto pensante non sarà in questo caso dipendente dal soggetto stesso? Se è così, però, se,
insomma, la sintesi unificante dell’io non presuppone alcuna realtà più originaria, l’Ente non sarà
allora relativo allo spirito ed alle sua strutture conoscitive e quindi in sé un semplice sogno ben
regolato ? Ma non è questo il risultato della “rivoluzione copernicana” di Kant che ha fatto ruotare
l’Ente intorno allo spirito, la Verità intorno al pensiero umano ?
Ma, come abbiamo visto, Rosmini poteva controbattere, altrettanto fondatamente, che se la «sintesi
reale» è un giudizio sintetico a posteriori, l’unione, cioè, tra un soggetto individuale e la sua
modificazione, allora l’elemento oggettivo della conoscenza finisce per essere un mero aggregato di
stati psico-fisici transitori e mutevoli derivante della esperienza sensibile e l’elemento soggettivo –
la sintesi ideale - una funzione od operazione dello spirito che si limita a costruire o ricostruire
idealmente il materiale sensibile. Ma se è così, se, cioè, tutto deriva dai sensi e quanto non ne deriva
è solo un’operazione mentale, l’oggettività non consiste, allora, nella mera possibilità
dell’esperienza umana e soggettiva delle cose, ovvero, daccapo, in un principio puramente
trascendentalistico ma non metafisico, che fa, kantianamente, della Verità non una realtà in sé ma
una realtà che appare al soggetto ?
In realtà, come s’è visto, le cose stanno diversamente e i due interlocutori non si accorgono di aver
costruito due filosofie tra loro simmetriche ed ugualmente distanti dal criticismo kantiano. In questo
senso, non deve trarre in inganno la definizione, dall’apparente intonazione criticistica, che spesso,
in svariati luoghi delle sue opere, Galluppi dà della filosofia come «scienza del pensiero umano»103,
o l’affermazione, dall’altrettanto sapore kantiano, ribadita dal Tropeano più di una volta – anche, ad
esempio, in una lettera a Rosmini dell’11 Novembre 1829, precedentemente considerata - secondo
la quale all’uomo non è dato conoscere l’“essenza” delle cose.
Quanto alla prima definizione, infatti, si può dire che essa non perda nulla della sua valenza
ontologica, sol che si ponga mente alla nozione galluppiana di “pensiero” che va intesa in senso
ampio e che importa, come stiamo vedendo, il riferimento intenzionale alla sostanzialità dell’Io. Di
conseguenza, parlare di “scienza del pensiero”, come già abbiamo fatto rilevare a proposito della
critica di Galluppi a Cartesio, vuol dire, in tale ordine di ragionamenti, riferirsi alla conoscenza
dell’anima in quanto è, e non solo in quanto conosce.
Quanto alla seconda affermazione, non si può non constatare quanto essa confermi, piuttosto che
smentire, l’intero impianto sistematico della filosofia di Galluppi; come s’è detto, è proprio in
questo punto che egli rinnova su base intuizionistica la metafisica tradizionale; l’essenza della cosa
non è più, per il Tropeano (a meno che non ci si sposti dal piano strettamente filosofico a quello
religioso, come chiariremo nella prossima lezione), la natura della cosa, in sé indeterminabile, ma il
darsi della natura della cosa, l’apparire alla coscienza interiore, il “fenomeno” inteso in senso
“apofantico”. Da questo punto di vista, non ci sentiamo di condividere quanto scrive F. Ottonello, e
cioè che

103
Cfr., ad esempio, P. GALLUPPI, Lezioni di Logica e Metafisica, cit., Lezione II, p. 19.
Galluppi, come Kant, anche se lo nega, intende conservare la cosa in sé, che però concepita come “fuori di
noi” assurge a realtà indeterminata suscettibile di essere conosciuta […] Kant cade quindi nella “vecchia”
accusa di “scetticismo ontologico”; Galluppi invece, che ammette la conoscenza reale delle “esistenze”
attraverso il ponte della sensazione, è costretto però a confessare la “noumenicità” di tale ponte; sicché, per
104
evitare lo “scetticismo ontologico” è costretto a cadere in una sorta di “scetticismo dogmatico ;

in realtà, è da escludere qualsiasi forma di scetticismo nella dottrina di Galluppi, in quanto


l’affermazione dei limiti della natura umana, che certamente si trova in tale dottrina, non è che la
naturale conseguenza della riproposizione di un pensiero forte, metafisico ma al tempo stesso aperto
e critico, del tutto consentaneo con l’atteggiamento filosofico fondamentale di Rosmini di
equidistanza e dallo scetticismo e dal dottrinarismo.
Il principio di “intenzionalità” ci consente, pertanto, di individuare il vero trait d’union tra le due
filosofie. Infatti, così come ciò che è razionale in Rosmini non va inteso come ciò che deriva dalla
ragione, allo stesso modo ciò che è empirico in Galluppi non va inteso come ciò che deriva
dall’esperienza; razionalità ed empiria sono, nei nostri due filosofi, due lati della stessa realtà,
quella della intenzionalità della coscienza e sono entrambi unificati ed intrecciati dall’atto intuitivo
originario entro cui la coscienza è tale, cioè “coscienza”, in quanto corrispondenza ed inerenza
all’oggetto intuìto.
Ciò che differisce nelle due concezioni è solo la preferenza accordata al pensiero piuttosto che alla
sensazione o viceversa, nel senso che la coscienza è pensante per Rosmini, pensante e senziente
insieme per Galluppi, ma, sia come coscienza intellettiva, sia come coscienza sensibile, la coscienza
è pur sempre intenzionale; siamo comunque dinnanzi, cioè, a due filosofie tra loro equivalenti, in
cui il soggetto pensante, inteso o come intelletto o come senso, non determina kantianamente
l’oggetto né tanto meno lo crea (idealismo post-kantiano) e neppure lo ricava deduttivisticamente
(razionalismo) o induttivisticamente (empirismo), ma lo intuisce - dunque supponendolo - come
proprio principio informante e costituente, come propria «luce incorporea» – scrive Rosmini nel
Nuovo Saggio, citando un passo agostiniano – «nella quale la mente tutte le cose che ella conosce
risguarda» 105.
Particolarmente significativo è, a tal riguardo, il seguente passo di Galluppi tratto dalle Lezioni di
Logica e Metafisica, in cui egli afferma:

104
F. OTTONELLO, “Galluppi nella infedele interpretazione di Spaventa”, in «Rivista Rosminiana di filosofia e cultura»,
Anno LXXXII-fasc. I-Gennaio-Marzo 1988, p. 45.
105
NS 1122.
Se l’esistenza di qualcosa non è un dato primitivo, da qual principio potrà mai dedursi un’esistenza qualsiasi
? Si dedurrà forse da un’idea ? Ma egli fa d’uopo almeno ammettere necessariamente l’esistenza di questa
idea; e come si può essa ammettere se non come un dato primitivo ? Bisogna dunque o riconoscere come un
106
dato primitivo l’esistenza di qualche cosa, o serbare un eterno silenzio in filosofia ,

passo dal quale risulta evidente che, anche per Galluppi, come per Rosmini, si può pure ammettere
l’esistenza dell’idea prima del giudizio, purché si ammetta, però, un «qualche cosa» di primitivo e
di anteriore – sia o no l’idea rosminiana dell’essere - al giudizio.
Da questo punto di vista si può affermare che entrambi siano aprioristi, ma non nel senso che l’“a
priori” fonda l’oggettività della conoscenza, ma nel senso che vi è una precedenza logico-ontologica
dell’intuizione sul giudizio, un preesistere dell’oggetto intuìto rispetto all’oggetto cognito; ognuno
dei due autori attribuisce all’altro la riduzione dell’oggetto intuìto all’oggetto cognito, quando, in
verità, per entrambi, il primo sta a fondamento del secondo. Siamo in presenza di due forme diverse
di intendere l’oggettività ma che suppongono, appunto, l’originarietà incontrovertibile di una
dimensione reale ed oggettiva di Senso che anticipa il conoscere. L’“oggettività” della conoscenza
assume un valore di verità di per sé indipendente dalle modalità di acquisizione della stessa; ecco
perché ognuno dei due può rivendicare l’oggettività delle conoscenza sia appellandosi ad un a
priori (Rosmini), sia appellandosi ad un a posteriori (Galluppi).
Se, infatti, intendiamo la dicotomia “a priori/a posteriori” in senso ontologico, ambedue i filosofi
sono come già detto, “aprioristi” – l’essere, cioè, precede il conoscere - ma se intendiamo tale
dicotomia nel suo senso originariamente gnoseologico, allora, da quest’ultimo punto di vista,
l’oggettività può altrettanto correttamente essere riferita, trasversalmente, sia all’“a priori” sia all’“a
posteriori”. Rosmini è per una oggettività a priori, Galluppi per una oggettività a posteriori, ma
partendo dalla premessa, dalla quale entrambi i nostri due filosofi partono, secondo la quale
l’oggettività della conoscenza è appresa in modo intuizionistico, si deve concludere che l’“a priori”
e l’“a posteriori”, essendo solo delle modalità conoscitive di acquisizione di un contenuto oggettivo
di verità, esse non intaccano il grado di oggettività di tale contenuto.
La nozione di “coscienza”, pertanto, viene sviluppata da entrambi i pensatori all’interno di una
visione che potremmo definire “protofenomenologica”; Galluppi, in particolare, proprio
nell’attribuzione di un carattere intenzionale già alla stessa “sensazione”, anticipa mirabilmente la

106
P. GALLUPPI, Lezioni di Logica e Metafisica, cit., Lezione LXXIX, p. 286.
successiva opzione fenomenologica di Husserl, come ha ben chiarito G. Lo Cane, in alcuni suoi
recenti studi sulle profonde assonanze tra il pensiero del Calabrese e quello di Husserl 107.
E’ il concetto della Verità come essere manifestativo, “ostensivo”, che si rivela nell’atto stesso di
essere appreso, e che è dunque presupposto all’atto stesso, e fondamento di esso, a costituire
l’elemento di continuità basilare tra galluppismo e rosminianesimo ed il punto di rottura tra le due
filosofie da una parte ed il kantismo dall’altra.
Come Galluppi ha sempre affermato, l’unità sintetica del pensiero si fonda sull’unità metafisica,
assoluta ed indefinibile del me che sintetizza e sull’unità fisica, altrettanto assoluta, del fuori di me
sintetizzato, ma è il nesso - reale ed indipendente dal soggetto conoscente - tra il mondo interiore
dell’anima ed il mondo esteriore della natura a costituire il fondamento oggettivo della stessa unità
sintetica, e non l’azione del soggetto pensante/senziente, proprio come in Rosmini l’unità sintetica
del pensiero – la “percezione intellettiva” - è a sua volta basata sull’unità indefinibile ed assoluta
dell’Idea ed è quest’ultima specie di unità il fondamento oggettivo dell’unità sintetizzante del
pensiero. In entrambi i casi, l’esperienza comparata, il giudizio, si fonda, a differenza che in Kant,
su una forma di esperienza primitiva, l’intuizione.
Si tratta in fondo di quel «principio di cognizione» fissato da Rosmini come principio primo di tutti
i ragionamenti, per cui “l’oggetto del pensiero è l’essere”, ovvero “il pensiero è pensiero
dell’essere”, principio che egli definiva la “legge della natura intelligente”, l’essenza della
intelligenza e che altro non è se non la riproposizione del principio parmenideo dell’impensabilità
del nulla o della identità tra certezza e verità.
Così, il principio della intenzionalità della coscienza consente a Galluppi e a Rosmini da un lato, di
riprendere il principio classico e medievale dell’unità tra pensiero ed essere, ma, dall’altro lato, di
accogliere il principio moderno dell’autocoscienza e dell’autonomia del pensiero, senza ricadere
però nel soggettivismo; il soggetto è sì autonomo, ma limitatamente al conoscere, mentre è
eteronomo rispetto all’essere. La “intenzionalità”, infatti, impedisce di vedere nel soggetto umano,
inteso sia come intelletto che come senso, il fondamento inconcusso del sapere e del reale, non solo
nella forma assoluta dell’Io creatore ma anche solo come principio formale ed unificatore
dell’esperienza, poiché, nell’atto intenzionale, la coscienza in tanto può costituirsi in tutta la sua
forza produttiva e costruttrice rispetto alla sua esperienza delle cose, in quanto “accoglie” ciò che le
consente di esistere, ovvero la realtà dell’Essere.

107
Cfr., su questo argomento, G. LO CANE, Postfazione a P. GALLUPPI, Elementi di Filosofia, cit., pp. 501-509, e ID., P.
Galluppi e E. Husserl, in S. VENEZIA (a cura di), Gli Elementi di Filosofia di P. Galluppi. Fra ragione teoretica e
metodologia storica, cit., pp. 175-184.
L’Essere si dà, si mostra alla coscienza sul fondamento della propria alterità rispetto alla coscienza;
il soggetto pensante può pensare solo in quanto pensa l’essere, ma pensa l’essere solo in quanto
l’essere è presupposto e precede, logicamente ed ontologicamente, il soggetto stesso.
Nel contempo, però, l’intenzionalità riafferma il ruolo attivo del soggetto sia come io intuente,
come colui al quale l’Essere si mostra, e che è chiamato a riconoscerlo, sia come soggetto
conoscente, come colui che imprime nel mondo dell’esperienza il sigillo dell’Essere con le proprie
operazioni ed azioni.
Il principio della libera iniziativa umana, nella natura e nella storia, a cui la cultura rinascimentale
aveva aperto la strada, e che da Cartesio fino ad Hegel e, parallelamente, da Galileo fino a Newton,
aveva trovato, nelle sue diverse forme, la propria organica e sistematica legittimazione filosofico-
scientifica, viene riaffermato da Galluppi e Rosmini ma da entrambi saldamente ancorato a quella
relazione veritativa all’Essere, non più semplicemente umana, ma anche sovraumana, che era stata
portata alla luce per la prima volta dal mondo greco e che aveva poi trovato il proprio coronamento
religioso con il mondo cristiano.
Lezione n. 8. Significato ed attualità del confronto tra Galluppi e Rosmini.

Alla luce della ricostruzione della controversia tra Galluppi e Rosmini, effettuata nelle lezioni
precedenti, rivolgendoci sia al loro carteggio, sia alle loro opere, e tenendo presente i nostri
ragionamenti incentrati sulla tesi della sostanziale equipollenza tra la filosofia galluppiana
dell’esperienza e la teoria rosminiana dell’essere ideale, possiamo, pertanto, affermare che la
disputa tra Galluppi e Rosmini è basata sostanzialmente su un equivoco di fondo, il quale è
all’origine della costante incomprensione reciproca da cui è segnato il loro confronto.
Ma vi è un senso in cui tale incomprensione è ancora più radicale e che attiene al comune
atteggiamento di Galluppi e Rosmini verso la problematica filosofica moderna in generale e verso
l’idealismo tedesco in particolare e che coinvolge, conseguentemente, anche il modo in cui Galluppi
e Rosmini furono intesi, o meglio “fraintesi”, da interpreti ed espositori del loro pensiero, sia nel
proprio tempo, sia successivamente, fino ad oggi. Non a caso, ad esempio, G. Di Napoli ne La
108
filosofia di P. Galluppi, definisce Galluppi «uno dei filosofi più deliberatamente fraintesi» , ma
tale giudizio può essere riferito altrettanto opportunamente anche a Rosmini.
Portare alla luce la radice dell’equivoco che si annida all’interno della polemica tra i nostri due
filosofi, costituisce la condicio sine qua non per intendere il significato che tale polemica assume
ben al di là del semplice contesto di reazioni critiche suscitate, nel dibattito filosofico italiano di
primo Ottocento, dalla diffusione delle dottrine di Rosmini, e ci consente, in ultima analisi, di
collocare il confronto tra Galluppi ed il Roveretano, come già detto nell’introduzione, nella fase
attuale – la “quarta fase” - degli studi rosminiani e di collegarlo, in generale, alle esigenze più vive
della filosofia contemporanea.
Per comprendere la ragione ultima del vicendevole fraintendimento tra Galluppi e Rosmini, occorre
infatti valutare bene l’accusa stessa di soggettivismo che entrambi muovono al pensiero moderno;
ognuno dei due rimprovera all’altro, come abbiamo visto, di essere incappato in quello che essi
ritengono - secondo un giudizio largamente condiviso nella cultura filosofica dell’Ottocento,
specialmente italiana - il vizio di fondo dell’intera filosofia moderna, appunto il soggettivismo o
psicologismo, iniziato con Cartesio e sfociato nell’immanentismo idealistico hegeliano.
Ma occorre tenere presente che, in realtà, la filosofia moderna, a seguito della graduale e
progressiva dissoluzione, a partire già dal ‘300 con l’occamismo, della tradizione aristotelico-
scolastica, era nata da un’esigenza propriamente fondazionale di rideterminazione di un nuovo
criterio universale del conoscere e dell’agire. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che nel periodo a
cavallo tra l’umanesimo rinascimentale ed il pre-illuminismo, il periodo compreso grossomodo tra

108
G. DI NAPOLI, La filosofia di P. Galluppi, Cedam, Padova 1947, p. XII.
il ‘400 ed il ‘600, l’indagine filosofica è decisamente orientata alla ricerca di un metodo nuovo nella
considerazione dei problemi filosofici, e delle connesse questioni scientifiche, politiche, storiche,
ecc., come traspare dai titoli stessi di alcune opere emblematiche del ‘600, dal Discorso sul metodo
di Cartesio al Novum Organum di Bacone, alla Scienza Nuova di Vico.
Si tratta di un periodo, nella storia della cultura occidentale, ancora fortemente contrassegnato dallo
“spirito di sistema” (non a caso, questo, uno degli obiettivi polemici dei philosophes illuministi), da
una istanza sì tendenzialmente anticontemplativa, ma pur sempre speculativa, che sposta il
baricentro della riflessione dalla realtà dell’essere alla realtà del pensiero e della capacità umana di
conoscere ed agire attivamente sul mondo, ma che nel trasferire il sistema di certezze dall’oggetto al
soggetto, ripropone una visione metafisica ed assoluta delle cose.
Ciò non vale solo per il razionalismo moderno dei vari Cartesio, Spinoza o Leibniz, ma anche per lo
stesso empirismo e per la stessa scienza moderna, la quale, con Copernico, Galileo, Keplero e
Newton, nonostante l’avversione al modello speculativo ed esplicativo di scienza proprio della
classicità, è pur sempre caratterizzato da quel realismo gnoseologico che, solo tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, con la crisi del paradigma meccanicistico-deterministico, si
avvierà al tramonto. Ma tale carattere realistico della scienza moderna dei secoli XVII e XVIII
riveste una indubbia valenza metafisica ed epistemica, in virtù della quale si tende ad attribuire alla
scienza sperimentale il potere se non di spiegare (si pensi alla nota affermazione newtoniana
“hypotheses non fingo”) quanto meno quello di descrivere il mondo così come esso realmente ed
oggettivamente è, sottraendo alla filosofia tradizionale la prerogativa di essere un sapere certo,
oggettivo ed incontrovertibile.
Lo stesso criticismo kantiano, che pure esprime il tentativo illuministico di ridimensionare le
pretese della metafisica tradizionale, costituisce, comunque, un ulteriore esempio di ricerca di una
dimensione irriducibilmente oggettiva all’interno dell’esperienza del soggetto, in grado di sfuggire
allo spettro dello scetticismo humiano, sebbene sia solo con Hegel che la ricerca di una oggettività
del soggettivo diventa metafisica del pensiero e si rivolge, non più, però, entro una prospettiva
illuministica, ad un sapere assoluto.
Di conseguenza, è possibile leggere la controversia tra Galluppi e Rosmini come una
contrapposizione che matura a partire da una medesima esigenza di oggettività radicata nello
svolgimento stesso del pensiero moderno. Entrambi i filosofi intendono ripensare la metafisica
tradizionale sulla base di una nuova filosofia della soggettività, ed entrambi sono persuasi del fatto
che per realizzare tale scopo, si debba risolvere il problema fondamentale della oggettività e realtà
della conoscenza per scongiurare i rischi scettici della filosofia del soggetto. Ma nessuno dei due è
pienamente consapevole del fatto che la soluzione di tale problema va prospettandosi, in qualche
modo, già lungo la via imboccata dallo “gnoseologismo” moderno.
Era stato lo stesso Hegel, infatti, a riaffermare il principio eleatico della unità tra pensiero ed essere
non solo contro il dualismo del pensiero pre-critico, ma contro lo stesso criticismo kantiano,
ponendo la necessità di assegnare al pensiero una valenza ontica proprio per innestare sulla teoria
della conoscenza il discorso sull’essere. Ma ognuno dei due pensatori italiani vede nella centralità
che l’altro attribuisce alla “coscienza”, una posizione potenzialmente soggettivistica perché
entrambi sono portati ad identificare tout court soggettivismo ed idealismo.
Essi, infatti, riprendono, consapevolmente, dall’idealismo l’affermazione del carattere costituente
della coscienza nella conoscenza oggettiva della realtà, esterna ed interna, il ruolo attivo, cioè, del
soggetto nel processo conoscitivo. Ma il principio tipicamente moderno della soggettività è
mutuato, sia da Galluppi che da Rosmini, stavolta in modo non del tutto consapevole, anche
attraverso la dottrina dell’intuìto dell’essere (analogamente a Gioberti); è solo infatti sulla base del
principio della soggettività moderna che risulta ammissibile la tesi della intuizione immediata e
diretta dell’essenza dell’essere da parte della coscienza, la quale, entro sé stessa, mediante la
propria testimonianza interiore, attinge un mondo di verità assoluto ed unitario, pur sussistendo tale
mondo, nella sua “inseità”, al di fuori della coscienza. Che allo spirito possa darsi direttamente
l’Ente è un’idea estranea alle teorie della conoscenza della classicità e del Medioevo (sebbene una
tesi del genere sia già presente in qualche modo in Agostino e nell’agostinismo), nelle quali, in una
forma o nell’altra, l’ “essenza” delle cose costituisce sempre una struttura esterna alla mente che
può trovare un riflesso adeguato solo grazie alla mediazione operata dall’intelletto, il quale vede
non già la realtà dell’essenza, bensì il rispecchiamento di tale realtà nel corrispondente concetto. E’
operando sui concetti e quindi dimostrativamente – dialetticamente per Platone, ad esempio, e
sillogisticamente per Aristotele - non già intuitivamente, che, per la filosofia antica, la mente può
cogliere l’Ente, il quale perciò si dà ad essa solo indirettamente, nella corrispondente nozione
universale.
Ma sia per Galluppi che per Rosmini è con un atto intuitivo, intenzionale, come abbiamo visto,
attraverso un dato di fatto primitivo, con la diretta esperienza interiore, che l’intelletto coglie
l’“essenza” e solo dopo attraverso il ragionamento dimostrativo. Ma è proprio la tesi della
originarietà del momento intuitivo rispetto a quello riflessivo del conoscere ad esibire la profonda
affinità dei due filosofi italiani con l’idealismo romantico tedesco o, il che è lo stesso, a mostrare la
componente realistica dell’idealismo romantico.
Su tale componente realistico-oggettivistica dell’idealismo, la quale impedisce di risolvere
l’idealismo nel soggettivismo, ha concentrato la propria attenzione, nel Novecento, G. Bontadini, il
quale ha mostrato come la possibilità di rifondare la metafisica classica dell’essere - lasciandosi alla
spalle la vecchia metafisica dogmatica (anche nella sua riproposizione neotomistica), ed evitando,
nel contempo, gli esiti immanentistici dell’idealismo, ma riaffermando anzi il trascendentismo
teistico cristiano - si configura proprio come una conseguenza dello sviluppo del pensiero moderno
e dello stesso idealismo immanentistico.
Quest’ultimo, infatti, culmine del soggettivismo moderno, contiene in sé l’antidoto contro il
soggettivismo stesso, e ne consente il capovolgimento. Bontadini, infatti, sostiene che il significato
essenziale dell’idealismo

è la semplice soppressione del presupposto dualistico o naturalistico o del naturalismo in quanto


presupposto; la negazione dell’alterità immediata (appunto, presupposta) dell’essere al pensiero. Questa
negazione è stata interpretata, così da certi idealisti come da certi critici dell’idealismo, quale risoluzione o
annullamento dell’essere, simpliciter, nel pensiero. Se si considera che l’annullamento è solo dell’alterità
dell’essere, e non dell’essere stesso, si scorgerà che questo, tolto via come altro dal pensiero, è riaffermato
come contenuto o termine intenzionale del pensiero stesso: e, cioè, validamente riaffermato 109.

E’ messo qui lucidamente in evidenza il carattere intrinsecamente oggettivistico dell’idealismo, il


quale, negando appunto la preesistenza della realtà, rispetto al soggetto pensante, come oggetto
cognito, come dato naturalistico contrapposto alla mente, non ha con ciò negato la realtà dell’essere
in quanto tale, nella sua assolutezza ed indipendenza dalla mente, perché lo ha riaffermato come
termine intuitivamente oggettivo del pensiero, riproponendo implicitamente il realismo ontologico
classico e cristiano contro la tendenza dominante della modernità da cui lo stesso idealismo è nato:

L’esito di quello gnoseologismo – prosegue ancora Bontadini - che era stato la caratteristica dominante
del periodo moderno – da Bacone a Cartesio sino all’altroieri, sino all’edizione novecentesca dell’idealismo
– è consistito essenzialmente in una autorettifica dei presupposti di partenza, che erano alla base della critica
della metafisica, e, perciò, in un autoscioglimento di quella critica 110.

Si potrebbe discutere della validità della interpretazione bontadiniana per quel che riguarda il
neoidealismo di Gentile, ma certamente tale interpretazione risulta pienamente valida se riferita a
Hegel, il cui idealismo intende superare il dualismo fenomenistico kantiano, solo parzialmente
oggettivistico, limitato, cioè, all’affermazione dell’oggettività del giudizio, per riproporre, pur dal

109
G. BONTADINI, La funzione metodologica dell’unità dell’esperienza, in M.F. SCIACCA, (a cura di), Filosofi italiani
contemporanei, Marzorati, Milano 1946, p. 168.
110
ID., La filosofia dal ’45 ad oggi, V. VERRA, (a cura di), ERI, Torino 1976, p. 453.
punto di vista di una filosofia del soggetto, l’oggettività dell’essere. Anzi ciò viene in chiaro proprio
se rapportiamo l’hegelismo con il successivo idealismo italiano del Novecento.
Per Hegel, infatti, a differenza che per il neoidealismo, lo Spirito è essenza immutabile e
permanente e non puro divenire storico. Ne è una conferma, tra l’altro, l’atteggiamento critico del
neoidealismo crociano e gentiliano nei confronti dell’idealismo hegeliano ancora compromesso,
secondo Croce e Gentile, con una filosofia dell’Essere che ripropone, oggettivisticamente, sia pur
solo all’interno della coscienza, la trascendenza della cosa in sé rispetto alla coscienza, dell’essere
rispetto al pensiero:

L’idealismo di Croce e di Gentile – scrive E. Severino – si oppone a buona parte dell’idealismo classico
tedesco […] appunto perché l’idealismo classico, pur affermando che la realtà dipende dalla coscienza, non
identifica la realtà al contenuto attuale della coscienza, non intende la realtà come contemporanea allo
spirito cosciente […] In altri termini, il neoidealismo italiano non solo perviene alla negazione di ogni cosa
in sé, che si costituisca come immutabile al di là del divenire della coscienza, ma anche alla negazione di
111
ogni struttura che, all’interno della coscienza, pretenda porsi come immutabile .

Scrive poi E. Garin, che nel Novecento,

se di idealismo si parlerà ancora molto, sarà sotto forma di ‘storicismo assoluto’, o di ‘attualismo’ come in
Gentile, che verrà esasperando l’affermazione del puro farsi spirituale, dell’‘atto puro’ […] In altri termini
l’idealismo che rinasce nel Novecento è un idealismo di tipo nuovo: aperto e costruttore, filosofia della prassi
e della libertà, non contemplazione del mondo e del sapere 112.

Fa notare, inoltre, A. Guerra, a proposito del giudizio di Croce verso Kant, che il filosofo italiano

non esita a concludere che nella sua avversione al sistema, “cioè all’imago mundi o all’enciclopedia”, Kant
fu più moderno e più storicista di Hegel 113.

E’ proprio in virtù della permanenza, in Hegel, di un punto di vista ancora sostanzialmente


oggettivistico, inviso ai neoidealisti posteriori, i quali annulleranno davvero l’essere nell’atto del
pensare, che possiamo affermare che la interpretazione di Bontadini se risulta, a nostro avviso, non

111
E. SEVERINO, La filosofia dai Greci al nostro tempo, 3 voll., IV ed., BUR, Milano 2006, vol. III, pp. 201-203.
112
E. GARIN, op. cit., pp. 75-76.
113
A. GUERRA, Kant in Italia, in ID., Introduzione a Kant, Laterza, Roma-Bari 1998, in A. MASSARENTI (a cura di), I
grandi filosofi, 25 voll., Ed.spec. per il Sole 24 ORE, Milano 2006, vol. 17, p. 357.
completamente appropriata nei riguardi del neoidealismo italiano, viceversa non fa una piega se
riferita all’idealismo ottocentesco post-kantiano. Da questo punto di vista, l’aspetto più notevole
della riflessione di Bontadini sull’idealismo sta nell’aver individuato proprio nell’«esperienza
pura», in senso fenomenologico, il ponte tra l’idealismo e la metafisica tradizionale; è l’esperienza
come presenza, di contro alla esperienza intesa come ricezione o come costruzione, il risultato
dell’«autorettifica» operata dall’idealismo. Scrive in proposito Bontadini:

L’essere, che è, così, validamente, correttamente affermato, è, semplicemente, l’essere dell’esperienza,


114
ossia, appunto, l’essere immediatamente conosciuto ,

la cui nozione corrisponde proprio, come abbiamo visto, al concetto non empiristico di
“esperienza”, sia galluppiano che rosminiano.
La chiave di lettura di Bontadini si rivela, infatti, assai feconda per una comprensione più
approfondita dei rapporti tra Galluppi e Rosmini. Quest’ultimi intendono coniugare il principio
moderno di autocoscienza con quello classico dell’unità tra pensiero ed essere per evitare il
soggettivismo, ma è, questo, l’intento stesso di Hegel, per il quale pure il pensiero sussiste solo in
quanto pensiero dell’essere, e la ragione non può essere formalisticamente ridotta ad una pura
attività astratta opposta alla natura ed alla storia, ma è da intendersi come il rivelarsi stesso
dell’essere; ciò è evidente non solo dalla contrapposizione di Hegel a Kant ma anche dalla sua
polemica verso gli stessi Fichte e Schelling da lui rimproverati di aver concepito un «cattivo
infinito» quale vuota idealità soggettiva non autenticamente aderente alla realtà oggettiva e quindi
impotente a garantire la certezza di un sistema scientifico della Verità..
E’ possibile, insomma, intravedere un legame fondamentale tra Galluppi e Rosmini da una parte e
l’idealismo romantico, segnatamente hegeliano, dall’altra, ma in un senso molto diverso da quello
elucidato da Spaventa e Gentile, e che si evince proprio rispetto all’atteggiamento oggettivistico,
comune sia al romanticismo idealistico che spiritualistico.
Il realismo oggettivistico non naturalistico dei due italiani può considerarsi, infatti, non già una
versione difettosa dell’idealismo tedesco, ma la variante, appunto, realistica (ed il non aver
compreso questo è il grande abbaglio della interpretazione spaventiano-gentiliana) di una medesima
cultura filosofica, quella romantica che, o in questa forma o in quella idealistica, ha concepito il
finito come la rivelazione dell’Infinito, ed ha inteso riunificare ideale e reale, razionale ed empirico,
mondo soprasensibile e mondo sensibile, superando il dualismo e l’intellettualismo generati dalla
filosofia moderna da Cartesio a Kant.

114
G. BONTADINI, La funzione metodologica dell’unità dell’esperienza, cit., p.168.
Sia Galluppi che Rosmini non si accorgono di tale elemento anti-soggettivistico dell’idealismo
tedesco post-kantiano, poiché anch’essi, come gli esponenti dell’idealismo e neoidealismo italiano,
concepiscono, sia pur da un punto di vista diametralmente opposto, il criticismo come preparazione
dell’idealismo post-kantiano, non vedendo la profonda differenza esistente tra l’idealismo kantiano,
puramente “epistemologico” e quello hegeliano, essenzialmente “ontologico” .
La presunta “incompatibilità” tra le filosofie di Galluppi e Rosmini subisce, in virtù di tale discorso,
un significativo ridimensionamento che ci deve indurre a riportare i nostri due filosofi a quella
comune sensibilità romantica che non solo è il collante tra le loro rispettive dottrine, ma è anche ciò
che li ricollega all’idealismo tedesco post-kantiano con il quale condividono l’opposizione ad ogni
forma di meccanicismo, naturalismo, formalismo, fenomenismo o dualismo, tutti portati della
cultura filosofica illuministica dal cui astrattismo intellettualistico sia l’idealismo romantico sia i
nostri pensatori italiani del Risorgimento intendono prendere le distanze.
Perciò le filosofie di Galluppi e Rosmini sono forme diverse di quel realismo oggettivistico che è, a
sua volta, una delle due forme, accanto all’idealismo oggettivistico, della filosofia romantica, che è
una filosofia dell’Infinito, una filosofia dell’Assoluto. Che l’Ideale si riveli e si mostri, in modo più
o meno adeguato, nel reale, naturale e storico, che l’Essere abbia, per usare le parole stessa di
Romsini nella Teosofia, un «modo di esistenza che rende possibile la comunicazione di sé ad una
115
mente» , e si mostri al pensiero umano in modo da poter essere partecipato da esso, tale è il
contenuto filosofico del Romanticismo; l’idea dell’essere, lo ricordiamo, è per Rosmini il “divino
116
nella natura”, tant’è che egli definisce l’essere ideale «un crepuscolo del Verbo Divino» e,
ancora, «un raggio della divinità, che penetra nel creato» 117.
Appunto, la tesi secondo la quale il Valore è presente nella storicità, pur non risolvendosi in essa ed
eccedendo rispetto ad essa, è il vero comun denominatore tra Galluppi e Rosmini che non può
essere adeguatamente evidenziato se non ricorrendo, nell’esame dei rapporti tra i due nostri
pensatori, ad un tipo di approccio che li ricontestualizzi e li restituisca alla loro comune temperie
storico-culturale.

115
T 1585.
116
Cfr. NS, Pref. 13.
117
A. ROSMINI, Del divino nella natura (= Ediz. Crit. vol. 20), a cura di P.P. OTTONELLO, Città Nuova, Roma 1991, 15.
Anche l’attenzione, tutt’altro che marginale, da parte di Galluppi e Rosmini, alla storia nella ricerca filosofica, può
essere letta come un’ulteriore manifestazione del rinnovato interesse per la “tradizione” tipico della cultura romantica;
si veda, in proposito, L. MALUSA, Galluppi e Rosmini: la storia della filosofia come necessario “complemento”, in G.
SANTINELLO, G. PIAIA (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, 4, L’età hegeliana, II, Editrice Antenore,
Roma-Padova 2004, pp. 275-386. Sul medesimo tema cfr. pure G. BONAFEDE, Note sul pensiero di Galluppi, cit., pp. 5-
10, 52 e G. TORTORA, op. cit., pp.13-28.
Solo che, qui il passaggio centrale, se l’oggettivismo idealistico hegeliano intende l’unità tra
pensiero ed essere come identità sostanziale, assoluta e definitiva e traduce, di conseguenza, la
filosofia dell’immanenza in immanentismo, conducendo, così, l’infinitizzazione della storia ad un
esito dogmatico, l’oggettivismo realistico italiano riafferma la trascendenza dell’essere rispetto al
pensiero e schiva la metafisica del pensiero ovvero l’oggettività del soggettivo; ma, il punto
importante, nel contesto del presente ragionamento, è che – e qui facciamo nostra la acutissima
interpretazione di Bontadini - la trascendenza è riguadagnata, inconsapevolmente, sia da Galluppi
che da Rosmini, proprio sulla base di una filosofia dell’immanenza, ovvero sulla base
dell’atteggiamento filosofico tipicamente idealistico.
Il «sentimento del Me che sente un fuori di Me» di Galluppi, l’ «l’intuito dell’Essere ideale» di
Rosmini (e la «formola ideale» di Gioberti), intendono configurare, in un modo o nell’altro, la
possibilità di un’esperienza originaria immediatamente rivelatrice dell’Essere assoluto (in una
qualsiasi delle sue forme, anche solo in quella ideale come in Rosmini) ma, proprio per questo,
intrinsecamente rivolta alla Trascendenza.
E’ l’idea di esperienza come presenza, di cui parla appunto Bontadini, contrapposta ad un’idea di
esperienza come “ricezione” (presupposta sia dall’empirismo che dal razionalismo) o come
“costruzione” (criticismo kantiano) e base del modello intuizionistico ed interioristico di
conoscenza a costituire il fondamento della profonda unità tra pensiero galluppiano e pensiero
rosminiano, ma si tratta di una unità che lega Galluppi e Rosmini innanzitutto all’idealismo post-
kantiano, del quale essi, proprio mediante il concetto di “intenzionalità”, riescono originalmente ad
operare quella “correzione” che evita la immanentizzazione radicale propria di una metafisica della
mente. Ognuno dei due pensatori non si rende conto, però, che l’altro ha sviluppato, in forma
diversa ma complementare, la componente oggettivistica dell’idealismo, oltrepassando
originalmente lo stesso idealismo.
Il senso autentico di tale oltrepassamento va però rintracciato non solo nella dimensione
prettamente filosofica, ma anche in quella teologica e religiosa. Infatti, se sul piano strettamente
filosofico, una metafisica dell’immanenza, pur collocando la Verità all’interno del divenire del
mondo, è pur sempre oggettivistica tanto quanto una metafisica della trascendenza, viceversa, sul
piano teologico, l’oggettivismo idealistico non può che corrispondere, nella sua trascrizione
religiosa, ad una visione panteistica del mondo, per cui se è vero che una metafisica
dell’immanenza è ancora una filosofia dell’Essere, è altrettanto vero che essa richiede un’ulteriore
integrazione teoretica se vuole rendersi disponibile ad un accordo con il teismo della Rivelazione
cristiana.
In questo senso, con il realismo della triade italiana ma anche in Francia, va ricordato, con il
parallelo ed analogo movimento dell’Eclettismo, ha luogo una significativa innovazione dello
spirito romantico sul cui tronco va innestandosi il trascendentismo cristiano. Il Romanticismo
filosofico si arricchisce così di una nuova opzione filosofica, quella del tradizionalismo
spiritualistico, pur sempre radicata, però, nello stesso principio di fondo dell’idealismo
immanentistico, e cioè nel principio della unità tra spirito ed Ente, tra finito ed Infinito ed
ugualmente caratterizzata da una esigenza di sintesi e di sistematicità, assente nel futuro
spiritualismo novecentesco che pure, per molti aspetti, si collocherà sulla linea del tradizionalismo
romantico. In tale ordine di ragionamenti, l’immanenza contiene, costitutivamente, quella spinta
all’assolutamente trascendente che consente di riaffermare, contro l’Illuminismo, l’unità tra Valori e
storicità anche sul piano della tradizione teologica oltreché su quello della tradizione filosofica.
Occorre qui però rilevare che proprio in riferimento al diverso modo di riaffermare teologicamente
il principio dell’unità tra Valore e storia, va emergendo il vero discrimine tra pensiero galluppiano e
rosminiano, che, appunto, non è filosofico bensì essenzialmente teologico. Rosmini non può
accettare la funzione fondativa che Galluppi assegna al “sentimento” anche per un motivo legato al
problema dell’accordo tra ragione e fede. Infatti, è indubbio che facendo del “sentito” e non del
“pensato” l’oggetto intuìto dalla coscienza, si può sì costruire una filosofia che non sia in contrasto
con la religione cristiana – e tale è, infatti, la filosofia di Galluppi – ma più difficilmente si può
costruire una filosofia capace di mostrare la propria continuità sistematica e teoretica con la teologia
cristiana, risultato raggiungibile più con la nozione rosminiana di “essere ideale” che non con quella
galluppiana di “esperienza”.
Quest’ultima implica, è vero, la possibilità di attingere l’essenza dell’essere, ma demandando, per
un puro atto di fede, il passaggio dalla datità oggettiva dell’essenza alla Realtà Sussistente di essa,
cioè Dio; viceversa, se l’oggetto intuìto è il “pensato”, quest’ultimo, in quanto aspetto ideale
dell’Essere Supremo, consente di mettere in relazione in maniera intrinseca immanenza e
trascendenza e, quindi, anche filosofia e teologia. Non a caso, diversamente da Galluppi - il quale
pur affermando con forza che la ragione filosofica si invera e si compie nel discorso teologico, non
è interessato a mostrare il come di tale inveramento - Rosmini è fortemente interessato ad istituire
una ricerca che abbracci l’intero scibile umano e l’intera realtà dell’Essere, portando alla luce i
punti di intersezione delle diverse forme di esso, cosa che egli farà, in particolare, con la sua legge
del sintesismo e, in generale, con il suo progetto teosofico.
La posizione di Galluppi, scrive in proposito Tortora,
è ben diversa da quella di un Rosmini, che tenta di “cristianizzare il pensiero moderno” […] Per Galluppi
rimane – e deve rimanere – uno spazio proprio della ricerca filosofica, di una ricerca condotta con i mezzi
propri della ragione ed eseguita in piena autonomia metodologica, anche se poi – egli ne è convinto –
118
l’autentica verità speculativa non può non essere in consonanza con la verità religiosa .

E’ interessante, a questo proposito, menzionare una lettera di Rosmini a Don P. Bertetti del 14
Marzo 1852, in cui, nell’esprimere meraviglia che i testi di Galluppi riscuotano tanto successo
presso gli ambienti ecclesiastici, il Roveretano scrive:

Non so poi come in Roma si possa tenere il Galluppi come un filosofo di sana dottrina, quando egli col suo
soggettivismo mette l’uomo invece di Dio per fondamento della verità 119.

Che l’atteggiamento dei due filosofi riguardo ai rapporti tra ragione e fede fosse da sempre
differente, era già desumibile dalla missiva di Galluppi a Rosmini del 9 Agosto 1828 in risposta a
quella inviatagli da Rosmini l’11 Novembre 1827, a proposito del problema dell’origine del male;
abbiamo già considerato entrambe le lettere nella nostra prima lezione, ma analizzandole sotto altri
aspetti. Può essere utile, in tal senso, richiamarle proprio per quel che attiene al tema del rapporto
tra ragione e fede, che, sebbene in queste lettere non sia sviluppato dai due interlocutori in maniera
particolarmente approfondita, è comunque affrontato in modo tale da risultare indicativo della loro
diversa posizione in merito.
Come si ricorderà, nella lettera dell’11 novembre 1827, Rosmini aveva chiesto a Galluppi un parere
sui contenuti degli Opuscoli Filosofici, con l’intento di ricevere lumi soprattutto in merito al primo
dei saggi inclusi nel primo tomo degli Opuscoli, che affrontava problemi di gnoseologia, ma, prima
che Rosmini sollecitasse nuovamente il Tropeano ad una discussione sui temi teoretici, Galluppi,
nella risposta alla lettera succitata, datata 9 agosto 1828, piuttosto che discutere del primo saggio,
aveva espresso alcune considerazioni sul secondo dei saggi contenuti nel primo tomo degli
opuscoli, intitolato Sulle leggi secondo le quali sono distribuiti i beni e i mali temporali, cioè
proprio su un argomento di natura etico-teologica. A questo proposito Galluppi aveva scritto:

Ella tratta nel secondo Saggio la spinosa questione dell’origine del male […] Spesso ho proposto a me
stesso questo problema: l’uomo attuale può egli, con un potere cui nulla manchi per l’atto, colle sole forze
naturali, adempiere la legge della sua natura ? I filosofi, quasi generalmente, rispondono affermativamente

118
G. TORTORA, op. cit., p. 15.
119
A. ROSMINI, Epist. fil., cit., p. 617.
alla questione proposta […] Le è noto quanto si è su questo oggetto disputato e scritto: io trovo il nodo
120
indissolubile, ed attendo per iscioglierlo, che colla grazia del Redentore si cangi in visione la mia fede .

Tale titubanza nel considerare filosoficamente una questione che Galluppi ritiene fondamentalmente
teologica, riaffiora in un’altra lettera del Tropeano a Rosmini, anch’essa già da noi menzionata ma
relativamente ad altri aspetti, quella del 9 febbraio 1830, in cui la posizione galluppiana in materia
di rapporti tra filosofia e religione, si presenta ancora più esplicitamente. In questa missiva,
Galluppi, rispondendo a Rosmini, il quale nella lettera datata 9 gennaio 1830 aveva sostenuto la
propria tesi dell’essere ideale anche richiamandosi all’autorità patristica, segnatamente di S.
Bonaventura, scrive:

All’autorità di S. Bonaventura poteva Ella unire quella di S. Agostino e di altri Padri Cristiani: ma l’autorità
di questi sempre rispettabili personaggi qual valore può ella avere in una questione meramente filosofica?121.

Galluppi si era già occupato della problematica teologica in alcune sue opere come il Saggio
Filosofico e gli Elementi di Filosofia – dove, anzi, ad esempio, troviamo affermazioni del tipo «il
122
Vangelo e la Chiesa di Gesù Cristo sono il fondamento e la colonna della verità» e tornerà ad
occuparsene in seguito anche nelle Lezioni di Logica e Metafisica, e in altri scritti più tardi, il che
mostra come egli, man mano che andava sviluppando ed ampliando il suo pensiero, abbia avvertito
il bisogno di dare un sempre maggiore consolidamento sistematico al rapporto tra ragione e fede,
rapporto che, però, fu dal Tropeano sempre riconosciuto, sin dai tempi dello scritto giovanile
Memoria apologetica, del 1795, opera di carattere essenzialmente etico-religioso, come rapporto di
armonia e di inseparabilità, pur nella reciproca autonomia dei due termini.
Ecco perché, da quanto appena detto, non è lecito concludere, come ad esempio fa Gentile, che

il concetto galluppiano della filosofia è intellettualistico […] il concetto per contro, a cui giustamente mira il
Rosmini, è piuttosto volontaristico, perché solleva la filosofia al suo peculiare carattere di scienza universale
123
che investe tutta la vita e governa quindi l’azione ,

120
P. GALLUPPI, Lett. all’Abate A. Rosmini, cit., 381.
121
Ivi, p. 384.
122
P. GALLUPPI, Elementi di Filosofia, cit., vol. 2, Teologia naturale, Capo VI, p. 493.
123
G. GENTILE, Introduzione ad A. ROSMINI, Introduzione alla filosofia, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925, pp. X-
XI.
poiché, infatti, la differenza tra i due non riguarda tanto il concetto di filosofia, quanto il diverso
modo di concepire e realizzare l’accordo, da entrambi ammesso, tra filosofia e teologia.
Ma soprattutto, ed è ciò che più conta in questa sede, entrambi intendono la relazione tra
immanenza e trascendenza secondo quella complessa coesistenza tra due piani ontologici descritta
da Bontadini, per la quale dall’esperienza dell’assoluto come presenza o manifestazione alla
coscienza, si passa, per un intrinseco sviluppo, all’idea di assoluto come realtà eccedente rispetto
alla coscienza, come trascendenza della ragione: «L’idea dell’assoluto – scrive sempre Bontadini –
in quanto è presente, appartiene all’esperienza; ma in quanto essa è fornita di una intenzionalità che
va oltre la presenza (ciò è voluto, come abbiamo visto, dal suo stesso significato) si distingue
appunto contro l’esperienza» 124.
E’ l’intenzionalità stessa della coscienza, insomma, che, mentre, da un lato, dispone l’Essere ad
entrare in comunicazione con il pensiero, richiede, dall’altro lato, proprio in virtù di tale apparire o
disvelarsi dell’essenza dell’Essere, il trascendimento metaempirico della stessa coscienza verso la
Sussistenza Assoluta dell’Essere; ma nel passaggio dalla esperienza primitiva ed intuitiva
dell’Essere alla “ragione” come apprensione della Realtà Assoluta dell’ Essere o Dio, i poteri
naturali dell’uomo esigono il soccorso soprannaturale ed il discorso ontologico si fa discorso onto-
teologico. La intenzionalità trascendente, insita in quella immanente, consente così al realismo
oggettivistico ed intuizionistico di sposarsi con lo spiritualismo cattolico.

124
G. BONTADINI, La funzione metodologica…, cit., p. 618.
Osservazioni conclusive.

Lo studio comparativo su Galluppi e Rosmini che è stato oggetto del nostro videocorso, ha inteso,
dunque, richiamare l’attenzione degli studiosi sulla necessità di ricontestualizzare il confronto tra i
due illustri filosofi, riportandolo entro il complesso tessuto di interrelazioni culturali e filosofiche
proprio dell’epoca romantica.
Ciò vuol dire, innanzitutto, liberarsi dell’interpretazione idealistica che, a partire già dalla seconda
metà dell’Ottocento, fino almeno alla prima metà del Novecento, ha ostacolato una corretta analisi
del rapporto tra galluppismo e rosminianesimo; con la nota tesi spaventiana, cui abbiamo accennato
nella introduzione, della “circolazione del pensiero italiano”, ha preso piede una lettura rigidamente
storicistica dello svolgimento del pensiero italiano da Galluppi a Gioberti, che ha sì, giustamente,
considerato lo sviluppo del realismo italiano unitariamente con lo sviluppo dell’idealismo tedesco,
ma ha finito, tuttavia, per risolvere ed annullare il primo nel secondo. Da Spaventa Galluppi è
definito «kantista quasi senza saperlo, quasi suo malgrado, per una forza superiore alla sua volontà»
e Rosmini ugualmente «kantista. Egli si crede più kantiano di Kant […] e il Rosmini è Kant non
solo nei pregi, ma anche nei difetti» 125.
L’interpretazione di Spaventa, ripresa successivamente da Gentile, era stata già difesa, alla fine
dell’Ottocento, da un altro illustre pensatore calabrese, esponente della corrente neokantista, il già
citato Fiorentino, del quale non si può non ricordare la nota polemica, oggetto di diversi studi nel
Novecento anche perché caratterizzata da asprezza di toni, con F. Acri, suo corregionale – altro
filosofo di rilievo dell’Ottocento meridionale, uno dei primi volgarizzatori di Platone in Italia -
proprio sulla tesi del presunto “idealismo” di Galluppi e Rosmini, tesi fortemente contestata da
Acri. Quest’ultimo, infatti, sosteneva con forza contro Fiorentino e Spaventa che, nonostante alcune
indubbie differenze tra la teoria di Galluppi e quella di Rosmini in merito al rapporto tra idea e
realtà, si potesse comunque parlare a proposito di entrambi, di una medesima visione realistico-
spiritualistica dell’essere, tendenzialmente alternativa alla cultura filosofica moderna e radicata
nella mentalità filosofica oggettivistica tipicamente italiana, anche se quest’ultimo rilievo di Acri,
riguardante la qualificazione “nazionale” attribuita alla tradizione filosofica realistica, va accolto
con cautela, come diremo tra poco.
A Fiorentino che, a proposito, ad esempio, di Galluppi, (ma i giudizi sul Tropeano vengono estesi
da Fiorentino anche a Rosmini, in difesa delle tesi interpretative di Spaventa), aveva affermato che
il concetto galluppiano di esperienza è «l’indizio manifesto della influenza kantiana», e che «può il

125
B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari
1908, p. 144, 161.
Galluppi disconoscere o sconfessare la parentela della sua filosofia col criticismo», ma «chi non
126
suole fermarsi alla buccia, crederà più al fatto che alla dichiarazione dell’autore» , Acri aveva
risposto con determinazione che «il giudizio che Galluppi sia kantiano […] non va, tranne in questo
senso: che Kant era maschio e l’altro non era femmina, l’uno era filosofo e l’altro s’occupò di
filosofia, l’uno appartiene all’età moderna, l’altro non a quella del bronzo e della pietra» e che «il
Galluppi differisce da Kant e nel tipo e nelle note particolari» 127.
Ma l’interpretazione storico-culturale che noi proponiamo, intende altresì svincolarsi anche dalla
lettura anti-idealistica del rapporto tra Galluppi e Rosmini; se, infatti, quella idealistica finisce per
unire troppo idealismo tedesco e tradizionalismo spiritualistico italiano, l’interpretazione anti-
idealistica li separa eccessivamente, non vedendo che è proprio il comune sfondo romantico a
legare l’idealismo tedesco post-kantiano ed il realismo spiritualistico italiano, ed a costituire, di
conseguenza, anche l’elemento di continuità tra Galluppi e Rosmini. Entro tale prospettiva
stroriografica di rigida contrapposizione all’idealismo, si assiste ad una enfatizzazione dei punti di
divergenza tra i due autori, quasi che Galluppi e Rosmini abbiano percorso cammini completamente
diversi o che quanto di simile c’è tra i due consista esclusivamente nel fatto che il primo ha tentato
un’impresa – quella del superamento dello gnoseologismo moderno – che solo il secondo è riuscito
a portare a termine.
In questo senso, è sintomatica la posizione di Sciacca, il quale, pur riconoscendo correttamente a
Galluppi di aver compiuto, in Italia, il primo passo verso il superamento dell’empirismo e
dell’utilitarismo propri della mentalità illuministica, non coglie però il vero elemento in base al
quale il Calabrese opera tale superamento, che non è tanto, o non è solo, come pensa Sciacca,
l’affermazione dell’a priori e del giudizio nella conoscenza – il che sarebbe in netto contrasto con la
dottrina di Galluppi che ha sempre assegnato all’a priori una valenza gnoseologica e perciò solo

126
F. FIORENTINO, Manuale di storia della filosofia, in G. TORTORA, op. cit., p. 35. Si veda, inoltre, F. FIORENTINO, La
filosofia contemporanea in Italia, D. Morano, Napoli 1876.
127
F. ACRI, Critica di alcune critiche di Spaventa, Fiorentino e Imbriani su i nostri filosofi moderni, Soc. tip. dei
Compositori, Bologna 1875, e ID., Dialettica turbata e serena (1911-1917), in G. TORTORA, op. cit., p. 37. Cfr. anche F.
ACRI, Videmus in Aenigmate, Mareggiani, Bologna 1907, in cui l’Autore, immaginando di dialogare con un
Rosminiano, fa emergere alcune differenze tra la teoria di Galluppi e quella di Rosmini in merito al rapporto tra idea e
realtà ma all’interno di una medesima visione realistico-spiritualistica dell’essere. Di Gentile, cfr. G. GENTILE, Storia
della filosofia Italiana dal Genovesi al Galluppi, cit., cap. XV e ID., Rosmini e Gioberti, cit. Sulle complesse relazioni
tra pensiero italiano in generale e pensiero tedesco nella prima metà dell’Ottocento, con particolare riferimento alla
ricezione kantiana in Italia, cfr. l’aggiornato testo di M. Krienke, dal titolo Rosmini e la filosofia tedesca, in M.
KRIENKE (a cura di), Sulla ragione. Rosmini e la filosofia tedesca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 31-108,
contenente una ricca rassegna bibliografica in merito. Sulla presenza di Kant in Italia, si veda anche A. GUERRA, op.
cit., pp. 345-360; per il dibattito sul supposto kantismo di Galluppi si veda G. TORTORA, op. cit., pp. 34-40.
ideale e, quindi, ancora soggettiva – quanto un rinnovato concetto di “esperienza”, come s’è visto, il
cui carattere meta-empirico non sta solo nella presenza, all’interno dell’esperienza stessa, di
strutture non ricavabili dal mondo sensibile, ma anche, e soprattutto, nella dimensione intuitiva ed
intenzionale di essa. Come è evidente soprattutto dall’opera La filosofia morale di A. Rosmini, a cui
ci riferiamo, in definitiva Sciacca individua il valore innovativo della filosofia galluppiana,
specialmente quella teoretica, esclusivamente nella sua pars destruens, ovvero nella reazione al
sensismo, avviata da Galluppi ma portata a compimento in modo propositivo, attraverso la
maturazione di un apriorismo ontologico, solo da Rosmini e Gioberti 128.
129
Sciacca, qui, non esita a fare propria una delle obiezioni di Gentile a Galluppi , quella volta a
mostrare che in Galluppi vi sarebbe un’insuperabile contraddizione tra un realismo dogmatico in
gnoseologia ed un idealismo criticistico in epistemologia, contraddizione che, in realtà, sparisce non
appena si ponga mente alla duplice nozione di oggettività che importa, come più volte abbiamo
detto, la distinzione tra oggetto “cògnito” ed oggetto “intuìto”, quindi tra il piano del conoscere
(dove la realtà dell’oggetto cògnito dipende dal pensiero e dove, perciò, il trascendentale kantiano
rimane valido per Galluppi) e quello dell’essere (dove, al contrario, il pensiero dipende dalla realtà
dell’oggetto intuìto e il trascendentalismo si dimostra insufficiente).
Il fraintendimento sciacchiano del pensiero di Galluppi è tanto più paradossale in quanto Sciacca,
per salvare Rosmini dall’interpretazione idealistica, applica proprio tale interpretazione a Galluppi
affermando che

il Rosmini non si muove sulla stessa linea del Galluppi e del Kant, in quanto l’esigenza più vera del suo
pensiero non è quella gnoseologica, ma quella metafisica e la prima sempre condizionata da questa 130.

In realtà, lo stiamo toccando con mano, Galluppi stesso è vittima della interpretazione di Spaventa,
perché anche per lui l’esigenza principale è quella metafisica e non gnoseologica. Di tono simile a
131
quello di Sciacca è il commento di G. Pusineri in merito , mentre di segno opposto il rilievo di
Bonafede, il quale scrive, giustamente, che la successione cronologica tra Galluppi, Rosmini e
Gioberti

128
Cfr. M.F. SCIACCA, op. cit. p. 41-49.
129
Cfr. G. GENTILE, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 62-67.
130
M.F. SCIACCA, op. cit. p. 57, 60.
131
Cfr. G. PUSINERI, op. cit., pp. 104-108.
non la si può prendere alla lettera rispetto alla formazione del loro pensiero, né indica, idealmente, un
ascendere del loro pensiero, come se questo avesse il suo inizio in Galluppi, una più piena consapevolezza in
Rosmini, la fioritura in Gioberti 132.

Ci sembrano particolarmente incisive, in questo senso, le seguenti parole di Lo Cane, il quale è


certamente tra i pochi studiosi ad aver colto la profonda assonanza del pensiero di Galluppi con
quello rosminiano proprio rispetto al concetto, tanto caro a Rosmini, di circuminsessione tra idealità
e realtà o tra pensiero ed essere. Così Lo Cane:

Il termine insessione manca nel Galluppi, ma non vi manca il concetto. Trovasi infatti il verbo inerire di
analogo significato […] L’identità tra le due distinte forme di esistenza dell’io, la reale, cioè l’io in quanto
principio della conoscenza e l’ideale, cioè l’io in quanto conosciuto, non può che comportare una loro
relazione d’insessione reciproca. Quanto rilevato sopra circa i rapporti di reciproca immanenza tra i termini
della percezione, cioè tra idea del me e realtà del me, autorizza a ritenere che nella galluppiana filosofia
dell’esperienza sia individuabile una sostanziale convergenza con la tradizione di pensiero platonico-
agostiniana, la quale, passando per Campanella, raggiunge Rosmini, dopo aver coinvolto in maniera
originale lo stesso filosofo di Tropea […] In conclusione non è priva di fondamento l’affermazione che nel
filosofo tropeano siano presenti degli elementi, per così dire, preintegrativi della filosofia del Roveretano,
impliciti nella sua stessa filosofia dell’esperienza, a partire dall’ammissione di un intuito originario, non
133
limitato però come nel Rosmini all’idea, ma esteso alla realtà stessa dell’io .

Il rilievo di Lo Cane si ricollega a quanto abbiamo detto in precedenza: per Rosmini l’oggetto
intuìto è il pensato, per Galluppi è il sentito, ma per entrambi, questo il passaggio centrale, l’oggetto
intuìto precede, logicamente, cronologicamente ed ontologicamente, la costruzione dell’oggetto
cognito da parte del soggetto conoscente e solo a condizione che l’oggetto intuìto si dìa al soggetto,
quest’ultimo può sussistere ed operare. L’oggetto cognito ruota, come vuole il copernicanesimo
filosofico kantiano, intorno al soggetto, ma il soggetto, come vuole la filosofia classico-cristiana,
ruota a sua volta, intorno all’oggetto intuìto, immanente dal lato del soggetto intuente, e al tempo
stesso trascendente dal lato della propria “in-seità”.
Attraverso, dunque, due sistemi non uguali ma equivalenti, i nostri due filosofi italiani hanno
raggiunto lo stesso scopo: porre mano alla inversione assiologica attuata dal pensiero moderno,
riportando, nella gerarchia dei valori, l’ordine dell’essere al di sopra dell’ordine del conoscere, ma
riconoscendo piena legittimità a quest’ultimo nei limiti che gli sono propri, e cioè quelli del

132
G. BONAFEDE, Note sul pensiero di Galluppi, cit., p. 32.
133
G. LO CANE, Introduzione a P. GALLUPPI, Elementi di Filosofia, cit., pp. XXXVIII-XLII.
conoscere oggettivo, della scienza, limiti che vanno tenuti distinti dalla oggettività della
conoscenza, cioè dalla certezza della scienza, affidata al primo dei due ordini.
Rileggere, pertanto, la controversia tra Galluppi e Rosmini alla luce di un paradigma di tipo storico-
culturale ma non storicistico, significa, innanzitutto, uscire da una visione monocorde ed unilaterale
di tale controversia quale finisce per essere sia la lettura idealistica, che ne ha esasperato la
dimensione diacronica, sia quella pregiudizialmente anti-idealistica che, dal canto suo, ne ha
dimenticato la imprescindibile dimensione sincronica, che importa la comprensione del comune
orizzonte filosofico-culturale entro il quale quella controversia si sviluppa.
Ecco perché il superamento di tale duplice punto di vista interpretativo, idealistico ed anti-
idealistico, ci consente, come abbiamo detto nella introduzione, di guardare alla polemica tra
Galluppi e Rosmini non semplicemente come ad un capitolo della controversistica di primo
Ottocento sulla ricezione kantiana italiana in generale e rosminiana in particolare, ma come ad un
confronto il cui significato e la cui attualità si stagliano entro l’orizzonte stesso del pensiero
contemporaneo, e permettono di ricollocare tale polemica, per quel che attiene, in particolare, agli
studi rosminiani, dalla “prima” alla “quarta fase”. Infatti, il senso di tale controversia sta, come
abbiamo visto, in un equivoco, dietro cui si cela il nesso profondo che lega cultura idealistica e
cultura spiritualistica, un nesso sviluppantesi, proprio in Galluppi, Rosmini, ma anche in Gioberti,
come base di un possibile dialogo, prolungabile fino al secolo XXI, tra tradizione classico-cristiana
e modernità, tra aspirazione alla Verità e ricerca di Senso proprie della prima e libertà della
coscienza ed autonomia del pensiero proprie della seconda.
La costruzione di una nuova filosofia della soggettività, ripensata sulla base della oggettività della
conoscenza cui, in modi diversi, mettono capo le due filosofie di Galluppi e di Rosmini, illumina la
filosofia sulla via da percorrere nella fitta, incerta ed oscura boscaglia del “post-moderno”,
guardando all’oltrepassamento del “moderno” non come all’inevitabile e fatale dissolvimento
pirronistico della ragione, o come ad ingenua affermazione apologetica della pluralità delle ragioni,
(che molto spesso costituisce una surrettizia giustificazione del relativismo), ma come ad un ritorno
critico, problematico e non dogmatico, ad un modo di pensare e di vivere in cui è sempre la ragione,
il pensiero a orientare l’uomo verso ciò che più conta, portandolo al di là dell’uomo stesso, verso il
suo peculiare destino, che è un destino di eternità.
Mostrare la profonda unità di ispirazione tra pensiero galluppiano e rosminiano vuol dire, perciò,
valutare più ampiamente la rilevanza del confronto tra Galluppi e Rosmini per il dibattito filosofico
attuale, una rilevanza che emerge proprio nel tentativo dei due filosofi di coniugare, sia pur in forme
diverse, storicità e valori, e di riaffermare il ruolo dello spirito umano nel mondo radicando, però,
tale ruolo nel legame originario ed inviolabile con il principio di tutte le cose, con l’esistenza
oggettiva ed assoluta della Verità, legame incarnantesi nella dignità della persona, base metafisica
e morale di un umanesimo teocentrico piuttosto che antropocentrico. La libertà umana sulla Terra
può diventare il motore di un vero progresso solo se restituita alla sua destinazione ultraterrena e
spirituale, nella quale l’uomo ritrova la propria autentica umanità e della quale egli fa il principio
della sua azione già nel mondo terreno.
Riaffermare l’unità tra relatività storica e Valori, tra una filosofia del divenire e una filosofia
dell’Essere è, forse, il compito supremo della filosofia oggi. In tale riaffermazione consiste uno dei
lasciti fondamentali dei nostri due filosofi, il cui diverso ma parallelo cammino intellettuale verso la
medesima meta, attesta come solo all’interno di un riferimento indiscutibile ed inconcusso alla
oggettività - che il nichilismo contemporaneo, nelle sue svariate forme, tenta ormai da tempo di
erodere progressivamente - sia possibile la coesistenza tra diverse “vie della ragione”, tra differenti
interpretazioni del mondo senza che si possa dubitare della dimensione entro la quale soltanto è
possibile l’interpretazione stessa, ovvero quella dimensione dell’Eterno che sta oltre il linguaggio.
Solo se la Verità è al di sopra delle molteplici interpretazioni che l’uomo ne dà è possibile evitare il
“conflitto delle interpretazioni”.
Infine, proprio in coincidenza del 150° Anniversario dell’Unità di Italia, non si può non sottolineare
il fatto che ristudiare i rapporti tra Galluppi e Rosmini, vuol dire recuperare, come s’è detto
nell’introduzione, anche il significato ed il valore di quel “risorgimento filosofico e spirituale”
italiano, a cui i nostri due filosofi, assieme a Gioberti, hanno dato un contributo fondamentale. In
concomitanza del moto di emancipazione politica e civile, essi si impegnano nel tentativo di ridare
all’Italia, anche nel campo del pensiero, una propria specificità nazionale. Tale specificità
nazionale, occorre aggiungere, non consiste però in una via italiana all’idealismo tedesco, né nel
ritorno ad un mitico “primo filosofico” italico. Il già citato F. Acri, ad esempio, che pure è stato
definito da Lo Cane e non a torto, «il più fedele interprete del Galluppi» 134, insiste, nei suoi scritti,
sulla “italianità” della triade Galluppi-Rosmini-Gioberti ponendola come il culmine di una
tradizione di pensiero, da lui ritenuta propria della nazione italiana, che ha inizio con l’agostinismo
medievale di S. Bonaventura e di S. Anselmo, prosegue con Vico e giunge appunto fino allo
spiritualismo cattolico di Galluppi, Rosmini e Gioberti, ed il cui elemento unificante è rappresentato
dal platonismo.
Tale giudizio sul carattere nazionale del filosofare di Galluppi, Rosmini e Gioberti, è largamente
diffuso nella cultura filosofica italiana dell’Ottocento; lo si ritrova, ad esempio, con accenti diversi,
in T. Mamiani, Imbriani, e in altri e, come è noto, nello stesso Gioberti, che vedeva nella propria
filosofia l’esito di tutti gli sforzi intellettuali compiuti in precedenza per ristabilire nella sua purezza

134
Ivi, p. XLI.
lo spirito filosofico italiano, consistente, per l’Abate torinese, in quel realismo platonico e cristiano
già emerso con Pitagora e che, dopo aver resistito «al rinnovamento del paganesimo» 135 operato da
Telesio, Bruno, Campanella, rinasce con Vico ed in ultimo proprio con Galluppi e Rosmini, i quali
però hanno fallito nell’attuare il superamento del sensismo e dello psicologismo, rimanendone
risucchiati.
Ma, in realtà, occorre riportare la valutazione della “italianità” dei nostri tre filosofi alla sua giusta
misura, poiché affermare enfaticamente che essi esprimono il nostro risorgimento spirituale e
filosofico in quanto rappresentanti della “vera” tradizione speculativa italiana vuol dire decapitare
ex abrupto altre tradizioni di pensiero altrettanto rappresentative del genio filosofico italico, come
quella rinascimentale, la quale costituisce certamente un fenomeno culturale tipico della storia
italiana tanto quanto il Risorgimento.
Si dovrà dire, allora, che fu semmai la capacità di riproporre un pensiero ingegnosamente e
poderosamente indipendente da quello straniero – così come, a suo tempo, avevano fatto i vari
Telesio, Bruno e Campanella – a fare dei nostri tre filosofi i rinnovatori del pensiero italiano
ottocentesco, la capacità, cioè, di ripensare originalmente, questo sì, l’intera tradizione filosofica
italiana per riadattarla alle esigenze culturali del proprio tempo.
Infatti, il risorgimento spirituale consistette essenzialmente nella rinascita di uno spirito
originalmente speculativo e filosofico, solo vagamente annunciato dall’Illuminismo italiano,
prevalentemente giuridico, civile ed economico, dei vari Romagnosi, Gioja, Genovesi, ecc.;
occorrevano, infatti, ingegni più maturi, in grado di svincolarsi dalle filosofie straniere, come quelli
appunto di Galluppi, Rosmini e Gioberti, perché rinascesse in Italia un tale spirito speculativo e
teoretico, a cui s’aggiunge, altresì, la capacità dei nostri tre filosofi di riproporre, dopo la
rivoluzione illuministica, un pensiero rinnovatamente metafisico e cristiano capace di accogliere il
meglio di quella rivoluzione e di fonderlo con i valori della grande tradizione culturale
dell’Occidente.

135
Cfr. V. GIOBERTI, Del Primato morale e civile degli italiani, Prima edizione italiana, 3 tomi, Stabilimento tip. e calc.
di C. Betelli e comp., Napoli 1848-49, tomo III, pp. 31-34.

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