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IL SACRO COME LA CONTRADDIZIONE CHE FONDA.

IL PARADOSSO CHE SALVA

di Giuseppe Limone

1. Il problema. 2. Rosmini. Il luogo teorico di una presenza.

3. Una lezione. 4. Una nuova frontiera. 5. Una militanza filosofica

come transcodifica fra codici personalisti. 6. Metamorfosi del

sacro, metamorfosi della libertà. 7. La soglia. 8. Forme e livelli del

sacro. 9. Volti del limite, limiti del sacro. 10. Per una logica del

sacro. 11. Gli assi del sacro. 10a. Il primo luogo. L’unicità. 10b. Il

secondo luogo. Il legame. 10c. Il terzo luogo. La profondità.

1. Il problema.

Non è forse un caso che nel nostro tempo sia venuto a maturazione un

millennio. In questo tempo, infatti, sta maturando una svolta nel sacro.

Una svolta nel senso del sacro.

1
E, ogni volta che siamo a una svolta del sacro, siamo a una svolta di

civiltà. Perché ogni epoca – lo sappia o non lo sappia – vive il problema di

rielaborare sempre di nuovo il senso del sacro.

C’è un sacro della nostra epoca? Quale? Quanto condiviso? Quanto

diversamente percepito, qualificato, vissuto, raccontato?

Non è domanda da poco, perché – a guardar bene – investe i singoli e

il tutto, i cittadini e il mondo, gli scienziati e il popolo globale, le etnìe

diverse e il pianeta, il bisogno di individuarsi e il bisogno di non essere

soli. Forse potremmo dire, in questo senso, che ogni civiltà è un proprio

originale commentario al senso del sacro.

2. Rosmini. Il luogo teorico di una presenza.

Davanti a questa sfida, possiamo domandarci, oggi, sulla presenza di

Antonio Rosmini. Quale il suo senso?

Concentreremmo, qui, l’attenzione intorno a due punti fondamentali.

Il primo. Guardare la lezione rosminiana all’interno di un grande

orizzonte filosofico, quello personalista.

Il secondo punto. Riuscire ad applicare, per così dire, Rosmini a sé

stesso, facendo centro su un asse che di Rosmini è luogo privilegiato.

2
Quello che Rosmini chiama l’ ‘essere ideale’. Quell’ ‘essere’ al quale egli

si approssima così: “L’essenza dell’ente non può essere conosciuta per

mezzo di altra notizia: l’essenza dell’ente adunque è conoscibile per sé ed

è il mezzo che fa conoscere tutte le altre cose; ella è dunque il lume della

ragione. In questo senso si dice che l’idea dell’ente è innata, e che è quella

forma che dà l’intelligenza” 1.

Ci domandiamo. ‘Forma’ in che senso? E’ lo stesso Rosmini che

risponde:

“Ma questa parola forma ha bisogno di essere chiarita, perché riceve

diversi significati.

La parola forma si prende a significare <<ciò per cui un ente ha un

atto suo proprio primitivo, che lo fa essere quello che è. Così l’essenza

dell’essere conoscibile per se stesso si dice forma dell’anima intelligente,

perché ella è ciò che dà all’anima quell’atto per il quale ella è

intelligente>>2.

Ma Rosmini sa che questa sua posizione è rischiosa, almeno per i fini

della sua filosofia, perché, anche se formulata in linguaggio aristotelico-

scolastico, egli non vuole sia apparentata con una concezione che la sua

1
Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1979, nn. 10-11, pp. 29-31; Sistema filosofico, nn. 34-35, pp. 234-236,
cit. in Muratore, pp. 93-94.
2
Ibidem.

3
intende, invece, esplicitamente rifiutare: quella di Kant. E perciò prosegue,

domandandosi: in che senso l’essenza dell’ente “dà all’anima quell’atto

per il quale ella è intelligente”? Detto in altre parole, anch’esse

rosminiane: in che senso “l’essere ideale si dice forma dell’intelligenza?”3.

Per rispondere, Rosmini ha bisogno di distinguere due specie di forme.

“Ciò che dà il suo atto primitivo ed essenziale ad un essere, quanto alla

nozione della mente, è cosa diversa dall’atto stesso; ma talora ciò che dà

l’atto essenziale ad un essere è parte dell’essere stesso, o si confonde collo

stesso atto, rimanendo diviso dall’atto solo mentalmente e per via di

astrazione; altre volte è cosa diversa realmente dall’atto, e dall’essere che

viene informato. Così la forma di una cosa tagliente, per esempio di un

coltello, non è cosa da lui diversa. All’incontro la forma di un ferro

rovente è il fuoco, cosa diversa dal ferro, e ogni qualvolta due enti si

mettono in comunicazione, l’uno diventa la forma dell’altro, in quanto

agisce ed entra nella sfera di essere dell’altro”4.

Ci si domanda: in quale dei due sensi l’ ‘essere ideale’ è forma

dell’intelligenza? Rosmini non ha dubbi. E’ nel secondo senso

dell’analogia5.

3
Ibidem.
4
Ibidem. Il corsivo è nostro.
5
Ibidem.

4
Non è nostra intenzione entrare qui in un’analitica filosofica

circostanziata, che pur ci sedurrebbe, ma c’è da chiedersi. Che cosa è mai

questo ‘essere ideale’ che, pur essendo forma, è cosa realmente [dico:

realmente] diversa dall’essere informato? Si tratta di una diversità non

astratta cioè, ma reale. Che cos’è mai un mentale che è realmente diverso

dal soggetto – posto che sia qualcosa? Per prima cosa, significa che

quest’essere è realmente diverso dal soggetto. Ossia che esso non è

soggettivo. Siamo in presenza dell’ambigua pregnanza, dell’ambigua

potenza, di questo concetto rosminiano: l’ ‘essere ideale’. Al di là delle

perplessità che pur potrebbe suscitare, diremmo che è fondamentale

penetrare nella sua intenzione strategica. Si tratta, infatti, di un concetto

che, pur presentandosi come puro oggetto teoretico, è in realtà ricco di

storia filosofica. Si tratta di un ‘essere ideale’ che è nella mente, ma non è

della mente. Nel suo carico semantico – quindi – c’è l’idea platonica. Ma

non basta. Si tratta di un ‘essere ideale’ che, pur essendo indeterminato, è

necessario. Come fa un essere indeterminato ad essere, al tempo stesso,

necessario, posto che non è della mente? Non solo. Si tratta di un ‘essere’

che, seppur meramente possibile, è necessario. Un ‘possibile necessario’.

Esso sembra avere, per così dire, una potenza ultramentale che deborda

5
per necessità ontologica da sé. Rivelando, nel suo carico semantico, l’idea

ontologica di Anselmo (e, forse, l’enérgheia di Plotino).

Ma un tale ‘essere ideale’ – d’altra parte – non può essermi sottratto

senza che mi si sottragga quanto è più intimo di me. C’è, nel suo carico

semantico, il Dio più intimo della mia stessa intimità: il Dio di Agostino.

Platone, Anselmo, Agostino, quindi. E forse Plotino. Se osserviamo

la critica rosminiana a Kant, cioè la critica alla soggettività delle forme a

priori kantiane – critica tutta rivolta alla loro pretensiosa soggettività –

possiamo forse ora scoprire lontani annunci e precorrimenti di un illustre

ed eretico erede di Kant, Martin Heidegger. Là dove questi, criticando

Kant, riesce a forare la pura trascendentalità del meccanismo kantiano per

aprire al suo interno il varco per l’emergenza di un essere di cui non

appaiono nitidamente le postille (Martin Heidegger, Kant e il problema

della metafisica).

Vorremmo osare di più. Questo ‘mentale’ rosminiano [che non è il

puro mentale soggettivo, essendone l’‘essere’ un costituente essenziale –

questo ‘mentale’ che intanto pur consente alla mente di svolgere la sua

funzione costitutiva, luogo cruciale in cui sembrano incontrarsi –

nell’esperienza del conoscere – un ‘mentale dementalizzato’ e un ‘reale

6
derealificato’] questo ‘mentale’ potrebbe rivelarsi un’istanza

‘prefenomenologica’, su cui Husserl forse avrebbe qualcosa da dire.

L’ ‘essere ideale’ di Rosmini si mostra, quindi, come quel campo di

significato al cui interno ogni reale percezione si accende all’esistenza. Un

campo di significato che non può dirsi solo mentale, perché – come

Rosmini sostiene – esso è realmente diverso dal mentale. E, quindi, ha una

qualche potenza di reale.

Si tratta oggi, ad avviso di chi vi parla, di applicare Rosmini a sé

stesso – e al nostro discorso che ne parla. Mi sia consentito dire. L’ ‘essere

ideale’ di Rosmini può mostrarsi come il campo energetico indeterminato

nella cui luce ciò che appare alla percezione dell’oggi, accendendosi

all’esistenza, si accende di esistenza. Umberto Muratore ha detto

benissimo: un ‘campo visivo’6. Penserei, in proposito, alla metafora fisica

del ‘campo’ e delle ‘fluttuazioni del vuoto’.

Vedere il tempo presente, oggi, a partire da Rosmini è anche riuscire a

vederlo a partire dal suo ‘essere ideale’. Applicando Rosmini a Rosmini.

Spogliandolo, dov’è possibile, di ciò che appartiene alla sua epoca e non

alla nostra.

6
Umberto MURATORE, Antonio Rosmini. Il discorso sull’uomo, Città Nuova, Roma 1989, p. 41.

7
Ma non può, a questo punto, sottacersi una considerazione. A chi ne

scruti le pagine nella tessitura d’insieme, appare chiaro che la scaturigine

prima della lezione rosminiana è etica. In questo senso, la sua ontologia,

che pur precede l’etica nella fondazione, la segue nell’ intenzione.

Rosmini è uno di quegli autori che, prima del pensare un’etica, si

pongono un’etica del pensare. Perché egli sa che già l’etica del pensare è

una luce in atto dell’essere in me.

E potremmo forse anche aggiungere, in termini contemporanei, che l’

‘oggettività’ dell’ ‘essere ideale’ rosminiano nei confronti del desiderio

non cessa mai di essere profondità. Sicché qualsiasi desiderio realizzato

mai potrà adeguare il desiderio del senso.

Certo, Rosmini sente vivamente quell’ottimismo tommasiano che

colloca intelligenza e volontà lungo una gravitazione spontanea verso il

bene. Ma si pensi anche, da lettori attenti, a quale forza evocativa –

diremmo da evangelo involontario – sia nascosta in quel dire rosminiano

che nell’ ‘essere ideale’ che abita l’uomo c’è la prima notizia dell’essere.

Notizia. Nella sua eversiva semplicità, è una parola che dice moltissimo in

niente. Come quel Vangelo che è una buona notizia – e non è che notizia.

8
3. Una lezione.

Ma la lezione di Rosmini è anche altrove. Ne indicheremmo alcune

coordinate. Espresse quasi in tre paradossi.

A. La ricchezza di carico empirico implicato a fronte della semplicità.

Apparirà subito straordinario quanto Rosmini riesca a trattare una

molteplicità inesausta di campi empirici e a governarli con la semplicità di

pochi princìpi. ‘Mai più di quello che occorre, mai meno di quello che

occorre’ – è un principio del suo metodo. Non solo il rasoio di Ockham,

ma l’invito a usarlo bene.

B. Il lessico scolastico a fronte della corrente della vita. Si tratta

dell’impiego di una complessa orchestrazione scolastica che,

paradossalmente, riesce a non andare mai a detrimento dell’unità della

corrente vitale. Così il sentimento si prolunga in istinto e in intelligenza e

in volontà e in amore – e il principio senziente in anima e l’anima in

persona – senza che mai una distinzione significhi interruzione7.

7
Vedi anche Antropologia in servizio della scienza morale, Città Nuova, Roma 1981, nn. 385-388, pp.237-238,
cit. in U. Muratore, Antonio Rosmini, cit., p. 104: “… quest’attività dell’anima è una cotale continuazione della prima

…” .

9
Il che accade in due sensi. Sia nella distinzione fra i livelli diversi del

vivente, nella loro ascensione; sia nella distinzione fra il versante passivo e

quello attivo della vita, nella loro reazione.

Si assiste, così, come a un chiasmo filosofico. Da un lato, la potenza

vitale, al cui fondo è l’anima, la quale, “dove trovi aperto il varco, per colà

si stende”8. E, dall’altro lato, la potenza dell’essere ideale, al cui fondo è il

divino, il quale, ovunque si accenda una percezione, in quello stesso punto

appare. Si assiste così a una potenza di essere e di affermarsi verso le

possibilità della vita – propria dell’uomo, dell’istinto vitale e dell’anima –

che s’incrocia con l’altra indefinita potenza dell’ ‘essere ideale’ verso le

sue specificazioni. E’ un nucleo teorico, questo, su cui Giuseppe

Capograssi, parlando di Rosmini, ha richiamato con forza l’attenzione9.

C. Ciò che il credente vede nella sua unità complessa, il non credente

può ben vederlo, almeno in parte, dalla prospettiva della sua religiosità

naturale.

D. Ne nasce una visione d’insieme in cui l’unità ricostruita alla fine, in

realtà era fin dall’inizio.

8
Antropologia in servizio della scienza morale, cit. in U. Muratore, Antcnio Rosmini, cit., p. 105.
9
Giuseppe CAPOGRASSI, Opere, vol. IV, Giuffrè, Milano 1959, p. 95 ss. e p. 321 ss.

10
Così, ad esempio, quel ‘sentimento’, che sembrava solamente il

segmento iniziale, può diventare il diritto alla felicità. Così, ad esempio, si

vede operare, come segretamente, una spontaneità vitale che ascende e che

vale. Così ad esempio, la ‘persona’ appare giacere nella vita intelligente

fin dall’inizio del processo. Così, l’uomo pensa anche quando non pensa10.

Così, nella fede razionale possiamo scoprire quanto nel pensiero ci sia

della fede e quanto ci sia del sentimento e della volontà. Per una

straordinaria eterogenesi dei fini, l’elaboratissima articolazione scolastica

riesce a mimetizzarsi nella vivente unità del simplex originario.

4. Una nuova frontiera.

Davanti alla sfida dei tempi nuovi, leggere Rosmini oggi significa, ad

avviso di chi parla, predisporsi a una nuova frontiera, che coinvolge altre

voci, troppo spesso minoritarie – e che vanno ben al di là della distinzione

credenti/non credenti. Una nuova frontiera che chiameremo con un nome

ambizioso, mai veramente compreso: il ‘personalismo’. L’opzione

personalista. Non le sue liquidatorie vulgate. Si tratta di una militanza

pensante in nome di almeno tre cose:

10
Vedi l’acuta citazione in U. MURATORE, Antonio Rosmini, cit., p. 21.

11
1. - L’ ‘essere’, sì, ma non il regno dell’universale olistico – in cui

gl’individuali spariscono.

- L’ ‘essere’, sì, ma non il mondo dell’ ‘egli’ – che ignora l’ ‘altro’ e

il ‘tu’.

- L’ ‘essere’ sì, ma non l’universo del frazionato, del frantumato,

dell’atomizzato, del disperso.

Non è impegno da poco. Si tratta di contrastare filosofie potenti e

accreditate, senza chiedere sconti sulla tenerezza di cuore. E si tratta

di promuovere in modo intelligente tre negazioni, cui rispondono tre

quesiti e tre percorsi, che si rivelano, d’altra parte, un unico luogo.

Vedere Rosmini nella luce della frontiera personalista significa

vedere anche ciò che in Rosmini non appare immediatamente –

eppur c’è – mentre in altri personalisti costituisce il centro del

discorso. Si tratta di alcune coordinate specifiche dell’uomo

individuale, concreto, che fanno la differenza. Direi: il problema

dell’unicità; il problema della profondità; il problema del legame.

5. Una militanza filosofica come transcodifica fra codici

personalisti.

12
Siamo, a questo punto, davanti a un’urgenza. L’urgenza di una

transcodifica fra i lessici diversi degli autori personalisti e dei loro statuti.

Se ne guardino alcune coordinate essenziali, partendo – qui – da Rosmini.

A. Il problema filosofico e lessicale della ‘oggettività’. L’oggettività

non è l’oggettivazione.

Quando si parla dell’ ‘essere ideale’ di Rosmini come ‘oggettivo’, si

tratta, in Rosmini, solo del suo essere '


oggetto di pensiero’(come pur

sostengono alcuni critici11)? Se si trattasse soltanto del suo essere ‘oggetto

di pensiero’, esso non sarebbe più limite. Se si trattasse soltanto del suo

essere ‘oggetto di pensiero’, non ci sarebbe più differenza fra ‘bene

soggettivo’ e ‘bene oggettivo’. Questa ‘oggettività’ – quindi – è più

resistente ontologicamente di quanto possa trovarsi nel suo essere mero

‘oggetto di pensiero’.

Infatti, quest’‘essere ideale’ è la ‘notizia dell’essere’. Ossia, la

notizia del divino. La notizia del sacro. Ed è infatti anche ‘legge’. Forse,

a ben guardare, si tratta di un’idea covante nascostamente la potenza della

prova ontologica anselmiana. Questo ‘essere’ è , per così dire, il dio

11
Vedi sul punto la discussione in Ludovico Geymonat e Renato Tisato, Il pensiero filosofico e pedagogico italiano
nella prima metà dell’Ottocento, in L. GEYMONAT, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. IV, Garzanti,
Milano 1971, pp. 691 ss. Per un diverso approccio, vedi Sergio Landucci, Il cattolicesimo liberale in Italia: Rosmini e
Gioberti, in Storia della Filosofia, diretta da Mario Dal Pra, vol. IX, La filosofia contemporanea – l’Ottocento, Piccin,
Padova 1983, p. 191 ss. Per una intelligente ricollocazione critica della presenza di Rosmini oggi, si veda Francesco
MERCADANTE, Rosmini nel nuovo millennio. Dalla condanna alla riconciliazione, in “Rivista internazionale di
Filosofia del diritto”, serie V, anno LXXVIII, n. 4, ottobre-dicembre 2001, pp. 433-460.

13
naturale, che si mostra – nell’essere dell’atto cognitivo dell’uomo – come

in uno specchio12. Dove lo specchio è, per così dire, il tessuto dell’uomo

reale.

Questo ‘oggettivo’, quindi, non può essere quella che è, nel lessico di

altri personalisti, l’ ‘oggettivazione’. La quale, in questi ultimi, negherebbe

la profondità e si connetterebbe con la ripetibilità intesa come dominio. Si

possono trovare in questo senso precisi indizi rosminiani. La presenza di

‘attori sconosciuti’ all’interno dell’uomo13. L’insistenza

sull’‘incomunicabilità’ della persona14. Il riferimento a Leibniz15. Si tratta,

quindi, in Rosmini, di una diversa sensibilità teoretica nell’approccio all’

‘oggettivo’. L’oggettività antica nega la soggettività. L’oggettivazione

moderna, invece, mostra in tale ‘oggettività’ le tracce della manipolabilità

soggettiva. Della totalizzabilità. Rivelando il diretto cortocircuito

moderno fra conoscenza e volontà – di cui la ‘volontà di sapere’

foucaultiana è, per così dire, l’esito diagnostico ultimativo.

Questa ‘oggettività’, quindi, non è l’ ‘oggettivazione’. Nella sua

matrice rosminiana, infatti, resta la ‘libertà’. Della quale non c’è

12
E’ di Rosmini l’efficacissima frase, tutta da meditare nella sua pregnanza teorica: essere “gli uomini dal Creatore
attaccati alla verità coi loro visceri stessi” (Filosofia del diritto, vol. 2, Bertolotti, Intra 1865, nn. 488-489, pp. 141-143).
13
Principi della scienza morale, Bocca, Milano 1941, pp. 76-77.
14
Antropologia in servizio della scienza morale, Città Nuova, Roma 1981, nn. 832-837, pp. 460-462.
15
A. ROSMINI, Teosofia, Torino-Intra 1859-1874, vol. 2, n. 1120, p. 486, cit. in U. MURATORE, Antonio Rosmini. Il
discorso sull’uomo, Città Nuova, Roma 1989, p. 50.

14
immagine. Sia che si tratti della libertà come elezione fra beni voluti sia

che si tratti della libertà come libertà dell’intelligenza16. La quale ultima, in

Rosmini, non solo può ‘scegliere’ ma percorre la precisa via in cui può

realizzarsi come libertà che si valorizza nei suoi beni.

E si pensi alla distinzione rosminiana fra ‘persona’ e ‘natura’. La

natura è ciò che si ha; la persona ciò che si è. Si possono sviluppare le

facoltà particolari che si hanno, ma ciò non significherà toccare quello

che si è. Siamo vicinissimi alla distinzione, che altri personalisti faranno,

fra ‘persona’ e ‘personalità’. Non a caso, Rosmini distinguerà, ancora, fra

‘la persona come diritto sussistente’, ‘diritti connaturali’ e ‘diritti

acquisiti’17. E si pensi a un’ulteriore traccia di questa opzione teorica: della

persona non può darsi immagine esaustiva, così come non può darsi

immagine esaustiva della libertà.

La metafora rosminiana dell’arco teso è, in questa luce, geniale. Dice

l’enérgheia della persona che investe, modella e connota materiali psichici

diversi assunti come oggetto dell’azione. E allude a quello che in altra sede

abbiamo chiamato il ‘modello cornice’18: là dove si dà l’istanza

fondamentale di un’‘enérgheia’ che, in quanto forza strutturante, deve

16
Antropologia in servizio della scienza morale, Città Nuova, Roma 1981, nn. 603-605, p. 341 ss.
17
A. ROSMINI, Filosofia del Diritto, CEDAM, Padova 1967, n. 48 ss. e n. 245 ss., p. 191 ss. e p. 243 ss.
18
Ci si richiama, qui, fra l’altro, a G. LIMONE, Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegómeni a un pensiero
metapolitico dei diritti fondamentali, Jovene, Napoli 2000, spc. pp. 61 ss. e passim.

15
poter agire e agisce investendo i suoi ‘dati’ secondo una direzione in cui

essi tutti – materiali psichici ed empirici diversi – vengono modellati e

connotati secondo la rete della vis che li cattura.

B. La persona non è solo l’unità dell’uomo individuale concreto, ma

la sua unicità. Unicità, nel senso di non riducibilità a comuni

caratteristiche costituenti. E in Rosmini possiamo trovarne precisi indizi.

Si pensi al suo ragionamento sulla distinzione radicale tra i fenomeni

esterni dei corpi e quelli della sensazione19. Sentiamo Rosmini: “Chi …

non vede, esser due cose al tutto diverse il corpo dell’addolorato, che

all’esterno si muta, e la sensazione del suo dolore? Il corpo

dell’addolorato cade sotto i miei sensi, e produce in me sensazioni; il suo

dolore all’incontro non cade sotto i miei sensi, ma sta tutto in lui solo”20.

E questo dolore è dell’anima. E’ l’anima, per Rosmini, è il principio

senziente dell’individuo. Che non gli dà quindi solo unità, ma unicità.

Vediamo altri indizi. L’essere la persona “incomunicabile”21. L’essere

la persona “principio supremo”, cioè indipendente da ogni altro22.

Diremmo anche: irriducibile.

19
Antropologia in servizio della scienza morale, cit., nn. 56-60, p. 48 ss.
20
Ibidem.
21
Antropologia in servizio della scienza morale, cit., nn. 832-837, pp. 460-462.
22
Ibidem.

16
Che diremo, oggi, su questa unicità? E’ stato giustamente osservato

che, se si guarda al cammino della scienza, fino a pochi secoli fa si

credeva che il mondo non andasse oltre il sistema solare. Poi è

intervenuta la scoperta di galassie a distanza di miliardi di anni luce: è

stato inventato, così, lo spazio profondo. E’ stato osservato, inoltre, che,

se si guarda al cammino della scienza, fino a qualche secolo fa si credeva

che la storia del pianeta e dell’uomo iniziasse qualche decina di migliaia

di anni fa. Poi è intervenuta la scoperta di tempi remotissimi, costituiti di

milioni e di miliardi d’anni – cui ha fatto riscontro il guardare al futuro

più lontano, quello delle generazioni future: è stato inventato, così, il

tempo profondo.

Ma nemmeno queste considerazioni bastano. Gli ultimi due secoli

ci hanno offerto un’altra invenzione teorica. Oltre l’io, oltre la coscienza,

oltre il cogito, oltre la coscienza che ne ho, sono stati scoperti i mondi

degl’istinti, dei sogni, dell’inconscio – e, io aggiungerei (andando oltre

Matte Blanco), di un ‘inconscio intelligente’23. E’ stato inventato, così,

l’uomo profondo.

23
Ci richiameremmo qui ad alcuni nostri discorsi: fra gli altri, a G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte
Tipografica, Napoli 1997, p. 71 ss. e in Il simbolico come cifra di gravitazione nello spazio noetico, in La simbolica
dello spazio, Guida, Napoli, di imminente pubblicazione. E, ancora, a G. LIMONE, Tempo della persona e sapienza del
possibile. Valori, politica e diritto in Emmanuel Mounier, ESI, Napoli 1988, p. 86 ss.

17
L’uomo profondo. Ma già Tommaso l’aveva, nella sua

semplicissima genialità antiveduto: l’actus essendi. Ma noi, andando

ancor oltre, diremmo: non il mero atto di esistere, ma l’atto di esistere

come quell’io singolare che sono. E’ la rivoluzionaria dimensione

dell’atto di esistere còlta al singolare. Si potrebbe, qui, incrociare

Leibniz (non invece Spinoza).

Non si tratta, d’altra parte, del passaggio dalla potenza all’atto di

Aristotele. Perché questo passaggio è pur sempre relativo a una mente

che concettualizzi l’atto di esistere in modo generale.

Ma vediamo il problema. Se dò all’uomo il privilegio – ontologico

privilegio – di essere guardato sub specie singularitatis, gli sto dando

appunto il privilegio di essere considerato come atto d’essere

quell’essere che ha diritto ad essere considerato singolare. E Tommaso

rappresenta, nella storia della pensabilità delle cose, un laboratorio

teorico cruciale, che intende andare oltre le categorie dei Greci. La sua

virata teorica, essenziale per stringere d’assedio in modo più

penetrante la singolarità, è costituita dalla distinzione fra ‘essenza’ ed

‘esistenza’, che non coincide con quella tra ‘forma’ e ‘materia’. <<Dio

– dice Tommaso – non intende per via di composizione e di

18
divisione>> (Summa contra Gentiles, libro I, cap. LVIII) e <<Dio

conosce i singolari>> (Summa contra Gentiles, libro I, cap. LXV).

Bisogna distinguere essentia ed existentia, quindi.

Ma la distanza fra conoscere ed essere è strutturale, stavo per dire

‘trascendentale’. Infatti, conoscere è sempre smembrare. E’ sempre

scomporre. C’è uno scomporre fisico, che spezza in componenti

fisiche. Non basta. C’è uno scomporre mentale, che spezza in

componenti concettuali. Non basta. Con lo scomporre mentale, posso

raggiungere l’essenza comune. Non basta. Per raggiungere l’essenza,

debbo poter raggiungere l’essenza individuale. Quella che prescinde

anche da se l’essenza sia comune o non sia comune. Ma nemmeno qui

basta. Raggiungere, infatti, questa “essenza individuale” attraverso un

puro gioco di intersezioni sarebbe farne il semplice risultato di un

calcolo logico. Ma, anche se raggiungo attraverso questo calcolo

l’essenza individuale – l’essenza individuale di quest’uomo-che-mi-è-

qui-davanti –, anche in quest’ultimo caso non basta. Ho raggiunto,

infatti, la sua essenza, non ancora la sua esistenza. Ho raggiunto il suo

fantasma mentale, non lui. Ma pensare l’essenza della singolarità può

– perché sia un “pensarla” – raggiungere quella singolarità

19
semplicemente pensando la sua esistenza? Può esserci un’essenza

della singolarità che manchi della sola esistenza? Può una singolarità

– nella sua essenza – essere non esistente?

Non posso raggiungere, di quell’uomo concreto, la sua esistenza

perché la sua esistenza non è un predicato. E non c’è mai l’atto

ultimativo che mi consenta di passare – di “saltare” – dal conoscere

all’esistere. Il sapore non è il concetto del sapore. Il dolore non è il

concetto del dolore. La morte non è il concetto della morte. La libertà

non è il concetto della libertà.

Una barriera sottile ma invalicabile separa la comprensione

concettuale dall’esistere. Per sempre. Come la superficie d’uno

specchio. Inesorabile, rigorosa e sottile. Si tratterebbe di attraversare

lo specchio. E bisognerebbe osar dire che è qui il limite invalicabile

dell’idealismo. Idealismo che incomincia già con Kant, malgré lui. Ma

è un discorso che vale anche per Dio, per il Dio dei filosofi. Non per il

Dio dei credenti. Questo Dio, infatti, per i credenti, lo specchio l’ha

attraversando. Diventando uomo fra altri.

Che cosa troviamo alla fine di questo itinerario? Un punto cruciale.

La persona è l’atto di esistere come quell’io singolare che sono. Se

20
l’anima lo è per la vita senziente, la persona lo è per tutto l’uomo24. E

qui incrociamo di nuovo Rosmini.

E potremmo addirittura dire, a questo punto: anche nel limite fra il

conoscere e l’essere c’è una forma del sacro.

C. Questa “unicità” potrebbe far pensare a un’assoluta solitudine. A

una radicale incolmabile ‘incomunicabilità’. Non è così. Perché

l’unicità non è l’unica coordinata di quest’uomo concreto al quale

guardiamo. Egli non è solo unicità, ma legami. Forse, in un dialogo

fra personalisti, possiamo incrociare Levinas. Quell’‘essere ideale’ è

anche l’altro che è in me.

6. Metamorfosi del sacro, metamorfosi della libertà.

C’è un paradosso nel percorso della modernità, di cui misuriamo,

forse, solo oggi, nella trama delle nostre viscere, la svolta.

Il percorso si rivela, in realtà, a due direzioni. La libertà nasce dalla

rivolta contro il sacro. Il sacro nasce dalla rivolta della libertà.

Nell’intemporale storia dei miti, questa storia era, a ben vedere, già

precompresa. Si pensi, da un lato, al Prometeo che ruba il fuoco agli dei e,

dall’altro, alla scienza cabalistica che crea il Golem. Potremmo


24
Si potrebbe, su questo specifico punto, citare Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, 1966.

21
parafrasare, qui, il poeta Ghiannis Ritsos: possono i miti reggere tanto

cielo? (La signora delle vigne).

Prometeo e il Golem ci restituiscono, in realtà, due percorsi simmetrici

– due simmetriche incontenibilità. Nel Prometeo c’è la libertà che emerge

imperiosamente dal sacro; nel Golem il sacro che emerge imperiosamente

dalla libertà.

Vediamo Prometeo.

Prometeo è colui che ruba il fuoco agli dei. E’ colui che dona il fuoco

agli uomini. E’ colui che Zeus mette in catene per estorcergli quello che

sa. Ma è anche colui che plasma gli uomini a immagine degli dei (Ovidio,

Metamorfosi). In Ovidio, per esempio, c’è il Prometeo che plasma gli

uomini, non il Prometeo che ruba il fuoco. C’è da domandarsi. 1. Il

Prometeo che plasma gli uomini a immagine degli dei e il Prometeo che

agli dei ruba il fuoco non possono essere visti come declinazioni di un

medesimo nucleo essenziale? 2. E, d’altra parte, il Demiurgo platonico che

plasma le cose a immagine delle idee non può rivelarsi, nella declinazione

del medesimo nucleo, lo stesso Prometeo che dona e che ruba? 3. E,

d’altra parte ancora, ha da fare col Prometeo che dona e che ruba, e col

Prometeo che plasma, il Prometeo che, incatenato, sa? In un medesimo

22
modello mitico due istanze opposte sembrano confliggere: da un lato, un

donare, che è conforme al piacere del dio; dall’altro, un rubare, che è

contrario al piacere del dio. Da un lato, un sapere, che Dio permette;

dall’altro, un sapere, che Dio vieta. Da un lato, un pensare, che Dio dona;

dall’altro, un pensare, che Dio teme. Ma queste due istanze contrapposte

non sono per caso una medesima istanza còlta nella sua ambivalenza?

Cioè: il semidio che fa transitare negli uomini un ‘divinum quid’, non

realizza per caso contro la potenza di Dio una potenza a favore della

potenza di Dio? Contro: perché gli sottrae. A favore: perché ne è una

continuazione. Un realizzare che è un contrastare; un contrastare che è un

realizzare. Un dono che è un furto; un furto che è un dono.

Già nel Prometeo che ruba il fuoco per donarlo sembra risuonare

un’ambivalenza che dà a pensare. Anche il Dio biblico consente all’uomo

una conoscenza (l’albero della vita e le altre piante del paradiso)

vietandogliene un’altra (la conoscenza del bene e del male). Anche il Dio

biblico crea l’uomo <<come>> Lui: a immagine sua (Gen. 1,27). Ma

l’uomo pecca appunto perché vuole diventare <<come>> Dio (Gen. 3,5).

Il fuoco è di Dio. E, nel transitare nell’uomo, può diventare contro

Dio. Ora, la libertà, costola del divino, – che nel divino è, per definizione,

23
intrinseca al bene –, continuandosi nell’uomo si scinde in possibilità

alternative: le possibilità del bene e del male.

Proviamo ora a leggere questa situazione nei termini del mito

sopradescritto. Se la libertà è la somiglianza con Dio come dono, d’altra

parte una libertà che pretendesse di essere intrinseca al bene – e

quindi istitutiva della distinzione bene/male – sarebbe l’uguaglianza

con Dio come furto. E il furto è superbia. Se la libertà è la somiglianza

con Dio come dono, c’è una libertà che è essere uguali a Dio come furto.

E il peccato ne è il paradossale compimento. La somiglianza con Dio

sta all’uguaglianza con Dio come l’uomo sta a Dio – e come al peccato

sta la libertà.

Credo che la più grande continuazione di questo mito sia in una

grandissima opera letteraria, I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij. Ci

domandiamo. E’ forse inverosimile pensare che nel possibile parallelismo

mitico tra le due figure del somigliare e del rubare risuoni l’unico fuoco

della libertà? Ivan Karamazov lo sa. Egli dice: “… Si vede che gli uomini

stessi ne avranno colpa: gli era stato dato il paradiso, loro han voluto la

libertà e han rapito il fuoco al cielo, pur sapendo che sarebbero stati

infelici” (I fratelli Karamazov, libro V, cap. IV).

24
Vediamo ora il Golem.

Eric Voegelin ricorda, ne Il mito del mondo nuovo, la leggenda del

Golem. Geremia si reca dal figlio Sira e, seguendo i principi cabalistici

della combinazione, insieme creano un uomo sulla cui fronte c’erano le

parole: Iahvé Elohim emeth, che significa Dio è la verità. Ma nella mano

dell’uomo appena creato dall’uomo c’era un coltello col quale egli raschio

l’aleph da emeth e così restò meth, che significa morto. Creato l’uomo

dall’uomo, sulla fronte dell’uomo creato la scritta <<Dio è la verità>> si

trasformò in <<Dio è morto>>.

Che cosa può significare questa leggenda in un mondo secolarizzato?

Forse significa che, se la tecnoscienza coltiva l’ambizione segreta di creare

l’uomo, cioè di totalizzarlo varcandone i limiti e privandolo degli spazi

singolari delle sue possibilità, c’è qualcosa che è morto. Non Dio, ma

l’uomo. L’homo sapiens sapiens. O meglio: lo spazio sacro che in

quest’uomo come persona singolare si dà. Ci si domanderà a questo punto.

La libertà della scienza è entrata, forse, nell’era della scienza, in conflitto

con la libertà dell’uomo? E può esserci una libertà della scienza senza

una scienza della libertà?

25
Dal seno del sacro nasce la sua rivolta, che è la libertà. Dal seno

della libertà nasce la sua rivolta, che è il sacro. Da qui, un paradosso

sempre osservato: sia dissacrare rigenera zone di sacro, sia sacralizzare

rigenera zone di libertà.

Ma anche la libertà è il sacro e anche il sacro è libertà. A ben

vedere, sono a confronto due diverse forme e livelli ontologici della

libertà (si pensi, per il credente, alla libertà di Dio). Il che ripropone il

quesito a un livello ulteriore, di secondo grado: è nella loro soglia che

abita il sacro – il sacro più grande?

7. La soglia.

L’esperienza del sacro è l’esperienza della soglia, del limite, del

confine. E questo limite è indisponibile. Non si tratta dell’indisponibile

d’oggi, ma si quello strutturale – valido per domani e per sempre. Quello

di cui non disponiamo e di cui non possiamo disporre perché disporne fa

terrore. Perché disporne mette in questione – anzi in rivolta – non il cuore,

ma le viscere. Perché il disporne spalancherebbe nel proprio interiore un

terrore più devastante della morte. Lacerando improvvisamente la scena su

26
un potere – terribile – su cui non abbiamo potere. Di cui non disponiamo

perché di noi dispone.

Ma questa esperienza del limite è anche fenomenologia del limite.

Diremmo di più. E’ metamorfosi del limite. Allo stesso modo in cui

possono esserci una metamorfosi della meraviglia e una metamorfosi della

paura25. Una metamorfosi del desiderio e una metamorfosi della fuga. Una

metamorfosi della potenza e una metamorfosi della libertà. Si tratta, in

ogni caso, della metamorfosi di un quid strutturalmente connesso a un

fondo emozionale forte che permane.

Potrebbe svilupparsi una precisa analitica di questo limite e delle sue

metamorfosi. Una di esse è nello sguardo. Perché lo sguardo pone una

soglia. Che può identificare o violare il limite come sacro. Potrebbe, in

proposito, seguirsi una fenomenologia dello sguardo da Sartre a Bataille a

Saint-Exupéry a Guardini. Una fenomenologia che sa di fragilità, di

pudore, di rispetto, di amore, di pietà, ma anche di invasione, di

impossessamento, di arroganza, di spoliazione, di totalizzazione.

25
Sul punto richiamiamo un libro bello e penetrante: R. ESCOBAR, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna
1997.

27
Ma si tratta di un limite che ha attributi essenziali. Non può essere

posto ad arbitrio. Non può essere contrattato. E, negato, riemerge. E’

l’anipotetico nel luogo (non della pura logica ma) dell’ontologia26.

8. Forme e livelli del sacro.

Il sacro è, quindi, esperienza della soglia, del limite, del confine.

Ma è per tutti uguale l’esperienza del sacro?

Diversi sono i livelli e i volti del sacro. Quali e quanti?

Si pensi a Rudolf Otto. Al sacro religioso.

E’ di Rudolf Otto, come è noto, una delle più classiche e suggestive

definizioni del sacro. Il sacro, per lui, è il numinoso. Il sovrappotente. Il

deinòs. Ciò che desta meraviglia e terrore. Ciò che suscita, nel terribile e

nel meraviglioso, lo sgomento allo stato puro27. Ciò che non può essere

detto con determinazioni razionali. Rudolf Otto dice: è un apriori

dell’anima. Egli intende, così, opporsi nella maniera più decisa alle forme

di edulcorazione ‘noetico-ontologica’ del sacro, al sacro inteso attraverso

26
Sul punto, vedi anche G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997, p. 135 ss. e p. 165 ss.
27
R. OTTO, Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, tr. e cur. di E. Buonaiuti,
Feltrinelli, Milano 1989, pp. 28-30.

28
forme di mistificazione neutralizzatrice. Ed è stato Walter F. Otto, come è

noto, a vedere, già negli dei della Grecia, forme e figure dell’essere28.

Già in questa forma iniziale di interrogazione del sacro, il cui primo

nucleo è nell’assoluta sovrappotenza, noi possiamo cogliere, dal punto di

vista di chi fa una tale esperienza, quattro elementi precisi di

un’invariante strutturale. Da un lato, infatti, la condizione irrevocabile

dell’esposizione alla catastrofe; dall’altro lato, la soggezione assoluta;

dall’altro ancora, la forma incoativa di un legame fra gli assoggettati.

C’è, infine, un quarto elemento. Il sacro appare fenomeno specifico,

ben radicato nel terreno delle emozioni, di cui costituisce una precisa

struttura cruciale29.

Il sacro, quindi, costituisce una struttura emozionale specifica,

un plesso emozionale specifico. Che, però, con l’evolversi dei tempi, non

costituisce necessariamente un puro caos emozionale. Il sacro come

struttura emozionale contiene in sé stesso, nel suo grembo, un suo

possibile contenuto cognitivo: anzi, un intero mondo noetico.

Ne nasce una riflessione fondamentale, che troviamo peraltro

ampiamente documentata in Georges Dumézil, nei suoi studi sugli dèi


28
K. KERÉNYI, Il rapporto con il divino, Einaudi, Torino 1991, p. 61
29
Penserei, in proposito, per gettare un ponte con un altro stile lessicale, a un importante libro di Salvatore Veca,
Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Feltrinelli, Milano 1997 – in ispecie al capitolo dedicato alla struttura delle
emozioni .
29
indoeuropei. Questo sacro che è il numinoso, il sovrappotente, il

meraviglioso e terribile, questo sacro è ambivalente.

Si tratta di un’ambivalenza che troviamo esplorata nella stessa

analisi che ne fa Giorgio Colli, quando rivisita Nietzsche e rimette

radicalmente in gioco il rapporto Apollo-Dioniso, risistemato a partire da

una loro nuova unità.

Questa ambivalenza del sacro è da pensare. E, d’altra parte,

guardando al sacro nella sua prima emergenza, altre caratteristiche se ne

colgono, necessario corredo della sua traduzione noetica: 1. Il sacro è

indisponibile; 2. Il sacro è inafferrabile; 3. il sacro è imprevedibile; 4. il

sacro è intoccabile; 5. Il sacro è costitutivo. Chi tocca il sacro, ne è

incenerito. Per eccesso di energia. Chi vede il sacro, ne è accecato. Per

eccesso di luce. Del sacro non si dispone. Per eccesso di soggezione. Il

sacro è inafferrabile. Per eccesso di dominio. E’ intoccabile. Per eccesso di

irradiazione. Il sacro è, perché radicalmente lontano, il luogo più vicino.

Anzi, esso – vivendo nel mio cortocircuito emozionale fra il più lontano e

il più vicino – è costitutivo della mia identità più profonda. La sua

sovrabbondanza assoluta produce l’eterogenesi dei fini.

30
Ma il sacro non è solo sovrappotenza. Esso lega. Precipita sugli

assoggettati un legame che li accomuna. Legame da sovrappotenza. O da

soggezione. O da catastrofe. O da viscerale intimità. L’uomo ha una

necessità originaria di cercare, con questa forza extra ordinem, un contatto

che lo salvi. La sua potenza lo costituisce in continuità. Il suo conato di

dialogo col sacro è il desiderio di trovare con la sua potenza assoluta un

‘logo’ comune. Da cui ricevere tutela e donazione di senso. Ci

domandiamo. Che ne è di questo sacro? E’ finito fra i vecchi arnesi della

storia come la pietra levigata e gli archibugi?

Ma ci sono anche altre figure del sacro. Vediamone alcune.

Se guardiamo al mondo omerico e al mito platonico di Er, scopriamo

altre e intrecciate forme del sacro. 1. C’è il sacro come volontà-potenza del

Dio. Spesso, correlata a una scelta dell’uomo: l’aíresis. 2. C’è il sacro

come tyche, come l’evento della sorte. E’ l’evento casuale che buca la

previsione – ogni previsione – sottoponendo l’uomo a un indecifrabile

arbitrio. Il Dio greco può manovrare la tyche. Ciò che non può manovrare

è l’anánche, la necessità. Anche Achille può manovrare, in certo senso, la

sua tyche. Egli può decidere se vendicare o no Patroclo. Ma egli sa pure

che, se deciderà di vendicarlo, vi troverà la sua anánche, la necessità

31
correlata: la morte30. 3. C’è il sacro come l’anánche, come la ‘necessità’.

Nemmeno Giove, il grande Cronìde, può fare alcunché per salvare il figlio

Sarpedonte dalla morte in battaglia. Più in alto di Zeus, c’è il Fato. Che

non parla. Né Zeus può parlarGli. Il Fato non ha viso né voce. Il Fato non

è ‘persona’.

Ci sono altre figure del sacro. C’è il sacro come il Monstrum. Che è

Animale, Uomo, Dio. Che è tutte e tre le figure. Si pensi a Dioniso. E

ancora: 1. C’è il sacro come Potenza pura. 2. C’è il sacro come Potenza

che si fa Scienza – meglio: Onniscienza. 3. C’è il sacro come Potenza che

si fa Forza emozionale. Meglio: Ira.

Il Dio cristiano – frutto di un cammino di culture in cui entrano, nella

chimica gigantesca di un millennio, tradizione di fede ebraica e tradizione

filosofica greca – unifica segmenti di percorsi in uno solo. Il suo

monoteismo può rivelarsi apicale coalescenza di dei. Rivisitati alla luce del

fondamentale ‘ottimismo’ cristiano. Questo Dio è sia Volontà-Potenza, sia

Fato. Sia Volontà-Potenza sia Conoscenza. Ma Egli è buono. Ed è

‘persona’. E la tyche diventerà kairòs. E il fato, provvidenza. E l’ira,

amore.

30
C’è una situazione, individuata in bioetica in rapporto alla ‘medicina predittiva’, che potrebbe in qualche modo
evocare questo antecedente mitico. E’ la situazione che in dottrina è stata chiamata, paradossalmente, l’‘antidestino’:
ossia la possibilità di sfuggire alla propria condizione genetica, programmando adeguatamente la propria vita.

32
Non basta. C’è il sacro come venerando e il sacro come esecrando.

C’è il sacro come meraviglioso e il sacro come atroce. La doppia

figurazione non spaesi. Il sacro è ambivalente.

Anche la sovranità ripete le sue stimmate dal sacro. Essa è, non a

caso, superiorem non recognoscens. E ius vitae ac necis. Diritto di vita e

di morte. Anche qui, ambivalente. Diritto di dare la morte e diritto di

restituire la meraviglia della vita. Anche la ‘rappresentanza’ ripete le sue

stimmate dal sacro. E la stessa nuda vita. Si pensi, al libro di Laura

Bazzicalupo su Mimesis e Aisthesis31. Si tratta di due poli opposti e

complementari. La ‘mimesis’ è tale rispetto all’invisibilità del

rappresentato. L’ ‘aisthesis’, rispetto all’irrappresentabilità della vita. A

ben guardare, un’unica radice: il sacro.

Lungo la storia della civiltà umana, il sacro sembra prosciugarsi. Ma

è poco più che apparenza. Perché non si prosciuga: si dissemina.

Nascondendosi nei luoghi più inusitati. Si osservi. Con l’avvento della

scienza moderna, la conoscenza assume sulle sue spalle il compito della

previsione e della potenza. Erano i cómpiti di Dio. Il sacro sembra – quindi

– transitare nelle mani dell’uomo. Ma esso, mentre cede ampie province al

regno dell’uomo, arriva al punto in cui si trasforma. Potremmo dire che


31
Laura BAZZICALUPO, Mimesis e aisthesis. Ripensando la dimensione estetica della politica, ESI, Napoli 2000.

33
emigra ai bordi della scienza: da figura si fa sfondo. Sfondo come

delimitazione dei bordi della scienza – che la scienza non riesce a varcare.

Veniamo al punto. Lungo il percorso in cui la scienza

esponenzialmente cresce in potenza (previsionale e manipolativa), la sua

maturità si converte nella sua crisi. La scienza diventa, direttamente,

tecnologia. E’ l’era della ‘tecnoscienza’. Quali, gli esiti? In qualunque

coordinata si guardino, l’effetto è uno solo: la contrazione del mondo. I

processi si accelerano. Gli spazi e i tempi si accorciano. I corpi si

miniaturizzano. Il villaggio globale si fa piccolo, sempre più piccolo.

Nello spazio e nel tempo. Per l’oggi e per le generazioni future. La

scienza diventa un’auto ad alta velocità. Resistente al suo guidatore.

L’autostrada diventa un imbuto.

Ma qui è l’altro punto. Più cresce la potenza, più decresce – su

scala – la prevedibilità. Più cresce la potenza, più decresce – su scala –

la sicurezza. Più aumentano le conoscenze, più decrescono le certezze.

In un crescendo: dalla bomba atomica alla bomba bioambientale alla

bomba genetica. In un paradosso: più cresce la comune potenza, più

cresce la comune impotenza. Più cresce la comune impotenza, più

34
cresce il comune legame. Là dove si attiva una comune emozione, a

radice antica, mai spenta. Il sacro.

L’epistemologo Edgar Morin ha speso un’intera vita di ricerca per

mostrare che dal modello epistemologico della scienza geometrico-

meccanica – vivente nel mito di Laplace secondo i principi della

previsione, della determinazione e della riproduzione – siamo transitati al

modello della scienza complessa, i cui punti ciechi sono, per necessità

ineludibili, il caso, la contraddizione e la parzialità (Heisenberg, Gödel,

Prigogine). Quali, gli esiti? All’ingrandirsi della potenza del sistema

corrisponde l’ingrandirsi – su scala – della sua imprevedibilità e della sua

vulnerabilità. C’è una diretta proporzionalità, nel sistema, fra potenza e

imprevedibilità, fra potenza e vulnerabilità. Contro la potenza della

scienza che eredita il sacro si erge ora la potenza dei suoi limiti – altra

forma del sacro.

E si guardino altre forme del sacro, nella tradizione della critica. C’è

il sacro antropologico di René Girard, indissociabile dalla violenza che lo

costituisce. C’è il sacro di Elias Canetti, indissociabile dal potere di chi fa

violenza, che sa minacciare la morte, perché la morte è la moneta del

potere. C’è il sacro di Durkheim e Mauss, col loro insistere sul sacro

35
comunitario, col loro guardare le cose sacre come fasciate di interdizioni,

col loro distinguere fra tempo sacro e tempo profano. C’è il sacro di Jean

Guitton, con la sua mirata attenzione al sacro della scienza. Dove l’attivo

esplorare non nega Dio, ma individua il varco di Dio. Dove il caso si

rivela tale sono a una certa scala di sguardo. Dove la percezione

dell’intelligenza sommersa diventa una percezione del sacro – fin quasi a

un ‘terrore’ religioso verso l’ordine che emerge32. Donde l’espressione

efficacissima: ‘Teniamo tutto l’infinito nel palmo della mano’33. Siamo –

così – posti davanti all’uomo scientifico che, agendo, come per frottage

scopre i sentieri e i bordi del sacro.

Ha detto Ilya Prigogine: “Quello che è veramente sconcertante è il

fatto che ogni molecola sa quello che faranno le altre molecole

contemporaneamente a essa e a distanze macroscopiche. I nostri

esperimenti ci mostrano che le molecole comunicano. Tutti accettano

l’esistenza di questa proprietà nei sistemi viventi, ma nei sistemi non

viventi essa giunge quanto meno inaspettata”34. Donde la percezione che

32
J. GUITTON, G. BOGDANOV, I. BOGDANOV, Dio e la scienza. Verso il metarealismo, Bompiani, Milano 1992,
p. 65 e passim.
33
J. GUITTON, cit., p. 107.
34
Dio e la scienza, cit., p. 40.

36
“un ordine soggiacente governa l’evoluzione…”35. Fino a un terrore

religioso36.

Non solo. C’è il sacro di Max Scheler, col suo collocare i valori al

livello del santo. C’è il sacro di Vico, col suo percepire il valore dopo la

catastrofe. E c’è il sacro annunciato dall’altro. Si pensi a Buber, a

Guardini, a Levinas.

Ma oggi, forse, un altro sacro ci attende, simmetrico a quello

individuato da Guitton. E’ quanto ci viene restituito dalla complessità

come esperienza teorica del limite, del confine. Si guardino, in proposito,

solo per qualche esempio: la questione astronomica; la questione

astroquantistica; la questione di un mondo che non si lascia né prendere né

comprendere come arcipelago di frammenti; la questione ambientale; la

questione genetica; la questione ecosistemica.

Crescendo la comune impotenza cresce il comune legame – la comune

soggezione. C’è, qui, un lampo del sacro? Quali, gli esiti sul piano del

villaggio globale?

Dicevamo che all’ingrandirsi della potenza del sistema

corrisponde l’ingrandirsi della sua imprevedibilità e della sua

35
Dio e la scienza, cit., p. 52 ss.
36
Dio e la scienza, cit., p. 65.

37
vulnerabilità. C’è una diretta proporzionalità fra potenza del sistema e

vulnerabilità del sistema. Necessita in queste condizioni, che mutano

l’intero quadro di riferimento, arrivare a un’idea transpolitica della

sovranità. Attenzione. Non antipolitica, ma transpolitica. Perché la

tecnoscienza è diventata uno strumento sussunto dallo Stato e dagli

Apparati di dominio, anche se va oltre la loro estensione.

In un tale contesto, il terrorismo può essere la guerra condotta con

altri mezzi, così come la guerra può essere il terrorismo condotto con altri

mezzi. In una situazione in cui la miniaturizzazione del mondo può

produrre la miniaturizzazione del colpo e del colpitore. Siamo arrivati nel

tempo della sofisticatissima fragilità. Dove, alla scala del singolo, la tyche

diventa destino. Dove la profondità del colpo appare il nostro più

proprio destino. Che costringe alla presa di coscienza più dura: la

consapevolezza di sé. Perché, come diceva Capograssi, è nell’essere

colpiti che noi scopriamo di essere paradossalmente noi stessi – i

singoli che siamo37.

Tutti noi, abitanti del pianeta, non siamo mai stati tanto vicini.

L’altro mi è diventato vicinissimo – più vicino di quanto io possa pensare.

Sia come partner che come nemico, sia come malato che come mostro.
37
G. CAPOGRASSI, Introduzione alla vita etica, in Opere, vol. III, p. 90 ss. e p. 161 ss.

38
E non come genere. Come singolarità. In una situazione paradossale in

cui scopro che questa vicinanza insopportabile e pericolosa è il mio

nuovo destino.

I luoghi dell’indifferenza ci abbandonano. Ci restano i luoghi di

una libertà debole. Là dove, nel tempo delle vicinanze ridottissime e della

vulnerabilità quasi assoluta, diventa sempre meno vera l’affermazione che

c’è un sovrano e sempre più vera quella che ci sono molti sovrani – al

limite paradossale, tutti sovrani. Anche stavolta Dio è nel frammento, ma

in un senso radicalmente nuovo. E’ un frammento che, in qualsiasi

momento, può devastare ogni cosa. Questo frammento esplode. E, come

l’Aleph di Borges, può far rivedere a un tratto ogni cosa.

Il rapinatore che mi rapina è sovrano su di me in quello

spaziotempo preciso in cui ha il perfetto controllo su me. Ma questa

condizione è limitata e, mediamente, reversibile. La condizione verso cui

oggi procediamo è diversa. Indefinite sono le fette di spaziotempo in cui si

può dividere lo spaziotempo del pianeta, e queste fette sono sempre più

numerose, sempre meno limitate, e, soprattutto, sempre più destinate a

diventare irreversibili.

39
Il terrorista che l’11 settembre, con un semplice biglietto

d’aereo, abbatte le torri gemelle di New York è l’altro volto della

vulnerabilità assoluta del mondo. Quel terrorista è un volto del sacro.

Esso mostra la fragilità assoluta del nostro mondo trasformando la figura

in sfondo e in sfondo la figura. Trasformando – nell’immaginario

collettivo – la fragilità del sistema nella potenza di chi lo fora.

Il sacro mostra, così, la sua tragica ambivalenza. Genera una

situazione che, rovesciata come un guanto, ci rovescia come un guanto.

Facendo spuntare dalla nostra inermità di assoggettati il filo rosso del

nostro legame. L’essere nostro globale e personale si rivela un sistema

venoso visibile come il corpo alchemico del duca di Sansevero.

Ma non è l’unico volto del sacro, questo. C’è altro. E’ il volto

dell’altro. E’ l’altra faccia della nostra fragilità. E’ quella faccia che, pur

non suscitando il nostro terrore, mette in questione – in radicale questione

– la nostra friabile identità nel legame. E’ la viscerale emozione per chi ha

fame, o è sgozzato, o è torturato. E’ la vertigine dell’altro. C’è, infatti, una

solidarietà che può dare vertigine – come quando l’altro si sporge nel

vuoto e io vivo il suo rischio come mio. E’ una solidarietà che deborda da

ogni lato la scelta etica. Fra me e lui vibra, in quel momento,

40
un’invisibile stringa: il legame38. Di cui non sono attore ma,

paradossalmente, puro destinatario. Ma nemmeno questo volto del sacro è

tutto. C’è anche il sacro di Levinas: che è oltre l’essere, perché, così come

in Platone, oltre l’essere è il Bene39.

E’ in questo contesto che noi possiamo scoprire – oggi – quanto

siano state profetiche le parole di Elias Canetti, nel suo parlare di una

nostra figura epocale: il sopravvissuto:

<<Il sopravvissuto è il male ereditario dell’umanità, la sua

maledizione e forse la sua rovina… L’inasprirsi della sua attività nel

mondo moderno è talmente smisurato che si osa appena volgervi gli occhi.

Un uomo singolo può senza fatica annientare buona parte dell’umanità. A

tale scopo può servirsi di procedimenti tecnici che egli stesso non è in

grado di comprendere. Può agire nell’assoluta segretezza; non deve

neppure esporsi a un pericolo per il suo atto. Il contrasto fra la sua unicità e

il numero delle persone che egli annienta non è più esprimibile in

un’immagine sensata. Oggi si ha la possibilità di sopravvivere con un solo

colpo a un numero di uomini che supera quello di intere generazioni dei

38
Sull’idea recentissima della ‘stringa’ – contrapposta all’idea della ‘microparticella’ – a costituente del mondo fisico
(indice di una reazione complessiva della scienza fisica alla metodica del ‘conoscere’ per ‘scomposizione’) si veda
Greene Brien, L’universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste e la ricerca della teoria ultima, Einaudi, Torino
2000.
39
Vorremmo qui richiamare, di Emmanuel Levinas, due percorsi: E. LEVINAS, Dall’esistenza all’esistente, Marietti,
Casale Monferrato 1986; ID., Trascendenza e intelligibilità, Marietti, Genova 1990.

41
nostri progenitori. Le ricette dei potenti sono chiaramente manifeste: non è

difficile servirsene. Tutte le scoperte tornano loro utili, come se fossero

state fatte solo per loro…. Egli dà inizio a una guerra e manda i suoi là

dove devono uccidere. Molti di loro, d’altronde, potranno morire

anch’essi. Non gli rincrescerà. Comunque si atteggi esternamente , c’è in

lui un profondo e segreto bisogno che anche le fila della sua stessa gente si

diradino … La sua angoscia del comando assume allora dimensioni che

portano alla catastrofe. Ma prima che la catastrofe abbia raggiunto lui, il

suo corpo – che per lui rappresenta il mondo –, prima di ciò, egli avrà

portato alla rovina innumerevoli altri... La morte quale minaccia è la

moneta del potere. Qui è facile mettere una moneta sull’altra e accumulare

enormi capitali. Chi vuole riuscire ad aggredire il potere deve guardare

negli occhi senza timore il comando e trovare i mezzi per sottrargli la

spina>>40.

Il sistema della potenza, che credeva di aver ereditato il sacro, lo

vede rinascere oggi ai suoi bordi, come clamorosa annunciazione dei limiti

svelati. L’imprevedibilità della tecnoscienza si mostra, in tale contesto, la

40
E. CANETTI, Masse e potere, pp. 569-571.

42
percezione del sacro raggiunta con altri mezzi. La vulnerabilità del sistema

sovrappotente è, in questo luogo, un luogo del sacro.

Ricordo Erhardt Denninger in un dibattito con chi vi parla. Correva,

in quella occasione, il richiamo a un nome che è molto circolato, in questi

ultimi tempi, in Occidente circa il nostro rapporto con l’Islam: il problema

dei ‘dormienti’. I dormienti sono coloro che, apparentemente integrati e in

sonno nella società occidentale, improvvisamente ‘si svegliano’ e possono

compiere terrificanti atti armati.

Forse il concetto di ‘dormiente’ può essere, nella società

tecnoscientifica d’oggi, generalizzato. Ognuno può essere ‘dormiente’ in

qualcosa. E ogni ‘dormiente’, appena svegliato, può mettere in crisi il

sistema. Ed è imprevedibile chi sia dormiente e se e quando si sveglierà.

E’ la tyche che è dormiente. E’ il sacro che è dormiente. E’ la

fragilità del tutto che è dormiente. Ma questo ‘dormire’ ha dei costi. Noi

siamo, oggi, perennemente interrogati su quei costi. Può uno Stato

costituzionale assicurare sicurezza assoluta rispetto al ‘dormiente’? O

quali costi costituzionali dovrebbe pagare per assicurarla? L’impressione,

qui appena accennata, è che un tale pericolo non sia esorcizzabile in

assoluto e che, perciò, l’agitazione politica del pericolo assoluto possa

43
essere l’argomento perenne per far regredire, ad arbitrio, in qualsiasi

momento, uno Stato costituzionale. Il ‘dormiente’ è il limite del sistema.

Che può non esorcizzarlo, ma solo scenicamente arginarlo, o gestirlo.

Anche a fini inconfessati. Tutti assoggettati alla catastrofe, quindi – e tutti

legati. Donde il rapporto fra la colpa e il legame. Fra il desiderio e la

paura. Fino ad arrivare ad emozioni che riguardano emozioni41. Fino a

scoprire che la colpa non implica necessariamente la libertà, ma implica

necessariamente il legame. Ce lo riferisce bene il lessico tedesco,

chiamando allo stesso modo questa condizione di legame e di colpa: la

Schuld.

Dicevamo che ogni civiltà è chiamata, forse, ogni volta, a una nuova

rielaborazione del sacro. Il che significa che ogni civiltà è chiamata a una

sempre nuova rielaborazione del proprio mondo emozionale. A partire

dall’unità geopolitica significativa nel suo tempo. Unità oggi

completamente rivoluzionata. Enormemente più dilatata, perché

enormemente più contratta. Non si farà una civiltà planetaria a partire

dalla nuova situazione – delle vicinanze ridottissime, delle potenze

devastanti e delle imprevedibilità quasi assolute – senza un lavoro


41
S. VECA, Dell’incertezza, cit., pp. 303-304 (citando J. Elster).

44
specifico che investa l’emozionale di coloro che sono diventati, oggi,

indipendentemente dalla loro volontà, vicini in assoluto.

Il pianeta si è trasformato nella cosa più fragile. Il sacro si annuncia

– qui – come ciò che è condiviso nello stato d’eccezione.

Si proclama, oggi, per la salvezza di tutti, la necessità della

negoziazione. Ed è fin troppo facile sottolineare che, per negoziare,

occorre l’insieme delle condizioni che sono sottratte alla negoziazione. Ma

è irrealistico credere che si possano negoziare le condizioni che debbono

essere sottratte alla negoziazione. Perché è irrealistico credere che la

negoziazione, da sola, possa avere questa forza. Quella di fondarle.

Il sacro, oggi, è il ‘luogo’ emozionale in cui vivono insieme il terrore

e lo sgomento – anche lo sgomento da meraviglia; anche il terrore e la

pietà. E non la pietà virtuosa, ma quella viscerale, necessitata dalla

vicinanza. E che impone, a salvaguardia propria ed altrui, un’esigente

soglia di attenzione. Ed è a questa altezza che si guadagna un possibile

accesso al sentimento della ‘dignità’. Nella quale distingueremmo più

livelli:

1. Il livello della vicinanza ‘viscerale’ – quello del minimo non

ulteriormente erodibile. E’ l’esigenza severa verso il massimo male. 2. Il

45
livello della dignità ‘povera’. Quella ‘inferius non recognoscens’. Quella

che, usando la terminologia proposta da Veca, chiameremmo la dignità del

‘paziente morale’. E’ l’esigenza del minimo bene. 3. Il livello della dignità

‘ricca’. Quella che, usando a modo nostro la terminologia di Veca,

chiameremmo la dignità dell’‘agente morale’. E’ l’esigenza del massimo

bene praticabile in condizioni di condivisione.

Dignità minima, dignità povera, dignità ricca. Dignità minima e

dignità massima. Questa ‘dignità’ è un luogo del sacro42.

Siamo, quindi, ricondotti alla questione religiosa. Alla questione

religiosa in quanto possiede al suo cuore la questione dell’uomo.

Siamo oggi, davanti a mille forme di nichilismo del potere. Davanti al

quale potremmo anche dire, nel trionfo delle matematiche, che siamo

come davanti a un platonismo dimezzato.

9. Volti del limite. Limiti del sacro.

Tutta l’opera di Dostoevskij è un commentario al problema del sacro.

Vediamo. Nel legame violato c’è il sacro (Dostoevskij, Delitto e

castigo). Nella sofferenza dei bambini c’è il sacro (Dostoevskij, I fratelli

42
Per alcune riflessioni sulla ‘dignità’ in un contesto costituzionale, si veda A. RUGGERI, A. SPADARO, Dignità
dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in “Politica del diritto”, a. XXII, n. 3, settembre 1991.

46
Karamazov43). Anzi, è appunto la sofferenza dei bambini l’argomento per

l’interrogazione più potente e diretta al cuore di Dio. Nel dolore condiviso

c’è il sacro. Il sacro non è soltanto ciò che costituisce un terrore comune,

ma anche ciò che individua un dolore comune (cfr. in Alessandro Manzoni

la celebre scena della madre che scende dalla soglia durante la peste). Lo

starec Zosima, nel libro secondo de I fratelli Karamazov, si avvicina a

Dmitrij e – scrive Dostoevskij – <<giuntogli accanto, si lasciò cadere

innanzi a lui in ginocchio>> (p. 99). Zosima il santo si prostra davanti al

peccatore Dmitrij. L’assoluta straordinarietà della cosa lascia Dmitij

<<folgorato>> (p. 99). Zosima sa – solo lui sa – che Dmitrij sarà destinato

al dolore (p. 379). Egli infatti confesserà ad Alioscia: “Ieri mi sono

inchinato alla sua grande sofferenza avvenire” (p. 379, e cfr. p. 103). E

quel prostrarsi in ginocchio dice al massimo grado la radicalità del

rispetto dovuto al dolore. La grandezza letteraria di Dostoevskij esprime il

sacro col sacro. Il sacro è il dolore condiviso.

E’ un tema su cui Dostoevskij ritorna. Anche Iliuscia muore nel

dolore. E Iliuscia è un bambino innocente. Per un paradosso, forse

inconscio, del genio dostoevskiano, tutti i fratelli Karamazov sono modi

personali diversi di girare intorno al problema del sacro.


43
Vedi, ad esempio, la requisitoria di Ivan contro Dio; la morte di Iliuscia.

47
C’è un paradosso, infatti, nel sacro – che investe anche chi lo irride.

Per un folgorante paradosso dell’intuizione dostoevskiana, è l’ateo Ivan

a ricordare al Dio in cui non crede i diritti del sacro. La sofferenza dei

bambini è una domanda sacra. L’ateo Ivan ricorda – contro lo stesso Dio

in cui non crede – i diritti del sacro. Il sacro, infatti, è limite allo stesso

Dio, se Dio è degno del sacro. Rosmini direbbe: nemmeno Dio può

strumentalizzare l’uomo44. In questa luce, l’ateo Ivan, il luciferino Ivan è

un credente.

Oggi la tecnoscienza mette in discussione non solo il pianeta, ma i

singoli e la specie. Ad essa risponde l’uomo che io sento di essere –

custode del sacro. L’uomo che sento di essere, infatti, percepisce di essere

chiamato a custodire tre mondi: il mondo di me singolo, il mondo

dell’altro in me, il mondo della specie. Per il credente, in ognuno dei tre

mondi è fissato lo sguardo di Dio. Per il non credente, lo sguardo

dell’uomo che dell’uomo ha cura.

Consumata la secolarizzazione, oggi, sono riemersi tanti nomi del

sacro. Vediamoli.

Il recente libro di Antonio Negri e di Michael Hardt sull’Impero

credo che sia, più che un testo di analisi, il segno dei tempi di questa nuova
44
A. ROSMINI, Filosofia del diritto, vol. 2, Bertolotti, Intra 1865, nn. 542-545, p. 132.

48
paradossale percezione del sacro. Non a caso, il libro è scopertamente

costruito intorno a concetti e metafore teologiche: le due città, la nova

aetas, la fede, la gioia, San Francesco. Non a caso, la metafora del

contagio45.

Ma individuerei – a questo punto – innanzitutto due modi e livelli

diversi d’intendere il sacro.

1. Il sacro come l’emersione di sempre nuove figure, sempre nuovi

crepacci che spalancano all’uomo – improvvisa – la percezione della sua

inermità. Perché, in questa luce, il sacro è l’insieme dei bordi catastrofici

del vivere – quelli in cui si disegna e si rivela il filo rosso della nostra

inermità.

2. Il sacro come la negazione, come la paradossale relativizzazione di

ogni sacro. In una logica non di concorrenza, ma di ulteriorità. Il

sacro come la potenza di relativizzare ogni altro sacro.

Domandiamoci. Il sacro ci nega? Ma questo sacro, negandoci, ci

fonda. Oggi è la stessa libertà della potenza a far emergere la potenza

della libertà. Siamo nel tempo in cui è minacciato il singolo, è

45
M. HARDT, A. NEGRI, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002.

49
minacciata la specie, è minacciata la vita in quanto tale. Tutto – Zoè,

Bìos, persona – è minacciato alla sua scala.

Dove, qui, il sacro? Sono gli assi di un’esperienza personalista

che possono mostrare, alle frontiere dei nuovi millenni, i nomi nuovi

del sacro.

10. Per una logica del sacro.

Ma vediamola al rallentatore, adesso, come in un esperimento

mentale, questa logica del sacro. C’è una logica della negazione nella sua

intrinseca struttura. Prescindendo da fedi confessionali, la diremmo in due

passi.

Primo passo. Il sacro non può essere negato. Come non può essere

negato l’ ‘essere ideale’ rosminiano. Perché, negato, riemerge.

Secondo passo. Ma il sacro ci nega. Eppure, negandoci, ci fonda.

Perché ci libera da ogni idolatria. Aprendoci a quella libertà che,

incontrando il limite e negata dal limite incontrato, può permanere

realmente come libertà.

50
Guardiamo ora il sacro da un altro punto di vista. C’è, nella sua

intrinseca struttura, una logica dell’appartenenza e della disappartenenza.

Diremo anche questa in due passi.

Primo passo. Proprio perché ‘è’ nel nostro essere storico, il sacro è

quel limite che costituisce la condizione di possibilità di tutto ciò che

questo nostro essere è – di tutto ciò che possiamo.

Secondo passo. Proprio perché ‘non è’ il nostro essere storico, il

sacro costituisce la condizione di relatività di tutto ciò che il nostro essere

è – di tutto ciò che possiamo.

In questo senso, il sacro è e non è il nostro essere storico. Esso è

veramente sacro se non invade il profano. Perché anche la libertà del

profano ha il suo sacro: è il suo sacro. E’la sua dignità. In questo senso, il

sacro è limite alla libertà, ma anche la libertà è limite al sacro. Perché la

libertà stessa è sacra – è forma del sacro. Forma plurale del sacro. E, come

Rosmini coraggiosamente precisa, nemmeno Dio ha il diritto di

strumentalizzare un uomo46. Potrebbe addirittura dirsi, con apparente

paradosso, che la desacralizzazione in nome dell’uomo47 è un sostanziale

46
A. ROSMINI, Filosofia del Diritto, Bertolotti, Intra 1865, vol. 2, nn. 542-545, pp.162-163.
47
Rosmini scrive esplicitamente sulla sacralità dei diritti dell’individuo: Filosofia del Diritto, CEDAM, Padova, 1967,
p. 183.

51
riarticolarsi del mondo all’interno del sacro. Ciò mentre il sacro, aprendo a

tutte le libertà, tutte le relativizza.

Ancora una volta, l’esperienza del sacro conduce al filo di una soglia.

Al limite fra confinanti libertà – fra confinanti Dignità.

L’esperienza del sacro è esperienza di contraddizione. Perché c’è nel

suo senso più vero non solo il manifesto ma l’apofatico. E’ per questo che

i mistici custodiscono la relazione molto più dei dogmatici. Essi possono

essere guida reale agli assi dell’universo personalista. Assi che, a nostro

avviso, possono essere detti da tre luoghi narrativi. Tre luoghi narrativi,

per dire tre logoi della persona.

11. Gli assi del sacro.

Ci domandiamo a questo punto. C’è un sacro cui l’immagine

dell’uomo può condurre? Diremmo di sì, se la vediamo – questa immagine

– ruotare intorno a tre luoghi e a tre assi.

11a. Il primo luogo. L’unicità.

Si veda il Giobbe della Scrittura. Enorme è il problema. Giobbe si

sente giusto e innocente, eppure si vede dalla sventura ripetutamente

52
colpito. La tragedia greca non ha un Dio a cui porre la domanda. Il testo

ebraico sì.

Il libro di Giobbe è il confronto di Giobbe coi suoi <<consolatori

molesti>>. I consolatori molesti sono quelli che ti sono vicini, ma non

guardano te. Nel senso preciso che non guardano te in carne ed ossa. Essi,

cioè, non guardano quest’uomo singolo e concreto che sei, perché ti

guardano all’interno del quadro ideologico di cui sono portatori. Essi, per

così dire, ti frantumano e ti ricostruiscono nel reticolato delle loro

categorie: ti strumentalizzano all’interno del loro concetto di <<uomo in

generale>>48.

Il Libro di Giobbe, infatti, chiarisce in modo magistrale che il

dolore non è il concetto di dolore, che la morte non è il concetto della

morte.

Giobbe appare, a vederlo controluce, l’itinerario ultimo e

ultimativo di una rastremazione, di una spoliazione, di una scarnificazione

che punta alla radice. L’<<uomo in generale>> che ognuno di noi è, viene

sottoposto a una scarnificazione radicale. Giobbe è, come ogni uomo del

resto, uno che ha. Egli ha ricchezze, ha moglie, ha figli, ha una posizione

48
C’è un significativo testo di Kant su Giobbe: vedi E. KANT, Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea,
in Questioni di confine, a cura di F. Desideri, Marietti, Genova 1990, pp.23 ss.

53
sociale. Attraverso Satana, col permesso di Dio, egli viene prima colpito

nei beni, poi nei figli, poi nella posizione sociale, infine nel corpo.

Attraverso una lenta e implacabile azione spoliante, egli viene

progressivamente ridotto a pura voce. Egli si sente un niente.

Nella situazione del pensare cartesiano c’è un non saper nulla, un

dubitare di tutto, che mantiene una sola certezza: il pensare. Nella

situazione di Giobbe, c’è un niente che ha conservato una sola ricchezza: il

domandare. Egli, che è un saggio e un perseguitato, domanda a Dio con

acerrima insistenza: Perché?

Giobbe è ridotto a un niente, a un purissimo niente. Ma è un niente

che domanda. L’unica sua certezza non è il pensare, ma il domandare.

Giobbe viene colpito nei beni, nella posizione sociale, nel nome. Non

viene colpito in ciò che ‘è’, ma in ciò che ‘ha’. E’ specificamente per

questo che Dio consente a Satana ogni esperimento su Giobbe. E’, infatti,

sperimentandolo nell’avere che egli può lasciarlo rivelare nell’essere. Chi

è Giobbe? E’ forse colui che ha figli, moglie, pecore, una posizione

sociale, un carattere, un nome? Egli è forse l’intersezione di tutti questi

dati connessi? No. Giobbe è colui che nonostante tutto’ residua’ dopo

questa spoliazione progressiva. Egli è questa singolarità concreta che,

54
essendomi davanti, qui ed ora annichilita m’interroga. E’ un niente. Ma

un niente con questa sua unica forza residua: egli interroga. La spoliazione

progressiva lo ha privato finanche del nome, ma non del suo domandare. Il

suo essere è il domandare.

Non ‘cogito ergo sum’ (penso dunque sono), dunque, ma ‘patior ergo

sum’ (soffro dunque sono). In quanto soffro, mi accorgo che sono io a

soffrire e non tu49. E perciò ora domando. Non ‘cogito ergo sum’, dunque,

ma ‘quaero ergo sum’. Io domando – ed è in questo mio domandare che

songo.

Se io dico, secondo la modalità di Cartesio, che ‘sono in quanto penso’,

posso pur sempre pensare – o altri potrebbero convincermi a pensare – che

ci sia un ‘altro’ a pensare in me, che io sia il puro terminale di un pensiero

che in me vive, che di me vive, che io vivo e di cui non mi accorgo:

l’uomo universale, o lo spirito universale che sia. Ma se invece io dico che

soffro, sono io che soffro e non tu, né tanto meno un <<altro>> che in me

soffra per me. E nessuno mai riuscirà a convincermi del contrario.

E’ il problema dell’uomo concreto: il suo essere lui, solo lui, nessun

altro che lui. Ed è il paradosso del dolore. Il dramma del nostro dover

49
E, si potrebbe aggiungere, in quanto tu soffri con me per la mia sofferenza, io vedo che in qualche misura la prova
privilegiata che tu riesci ad essere anche un po’ me.

55
evitarlo e del suo esserci necessario. Per poter acquistar certezza di noi.

Per poter sapere, attraverso il suo varco, che non si è pure copie, né

semplici momenti di un Idem50.

La sofferenza è il luogo della massima distanza, qui. Massima,

perché l’altro, invece di capire questa tua sofferenza che ti fa

irrimediabilmente fragile e solo, ti inserisce in un discorso di carattere

generale in cui di te non c’è più traccia. Sei stato derubato di te. Il

dolore ci fa disuguali. E il pianto è questa preghiera del corpo che sei,

sfuggita al tuo dominio. Quell’esser riconosciuti che è l’essere còlti

nella flagrante singolarità che si è. Giobbe soffre della mancanza di

riconoscimento. Poiché non è riconosciuto, è perduto. Chi mi vede

come genere e non come singolo, mi deruba. Non mi ruba l’avere, ma

l’essere.

Ma questa distanza invalicabile può diventare un varco. E lo diventa

nel momento e nella misura in cui si apre la possibilità – l’area, il luogo

lo specchio – del riconoscimento.

Il varco presuppone due persone che attraverso il suo transito si

riconoscono. Dio non dice cose molto diverse da quelle dette da Eliu,

50
Si potrebbe, in una prospettiva teologica, citare il Cristo evangelico che parla col Padre: Se puoi, allontana da me
questo calice, ma sia fatta la Tua volontà, non la mia.

56
uno dei consolatori di Giobbe, eppure è Dio che compie l’atto radicale:

egli fa di Giobbe il riconoscimento. Il riconoscerlo in quello che egli,

nel suo singolare atto d’essere, già è. La massima distanza può

diventare, a questo punto, la minima distanza. Il dolore rende disuguali.

Ma può rendere, anche se non identici, uguali.

E’ il nesso fondamentale che sta alla radice della solidarietà. Se non

si scopre l’altro come singolo, non c’è possibile solidarietà.

Diceva Pascal che ci sono due infiniti: l’infinitamente grande e

l’infinitamente piccolo. Diremmo noi che la singolarità non è né l’uno

né l’altro. Rispetto al pensiero astraente, è una terza forma d’infinito.

Da questo momento, dal momento in cui si apre il varco fra i due

disuguali cioè, “io divento una buona notizia per l’altro”.

Il testo di Giobbe, a ben vedere, apre un’interrogazione sulla

tecnologia politica, oggi. Che ti scruta con le sue articolazioni invasive.

Con una sola differenza. Che essa non ti toglie togliendoti, ma

invadendoti. Che essa ti toglie saturandoti. Di appartenenze incrociate.

E controllate51.

51
Sul punto, S. RODOTA’, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-
Bari 1997.

57
Veniamo a una prima riflessione su questo passo. L’unicità apre al

legame.

10b. Il secondo luogo. Il legame.

Si veda Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, aurea favola

moderna i cui strati speculativi sono, a nostro avviso, straordinari e tutti da

disoccultare52.

Il piccolo principe, giunto sulla terra, vede delle rose, che

assomigliano tutte al suo fiore. <<E si sentì molto infelice. Il suo fiore gli

aveva raccontato che era il solo nella sua specie in tutto l’universo. Ed

ecco che ce n’erano cinquemila, tutte simili, in un solo giardino>> (cap.

XX). E si disse: <<Mi credevo ricco di un fiore unico al mondo, e non

possiedo che una qualsiasi rosa>> (ibidem). Il fiore, che egli riteneva

<<singolare>>, da quel momento non lo è più. Infatti, egli credeva che

fosse <<il solo della sua specie in tutto l’universo>>53. Egli sapeva,

quindi, che la sua singolarità coincideva col suo genus. Nel momento in

cui le cinquemila rose gli rappresentano all’improvviso che quel suo fiore

è solo uno dei tanti del suo genere, la sua singolarità non c’è più. Quel

fiore è perduto.

52
E’ una nostra antica opinione. Ce ne siamo esplicitamente occupati in G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte
Tipografica, Napoli 1997, pp. 151 ss.
53
A. de SAINT-EXUPERY, Il Piccolo principe, cit., p. 89.

58
Che cosa può rifarlo singolare?

<<In quel momento comparve la volpe>> (cap. XXI). Il piccolo

principe le chiede di giocare con lui. <<Non posso giocare con te>>,

disse la volpe, <<non sono addomesticata>>….

<<Cerco degli amici. Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?>>.

<<E’ una cosa molto dimenticata. Vuol dire ‘creare dei legami’ …

>>. <<Creare dei legami?>>. <<Certo>>, disse la volpe. <<Tu, fino

ad ora, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non

ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te

che una volpe uguale a centomila volpi. Ma, se tu mi addomestichi,

noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo

e io sarò per te unica al mondo>>. <<Comincio a capire, disse il

piccolo principe>>. <<C’è un fiore …, credo che mi abbia

addomesticato>> (cap. XXI).

La ‘singolarità’ della rosa, che sembrava irrimediabilmente

perduta per il fatto dell’esistenza di altre rose, ora si ricostituisce

attraverso uno speciale rivolgersi: l’ ‘addomesticare’.

<<Non si conoscono che le cose che si addomesticano>>, disse

la volpe (ibidem).

59
Lo sguardo dell’altro, nel conoscermi come singolarità, mi

costituisce come tale.

Il testo francese dice l’ ‘addomesticare’ come ‘apprivoiser’.

‘Apprivoiser’ viene dal ‘privatus’ e dal ‘privatim’ latino, che non

allude al privato ma a quel prendersi cura che costituisce, nel

proprio campo visivo, l’unicum della singolarità.

Una seconda conclusione. Nel passo precedente, l’unicità

apre al legame. Qui – all’inverso e a conferma – il legame apre

all’unicità.

10c. Il terzo luogo. La profondità.

Nikolaj Berdjaev intende sperimentare una grande scommessa.

Prendere sul serio le idee. Rosmini si domanda come nella presenza delle

cose c’è l’ ‘essere ideale’. Berdjaev si somanda come nella presenza degli

uomini c’è la ‘libertà’.

Ed ecco la sfida lanciata dalla sua capacità visionaria all’uomo futuro.

Egli sostiene, con forte audacia teorica, tre epoche del

Cristianesimo. Epoche in cui si passa dal tempo di un legame etico in

cui l’uomo vive subordinato a un’idea costrittiva di Dio al tempo in cui

l’uomo perviene all’idea della propria centralità, ma continuando ad

60
‘oggettivarsi’, fino al tempo in cui l’uomo, essere libero, può

improvvisamente scoprire di essere chiamato, in quanto partner di Dio,

a un incremento assoluto della creazione rispetto alle stesse possibilità e

preveggenze di Dio54.

L’uomo, chiamato alla Divino-Umanità, potrà realizzare così, nel

Cosmo, un incremento assoluto di Valore, innovativo e ulteriore

rispetto alla stessa azione di Dio.

Che cosa comporta, in una tale prospettiva, la lettura di una tale

libertà creatrice? Possiamo, forse, sentirlo da Berdjaev stesso:

<<… dato che l’uomo viene considerato il centro del cosmo, il

sole dovrebbe trovarsi nell’uomo: l’uomo stesso dovrebbe essere il sole

del mondo, e tutto dovrebbe gravitare attorno all’uomo. Il Logos-Sole

deve risplendere nell’uomo stesso …>>55.

E’ – dice Berdjaev – come nelle notti bianche. <<…Il magico

effetto delle notti bianche e la loro straordinaria bellezza si può

spiegare, appunto, col fatto che durante le notti bianche non si vede

alcuna fonte esterna di luce ….. e che tutti gli oggetti sembrano

illuminati dal di dentro, quasi brillassero di luce propria…>>56. <<…Le

54
N. BERDJAEV, Il senso della creazione. Saggio per una giustificazione dell’uomo, Jaca Book, Milano 1994. .
55
N. BERDJAEV, op.cit., p.109.
56
N. BERDJAEV, op.cit., p.109. Le sottolineature sono nostre.

61
notti bianche ricordano … che in una situazione normale la luce è

qualcosa di interiore agli esseri e alle cose del mondo…>>57.

Ma un tale discorso sulla libertà apre, a ben vedere, a un altro

varco sull’uomo: quello sulla profondità. Dove ‘profondità’ non è luogo

mistico ma, posto l’uomo concreto, precisa coordinata della sua libertà

rispetto a chi lo guarda. Se è vero che la libertà può realizzarsi in modi e

guise diverse, è altresì vero che mai potremo dire esaurito un uomo

nelle immagini – nell’immagine – in cui egli abbia espresso la sua

azione. Se vediamo un uomo decidersi per una forma di vita e

realizzarla come sua, la sua storia non sarà mai l’immagine di lui tutto

intero. Che l’uomo non abbia immagine significa – anche – che mai

nessuna sua storia sarà la sua immagine esaustiva. Un uomo è sempre

più di ciò che appare58. Un uomo è sempre più della storia che –

foss’anche alla fine della vita – ne reca l’immagine rappresentativa. C’è

un essere possibile dell’uomo che è oltre tutte le immagini che la sua

storia fa sedimentare di lui presentandole come conclusive. E’ il suo

essere profondo. Il suo essere giacimento di libertà, disposizioni e

57
N. BERDJAEV, op.cit., p.109. Le sottolineature sono nostre.
58
Vedi G. CAPOGRASSI, L’attualità di Vico, in Opere, vol. IV, p. 400 e passim. In questo senso, il ‘Nessuno’
pronunciato da Ulisse per dire il suo nome può rivelarsi gravido di una sapienza inconscia, tutta da disoccultare. Sul
punto, ci sia consentito richiamarci a G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997, pp.167 ss.
Per una discussione vedi anche F. BELLINO, Persona e ragionevolezza, Levante Editori, Bari 1997.

62
talenti che mai poterono tutte esplicarsi – e mai ebbero tutte i contesti in

cui esprimersi e di cui lo stesso singolo uomo non sa. Il suo essere

giacimento di libertà condizionate che mai poterono tutte venire alla

luce. E’ il groviglio labirintico d’intrecci fra contesti, talenti,

disposizioni, percorsi possibili e libertà. E fra queste ultime e le loro

sedimentazioni condizionanti, nella misura in cui queste propiziino e/o

ostacolino quelle – strutturandole59. E’ l’essere nascosto d’un uomo, per

molti versi, a sé stesso. E’ ciò che dice il suo pudore60. Se la pianta è il

suo sviluppo, la singola persona non è il suo sviluppo – non è la sua

storia. Perché è più della sua storia. Lo storicismo non è personalista61.

Anzi, potrebbe dirsi in proposito che le stesse espressioni storiche di un

uomo, che pur ne dicono conoscitivamente qualcosa, si collocano su un

fondo insondato sul quale la loro figura appare trasfigurata nella

capacità simbolica e nel valore. In questo senso, potrebbe dirsi che

guardare un uomo a partire dalla sua storia è una falsificazione sottile

del suo essere, scientificamente conseguita a partire dal ‘dopo’ e dai

fraintendimenti inafferrabili che questa prospettiva, anche

59
Per una disamina della questione antropologica con riferimento al tempo, richiamiamo qui G. BINOTTI, Il tempo:
una struttura concettuale, in Tempo della legge e tempo della storia, a cura di G.M.Chiodi, Guida, Napoli 1999, pp. 45-
108.
60
G. CAPOGRASSI, L’attualità di Vico, cit.
61
Sul punto richiamiamo G. LIMONE, Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegómeni a un pensiero metapolitico
dei Diritti fondamentali, Jovene, Napoli 2000, pp. 10 ss. Vedi anche ID., Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica,
Napoli 1997, pp. 154 ss. e pp. 156 ss.

63
subliminalmente, produce. Alcuni personalisti distinguerebbero, in

proposito, fra ‘personalità’ e ‘persona’62. E lo stesso Rosmini, come è

noto, distinguerà fra ‘libertà come elezione’ e ‘libertà dell’intelligenza’.

‘Homo sum absconditus. Noli me tangere’63. Questa ‘profondità’ è da

pensare. Perché è, a ben guardare, null’altro che l’altro volto della

libertà. A condizione che questa ‘libertà’ sia presa sul serio. Dal punto

di vista di chi ne cerchi – invano – ex post l’ ‘oggettivazione’ che la

raddoppi.

Unicità, Legame, Profondità sono i tre luoghi dell’uomo.

Vediamoli uno alla volta.

1. C’è, a ben guardare, un paradosso dell’‘unicità’. E’ il suo essere un

paradossale infinito – anzi un paradossale controinfinito64. Quasi non

basta, infatti, un intero infinito per esaurirne la forza comprensiva. Ed

occorre, invece, un intero infinito per passare nella porta stretta della

singolarità che gli sfugge.

Per capirla, questa singolarità unica, si pensi al numero primo. Alla

sua non riducibilità ai costituenti logici di un altro ente – quale che sia –,

così come un numero primo non si riduce ai costituenti matematici di un

62
G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, cit., p. 169 ss.
63
E. MOUNIER, Trattato del carattere, Edizioni Paoline, Roma 1982, p. 610, p. 104 ss. e passim.
64
Sul punto ci permettiamo richiamarci a G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997, spc. p.
145 e passim.

64
altro numero – quale che sia. Quei costituenti che, moltiplicandosi fra loro,

lo riproducano come tale. In questo senso, il ‘singolare’ potrebbe vedersi –

a fronte del ‘continuo’ – lungo la potenza dei transfiniti di Cantor.

2. Ci sono facili equivoci sulla ‘profondità’. Dove ‘profondità’ non è

un ipotetico luogo mistico di riferimento enfatico ma libertà – libertà

presa sul serio. Cioè, opzione teorica consistente nell’accettare come

eticamente fondato il rifiuto di esaurirsi e di essere esauriti in immagini.

Perché la libertà non è solo un sottrarsi ex ante – in sede di tendenziale

previsione deterministica – ma anche un sottrarsi ex post – in sede di

oggettivazione conoscitiva.

3. Né si trascurino i possibili equivoci sul ‘legame’. Dove il ‘legame’ è

la scoperta del valore costituente della relazione.

E si guardi a quello che accade nelle violazioni di queste coordinate

cruciali. 1. Dalla violazione dell’unicità nascono la fungibilità,

l’indifferenza, la serialità. 2. Dalla violazione del legame, la colpa. La

Schuld. Perché la colpa è la continuazione del legame. La continuazione

del legame con altri modi. 3. Dalla violazione della profondità, ogni

preteso giudizio di definitività, ogni prospettiva di ‘grande fratello’, ogni

invasione del pudore – della privacy, della riservatezza, dell’area di

65
rispetto; e, di qui, anche ogni controllo totale, ogni condanna a morte, ogni

categorizzazione assorbente, ogni totalizzazione.

E si pensi, ancora, per la violazione di ‘unicità’ e ‘profondità’, alle

possibili intersezioni di dati informatici in quanto pretendano di esaurire

conoscitivamente un intero individuo65 - indi totalizzarlo.

Riassumeremmo, quindi, le precedenti coordinate richiamando: il

diritto a non essere considerati fungibili; il diritto alla relazionalità – alla

relazionalità che non ‘abbiamo’ ma ‘siamo’; il diritto a non essere

cristallizzati in giudizi definitivi – e/o a non essere esistenzialmente

perquisiti per consentire il formularsi di giudizi definitivi.

Vorremmo, qui, sottolineare uno straordinario pensiero di Salvatore

Satta sulla profondità dell’esistenza – pensiero tutto da meditare nelle sue

pieghe, posto a suggello della sua splendida opera postuma, Il giorno del

giudizio: “… Sono stato una volta piccolo anch’io, e il ricordo mi assale di

quando seguivo il turbinare dei fiocchi [di neve] col naso schiacciato

contro la finestra. C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto,

ed eravamo felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna

svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella

65
Sul punto si veda anche S. RODOTA’, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione,
Laterza, Roma-Bari 1997.

66
fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti

racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale”66. Nemmeno una

vita intera basta a conoscersi. Occorre – alla fine, ancora! – essere

resuscitati. Reinseriti ancora nel flusso della vita. Per essere ancora una

volta vissuti, cercati, raccolti, raccontati.

Continuerà ad esistere l’uomo, se non c’è più il sacro? Il sacro è una

fede? Ma non è anche l’uomo (il risultato di) una fede?

Il nome nuovo del sacro è la dignità.

Dignità, come dicevamo, guardata a tre livelli. 1. Quello della

vicinanza ‘viscerale’, del minimo non (ulteriormente) riducibile, del

minimo non ulteriormente erodibile. L’esigenza severa verso il massimo

male. 2. Quello della dignità ‘povera’: l’esigenza del minimo bene. 3.

Quello della dignità ‘ricca’: l’esigenza del massimo bene praticabile in

condizioni di condivisione. Quell’esigenza che, usando la terminologia di

Rosmini, chiameremmo la dignità intrinsecata nella libertà come elezione

e nella ‘libertà dell’intelligenza’.

Dignità minima, dignità povera, dignità ricca, quindi, per un racconto

sul sacro.
66
Salvatore SATTA, Il giorno del giudizio, Adelphi, Milano 1990, pp. 291-292.

67
Lo stesso Rosmini parla della sacralità di questi Diritti67. E la stessa

distinzione fra ‘Bene pubblico’ e ‘Bene comune’ ne è un momento

specifico di collaudo teorico68.

Ma quanti racconti del sacro, oggi? Quanti racconti religiosi del

sacro? E quanto condivisi?

Bisogna, forse, in qualche modo, saper andare oltre la rosminiana

alternativa fra libertà di coscienza rettamente intesa e lo scetticismo

religioso69. E occorrerà, in questa luce, domandarsi in che modo realizzare

una relazione tra fedi a livello planetario senza creare fusioni narrative

abnormi, nuovi ippogrifi religiosi del sacro.

Il teologo Andrea Milano ha distinto tre possibili forme di relazioni tra

fedi religiose: ‘esclusività’; ‘inclusività’; ‘pluralità’70 – tutte da

trasvalutare. Perché, in realtà, in un rapporto ben impostato fra religioni

non si tratta tanto di convertire qualcuno dall’una all’altra fede, come si

dice, ma di vedere quanta capacità di universale ha il messaggio

67
A. ROSMINI, Filosofia del diritto, I, CEDAM, Padova 1967, p. 183: “…I diritti d’un solo uomo sono pur

sacri”.

68
A. ROSMINI, Filosofia del Diritto, Bertolotti, Intra 1865, vol. 2, nn. 1647-1649, pp. 547-548.
69
A. ROSMINI, Filosofia del Diritto, CEDAM, Padova, vol. I, nn. 189 ss., p. 225 ss.
70
A. MILANO, Quale verità? Per una critica della ragione teologica, Edizioni Dehoniane, Bologna 1999, pp. 377 ss.

68
religioso di cui è portatrice una fede. E’, questo, un collaudo cruciale, che

diventa anche, in qualche misura, prova di verità.

Si tratta di vedere quale capacità di universale ha ognuno di questi

racconti sacri. E’ qui, a ben vedere, il vero luogo della ‘conversione’.

Quello della sua forza – della sua universale ‘convertibilità’.

Si pensi – lungo questo ragionamento – all’uomo secondo il racconto

biblico e cristiano. Il suo essere a immagine di un Dio che non ha

immagini. Homo sum absconditus. Noli me tangere (E. Mounier, Trattato

del carattere71). Diremmo in proposito che, forse, ha più capacità di

universale quel sacro che, non dandosi mai in immagini esaustive, tutte

le nega. E, negandole, le salva.

Non va dimenticato che l’esserci di ‘un solo Dio’ – in una cultura

monoteista – può avere declinazioni ed esiti opposti: istituire il privilegio e

la gelosia di chi ne possieda l’esclusiva, o – all’inverso – sottintendere e

custodire una diversa, paradossale sapienza: l’esserci di un solo Dio in

quanto significhi che nessuno ha la privativa di Dio, perché Egli in ogni

prospettiva lascia o può lasciare una traccia del suo darsi.

Molti racconti sacri, oggi, attraversano il mondo. C’è un punto di

convertibilità fra di essi? Quale?


71
Vedi E. MOUNIER, Trattato del carattere, Paoline, Roma 1982, p. 610, p. 104 ss. e passim.

69
Crediamo, in questo senso, che c’è, per il possibile sacro condiviso,

un possibile esperanto comune – che è anche una misura comune. E’ il

rapporto con l’altro. Vediamolo nella prospettiva cristiana. Parliamo di Gv

Ep. 4,20: “Chi dice ‘Io amo Dio’ e odia il prossimo, è un bugiardo. Chi

non ama il fratello, che vede, non può amare Dio, che non vede”. E

vediamo la cosiddetta ‘parabola degli atei’ (Mt., 25, 31,46). Là dove Dio

riconosce credente anche chi non sapeva di esserlo, mentre chi credeva di

esserlo stato, viene solennemente dichiarato non esserlo mai stato.

E, d’altra parte, se nel più piccolo io so vedere Dio, quel più piccolo

può vedere in me quel Dio che lo vede attraverso di me.

Nell’uomo esiste un segnale fenomenologico preciso del suo essere e

sentirsi custode di unicità e di profondità. Questo segnale è il pudore. Che

allude, non a caso, a tre piste.

1. L’ ‘unicità’. Là dove in quell’uno ne va di tutto. Perché quell’uno è

l’unico essere necessario a sé stesso. E che, nel sentirsi necessario a sé

stesso, si prende sul serio – e si difende. E che, nel difendersi, ha pudore. E

di cui abbiamo, non a caso, – in atteggiamento speculare e simmetrico –

‘pietà’.

70
2. Il ‘legame’. Là dove – nell’altro – ne va del sé. Che, nel sentirlo, ha

viscerale pietà.

3. La ‘profondità’. Là dove nell’essere ‘oggettivati’ ne va della libertà

presa sul serio. Di cui è segnale, ancora una volta, il pudore.

‘Unicità’, ‘Legame’, ‘Profondità’. Tutte forme della Dignità. Perché

sono tre nomi del sacro. Quid – a questo punto – del sacro?

Il sacro è il nostro destino. Non potremo vivere di solo sacro. Non

vivremo senza sacro. E saremo veri credenti se avremo un Dio – o un

Valore che valga quanto Dio. E purché a noi sia toccato un Dio che abbia

rispetto del sacro.

Ma c’è un nome del sacro che sempre ci sfida. Con la sua infinita

capacità di comunicarci e con la nostra infinita incapacità di spiegarlo pur

avendolo compreso. E’ il nome di cui parlano moralisti, teologi,

costituzionalisti. Di cui tutti sanno e di cui nessuno sa dire. Questo

nome è la dignità. I tre assi dell’universo persona – l’unicità il legame

la profondità – sono tutti nomi della dignità. Che è più dell’intelligenza.

Più della libertà. Più della vita. Custodita da quel pudore che ne è il

segnale di confine e che dice: ‘Io sono più di ciò che appaio’72.

72
Vedi sul punto Giuseppe Capograssi, Opere, vol. IV, p. 400 ss.

71
Il sacro, in tale contesto, come l’ ‘essere ideale’ di Rosmini, non è

solo confine ma luce. Non solo divieto di ciò che contraddice la vita,

ma liberazione di tutte le possibilità della vita. Della crescita personale,

della pietà, dell’amore. Della dignità – quella ricca. Se riusciremo – un

giorno – a percepire il sacro non solo come luogo di divieti e terrore, ma

come indicatore di vita, potremo forse, allora, poter dire del sacro ciò che

John Donne ha scritto, in una sua bellissima lirica, dell’amore – anche

l’amore è una declinazione del sacro: “Per nulla al mondo, amore, avrei

spezzato questo sogno beato. Ma tu fosti saggia a svegliarmi. Tu non

spezzi il mio sogno, lo continui”.

C’è un aspetto paradossale del cristianesimo che non va mai

perduto. Esso ci dice di un Dio che, rompendo la crosta del terrore, rivela

il suo sacro come amore. E ci parla di un Dio di cui non si dà immagine –

che crea un uomo a sua immagine. L’uomo – cioè – è fatto a immagine di

un Dio che non ha immagine. Homo sum absconditus. Noli me tangere73.

E’ la grande lezione apofatica.

Qui, si aprirebbe un grande discorso, che non possiamo fare,

sull’importanza dei mistici nel dialogo fra le civiltà. Sì, diciamo dei

mistici. Perché sono gli eretici di tutti i sistemi. E possono accedere alla
73
Emmanuel Mounier, Trattato del carattere, Edizioni Paoline, Roma 1982, p. 610.

72
percezione del sacro come limite di ogni sacro. Perché la fede vera sa

attraversare il nulla della notte dei mistici salvandone il sapere dal

nulla. Come la parola non detta. Come la luce non vista. Come il volto

non toccato. Come il varco che custodisce ricchezza aprendosi sul

vuoto. Come ciò che, da noi negato, a noi riemerge e, negandoci, ci

costituisce. Come ciò che, relativizzandoci, ci costituisce. Come la

contraddizione che fonda e il paradosso che salva.

Giuseppe LIMONE

73

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