Esther Parada
continuo movimento di fuga e transizione territoriale. Nei canali tecnologici dei sistemi mediatici
orientamenti percettivi e traiettorie geografiche su una molteplicità di individui in fuga. In tal senso,
il potere si definisce come una ‘iper-codificazione’ dello spazio a prevenire, ritardare, invertire o
ingabbiare i flussi di una percezione liscia nella globalizzazione di direzioni ben definite. 2 Tuttavia,
gli spostamenti del corpo ‘migrante’ attraverso le frontiere/interfacce tra culture diverse producono
dei continui slittamenti percettivi. Se, con Brian Massumi, possiamo pensare gli spostamenti del
corpo come intrinsecamente connessi alle sue percezioni (nell’esperienza di un corpo che «si muove
sentendo e si sente muoversi»),3 il più piccolo passo si fa corrente generatrice di sensazioni infinite
intensivo. La fulminea o prolungata, fluida o violenta dislocazione della diaspora si riflette allora in
coinvolge sia il corpo in movimento attraverso paesaggi diversi sia i suoi osservatori
(apparentemente) fermi e disciplinati. Il corpo in viaggio si immerge e scompare nel flusso continuo
del movimento per poi riapparire e identificarsi altrove. La sua percezione si risolve in un continuo
tremolio di immagini che fa vacillare l’identità occidentale e quella dell’altro esotico, sfasandole e
1
G. Deleuze e F. Guattari, A Thousand Plateaus, Capitalism and Schizophrenia, London, Athlone, 2002, p.493. [Trad.
mia, N.d.T.] Versione italiana: Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Cooper e Castelvecchi, 2003.
2
Cfr. S. Muecke, “The Discorse of Nomadology. Phylums in Flux” in G. Genosko (ed): Deleuze and Guattari. Critical
Assessments of Leading Philosophers, London, Routledge, 2001.
3
Cfr. B. Massumi, Parables for the Virtual. Movement, Affect, Sensation, Durham & London, Duke University Press,
2002, p.1.
sfaccettandole tra spazi e tempi diversi, frammentandole in blocchi di identificazione etnica e
culturale non coincidenti. Confini, superfici geografiche e sensoriali, così come schermi e
fotografie, divengono spazi attivi: più che strumenti di semplice mediazione o supporto, veri e
Queste riflessioni sui movimenti e le percezioni del corpo diasporico prendono le mosse dal
saggio “Il Liscio e lo Striato” di Gilles Deleuze e Felix Guattari, nel quale i due filosofi associano
eventi storici come le scoperte geografiche e l’emigrazione al percorso di uno spazio striato, un
raggiungere) che possano servire da approdo alla soggettività de-territorializzata. 4 Con la sua griglia
tecnologicamente collegato all’arte sedentaria della tessitura. Spazio striato per eccellenza, il tessuto
trama e ordito. In questo spazio intessuto e striato, fili, linee e traiettorie sono subordinati a limiti e
realtà, gli spostamenti migratori non sono mai così saldamente ancorati e distinguibili da un
irrefrenabile nomadismo.
un sottofondo o una spinta sottesa verso il movimento puro, come una linea di fuga continua tra
punti fissi dove ciò che sta nel mezzo - le percezioni e trasformazioni subite durante il tragitto -
assumono un valore determinante. Allo stesso modo, le delimitazioni e le barriere di una percezione
cartograficamente organizzata si sciolgono nel percorso sensoriale di uno spazio percettivo liscio
(come quello desertico o anche glaciale), uno spazio di forze materiche e libera direzionalità di
vento, colori, odori. Nelle pratiche tessili nomadi tale spazialità si realizza nella sostituzione della
4
Deleuze e Guattari, “The Smooth and the Striated” in A Thousand Plateaus. pp.474-500.
struttura intessuta con il feltro, una stoffa liscia ottenuta solo dall’intreccio microscopico delle fibre
stesse e usata, ad esempio, dalle popolazioni nomadi turco-mongole per la creazione di abiti e tende.
Le immagini
descritta da Rosalind Krauss come l’atto di ristabilire «gli elementi ordinari della descrizione
topografica, cioè ricostruire, sotto forma di una fuga coerente verso un orizzonte ben definito e
strutturato, non tanto dalla prospettiva quanto dalla griglia cartografica.»5 Convenzioni culturali
dell’immagine, ingabbiando il corpo e le sue percezioni nella dicotomia tra soggetto e oggetto
secoli di esplorazioni, spedizioni e rilevamenti topografici, le opere di Sutapa Biswas, Yong Soon
Min e Esther Parada appaiono allo sguardo come immagini appiattite, luoghi desertici di un
‘aptica’, estendendo anche alla visione una funzione tattile.6 L’occhio si perde allora in un percorso
percettivo ‘step by step’, incapace di delineare una forma unitaria e dis-orientato dalla mancanza o
proliferazione di strutture canoniche quali prospettiva, orizzonte, sfondo, limite, profilo, forma,
Al di là delle evidenti differenze culturali, stilistiche e tematiche oltre che tecniche, le foto di
queste tre artiste condividono una decostruzione percettiva del realismo antropologico
5
R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Milano, Bruno Mondatori, 1996, p.10.
6
Cfr Deleuze e Guattari, A Thousand Plateaus, cit. p.492, 493.
superfici e sfondo dell’immagine. Attuata tramite le molteplici stratificazioni e manipolazioni
consentite dalla pratica fotografica in generale (e dal suo sviluppo digitale), tale rielaborazione
osservato negli strati materici e nei micro-intrecci della fotografia stessa. L’estetica del lavoro
intensivo, come nomadismo della percezione non più impigliata negli strati rappresentativi, ma
Tessiture dermiche
7
E. Straus, Du Sens ses Sens, Million, Grenoble, 1989, p.519, citato in G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la
filosofia ?, Torino, Einaudi, 2002, p.168.
L’artista anglo-indiana Sutapa Biswas raccoglie l’eredità mitologica ed iconografica della
tradizione Hindu per rilavorare la storia culturale indiana attraverso una ri-tessitura originale di
spazi e paesaggi sulla sua stessa superficie corporea. Nell’installazione Synapse (Sinapsi), Biswas
proietta una serie di diapositive sul suo corpo nudo in piedi, seduto o disteso, cullato e
incorporazione di divinità e simboli trasforma la tessitura dermica del corpo femminile. Dopo essere
stato percorso dalla luce, il corpo di Sutapa non è più semplice interfaccia di mediazione tra
osservatore e osservato, tra sinuosità corporea e rigidità tecnologica, tra reale e rappresentato, ma
diviene uno spazio liscio, paesaggio appiattito e continuo, superficie di incisione e rifrazione.
propriamente occidentali, il lavoro di Biswas dissolve ogni distanza. L’intimo contatto fotografico
fa della pelle uno spazio attivo di influenza reciproca, intreccio di pieghe corporee e altari, alberi
sacri, spiriti emergenti dagli spazi velati della memoria. Il contorno unitario del corpo/altro
oggettificato è polverizzato nella miriade di immagini che lo ricoprono privandolo di forme e profili
netti. Non più superfici passive o sfondi esotici tradizionali, il corpo femminile e il paesaggio
Posizionando il suo lavoro come pratica storica e modellando la sua poetica ad un livello
tattile e intimo, Biswas produce un testo potente e criticamente femminista che amplifica il mondo,
sovrapponendo e ridefinendo opposizioni come quella tra centro e periferia. I suoi esperimenti di
collage foto-dermico con immagini in bianco e nero di dimensioni naturali sono parte di
della fotografia – permanente eppure effimera, tangibile ma elusiva, intrecciata alla stessa illusoria
realtà del confine dermico – a consentire a Biswas di mettere alla prova le aspirazioni oggettive e
soggettiva.
Tessiture di carta
stavolta sulla carta - la storia coreana e la sua stessa corporeità. La struttura formale di questa
raccolta di immagini può essere decostruita come una stratificazione tra il corpo ed alcuni momenti
determinanti della storia coreana: una vera e propria dissezione/ricomposizione compiuta allo scopo
immagini è una semplice sovrapposizione di date sul corpo dell’artista (date come il 1953, anno
della fine della guerra coreana e sua stessa data di nascita), in altre immagini vediamo emergere
coreana.
stratificata delle immagini è ulteriormente complicata dall’aggiunta del testo. Donne coreane, tra cui
la madre dell’artista, in abito tradizionale posano accanto a veicoli militari tra parole, ritornelli
geografici tra Corea e Stati Uniti si risolve ancora una volta in una prospettiva confusa, in una
visione poliedrica dell’artista tra passato e presente, tra storia e narrazione, tra due luoghi e culture
suggerire la complessità dell’evento storico della colonizzazione e dei suoi effetti materiali.
La carta fotografica diviene spazio attivo di incontro e cambiamento. Nelle parole di Jacques
Derrida la carta, in tutti i suoi usi e aspetti (e quindi anche quello fotografico), si scava in profondità
e contrasto.8 Se le costrizioni materiali del foglio, i suoi limiti, la sua resistenza e le sue coordinate
tracciano uno spazio striato con un proprio senso e direzionalità, il procedimento fotografico lo
carta liscia e solo intensivamente marcata e percorsa. Piuttosto che superficie inerte disposta ‘sotto’,
che confine immobile e impassibile tra evento reale e immagine rappresentata, la carta viene offerta
alla percezione tramite «la simultaneità, la sinossi, la sincronia di ciò che non apparterrà mai al
medesimo tempo: più linee o tragitti (…) possono così coabitare la stessa superficie, darsi insieme
all’occhio in un tempo che non è esattamente quello della proliferazione unilineare.» 9 Così come la
carta ‘su’ cui Derrida scrive non è il sostrato di un discorso/significato lineare, ma la superficie di
sensorialmente, oltre ogni comprensione utilitaristica e semplicistica, gli intrecci profondi della
composizione fotografica, dove l’emulsione disegna un’immagine che appare nel suo immediato e
continuo scomporsi, sovrapporsi, ricomporsi. Nella foto la percezione scivola, quindi, tra la ‘frame’
8
Cfr. J. Derrida, “Scrivere sulla carta”, Aut Aut, 291-292, 1999, p.15-39.
9
Ivi, p.19.
dell’immagine, il contorno corporeo e i limiti dell’identità storica e nazionale, sfumati su un
Tessiture digitali
Dalla carta passiamo infine allo schermo digitale, richiamato tra l’altro dai verbi ‘taglia’,
Nelle stampe laser della Monroe Doctrine Series (Serie della Dottrina Monroe), l’artista messicana
Esther Parada rielabora visivamente un evento storico quale la presenza dei marines americani in
Nicaragua nel 1927, trasformando la foto nella matrice di diversi ingrandimenti e manipolazioni e
nella base di un collage di testo e dettagli visivi. La presenza statunitense in Sudamerica è inoltre
ulteriore della Monroe Doctrine dove la testa di un soldato nicaraguense è moltiplicata in quella che
Parada definisce ‘un’epidemia di militarizzazione’ lungo le frontiere tra Nord, Centro e Sud
America.
conservazione e accesso ai dati digitali, la combinazione di tali dati a vari livelli di risoluzione, e in
una varietà di modalità semantiche e sensoriali – immagine, testo, eventualmente suono – collocano
tessitura.10 La stessa Parada definisce l’immagine digitale come un telaio in cui intrecciare altro
materiale, un equivalente dei tessuti guatemaltechi in cui ricami elaborati giocano contro il pattern
intrecciato della stoffa, senza però ancorare le immagini alle griglie formali e molari di uno spazio-
nell’installazione A Thousand Centuries (Mille Secoli), dove una vecchia stereografia della tomba
di Colombo è interpolata visivamente ad una diapositiva degli anni ’80 delle strade dell’Havana,
10
Cfr. T. Druckrey (ed), Electronic Culture: Technology and Visual Representation, New York, Aperture, 1996.
con in più l’aggiunta di testi su Colombo, sulla stereoscopia (o stereografia) e sulla fotografia come
Nata un anno prima della fotografia, ossia nel 1838, con Charles Wheatstone, la stereoscopia
è l’illusione della profondità, ovvero l’effetto del rilievo che si ottiene osservando delle immagini
leggermente spostate, una per occhio, attraverso uno speciale visore chiamato steroscopio. Era
prevalentemente usata in pubblico per mostrare vedute di luoghi noti e meno noti (quindi spesso
associata alle invasioni coloniali e ai loro resoconti), fornendo le coordinate utili a produrre
l’illusione di archiviare, conoscere e dominare i luoghi più remoti e di ottenere una sorta di ‘atlante
significativo. Come scrive Rosalind Krauss, «Lo spazio stereografico è uno spazio prospettico reso
ancora più potente. Essendo strutturato come una sorta di visione senza campo laterale, la
sensazione di fuga in profondità è permanente e inevitabile, tanto più che lo spazio che circonda lo
spettatore è mascherato dal sistema ottico che deve mettere davanti agli occhi per visionare le
immagini, e che lo pone in un isolamento ideale. Tutto ciò che gli sta intorno, pavimento e pareti, è
escluso dal suo sguardo.»11 Estendendosi in una duplicità di piani, la stereoscopia crea attraverso di
essi un tunnel ‘risistemato’ tramite gli spostamenti dell’occhio, quei microsforzi muscolari che
topografico totale e ordinato si affidano quindi alla veduta stereoscopica ottocentesca: profondità
organizzata prospetticamente tramite la convergenza degli occhi verso un punto di fuga centrale in
primo o secondo piano. All’ordine della stereoscopia Parada sovrappone la dispersione digitale. Lo
schermo si trasforma, per dirla con Massumi, da interfaccia a spazio attivo. Per il filosofo, il
11
Krauss, Teoria e storia, cit. p.25.
spazio attivo è invece luogo di reciproca trasformazione, di affetto materiale da cui nessuno degli
elementi esce immutato e in cui nessuna posizione appare predominante.12 Sullo schermo digitale
come spazio attivo e aperto a visioni laterali, Parada scioglie il forte contrasto e la duplicità tra la
freddezza marmorea della stereoscopia coloniale e i vividi colori attribuiti digitalmente alle strade
dell’Havana senza ottenere alcuna visione unitaria, mentre l’incontro violento di due culture e tempi
Parada trasportano l’attenzione dello spettatore dal primo piano a particolari e dettagli inseriti nello
Margin (Al Margine), dove la narrativa in primo piano è ancora una volta una stereografia del 1939
di un monumento a Colombo. Attraverso l’uso della tecnica stereoscopica, in questa foto emergono
dell’immagine sono portate al centro. Ciò che prima era considerato un dettaglio assume la dignità
12
Cfr. B. Massumi, “Interface and Active Space. Human-Machine Design” in
http://www.anu.edu.au/HRC/first_and_last/works/interface.htm
Timothy Druckrey descrive la visione digitale come un processo dinamico in cui le nostre
catturano e imprimono i flussi e le onde continue dell’energia elettromagnetica, con gli apparati
digitali il flusso materico delle immagini è astratto e de-codificato in un’onda logaritmica, per poi
essere ridotto alla logica di un codice binario limitante nelle sue pur molteplici possibilità. E’ solo
nel momento della sua de-compressione sullo schermo che la potenzialità del digitale emerge
nell’attimo stesso della sua realizzazione e percezione attuale.14 L’apertura a-temporale della
percezione traccia una linea creativa tra computer e occhio, entrambi intesi come matrici proiettive
e assorbenti di energia. Nella foto digitale, il flusso energetico si dissolve in un flusso virtuale che
produce le immagini nella logica del proprio codice binario, decomprimendole poi nello schermo e
realizzando la trasgressiva promessa di condurre la percezione oltre i limiti del corpo, nel vivo della
materia stessa. Come Georges Bataille ci ricorda, ogni invasione nel territorio dell’indicibile
conduce alla fine dell’uomo inteso come entità cartesiana e paradigma logico di conoscenza mentre
Da questo sguardo ravvicinato e ‘materico’, le foto di Biswas, Min e Parada appaiono come
spazi di una geografia ‘liscia’. I loro corpi diasporici/colonizzati offrono ai movimenti irrequieti
come tracce di un’arte nomade, sovrapposizioni piatte dove l’intensa espressività della luce scorre,
culturale.
13
T. Druckrey, Electronic Culture, cit.
14
Sulla questione della astrattezza e, contemporaneamente, limitatezza compositiva del codice digitale e sulla sua
apertura al ‘virtuale’ nel momento percettivo vedi le due visioni di M. Lazzarato, Videofilosofia. La percezione del
tempo nel Postfordismo, Roma, Manifestolibri, 1996 e Massumi, “On the Superiority of the Analog” in Parables for the
Virtual, cit.
15
Deleuze e Guattari, A Thousand Plateaus, p.493. [Trad. mia, N.d.T.]