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la foresta e gli alberi

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Marx in questione
Il dibattito «aperto» dell’International
Symposium on Marxian Theory

A cura di
Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi

la città del sole


In copertina:

EDIZIONI «LA CITTÀ DEL SOLE s.r.l.»


Napoli
ISBN 978-88-8292-433-1


Indice

Riccardo Bellofiore-Roberto Fineschi,


Prefazione p. 7

Fred Moseley,
Introduzione 15

Geert Reuten,
Il difficile lavoro di una teoria del valore sociale:
metafore e dialettica sistematica
all’inizio del Capitale di Marx 25

Christopher J. Arthur,
Il concetto di denaro 59

Martha Campbell,
L’oggettività del valore versus l’idea
di azione abituale 85

Patrick Murray,
«Empirismo raddoppiato».
Il posto della forma sociale e della causalità
formale nella teoria marxiana 117

Riccardo Bellofiore,
Marx e la fondazione macro-monetaria
della microeconomia 151


Tony Smith,
La relazione capitale/consumatore
nella produzione snella: la continua rilevanza
del secondo libro del Capitale p. 209

Fred Moseley,
Lo sviluppo della teoria marxiana
della distribuzione del plusvalore 241

Roberto Fineschi,
I quattro livelli di astrazione del concetto marxiano
di «capitale» 279

Bibliografia 313

Seminari e convegni ismt 1991-2008 335

Volumi esito di seminari o convegni ismt 340

Libri e cura di libri di autori ismt 341

Nota sugli autori 345


Riccardo Bellofiore-Roberto Fineschi
Prefazione



I saggi raccolti in questo volume costituiscono una cernita
dalla vasta messe di lavori sulla teoria marxiana pubblicati dai
componenti dell’International Symposium on Marxian Theory
(ISMT). Come spiega nella sua introduzione Fred Moseley, che
ha dato vita al gruppo di economisti e filosofi nel 1991, l’ISMT
si riunisce da allora pressoché annualmente (si veda più avanti
la lista dei seminari e dei convegni che hanno avuto luogo dal
1991). Spesso gli incontri hanno avuto sedimentazione in vo-
lumi collettivi, altre volte si è trattato di discussioni libere sulle
ricerche in corso da parte dei suoi componenti. In appendice a
questo volume viene fornito un elenco dei volumi prodotti come
ISMT, e una selezione dei libri scritti o curati dai suoi membri,
allo scopo di dare al lettore un primo orientamento per eventuali
ulteriori approfondimenti.
Chi si limitasse a leggere gli scritti qui resi disponibili, può
comunque cogliere immediatamente quello che ci pare l’aspetto
più significativo e prezioso di questa esperienza intellettuale. In
contrasto con buona parte delle esperienze che mettono insieme
studiosi di ispirazione marxista, qui la regola è, non soltanto
l’approfondimento critico e filologico, ma anche e soprattutto
l’apertura e la problematizzazione della ricerca. Su ogni questione
affrontata, è possibile assistere allo spettacolo, tutto sommato
non così consueto, di studiosi che, pur condividendo gli inter-
rogativi, si dividono sulle risposte. E che proprio a partire da
ciò, grazie ad uno stile di discussione a un tempo spietato e di
reciproca stima, sono in grado di andare alla radice delle que-
stioni più controverse della teoria marxiana: proponendo nuove
prospettive, nuove interpretazioni, talora nuove ricostruzioni.


Quali siano i problemi che hanno unito negli anni gli studiosi
dell’ISMT, è presto detto. Si tratta, nella sostanza, di due nodi
cruciali. Da un lato, l’impossibilità di comprendere Marx senza
prestare la dovuta attenzione alle fondamenta del suo discorso,
in senso lato “filosofiche”, e quindi al rapporto, dibattuto ma
ineludibile, con Hegel. Dall’altro lato, l’inseparabilità della teoria
marxiana del valore dal suo versante monetario, e l’intreccio tra
dimensione sincronica e dimensione diacronica che la caratterizza.
Nell’ISMT è anche condivisa una sorta di doppia procedura di
messa alla prova del dispositivo categoriale del Capitale. Anche
qui con diverse gradazioni: la “verifica” testuale, certo; ma anche
la lettura “a ritroso” di Marx, a partire dagli interrogativi teorici
del presente. Così, pressoché tutti gli autori dell’ISMT ritengono
che l’esposizione dialettica non sia un linguaggio esoterico di cui
si possa fare a meno. E pensano che la discussione sul significato,
assieme metodico e reale, della “astrazione” in Marx, sia centrale
per comprendere sia il movimento della “concretizzazione” dei vari
livelli di analisi passando dal primo al terzo libro, sia la “costitu-
zione” stessa del valore e del capitale.
A partire di qui, è possibile, secondo alcuni dei suoi compo-
nenti, insistere sulla “interpretazione” del lascito di Marx: una in-
terpretazione, per di più, del tutto “fedele” alla lettera e allo spirito
dell’autore di Treviri, e che consentirebbe oggi una ripresa pura e
semplice di quella linea teorica senza sostanziali emendamenti o
integrazioni. Altri convengono invece sul principio che ogni in-
terpretazione è inevitabilmente una “ricostruzione”, tanto più in
un autore così complesso come Marx, e per un’opera così incom-
piuta, e ancora in parte sconosciuta, come Il Capitale. L’esigenza
di una “ricostruzione” è ancor più necessaria per chi è convinto
della natura immatura, o discutibile, di alcuni risultati della critica
dell’economia politica, almeno nella sua formulazione originaria.
Tra i punti particolarmente controversi ne ricordiamo qui solo
alcuni. Dal punto di vista delle questioni più strettamente econo-
miche, tutti gli autori dell’ISMT ritengono la teoria marxiana del
valore sostanzialmente valida, o nella sua formulazione originaria, o

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tenuto conto di apporti ricostruttivi. Il dialogo si incentra, innanzi
tutto, sulla definizione di “lavoro socialmente necessario”: se sia
possibile ritenere che si tratti di una determinazione puramente
“tecnica” nella produzione immediata, o se invece quella categoria
non comprenda intrinsecamente anche un riferimento al bisogno
sociale e alla domanda ordinaria. In secondo luogo, ad essere con-
troversa è la teoria del salario: per alcuni il “lavoro necessario” è
da intendersi come il lavoro comandato dal salario monetario (e
da questo punto di vista il primo libro viene riletto alla luce del
terzo), mentre altri vedono in questo un “lavoro pagato” che può
divergere dal lavoro necessario inteso come il lavoro richiesto per la
produzione dei beni salario. In terzo luogo, si dibatte se sia sensato
definire come “macromonetaria” la teoria di Marx; e se la risposta è
positiva, di quale sia il significato da attribuire alle due qualificazio-
ni, “macro” e “monetaria”. Infine, per alcuni la procedura marxiana
della trasformazione dei valori in prezzi costituisce sì il problema
principale della teoria marxiana, ma trova in Marx una soluzione
non compresa dal successivo marxismo, e tanto meno dalle critiche
neoricardiana e neoclassica; per altri, la trasformazione è questione
derivata e sostanzialmente non problematica, visto che la difficoltà
principale della teoria marxiana starebbe piuttosto nella ricondu-
zione del valore a esposizione del solo lavoro in denaro, all’interno
di una teoria della moneta-merce. Secondo questa lettura, il modo
con cui viene posta l’identità tra valore e lavoro, o tra neovalore e
lavoro vivo, per il tramite dell’espressione monetaria del lavoro o
di una ante-validazione monetaria della valorizzazione, si traduce
in una diversa posizione per quel che riguarda la relazione tra valori
e prezzi, e la stessa teoria della distribuzione.
Per quel che riguarda la discussione più strettamente filoso-
fica, essa si focalizza sulla comprensione del rapporto tra Marx e
Hegel. Un punto comune ai partecipanti all’ISMT è l’idea che la
critica dell’economia politica costituisca un esempio di dialettica
sistematica, con un riferimento interno forte alla Logica di Hegel:
e questo non solo nei Grundrisse, ma anche nel Capitale. In tutte
le sue opere economiche, si sostiene, Marx intende ricostruire nel

11
pensiero le determinazioni essenziali del capitale. Inizia perciò dalle
forme più semplici ed astratte (merce, valore, denaro), e procede
poi passo dopo passo a determinare categorie più complesse e
concrete, sino a mercato mondiale e crisi. Più controversa è la
valutazione del giudizio di Marx su Hegel. Per alcuni, vi sarebbe
una omologia tra l’Idea Assoluta in Hegel e la nozione di capitale in
Marx. Per altri, Hegel non farebbe alcun riferimento a un Soggetto
metafisico in grado di porre i propri presupposti idealisticamente;
secondo questo modo di vedere le cose, Marx nel Capitale, lungi
dal presentare una critica simultanea del capitale e dell’idealismo
assoluto, svolgerebbe nient’altro che una critica del capitale in
tutto e per tutto hegeliana dal punto di vista del metodo. Alcuni si
spingerebbero sino a vedere in Marx, come nello stesso Hegel, un
precursore del realismo. Infine, un altro punto su cui la discussione
è aperta è se il riferimento di Marx ad Hegel vada sviluppato con
riferimento alla logica dell’essenza o alla logica del concetto.

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Nota ai testi

I testi pubblicati sono la versione italiana di alcuni contributi ap-


parsi nei volumi dell'ismt (se ne veda l’elenco in appendice a questo
volume) o di relazioni presentate alle loro conferenze. Le traduzioni
(ad eccezione dei saggi di Bellofiore e Fineschi) sono di Tommaso
Redolfi Riva. Si ringrazia Ascanio Bernadeschi per la preziosa colla-
borazione nella revisione del testo.
In dettaglio:
Geert Reuten, The Difficult Labour of a Theory of Social Value; Meta-
phors and Systematic Dialectics at the Beginning of Marx’s “Capital”,
in Moseley 1993.
Christopher J. Arthur, The Concept of Money.
Martha Campbell, The Objectivity of Value versus the Idea of Habitual
Action, in Bellofiore-Taylor 2004.
Patrick Murray, Redoubled Empiricism: The Place of Social Form and
Formal Causality in Marxian Theory, in Moseley-Campbell 1997.
Riccardo Bellofiore, Marx and the Macro-monetary Foundation of Mi-
croeconomics, in Bellofiore-Taylor 2004.
Tony Smith, The Capital/Consumer Relation in Lean Production: The Con-
tinued Relevance of Volume Two of Capital, in Arthur-Reuten 1998.
Fred Moseley, The Development of Marx’s Theory of the Distribution of
Surplus Value, in Moseley-Campbell 1997.
Roberto Fineschi, The four Levels of Abstraction ���������������������
of Marx’s Concept of
«Capital», presentato all’International Symposium on Marxian
Theory XV, Marx: sobre el concepto de capital, 11-14 luglio, Uni-
versidad Autónoma Metropolitana – Unidad Xochimilco, Città del
Messico.

13
14
Fred Moseley

Introduzione
all’International Symposium on Marxian Theory

15
16
Negli anni Ottanta, mi resi conto di un’importante lacuna
negli studi marxiani: la mancanza di rapporti e di dialogo fra
economisti e filosofi.
Gli economisti marxiani si erano occupati in genere di pro-
blemi quantitativi (i prezzi, il profitto, il «problema della trasfor-
mazione», la caduta del saggio di profitto, ecc.) e in gran parte si
erano disinteressati di questioni più filosofiche e metodologiche (la
struttura logica delle teorie economiche, la natura delle assunzioni,
ecc.). Dal canto loro, i filosofi marxiani si erano dedicati più al
metodo dialettico di Marx e alla relazione fra Marx e Hegel, senza
tentare di collegare queste osservazioni metodologiche ai proble-
mi quantitativi che interessano gli economisti. Io stesso sono un
economista con una modesta cultura filosofica. Iniziai così a do-
mandarmi che cosa potessero offrire i filosofi marxiani al dibattito
quantitativo degli economisti e, viceversa, che cosa potessero offrire
gli economisti marxiani al dibattito metodologico dei filosofi.
Così decisi di organizzare un piccolo seminario interdisciplina-
re, composto da otto partecipanti equamente divisi fra economisti
e filosofi per vedere se fosse effettivamente possibile instaurare un
dialogo reciprocamente proficuo. Ottenni un fondo di ricerca dal
Mount Holyoke College dove tuttora insegno e, quindi, cercai di
individuare, fra coloro che conoscevo o personalmente o leggendo
la letteratura a riguardo, i sette migliori studiosi internazionali.
I quattro filosofi scelti furono Chris Arthur (UK), Paul
Mattick Jr. (USA), Patrick Murray (USA) e Tony Smith (USA);
i tre economisti (oltre me) furono Martha Campbell (USA), Gu-
glielmo Carchedi (Italia, ma docente in Olanda) e Geert Reuten
(Olanda). Quasi tutti questi studiosi avevano da poco pubblicato

17
libri su temi afferenti. Con mio grande piacere, tutti accettarono
il mio invito e la conferenza fu organizzata nel giugno del 1991 a
Mount Holyoke.
La struttura della conferenza (che è rimasta pressoché la
stessa fino ad oggi) era così organizzata: due sessioni al gior-
no, ogni sessione dedicata ad un saggio. Questi erano già stati
distribuiti alcune settimane prima, in modo che tutti i parte-
cipanti giungessero alla conferenza preparati a dibattiti appro-
fonditi su ciascuno di essi. Ne risultarono discussioni appro-
fondite e molto estese: un modo di procedere assai diverso da
quello abituale nelle conferenze accademiche (ci permettiamo
di raccomandare questa forma di lavoro molto produttiva).
La conferenza ebbe buon esito, ben oltre le mie più rosee
aspettative, e i saggi presentati furono infine pubblicati dalla Hu-
manities Press (si veda la lista alla fine di questa introduzione). Il
successo fu tale che decidemmo di ripetere l’incontro l’anno succes-
sivo. In questa occasione stabilimmo di tenerne annualmente uno e
demmo un nome al gruppo: International Symposium on Marxian
Theory. Le prime cinque conferenze furono a Mount Holyoke;
da allora, ci siamo riuniti a turno presso le varie università dove
insegnano i membri del gruppo: presso l’Università di Amsterdam
(due volte), l’Università di Bergamo (tre volte), la Creighton Uni-
vesity, Iowa State University; in altri casi siamo stati invitati, per
es. dall’Universidad Autonoma Metropolitana a Città del Messico
(due volte, conferenze organizzate da Mario Robles-Baez). Colgo
l’occasione per ringraziare ancora una volta tutte queste università
per aver ospitato le nostre conferenze in questi anni e per aver
generosamente offerto un supporto alla scienza critica marxiana.
La composizione del gruppo è cambiata molto poco nel corso
degli anni. Guglielmo Carchedi e Paul Mattick hanno lasciato il
gruppo in momenti diversi; essi sono stati degnamente sostituiti da
due italiani – Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi – che sono i
curatori di questa edizione. Nicola Taylor (Australia) si è aggiunta
al gruppo da alcuni anni e Andrew Brown (UK) si è unito a noi
soltanto recentemente.

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I temi generali e le questioni relative al metodo logico nel
Capitale sono rimasti pressoché gli stessi nel corso degli anni.
Dopo un certo periodo abbiamo deciso di dedicare un incontro al
secondo libro del Capitale, di solito trascurato negli studi marxiani.
Abbiamo poi stabilito di fare lo stesso per il terzo e per il primo
libro, completando una trilogia sui tre libri che in seguito è stata
pubblicata. Nel 2003 abbiamo organizzato una conferenza specifica
sulla teoria marxiana del denaro, invitando alcuni specialisti (Suzanne
de Brunhoff, Duncan Foley, Makoto Itoh, Claus Germer, Costas
Lavapitas e Anita Nelson). In seguito è stato pubblicato un libro
contenente i saggi presentati alla conferenza. Nel 2006 (Bergamo)
sono state oggetto del nostro seminario le prospettive aperte dalla
nuova Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), la nuova edizione
storico-critica delle opere di Marx ed Engels, e abbiamo invitato
alcuni esperti tedeschi direttamente coinvolti nel progetto editoriale
(Rolf Hecker e Regina Roth. Vi hanno preso parte anche altri stu-
diosi italiani e tedeschi). Gli interventi saranno raccolti in un libro
in uscita nel 2008. In certe occasioni le nostre conferenze si sono
concentrate su temi precisi, in altre non hanno avuto un oggetto
particolare; in questo caso i membri hanno presentato ciò su cui
stavano lavorando in quel momento.
È difficile riassumere le nostre discussioni di questi anni,
ricorderò soltanto alcuni punti salienti dal mio personale punto
di vista (che non coincide necessariamente con quelli degli altri
membri). La sezione del Capitale che ha maggiormente goduto
della nostra attenzione nei saggi e nelle discussioni è stata quella
iniziale, il capitolo primo del primo libro. Non c’è da sorprenderse-
ne, infatti esso è d’importanza cruciale oltre a essere estremamente
complesso e aperto a molteplici interpretazioni. Un punto nodale
del primo capitolo, sul quale tutti noi ci siamo trovati d’accordo,
è che la merce con cui Marx inizia è un prodotto della produzione
capitalista, non della «produzione mercantile semplice» pre-capi-
talistica. Marx analizza la merce come elemento più astratto della
produzione capitalistica nel suo complesso, da cui derivano tutti
gli altri elementi. In altre parole, l’interpretazione «logico-storica»

19
del metodo logico di Marx, così come è stata presentata da Engels
e Meek, è erronea su questo punto importante.
Al di là di questo, però, ci sono dissensi significativi sul-
l’interpretazione del primo capitolo. Concordiamo in genere sul
fatto che Marx cerchi, nel primo paragrafo, di derivare il lavoro
astratto come sostanza del valore che determina il valore di scam-
bio delle merci. Tuttavia, c’è un notevole disaccordo sulla validità
e necessità di questa derivazione. Alcuni membri affermano che
Marx non è riuscito a dare un’adeguata spiegazione del perché
abbia indicato il lavoro come proprietà comune delle merci che
determina il loro valore di scambio, o che non è riuscito a chiarire
come il lavoro qualificato possa essere ridotto a lavoro semplice.
Questi studiosi sostengono inoltre che le importanti conclusioni
qualitative della teoria di Marx possono essere derivate attraverso
il concetto marxiano di lavoro astratto come sostanza del valore.
Altri membri accettano, invece, la derivazione di Marx non come
una «dimostrazione logica», ma piuttosto come un’argomentazione
a sostegno della plausibilità di questa ipotesi, la cui validità dipen-
de dalla capacità che essa ha di spiegare importanti fenomeni del
capitalismo. Questi studiosi argomentano, inoltre, che il principale
vantaggio dell’assunzione del lavoro astratto è che esso permette
di sviluppare una teoria quantitativa del profitto, questione fon-
damentale della teoria marxiana.
Altro disaccordo connesso riguarda l’esatto significato e la
determinazione del tempo di lavoro socialmente necessario. La
questione di fondo è se il tempo di lavoro socialmente necessario
sia determinato come una specifica quantità nella produzione at-
traverso le condizioni medie di produzione, prima dello scambio,
o se esso sia determinato nello scambio e dipenda in parte dalla
domanda. Personalmente ritengo che in questa discussione si con-
fondano due diversi significati di «tempo di lavoro socialmente
necessario» presenti nella teoria di Marx. Il primo significato (Tem-
po di Lavoro Socialmente Nencessario 1 – TLSN1) è considerato
dalla prospettiva di un’industria nel suo complesso ed è il tempo
di lavoro socialmente necessario che determina i valori di scambio

20
delle merci per l’industria in condizioni di equilibrio (ad un alto
livello di astrazione). Ritengo che questo primo significato del
TLSN1 sia determinato nella produzione, dalle condizioni medie
di produzione. Poiché il TLSN1 determina i valori di scambio in
condizioni di equilibrio, esso presuppone che l’offerta sia uguale
alla domanda nell’industria e che quindi la domanda non sia de-
terminante. Il secondo significato del tempo di lavoro socialmente
necessario (TLSN2) è considerato dalla prospettiva dei produttori
individuali. Poiché la produzione capitalistica non è pianificata ed
è regolata soltanto attraverso lo scambio, i produttori individuali
non sanno mai quale sia la domanda per le loro merci né in che
misura il loro lavoro conterà come «socialmente necessario». Se
c’è un eccesso di offerta di una merce, il suo prezzo di mercato
scenderà al di sotto del suo prezzo di equilibrio e un’ora di tempo
di lavoro tecnicamente medio conterà meno di un’ora di tempo
socialmente necessario nel senso del TLSN2. Allora il TLSN2 si
determina nello scambio e dipende in parte dalla domanda. Ma
questa conclusione è del tutto compatibile con l’altra per cui il
TLSN1 – che determina i valori di scambio di equilibrio – si
determina nella produzione ed è indipendente dallo scambio e
dalla domanda. Conseguentemente ritengo che gran parte del
nostro gruppo concorderebbe sul fatto che Marx assuma di solito,
nei tre libri del Capitale, che l’offerta sia uguale alla domanda e
che quindi la sua teoria del valore e dei prezzi di produzione sia
relativa ai prezzi di equilibrio e non agli effettivi prezzi di merca-
to. Allo stesso tempo, c’è anche un accordo generale sul fatto che
Marx enfatizzi anche quella tendenza immanente al capitalismo al
disequilibrio e alle crisi, dovute alla mancanza di pianificazione e
alla sua natura anarchica.
Un altro punto importante sul quale tutti i membri del
gruppo concordano è relativo al fatto che il denaro ha un ruolo
molto più importante nella teoria di Marx di quanto sia general-
mente riconosciuto. Tutti pensano che Marx derivi il denaro nel
terzo paragrafo del primo capitolo come la «forma fenomenica
necessaria» del lavoro astratto e del tempo di lavoro socialmente

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necessario, sebbene ci siano disaccordi significativi sulle interpre-
tazioni particolari e sulla valutazione di questa derivazione. Tutti
gli autori concordano sul fatto che il denaro continui ad avere un
ruolo centrale in tutto il primo libro come nei seguenti due. Il
significato del denaro nel primo libro è espresso chiaramente dalla
«formula generale del capitale» che è introdotta nel quarto capi-
tolo ed è simbolicamente espressa in questo modo D-M-(D+ΔD)
– denaro che diviene più denaro. Questa formula generale pone
il problema fondamentale di cui tratta il primo libro – quale sia
l’origine dell’incremento del denaro (ΔD) che è il tratto caratte-
ristico del capitale. Allora la comune interpretazione, secondo la
quale il primo libro è relativo soltanto ai valori-lavoro, è errata.
Un’altra importante questione su cui ritengo concordi la
maggior parte del gruppo (sebbene non tutti), pur da differenti
prospettive, è che nella teoria di Marx l’ammontare complessivo
del plusvalore è determinato prima della sua divisione in parti
individuali (profitti per ogni industria, profitti commerciali, inte-
resse e rendita). La teoria del plusvalore nel primo libro riguarda
la relazione di classe tra la classe lavoratrice nel suo complesso e
la classe capitalista nel suo complesso. Il plusvalore totale che è
prodotto dalla classe lavoratrice nel suo complesso è diviso tra i
capitali individuali (e tra differenti tipi di capitali) in relazione
ad alcune leggi che sono analizzate nel terzo libro. Il primo e più
importante aspetto di questa distribuzione del plusvalore è la deter-
minazione del saggio generale di profitto e dei prezzi di produzione
nella seconda sezione del terzo libro. Secondo la logica di Marx,
il saggio generale del profitto è determinato dal rapporto tra il
plusvalore complessivo (già determinato) e il capitale complessivo
investito, ed in seguito il saggio di profitto è preso come dato nella
determinazione dei prezzi di produzione. Questo metodo della de-
terminazione anteriore dell’ammontare complessivo del plusvalore
è fondamentalmente diverso dalla determinazione simultanea dei
prezzi di produzione e del saggio di profitto nella teoria sraffiana e
nella lettura sraffiana della teoria di Marx. In altre parole, l’inter-
pretazione sraffiana fraintende questa questione cruciale.

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Per il futuro prevediamo di continuare ad incontrarci annual-
mente per lavorare su questioni essenziali relative al metodo logico
di Marx nel Capitale. Incoraggiamo altri, che siano interessati e che
desiderino lavorare su questi temi, a contattarci via mail o in altro
modo (gli indirizzi di posta elettronica sono inclusi nelle biografie
degli autori).
Dovrei aggiungere che le nostre conferenze non sono «tutto
lavoro e niente divertimento». Il duro lavoro durante le sessioni è
di solito così stimolante che i giorni volano. E la sera ci rilassiamo
insieme mangiando, bevendo e conversando piacevolmente. Questi
gradevoli «simposi» non sono stati secondari per il successo del
gruppo, siamo infatti diventati amici e ciò ci ha permesso di lavo-
rare molto produttivamente, insieme, anche in quelle circostanze
in cui le discussioni sono state aspre.
Infine, siamo molto grati al Ministro italiano dell’Università e
della Ricerca per aver finanziato il progetto di ricerca «Gli esiti della
filosofia classica tedesca: pubblicazione di testi e studi», (PRIN,
2004, Prot. 2004115789, coordinatore scientifico nazionale Mario
Cingoli, Università di Milano Bicocca) ed in particolare alle unità
di Siena (responsabile scientifico locale Maria Luisa Barbera) e di
Bergamo (responsabile scientifico locale Riccardo Bellofiore) che
hanno fornito i fondi per questa pubblicazione. Ci auguriamo che,
negli anni a venire, essa possa stimolare anche in Italia ricerche
interdisciplinari tra economisti e filosofi marxiani.

23
24
Geert Reuten

Il difficile lavoro di una teoria del valore sociale:


metafore e dialettica sistematica all’inizio
del Capitale di Marx

25
26
Per quanto sembri che la scienza della natura sia sorta dietro la
spinta di quella sociale1, gli scienziati sociali del diciottesimo e del
diciannovesimo secolo si sono sentiti in dovere di esprimere le proprie
innovazioni teoriche con metafore mutuate dalle scienze naturali, in
particolare dalla fisica (cfr. Mirowski 1990). A questo proposito la
nascita della scienza sociale marxista nel diciannovesimo secolo non
fa eccezione. Questo è sorprendente perché Marx era consapevole
degli aspetti naturalistici dell’economia politica classica. È vero che
prendere in prestito metafore dalla fisica non significa essere natu-
ralisti, tuttavia le metafore, per quanto inevitabili, possono essere
pericolose (come aveva già osservato Hegel). Mostrerò che all’interno
della scienza sociale marxista, la metafora della sostanza di valore, così
come è stata introdotta da Marx (Capitale, I) ha avuto un ruolo molto
equivoco; sembra che questa metafora venga intesa nel senso di una
reale incorporazione, almeno da parte di un’importante corrente del
marxismo. Naturalmente, essendo il nostro pensiero così legato al
linguaggio, è sempre difficile distinguere il linguaggio metaforico
da ciò che pensiamo realmente. È comunque importante cercare di
essere consapevoli delle metafore e dei loro fini.
Sebbene la metafora della sostanza di valore sia stata usata da
Marx (Capitale, I) sulla scia di Hegel, il collegamento all’incor-
porazione sembra derivare dall’economia politica classica. Mo-
strerò come la combinazione della 1) metafora della sostanza e
il residuo classico dell’incorporazione con 2) il metodo soltanto

1
Paolucci (1974: 108) afferma che Francis Bacon si è ispirato a Machiavelli,
che ha analizzato le leggi del governo come esso è realmente e non come dovrebbe
essere. Cfr. Mattick, Jr. (1986: 113), sulla metafora della legge naturale presa dalla
«immagine cristiana medievale di Dio come legislatore supremo della creazione».

27
implicito del Capitale, e, in particolare, la mancanza di chiarezza
relativa alle astrazioni utilizzate da Marx, abbiano rallentato non
poco la nascita di una teoria del valore sociale (una teoria del
valore come fenomeno puramente sociale e istituzionale). Penso
che una tale teoria sia nello spirito del Capitale di Marx. Mal-
grado l’esplicito rifiuto marxiano del naturalismo classico, il Ca-
pitale sembra portare con sé i residui di tale naturalismo: questo
può essere spiegato dalla sua insufficiente chiarezza, conseguenza
della rottura con i suoi predecessori (caratteristica comune
questa ad ogni teorico che rompe con una certa tradizione).
Mostrerò in che misura quella marxiana possa essere considera-
ta una teoria del valore incorporato e fino a che punto il lavoro sia
concepito come sostanza del valore. In seguito analizzerò come ciò
abbia influenzato l’attuale teoria marxista del valore, specialmente
nelle sue versioni di teoria del lavoro incorporato e di teoria del la-
voro astratto. A mio avviso, queste teorie hanno una serie di difetti
che possono essere ricondotti all’idea della sostanza di valore. Infine,
cercherò di far vedere come questi difetti possano essere superati.
Spero di poter mostrare che il modo in cui si interpretano le
astrazioni utilizzate da Marx è fondamentale per l’analisi della sua
teoria del valore. Queste astrazioni sono dialettiche o analitiche? È
difficile rispondere a questa domanda perché Marx non si esprime
in modo affatto esplicito sul proprio metodo. Soprattutto è ambiva-
lente il suo atteggiamento verso la logica di Hegel. In primo luogo
esporrò la mia opinione relativa alla logica dialettica. Da questa pro-
spettiva verrà analizzata la teoria del valore di Marx e verrà presen-
tata la mia idea di ricostruzione della teoria del valore-lavoro. Farò
inoltre delle osservazioni generali sul metodo marxiano nel Capitale.

Dialettica sistematica
Il fatto che il metodo di Marx sia rimasto soltanto implicito
nel Capitale ha da sempre reso difficile una discussione della sua
opera tanto fra i suoi fautori quanto tra questi ultimi e i suoi critici.
Sembra non ci sia altra via d’uscita se non nell’esplicitazione delle
proprie inclinazioni metodologiche: dal momento che le osser-
28
vazioni empiriche sono cariche di teoria (Popper), le valutazioni
teoriche saranno cariche metodologicamente. Le mie inclinazioni
metodologiche – ispirate alla logica di Hegel – non sono del tutto
inverosimili in relazione a Marx. Marx ha più volte sottolineato il
proprio debito con la logica dialettica (cfr. Arthur, 1986, Echever-
ria, 1978, Murray, 1988b, Smith, 1990c, e i contributi presenti in
Schmidt, 1969). L’introduzione ai Lineamenti ci mostra diverse
caratteristiche riconducibili alla dialettica sistematica. In altre opere,
tuttavia, Marx sembra allontanarsi da questo approccio. Il breve pro-
filo del metodo dialettico-sistematico che segue potrebbe mostrarsi
difficile se lo si astrae dal contenuto della teoria. Per dare una rap-
presentazione più completa includerò alcuni concetti che sono meno
rilevanti per i temi che saranno discussi nei paragrafi seguenti (essi
saranno discussi nei capoversi contrassegnati da un asterisco [*]).
La dialettica sistematica, o dialettica concettuale, si riferi-
sce alla dialettica così come è stata sviluppata da Hegel nel-
la sua logica, una logica dello sviluppo dialettico-concettua-
le. Si deve assolutamente distinguere questa dialettica da una
teoria dello sviluppo dialettico-storico (come nella filosofia
della storia hegeliana) o da una teoria dello sviluppo stori-
co dei concetti (come nella storia della filosofia hegeliana) 2.
Il punto di partenza della esposizione (Darstellung) della teoria
dialettica è un concetto universale astratto – un concetto astratto
onnicomprensivo. Questo punto di partenza è esso stesso il risultato
di un processo di ricerca, di appropriazione critica delle percezioni
empiriche e delle teorie esistenti (di esse). Questo concetto astratto
è il punto di partenza della teoria e della sua esposizione (Capitale,
I: 44; Lineamenti, I: 36). Con tale concetto astratto, il pensiero non
può plausibilmente fare altro che pensarne la negazione astratta
o la astratta particolarizzazione. In entrambi i casi (negazione e
particolarizzazione), i concetti opposti riguardano la stessa cosa o
lo stesso concetto, ed è proprio in questo senso che questi opposti
2
Le considerazioni presenti in questo paragrafo derivano dalla parte me-
todologica di Reuten 1988. Una discussione più ampia si trova in Reuten e
Williams 1989, pt.1.

29
sono in contraddizione. In questo senso, pensare queste cose o
questi concetti significa articolare il loro sdoppiamento [doubling]
– cioè l’universale si sdoppia nell’universale e nel suo opposto, o nel-
l’universale e nel particolare (l’opposizione valore-valore d’uso è un
esempio del primo; l’opposizione lavoro particolare-lavoro universale
[che verrà trattata in modo più ampio in seguito], o, in termini più
semplici, l’opposizione animele-gatto, sono esempi del secondo).
* Su queste opposizioni sono necessari due ulteriori commenti.
In primo luogo, è scopo precipuo dell’esposizione quello di risolvere
la contraddizione dalla quale partiamo; è questo il processo del pen-
siero che dovrebbe permettere la comprensione della realtà. «L’essenza
della filosofia consiste precisamente nel risolvere la contraddizione
dell’intelletto» (Hegel, 1970: 71). In secondo luogo, sussumere im-
mediatamente fenomeni empirici singoli come particolari sotto gli
universali fornisce soltanto astrazioni vuote. Una ragione di ciò è che
tale sussunzione ci indica che cosa tali fenomeni hanno in comune,
ma non come siano connessi l’uno con l’altro una volta uniti; un’altra
ragione è che è proprio la differenza che determina i fenomeni come
tali, ma questa differenza non ci dice ciò che li unisce. Finché non si
ha la differenza nell’unità non si ha alcuna determinazione concreta.
È questa doppia determinazione (la differenza nell’unità) che cerca
il pensiero dialettico sistematico. Come dice Hegel: «La verità del
distinto è il suo essere in unità. E solo attraverso questo movimento
l’unità è effettivamente concreta» (Hegel, 1940: 83).
* L’oggetto della esposizione deve cogliere i fenomeni dai quali
comincia la nostra percezione come un concreto, cioè come «sintesi
di molte determinazioni, quindi unità del molteplice» (Lineamenti,
I: 27). Ma ciò è possibile soltanto se questi sono fenomeni necessari
e non contingenti (per esempio, se abbiamo stabilito che la politica
monetaria è necessaria, allora le politiche di credito o di apertura
del mercato possono essere soltanto contingenti). I fenomeni con-
tingenti non possono essere spiegati come determinanti l’interna
unità delle molte determinazioni – quindi non come necessari – ma
soltanto come determinanti esterne (in questo saggio, comunque,
non raggiungeremo questo stadio di contingenza dei fenomeni).

30
Una caratteristica ulteriore del metodo della dialettica sistema-
tica è che l’argomentazione non si basa sulle regole dei sistemi nomo-
logici assiomatico-deduttivi. Non vi sono assiomi, anzi qualunque
cosa sia assunta o posta immediatamente necessita di essere fondata.
Tuttavia, tale fondamento non può essere dato in modo solamente
astratto (per esempio prima dell’argomentazione), perché ciò porte-
rebbe ad un regresso all’infinito. Ciò che è posto deve essere fondato
dall’argomentazione stessa, attraverso la sua concretizzazione. Il va-
lore intrinseco dell’esposizione – e non un qualche criterio esteriore
– deve quindi convincere il lettore della adeguatezza della esposizione.
L’esposizione si sviluppa attraverso il superamento della contraddizio-
ne fornendo fondamenti sempre più concreti – le condizioni di esi-
stenza – delle precedenti determinazioni astratte. In questo sviluppo
le condizioni di esistenza delle precedenti determinazioni astratte non
si dissolvono, ma superano i momenti opposti (identità-differenza,
universale-particolare) della determinazione astratta (un momento è
un elemento che considerato in sé può essere concettualmente isolato
e analizzato come tale, ma che non può avere esistenza separata).
* La precedente concettualizzazione delle determinazioni
astratte come momenti non è quindi negata, bensì superata nel
fondamento; il fondamento determina l’unità dei momenti oppo-
sti. Ma, come adesso appare, nello stesso tempo esso è un’ulteriore
e più concreta determinazione della differenza, una differenza
precedentemente posta come solo in sé (an sich, potenzialmente,
implicitamente). Le differenze che precedentemente non erano
in evidenza come tali, adesso vengono ad esistenza (astratta). A
questo nuovo livello, il fondamento stesso prende a muoversi; è
in sé un esistente astratto che mostra la contraddizione del fatto di
non poter esistere per sé (für sich, realmente). L’esposizione deve
procedere per fondarlo a sua volta, in modo da determinare le
proprie condizioni di esistenza (Hegel, 1970: 120-124; 1940: 81-
83). E così via, finché l’esposizione non raggiunge lo stadio in cui
essa comprende l’esistente come reale, come realtà (Wirklichkeit),
nel senso che le sue condizioni di esistenza sono state determinate
in modo tale che esso sia reale, concreto, autoriproducentesi, o

31
esistente in modo endogeno, che non richieda alcuna determi-
nante esterna o esogena per la propria riproduzione sistematica.
L’esposizione è allora una riproduzione concettuale del con-
creto attraverso fasi successive (livelli di astrazione); se ciò riesce,
la presentazione è in grado di cogliere il concreto come mediato
dalla teoria (ovvero di ricostruire teoricamente i «fatti» empirici,
che erano alla base dell’indagine iniziale). Tale processo di indagine
e di ricostruzione non può naturalmente essere posto in maniera
definitiva e completa.
* I livelli di astrazione possono inoltre essere caratterizzati dal
grado di necessità o da quello di contingenza degli elementi teoriz-
zati. È scopo della teoria selezionare quali elementi dell’oggetto di
indagine possano essere teorizzati come necessari all’oggetto e quali
elementi invece siano (soltanto) contingenti. Naturalmente, più la
presentazione si sviluppa verso livelli più bassi di astrazione, più
elementi (storicamente) contingenti devono essere incorporati.

Il metodo di Marx nel Capitale


Alcuni tipi di interpretazione

Ho precedentemente affermato che Marx non è affatto espli-


cito sul metodo utilizzato nel Capitale. Tale scarsa chiarezza porta
inoltre a differenti interpretazioni, naturalmente legate alla com-
prensione del contenuto. A tal proposito la storia del marxismo
ha dato vita non solo a differenti stili (come quelli capeggiati da
Bernstein o Althusser), ma anche a specifici programmi di ricerca
(collegati ai gruppi minori come per esempio quelli attorno a
Lukacs e Korsch o a Gramsci).
In generale, le interpretazioni possono essere di tre tipi, tutti
rintracciabili all’interno della tradizione marxista. Il primo consi-
dera Il capitale come riferimento privilegiato e ne studia il testo
analiticamente; ai fini dello sviluppo di un programma scientifico,
questo approccio non è stato particolarmente fruttuoso. Il secondo
è storiografico e questo approccio critico può di norma attenersi

32
ad un singolo testo. Il terzo tipo di interpretazione è euristico; esso
ha mostrato come il Capitale sia un testo fruttuoso (ed è infatti
questo aspetto che fa di un’opera un classico).
Questi tre approcci non vanno separati. Quello storiografico,
per esempio, si troverà di fronte a problemi esegetici e una buona
storia teoretica si concluderà o con interessanti questioni euristiche
o con questioni euristiche in sospeso, altrettanto interessanti. Le
mie note in questo e nel paragrafo successivo derivano principal-
mente da un interesse euristico.

Dialettica sistematica nel Capitale?


Il metodo di Marx nel Capitale è la dialettica sistematica? E
se non lo è, che tipo di dialettica è? Anche se fossimo in grado di
rispondere a queste domande, non sarebbe possibile farlo adesso
in modo adeguato e ben documentato (basti vedere gli scritti di
Murray, 1988b e di Smith, 1990c per comprendere quanto la que-
stione sia complessa). Nel paragrafo successivo prenderò in esame,
da un punto di vista limitato, soltanto un aspetto della questione:
come possiamo valutare l’inizio del Capitale, il punto di partenza,
nei termini di una dialettica sistematica? Queste considerazioni non
forniscono, tuttavia, una risposta alla domanda relativa alla dialet-
tica sistematica nel Capitale. Per varie ragioni a questa domanda
non si può rispondere con un semplice sì o no.
Se la logica di Hegel non è una filosofia delle scienze sociali o,
in particolare, dell’economia politica, è però ad essa propedeutica:
è possibile sviluppare sulla sua base una filosofia di questo tipo.
Sono molti i modi per farlo e la scelta è legata alla visione personale
dell’oggetto della scienza, che, naturalmente, non è separabile dal
contenuto della scienza. Inoltre, questi modi differenti non sono
determinati soltanto dall’oggetto ma anche dalla visione che si ha
dello stato della scienza in relazione ai fenomeni (sebbene questo
sia in stretta relazione con l’oggetto)3.
3
Se si è interessati, in primo luogo, alle questioni storiografiche in relazione
al Capitale, allora i fenomeni più rilevanti sono quelli del 1850.

33
Ne segue che la filosofia e la metodologia della scienza non
possono essere sviluppate separatamente dal suo contenuto. Sia
Hegel che Marx sembrano esserne stati ben coscienti (ed io stesso
lo sono per la mia esperienza personale di ricerca); nondimeno
credo che la maggior parte dei problemi del marxismo hegeliano
dipendano da un’eccessiva riverenza nei confronti di questo assun-
to. È mia intenzione rendere esplicite filosofia e metodologia della
dialettica sistematica della scienza sociale. Naturalmente questo
non lo si può mai fare una volta per tutte, non può che trattarsi
di un temporaneo stato dell’arte che è necessariamente collegato
allo stato della scienza (o più propriamente alla propria idea dello
stato della scienza). Marx avrebbe potuto, per esempio, scrivere un
tale trattato dopo la stesura dei Lineamenti (qualcosa di più rispetto
all’Introduzione), scriverne un altro dopo la stesura del primo libro
del Capitale ed un altro ancora in seguito al completamento del
terzo libro del Capitale.
Ci sono diversi modi di procedere a partire dalla logica
dialettica hegeliana. Per esempio, concordando sull’idea che il
movimento vada dalle categorie astratte a quelle concrete e che
la hegeliana Logica del Concetto non possa essere applicata o
sviluppata immediatamente in relazione alla scienza sociale del
capitalismo, Murray (1988b) mette in rilievo le astrazioni generali
rispetto a quelle determinate (ed il loro sviluppo), Smith (1990c)
uno sviluppo triadico e Reuten e Williams (1989) sottolineano la
necessità sistematica rispetto alla contingenza così come la nega-
zione e la particolarizzazione4. Nei loro lavori questi autori non
negano l’importanza di ciò che è messo in rilievo dagli altri, è
soltanto l’accento ad essere diverso5.

4
Si noti comunque che Reuten e Williams (1989) non è una interpretazione
di Marx, sebbene debba molto a Marx.
5
Nel lavoro di Murray (1988b), la «contraddizione» e la sua capacità di
sviluppo sono meno evidenti che in Smith (1990c) o in Reuten e Williams
(1989). Sia in Murray che in Smith il concetto di forma è trattato in modo
diverso rispetto a Reuten e Williams. La forma è è fondamentale per Reuten e
Williams; essa è sviluppata come espressioni della forma, laddove sia Murray che

34
Nella Filosofia del diritto, pubblicata nel 1821, Hegel sviluppa
la Logica del Concetto nella scienza sociale (nella sua teoria dello
Stato). Si tratta di un’opera di scienza sociale nella quale egli sviluppa
la propria logica. Sebbene, a mio avviso, la Filosofia del diritto con-
tenga molte intuizioni rilevanti (specialmente nell’Introduzione),
essa non è all’altezza della logica di Hegel. Al massimo può essere
criticata dal punto di vista della logica di Hegel. Per esempio, tale
opera non segue in modo preciso l’andamento triadico (cfr. Smith,
1990c) – per quanto sia composta da tre parti, esse, al loro interno,
non seguono un movimento triadico. Hegel non lascia spazio all’arti-
colazione delle astrazioni generali di contro a quelle determinate (cfr.
Murray, 1988b) e l’articolazione del necessario rispetto al contin-
gente non si mostra esplicitamente (cfr. Reuten e Williams, 1989)6.
Non credo lecito muovere in genere delle critiche per non aver
visto uno sviluppo sistematico concettuale nel Capitale di Marx:
la prima volta che io stesso ho letto quest’opera conoscevo assai
poco di dialettica e di sviluppo concettuale; la lettura che ne risultò
fu piatta. Da una lettura successiva – con qualche conoscenza di
dialettica – mi venne solo l’idea di tre livelli di astrazione, ciascuno
corrispondente a uno dei tre libri del Capitale. Ciononostante, e
forse paradossalmente, alcuni luoghi del Capitale di Marx conten-
gono uno sviluppo concettuale. In generale ciò vale per il concetto
di tendenza e in particolare per l’idea della caduta tendenziale del
saggio di profitto. Tuttavia, in una recente lettura dei primi tre
capitoli del primo libro (intrapresa per la scrittura di questo saggio),
ho trovato che essi fossero molto deludenti dal punto di vista dello
sviluppo concettuale sistematico.

Smith parlano di forme della forma. Forme della forma è una espressione corretta
nell’interpretazione di Marx, sebbene creda che sia un concetto confuso.
6
Due esempi fra gli altri sono le idee hegeliane relative alle funzioni e ai
ruoli rispettivi di uomini e donne e, poi, quelle relative al ruolo del monarca.
Anche se è possibile spiegarle tenendo conto della cultura del tempo e del fatto
che allora (1800) esse non erano certo conservatrici, tali idee sono inammissi-
bili se prendiamo sul serio la sua logica: la necessità sistemica dei ruoli a cui ci
riferiamo non è sviluppata in Hegel in Filosofia del diritto.

35
Il punto di partenza del Capitale e la teoria del valore

Un punto di partenza sistematico


Il Capitale inizia con le seguenti parole:
La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di
produzione capitalistico si presenta come una «immane rac-
colta di merci» e la merce singola si presenta come sua forma
elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della
merce (Capitale, I: 67).

È questo il punto di partenza sistematico di una esposizione


dialettico-sistematica? Potremmo affermare che sia il primo che
il secondo paragrafo del primo capitolo introducono alcune no-
zioni preparatorie; perciò il punto di partenza effettivo dovrebbe
essere il terzo paragrafo, che comincia ancora con la merce (cfr.
Murray, 1988b: ch. 12; Eldred and Roth, 1978). Ma, anche in
questo caso, è la merce il concetto onnicomprensivo più astratto
del modo di produzione capitalistico? Per esempio, comprende
essa in sé il concetto dell’attività di creazione di oggetti utili nella
forma capitalistica? La merce è senz’altro un fenomeno onnipre-
sente. Marx senza dubbio sviluppa da essa la forma della pro-
duzione capitalistica (dal quarto capitolo in avanti). Tuttavia dal
punto di vista della dialettica sistematica ciò non è convincente.
Penso che Marx faccia quello che dice di fare (si veda la citazio-
ne sopra): egli analizza. Ripete infatti più volte quell’affermazione.
Che tipo di analisi è? Non è certo quella assiomatica che si sviluppa
a partire da definizioni. Marx non definisce. Ciò che Marx sembra
fare, almeno nella prima sezione, è un’analisi concettuale piuttosto
che uno sviluppo dialettico concettuale. Inoltre, c’è un processo che
pare andare dai concetti semplici (piuttosto che astratti) a quelli com-
plessi. Sembra che ogni volta sia l’analisi dei concetti a determinare il
movimento del processo. Non è un processo interno che muove dalle
contraddizioni e dal loro superamento (negazione o particolarizzazio-
ne) (si noti che quest’ultimo processo non escluderebbe l’analisi dei
momenti – ma poi i momenti dovrebbero essere posti come tali).

36
Non penso che la mia interpretazione da questo punto di
vista differisca in modo significativo da quella di Smith (1990c)
o da quella di Murray (1988b), sebbene siano diversi gli accenti.
Inoltre nelle «Glosse a Wagner» Marx non contraddice certo una
tale interpretazione. Smith cita da questo testo:
Prima di tutto io non parto da «concetti», quindi neppure dal
«concetto di valore»[…] Ciò da cui io parto è la forma sociale
più semplice in cui si presenta il prodotto del lavoro nell’attua-
le società, il prodotto in quanto «merce». (Smith, 1990c: 23;
Murray, 1988b: XVII, 143, Glosse: 120)

Nei prossimi paragrafi considero l’analisi concettuale di Marx,


in particolare approfondendo il tipo di astrazioni che egli utilizza.

Lavoro astratto e valore


Nei primi due paragrafi del primo capitolo del Capitale Marx
introduce i concetti gemelli di lavoro astratto e valore. Tali concetti
sembrano esistere a causa di una trasformazione il cui carattere è
sviluppato a malapena.

Lavoro astratto
Quando il termine lavoro astratto è introdotto per la prima
volta, Marx fa riferimento ad una trasformazione:
Se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci, rimane
loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro.
Eppure anche il prodotto del lavoro ci si trasforma non appena
lo abbiamo in mano. [Jedoch ist uns auch das Arbeitsprodukt
bereits in der Hand verwandelt] Se noi facciamo astrazione dal
suo valore d’uso, facciamo astrazione anche dalle parti costi-
tutive e forme corporee che lo rendono valore d’uso. […] Col
carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere
di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque
anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si
distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano
eguale, lavoro umano in astratto (Capitale, I: 70).

37
Qui il lavoro astratto non è posto come lavoro universale in
contrapposizione al lavoro particolare (la contraddizione universa-
le-particolare cui abbiamo accennato prima). Il lavoro particolare
sembra essere messo da parte. Si ha una trasformazione che sembra
essere stabilita attraverso un’astrazione riduttiva: si prescinde dal va-
lore d’uso; l’astrazione dal valore d’uso e la scomparsa del carattere
di utilità del lavoro dà origine alla riduzione del lavoro particolare
al lavoro astratto. Propongo di chiamare questo lavoro astratto (ri-
duttivo) Λ. Questa astrazione è espressa attraverso un riferimento
(metaforico) alla trasformazione nel senso della transustanziazione
(la frase «si trasforma non appena lo abbiamo in mano» senza alcun
dubbio fa riferimento alla trasformazione [Verwandlung] – nelle mani
del prete – degli elementi eucaristici nella consacrazione della messa).
Anticipando l’esame della teoria del valore-lavoro astratto che
seguirà, si può osservare che a questo punto non c’è alcun riferi-
mento al mercato – quindi nessun riferimento ad un’astrazione
reale o ad una astrazione in pratica7.
Comunque, dalla metà del secondo paragrafo in poi, il lavoro
astratto è trattato (anche) come un’astrazione semplificante (o as-
sunzione semplificante):
Per ragioni di semplicità, d’ora in poi ogni genere di forza-lavoro
varrà immediatamente per noi come forza-lavoro semplice, con il
che ci si risparmia solo la fatica della riduzione (Capitale, I: 77).

L’importanza di questo non dipende soltanto dalla possibilità


di interpretare la teoria di Marx come una teoria del lavoro incorpo-
rato, ma anche dalla possibilità di una applicazione empirica di tale
teoria. Penso che nell’ambito di una teoria del lavoro incorporato

7
In seguito c’è questa affermazione: «Ma l’equiparazione alla tessitura riduce
effettivamente la sartoria a quello che realmente è eguale nei due lavori: al loro
carattere comune di lavoro umano» (Capitale, I: 83). Se uno volesse leggere una
teoria del valore come lavoro astratto nel primo capitolo del Capitale, si potrebbe
argomentare che un’astrazione reale è implicita nella trasformazione a cui Marx
si riferisce in Capitale, I: 70. Infatti il concetto di merce è chiaramente connesso
al mercato e allo scambio «Per produrre merce, deve produrre non solo valore
d’uso, ma valore d’uso per altri, valore d’uso sociale» (Capitale, I: 73).

38
una tale semplificazione precluda la possibilità di sommare il tempo
di lavoro prima della risoluzione del problema della riduzione (risol-
vere il problema significa porsi nella dimensione smithiana (1933)
del lavoro comandato, o nel regno keynesiano (1936) dell’unità di
salario). Credo, invece, che una tale astrazione (assunzione) sempli-
ficante renda equivoca, a livello empirico, la procedura quantitativa
di sommatoria delle ore di lavoro concreto prima del mercato.
Se i e j sono tipi particolari (concreti) di lavoro e se si
considera il lavoro soltanto nel suo aspetto particolare, le loro
rispettive ore di lavoro (Li e Lj) non possono essere somma-
te (per ragioni di semplicità tutte le mie equazioni successive
prenderanno in considerazione soltanto due tipi di lavoro i e j.
Naturalmente quanto svolto vale per tutti gli altri tipi di lavoro).
Se αi e αj sono i coefficienti di riduzione e se Λ è il valore
astratto (riduttivo) come sopra indicato, possiamo scrivere αiLi +
αjLj = Λ. Possiamo in seguito semplificare ponendo αi = αj (= 1),
ma questo non ci permette di cogliere il livello empirico concreto8.
Per quello avremmo bisogno di una procedura di quantificazione
dei coefficienti di riduzione. È difficile vedere come questa possa
essere fatta prima del mercato.
(In seguito mostrerò come, ammessa la contraddizione dia-
lettica del lavoro particolare che è nello stesso tempo lavoro uni-
versale, i tempi di lavoro i e j possano essere sommati come ore di
lavoro astratto (l): li + lj = l, anche se non possono essere sommati
come lavori particolari L. Questo può essere fatto sulla base di
una astrazione dialettica piuttosto che sulla base di una astrazione
riduttiva [marxiana]).

8
Musgrave (1981) distingue tre tipi di assunzione: di irrilevanza, di dominio
e euristica. La semplificazione fatta qui non dice che la teoria si applica solo ai
casi in cui αi = αj (assunzione di dominio). E non dice neanche che possiamo
trascurare le differenze tra i lavori concreti perché essi hanno un effetto trascura-
bile in relazione alla teoria (assunzione di irrilevanza). La nostra semplificazione
deve quindi essere una assunzione euristica, che ha un ruolo ad un certo livello
della teoria ma che in seguito deve essere fatta cadere (come nel metodo per
approssimazioni successive).

39
Valore
Il valore è un’entità che esiste prima dello scambio? (questa do-
manda verrà discussa anche in seguito, quando prenderò in esame
le attuali teorie marxiste del valore). Penso che Marx lo consideri
tale, sebbene ci siano molti testi che respingono questa opinione.
Questo è il modo in cui il valore è introdotto per la prima volta.
Il lavoro astratto è inoltre determinato come
semplice concrezione di lavoro umano indistinto, cioè di di-
spendio di forza lavorativa umana senza riguardo alla forma
del suo dispendio. Queste cose rappresentano ormai soltanto
il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza lavorativa
umana, è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa
sostanza sociale ad esse comune, esse sono valori, valori di merci
[Warenwerte] (Capitale, I: 70).

E inoltre:
E come misurare ora la grandezza del suo valore? Mediante la
quantità della «sostanza valorificante» [wertbildenden Substanz],
cioè del lavoro, in esso contenuta. La quantità del lavoro a sua
volta si misura con la sua durata temporale, e il tempo di lavoro
ha a sua volta la sua misura in parti determinate di tempo, come
l’ora, il giorno, ecc. (Capitale, I: 70-1).

Da questo e da altri passaggi sembra difficile dubitare che vi


sia una sorta di idea di valore come lavoro incorporato e che esso
esista prima dello scambio. Tuttavia, sebbene il valore esista prima
dello scambio, esso è sempre oggettivato:
Forza-lavoro umana allo stato fluido, ossia lavoro umano, crea
valore, ma non è valore. Diventa valore allo stato coagulato,
nella forma oggettiva (Capitale, I: 83).

In questo modo il valore si identifica con il lavoro astratto (ri-


dotto) Λ, in quanto lavoro oggettivato o speso. Tutt’altra questione
è quella per cui il valore di scambio (le forme del valore di scambio)
è il solo modo di espressione o la sola forma fenomenica del valore
(che è oggetto del terzo paragrafo del primo capitolo del Capitale).

40
Il problema che si pone con tale concetto di valore è che
esso dipende da una entità astratta, il lavoro astratto per mezzo di
un’astrazione riduttiva, ma il valore si presenta anche – già a questo
livello – in un senso abbastanza concreto, specialmente a causa
della sommatoria nella misurazione. Non è chiarito tuttavia come
si possa intraprendere una tale misurazione («in parti determinate
di tempo, come l’ora, il giorno, ecc») prima del mercato, perché
restano dei dubbi sulla riduzione reale a lavoro semplice.

Incorporazione: più di una metafora?


Che cosa ne facciamo di tutti quei riferimenti fisico-natu-
rali che Marx utilizza per spiegare che cosa intenda con «lavoro
astratto» e «valore», come per es. «cristalli di questa sostanza so-
ciale», «tempo di lavoro coagulato» e il concetto stesso di «lavoro
incorporato»? (tutte queste espressioni appaiono in Capitale, I:
70-71, ma sono utilizzate in tutto il primo capitolo). Sono sol-
tanto delle metafore? La citazione seguente sembra suggerire una
tale intepretazione:
In diretta contrapposizione all’oggettività rozzamente sensibile
dei corpi delle merci, nemmeno un atomo di materiale naturale
passa nell’oggettività del valore delle merci stesse. […] Tutta-
via, ricordiamoci che le merci posseggono oggettività di valore
soltanto in quanto esse sono espressioni di una identica unità
sociale, di lavoro umano, e che dunque la loro oggettività di
valore è puramente sociale (Capitale, I: 79).

Il minimo che possiamo dire è che – a parte questo ed alcuni


altri passi – l’esposizione è fortemente caratterizzata da metafore.
Insomma, penso si possa affermare che Marx presenta una
teoria del valore-lavoro astratto incorporato. Una tale definizione
potrebbe sembrare fuorviante se riferita al dibattito che vede con-
trapposi teorici del lavoro incorporato contro teorici del lavoro
astratto. L’introduzione di questa definizione non vuole proporre
una sintesi. Il punto è che, da un lato, Marx non suggerisce di
sommare le ore lavoro concrete Li + Lj in un L che è la somma di

41
questi lavori concreti (= lavoro concreto incorporato). Comincia
invece da entità astratte («cristalli di sostanza sociale»):
Λi + Λj = Λ (1)
In forma oggettiva questi sono valori. Le entità astratte
Λi e Λj sono omogenee. Questo sembra essere equivalente a:
αiLi + αjLj = Λ (2)
Li e Lj non sono omogenei. Così da (1) e da (2) abbiamo:
αi = Λi/ Li
Che è la produttività di valore del lavoro concreto i. (Così, quando
Marx dice che il valore è lavoro, intende probabilmente che il valore è la-
voro semplice). Semplificando l’assunzione, l’equazione (2) si riduce a:
Li + Lj = Λ (4)
(L’assunzione semplificata non dice Li + Lj = L). Così da un
lato abbiamo l’astrazione riduttiva in coppia con l’assunzione
semplificante: per mezzo dell’astrazione riduttiva abbiamo ottenuto
entità astratte (Λ); le entità concrete (Li) possono essere realmente
ridotte a entità astratte (o viceversa). Dall’altro lato, queste entità
sono prese come tali prima del mercato, esse cominciano ad esi-
stere nella produzione. Come lavori oggettivati, essi sono valori e
ciò determina l’incorporazione. È una questione secondaria se la
riduzione sia considerata possibile prima dello scambio. Qualunque
sia la risposta a questa domanda, non cambia niente relativamente
al carattere incorporato delle entità astratte.

Forma-valore e forma di valore


Marx dedica molto spazio allo sviluppo della forma fenomenica
del valore dalla forma semplice alla forma denaro (il terzo paragrafo
del primo capitolo del Capitale). Il risultato di questa esposizione è la
dimostrazione che il valore ricardiano (Li, L) non appare immedia-
tamente, e che «l’arcano di ogni forma di valore sta in questa forma
semplice di valore» (Capitale, I: 80), non nella forma di denaro (l’ulti-
mo punto ha anche rilevanza politica in relazione alla polemica contro
Proudhon). Sebbene non voglia mettere in discussione l’importanza
di questi temi, l’attenzione rivolta ad essi (anche in considerazione

42
dello spazio loro dedicato nel testo) ha messo in secondo piano l’im-
portanza della forma-valore stessa. Questo può apparire misterioso.
Il punto è che la forma di valore ha due significati (che io distinguo
attraverso le espressioni forma-valore e forma di valore). A mio avviso
questi due diversi significati hanno condotto a differenti interpreta-
zioni di Marx da cui sono derivate differenti pratiche politiche. Si
considerino per esempio le seguenti citazioni:
IA: Si presentano come merci oppure posseggono la forma
di merci soltanto in quanto posseggono una duplice for-
ma: la forma naturale e la forma di valore (Capitale, I: 79).
IB: Il prezzo, ossia la forma di denaro delle merci, è, come loro
forma di valore in generale, una forma distinta dalla loro forma
corporea tangibilmente reale, quindi è solo forma ideale ossia
rappresentata (Capitale, I: 128).
II: Dunque, nel rapporto di valore, nel quale l’abito costituisce
l’equivalente della tela, la forma di abito conta come forma di
valore (Capitale, I: 84).

Diciamo, nell’interesse dell’argomentazione – io non sono


d’accordo –, che il valore è un genere e che il valore di scambio è la
sua specie. Nelle citazioni IA e IB è chiaro che la forma di valore si
riferisce al genere valore. Questo risulta chiaramente dal contesto e
in IB lo si afferma in modo esplicito: «valore in generale». Così ci
riferiamo al valore come forma in sé. Nella citazione II, la «forma
di valore» si riferisce alla specie. In questo caso il contesto ci aiuta
nella comprensione, ma non è sempre così (il testo tedesco non ci
aiuta: Marx utilizza sempre il termine Wertform). Non sono sicuro
che Marx fosse cosciente di questo problema relativo al termine
forma di valore (ma forse lo dico solo perché io stesso ho «lottato»
molto con esso). In ogni modo, io propongo di scrivere forma-
valore per il significato I e forma di valore per il significato II9.

9
Per sottolineare le possibili confusioni fornisco qualche esempio in più:
A. «L’attività umana prende la forma del valore» = «L’attività umana prende
la forma-valore». Una categoria astratta (l’attività) prende una forma particolare
– storicamente specifica (la forma-valore).

43
Due annotazioni finali: 1) sembra che in molti scritti di
marxisti i problemi della forma di valore siano stati messi in rilievo
a scapito di quelli della forma-valore; 2) una questione correlata a
questa che non sono stato in grado di analizzare in modo preciso è
l’utilizzo marxiano dei termini forma, espressione e apparenza. Egli
sembra considerarli sinonimi.

Teorie del valore come lavoro incorporato contro teorie


del valore come lavoro astratto: alcune controversie attuali
Le interpretazioni della teoria del valore di Marx
Sebbene l’oggetto del primo capitolo del Capitale, analizzato
nel paragrafo precedente, sia lo sviluppo teorico del valore, in esso
non è esposta certo tutta la teoria marxiana del valore. Quest’ultima
si articola attraverso i tre libri. Gran parte del dibattito si è concen-
trato sulle conseguenze relative all’introduzione del saggio generale
di profitto nel terzo libro (il problema della trasformazione). Non
mi concentrerò su questa parte del dibattito10, ma piuttosto seguirò
la prospettiva della trasformazione accennata nel primo capitolo
del primo libro (l’introduzione del concetto di lavoro astratto come
valore) e le relative questioni metodologiche che fanno riferimento
all’astrazione. Ci sono infatti molte trasformazioni nel Capitale,
ognuna situata ad un particolare livello di astrazione. Sono tutte
importanti, sebbene nessuna di esse sia ugualmente semplice o

B. Se il valore fosse assunto come categoria trans-storica (cosa che io non


faccio), solo allora potremmo parlare della «forma di valore» = «forma-valore»
come per esempio in «La forma capitalistica del valore è il denaro» = «La forma-
valore capitalistica è il denaro».
C. «La forma-denaro e la forma-capitale sono [particolari] forme di valore»
o «La forma di denaro è una particolare forma del valore».
D. «Il denaro è una forma di valore» produce confusione perché può essere
letta come (B) o (C). La stessa cosa vale per «il denaro forma di valore» («la
forma-valore del denaro» o «il denaro forma-di-valore»).
10
Cfr. i Capitoli 8 e 9 del libro dal quale il saggio di Reuten è preso.

44
difficile da comprendere. A tale riguardo concordo con Tony Smith
quando scrive che:
La maggior parte delle analisi marxiste e non marxiste [relati-
ve alla trasformazione del terzo libro] si sono concentrate esclu-
sivamente sui problemi relativi alla determinazione dell’iden-
tità quantitativa dei valori e dei prezzi, del plusvalore e del profitto.
È sostanzialmente vero che è lo stesso Marx a rivolgere un’at-
tenzione considerevole a queste equazioni. Tuttavia, nella teoria
marxiana ciò non ha un ruolo di assoluta centralità, si consideri
per esempio la relazione tra «l’accumulazione» e la «riproduzione
semplice». Nessun marxista ha mai affermato di aver provato che
la somma totale del valore accumulato sia uguale alla somma to-
tale riprodotta nella riproduzione semplice. Nessun non marxista
ha mai preteso di confutare Marx sulla base della prova della
non equivalenza di queste grandezze. Infatti la questione della
relazione matematica tra le due grandezze non ha molto senso
(Smith 1990c: 171).

Ci sono due interpretazioni principali della teoria marxiana


del valore: una teoria del valore-lavoro incorporato ed una teoria
del valore-lavoro astratto. Si è mostrato sopra che esse possono es-
sere utilmente suddivise. La differenza tra le due non è immediata
perché entrambe utilizzano gli stessi termini dando ad essi significati
differenti. Dopo aver esposto i problemi relativi a ciascuna delle due
interpretazioni, cercherò di mostrare la possibilità di una ricostruzio-
ne della teoria marxista del valore-lavoro lungo le linee segnate dalla
dialettica sistematica.

Teoria del lavoro concreto incorporato


Il Capitale di Marx può essere interpretato come una teoria
del valore-lavoro concreto: Li + Lj = Λ. L’assunzione semplificante
di Marx, αi = αj è presa come un’assunzione irrilevante e non come
un’assunzione euristica (nel senso di Musgrave [1981], cfr. nota 8).
È quindi semplice ottenere l’equazione immediata ed empirica-
mente osservabile Li + Lj = L, dove Li e L sono valori (i cosiddetti
valori-lavoro, misurati in tempo di lavoro concreto).

45
Questa teoria dà adito a tre problemi: 1) non è chiaro come
questa sia una teoria del capitalismo (piuttosto che una teoria trans-
storica universale); 2) non si capisce in che cosa questa teoria sia
differente da quella di Ricardo (è infatti molto vicina alla teoria
sraffiana, nella quale, invece della forza delle astrazioni teoriche
abbiamo la forza di una sommatoria di vettori; 3) non è chiaro
come questa teoria possa essere sviluppata in modo tale da essere
sufficientemente esplicativa.

Teoria del lavoro astratto incorporato


Come ho affermato, una teoria del lavoro astratto incorpo-
rato appare molto vicina a quella a cui è giunto Marx. Credo,
tuttavia, che essa presenti molti problemi. Il problema non è
tanto quello dell’astrazione riduttiva Λi + Λj = Λ (per quanto
io abbia delle obiezioni metodologiche, anche relativamente, su
di essa). Non è questo ad impedirle di essere sviluppata in una
teoria coerente e applicabile. La difficoltà è che Λ è valore e tale
valore si dà prima del mercato. Non è chiaro come sia possibile
rendere operativa una tale teoria. Se, con Marx, affermiamo che
l’equazione Λi + Λj = Λ può essere trasformata in αiLi + αjLj
= Λ, dove le grandezze sono lavoro semplice, allora dal livello
astratto si passa a quello concreto. Ad un livello astratto di
sviluppo di questa teoria è naturalmente possibile (all’interno
di questo approccio metodologico) assumere che i coefficienti
di riduzione siano uguali a 1: Li + Lj = Λ. Questo si ottiene
per mezzo di successive approssimazioni. Ma chiaramente non
possiamo accontentarci di essa. Se ci accontentiamo dobbiamo
pure ammettere che una siffatta teoria si riduce ad una teoria
del valore-lavoro concreto incorporato. Così è necessario che una
procedura simile debba essere sviluppata per ottenere i coeffi-
cienti di riduzione. Si deve comunque mostrare come sia possibi-
le fare questo prima del mercato. Infatti, se abbiamo bisogno del
mercato per ottenere i coefficienti di riduzione, allora non pos-
siamo più affermare che il valore (Λ) si dia prima del mercato.

46
La sostanza del valore nelle teorie del lavoro incorporato
Credo che la metafora del lavoro come sostanza abbia creato
non poche complicazioni alla teoria marxista del valore; come ho
indicato, la metafora viene dallo stesso Marx (naturalmente, da
questo punto di vista, egli era figlio del suo tempo). Astraendo
da altro, sia l’approccio del lavoro concreto che quello del lavoro
astratto devono confrontarsi ad un certo punto con il problema
della trasformazione (il problema connesso all’introduzione del
saggio generale di profitto). Il fatto è che nell’approccio del la-
voro incorporato si ha lavoro incorporato sia all’inizio, astratto,
che alla fine, concreto (quale che sia il percorso attraverso cui la
fine è il risultato di una «redistribuzione»). Le teorie del lavoro
incorporato sembrano così «conservarsi» entro le modificazioni
proposte dalla teoria (modificazioni proposte o per comprendere
il processo reale o che si determinano, per esempio, attraverso
approssimazioni successive). Questo assomiglia al principio di
conservazione della fisica classica, che secondo Mirowski (1990) è
stato mutuato dall’economia politica classica11. Abbiamo così una
teoria del valore quale sostanza assieme all’idea della conservazione
di questa sostanza che passa da un livello di astrazione (analitica)
all’altro. C’è quindi una particolare ontologia della conservazione
(del «valore» quale lavoro incorporato) alle spalle di questa teoria.
Il movimento da un livello all’altro non implica una trasformazione
nel senso di una «transustanziazione» (Cfr. Capitale, I: 70, citato
sopra). Così, sebbene la trasformazione si riferisca al movimento
verso uno specifico livello di astrazione – l’apparenza concreta –,
ciò non implica una trasformazione della sostanza.
Per quale ragione una tale interpretazione marxista del lavoro
incorporato è così attaccata alla metafora della sostanza? Il suo ef-

11
Sulla redistribuzione, cfr. Fine e Harris (1979), così come la critica (sul
manoscritto) di Himmelweit e Mohun (1978). Si noti che all’interno degli usuali
algoritmi, la teoria del lavoro concreto incorporato è formalmente equivalente ad
una struttura a coefficienti teorici (cfr. Gerstein, 1976). Questo è anche il nodo
della critica di Steedman (1977).

47
fetto è stato quello di mettere l’accento sulle entità fisiche piuttosto
che sulla loro forma sociale nel capitalismo (o sull’idea che tali enti-
tà abbiano una doppia forma – valore d’uso e valore, fisica e sociale
– come ha fatto invece la teoria della forma-valore). Le metafore
del lavoro incorporato e della sostanza sembrano una «euristica
negativa» (Lakatos, 1974), che dovrebbe salvare la priorità che i
marxisti assegnano alla produzione. Infatti, la centralità della pro-
duzione è, a mio avviso, uno dei punti forti del paradigma marxista.
Comunque, come mostrerò, è possibile teorizzare la centralità della
produzione anche mettendo da parte l’idea della sostanza e del
lavoro incorporato. Questo aprirebbe la strada ad una teoria del
valore veramente sociale, che possiamo dire trovi la propria origine
in Marx, ma che, in questa formulazione originale, non è stata
completata (e che i marxisti hanno dimenticato di completare).

La teoria del valore-lavoro astratto: l’astrazione in pratica


In una variante della teoria del valore-lavoro astratto c’è un
cambiamento della forma delle astrazioni utilizzate nella teoria; le
astrazioni teoriche sono esse stesse prese come specchio delle astra-
zioni che gli uomini realizzano quotidianamente. Una tale posizio-
ne si addice naturalmente ad una filosofia marxista, tuttavia non
soltanto ad essa. La teoria del valore propria di questo approccio
affonda le proprie radici nella teoria marxiana esposta nel Capitale,
sebbene io sia propenso a vederla più come uno sviluppo di essa.
Ci sono alcuni problemi relativi all’unità di questo approccio e
certamente non è una teoria sviluppata completamente (Cfr. De
Vroey, 1982; Gleicher, 1983, 1985; Eldred, 1984b e Bellofiore
1989 che approfondiscono questi problemi)12. Penso di aver reso

12
Riferimenti alla letteratura relativa a questo approccio sono presenti in
questi autori così come in Reuten e Williams (1989: 64). Benché la maggior
parte di coloro che aderiscono alla dialettica marxista hegeliana incorporino
elementi di questa teoria nelle loro (Arthur, Backhaus, Eldred, Hanlon, Kleiber,
Roth, Reuten e Williams), non è senz’altro vero che la maggior parte dei teorici
del lavoro-astratto aderiscano alla dialettica marxista hegeliana. Al contrario, tra

48
chiare le differenze tra di esse attraverso la mia distinzione tra lavoro
concreto incorporato e lavoro astratto incorporato. Comunque,
il risultato è che la teoria del valore-lavoro astratto risulta adesso
ancora più oscura e ancora meno completa.
In questo approccio, il concetto di lavoro astratto si riferisce
(anche) ad una «astrazione in pratica» (Per la critica: 12) o ad una
«astrazione reale» (Himmelweit a Mohun, 1978: 75). Si afferma
che, nel mercato, il lavoro concreto (il lavoro di un falegname o
di un lavoratore informatico) prende realmente la forma del lavoro
astratto espresso dal denaro. L’astrazione reale è quindi che nel mer-
cato il lavoro concreto diventa denaro: sia dal lato dell’input (salari)
che da quello dell’output del processo di produzione. I prodotti del
lavoro concreto sono omogeneizzati in denaro nel momento in cui il
lavoro concreto è commensurato a, o convertito in, lavoro astratto.
I teorici del lavoro astratto incorporato potrebbero non essere
in completo disaccordo con questo argomento, tuttavia il fatto è
che – come prima è stato ampiamente affermato – tale posizio-
ne implica un cambiamento del concetto di valore. Per i teorici
dell’astrazione pratica, il valore si determina nel mercato (quindi
è un concetto di mercato) e non si dà prima di esso. Questo non
implica necessariamente che questa teoria sottovaluti l’importanza
della produzione. I teorici di questo approccio sostengono che il
difetto dell’economia sraffiana o neo-ricardiana è quello della ridu-
zione della produzione a coefficienti tecnici, cioè alle tecniche. Essi
affermano che il processo di produzione è di primaria importanza.
Non è chiaro comunque come tale asserzione si adatti all’impor-
tanza che essi assegnano allo scambio e al mercato.

La sostanza e la misura del tempo


Uno dei problemi legati alla determinazione dei concetti lavoro
come astrazione e lavoro astratto è la questione se si sia di fronte ad una

questi ultimi, non tutti sembrano abbracciare la prospettiva del lavoro astratto
non incorporato.

49
astrazione trans-storica, o generale, di contro ad una determinazione
particolare del capitalismo o, più in generale, dei modi di produzione
che producono merci (Murray, 1988b, cap.10; e Arthur, 1986: 11-12
sulle mediazioni di primo e secondo ordine). Arthur (1986: 12-19,
cfr. 47) mette in rilievo come Marx nei Manoscritti economico-filosofici
del 1844 – a differenza che nel Capitale – utilizzi il termine lavoro in
un senso determinato. Io preferirei, per esempio, concettualizzare il
lavoro come un’astrazione determinata propria del capitalismo.
Se affermiamo che il lavoro deve produrre merci, questo non
ci dice molto. Ci spieghiamo meglio se diciamo che una certa
quantità di lavoro è necessaria alla produzione di una merce.
Considerare il lavoro dal punto di vista della durata temporale
è senz’altro un’astrazione determinata, ci sono, infatti, molte
culture nelle quali la durata temporale non ha molta importanza
nell’attività lavorativa. In ogni modo, ci sono buone ragioni per
credere che considerare il lavoro dal punto di vista della durata
temporale sia proprio di una società di produttori di merci, se non
proprio di una società capitalistica (cfr. Mirowski, 1990, 1991,
su tutti i tipi di standardizzazione in rapporto alla comparsa del
mercato – libbre di mele ecc. L’argomento di Mirowski potrebbe
essere esteso per affermare che la considerazione del lavoro dal
punto di vista della durata temporale sarebbe una standardiz-
zazione che compare con l’istituzionalizzazione del mercato del
lavoro. Se questo è vero, descrizioni come quelle di Smith (1933,
1:41-42) con cacciatori di castori e di cervi ai «primi stadi della
società» per i quali «le quantità di lavoro necessarie ad ottenere
gli oggetti parevano l’unica circostanza che potesse determinare
lo scambio», sono solo il frutto metodologico di una «storia teo-
retica» – come afferma Skinner (1985: 29))13.

13
Cfr. Marx (Capitale, I: 164): «In nessuna situazione il tempo di lavoro che
costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non interessare gli uomini,
benché tale interessamento non sia uniforme nei vari gradi di sviluppo». In una
nota egli aggiunge che tra gli antichi germani la grandezza di un pezzo di terreno
era misurato in relazione al lavoro di una giornata. Comunque, esse erano misure
personali, accidentali e non standardizzate; cfr. Mirowski (1991).

50
È interessante, adesso, l’affermazione secondo cui il lavoro
considerato dal punto di vista della durata temporale, cioè il
tempo di lavoro, sarebbe un’astrazione reale capitalistica (e forse
anche un’astrazione in altre società di produttori di merci). Po-
trebbe comunque esserci un problema di ordine logico. Perché il
lavoro sarebbe una vera astrazione sociale? Non per suo proprio
interesse. Le libbre di mele (le mele non sono mai identiche)
sono diventate una vera astrazione sociale perché le merci sono
vendute sul mercato (esse assumono la forma-valore). Nello stesso
modo, il tempo di lavoro è una vera astrazione sociale perché il
lavoro (la forza-lavoro) è venduta sul mercato (perché il lavoro
assume la forma-valore). Quindi il concetto di valore è precedente
a quello di tempo di lavoro.
Abbiamo così due vere astrazioni sociali: 1) l’attività umana
assume la forma-valore (nella storia del capitalismo fino ad oggi
alcune attività sono state escluse; le attività familiari e quelle del
tempo libero sono sempre più calcolate in termini di valore); 2)
poiché l’attività umana assume la forma-valore, essa deve essere con-
siderata lavoro dal punto di vista del tempo, cioè tempo di lavoro14.
Ma che cosa significa affermare che il tempo di lavoro è «in-
corporato» in una merce o che è «sostanza» del valore? Certamente
il tempo di lavoro non è una qualche sostanza che troviamo nella
merce (o anche «dietro» di essa: affermo che anche all’interno di
un modello classico di essenza/apparenza la materia/sostanza non
è intesa come essenza). Così l’incorporazione e la sostanza sembrano
delle metafore. In generale non c’è niente di male nell’utilizzo di
metafore per comprendere un’idea. Tuttavia, la metafora può essere
fuorviante ed avere una vita propria. In questo caso penso che in
gran parte del marxismo queste metafore siano state prese alla let-

14
Possiamo quindi, come rappresentazione di queste astrazioni reali, scri-
vere ml (dove m è l’espressione monetaria del lavoro e l è lavoro). Questo sarà
sviluppato ulteriormente in seguito. (L’argomentazione, in Reuten e Williams,
1989, cap. 2 §16, sulla formalizzazione ml è un po’ oscura. Ringrazio Alexander
van Altena per avermelo segnalato).

51
tera (naturalmente lo stile di Marx vi ha contribuito; infatti, pur
avendo preso le distanze dall’uso classico di questi artifici letterari,
egli continuò a farne uso).
Il fatto è che le astrazioni reali a cui ci si riferisce sono que-
stioni sociali.

La ricostruzione del lavoro astratto nella prospettiva


della dialettica sistematica
Si forniscono in questo paragrafo alcuni elementi metodologici
per mostrare come una teoria del valore-lavoro sociale possa essere
dedotta, grazie ad un processo ricostruttivo, dalla teoria marxiana.
Non è un’interpretazione della teoria di Marx. La ricostruzione
si basa sul fondamento della dialettica sistematica come è stata
precedentemente introdotta. La ricostruzione si limiterà ai primi
momenti di tale teoria. Il contesto sistematico è tracciato in Reuten
e Williams (1989, cap. 1); le osservazioni che seguono sviluppano
i concetti di lavoro astratto e valore indicati in quel lavoro.
In un paragrafo precedente ho mostrato come Marx giunga al
concetto di lavoro astratto. Egli lo fa attraverso un’astrazione ridut-
tiva e non attraverso un’astrazione logico-dialettica. Marx giunge
al suo concetto di lavoro astratto astraendo dal lavoro particolare
e concreto: quest’ultimo è ridotto agli elementi che costituiscono
il lavoro umano in astratto, metaforicamente cristalli di sostanza
sociale. Come sostanza sociale oggettivata essi sono valore/i (Λ nella
notazione introdotta precedentemente).
È stato inoltre affermato che i lavori concreti Li e Lj non possono
essere sommati in quanto particolari. Comunque, a causa della con-
traddizione dialettica per cui il lavoro particolare è simultaneamente
universale, i tempi di lavoro i e j possono, in principio, essere sommati
come ore di lavoro in astratto (l): li + lj = l, sebbene non si possano
sommare come particolari L. In modo simile è possibile sommare gli
acri di terra anche se sappiamo che le loro qualità sono differenti; lo
stesso vale per la frutta. Ma questa è un’astrazione logico-dialettica

52
e non una semplificazione. All’interno di un approccio di sviluppo
dialettico-concettuale, li e lj devono esistere come l, tuttavia un tale
approccio implica la concretizzazione di questa esistenza astratta al
livello dell’esistenza concreta e fenomenica. Al livello astratto non è
impossibile quantificare, ma qualsiasi quantificazione avrà un signi-
ficato solo astratto – e alcune volte avrà a malapena senso15. Per fare
un esempio: l’«animale» astratto ha un’esistenza concreta nel mio
gatto Mitzy o nella mosca a cui sta dando la caccia; non è impossibile
pensare ad essi come due animali e quindi sommarli come tali. Ma
non possiamo sommarli come particolari. Inoltre, molte operazioni
matematiche non hanno senso: mezzo gatto più mezza mosca non
fa un animale. La contraddizione dialettica sta nel fatto che Mitzy è
un gatto e un animale allo stesso tempo. Una mosca ed un gatto non
possono essere sommati come particolari, ma solo in astratto.
In questo modo abbiamo la contraddizione dialettica Li•X• l
(dove •X• indica la contraddizione dialettica)16. A questo livello, li + lj
= l è abbastanza vuota; è invece un’affermazione astratta, un’afferma-
zione al livello astratto della teoria (sebbene l’affermazione rimanga
vera anche muovendo verso i livelli concreti della teoria: infatti, nella
pratica, parliamo del lavoro speso dagli Stati Uniti). Nel mercato le
persone non calcolano in termini di lavoro astratto l, né in quelli di la-
vori concreti Li in quanto non possono essere sommati. Poiché l’input
e l’output della produzione divergono (e in virtù del fatto che nella
produzione capitalistica tale divergenza non è lo scopo, bensì lo è la
produzione per altri), essi devono essere ridotti ad un denominatore
comune, che è il valore. Il valore si costituisce come l’universale op-
posto alla particolarità degli input e degli output (si noti che in questa
prospettiva il lavoro, sia l che l oggettivato, non è valore. Qui la teoria

15
Reuten e Williams (1989) vogliono mostrare come la categoria astratta l
si sviluppi, attraverso l’esistenza del mercato e le complesse relazioni di mercato,
nella categoria più concreta ml.
16
Possiamo considerare questa contraddizione sia come lavoro particolare Li
dal punto di vista del lavoro universale l: l(Li), che come lavoro universale dal
punto di vista del lavoro particolare: Li(l). usando questa notazione possiamo
scrivere: l(Li) + l(Lj) = l. Comunque Li(l) + Lj(l) = L non ha senso.

53
differisce in modo evidente da quella di Marx). Nel mercato, il valore
si realizza nella sua espressione in termini di denaro. Se restringiamo il
nostro campo all’output e alla componente di valore aggiunto, possia-
mo scrivere m per l’espressione monetaria del lavoro come si realizza nel
mercato. Così m è anche la produttività di valore del lavoro. Nel mer-
cato, inoltre, la contraddizione Li •X• l è superata ad un livello più con-
creto, che in modo provvisorio chiamo mLi (ma dovrei chiamarla mli
come indicato più avanti). mLi è una somma di denaro (in dollari, per
esempio, anche se questo appartiene ad un livello ancora più concreto
della teoria). Nel mercato il lavoro prende realmente la forma-valore. Il
lavoro si converte in questo modo realmente (si trasforma) in un’entità
astratta. È lavoro astratto capitalistico reale, è il valore capitalistico
(questo determina una grande confusione terminologica, poiché, sia
qui che nella teoria del lavoro astratto incorporato, le stesse parole sono
utilizzate per denotare concetti differenti. Questo è comunque ine-
vitabile se si vuole rimanere un contatto con il linguaggio ordinario).
Forse una sottile differenza (utile ai nostri scopi) è che nel
mercato la contraddizione Li•X•l è superata attraverso il suo porsi,
più concretamente, nel momento astratto (l) della contraddizione.
Dovremmo così scrivere mli.
Ad un livello più concreto possiamo avere delle espressioni
monetarie del lavoro che divergono, da cui m ili (in Reuten e
Williamson, 1989, cap. 2, si spiega come questa espressione sia in
rapporto con il reddito aggregato Y = ml = ∑mili).
A confronto con la teoria del lavoro astratto incorpora-
to, la conclusione di tutto questo è che la riduzione a lavoro
semplice, che rende la vita difficile alla teoria, si dà attraverso
un processo che avviene realmente nel mercato (m i, mj). Na-
turalmente questa teoria sostiene che il valore non ha esistenza
prima del mercato. Questo non significa dire che esso non ri-
guardi la produzione. In Reuten e Williams (1989: 66-68)17 si
spiega che la commisurazione nel mercato (mili) è anticipata dal
capitale e dà vita a ciò che noi abbiamo chiamato la pre-com-

17
Cfr. anche Reuten (1988): 53-55.

54
misurazione nella produzione (denotata con mi‘Li). Il processo
di lavoro è così calcolato in termini di valore (cioè in denaro).
Permettetemi di fare un riassunto delle differenti prospettive
nei termini simbolici che abbiamo utilizzato. La prospettiva della
dialettica sistematica afferma:
li + lj = l (5)
Questo ha senso in relazione al lavoro inteso come universale.
L’espressione è piuttosto vuota e in questo senso è una affermazione
astratta (del lavoro universale in astratto).
Li + Lj = L (6)
Questo non ha senso: non possiamo sommare due lavori
particolari.
mili + mjlj = ml (7)
Questa è l’espressione del lavoro astratto reale. È anche
l’espressione del valore (in termini monetari).
La prospettiva del lavoro concreto incorporato afferma
Li + Lj = Λ (8)
o Li + Lj = L (9)
Se c’è un concetto di lavoro astratto, questo è Λ. Tutte le
quantità nelle equazioni (8) e (9) sono in termini di valore, mi-
surate in ore.
La prospettiva del lavoro astratto incorporato afferma
Λi + Λj = Λ (10)
Questa è l’espressione del lavoro astratto = valore (il lavoro
astratto è il risultato di una astrazione riduttiva). L’equazione (10)
è equivalente o può essere trasformata in
αiLi + αjLj = Λ (11)
dove le dimensioni sono lavoro semplice = valore, misurato
in ore. Soltanto attraverso assunzioni semplificanti (euristiche) la
(11) si riduce alla (8).

Conclusioni
Paragonandolo all’opera di Hegel, sarebbe eccessivo ritenere
il Capitale un tentativo di sviluppare una dialettica sistematica per

55
le scienze sociali a partire dall’economia politica (ma i requisiti a
tale scopo espressi da Murray, (1988b) e Smith, (1991) sembrano
plausibili). Ho mostrato che un’analisi approfondita del primo
capitolo del Capitale rivela che Marx ha preso una strada diversa
da quella della logica di Hegel. Marx avvertiva che questo metodo
doveva essere sviluppato nella pratica della ricerca (Murray, 1988b).
Comunque, come avviene in tutte le fondazioni di nuovi paradig-
mi, il punto esatto di rottura fra Marx e i paradigmi precedenti
non è chiaro e questo vale sia per il metodo che per il contenuto.
C’è quindi spazio per molte interpretazioni come per lo sviluppo
di linee di ricerca che hanno la propria origine nel Capitale. E
questo non è un male: non mi dispiace la prospettiva anarchica di
Feyerabend, anche se io preferisco una prospettiva nella quale il
paradigma possa essere sviluppato in modo produttivo.
Le interpretazioni dialettico-sistematiche di Marx sono sempre
state in minoranza. La maggior parte della tradizione marxista ha
interpretato la dialettica come uno sproloquio hegeliano. In termini
euristici la questione di quanto Marx sia andato in profondità nello
sviluppo della dialettica sistematica non è molto importante – seb-
bene sia interessante da un punto di vista storiografico. Ciò che è
importante è che dalla teoria marxiana è possibile sviluppare una
scienza sociale nei termini della dialettica sistematica. Se prendiamo
seriamente questo progetto, un obiettivo potrebbe essere quello
di uno studio critico del Capitale in questa prospettiva. La critica
del Capitale in questo saggio è stata (per quanto mi riguarda) una
critica di Marx attraverso Marx.
Uno studio dialettico-sistematico della società attuale dovreb-
be essere un progetto in quattro fasi. Le stesse che penso debbano
costituire la una metodologia dialettico-sistematica.
Il primo passo è un’analisi critica dei fenomeni, che deve
concentrarsi su di essi per come sono riportati dai giornali e nelle
conversazioni, piuttosto che dai libri o dagli articoli di rivista.
Non è ovvio per esempio che le questioni relative alle classi o
allo sfruttamento siano fenomeni che richiedono spiegazioni
mentre invece non ne richiederebbero altri come, per esempio,

56
le catastrofi del terzo mondo, l’oppressione delle donne, la disoc-
cupazione, il razzismo, l’inquinamento, l’ineguale distribuzione
del reddito o le relazioni autoritarie. Non sto dicendo che questi
ultimi non possano essere spiegati nell’ambito dei rapporti ca-
pitalistici, ma che è necessario andare molto indietro per poter
ripensare la nostra teoria.
Il secondo passo è quello di tornare ad analizzare questi feno-
meni nella forma in cui sono sistematicamente analizzati nei libri
e nelle riviste. Ciò include uno studio critico della filosofia e delle
scienze sociali nella prospettiva dell’analisi compiuta nella prima
fase. Le determinazioni astratte dovrebbero risultare da questo.
Il terzo passo è la riproduzione del concreto attraverso le
determinazioni astratte trovate nella seconda fase.
Il quarto passo è la critica delle analisi compiute nella seconda fase.
Ciò potrebbe sembrare scontato, ma si tratta di un progetto
da portare avanti con continuità. Non possiamo – mai – dare per
scontato ciò che è stato fatto ieri.
In questo saggio ho individuato alcune questioni tecniche
relative al valore, inscrivibili all’interno della seconda fase. Ho
suggerito come, pur fornendo i rudimenti della teoria del valore
sociale (che nessuno dopo di lui ha sviluppato), Marx sia rimasto
intrappolato nella metafora fisica della sostanza e dell’incorpora-
zione ereditate rispettivamente da Hegel e dall’economia politica
classica. La tradizione marxista, piuttosto che eliminare questi
residui, ha «feticizzato» la metafora (ciò è sorprendente se pensia-
mo all’antinaturalismo tipico della tradizione marxista). Si tratta
di un aspetto che sembra strettamente collegato alla priorità che
i marxisti hanno assegnato alla produzione, è questo infatti un
punto fondamentale del paradigma marxista rispetto agli altri.
Comunque, in questo modo, il marxismo ha avuto la tendenza
alla teorizzazione dell’economia in termini fisici. Credo che tale
metafora abbia impedito il passaggio ad una vera teoria del valore
sociale. Si può aggiungere che nessun altro paradigma economico
sia stato in grado di compiere questo passaggio. Ho indicato i
fondamenti per lo sviluppo di una teoria del valore-lavoro sociale.

57
All’interno di tale approccio sembra possibile fare a meno della
metafora e dei concetti di valore ad essa connessi, senza comunque
perdere la centralità alla produzione.

Sono grato a Chris Arthur, Martha Campbell, Mino Carche-


di, Paul Mattick Jr., Patrick Murray, Fred Moseley e Tony Smith
per l’intensa e piacevole discussione di una precedente versione di
questo saggio, che ha inoltre beneficiato dei commenti di Michael
Williams e Alexander van Altena, e specialmente di un secondo
giro di commenti da parte di Fred Moseley.

58
Christopher J. Arthur
Il concetto di denaro

59
60
Nella storia della filosofia, le menti più brillanti si sono accorte
che l’esistenza e il potere del denaro pongono un problema. Tra
queste possiamo ricordare Aristotele, Kant, Hegel e Simmel. Natu-
ralmente, se si accetta che il Capitale sia un’opera tanto di filosofia
quanto di economia, un posto particolare deve essere assegnato a
Marx, che, fin dall’inizio della propria attività teorica, è rimasto
colpito dalla capacità del denaro di «abbracciare gli opposti».
Nell’ambito dell’economia c’è sempre stata una frattura tra coloro
che liquidavano il denaro come velo che copre l’«economia reale» e
coloro i quali vedevano la novità del mondo moderno nell’egemo-
nia delle relazioni monetarie. L’interpretazione ortodossa inserisce
Marx nel primo campo. Tuttavia, una più corretta interpretazione
di Marx deve riconoscere l’importanza che egli stesso ha accordato
al denaro e alla sua capacità di modellare i processi economici.
Non entrerò qui in dispute esegetiche: presenterò soltanto la mia
posizione riguardo al concetto di denaro.
Il denaro è, dal punto di vista filosofico, un fenomeno
davvero interessante. Può apparire sorprendente che esso ponga
problemi filosofici, tenendo conto della familiarità che abbia-
mo con esso; tuttavia la familiarità non garantisce la cono-
scenza: ciò che è sempre fisicamente a portata di mano può
essere di difficile comprensione da un punto di vista ontologico.
Inizialmente mi esprimerò contro il naturalismo nella teoria
del valore. In seguito, sposterò l’attenzione sul fatto che il valore
deriva da una forma sociale peculiare: i momenti del suo concetto
devono essere distribuiti sul denaro e sulle merci perché esso abbia
esistenza reale. Tale forma sociale si pone nella pratica dello scam-
bio: in questo modo il valore esiste soltanto quando la dialettica

61
dei rapporti tra le merci dà vita al denaro. L’argomento centrale
del saggio è l’idea che il concetto di denaro debba necessariamente
essere spiegato con i mezzi che ci offre la logica di Hegel.

La dialettica sistematica
Questa discussione fa parte di un progetto più ampio volto a
fornire una ricostruzione dialettico-sistematica delle categorie del
Capitale di Marx (cfr. Arthur, 2002 e 2005); questo saggio ne è
un primo tentativo. La dialettica sistematica è un metodo di espo-
sizione dell’articolazione interna di un tutto dato. La scienza, nel
trattare una tale totalità, deve assumere la struttura di un sistema
che comprende un insieme di categorie capaci di cogliere le forme
e le relazioni costitutive della totalità. La presentazione della tota-
lità nel pensiero è, quindi, una dialettica sistematica delle categorie.
Comunque, nella mia teoria le implicazioni non riguardano solo il
metodo. Anche l’ontologia è messa a tema. La logica di Hegel ha
due caratteristiche oltre la sua sistematicità: i) afferma che le forme
del pensiero sono autonome a tal punto da essere automoventesi;
ii) afferma che la struttura concettuale è la «verità» della realtà. È
questo il motivo per il quale Hegel si autodefinisce un idealista.
Credo che la forma di valore abbia una simile idealità, ma che sia
un’idealità reale che si impone sul contenuto della vita economica.
Il rapporto tra la logica hegeliana e la mia ricostruzione delle
categorie di Marx scaturisce dalla realtà di quella «astrazione pra-
tica» fondata, nello scambio, sull’identificazione di merci eterogenee
in quanto «valori». I differenti prodotti interessati giocano il ruolo
di portatori di questa nuova determinazione sociale. Diventano
soggetti alla forma di valore. Così, la forma di valore della merce
poggia sulla frattura tra il valore come identità delle merci, premessa
alla loro equivalenza nello scambio, e la loro diversità materiale,
in quanto valori d’uso. Anche la logica di Hegel viene fuori dalla
dissoluzione di forme d’esserci [instantiations] empiriche, contin-
genti, per lasciare come risultato la categoria come tale. È mia
opinione che ne consegua un’omologia significativa, a livello on-

62
tologico, tra il movimento dello scambio, che genera un’astrazione
pratica dalla naturale specificità delle merci, e il movimento del
pensiero, che genera un sistema di categorie logiche. In entrambi
i movimenti, le forme automoventesi si impongono sul materia-
le reale al quale si riferiscono. Da ciò risulta che è possibile far
luce sulle forme di valore con le categorie della Logica di Hegel.

Il valore come forma sociale


Il mio approccio all’economia politica critica presuppone che
ciò che determina le categorie economiche sia la forma sociale del
metabolismo economico, non la sua base naturale. Rifiuto l’approc-
cio naturalistico che vede nel lavoro, nella sua allocazione e nella sua
produttività, le determinazioni naturali che si riflettono in forma
sociale nei prezzi e nei profitti. Affermo invece che la pratica sociale
determina le forme sociali – al cui centro c’è la forma di valore – nelle
quali si inscrive l’attività produttiva. Da questo consegue che il valore
stesso non si dà anteriormente alle sue forme, ma si costituisce piut-
tosto attraverso ed entro lo sviluppo dei rapporti di scambio.
Basandomi sul mio approccio alla forma di valore, ritengo che
il denaro non sia un «velo» del contenuto materiale e «reale» dei rap-
porti economici; esso è essenziale ai rapporti di valore, non è soltanto
la forma nella quale è espressa una sostanza sottostante. La mia idea è
che soltanto il denaro rende reale il valore. Ciò che è essenziale nelle
merci non lo si trova in esse attraverso un’astrazione riduttiva, bensì
sorge dai rapporti di scambio e deve quindi essere scoperto nella re-
lazione tra merci, nelle loro forme fenomeniche, e in particolar modo
nella loro relazione con il denaro. Nell’analisi del valore si possono
prendere due strade: la prima si addentra nelle merci alla ricerca di
un sostrato comune, per esempio il tempo di lavoro; l’altra fuoriesce
dalle merci e si rivolge alle loro relazioni per comprendere se queste
ultime pongano il valore quale forma della loro esistenza sociale.
La procedura riduttiva è caratteristica dell’ortodossia. Essa
trova un carattere comune alle merci (al di là della loro comune
partecipazione alla forma di valore) nel loro essere prodotti del la-

63
voro «astratto». Ma naturalmente il lavoro prende sempre la forma
di lavoro concreto, che è eterogeneo come lo sono le merci. Poiché le
unità produttive sono slegate le une dalle altre, i lavori divengono
sociali solo nel momento in cui i loro prodotti vengono scambiati.
La conseguenza è che questi lavori ottenengono un riconoscimento
sociale come valori soltanto in quanto astratti. In verità, l’astrazione
peculiare del lavoro che produce le merci è il risultato della realtà
sociale dello scambio, e non il suo fondamento. Inoltre prendono
parte al processo di scambio molti oggetti che non sono prodotti
e proprio nel processo di circolazione tali oggetti assumono una
forma di valore, un prezzo, che esplicitamente non ha origine nella
produzione. Nella sua immediatezza la merce ha una forma pura.
Se il naturalismo avesse ragione, il denaro non sarebbe un
problema teorico; tutte le merci avrebbero un valore intrinseco,
incluso l’oro: quest’ultimo sarebbe semplicemente un numerario,
una merce come le altre in quanto valore, ma particolare nella
sua funzione di misura delle altre, di mezzo della loro circo-
lazione. Non ha comunque senso presupporre che una merce
nella sua isolatezza abbia valore. Il valore ha una realtà pura-
mente sociale che emerge dai rapporti che si danno tra le merci.
Se il valore è una forma che si costituisce socialmente, il suo
concetto non può essere spiegato nella maniera usuale, per esempio
attraverso un’analogia con una caratteristica naturale delle merci
come il peso. Proprio per questo, il denaro ha un ruolo particolare
nel garantire che l'effettualità del valore venga posta nella pratica.
L’aspetto universale delle merci è assicurato soltanto in quanto è
posta la loro comune relazione con un equivalente universale, vale
a dire con il denaro. Tale forma denaro non ri-presenta, o rappre-
senta, il valore presupposto delle merci, piuttosto lo pone come
loro forma di esistenza sociale. Una volta che il valore si presenta
esplicitamente «per sé» (piuttosto che semplicemente come imma-
nente) nel denaro, esso pone le merci come valori «in sé». Il denaro
«pone il presupposto» per cui le merci possono contare come valori.
La mia idea di dare centralità alla forma può essere parago-
nata alla «rivoluzione copernicana» di Kant attraverso la quale

64
egli rese gli oggetti conformi alla conoscenza. Nel nostro caso
le merci devono conformarsi a come esse sono conosciute pra-
ticamente, attraverso le forme di valore. Invece di pensare che le
merci siano date come valori e misurate attraverso il denaro, il
denaro è ciò che permette la conoscenza delle merci quali valori,
attraverso la sintesi trascendentale della molteplicità delle merci. Il
denaro non è una semplice condizione per la comparazione delle
merci già presenti nella dimensione del valore; esso costituisce la
dimensione del valore. Il denaro rende coerente la dimensione
del valore ponendo le merci in una comune relazione con un
unico punto di vista su di loro; esso non è tuttavia tra loro, in
quanto lo si esclude da loro. La forma monetaria è la condizio-
ne di possibilità di una sfera unitaria dei rapporti di valore. Il
denaro, posto come la forma universale di valore, è esso stesso
essenziale alla realtà del valore (cfr. Arthur, 2004, 2005 e 2006).
Rivolgiamo, adesso, la nostra attenzione all’analisi del concetto
di equivalente universale. Dall’osservazione che tutte le merci sono
scambiabili, direttamente o indirettamente, in proporzioni definite,
deriva il postulato che tutti i molti valori di scambio posseduti da una
merce condividono un’unica essenza, un intrinseco potere di scambio.
La forma più semplice implicita nei rapporti tra le merci è: «Il valore di
A è espresso in B». Seguo Marx nel considerare la merce (A) nella for-
ma «relativa» di valore, ovvero la merce il cui valore si manifesta, e la
merce (B) nella forma di «equivalente», ovvero la semplice espressione
materiale del valore di A (Capitale, I: 80). Inoltre, come Marx osserva
con grande intuito, B è qui presente come corpo naturale e non come
valore. Non è un valore perché non è ancora posto il presupposto che
ci sia il valore prima della relazione. Anche se assumessimo che questa
è una relazione di valore, il valore non potrebbe essere presente nel cor-
po naturale di entrambe le merci, poiché l’eterogeneità dei loro corpi
presuppone che la forma di valore astragga da tali caratteristiche. In
questo senso, il valore è ciò che il corpo naturale della merce non è.
Come Marx ha ben compreso, se A non può esprimere il valore nel
proprio corpo, essa fa del corpo di B il luogo del valore che esso deve
escludere da se stesso.

65
Idealmente il valore è determinato in opposizione all’eteroge-
neità del valore d’uso. Ma il valore deve apparire* per avere realtà.
Una merce appare immediatamente quale valore d’uso; ma poiché il
valore di una merce è definito in contrapposizione al proprio valore
d’uso, non può apparire in esso. Infatti, nella forma di valore di
scambio, il valore di A appare nel corpo naturale di B. Ci sono qui
due mondi, che si predicano nel valore d’uso in maniera invertita.
Per l’essenza, il valore è non-valore d’uso (di A), ma come apparenza
è valore d’uso (di B). La particolarità della forma di equivalente è
che in essa il corpo naturale della merce non conta per sé, bensì
come valore. Così i due mondi, il «sensibile» e il «sovrasensibile»,
sono qui immediatamente uno. È questa l’origine del denaro, nel
quale il sovrasensibile prende chiaramente il sopravvento, sebbene
prenda la forma di una cosa.
Il denaro, quale equivalente universale, è, come le altre
merci, presente come corpo naturale. Esso raggiunge lo status
di effettulità del valore soltanto in virtù delle sue relazioni con
le merci, unificandole nella loro comune relazione a ciò che esse
non sono. Tutte le merci devono escludere una merce dalla forma
relativa cosicché essa possa funzionare da equivalente unico. Il
corpo naturale dell’oro, in relazione alle merci nella forma relati-
va, è equivalente al valore come tale, ma non allo stesso modo dei
pezzi di ferro che funzionano da peso, perché il ferro ha già peso,
serve quindi come rappresentante della classe delle cose pesanti.
Ma dell’oro non si sa ancora se ha valore, le merci lo pongono
piuttosto come valore di loro tutte. Non diciamo che il peso di
un pane si esprime in un pezzo di ferro in quanto ferro, ma nel
peso del ferro. L’espressione «peso del ferro» è semplicemente me-
tonimica perché il peso è soltanto una proprietà del ferro; invece,
nel caso dell’oro in quanto denaro, l’oro è solamente il guscio di
una «sostanza sociale» posta dalla relazione che le merci hanno

*
Si traduce con «apparire» il verbo «to appear» e successivamente con «appa-
renza» il termine «appearence». Con questo concetto si intende esprimere il «ma-
nifestarsi fenomenico» dell’essenza e quindi, nel secondo caso, il «fenomeno», «il
mondo fenomenico». Non si intende affatto, quindi, la mera parvenza – ndr.

66
con il denaro: quindi, l’oro non è qualcosa che ha naturalmente
valore. Nel peso, il pesare è secondario rispetto all’atto del pesa-
re, ma nel valore, l’espressione del valore in prezzo è primaria e
il riflesso del valore nelle merci è secondario. Ogni cosa agisce,
quindi, a ritroso come se il «valore» potesse essere presupposto
come una proprietà data delle merci.
Quando il valore non è ancora fondato, non è possibile
prendere l’oro come se fosse già valore, quindi come una misura
adatta alle merci. L’oro può figurare qui solo come esso appare
immediatamente, nel suo corpo naturale. Il suo essere oro non è
espressione del suo valore, ma la manifestazione esterna del valore
delle merci. Le merci possono così realizzare la propria identità di
valore soltanto fuori di sé, poiché esse non sono manifestazioni di
un’essenza data precedentemente. Il denaro è così la realizzazione
in atto del valore, che si oppone alle merci come loro equivalente
universale apparendo in una merce accanto alle altre, con la quale
esse possono relazionarsi nello scambio.

L’universale concreto
Nella prima edizione del Capitale, Marx traccia un’analogia
capace di gettare luce sulla peculiarità della relazione tra il denaro e
le altre merci: «è come se accanto e oltre ai leoni, alle tigri, alle lepri
e a tutti gli altri animali reali, […] esistesse anche l’animale, l’incar-
nazione individuale di tutto il regno animale» (Merce e Denaro: 34).
Questo esempio è una reminescenza del passo hegeliano:
L’animale come tale non può essere indicato, ma può essere sem-
pre soltanto indicato un animale determinato. L’animale non
esiste, ma l’animale è la natura universale dei singoli animali,
e ogni animale esistente è qualcosa di determinato molto più
concretamente, qualcosa di particolarizzato. Ma essere animale,
il genere quale universale, appartiene all’animale determinato e
costituisce la sua essenza determinata. Se dal cane togliamo il suo
essere animale, non sapremo dire che cosa sia. Le cose in generale
hanno una natura permanente, interna ed un essere determinato
esterno (Enciclopedia, § 164).

67
La peculiarità della merce denaro è che «la merce universale»
può essere «indicata»1. La caratteristica universale che unisce le
merci è il loro essere valore e nel denaro tale «natura interna» è
posta come «cosa» accanto a loro.
Il denaro è quindi un «universale concreto» nel senso hegelia-
no del termine? Analizziamo questa idea. Hegel rifiuta in generale
l’opposizione analitica tra l’universale completamente astratto e il
singolare concreto. La sua prospettiva dialettica nega che l’universa-
le sia una mera astrazione, non è la semplice qualità che accomuna
[commonality]: esso è un universale concreto che comprende in sé
le sue particolarizzazioni (cfr. Enciclopedia, § 164). Come abbia-
mo visto, nel brano in cui Hegel parla de «l’animale» l’universale
concreto non esiste accanto agli individui2. L’universale è compreso
come l’essenza interna dei singoli, ciò che li rende ciò che sono.
Perché il concetto di valore, se è da intendersi come universale
concreto, non lo si trova nelle merci, ma fuori di esse, incarnato
nel denaro-merce che funziona come loro essenza universale?
Perché le merci, come tali, sono materialmente eterogenee e non
condividono alcuna natura interna. La generazione del valore come
concetto concreto è assicurata soltanto quando il denaro, mate-
rialmente esistente, dà alle merci una forma universale attraverso
il prezzo. Mentre l’universale, nella forma pensiero, comprende le
sue particolarizzazioni nel pensiero, la forma di valore comprende
le sue particolarizzazioni attraverso la relazione oggettiva in cui
stanno merci e denaro.
Ne segue che c’è una differenza tra applicare la logica hege-
liana e la mia tesi dell’omologia. Nel primo caso, l’ipotesi sarebbe
che c’è un universale immanente alle merci che può essere astratto
attraverso il pensiero. Di contro, affermo che il movimento del-

1
Per «merce universale», cfr. Capitale, I: 122 e168.
2
Hegel anticipa comunque Marx in uno dei suoi primi scritti: «Il loro [delle
merci] concetto universale deve diventare una cosa come loro, ma come universale
che le rappresenti tutte; il denaro è questo concetto che esiste materialmente,
la forma dell’unità o la possibilità di tutte le cose che si necessitano». Per una
discussione di questo passo vedi Arthur (2002) cap. 9. Cfr. Frammenti: 324.

68
lo scambio si modella, nella pratica, al concetto hegeliano. Que-
sto avviene perché un portatore materiale del momento universa-
le è necessario accanto alle singole merci perché esse siano poste
come valori. Hegel deride esplicitamente l’idea che l’universale
esista come particolare distinto dai suoi momenti. Egli scrive:
Si devono distinguere l’universale e il particolare secondo la loro
determinazione peculiare. L’universale, preso formalmente e posto
accanto al particolare, diventa anch’esso qualcosa di particolare
[…] come se qualcuno volesse della frutta, e rifiutasse le ciliegie,
le pere, l’uva ecc. perché sono ciliegie, pere, uva ma non frutta
(Enciclopedia, § 13).

Tuttavia nella nostra omologia si ottiene proprio questa situa-


zione. Marx scrive:
Accanto alla sua forma reale, p. es. ferro, la merce può avere
nel prezzo forma ideale di valore, ossia forma rappresentata
d’oro, ma non può essere insieme realmente ferro e realmente
oro. […] Se il possessore del ferro, p. es. si presentasse al pos-
sessore d’una merce mondana, e lo richiamasse al prezzo del
ferro che è forma di denaro, [riceverebbe una risposta vaga]
(Capitale, I: 136).

La peculiare necessità del valore come universale concreto di


apparire in una forma capace di interagire con le merci, implica
che esso debba prendere una forma analoga a quella de «l’anima-
le»: il ruolo di universale accanto ai singolari. Poiché le merci han-
no relazione solo tra loro, una merce singola deve porsi in questo
ruolo. Paradossalmente, per differenziarsi da tutte le singole mer-
ci, la loro universalità deve incarnarsi in un’unica merce (Marx
parla naturalmente di merce-denaro come l’oro. Per semplificare
le cose lo seguirò in questo. La necessità del denaro di funzionare
come un qualcosa che esiste realmente non dipende tuttavia da
una merce che ne sia portatrice; uno standard nazionale che sosti-
tuisca l’oro, come la banconota, può comunque incarnare questa
oggettività. In un sistema in cui il valore è la forma egemone, ogni
cosa dovrebbe essere venduta; nel caso in cui l’oro sia la merce
denaro esso viene barattato. È questo un difetto da superare).

69
Denaro-lavoro
Per i primi critici della società mercantile, è proprio l’autono-
mizzazione del valore nel denaro la radice di tutti i mali. Se il lavoro
è la fonte del valore, la misura naturale del valore è il tempo di lavo-
ro; l’equivalenza nello scambio potrebbe essere assicurata attraverso
l’introduzione del «denaro-lavoro». È questa un’utopia artigiana
costruita per assicurare l’indipendenza della produzione dalla classe
dei mercanti predatori. Essa non è in grado di comprendere che la
forma di valore è il regolatore necessario del contenuto.
È importante analizzare le conseguenze erronee a cui porta il
concetto di denaro-lavoro. Ci sono due possibilità: la moneta circola
o non circola. Nel caso in cui non vi fosse circolazione di denaro,
dovremmo pensare ad un magazzino che riceva, alla porta d’ingresso,
le merci e ne determina l’equivalente in ore di lavoro, e che, alla porta
sul retro, scambi tali beni con denaro-lavoro. Che cosa succederebbe
se un falegname portasse il suo tavolo e affermasse che per costruirlo
ha impiegato venti ore? I magazzinieri potrebbero rispondere «abbia-
mo altri produttori che lo fanno in dieci; dovresti imparare a farlo
anche tu in dieci ore perché non possiamo sprecare le risorse lavorati-
ve della società, la tua produzione è inefficiente»; oppure potrebbero
rispondere «il magazzino è pieno di tavoli, dovresti produrre sedie».
Il magazzino dovrebbe funzionare come una sorta di ufficio di piani-
ficazione nazionale e l’utopia dell’artigiano indipendente svanirebbe.
Nell’altro caso, nel quale il denaro circola, il falegname porterebbe il
tavolo da un negoziante che direbbe «non mi interessa che tu abbia
impiegato venti ore nella produzione, conosco persone che possono
farlo in dieci, quindi posso darti una banconota da dieci ore-lavoro
– prendere o lasciare»; oppure potrebbe dire «ho molti tavoli, lo
compro solo per otto ore di lavoro, tuttavia sono a corto di sedie,
potrei pagarti, per quattro sedie, il doppio del tempo che impieghi
nella loro costruzione». La conclusione è che abbiamo un’economia
di mercato che alloca il lavoro attraverso il prezzo e in cui il denaro
funziona proprio come adesso, ovvero a prescindere dalle ore-lavoro
indicate; il collegamento tra le ore di lavoro e il denaro si spezza im-
mediatamente. Scompare inoltre l’artigiano indipendente.
70
Valore e prezzo
Nelle pagine seguenti, cercherò di sviluppare l’omologia
tra le categorie del valore e quelle della logica di Hegel. Per far
luce sulla forma di denaro mi avvarrò della hegeliana Dottrina
del Concetto. Comincio con le sue sezioni iniziali che prendono
il nome di «concetto soggettivo»: il concetto come tale, il giu-
dizio e il sillogismo. In prima battuta, riassumerò l’esposizione
hegeliana; in seguito ne mostrerò la pertinenza con il denaro.
«Il concetto come tale» ha tre momenti: l’universalità, la par-
ticolarità e la singolarità (Enciclopedia, § 163). Poiché il concetto
come tale è puramente formale, Hegel sottolinea che la «singolarità»
non significa le singole cose, i singoli (questi ultimi – come vedre-
mo – faranno la loro comparsa nel giudizio, quando i momenti
formali si dividono in momenti separati e finiti). Un’importante
specificazione, che deriva dalla differenza tra la «singolarità» e «il
singolo», è che il movimento di particolarizzazione è doppio (En-
ciclopedia, § 223). Ad un livello puramente formale, il Concetto
si particolarizza in Singolarità, ma al livello della realtà ci sono
molti singolari identici, ciascuno dei quali è particolarizzazione del
concetto. Secondo Hegel, quale immediata presenza del singolare,
ciascuno è un «Uno» qualitativo che presuppone la propria diffe-
renza numerica dagli altri Uno, ed in questo modo mantiene la
caratteristica di esclusività del determinato essere-singolo. Tuttavia,
come implicito esserci [instantiation] di un universale, esso è capace
di rifletterlo. Hegel sviluppa questa riflessione in questi termini:
Essi non sono semplicemente dei singoli che sono l’uno di
fronte all’altro; codesta molteplicità appartiene all’essere. La
singolarità che si pone come determinata non si pone in una
differenza estrinseca, ma nella differenza del concetto; esclude
dunque da sé l’universale, ma poiché questo è un momento di
lei stessa, così esso si riferisce altrettanto essenzialmente a lei
(Scienza della logica: 704).
Questo ritorno in sé del concetto prende la forma del giudizio.
Il giudizio è il muoversi del concetto nelle determinazioni finite,
ovvero il suo distinguersi in Universalità/Particolarità/Singolarità

71
(Enciclopedia, § 168). Ma nel giudizio, i momenti separati del
concetto sono ancora in relazione tra loro (Enciclopedia, § 165-
66). L’espressione astratta del giudizio è «il singolare è l’universale»
(Enciclopedia, § 166). Il momento della particolarità rende valido
questo giudizio, se il singolare è in verità una particolarizzazione
determinabile dell’universale (Enciclopedia, § 179). Da questa for-
ma il concetto passa nel «sillogismo» (Enciclopedia, § 180).
Hegel dice quanto segue sulla relazione tra il concettuale
e il reale:
Tutto è concetto, e il suo essere determinato è la distinzione dei
suoi momenti, per cui la sua natura universale si dà realtà esterna
mediante la particolarità e […] si trasforma in singolare. – O,
viceversa, l’effettivamente reale è un singolare che si innalza al
piano dell’universalità mediante la particolarità e si fa identico
a sé (Enciclopedia, § 181).

Vediamo adesso come tutto questo possa essere utilizza-


to per sviluppare la forma di valore. Sappiamo che il concetto di
valore deve articolarsi formalmente in Universalità/Particolari-
tà/Singolarità. Abbiamo anche visto precedentemente che deve
esserci un portatore materiale di questa forma, accanto alle merci.
Questo è il denaro. Inoltre: poiché la «quantità» è la sola parti-
colarizzazione logicamente possibile del valore, la singolarità del
concetto è data da una determinata quantità di denaro. Questa è
la singolarità del valore, non una singola manifestazione del valo-
re. Ma i valori singoli sono posti, per noi, nella forma delle merci.
Questo ci conduce al Giudizio, che nella nostra incarnazione
materiale del paradigma hegeliano è: «questa merce ha valore» [this
commodity is valuable]. Il giudizio determinato «quanto vale?» può
essere espresso solo in denaro. Così il cappotto, come merce singola,
mostra di avere valore in virtù della sua equazione con una data
quantità di denaro.
Come dice Hegel relativamente al giudizio: «si vuol vedere
in doppia maniera un unico e medesimo oggetto, una volta nella
sua realtà singolare, l’altra volta […] nel suo concetto: il singo-
lo innalzato nella sua universalità» (Scienza della logica: 714).

72
Questa sdoppiamento si dà, nel nostro caso, come separazio-
ne materiale; il denaro è realmente presente separatamente dalle
merci, perché solo in questo modo il valore della merce può pre-
sentarsi ad essa. Entrambi i lati sono necessari perché il concetto
si realizzi. È impossibile che il valore esista soltanto in forma pura,
imprigionato adeguatamente nel denaro: deve esserci qualcosa da
valutare in denaro; quindi, questa forma pura modella le merci
quali valori. Questa dimensione materiale del valore significa che
ci sono due tipi di particolarizzazione del valore. La merce come
prezzo è idealmente particolarizzata come una semplice somma di
valore misurata in denaro; ma la merce come oggetto materiale è
più volte particolarizzata concretamente in corpi di valore. Ci sono
molteplici cappotti simili dello stesso valore, dove c’è soltanto un
prezzo del cappotto. Nel cappotto, il valore commerciale esiste
consustanzialmente al valore d’uso, come se, come valore d’uso,
esistesse naturalmente in questa forma materiale. Le merci esisto-
no come pezzetti di valore nel mondo. Essendo legati alla forma
materiale, questi valori sono numericamente distinti e possono
essere distrutti, sia materialmente che attraverso una rivoluzione
delle condizioni di mercato.
Mentre il denaro è il portatore del concetto puro di valore, la
vera determinatezza di valore si dà attraverso giudizi di valore*. Ma
affinché una merce sia elevata a valore attraverso tali giudizi, essa
deve incontrare il denaro e apparire empiricamente in una forma
operazionale: è necessaria, perciò, una scala dei prezzi.
Marx sottolinea una differenza concettuale tra il denaro
nella funzione di misura di valore e di scala dei prezzi (Capitale,
I: 130). La prima funzione determina il valore come entità mi-
surabile; la seconda, sul presupposto che il valore è misurabile,
offre una scala comune per comparare i valori delle merci. Questa
distinzione si inserisce nel mio apparato categoriale nel modo

*
Con «judgement of worth» si intende qui e successivamente la «valutazio-
ne», la «stima del valore» di una merce. Si preferisce però mantenere il termine
«giudizio» per esprimere il nesso fra questo tipo di «giudizi» e la «dottrina del
giudizio» precedentemente esposta – ndr.

73
seguente: al livello del puro concetto, il denaro garantisce teori-
camente la dimensionalità del valore; al livello della finitudine,
le merci devono essere confrontate con una scala operazionale
dei prezzi in modo tale da rendere possibili i giudizi di valore.
Il denaro appare come una quantità definita di sé che può essere
posta uguale ad ogni merce, come se fosse una fra loro, come se
il prezzo non fosse che una specie di super baratto.
Comunque, c’è ancora una differenza di forma che è signifi-
cativa, anche nel caso in cui il denaro prenda la forma di merce
standard, per esempio la moneta d’oro. Il denaro è la singolarità
assoluta del valore perché non è, come tutte le altre merci, una
semplice incarnazione del valore tra le altre; esso è posto come
l’unica incarnazione, in forma singolare, della dimensione del
valore. La merce singola ha un valore riconosciuto nella forma
di prezzo. Per contrasto, la moneta d’oro è valore, come rappre-
sentazione della singolarità del concetto. Essa media nelle forme
finite la dimensione del valore, così da permettere la valutazione
delle merci. Questa funzione non dipende dal valore che essa
«ha», se ne ha. È frequente che ci sia differenza tra il valore
nominale e il valore reale variabile delle monete; tuttavia, esse
continuano a funzionare indifferentemente come scala dei prezzi
(abrasione, tosatura e svilimento riducono il valore del contenuto
d’oro; tuttavia alcune volte il valore del metallo eccede il valore
nominale; così le monete vengono fuse e si ha la scomparsa del
denaro; è questo un grave difetto del sistema in cui il denaro è
una merce. L’idealità del denaro deve emanciparsi da tali pro-
blemi materiali).
Il peculiare ruolo «ideale» di tali esempi di denaro è dimostrato
dal fatto che sarebbe assurdo richiedere un prestito da restituirsi
con la stessa moneta originariamente data; qualsiasi moneta valida
emessa è considerata essenzialmente identica ad ogni altra, sebbene
la loro esistenza materiale permetta la distruzione del loro valore
come se esse fossero merci qualsiasi.
La seguente tabella mostra come questi lati del valore, il de-
naro e le merci, si compenetrino.

74
«Concetto» di valore

Universalità (denaro)

Particolarità (quantità)

Merce singola Singolarità


(una determinata quantità di denaro)

Il giudizio di prezzo
Il valore di questa merce è ��
£3

In questa tabella il doppio movimento di particolarizzazione


risulta sia dalla presenza del denaro come una quantità di se stesso
che dalla presenza della merce singola, che, in virtù della parti-
colarizzazione, contiene una quantità di valore. Questi momenti
sono esplicitamente riflessi l’uno nell’altro quando una merce è
valutata in un determinato ammontare di denaro. Una certa merce
ha una misura valida nei termini di una scala dei prezzi in quanto
la singolarità concettuale del valore, espressa da «una determinata
quantità di denaro», acquista esistenza materiale nella lira sterlina,
per esempio: «il valore di questa merce è £3».
La merce, sempre materialmente singola, sembra opporsi
al valore a causa della sua immediatezza come corpo naturale. Il
denaro, come forma pura del valore, sembra opporsi alle merci. Il
collegamento esiste comunque nella forma del prezzo. Qui il valore
si è particolarizzato in una determinata quantità di denaro. Vice-
versa, le merci superano il loro stato di singoli materiali divenendo
particolari incarnazioni del valore. Ma non c’è nessuna identità
immediata in queste particolari forme del valore, soltanto una rela-
zione, poiché, da un lato, l’equazione è il valore in una forma ideale,
come momento del concetto universale, e, dall’altro, il valore è
posto in una forma singola materiale. Così, quando il denaro, come

75
concetto tangibile del valore, si particolarizza, non si determina
con ciò quale singolo, rimane una particolarizzazione concettuale.
Viceversa, la merce è un singolo a causa della sua differenza mate-
riale dalle altre, ed è «un valore» solo perché è valutata attraverso
una determinata quantità di denaro. Come «un valore», la merce
non può essere immediatamente una incarnazione dell’universale,
proprio in quanto non è valore al di fuori della mediazione della
forma di prezzo. Sebbene sia implicitamente valore, la sua reale
valutazione richiede il denaro.
Vediamo che la doppia determinazione del concetto, che ho
ripreso da Hegel, è qui presente nella tabella. Egli parlava del deter-
minarsi, attraverso la particolarità, dell’universale fino al singolare e
del complementare risalire del singolare, attraverso la particolarità,
fino all’universalità. Ma il concetto di valore non è inerente ad
una cosa specifica (così come lo è l’«animalità» ad un cane); i suoi
momenti sono distribuiti materialmente nel denaro e nelle merci.
Il momento di mediazione tra il denaro come universale e la merce
come singolare è la particolarizzazione, momento nel quale la giusta
quantità di valore si determina nel prezzo. Tutte le merci che valgo-
no £ 3 sono valutate £ 3, ciò mostra che il denaro è semplicemente
il concetto universale, laddove le merci sono le incarnazioni nel
mondo reale del valore, in cui ciascuna vale £ 3 e tutte assieme un
suo multiplo (che è un’altra quantità particolare, non una classe di
quantità separate).
La presenza di una tale scala dei prezzi, ed il suo uso pratico,
genera, in seguito, l’illusione che il denaro sia solo un numerario.
Il denaro, come «pezzo» di sé, si comporta come se fosse qualcosa
che ha valore (l’oro si comporta come se avesse una tale proprietà),
piuttosto che essere la necessaria forma del valore. Nel prezzo, il
denaro funziona come se fosse solo un numerario e le merci fun-
zionano come se fossero immanentemente valori. Ma, in realtà, il
valore ottiene una determinatezza concettuale soltanto attraverso il
prezzo. Non abbiamo bisogno di considerare altre forme di giudizio
presentate da Hegel, poiché abbiamo a che fare soltanto con la
determinazione quantitativa del valore, non c’è alcuna differenza

76
qualitativa. Similmente, quando si passa alle forme del sillogismo,
la sola forma rilevante è quella che Hegel definisce il sillogismo di
uguaglianza (Enciclopedia, § 188). Nel nostro caso è la deduzione
che se il valore di A è uguale al valore di B e il valore di B è uguale
al valore di C, allora il valore di A è uguale al valore di C. Poiché
il valore è reale soltanto nel prezzo, questo implica la transitività
dei prezzi.
Hegel afferma che un sistema di verità si auto-sorregge quando
le premesse di ogni sillogismo risultano da altri sillogismi. Questo
è ovviamente vero se cambiamo l’ordine del sillogismo di ugua-
glianza del prezzo. Nel caso vi siano due uguaglianze la transitività
assicura la terza. Abbiamo un consistente spazio-valore al posto
di una serie di prezzi contingenti o, peggio ancora, di un caos di
baratti ad hoc. Nella serie dei prezzi complementari, il concetto
di valore è perciò articolato come un intero unitario. Esso ha un
ambito di riferimento universale ed ha l’essere-singolo della forma
come la totalità stessa. Nell’insieme dei prezzi complementari,
il concetto di valore è quindi articolato come un tutto unitario.
Ha un raggio universale di riferimento e una singolarità di forma
come la totalità stessa. Questo mi conduce alla fine della prima
sezione della logica del denaro: il suo concetto «formale» nel prezzo.
In seguito, nel tematizzare lo scambio, attingeremo alla seconda
sezione della «dottrina del concetto» di Hegel: l’«oggettività».

Le metamorfosi delle merci


Quando i giudizi di valore coincidono, avviene lo scambio.
Si passa, quindi, dalla concettualità «soggettiva» del valore al suo
porsi nelle transazioni reali, corrispondenti alla logica hegeliana
dell’«oggettività».
La prima categoria hegeliana dell’oggettività è quella di una
immane raccolta o ammasso di cose (Scienza della logica: 808-9).
Egli poi sviluppa l’ordine logico delle loro interazioni nel «Mecca-
nismo», nel «Chimismo» e nella «Teleologia». L’ammasso diviene
un universo governato da una dinamica intrinseca.

77
Nel tematizzare la dialettica dello scambio, e le «metamorfosi
delle merci» (Marx), noi cominciamo con lo scambio semplice di
una merce con un’altra. Questo corrisponde alla logica hegeliana del
«meccanismo». Egli comincia con una nozione primitiva di movi-
mento oggettivo poiché questa sfera è esplicitamente contrassegnata
dalla mera differenza numerica tra le cose (Enciclopedia, § 194)3.
L’unità del concetto sta sullo sfondo fino a quando i movimenti
oggettivi non portano alla luce e unificano i suoi momenti determi-
nando il passaggio all’«idea». Allora, nei nostri termini, se gli agenti
hanno idee divergenti sui giudizi di valore, non è assicurato l’esserci
[instantiation] sociale di una sfera omogenea di valore nello scambio
e nella circolazione, perché non è vigente alcun principio oggetti-
vo. Un accordo fra giudizi di valore può tuttavia permettere che si
concluda una trattativa, solo in quanto giudizi di valore correlati
logicamente permettono che si tragga una conclusione; il fatto che il
compratore e il venditore accettino lo stesso prezzo esprime oggetti-
vamente l’identità del valore con sé. Come transazione diadica, essa
potrebbe mancare di validità sociale; ma poiché l’idealità del valore
implica necessariamente dei prezzi transitivi, nell’oggettività, l’atti-
vità oggettiva dell’arbitraggio tende a realizzare l’unità dei mercati.
Lo scambio di una merce con un’altra è impedito dall’as-
senza di denaro. L’azione del dare la merce A per la merce B è
complementare alla «reazione» di dare la merce B per la merce A.
Ma la loro commensurabilità esige una «legge» di scambio. Anche
se è presupposto che le merci siano di uguale valore e che quindi
condividano uno stesso fondamento, questo «centro di attrazione»
rimane troppo implicito perché abbia effetto. Soltanto la presen-
za del denaro come «valore in sé» è principio esplicito di unità.
Il denaro come medio determina la circolazione delle merci. Il
principio hegeliano del «chimismo», che si riferisce all’affinità di
determinazioni complementari, può essere considerato il parallelo
di questa situazione. Il cieco processo dell’azione e reazione nello

3
Nel considerare lo scambio semplice potremmo seguire Hegel laddove parla
della «violenza» fatta all’indipendenza delle cose, cfr. Enciclopedia, §196.

78
scambio è raffigurato dalla compera e dalla vendita. Questo è il pro-
cesso attraverso il quale il denaro, come fluido universale, precipita
la singolarità della merce comprata, mentre sublima come valore
quella venduta quale forma universale. Qui la funzione del denaro
come mezzo di scambio è quella di realizzare oggettivamente la
quantità di valore che la merce ha idealmente nel prezzo.
I due movimenti opposti, la compera e la vendita, esistono con-
temporaneamente in ogni transazione; ma se cambiamo la sequenza
e ad una vendita facciamo seguire una compera emerge una nuova
logica, così come una nuova funzione del denaro. È questo il vende-
re per comprare. Questa sequenza (M – D, D – M) è il corrispettivo
oggettivo del sillogismo del prezzo precedentemente richiamato.
Marx è più preciso in Per la critica:
In M – D – M i due estremi M non si trovano nel medesimo
rapporto formale con D. Il primo M è in rapporto con D
in quanto merce particolare in rapporto alla merce generale,
mentre il denaro in quanto merce generale è in rapporto con il
secondo M in quanto questo è merce singola. M – D – M potrà
quindi essere ridotto in modo astrattamente logico alla forma
conclusiva P – U – S nella quale la particolarità costituisce il
primo estremo, l’universalità il centro di unione e la singolarità
costituisce l’ultimo estremo. (Per la critica: 75)

Questo utilizzo della forma sillogistica da parte di Marx


potrebbe non risultare immediatamente chiaro, a meno che non
sia pensato nei termini dei due scambi. Nel primo M – D, M
come individuo non ha interesse nei confronti dello scambiante
che vuole procurarsi il denaro (che si scambia con tutte le merci);
ciò che lo interessa, da questo punto di vista, è soltanto che M
sia una qualche particolarizzazione dell’universale. Nel secondo
scambio D – M, al contrario, il punto non è quello di procurarsi
una M qualsiasi, ma quella le cui caratteristiche individuali pos-
sano soddisfare un particolare bisogno, e che, quindi, esca dalla
circolazione come singolo.
Hegel dice: «L’effettivamente reale è uno, ma è anche il
separarsi dei momenti del concetto, e il sillogismo è il processo

79
circolare [Kreislauf] della mediazione dei suoi momenti, mediante
il quale il processo si pone come uno» (Enciclopedia, § 181).
Marx, nel Capitale, afferma: «il movimento […] delle merci
costituisce un ciclo [Kreislauf ]» (Capitale, I: 144).
Qui la funzione del denaro come medio della circolazione è
il complemento oggettivo della funzione del denaro quale misura
del valore nel prezzo, in cui si dà il fondamento alla capacità del
denaro di servire da «merce universale», ossia quella che ha una
scambiabilità immediata. Qui il ruolo fondamentale del denaro è
che nell’essere usato esso non si esaurisce. Per sua natura, quindi,
il denaro era utilizzato da quelle persone che avevano a portata di
mano un esempio particolare di «ricchezza» permanente e alla fine
diviene l’incarnazione della ricchezza in astratto.
M – D – M è un esempio di «teleologia», perché M – D serve
come mezzo per D – M. Ma in questo caso ancora con lo scopo
di ottenere un valore d’uso nello scambio semplice. Dopo essere
servito da medio dello scambio, il denaro scompare. Infatti, poiché
ogni compera è una vendita, il denaro sta sempre nella circolazione,
sebbene di volta in volta trasferito. Il seguente diagramma (preso
da Uno, 1980: 10) mostra tre successivi scambi; mentre nuove
merci arrivano e se ne vanno, il denaro rimane nella circolazione.

Il denaro, che qui circola incessantemente, ha una sorta di

80
immortalità; come medio della circolazione, esso appare ancora
come proprietà che viene fuori dal sistema di scambio, ma che
non lo dirige. Se comunque, questa «cattiva infinità» lascia il
posto al circuito D – M – D, il denaro figura come origine e fine
del suo circuito. In questo modo l’unità implicita del concetto
(soggettivo) si trova nella mediazione oggettiva dei suoi momenti.
Comprare per vendere rovescia la posizione teleologica di M – D
– M. Il medio prende il posto degli estremi. Il denaro si libera
dal valore d’uso nel porsi come fine proprio dello scambio. Il
valore diventa «idea» nei termini di Hegel, poiché un sistema
così strutturato è fondato sulla valorizzazione del valore.
Siamo andati avanti troppo in fretta; perché il denaro diventi lo
scopo è necessario che esso sia posto «per sé» e non sia soltanto nella
sua funzione di medio. Questo ci porta alle funzioni del denaro quale
mezzo di pagamento e riserva di valore, per le quali è necessaria la sua
presenza reale (la misura può essere semplicemente teorica, il medio
può essere sostituito con dei simboli). In questa forma il denaro è
separato dalle merci e si contrappone alla loro circolazione. Marx
dice anche che in questo modo è fissato quale unica esistenza del
valore che si contrappone alle merci quali valori d’uso (Capitale, I:
162). Ma, naturalmente, nessun momento del concetto può esistere
separatamente. L’avaro pensa di accumulare ricchezza ma il suo tesoro
è solo metallo separato dalla circolazione.
Nella forma D – M – D il valore si riferisce a sé, particola-
rizzandosi dal denaro in una merce singola ed infine recuperan-
do la propria forma universale grazie alla realizzazione del par-
ticolare valore di quella merce. L’autoriferirsi del denaro nel cir-
cuito costituisce una nuova forma di valore – il capitale – che si
realizza attraverso la metamorfosi del denaro e delle merci.
Per comprendere che cosa si realizzi esattamente a questo pun-
to, è importante vedere l’analisi di Hegel dell’«essere per sé». Nella
logica hegeliana questa categoria è di importanza fondamentale
perché la relazione a sé è la forma base che permette lo sviluppo
di una vera dialettica immanente all’interno di una totalità. Per
prima cosa Hegel introduce il concetto che «ogni finito è soggetto

81
al cambiamento». «Qualcosa diventa altro, ma l’altro è esso stesso
un qualcosa, e quindi diventa ugualmente un altro, e così all’infi-
nito» (Enciclopedia, § 93). Hegel chiama questa infinita interazione
«cattiva infinità» che è superata quando il qualcosa e l’altro sono
compresi come momenti della stessa cosa e «questa relazione a se
stesso […] nell’altro è la vera infinità» dice Hegel; con ciò la categoria
di Essere per sé si viene a costituire (Enciclopedia, § 95). Se il capitale
deve realizzarsi come essere per sé nel circuito D – M – D, allora,
nel passare attraverso queste fasi, esso deve diventare altro da sé ed
in questa alterità essere presso di sé. Nel caso del denaro, abbiamo
visto, la sola possibile differenza tra due specificazioni di questo
universale è la quantità. Il cambiamento è sorpassare il limite, che
qui non può che significare una quantità limitata. Nel circuito D
– M – D il momento dell’identità è assicurato dal rifluire della spesa
iniziale; il momento della differenza emerge se si ha un incremento di
denaro; e se questo nuovo valore si identifica con il precedente e sono
utilizzati assieme come capitale, ancora una volta l’unità dei due è
portata a termine. Così per essere se stesso, il capitale deve ingrandirsi.
Il denaro è realmente «valore per sé» soltanto quando il suo
incremento è lo scopo del circuito del capitale. La superiorità
del capitalista rispetto all’avaro è che egli accumula gettando
continuamente il suo denaro nella circolazione. Questa ripeti-
zione è assolutamente necessaria se il movimento D – M – D
deve realizzare il capitale, la vera infinità rispetto alla finitezza del
mondo delle merci. In questo senso, posto come la totalità delle
proprie determinazioni, il capitale è «individuo» (Enciclopedia,
§ 163). Adesso le merci e il denaro sono le sue proprie deter-
minazioni. Marx dice «il capitale è denaro, il capitale è merce»
(Capitale, I: 187). Il contenuto del circuito è «l’esposizione che
il concetto si dà» (Enciclopedia, § 213). Naturalmente le merci e
il denaro continuano a funzionare come merci e come denaro. Il
denaro mantiene le funzioni di mezzo di circolazione, di mezzo
di pagamento e di riserva di valore. Ma all’interno del circuito si
determina ulteriormente come capitale, ovvero, denaro alla ricerca
di denaro. Il capitale è denaro in movimento.

82
Conclusioni
Ho dimostrato che le categorie della logica hegeliana possono
essere utilizzate per comprendere la natura del capitale, in quanto
la pratica materiale ha generato un modello riconducibile alla
logica hegeliana del concetto. Ho concentrato la mia attenzione
proprio su tale omologia. Ho mostrato come i momenti formali
del concetto possano applicarsi alla forma di prezzo. Nel fare que-
sto ho cercato di evitare due errori: 1) la riduzione naturalistica
della forma alla materia, 2) l’ipotesi che il valore sia una finzione
mentale che si genera nella coscienza sociale. Il valore non si dà
prima del suo concetto, come afferma il punto 2, ma nello stesso
tempo, come afferma il punto 1, esso è là fuori, oggettivamente
presente alla coscienza prima del suo riflesso nel pensiero. In breve
il valore è un concetto, ma non un nostro concetto. Perché un tale
concetto sia realmente presente, i suoi momenti devono distribuirsi
sui suoi portatori, ovvero le merci e il denaro. Questa idea è forse
la più originale e la più difficile tra quelle qui proposte. Non c’è
«dato» dal quale si formi il concetto di valore, bensì il valore è un
concetto datoci dalla pratica, essendosi esso generato alle nostre
spalle. Il valore è un concetto che ci si presenta oggettivamente nel
circuito del capitale. Non è attraverso l’applicazione di un qualche
metodo esterno che la natura del capitale si identifica e si definisce;
il capitale definisce la propria identità attraverso il circuito delle
determinazioni del suo concetto che esso stesso presenta.

83
84
Martha Campbell
L’oggettività del valore versus l’idea di azione abituale

85
86
Nella Prefazione al primo libro del Capitale Marx avverte che
tratterà di individui «soltanto in quanto sono […] i portatori di
determinati rapporti e di determinati interessi di classi»1. Veblen
contesta Marx proprio su questo punto, sostenendo che l’interesse
di classe non fornisce una spiegazione «adeguata» delle istituzioni
economiche e della loro trasformazione nel tempo2. Più di recente,
riprendendo questa obiezione, Hodgson afferma che il difetto che
Veblen ha trovato nell’analisi di Marx è che «essa non è in grado
di mettere in relazione l’agente [actor] con le strutture specifiche e
con le istituzioni, non è in grado quindi di spiegare la motivazione
e l’azione umana»3. Hodgson, come Veblen, suggerisce che questo
collegamento fondamentale si costituisce soltanto quando l’attività
economica è concepita in termini di abitudine [habit]. Questo saggio
si contrappone a questi due modi di concepire l’attività economica e
si propone inoltre di scoprire come Marx avrebbe risposto a Veblen.
La critica di Veblen viene ripresa in primo luogo perché solleva
una questione plausibile. Da una parte l’idea dell’azione abituale tiene
conto della natura sociale e storicamente varia dell’attività economi-
ca, dall’altra, la posizione di Marx è effettivamente particolare: egli
parla della produzione capitalistica nei termini di «leggi naturali […]
con bronzea necessità», di individui intesi come «creature» delle loro
relazioni economiche e, all’opposto, del valore quale «soggetto» o
agente4. In realtà, comunque, soltanto gli uomini agiscono e lo fanno

1
Capitale, I: 34.
2
Veblen, (1919): 314.
3
Hodgson, (1999a): 133.
4
Capitale, I: 32, 33, 187.

87
per realizzare i propri scopi. Che senso può avere concepire il risultato
delle loro azioni combinate come azioni di un soggetto separato e non
umano? Tuttavia, di fronte a queste considerazioni, Marx non può
non essere stato consapevole dell’alternativa proposta da Veblen; in-
fatti essa appartiene, parlando in generale, alla tradizione aristotelica.
Ciò suggerisce che Marx fosse pienamente consapevole della peculia-
rità della propria argomentazione e che, per mezzo di essa, intendesse
indirizzare l’attenzione verso una peculiarità propria del capitalismo.
Sarà questa la mia tesi: l’aspetto della teoria di Marx, che Veblen
considera erroneo, è espressione della tesi secondo la quale il valore
è «oggettivo». Questo saggio si concentra su di un aspetto dell’og-
gettività del valore: quello per cui esso è un’astrazione che si deve
incarnare materialmente. La critica di Hodgson a Marx è qui trattata
allo scopo di portare alla luce la differenza tra l’oggettività del valore
e l’abitudine. Questo determinerà la posizione di Marx rispetto al
pensiero istituzionalista. In più, si porrà l’attenzione su di una carat-
teristica che, per Marx, distingue il capitalismo da tutti gli altri modi
di produzione.

La critica di Hodgson all’economia non istituzionalista


L’obiettivo principale della critica di Hodgson è il concetto
neoclassico di agente economico razionale: l’individuo atomizzato
e ottimizzante assunto come dato. La questione è talmente centrale
per Hodgson che egli propone di definire l’istituzionalismo proprio
attraverso il rifiuto di questo concetto e la sostituzione di esso con
«l’idea che l’individuo si costituisce socialmente e istituzionalmen-
te»5. La critica di Hodgson al marxismo analitico, sia per l’utilizzo
del concetto di «agente razionale» sia per l’interpretazione di Marx
sulla scorta di tale concetto, dimostra chiaramente il suo rifiuto di
questa lettura di Marx6. Inoltre Hodgson riconosce e concorda con

5
Hodgson (2000): 327. Sebbene sia un tema costante, la più estesa critica
all’individualismo metodologico si trova in Hodgson (1988).
6
Su Roemer cfr. Hodgson (1991): 78, 79; su Elster cfr. Hodgson (1999a):
277, n. 13.

88
Marx nel ritenere che l’individualità auto-interessata sia in realtà da
mettere in relazione con la dominanza delle istituzioni capitalisti-
che7. Nondimeno, Hodgson vede lo stesso fondamentale difetto sia
nell’economia neoclassica che nella teoria marxiana: essa, come già
notato, deriva dall’incapacità «di mettere in relazione l’agente con le
strutture specifiche e con le istituzioni», un difetto questo che de-
termina uno «iato concettuale» tra «l’agente e la struttura sociale»8.
Nella teoria di Marx, lo iato si manifesta nell’attribuzione
dell’azione autointeressata alle classi, in particolare alle sue argo-
mentazioni relative al fatto che i lavoratori lottano per la dimi-
nuzione della giornata lavorativa e per salari più alti e i capitalisti
per profitti più alti. Hodgson afferma che queste argomentazioni
differiscono «ben poco dai principi della massimizzazione comuni
anche alla teoria neoclassica»9: come nella teoria neoclassica, una
visione è erroneamente attribuita a tutti gli agenti economici (nel
caso di Marx a tutti i membri di una classe). Il problema messo in
risalto da Hodgson è che in realtà «gli agenti umani [non] gravitano
tutti intorno ad una singola visione della verità» (intendendo con
verità le azioni che dovrebbero essere nel loro interesse); piuttosto
«la coscienza è costituita da abitudini profondamente radicate ed
è basata su concetti culturalmente acquisiti»10. Anche se Marx non
prende l’individuo autointeressato come un dato, la sua teoria è ina-

7
Cfr. Hodgson (1991): 86. Sono importanti le parole precise di Hodgson:
«Sebbene l’individuo non sia mai completamente isolato e autointeressato, alcuni
elementi dell’idea di “uomo economico razionale” corrispondono a reali mutamenti
nell’economia e nella società» (corsivo mio). Cfr. anche (1999b): 230.
8
Cfr. Hodgson (1999a): 133, 144. Nel primo brano Hodgson riassume la
critica di Veblen a Marx. Egli evidentemente è d’accordo con tale critica e la
estende sia alla teoria neoclassica che a quella austriaca.
9
Hodgson (1999a): 131. Sebbene Hodgson non dica questo direttamente,
egli cita due singolari «osservazioni»: quella di Parsons che afferma che «il ma-
terialismo storico di Marx non è che una versione particolare dell’utilitarismo» e
quella di C. Wright Mills secondo la quale «il concetto di lotta di classe di Marx
è utilitaristico e razionalista […] quanto lo è il pensiero di Jeremy Bentham»
(ibid.: 277, n.14).
10
Hodgson (1999a): 132, cfr. anche 136.

89
deguata in quanto (come la teoria neoclassica) non spiega «l’origine
storica di tale comportamento massimizzante e la modalità della
sua trasmissione culturale»11. A questo riguardo Hodgson pensa che
sia Marx che la teoria neoclassica abbiano preso strade opposte ma
ugualmente errate: la teoria neoclassica pretende, senza successo, di
essere completamente generale laddove Marx prova, anch’egli senza
successo, ad essere del tutto storicamente specifico12. Le spiegazio-
ni soddisfacenti devono combinare aspetti transtorici con aspetti
storicamente specifici. Murray ha affermato in modo convincente
che questo è proprio ciò che fa Marx13. La questione non è qui se
tale accusa sia vera, ma la relazione che, per Hodgson, essa ha con
il concetto di individuo razionale. Poiché Marx rivolge poca atten-
zione alla definizione e all’uso di categorie transtoriche, Hodgson
afferma che «potremmo inciampare su concetti astratti – come la
scarsità e l’utilità – appartenenti alla teoria neoclassica»14.
Sebbene Hodgson ponga l’attenzione sulla razionalità ottimiz-
zante, egli intende criticare tale concetto per mostrare un errore più
generale: in termini più ampi, l’errore è quello di ricorrere ad un
unico principio apparentemente fondamentale. Hodgson sostiene
invece che le influenze sono effettivamente molteplici, che perciò la
causazione deve essere concepita in modo «cumulativo», e che tale
varietà è «funzionalmente necessaria ai sistemi economici». Questo
è definito da Hodgson «principio di impurità»15. Su queste basi
egli afferma, per esempio, che l’individuo non è mai «veramente
isolato e autointeressato» (1991: 86), che le relazioni economiche
non possono essere esclusivamente contrattuali (1988: 168-9, 211)
e che il capitalismo effettivamente esistente non è mai privo di

11
Ibid.: 131. Hodgson (1991: 87) si rivolge come modello a Weber. A dif-
ferenza di Marx, Weber si appella a molti fattori differenti: l’etica protestante, la
separazione della produzione dall’unità familiare e dalla consanguineità, l’emergere
dello stato e di altre istituzioni fondate su pratiche «razionali-legali».
12
Cfr. Hodgson (1999a): 141-2, e (1999b): 230-1.
13
Cfr. Murray (1988).
14
Hodgson (1999a): 124.
15
Hodgson (1999a): 132; (1998): 302 e (1999a): 146.

90
elementi non capitalistici (1999a: 124); scrive infatti: «Il mercato
ha inestirpabili aspetti sociali e collettivi» (1988: 178). Egli rifiuta
anche l’idea secondo la quale la massimizzazione del profitto descri-
verebbe il comportamento delle imprese (1988: 137-9) e qualsiasi
teoria generale dei prezzi. Dalla prospettiva di Hodgson, sia le teorie
del valore che si basano sull’utilità sia quelle che si basano sul lavoro
sono ugualmente insostenibili, come del resto lo è la metafora del
centro di gravitazione, dove il centro è il concetto classico di «prezzo
naturale», il prezzo di produzione della teoria marxiana, o la nozione
neoclassica di prezzo di equilibrio16. Sebbene spesso Hodgson mitighi
il suo giudizio su Marx, egli ritiene che la teoria marxiana e quella
neoclassica siano uguali in relazione agli aspetti sopra considerati.
L’alternativa di Hodgson a Marx e alla teoria neoclassica è
quella per cui la società è irriducibilmente particolare. Questo signi-
fica che i prezzi sono «convenzioni sociali» o «norme» di mercato
(1999a: 145); come tali essi sono quindi «il risultato di un processo
che si svolge storicamente» (1988: 184). Hodgson sostiene inoltre
che i prezzi devono essere convenzionali per essere considerati le-
gittimi, per avere quella funzione informativa che si richiede loro
e, infine, per ridurre l’incertezza ad un livello sufficiente al funzio-
namento del mercato17. A proposito della questione dell’impresa
che tende alla massimizzazione del profitto, Hodgson identifica
la posizione marxiana con quella neoclassica (in questo caso rap-
presentata da Milton Friedman) e contro entrambe afferma che:

16
Sulle teorie del valore basate sull’utilità e sul lavoro cfr. (1999a): 145; sui
centri di gravitazione cfr. (1988): 186-7, 207. Hodgson afferma che «la teoria
del valore-lavoro è insostenibile» (1991: 25) e che, inoltre, essa ostacola piuttosto
che favorire lo «svelamento» delle «maschere e dei fraintendimenti» relativi alle
apparenze del sistema capitalistico. È comunque chiaro che egli collega qualsiasi
teoria del valore-lavoro con «il concetto di lavoro incorporato» (1991: 75). Sono
d’accordo che questo concetto fa poca luce sul capitalismo, ma sostengo pure che
questa è la teoria del valore di Ricardo e non quella di Marx.
17
Sul tempo storico cfr. Hodgson (1988): 187; sulla legittimità ibid.: 186;
sulle condizioni richieste perché il mercato possa funzionare, ibid.:184. Comples-
sivamente Hodgson afferma che «il mercato genera e promuove norme (variabili)
e convenzioni per affrontare l’incertezza» (ibid.: 206).

91
le aspettative e le stime sono necessariamente imperfette. Inoltre esse
sono condizionate culturalmente e storicamente. «La massimizzazione
dei profitti» ci conduce a valori non specifici o ovvii […]. Le istitu-
zioni e le culture variano da impresa ad impresa e da paese a paese.
Gli obiettivi delle imprese sono culturalmente e istituzionalmente
specifici (1999a: 137-8).

In conclusione, in opposizione sia all’individualismo neoclas-


sico che alle «forze obiettive e strutturali», Hodgson afferma che
la causazione è bidirezionale: «gli individui creano e cambiano le
istituzioni così come le istituzioni modellano e vincolano gli indi-
vidui»18. Nelle parole di Veblen:
Poiché l’emergere delle istituzioni è determinato dall’esperienza
e dall’effetto dell’abitudine, la condotta dei membri di un grup-
po cagiona il loro sviluppo e cambiamento. Al tempo stesso,
le istituzioni indicano e definiscono gli obiettivi e i fini della
condotta individuale19.

La critica di Hodgson al modo in cui Marx presenta l’agente


e l’azione è condotta a partire dell’affermazione di Marx relativa
all’azione autointeressata delle classi. Nel Capitale, comunque,
Marx affronta tali questioni ben prima della relazione fondamentale
tra lavoro salariato e capitale. Egli parla inizialmente di individui
quali «personificazioni di rapporti economici» in relazione alla loro
posizione di scambianti. Sebbene si tratti del livello più astratto
della teoria marxiana, è questo il luogo in cui rinvenire i termini
della spiegazione dell’azione economica nel capitalismo.

18
Hodgson (2000): 326. Hodgson critica inoltre l’idea marxiana relativa al
fatto che il capitalismo sarà sostituito dal socialismo poiché sostiene che tale idea
si fondi su di una errata teleologia (cfr. 1998: 302-5). Mentre questo punto non
sarà qui discusso, è degno di nota che per Hodgson tale idea sia problematica
in quanto non considera la varietà. Come il concetto neoclassico di equilibrio al
quale Hodgson la compara, essa presuppone un solo esito. In accordo con Veblen,
Hodgson afferma invece che «molti futuri sono possibili» (1999a: 139).
19
Da Hodgson (2000): 326 che cita dal saggio di Veblen su «I limiti del-
l’utilità marginale».

92
Il processo di scambio nel Capitale
La prima volta che nel Capitale si incontrano persone reali,
così da poter considerare le loro intenzioni e le loro azioni, è nel
secondo capitolo, in cui si affronta il processo di scambio. Distin-
to dal valore di scambio, che è la relazione reciproca delle merci,
questo processo è l’attività effettiva o la realizzazione dello scambio.
Esso trasforma in valore d’uso e valore reali le proprietà che le merci
si suppone abbiano idealmente20. Sebbene né l’atto dello scambio
né il valore d’uso possano concepirsi senza gli esseri umani, essi
devono essere introdotti solo a questo punto. Questo ci permette
di comprendere che il primo capitolo del Capitale non si riferisce
alla società nel senso comune del termine, ma esclusivamente e let-
teralmente alla società delle merci21. La sezione conclusiva, dedicata
al feticismo, è volta a mostrare che, nel capitalismo, il processo di
«ricambio organico sociale», come Marx lo chiama, ha a che fare
con «rapporti sociali tra cose» piuttosto che tra persone22. L’assenza
di esseri umani prima del secondo capitolo non è un espediente

20
Questo punto emerge più chiaramente nella esposizione marxiana del
processo di scambio in Per la critica, nella quale si sottolinea che tali proprietà
della merce divengono (werden), si attuano o si realizzano (betätig), sono in
processo (prozessierende), e che «l’effettiva relazione reciproca delle merci è il loro
processo di scambio» (Per la critica: 23). Come nota Arthur (2004), la differenza
fondamentale tra l’esposizione marxiana del processo di scambio nel Capitale e la
stessa nelle altre versioni di Per la critica e dei Lineamenti è la netta separazione
tra il valore di scambio, che riguarda solo le merci, ed il processo di scambio.
Poiché l’esposizione nel Capitale è particolarmente condensata, le altre due versioni
saranno utilizzate per sviluppare l’argomentazione.
21
Marx parla della merce come «cittadina del mondo delle merci» (Capita-
le, I: 95), del denaro come «opera comune del mondo delle merci» (ibid.: 98),
delle merci che «imprimono» il proprio valore su un’altra merce (ibid.: 99). Nel
secondo capitolo ritorna all’esposizione del denaro presentata nel primo capitolo
affermando che «l’azione sociale delle merci» determina l’esclusione del denaro
(ibid.: 119). È vero che i bisogni umani ed il lavoro sono presentati nel primo
capitolo ma, solo in quanto necessari all’analisi dei fattori della merce, il valore
d’uso e il valore. L’oggetto del primo capitolo è la merce e le sue relazioni.
22
Capitale, I: 137, 105. Con «metabolismo» (Stoffwechsel [«ricambio orga-
nico» nella traduzione italiana - ndr]), Marx intende il processo di interazione

93
letterario, esprime bensì l’idea di Marx che nel capitalismo la rea-
lizzazione di scopi umani serve da mezzo per la realizzazione della
proprietà oggettiva dei prodotti (valore).
Ne segue che, quando le relazioni sociali normalmente intese
sono introdotte nel secondo capitolo, le loro caratteristiche deri-
vano da quelle delle merci come presupposti della forma di merce.
Come Marx afferma, gli oggetti non possono essere merci se non
vengono scambiati. Perché possano essere scambiati piuttosto che
trasferiti in altri modi – presi o dati in dono – i membri della
società devono relazionarsi l’un l’altro come proprietari privati. Il
richiamo e la replica di Marx alla spiegazione hegeliana della pro-
prietà sono impliciti e rimandano all’argomentazione che Hegel ne
dà nella Filosofia del diritto. In un’esposizione più completa di que-
sta argomentazione nei Lineamenti, Marx spiega dettagliatamente
come la relazione di scambio determini l’uguaglianza – in quanto
i proprietari sono formalmente uguali – e la libertà dei contraenti
– in quanto ognuno agisce secondo il proprio interesse23. Questa
argomentazione utilizza lo stesso ragionamento che Marx sviluppa
nel primo capitolo del Capitale, ovvero che all’interno dello scam-
bio di merci il lavoro conta come lavoro umano uguale.

tra l’uomo e la natura per mezzo del quale si ha la soddisfazione dei bisogni.
Questo concetto comprende tutti i rapporti di produzione, l’intero sistema di
rapporti volto alla produzione e alla soddisfazione dei bisogni, che nel capitalismo
include il processo di scambio.
23
Lineamenti, I: 211-7. L’argomentazione marxiana rimanda alla sezione
sulla proprietà e sul contratto nella Filosofia del diritto. Marx fa l’avvocato del
diavolo mostrando come la circolazione semplice possa favorire gli argomenti
degli «apologeti» dei rapporti capitalistici (ibid.: 210). Per fare questo egli adotta
i presupposti degli «apologeti» (dei quali rivela l’erroneità alla fine del brano,
ibid.: 217-21), i quali sviluppavano la circolazione semplice indipendentemente
dal rapporto di capitale. Queste premesse determinano un’importante differenza
linguistica rispetto al Capitale. Per questa ragione Marx afferma che il «conte-
nuto» dei rapporti di scambio «sta completamente fuori dalla determinazione
economica»; per contenuto egli intende i valori d’uso dei prodotti scambiati e i
bisogni degli scambianti (Lineamenti, I: 211-2). Se la circolazione semplice non
è disgiunta dal rapporto di capitale, essa è un momento del circuito capitalistico
e, di conseguenza, il suo contenuto è il valore. Per questo motivo, nel Capitale
(ed in altri brani dei Lineamenti) «contenuto» significa valore.

94
Per Hegel, l’aspetto significativo della relazione di scambio
è il rapporto tra le due volontà espresso dal contratto; come egli
afferma questa relazione è «il vero e proprio terreno, nel quale la
libertà ha esistenza»24. Ne segue che il contratto è una componente
del sistema sociale che rende la libertà reale. Per Marx, il sistema
al quale appartiene il contratto perviene a un altro risultato.
Come egli afferma, il «contenuto» della relazione delle volontà è
«determinato dalla relazione economica». Per «contenuto» Marx
intende il valore, ma a questo punto nel Capitale egli deve ancora
mostrare perché il valore è il contenuto del processo di scambio.
All’inizio della seconda sezione del Capitale, egli spiega dettaglia-
tamente i presupposti per l’esistenza del valore come proprietà
stabilita e riconoscibile delle merci (come è presentato nella
prima sezione). La conclusione alla quale arriva è che l’esistenza
del valore è garantita soltanto dalla produzione capitalistica in
quanto soltanto essa può continuamente reimmettere merci nella
circolazione: il mondo delle merci che abbiamo di fronte è effetto
del capitale25. Poiché lo scopo della produzione capitalistica è
quello di incrementare il valore, la dipendenza della circolazione
dal capitale mostra che tutti gli aspetti della circolazione – inclusa

24
Filosofia del diritto: § 75.
25
In altre parole, la produzione capitalistica è condizione sufficiente per
una circolazione sviluppata. Questa argomentazione si basa sulla semplice idea
che, affinché il valore esista, deve essere riprodotto e che, affinché sia socialmente
riprodotto, deve essere il traguardo non del commercio e dell’attività creditizia,
bensì della produzione. Questo è ciò che Marx esprime quando afferma che: «la
circolazione dunque non contiene in se stessa il principio del suo autorinnovamento.
I momenti di quest’ultimo sono ad essa presupposti, non da essa posti. Le merci
devono essere continuamente gettate in essa dall’esterno, come legna nel fuoco.
Altrimenti essa si spegne nell’indifferenza» (Lineamenti, I: 228). Soltanto se la
produzione è capitalistica c’è una continua e necessaria immissione di merci. Per
l’interpretazione del Capitale in questa prospettiva cfr. Banaji (1979), Campbell
(1993), Arthur (1993) e (1997): 12-21. L’argomentazione marxiana, secondo la
quale la circolazione sviluppata presuppone la produzione capitalistica, mostra
l’insensatezza del tentativo di Proudhon di mantenere le relazioni della circolazio-
ne semplice ma di rifiutare il coesistente rapporto tra capitale e lavoro salariato
(Capitale, I: 117, n. 38, cfr. anche Lineamenti, I: 219).

95
la relazione delle volontà nel contratto – sono aspetti del processo
di creazione del valore.
La risposta di Marx a Hegel è allora che la proprietà privata e
il contratto sono parti integranti di un sistema che realizza il valore
piuttosto che la libertà. Da ciò segue che gli stessi scambianti, come
elementi di questo sistema, sono mezzi dell’espansione del valore
piuttosto che agenti (soggetti). Tutto questo è reso dalla descrizione
marxiana di essi come «portatori di rapporti economici» (essi sono
come i valori d’uso, descritti nel primo capitolo quali «depositari
materiali del valore di scambio»)26. Che il rapporto contrattuale
sia parte del sistema del valore implica anche che il contratto non
abbia bisogno di essere «parte di un sistema legale sviluppato».
L’argomentazione, posteriore nell’articolazione del Capitale, che la
produzione capitalistica crea un sistema pienamente sviluppato di
circolazione delle merci dimostra che la circolazione non è una crea-
zione del sistema legale. Infatti, il sistema legale si dimostrerà inade-
guato allo scopo: poiché la legge relativa alla proprietà privata non
è in grado di distinguere la relazione di capitale dallo scambio puro
e semplice, essa può a malapena stabilire le condizioni richieste per
l’esistenza della circolazione delle merci27. Infine, l’idea che il siste-

26
Capitale, I: 118 e 68. In quest’ultimo passo, Marx usa il termine «valore di
scambio» perché deve ancora distinguerlo dal «valore»; una volta ammessa questa
distinzione per cui «la merce è un valore d’uso e un “valore’», l’affermazione
diventa che i valori d’uso sono i portatori materiali del valore (ibid.: 83).
27
L’idea che la proprietà, e così la circolazione, siano fondate sulla legge e la sua
applicazione implica: 1) che l’aspetto sociale dell’economia sia conforme alla legge; 2)
che la produzione stessa non sia un’istituzione sociale. Questo è il fondamento sia della
dicotomia di Mill tra la distribuzione (inclusa la proprietà) come elemento sociale e la
produzione come elemento naturale (dicotomia che Marx critica nella Introduzione
ai Lineamenti), che della distinzione di Rodbertus tra concetti sociali,«storico-legali»,
e concetti economici, «logici», che Marx critica nelle Glosse ad Adolph Wagner. Sono
questi esempi di ciò che Hodgson definisce metodo dello «aggiungi il contesto sociale e
mescola». La sua argomentazione contraria (1999a: 145) – «le istituzioni non sono dei
vincoli che si costituiscono su di una preesistente economia “non istituzionale” […] poi-
ché l’economia non si dà ex ante rispetto alle istituzioni e alla cultura» – ha esattamente
lo stesso significato di quella di Marx (Lineamenti, I: 9-10), che definisce la produzione
come «un’appropriazione della natura da parte dell’individuo, entro e mediante una
determinata forma di società».

96
ma legale stia alla base della circolazione non permette di spiegare il
motivo per cui le relazioni sociali esistono come relazioni tra cose.
Per tornare all’argomento del secondo capitolo, se le caratte-
ristiche dei proprietari sono del tutto determinate dalla merce, la
caratteristica che appartiene esclusivamente agli esseri umani, e che
è introdotta con la loro riflessione, è la loro capacità di determinare
l’utilità di una merce (come Marx scrive «il possessore di merci inte-
gra coi suoi cinque e più sensi questa insensibilità della merce per la
concretezza del corpo delle merci»)28. In assenza di questa capacità,
il valore d’uso può essere soltanto designato idealmente (il carattere
ideale del valore d’uso nel primo capitolo del Capitale è, quindi, uno
dei segni di questa astrazione dagli esseri umani). Lo stesso vale per
il valore in quanto presuppone il valore d’uso. Come nel rapporto
contrattuale, le opinioni del proprietario circa l’utilità delle merci
sono già implicite nella forma di merce. L’esposizione di queste opi-
nioni determina la contraddizione tra il valore d’uso e il valore, ma
in maniera differente rispetto a quella presentata nel primo capitolo.
Che le merci siano scambiabili per natura significa che i proprie-
tari considerano le proprie merci come valori, ovvero quali oggetti
per loro inutili e incondizionatamente uguali alla merce di chiunque
altro. Dall’altro lato, essi valutano le merci di proprietà altrui quali
valori d’uso, con il risultato che essi considerano la merce altrui
uguale alla propria solo se essa ha le caratteristiche fisiche richieste
per la soddisfazione del loro specifico bisogno individuale29. Poiché
ciò è vero per ogni proprietario, ciascuna merce è nello stesso tempo
considerata come un equivalente, astraendo dalle sue caratteristiche
materiali, e, al contrario, equivalente proprio per le sue specifiche
caratteristiche materiali. Posto nell’ottica dei proprietari, invece che
in quella degli oggetti, la contraddizione tra il valore d’uso e il valore
di una merce si trasforma nella contraddizione più familiare tra il

28
Capitale, I: 118.
29
In una situazione dove non esiste denaro, la merce è un «equivalente
per chi non la possiede, […] solo in quanto è valore d’uso per quest’ultimo»
(Capitale, I: 121).

97
carattere «solo individuale e insieme solo generalmente sociale» dello
scambio30. I proprietari di merce sono inestricabilmente legati assieme
in un «sistema di dipendenza materiale» poiché devono sia vendere
che comprare per soddisfare i propri bisogni31. Nello stesso tempo,
in quanto l’uno è indifferente ai bisogni dell’altro ed esclusivamen-
te interessato ai propri, la loro interdipendenza non implica una
comunità: è una relazione di mutua «estraneità e indipendenza»32.
Così, come nelle versioni della stessa contraddizione presentate nel
primo capitolo, alcune cose devono incarnare il lato generale e sociale
dell’opposizione, o devono possedere le peculiarità della forma di
equivalente, perché questa contraddizione possa esistere nella realtà.
In assenza di tale incarnazione, il valore esiste solo come
un’astrazione o un’idea (come Marx afferma in Per la critica, il
valore di scambio «era presente nella nostra astrazione soltanto,
o, se si vuole, nell’astrazione del singolo possessore di merce che
[…] l’ha sulla coscienza come valore di scambio»)33. Nel processo
di scambio l’idea di ogni proprietario secondo la quale la propria
merce è incondizionatamente equivalente ad ogni altra farebbe

30
Capitale, I: 119.
31
Nei Lineamenti, descrivendo l’interdipendenza determinata dal processo
di scambio, Marx afferma che «il valore di scambio […] implica già in sé fin
dall’inizio la coercizione per l’individuo, che il suo prodotto immediato non è
un prodotto per lui bensì lo diventa soltanto nel processo sociale ed è costretto
ad assumere questa forma generale ma estrinseca; che l’individuo ha ormai
un’esistenza soltanto come entità produttiva di valore di scambio, […] che esso
è dunque totalmente determinato dalla società» (Lineamenti, I: 218). La teoria
neoclassica non comprende questo aspetto del processo di scambio e, dunque,
la contraddizione messa in rilievo da Marx.
32
Capitale, I: 120. Una più ampia discussione di questo, presente nei Linea-
menti, rende più comprensibile la breve presentazione del Capitale: la relazione
tra gli individui che scambiano è caratterizzata dalla ricerca del proprio interesse
(«ciascuno diventa mezzo dell’altro […] solo in quanto scopo a se stesso») e dalla
reciproca indifferenza («la reciprocità […] è un fatto necessario […] ma […] è
indifferente a ciascuno dei due soggetti dello scambio, e per ciascuno di essi ha
interesse solo in quanto soddisfa il suo interesse ad esclusione di quello dell’altro,
senza rapporto con esso»), l’interesse comune non è di ordine superiore, ma
soltanto «la generalità degli interessi egoistici» (Lineamenti, I: 213-4).
33
Per la critica: 26.

98
sorgere una tale quantità di pretesi equivalenti quante sono le
differenti merci. Poiché ciascuna di esse escluderebbe ogni altra,
non ci sarebbe nessun equivalente. Tutti i potenziali equivalenti
cesserebbero di essere tali, lasciando i proprietari con i propri valori
d’uso nella loro varietà materiale34. I proprietari non possono creare
l’equivalente attraverso un’intenzione collettiva poiché in questo
modo lo scambio non sarebbe più un processo «esclusivamente
individuale». In altre parole, le azioni espressamente collettive
violano uno dei caratteri decisivi del processo di scambio35.
Le cose devono quindi andare in un altro modo: l’astrazione
dal valore d’uso specifico – o, in termini positivi, la qualità del-
l’equivalenza – deve già avere un’incarnazione separata perché i
proprietari di merci possano pensare che la loro proprietà abbia
valore (e perché i proprietari stessi abbiano le caratteristiche con-
traddittorie di essere completamente dipendenti l’uno dall’altro e
nello stesso tempo isolati ed estranei). In altre parole, invece di
essere un’astrazione fatta dai proprietari (o da «noi»), il valore deve
essere un’astrazione che i proprietari di merce si trovano di fronte
come data (è «non immaginaria bensì prosaicamente reale», imma-
ginaria significa qui qualcosa di solo «pensato»; Per la critica: 31).
Una volta che questa astrazione esiste come denaro, le intenzioni e
le azioni umane possono essere formulate nei suoi termini; la merce
di ognuno è potenzialmente valore per essi, e la considerano come
tale in quanto il denaro è già presente36. Essi non pensano il valore

34
Viene proposta una versione differente dello sviluppo della forma di valore. Ogni
merce è un «equivalente particolare» poiché ogni proprietario la considera valore. Tra
i difetti della forma di valore dispiegata c’è quello per cui la sua forma di equivalente
non è adeguata in quanto «esistono soltanto forme limitate di equivalenti, escludentisi
reciprocamente» (Capitale, I: 96).
35
È vero anche, come emergerà in seguito, che se i proprietari di merce non fossero
«individui» – se ci fosse una comunità – non ci sarebbe ragione perché la ricchezza sociale
esistesse sotto forma di equivalente qualitativo – astratto – o come cosa.
36
La posizione di Marx è che, nel denaro, il valore diventa un’astrazione
reale. Come spiega Arthur, questo significa che «le pure forme […] sono og-
gettivamente presenti nella realtà oltre che nel pensiero» (Arthur, 1993: 86).
Arthur sottolinea che è essenziale nella teoria marxiana che il valore non sia solo

99
e, perciò, stabiliscono qualcosa che lo rappresenti, ma le loro azioni
sono basate sull’esistenza del valore quale denaro. Come Marx si
esprime, i proprietari di merci «hanno agito prima ancora di aver
pensato» (Capitale, I: 119). Infine, allora, l’affermazione marxiana
secondo la quale il denaro si distingue attraverso «l’azione sociale di
tutte le altre merci» significa che le azioni dei proprietari di merci
presuppongono il denaro, ma esso non è un prodotto del loro
pensiero (o, come vedremo, una convenzione). Come emergerà fra
breve, questa è parte integrante di ciò che è il valore.
Per il momento, l’affermazione di Marx pone il problema di
come il denaro giunga all’esistenza: poiché l’esistenza strutturale
(in opposizione all’esistenza accidentale) delle merci presuppone
il denaro, come è possibile che le merci esistano prima del denaro
e che quest’ultimo si distingua attraverso la loro «azione sociale»?

un’idea ma debba incarnarsi: questo, egli afferma, è «il motivo per cui la teoria
marxiana del denaro è così diversa sia da quella ricardiana che dal convenziona-
lismo neoclassico» (ibid.: 80). Uno dei modi in cui questo appare nel Capitale è
dato dalla distinzione operata da Marx tra il valore come risultato della «nostra
analisi» e la sua espressione nei rapporti tra le merci determinata dall’equivalente
generale (cfr. Capitale, I: 82, 83 s., 98; in Per la critica, Marx sottolinea che
in quanto equivalente generale, il valore trascende il carattere che esso assume
nella forma dispiegata come nostra «astrazione» o come «pensato» – intendendo
l’esito del modo di “considerare” le merci; Per la critica: 26-28). Questo appare
anche nell’enfatizzazione, spesso reiterata, da parte di Marx della materialità
acquisita dal valore nella merce denaro (dal secondo capitolo, «noi conosciamo
soltanto quest’una funzione del denaro, di servire come […] materiale nel quale
si esprimono socialmente le grandezze di valore delle merci» (Capitale, I: 122); «il
materiale oro vale soltanto come materializzazione di valore» (ibid: 137)) e nel suo
richiamo al denaro quale corpo del valore (Wertkörper) (ibid: 84) (il modo in cui
Marx utilizza il termine «incorporato» per riferirsi alla relazione del valore con il
denaro, corrisponde al modo in cui il concetto di incarnazione si presenta nella
sua teoria). Il risultato è che Marx dà al valore una esistenza esterna pari a quella
del valore d’uso e la chiama oggettività del valore (il parallelo è particolarmente
sorprendente in questo passo: «Il prodotto del lavoro è oggetto d’uso (Gebrauch-
sgegenstand) in tutte le società ma soltanto una società rappresenta il lavoro speso
nella produzione d’una cosa d’uso come sua qualità “oggettiva” (gegenständlich)»
(ibid.: 94). Tale questione è spesso elusa poiché la distinzione marxiana tra objectiv
(che non implica l’idea di incarnazione) e gegenständlich (che la implica) non è
presente nella lingua inglese (un esempio è la «consistenza oggettiva» e «la vali-
dità generalmente sociale» che la forma generale di valore acquisisce; ibid: 101).

100
La risposta di Marx è che il denaro è il risultato di un processo
storico, nel quale le diverse componenti del valore, che nel capita-
lismo hanno la propria funzione pienamente dispiegata, nascono
una alla volta. Nella storia schizzata da Marx, ogni stadio forma le
basi per il successivo; ma ogni stadio introduce anche soltanto quei
mezzi che sono necessari per eliminare gli ostacoli allo scambio così
come esso esiste in quel particolare momento (ad ogni stadio, «il
problema sorge contemporaneamente ai mezzi per risolverlo»; Ca-
pitale, I: 121). Esposta nelle sue linee principali: 1) ben prima che
la maggior parte dei bisogni sia soddisfatta attraverso lo scambio,
la regolarizzazione dello scambio promuove la produzione volta allo
scambio e questa a sua volta determina la normalizzazione o la non
accidentalità dei rapporti di scambio; 2) un oggetto si separa dagli
altri e diventa equivalente soltanto una volta che la varietà dei beni
scambiati richiede un’espressione separata di ciò che è comune ad
essi; 3) il processo si completa nel momento in cui l’equivalente si
incarna in qualcosa le cui proprietà fisiche siano compatibili con
quelle del valore (nel linguaggio di Marx quando una merce si
«cristallizza» nella forma denaro; Capitale, I: 119). Sebbene il valore
d’uso sociale del valore incarnato, che deriva dalla relazione dell’oro
con tutte le altre merci, e il normale valore d’uso, che deriva dalle
proprietà fisiche dell’oro, non abbiano niente a che fare l’uno con
l’altro, nell’oro il valore acquista un corpo appropriato37.

37
Questa storia permette di esplicitare ciò che Engels ha in mente quando afferma
che «la legge del valore ha dunque regnato per un periodo che va da 5 a 7 mila anni»
(Capitale, III: 39). Marx comunque non parla mai del valore in contesti sociali diversi dal
capitalismo; inoltre, il fatto che egli affermi che la produzione capitalistica sia un presup-
posto affinché il valore possa essere una proprietà dei prodotti del lavoro spiega il motivo
per cui non l’abbia fatto. È invece degno di nota che 1) tutte le caratteristiche descritte
separatamente nelle parti storiche – la produzione per lo scambio, la normalizzazione dei
prezzi, l’incorporazione dell’equivalente qualitativo – sono tutti aspetti che riguardano
il valore nella sua forma pienamente costituita; 2) la storia dell’apparizione del valore è
ricostruita con il senno di poi, dal punto di vista del valore nella sua forma compiuta. È
questa un’applicazione dell’idea che l’anatomia umana contiene la «chiave per l’anatomia
della scimmia» (Lineamenti, I: 33); la forma finale indica che cosa mettere in risalto del
passato. Poiché è costruita all’indietro, tale esposizione non è teleologica. Non c’è nessun
accenno all’idea che la storia debba giungere inevitabilmente al capitalismo; poiché il

101
La soluzione offerta al problema di come il denaro si ori-
gini dalle merci è che il denaro e le merci si sviluppano assieme
come controparti l’uno dell’altra: la merce, o la forma relativa
del rapporto, non si evolve mai oltre il denaro, la forma di
equivalente. Il denaro giunge alla società moderna dal passato
(e questa è la ragione per cui i proprietari di merci se lo tro-
vano di fronte). Come accade in ogni stadio precedente, esso
assume comunque un nuovo carattere in ogni nuovo contesto.
La generalizzazione della forma di merce – in altre parole della
produzione per la vendita – trasforma il denaro nell’equivalen-
te generale nel senso più profondo. Poiché il capitale produce
soltanto merci, questo è il ruolo del denaro nel capitalismo38.
Oltre a spiegare come il denaro si origini, questa storia collega
il denaro alle merci. Questo stesso collegamento è espresso in modo
diverso nel paragrafo terzo del primo capitolo, attraverso il chiari-
mento della forma relativa e della forma di equivalente come «i due
poli della forma di valore»39. Marx torna continuamente su questo
nesso sia perché il concetto di valore dipende da esso, sia perché
esso è camuffato. Il motivo per cui egli insiste nell’affermare che le
merci creano il denaro è per prevenire l’idea alternativa secondo la
quale il valore si origina dal denaro, che al contrario significa che
in se stessi le merci e il denaro non sono in relazione fra sé. Questa
idea sembra più ragionevole di quella di Marx (è, come vedremo,
quella prevalente), perché è quella suggerita dal modo in cui il de-
naro appare. Una volta che la funzione di equivalente si fissa su di
una cosa (l’oro), l’equivalente non ha più nessun nesso con la sua

capitalismo esiste effettivamente, gli elementi del valore possono essere riconosciuti nelle
diverse, e storicamente precedenti, configurazioni del rapporto tra merce e denaro.
38
Marx sostiene che la forma di merce diventa universale soltanto una volta
che il lavoro si determini come lavoro salariato (Capitale, I: 203, n. 41). Quindi
soltanto in questa condizione il valore raggiunge la sua «purezza e generalità»
(Lineamenti, I: 224).
39
Capitale, I: 100. Marx definisce questa relazione come una «determi-
nazione della riflessione» e la illustra attraverso la relazione del re con i suoi
sudditi (ibid.: 89).

102
controparte, la forma relativa. Questa frattura non è ricomponibile.
Il valore deve essere un’«astrazione reale», o deve esistere come una
cosa separata, in quanto l’equivalenza qualitativa delle merci prende
il posto della comunità immediata; precisamente, proprio perché il
denaro deriva dalle merci ordinarie, esso appare del tutto diverso
e privo di nesso con esse. In ogni caso il denaro non può apparire
come l’incarnazione di una proprietà che condivide con le merci;
come risultato, l’omogeneità e l’unità del mondo delle merci (in
altre parole il valore) è del tutto occultata. Marx fa notare che
anche quando il denaro è moneta metallica è irriconoscibile come
merce: «in esso, quale incarnazione del puro valore di scambio, è
completamente scomparso il ricordo del valore d’uso» (Lineamenti,
I: 208). L’occultamento si completa quando il denaro si distingue
ulteriormente dalle merci, come moneta bancaria o cartacea40.
Contribuisce ulteriormente all’occultamento del denaro il fatto
che l’intenzione non giochi alcun ruolo nel dare forma a questa sua
relazione con le merci. Questo è reso esplicito attraverso l’esempio
dello zucchero pesato attraverso un pezzo di ferro, che Marx utilizza
per illustrare la funzione dell’equivalente. Marx presenta questo
esempio in termini del tutto intenzionali: «prendiamo vari pezzi di
ferro» come unità di misura, «poniamo» lo zucchero in relazione con
essi, «se li gettiamo entrambi sul piatto della bilancia, vediamo […]
che essi come gravità sono la stessa cosa»41. Invece, il denaro si svilup-
pa in risposta alle esigenze dello scambio, non per adempiere il ruolo
che esso acquisisce nel capitalismo (qui per sostituire la particolarità
delle merci quali valori d’uso e legare assieme in un’unità individui
fra loro indifferenti, in ultima istanza per creare valore). Coerente-

40
Capitale, I: 100-1, n. 24: «Non si può affatto scorgere a prima vista che
la forma della scambiabilità immediata generale è una forma antitetica di merce,
inseparabile dalla forma della scambiabilità non immediata, come la positività di
un polo di magnete è inseparabile dalla negatività dell’altro polo». Marx afferma
che questo è più visibile nella carta-moneta, in quanto la carta come mezzo di
circolazione («contante») può essere simbolo dell’oro come equivalente universale,
ma proprio perché la carta non è una merce.
41
Ivi: 89, corsivo aggiunto.

103
mente, la descrizione del valore contrasta in maniera stridente con
quella del peso: «gli uomini […] riferiscono l’uno all’altro i prodotti
del loro lavoro come valori non certo per il fatto che queste cose
contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro
umano omogeneo»; piuttosto essi uguagliano il lavoro riferendo
l’uno all’altro i prodotti «senza saperlo»42. Naturalmente possiamo
escogitare metodi di misurazione del peso in quanto lo esperiamo in-
dipendentemente dal misurarlo. Poiché il valore è sia sociale che non
intenzionale, non c’è modo di esperirlo indipendentemente dalla
sua forma denaro. Questo rende complicato scoprire la sua esistenza
anche nella sua espressione. La relazione che le merci hanno con il
denaro, in altre parole, non mostra una loro omogeneità in quanto
valori, come invece avviene per lo zucchero e il ferro in relazione al
peso quando sono sulla bilancia. Inoltre, nessuno utilizza il denaro
come un equivalente universale, per quanto questa sia la sua funzio-
ne nel sistema economico inteso nella sua totalità, questo non è nei
propositi di nessun membro della società (nelle parole di Marx: «In
esso non si vede affatto che la determinazione di essere denaro è un
semplice risultato del processo sociale; esso è denaro. E lo è tanto più
duramente in quanto il suo valore d’uso immediato per l’individuo
vivente non è in alcun rapporto con tale ruolo»43).
Il carattere di valore, come astrazione che deve incorporarsi,
viene fuori proprio dall’argomentazione di Marx. Quando affer-
ma che «queste cose che sono l’oro o l’argento, come emergono
dalle viscere della terra, sono subito l’incarnazione immediata di
ogni lavoro umano», intende che l’astrazione, il lavoro umano, ha
un’incarnazione fisica (non come spesso si è interpretato che le ore
di lavoro spese nella produzione dell’oro e dell’argento sarebbero
immediatamente sociali)44. Se perdiamo di vista il concetto di
astrazione reale, che è uno dei punti fondamentali del primo e del

42
Ivi: 106.
43
Lineamenti, I: 208.
44
Capitale, I: 125. Come appare chiaramente dal contesto, tale affermazione
presuppone che la forma di equivalente generale si sia già legata all’oro e all’argento.

104
secondo capitolo, perdiamo di vista anche l’idea di Marx secondo
la quale il valore appartiene alle merci. Non è una proprietà nostra,
ma loro; se fosse nostra non avrebbe necessità di incarnarsi. Le
teorie simboliche e convenzionali del denaro concepiscono invece
il valore come se fosse nostro.

Cedole orario, denaro simbolico e convenzionale


Uno dei modi per separare concettualmente il denaro dalla sua
relazione con le merci è l’idea delle cedole orario. Il convincimento
che l’ammontare del lavoro sociale contenuto da una merce possa
essere pattuito è sostenuto dall’ipotesi che l’interconnessione tra
le attività lavorative possa essere stabilita direttamente, senza la
relazione che le merci hanno con il denaro; «il lavoro generalmente
sociale» non è un «risultato in divenire» dello scambio, bensì «il
presupposto bell’e pronto»45. L’idea che le merci mantengano il loro
carattere di valore senza che il loro valore sia determinato nello
scambio è autocontraddittoria: presuppone che si sia rinunciato
alla nostra interconnessione con gli altri (e alla nostra responsabilità
verso i valori che determinano la ricchezza sociale) e nello stesso
tempo se ne abbia un controllo. Per quanto l’idea delle cedole
orario non sia particolarmente diffusa, essa ci permette di penetrare
all’interno delle prevalenti nozioni di denaro.
Una delle modalità più diffuse per separare la relazione mate-
riale e polare tra il denaro e le merci è quella di concepire il denaro
come un simbolo46. Questa posizione individua l’origine del valore
nelle nostre idee o nelle nostre abitudini e fa del valore una «nostra
astrazione» (come Marx afferma, il carattere di valore delle merci è

45
Per la critica: 27. Non importa se le cedole orario intendono esprimere la
quantità di lavoro attualmente speso; tale quantità è arbitraria come ogni altra.
Per Marx, la «forma metallica» del denaro è un concetto opposto a quello del
denaro concepito come «posto dalla società» come denaro-lavoro. Proprio perciò
afferma che «l’illusione che sia il denaro metallico a falsificare lo scambio deriva
da una totale ignoranza della sua natura» (Lineamenti, I: 208).
46
Capitale, I: 123; Per la critica: 31.

105
concepito quale «prodotto arbitrario della riflessione dell’uomo»,
dove arbitrario significa esterno al mondo o alla natura delle merci;
Capitale, I: 124). Questo significa che «noi» giungiamo all’idea della
ricchezza in generale o tacitamente, attraverso le nostre consuetu-
dini, o per principio, e che collettivamente rendiamo tangibile tale
astrazione trattando un oggetto quale suo rappresentante. Il denaro è
quindi una convenzione; come la proprietà privata, essa si costituisce
attraverso il riconoscimento. In questa concezione, il denaro è l’incar-
nazione che la società ha assegnato al valore e, viceversa, il carattere
di valore delle merci comuni deriva dalla loro relazione col denaro.
È questa l’inversione contro la quale Marx ripetutamente si oppone:
Non sembra che una merce diventi denaro soltanto perché le
altre merci rappresentano in essa, da tutti i lati, i loro valori, ma
viceversa, sembra che le altre merci rappresentino generalmente
in quella i loro valori, perché essa è denaro (Capitale, I: 125).

Dire che il denaro è il valore (l’inverso della posizione di


Marx) significa che il valore non è effettivamente «oggettivo» (nei
termini di Ricardo «intrinseco»); in altre parole significa che il
valore non è una proprietà delle merci, ma una proprietà che noi
attribuiamo loro47.
Marx esprime la propria alternativa all’idea del denaro quale
simbolo dicendo che il denaro è un «rapporto sociale di produzio-

47
In un altro accenno all’inversione, Marx afferma che «la cosa, nella quale
viene rappresentata la grandezza di valore d’un’altra cosa, sembra possedere come
qualità sociale di natura la propria forma di equivalente, indipendentemente da
tale rapporto» (Capitale, I: 25). La proprietà sociale rimanda al «simbolo», che
ovviamente non è naturale, ma è «posseduta» dal denaro nel senso che non si
pensa possa derivare dal mondo delle merci (cfr. ivi: 89). L’idea del denaro come
convenzione o come simbolo presuppone una non distinzione tra il valore di
scambio e il valore (da questo punto di vista il concetto di valore «intrinseco»
è quindi un’idea sbagliata). Un esempio relativo al denaro quale convenzione è
quello che Marx presenta, nel primo e nel secondo capitolo del primo libro del
Capitale, in relazione alla critica che Bailey rivolge a Ricardo (cfr., per esempio,
Capitale, I: 95, n. 23). La stessa idea del denaro quale simbolo è profondamente
radicata (Marx presenta un gran numero di esempi di ciò, incluso Hegel, ibid:
123, n. 47) e sembra essere l’alternativa prevalente al concetto di denaro quale
meccanismo volto ad incrementare l’efficienza dello scambio (cfr. Per la critica, 32).

106
ne»48. Ancora: il punto è che le «determinazioni sociali del lavoro»
esistono necessariamente come «caratteri materiali», nel senso che
questi sono proprietà delle merci e del denaro (dopo tutto, come
Marx afferma, «le proprietà di una cosa non sorgono dal suo
rapporto con altre cose, ma anzi si limitano ad agire in tale rap-
porto»; Capitale, I: 90). Poiché il valore è in questo senso una loro
proprietà e una relazione sociale, è l’«azione sociale delle merci»,
piuttosto che la nostra azione, a escludere il denaro. I proprietari
di merci, naturalmente, riconoscono uno stesso singolo oggetto
come denaro. Ma Marx distingue una «nostra» parte nella forma-
zione del denaro da una «loro» (delle merci). La loro parte consiste
nell’incarnazione della qualità di equivalente, determinando la
polarità, l’inclusività generale e l’unità (le caratteristiche spiegate
dettagliatamente da Marx nelle Forme A, B e C del paragrafo
terzo del primo capitolo). La nostra parte consiste nell’associare
un particolare oggetto a quella incarnazione, processo che Marx
attribuisce alle nostre consuetudini piuttosto che all’azione delle
merci (la transizione dalla Forma C alla Forma D)49. La nozione
di denaro quale simbolo riduce tutto ad abitudine.

48
Capitale, I: 14 e Per la critica: 31. Deve essere sottolineato che per Marx i
rapporti di produzione includono il processo di scambio. Si tenga presente – come
Marx afferma – che la circolazione è un momento della produzione e che questo
è uno dei tratti caratteristici del capitalismo (Lineamenti, I: 228-9).
49
È questo uno dei luoghi in cui, come Marx afferma, deve essere fissata
una variabile che non è determinata dal valore; una determinazione attraverso la
consuetudine si dimostra quindi necessaria. In questo caso, essendo la consue-
tudine a determinare quale sia l’oggetto in cui si attua l’incarnazione del valore,
tale oggetto può cambiare: può essere l’oro, la carta senza nessuna relazione
all’oro, il trasferimento elettronico. Questi sono tutti oggetti, cioè cose esterne.
La differenza tra loro è irrilevante per lo sviluppo dell’argomentazione che va
dalla Forma A alla Forma C del terzo paragrafo del primo capitolo, che con-
tiene i «cambiamenti essenziali» nell’esposizione della forma-denaro (Capitale, I:
102). Le forme più sviluppate del denaro rendono più difficile la comprensione
della forma di equivalente: è più complesso vedere come il denaro sia escluso
attraverso l’azione sociale delle merci se esso non è una merce; in altre parole è
più difficile comprendere perché il denaro non sia un simbolo. Come dimostra
il caso dell’oro, gli oggetti che servono da corpo del valore, sebbene non siano
determinati dal valore, non sono accidentali. Nel secondo e nel terzo libro del

107
In questo modo, come nell’idea delle cedole orario (ma senza
quel riferimento al lavoro), l’idea del denaro come simbolo sup-
pone che l’interconnessione sociale della produzione non abbia
necessità di stabilirsi attraverso la relazione tra le cose (o «ogget-
tivamente»). Questo lascia due possibilità. L’una è che non ci sia
interconnessione, almeno entro la sfera economica. È questa la
posizione neoclassica dell’individuo atomizzato preso come dato.
Questa posizione corrisponde all’idea del denaro come meccanismo
capace di incrementare l’efficienza dello scambio poiché la «so-
cietà» è solo un aggregato di individui dati. L’altra è che ci siano,
contrariamente a quanto appare, soltanto connessioni dirette tra
le unità di attività economica, imprese (o «capitali»). È questa la
posizione istituzionalista, almeno come è presentata da Hodgson.
In contrasto con entrambe, in una forma che potrebbe apparire
assurda e autocontradditoria se sganciata dalla argomentazione
che la sorregge, Marx sostiene che una volta che il denaro diviene
«l’incarnazione di ogni lavoro umano» gli uomini «sono in rapporto
tra loro […] in modo puramente atomistico» (Capitale, I: 125).
L’atomismo, in altre parole, è una relazione sociale che mette as-
sieme gli aspetti contraddittori dell’«esclusivamente individuale» e
dell’«esclusivamente sociale».

Bisogni umani e capacità


Prima di riprendere in mano la critica di Hodgson, deve
essere sviluppato un punto che abbiamo toccato solo di passag-
gio. Come abbiamo visto sopra, Marx identifica gli scopi umani
con il lato del valore d’uso della merce: i sensi, che determinano
l’utilità delle merci, sono la componente umana del processo di
scambio. Marx fa lo stesso quando tratta della produzione (il pro-
cesso lavorativo): la componente umana è lo scopo che si realizza

Capitale, Marx suggerisce che il denaro si evolve in moneta bancaria sotto la


pressione della valorizzazione e che tale forma di denaro è quella adatta al capi-
talismo (cfr. Campbell, 1998 e 2002).

108
nella materia e che guida la sua trasformazione50. Come prova
della diversità dei bisogni e delle capacità umani, Marx indica la
divisione del lavoro (che appare una modalità di riduzione dei
costi, piuttosto che di miglioramento qualitativo del valore d’uso,
soltanto se vista dalla prospettiva del capitalismo (cfr. Capitale,
I: 408). Marx sottolinea che questa differenza è completamente
diversa dal carattere astratto e uniforme del valore (con totale
indifferenza nei confronti dei sensi umani, in quanto valore la
merce è «livellatrice […] sempre pronta a far scambio non solo
dell’anima ma anche del corpo con qualunque altra merce»
Capitale, I: 118). Inoltre, il valore esiste nell’astrazione da tutte
le particolarità, attraverso il suo distinguersi, come denaro, da
tutte le altre merci capaci di soddisfare bisogni umani. Poiché il
carattere sociale della ricchezza esiste indipendentemente, la rela-
zione ad esso di tutti i beni particolari (e per estensione di tutte
le attività e di tutti i membri della società) è instabile. Il valore
di una merce è la sua posizione in relazione al prodotto sociale
complessivo, ma questo è completamente «casuale e spontaneo»
e conoscibile soltanto in seguito, quando ogni errore nel valore
previsto si «corregge oggettivamente sul mercato»51. Queste dif-
ferenze (l’astrattezza e l’oggettività del valore) tra valore da una
parte e bisogni e capacità umani dall’altra mostrano il carattere
«alieno» del valore. Questo è confermato dal principio di «impu-
rità» di Hodgson: l’irriducibile peculiarità della vita sociale. Come
argomenterò, l’applicabilità di questo concetto a tutte le società

50
Cfr Capitale, I: 212. Marx afferma che lo «scopo […] determina come
legge il modo del suo operare, al quale [l’uomo] deve subordinare la sua volontà».
Questo potrebbe far pensare che nella produzione siamo soggetti alle leggi di
natura. È vero che le leggi di natura devono essere osservate per realizzare ciò che
vogliamo, ma la natura diventa essa stessa un mezzo a beneficio degli scopi umani.
Con il capitale assistiamo al rovesciamento di questo, in quanto la soddisfazione
dei bisogni degli uomini diventa mezzo per la creazione del valore.
51
Capitale, I: 140, 139. Per chiarire: gli scopi degli uomini sono sempre
in relazione ad un tutto sociale, tuttavia in altre società gli uomini conoscono il
«loro ruolo» o ciò che pensano di dover fare.

109
esclusa quella capitalistica determina la stranezza del valore52. Uno
dei modi attraverso i quali Marx ci avverte della disumanità del
valore è la citazione del famoso argomento di Aristotele:
una calzatura serve a calzarsi, ma anche a fare uno scambio. E
ambedue infatti sono usi della calzatura. Poiché chi scambia
per denaro o per alimenti una calzatura, si vale della calzatura
in quanto calzatura. Ma non per il suo uso specifico; poiché la
calzatura non è fatta per le scambio (Capitale, I: 118, n.39).

In altre parole, i prodotti sono fatti per soddisfare dei bisogni;


nel momento in cui essi sono usati per acquistare altri prodotti che
soddisfino altri bisogni (quando il denaro è utilizzato quale mezzo
per lo scambio), essi sono sempre utilizzati allo stesso scopo. Nel
capitalismo, una calzatura è fatta per essere scambiata e la creazione
di questo valore d’uso è (dal punto di vista del capitale) un vincolo
sfavorevole al quale il capitale deve piegarsi per creare più valore.
Gli scopi umani – la soddisfazione dei bisogni e lo sviluppo delle
capacità – sono imbrigliati dalla produzione di qualcosa di disu-
mano53. I bisogni sono soddisfatti e le capacità umane sviluppate
soltanto nei limiti di qualcosa di esterno e da essi diverso, gli uomi-
ni sono «portatori» o «personificazioni» delle relazioni economiche
attraverso le quali viene creato il valore.

Riconsiderando l’istituzionalismo di Hodgson


In che misura, dunque, è possibile comparare la teoria di
Marx con l’istituzionalismo di Hosgdon e quale risposta è possi-
bile dare alla sua critica? Come è riconosciuto da Hodgson, l’ar-

52
Anche nel capitalismo il valore riguarda soltanto la sfera limitata dell’eco-
nomia. Ma la sua influenza sui nostri pensieri fa sì che esso si introduca in altri
ambiti. Questi altri ambiti, come la famiglia, sono basati su altri tipi di legami
(cfr. Murray, 2000).
53
Marx afferma (Capitale, I: 186) che «il fine soggettivo» del capitalista è
quello della valorizzazione, ma questo significa che il capitalista è soltanto un
mezzo al servizio del valore. La non umanità del capitalista è dimostrata dalla
sua indifferenza per i bisogni.

110
gomentazione di Marx contiene elementi che sono normalmente
considerati «istituzioni»; gli esempi che abbiamo visto sono quelli
della proprietà e del denaro. Se l’argomentazione marxiana fosse
portata avanti, emergerebbero altri esempi. Marx afferma che la
teoria del valore presuppone alcune consuetudini: il lavoro medio
semplice, lo standard ordinario di vita (il cosiddetto «fabbisogno
del lavoratore» o i «mezzi di sussistenza necessari»), la lunghezza
della giornata lavorativa54. Queste consuetudini devono tutte essere
date in ogni spazio e tempo; le relazioni di valore le incorporano,
ma non possono determinarle. L’incorporazione di questi fattori
«culturali» e storici sono esattamente ciò che sta difendendo Ho-
dgson. Sembrerebbe quindi che Marx non fosse in disaccordo con
l’affermazione di Hodgson secondo la quale la vita economica è
«sempre culturalmente e storicamente condizionata»55.
La critica di Hodgson sembra in parte derivare dal fatto che
egli sta pensando ad un livello più concreto rispetto a quello di
Marx, ma ciò, di per sé, fa emergere di una differenza reale. Si
potrebbe argomentare che l’assenza di varietà, specialmente nel
primo libro del Capitale, dipenda dal fatto che Marx prenda in
considerazione le caratteristiche comuni che contraddistinguono i
capitali individuali, perché non tratta ancora della loro interazio-
ne e interdipendenza. Sebbene sempre più astratta dell’analisi di
Hodgson dell’impresa, l’argomentazione nel terzo libro del Capi-
tale presuppone che i capitali siano tra loro differenti56. Tuttavia,
l’idea marxiana di una tecnica «normale» non è una «abitudine»
nel senso di Hodgson. È piuttosto una media ponderata. È questo
risultato del prezzo quale modo di valutazione sociale dei prodotti
– il fatto che il prodotto complessivo di un’industria «conti come
un solo articolo di commercio» – assieme al continuo mutamento

54
Cfr. Capitale, I: 76, 204, 306, 269. Come nota Hodgson (1991: 13)
l’aspetto «morale» del salario è simile all’idea che il contratto salariale implichi
un «patto implicito».
55
Hodgson (1999a): 137, citato sopra.
56
Cfr., per esempio, Reuten (1991).

111
delle tecniche57. Questi elementi derivano entrambi dal concetto di
valore. Così, mentre Marx incorpora elementi istituzionali, anche
al livello più astratto della sua teoria, l’approccio di Hodgson non
riconosce assolutamente la singolarità e l’uniformità del concetto
marxiano di valore.
Prendiamo un altro esempio: sebbene in modo breve, la sto-
ria dello sviluppo del denaro tracciata da Marx sembra essere in
grado di esemplificare l’idea di Hodgson relativa al cambiamento
istituzionale (sembra essere esattamente il tipo di spiegazione difeso
da Veblen nella descrizione prima citata). Il denaro si sviluppa in
stadi senza nessuno scopo che lo sovradetermini; si sviluppa al di
fuori di ogni pratica piuttosto che attraverso «un patto tra gli indi-
vidui»58. Per Marx, una volta che l’accumulazione originaria pone
la possibilità della produzione capitalistica, questo processo sinuoso
dell’evoluzione istituzionale giunge alla fine. Da quel momento
le istituzioni e le tecniche cambiano, ma questo cambiamento è
guidato dall’unico scopo di generare sempre più valore59.
La vera differenza alla quale i due modelli conducono è che,
per Marx, l’atomismo esiste realmente; non è una finzione dell’im-
maginazione neoclassica. Similmente, il carattere astratto del valore
– la sua singolarità e la sua uniformità qualitativa – è reale. Inoltre,
l’argomentazione di Marx mostra che queste caratteristiche sono

57
Capitale, I: 140. A difesa di Marx, Sherman (1998: 55) afferma che
«Marx esamina estesamente […] il processo attraverso il quale le nuove tecno-
logie moltiplicano la varietà». Hodgson risponde (1998: 301) che per quanto
«Marx riconosca l’aumento di varietà e complessità nel sistema economico», egli
non lo fa «estesamente»; inoltre «la perequazione del saggio del profitto porta
ad un livello di standardizzazione della tecnologia». Entrambi perdono di vista
il fatto che il cambiamento tecnologico in Marx si determina per la tendenza
alla creazione di maggiore valore.
58
Hodgson (1988): 166.
59
Sul cambiamento tecnologico cfr. Smith (2002 e 2004); un esempio di
cambiamento istituzionale all’interno del capitalismo è lo sviluppo del sistema
creditizio (cfr. Campbell, 2002). Il fatto che il capitalismo sia mosso dalla va-
lorizzazione non implica che il dominio del valore non possa avere fine; i suoi
caratteri storici sembrano suggerire proprio il contrario.

112
presenti esclusivamente nel capitalismo e costituiscono la sua diffe-
renza dalle società precedenti. Entrambe presuppongono il denaro
nel suo ruolo capitalistico. Come abbiamo visto in relazione al-
l’esposizione marxiana del processo di scambio, l’astrazione valore,
o l’uniformità qualitativa delle merci, non può esistere se non attra-
verso la sua incorporazione nel denaro. Inoltre, poiché l’interdipen-
denza sociale, come valore, è astratta ed incorporata come denaro,
l’atomismo è il modo in cui gli uomini si relazionano l’un l’altro.
Ne segue che Marx sarebbe stato d’accordo con Hodgson nel-
l’affermare che tutti i modi di produzione precedenti al capitalismo
sono caratterizzati da una particolarità irriducibile determinata
dall’idea delle abitudini, dai costumi o dalla cultura. Egli avrebbe
inoltre accettato che tali caratteri non solo figurassero, ma dovessero
figurare nella produzione capitalistica. Si allontana però da Hodg-
son nel sostenere che il valore, nel suo essere astratto e oggettivo,
è qualitativamente differente da queste altre caratteristiche, che
esso domina la produzione capitalistica e che è presente soltanto in
essa. Come abbiamo visto sopra, la prima e più astratta esposizione
del denaro offre un esempio della sua idea della relazione che si
determina nel capitalismo tra costume e valore: il costume deve
determinare quale oggetto debba essere utilizzato come denaro;
ma, sebbene il costume abbia un ruolo necessario, non ha alcuna
portata in ciò che è «fondamentale» in relazione al denaro nel
capitalismo, ovvero la sua forma di equivalente generale60. Dalla
prospettiva di Marx quindi, estendendo il principio di impurità al
capitalismo e rigettando qualsiasi teoria del valore, l’istituzionali-
smo di Hodgson si dimostra incapace di cogliere la caratteristica
che contraddistingue il capitalismo stesso61. Questa differenza tra

60
Cfr. Capitale, I: 102-3.
61
Per esempio, poiché Hosgson ritiene «insostenibile» la teoria del valore, pro-
pone di salvare l’analisi marxiana dello sfruttamento presentandola in termini di va-
lore d’uso (1991: 66-77). Ciò significa eliminare i fattori che distinguono il capitali-
smo dalle altre forme di sfruttamento economico. Smith (2004) fa una osservazione
simile in relazione al pensiero neo-schumpeteriano, più precisamente egli sostiene
che le sue deficienze derivano dalla mancanza di un concetto adeguato di capitale.

113
Hodgson e Marx potrebbe essere spiegata grazie ai loro differenti
concetti di denaro.
Allo stesso modo di Keynes, Hodgson concepisce il denaro
come una convenzione e come un «mezzo per superare l’incertez-
za»62. Questa posizione è coerente con l’idea per cui l’esistenza del
denaro ha delle conseguenze che presuppongono l’esistenza del
denaro e che queste non esisterebbero senza di esso. Per esempio,
Hodgson cita l’argomentazione di Mitchell relativa al fatto che
il denaro «ha cambiato la natura e la mentalità umana»; come
Mitchell sostiene, «l’economia monetaria […] ci ha resi reattivi in
modo uniforme agli stimoli uniformi che essa offre»63. In modo si-
mile, Hodgson critica giustamente l’idea secondo la quale il denaro
esisterebbe per ridurre i costi di transazione sulla base del fatto che
le transazioni stesse, e gli alti costi di transazione, non esisterebbero
senza il denaro64. Questi elementi sono perfettamente coerenti con
la teoria di Marx (sebbene non costituiscano evidentemente le sue
argomentazioni centrali).
Il disaccordo emerge relativamente alla ragion d’essere del dena-
ro. Per Marx deve esserci un rappresentante del carattere socialmente
valido della ricchezza, oltre ai beni che soddisfano i bisogni e indi-
pendentemente da essi, in quanto l’interdipendenza è indiretta e non
intenzionale, piuttosto che collettiva. Questo è un aspetto peculiare

62
Hodgson (1988): 166. Il punto di vista di Hodgson non è esattamente
lo stesso di Keynes; tuttavia, in relazione al mio scopo, essi sono uguali poiché
per entrambi il denaro è una convenzione ed esiste perché esiste un bisogno, che
il denaro soddisfa, di far fronte all’incertezza.
63
Hodgson (2000): 324. In modo simile Murray (1997: 54-6) afferma che
l’idea neoclassica di utilità si fonda su di un concetto illusorio di valore d’uso
generato dal denaro. Murray costruisce la propria idea su argomenti marxiani
piuttosto che sull’istituzionalismo. Questo dimostra che, a differenza di quanto
dichiara Hodgson, la teoria marxiana non ci porta a pensare nei termini delle
astrazioni neoclassiche.
64
L’argomento dei costi di transazione, come afferma Hodgson, assume
erroneamente che «ci sono dei sistemi al di fuori dei mercati fondati sul denaro
convenzionale, per i quali la transazione implica costi aggiuntivi» (1988: 297,
n.5). Ciò mostra la differenza tra il concetto di denaro come meccanismo e
come convenzione.

114
della teoria marxiana, che va perduto con l’idea del denaro come con-
venzione. Per quest’ultima, non c’è atomismo ma collettività nel rico-
noscimento del denaro quale forma adeguata della ricchezza sociale.
Inoltre, nella prospettiva convenzionalista, il denaro esiste non per
superare la contraddizione relativa alle relazioni sociali atomizzate, ma
perché gli uomini lo vogliono, in quanto permette loro di superare
l’incertezza. È innegabile che, nel capitalismo, possedere denaro evita
all’individuo l’incertezza associata al possesso dei mezzi di produzione
(e l’uso di essi per produrre per la vendita). L’incertezza che il denaro
permette di superare (e la sola incertezza che supera) è che non può
esserci nessuna certezza che i beni si rivelino ricchezza socialmente
valida. Ma questa incertezza non esisterebbe, se la produzione sociale
non fosse organizzata attorno al valore, ovvero se il denaro non aves-
se solamente una funzione capitalistica. Quindi l’idea che il denaro
serva a far fronte all’incertezza è ambigua: essa afferma che il denaro
è progettato per risolvere un problema che non ci sarebbe qualora il
denaro non esistesse così come esso è nel capitalismo, ovvero come
equivalente generale. In altre parole: se il riconoscimento collettivo
potesse costituire un rappresentante della ricchezza sociale, non ci sa-
rebbe bisogno di un tale rappresentante. Il riconoscimento collettivo
potrebbe appunto determinare quali beni costituiscano la ricchezza
sociale senza che il carattere sociale della ricchezza debba esistere in
astratto, separato dai beni stessi.

Conclusioni
Come Marx, l’istituzionalismo riconosce il carattere irri-
ducibilmente sociale e storicamente determinato dell’attività
economica. Proprio per questa ragione, il confronto tra Marx e
l’argomentazione istituzionalista fa venire alla luce ciò che per
Marx rappresenta il carattere straordinario dell’attività economica
nel capitalismo: esso pretende di creare ricchezza pura e semplice
ed è organizzato in relazione a tale scopo. Da ciò segue che nel
capitalismo la ricchezza si presenta come un qualcosa di qualitati-
vamente singolo (uniforme) che supera e comprende tutte le sue

115
particolari manifestazioni (come si presentano nella relazione tra
tutte le merci e il denaro). Poiché questa uniformità è specifica-
mente capitalistica, il capitalismo ha una caratteristica «di princi-
pio» assente da tutti gli altri modi di produzione. In opposizione
alla varietà e alla materialità dei prodotti in grado di soddisfare
bisogni, il valore – l’illusione capitalistica della ricchezza – è in-
corporeo («fantastico» o «fantasmatico» come lo chiama Marx;
Capitale, I: 104, 109). Poiché il valore esiste separatamente da tutti
i prodotti particolari, la loro relazione ad esso è accidentale. Per
questo motivo il capitalismo è indifferente ad ogni particolarità
dei beni, delle attività e degli individui. Infine, poiché il valore è
qualitativamente uniforme, esso e puramente quantitativo e, perciò,
infinito. Gli uomini non sono soggetti della loro vita economica
in quanto imbrigliati nella creazione di qualcosa senza fine che è
indifferente ai loro bisogni. La teoria neoclassica non comprende
queste caratteristiche come storicamente determinate e connesse
alle istituzioni del capitalismo. L’istituzionalismo sbaglia, invece,
nel non riconoscere la loro realtà.
Dall’altro lato, che l’oggettività appartenga unicamente al
valore significa che le altre relazioni, anche nel capitalismo, sono
completamente differenti da esso. Esse sono del tipo descritto dal-
l’istituzionalismo. Infine, affermare il carattere di storicità del capi-
talismo vuol dire constatare la temporaneità del dominio del valore.

116
Patrick Murray
«Empirismo raddoppiato»
Il posto della forma sociale e della causalità formale
nella teoria marxiana1

1
L’espressione «empirismo radoppiato» [redoubled empiricism] (che prende
il posto «empirismo di secondo livello» [«empiricism in second intension»] usata
nel mio Marx’s Theory of Scientific Knowledge) necessita di alcune spiegazioni
preliminari. Per prima cosa raddoppiare l’empirismo significa semplicemente du-
plicarlo e non quadruplicarlo [«re-double» in inglese, quindi potrebbe intendersi
«ri-duplicare» - ndr]; con esso si intende un rinnovo ed un’intensificazione degli
sforzi dell’empirismo. Il raddoppiamento che ho in mente si riferisce ai concetti
utilizzati negli studi empirici: l’empirismo ordinario li prende per buoni e perciò
li utilizza in modo inconsapevole, non-empirico, e quindi dogmatico. Perché esso
cada in questa trappola verrà esaminato in questo saggio. L’«empirismo raddoppia-
to» sfugge a questo dogmatismo riflettendo, consapevolmente ed empiricamente,
sulla costituzione dei concetti nelle loro relazioni reciproche. Come ciò avvenga
non sarà oggetto di questo saggio.
È giusto domandarsi se tale empirismo non dogmatico debba o meno essere
chiamato empirismo. Donald Davidson, che critica l’«idea di schema concet-
tuale» come terzo dogma dell’empirismo – W. V. O. Quine aveva criticato gli
altri due – si chiede se abbia senso estendere il termine «empirismo» a ciò che
rimane una volta che i dogmi siano stati eliminati (Davidson, 1974: 271). Ho
scelto di utilizzare questo termine rischiando la confusione per questo motivo:
la critica dell’empirismo ordinario da parte dell’empirismo raddoppiato è interna
all’originario progetto empirista, che voleva eliminare le assunzioni non verificate
e empiricamente prive di supporto per combattere il dogmatismo. L’empirismo
raddoppiato è coerente col progetto empirista.

117
118
La straordinaria importanza di Karl Marx per l’odierna filo-
sofia e teoria sociale dipende in gran parte dal ruolo che gioca la
forma sociale all’interno del suo pensiero2. La sua comprensione
della forma sociale è caratteristica ma ha un debito profondo verso
Aristotele e Hegel. Questo è ciò che, sfortunatamente, rende il
pensiero marxiano di difficile penetrazione a molti3. La posizione
di Marx, come quella di Aristotele e di Hegel, contrasta com-
pletamente con la forma di pensiero che caratterizza il moderno
razionalismo, l’empirismo britannico e il kantismo; si contrappone
infatti alle «separazioni puriste» [purist splits]4 che costituiscono la
spina dorsale della nostra filosofia e cultura scientifica moderna,
alle divisioni tra il concettuale e l’empirico, il soggettivo e l’oggettivo.
Nel fare questo Marx rifiuta completamente i fondamenti filosofici
puristi che influenzano l’economia classica e quella neoclassica e
che le rendono incapaci di misurarsi con la forma sociale.
In modo caratteristico, coloro che aderiscono alle «separazioni
puriste» si collocano in campi filosofici contrapposti. Seguendo
l’esposizione hegeliana delle differenti «posizioni del pensiero rispetto

2
Tra il crescente numero di interpreti della teoria di Marx che hanno
mostrato particolare attenzione al ruolo della forma sociale si possono menzio-
nare: Georg Lukàcs, Karl Korsch, I. I. Rubin, Roman Rosdolsky, Furio Cerutti,
David Harvey, Derek Sayer, Simon Clarke, Georg McCarthy, Moishe Postone
e coloro che hanno contribuito al volume New Investigations of Marx’s method
(Campell e Moseley, 1997) e a quello precedente Marx’s Method in «Capital»: a
Reexamination (Moseley, 1993a).
3
È questa una questione che Scott Meikle sviluppa chiaramente. ������������
Cfr. il suo
Essentialism in the thought of Karl Marx.
4
Prendo questo termine in prestito da James Collins, Interpreting Modern
Philosoprhy (Collins 1972: 14 e seguenti).

119
all’oggettività»5, distinguerò il razionalismo moderno, che chiamerò
«oggettivismo purista» (o «oggettivismo»), e il «soggettivismo puri-
sta» (o «soggettivismo»), che include sia l’empirismo britannico che
la filosofia critica di Kant. Per quanto la nostra attenzione sia rivolta
all’empirismo e, più generalmente, al soggettivismo, esamineremo
entrambe le fazioni del purismo, in modo tale da capire le ragioni per
cui sia l’una che l’altra si precludono la possibilità di penetrare lo spa-
zio concettuale necessario per comprendere l’«empirismo raddoppia-
to» di Marx, ovvero il suo approccio empirico alla forma sociale e alla
causalità formale. Nella critica marxiana alle «separazioni puriste» e
alle alternative moderne che da tale separazioni discendono, troviamo
le radici più profonde della grande differenza metodologica e scien-
tifica rispetto all’economia classica e neoclassica. Per comprendere la
profondità della critica marxiana dell’economia classica e neoclassica,
è necessario analizzare le differenze fondamentali fra la sua forma-
pensiero e quella che caratterizza la filosofia moderna.
In questo saggio, cercherò quindi di cogliere il fondamento
della distinzione e della superiorità della teoria marxiana rispetto
all’economia classica e neoclassica. Tale fondamento poggia sul fatto
che Marx ha un approccio radicalmente differente – filosoficamente
e scientificamente più soddisfacente – nei confronti della forma
sociale. Analizzando la comprensione marxiana della forma sociale
apriremo le porte a: 1) il suo rifiuto delle «separazioni puriste»; 2)
la sua ripresa della forma sociale e della causalità formale di matrice
aristotelica (il che significa che le forme sociali agiscono nel mondo);
3) il suo «empirismo raddoppiato», nel quale le stesse forme sociali
dei bisogni, della produzione e della distribuzione – non il compor-
tamento degli oggetti già sussunti alle forme –, insieme alle forze e
alle interconnessioni di tali forme, sono oggetti di un’analisi che si
fonda sull’esperienza.
I concetti e le parole chiave di questo saggio sono quindi: «se-
parazione purista», oggettivismo, soggettivismo, forma sociale, cau-
salità formale, e «empirismo raddoppiato». La mia tesi è questa: sia

5
Enciclopedia, §§ 26-78.

120
l’oggettivismo che il soggettivismo affondano le proprie radici nelle
«separazioni puriste» tra l’empirico e il concettuale, tra il soggettivo e
l’oggettivo, separazioni che ostacolano sia l’«empirismo raddoppiato»
che qualsiasi posizione filosofica o scientifica adeguata alla compren-
sione della forma sociale. Il razionalismo moderno, prendendo in
considerazione ciò che è puramente concettuale a discapito dell’em-
pirico, scoraggia qualsiasi possibile «empirismo raddoppiato». Tale
posizione può tenere conto delle forme sociali oggettive, ma non può
analizzarle empiricamente. Il soggettivismo nega completamente il
concetto di forma sociale oggettiva: poiché teorizza l’assoluta sog-
gettività dei concetti, un concetto soggettivo non può avere come
denotazione oggettiva una forma sociale. Alla stessa maniera, il sog-
gettivismo rende prive di senso sia la causalità formale (forme prive di
esistenza non possono essere produttive di effetti) che l’«empirismo
raddoppiato» (se i concetti sono puramente soggettivi, non c’è modo
di renderli oggetto di un’analisi empirica). Sostengo che, seguendo
Aristotele e Hegel, Marx rifiuti sia il soggettivismo che l’oggettivismo
e, allo stesso tempo, le assunzioni puriste che essi condividono in re-
lazione alla separazione tra concetti e fatti, soggettività e oggettività.
Affermo inoltre che Marx, facendo questo, apre lo spazio alle forme
sociali, alla causalità formale e all’«empirismo raddoppiato». Questa
idea, che mette Marx in compagnia dei più intelligenti empiristi
«post dogmatici»6, non è soltanto filosoficamente più attraente, ma è
scientificamente più efficace.
Sia l’economia classica che quella neoclassica subiscono
– nella visione marxiana – le conseguenze delle assunzioni puri-
ste della filosofia moderna che esse accolgono e, di conseguenza,
non sono in grado di muoversi dall’empirismo ordinario a quello
«raddoppiato»: «In tutti i successivi economisti borghesi, come
nello Smith, la mancanza di senso teorico per la comprensione
delle differenze di forma dei rapporti economici permane di re-
gola nella loro tendenza ad afferrare grossolanamente il materiale
empirico che si trovano dinanzi e nel loro grossolano interesse per

6
Cfr. Bernstein (1971): 72.

121
questo» (Teorie, I: 67). Al contrario, ricorrendo alle forme sociali
specifiche (valore, lavoro salariato, capitale) e alla loro forza (cau-
salità formale), Marx è in grado di identificare, spiegare e predire i
fenomeni sociali che le teorie economiche classiche e neoclassiche
non riescono a riconoscere, è inoltre in grado di fornire analisi
più profonde di aspetti di fenomeni riconosciuti sia dall’economia
classica che da quella neoclassica (l’intensificarsi del processo di
lavoro o i movimenti nel saggio del profitto)7. Il risultato definiti-
vo dell’inserimento della forma sociale all’interno della sua teoria
è che, come afferma giustamente e duramente Martha Campbell
«non ci sono equivalenti ai concetti economici espressi da Marx né
nella teoria classica né nella teoria dell’utilità» (Campbell, 1993b:
34)8. Ciò accredita maggiormente la teoria marxiana.
Oltre a questa superiore capacità esplicativa della teoria
marxiana, l’analisi delle forme sociali permette a Marx di indi-
viduare le deficienze basilari della teoria classica e di quella neo-
classica e, quindi, di offrire una spiegazione storico-materialistica
della loro origine. Queste due capacità, connesse alla superiorità
esplicativa della teoria marxiana, aggiungono argomenti convin-
centi alla forza di persuasione dell’empirismo raddoppiato di Marx.

1. Una breve rassegna delle «separazioni puriste» nella filosofia moderna


Il soggettivismo si basa su due «separazioni puriste» e sulla loro
relazione: 1) la disgiunzione di soggettivo ed oggettivo, 2) la frattura
tra il concettuale e l’empirico e 3) la relazione tra il concettuale e il
soggettivo e tra l’empirico e l’oggettivo9. Poiché tali presupposti si
sviluppano nella loro interezza nel corso di tutto il periodo moderno

7
Il motivo per cui qui si parla di «aspetti di» fenomeni diventerà chiaro
in seguito.
8
È così perché Marx concepisce la produzione quale relazione sociale con
una forma specifica.
9
Come vedremo questo è vero per la filosofia kantiana solo con alcune
specificazioni.

122
(da Bacone a Cartesio passando attraverso la filosofia critica tedesca)
è meglio presentare un resoconto del soggettivismo dell’empirismo
moderno e della filosofia critica (kantiana) nel contesto più ampio
della filosofia moderna nel suo complesso.

1.1 L’oggettivismo purista: il razionalismo moderno


Una caratteristica peculiare del razionalismo moderno (Descar-
tes, Leibniz, Spinoza, Malebranche) è la sua «separazione purista»
tra l’intelletto, o la comprensione, da una parte e la sensazione e
l’immaginazione dall’altra. Lo sviluppo di tale separazione permet-
te la nascita della dottrina delle idee innate, ovvero di quelle idee
che sono formate soltanto dall’intelletto o dalla comprensione.
Le idee innate sono assolutamente indipendenti dalla sensazione
e dall’immaginazione; sono le idee autonome del soggetto puro10.
Esse sono puramente soggettive, ma solo nel senso che sono com-
pletamente non empiriche11; questo non implica affatto che non
siano oggettive nel senso che esse non corrispondano a niente nel
mondo reale; implica l’opposto, se consideriamo l’insistenza di
Descartes sull’idea che le proprietà oggettive delle cose materiali
(le loro «qualità primarie») sono conoscibili soltanto attraverso i
concetti dell’intelletto puro. Il razionalismo moderno è quindi og-
gettivismo purista, in quanto scinde completamente il concettuale e
l’empirico e afferma che i concetti puri permettono una conoscenza
oggettiva, una conoscenza cioè delle cose come esse sono in sé 12.

10
Questa doppia asserzione non vale per Leibniz in quanto egli classifica tutte le
idee, incluse quelle provenienti dalla sensazione e dall’immaginazione, come innate.
11
Così Cartesio, in relazione ai cambiamenti del pezzo di cera nella seconda
meditazione, giunge alla conclusione che «Bisogna, dunque, che ammetta che con
l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non v’è se
non il mio intelletto che la concepisca» (Descartes, 1641: 29).
12
Hegel elogia l’oggettivismo della metafisica razionalista: «Quella scienza
considerava le determinazioni di pensiero come determinazioni fondamentali delle
cose; in base al presupposto: ciò che è, in quanto viene pensato, viene conosciu-
to in sé, quella scienza si trovava a un livello più alto della successiva filosofia
critica» (Enciclopedia, §28).

123
Mentre il razionalismo moderno ed il soggettivismo concordano
nel loro purismo secondo il quale il concettuale è opera esclusiva del
soggetto, essi giungono a conseguenze completamente opposte in
relazione alla validità oggettiva dei concetti. Il razionalismo moder-
no afferma che proprio la completa soggettività (nel senso di non
macchiata dall’empirico) permette ai concetti innati di comprendere
la natura delle cose in sé e quindi di essere oggettivi. Al contrario il
soggettivismo afferma che proprio perché i concetti non sono em-
pirici, e quindi completamente soggettivi, essi non hanno validità
oggettiva. Le convinzioni contemporanee sul soggettivismo secondo
cui la soggettività escluderebbe completamente l’oggettività rendono
ingannevole anche solo formulare la posizione dell’oggettivismo
purista o quella hegeliana, che è oggettivista ma antipurista. Per
queste ultime due, sebbene differiscano in modo significativo l’una
dall’altra13, in un certo senso è vero che “il più soggettivo è il più
oggettivo”. Questo modo di pensare non ha alcun senso per i sog-
gettivisti. Nel razionalismo moderno, l’empirico, o ciò che riguarda
i sensi, si identifica con il non-oggettivo, con le cose per come sem-
brano a noi, con l’antropomorfismo, laddove nel soggettivismo ciò
che è puramente empirico, il puro “dato”, è puramente oggettivo.

1.2 La prima forma di soggettivismo: l’empirismo moderno


L’empirismo moderno spazzò via la dottrina razionalista delle
idee innate e le affermazioni relative secondo cui c’è una facoltà
intellettiva, più precisamente intelletto o comprensione, che è
categoricamente distinta dalla sensazione e dall’immaginazione
e che produce verità sul mondo – giustamente, da un punto di
vista post-soggettivista come quello di Hegel e di Marx14. L’ironia

13
Hegel sviluppa questa critica nei confronti del razionalismo: la sua «di-
visione purista» tra il concettuale e l’empirico chiude lo spazio per l’«empirismo
raddoppiato» – che richiama alla analisi empirica dei concetti – e quindi lascia i
suoi concetti empiricamente inadeguati e dogmatici (Enciclopedia, §36 aggiunta).
14
Bisogna stare molto attenti con categorie come «razionalismo moderno»
e «empirismo moderno». Questi sono soltanto «idealtipi» filosofici; i filosofi

124
fu tuttavia che, a parte alcuni sviluppi che derivano dalla rivolu-
zionaria e implicitamente post-soggettivista dottrina dei segni di
Locke, gli empiristi moderni non riuscirono a liberarsi dalle pastoie
del purismo. Perché? Perché insistettero troppo sulla «separazione
purista» tra il concettuale e l’empirico, che misero in relazione con
la distinzione tra soggettivo e oggettivo in maniera opposta rispetto
a quella dei razionalisti.
L’idea degli empiristi moderni relativamente ai concetti è
nominalista: i concetti sono puramente soggettivi; essi non hanno
denotazione oggettiva15. Questo equivale ad un attacco alle forme
aristoteliche nella misura in cui le forme sono considerate correlati
oggettivi di certi concetti. Francis Bacon giunge alla conclusione
nominalista che «le forme non sono altro che astratte rappresenta-
zioni della mente» (Bacon, 1620: 91), esse sono semplici proiezioni
come il dio di Feuerbach. Nella Sacra famiglia, Marx richiama l’at-
tenzione su questo carattere dell’empirismo moderno così come lo
si trova in Hobbes: «Se la sensibilità fornisce agli uomini tutte le co-
noscenze, dimostra Hobbes, partendo da Bacone, intuizione, pen-
siero, rappresentazione ecc. non sono altro che fantasmi del mondo
corporeo spogliato della sua forma sensibile» (MEOC, IV, 143).
In modo simile a Bacone e Hobbes, Locke separa le costru-
zioni della mente (il puramente concettuale e soggettivo) dalle idee

moderni non rientrano completamente in nessuna delle due categorie (cfr. Loeb,
1981 e Collins, 1972).
John Locke, per esempio, lo si mette immediatamente fra gli empiristi. Infatti
egli critica la dottrina razionalista delle idee innate, eppure Berkeley critica con
forza il suo materialismo cartesiano. Dal punto di vista di Marx questa è un’af-
fermazione importante per due ragioni: egli identificava in Locke il fondamento
filosofico principale dell’economia politica classica e concepiva la teoria classica
del valore-lavoro lungo le linee dell’oggettivismo purista della teoria della materia
di Descartes (cfr. Murray, 1988: 149, e Postone, 1993: 142). L’economia politica
classica, come Locke, afferma di seguire un’epistemologia empirista pur difendendo
una teoria oggettivista del valore, quale «valore intrinseco», come l’empirista Locke
difende una teoria della materia fortemente cartesiana e oggettivistica.
15
Nella Sacra famiglia Marx afferma che: «Il nominalismo si trova come un
elemento centrale nei materialisti inglesi; esso è in generale la prima espressione
del materialismo» (MEOC, IV: 142).

125
semplici (il puramente empirico e oggettivo). Ma, come Hegel
indica e come noi avremo occasione di vedere in seguito, i puristi
sono propensi a capovolgimenti improvvisi e ad acrobazie verbali.
L’adesione di Locke al nominalismo è molto influente con la critica
soggettivista delle «essenze reali» o forme aristoteliche, ma non è
affatto priva di equivoci. Nella sua teoria delle «essenze nominali»
nel terzo libro Saggio sull’intelligenza umana sembra che due Locke
cerchino reciprocamente di dissuadersi. In modo tagliente, in una
prospettiva nominalista, egli scrive che «il generale e l’universale
non appartengono all’esistenza generale delle cose, ma sono inven-
zioni e creature fatte dall’intelletto per il suo uso» (Locke, 1690a,
vol. 2: 20). Soltanto due paragrafi dopo, tuttavia, troviamo Locke
difendere il proprio nominalismo radicale integrando l’opinione
soggettivista secondo cui le essenze nominali sono «opera dell’intel-
letto» con la clausola che «esse hanno il loro fondamento nella somi-
glianza con le cose»16. Qui vediamo il soggettivismo lockeano andare
in crisi: i concetti (le essenze nominali), con la loro generalità e
universalità, sono pure opere della ragione soggettiva, le baconiane
«costruzioni della mente umana» – e non lo sono: sono «anche»
determinate da un’oggettiva somiglianza con le cose.
L’«empirismo raddoppiato», cioè l’analisi empirica e la fis-
sazione dei concetti nella loro relazione reciproca, rende priva di
senso la dottrina soggettivista che afferma che i concetti sono pura
opera della ragione. Se così fosse, l’esperienza non potrebbe avere
nessun ruolo nella determinazione dei concetti. La clausola loc-
keana, antisoggettivista e contraddittoria, apre comunque lo spazio
all’«empirismo raddoppiato», permettendo alle proprietà oggettive
(«la similitudine con le cose») di entrare nella costituzione dei concetti.
Troviamo ancora una volta la «separazione purista» dell’empiri-
smo nella critica seminale di Hume alla causalità, in quanto Hume
accetta la completa oggettività dei dati della percezione sensoriale,
ma in quel mondo oggettivo dei sensi egli non è capace di trovare

16
Queste frasi provengono dal titolo del paragrafo 13 del terzo libro (Locke,
1690a, vol. 2: 21)

126
in alcun luogo l’impressione della connessione necessaria. Quando
alla fine la individua, egli la determina quale sentimento meramente
soggettivo che implica un’abitudine o una consuetudine mentale,
che noi inconsapevolmente proiettiamo nel mondo oggettivo17.
L’identità concepita da Hume tra il puramente soggettivo e il rigo-
rosamente non oggettivo lo porta a rifiutare l’idea dell’oggettività
delle connessioni causali. Ma questa considerazione scioccante por-
ta con sé una fenomenologia poco chiara nella quale saltano fuori
elementi «puramente soggettivi». Ogniqualvolta sentiremo parlare
di «puramente soggettivo» – lo sentiremo spesso in relazione alla
nozione neoclassica di utilità – cercheremo di vedere dove una tale
«distinzione razionale»18, particolarmente quella tra il soggettivo e
l’oggettivo, è stata ipostatizzata in una supposta separazione. Così,
con tutti i suoi attacchi pieni di baldanza e di buone intenzioni
contro il razionalismo moderno, l’empirismo moderno tralascia la
questione di fondo del purismo e si mette sotto il gioco delle vane
astrazioni della forma mentis soggettivista.

1.3 La seconda forma di soggettivismo: la filosofia critica (kantiana)


Da una parte non c’è bisogno di dilungarsi su filosofia critica e
soggettivismo in quando fu Kant a dare a questa dottrina una forma
definita nella sua «rivoluzione copernicana»; vogliamo comunque
vedere come questo secondo tipo di soggettivismo si distingua dal
primo (l’empirismo moderno). Seguendo l’affermazione di Hume
secondo la quale la percezione sensoriale, strettamente considerata,
non può fornire alcuna garanzia di universalità e necessità, Kant
si convinse – accettando implicitamente l’identità, presupposta da

17
Per una recente e efficace critica al soggettivismo di Hume e all’utilizzo
della retorica della proiezione, cfr. Stroud (1993).
18
Hume mette in evidenza il concetto di «distinzione razionale» in due
pagine all’inizio del Trattato sulla natura umana (Hume, 1739-40: 37-38). Le
«distinzioni razionali» fanno il loro ingresso quando siamo in gradi di distinguere
ma non di separare, come, per usare un esempio di Hume, tra la bianchezza e
la rotondità di una sfera di marmo.

127
Hume, tra percezione sensoriale e oggettività (in un significato
ben preciso)19 – che, poiché abbiamo esperienza dell’universalità,
essa può venire soltanto dal soggetto conoscente. Nella Critica
della ragion pura Kant determina lo spazio e il tempo come non
empirici20, come forme puramente soggettive della sensibilità, e le
dodici categorie dell’intelletto come non empiriche, funzioni pu-
ramente soggettive necessarie alla sintesi dell’esperienza. La filosofia
kantinana differisce dall’empirismo in: 1) l’affermazione che ciò
che è dato, il puramente empirico, non può essere determinato
astraendo dai concetti dell’intelletto e dalle forme della sensibilità:
le intuizioni senza concetti sono cieche21; 2) il mondo fenomenico
si costituisce attraverso ciò che si dà attraverso l’intuizione e le
forme puramente soggettive dell’intuizione unite alle categorie
dell’intelletto così come sono schematizzate dall’immaginazione
(trascendentale). Queste forme e queste categorie puramente sog-
gettive hanno quindi una sorta di oggettività. È questo un primo
allontanamento dall’istanza dell’empirismo moderno secondo la
quale le forme e i concetti non sono assolutamente oggettivi e,
allo stesso tempo, un riavvicinamento al razionalismo moderno
e alla dottrina per cui il pensiero puro è in grado di scoprire la
vera natura del mondo. Ma la presa di distanza dall’empirismo

19
Dei tre significati che Hegel attribuisce all’oggettività questo è il primo:
«In primo luogo, significa ciò che è presente esternamente, a differenza di ciò che
è soltanto soggettivo, opinato, sognato ecc.; in secondo luogo, ha il significato, sta-
bilito da Kant, di universale e necessario a differenza del contingente, particolare,
soggettivo, proprio della nostra sensazione, e, in terzo luogo, il significato […] di
in sé pensato, di ciò che c’è, a differenza di ciò che è soltanto pensato da noi e
quindi ancora distinto dalla cosa stessa o in sé». (Enciclopedia, §41, aggiunta n. 2)
20
Per non empirico intendo che non ci derivano dai sensi, non che non
hanno luogo nell’esperienza; al contrario Kant insiste sull’idea che né le forme
dell’intuizione né le categorie dell’intelletto producano qualsiasi conoscenza se
separate dall’esperienza.
21
Questo si avvicina molto ad un rifiuto della «separazione purista» tra il
concettuale e l’empirico. Proprio perché non è chiaro quale sia la differenza tra
dire, da un lato, che si può separare il concettuale dall’empirico ma una volta
fatto ciò non si ha da dire niente su entrambi e, dall’altro, dire che il concettuale
e l’empirico sono inseparabili.

128
non è completa, perché l’oggettività che Kant concede alle ca-
tegorie e alle forme della sensibilità è quella che Hegel definisce
di secondo tipo e non di terzo. L’oggettività «critica» è compro-
messa dal fatto che si riferisce solo alle cose come ci appaiono
(fenomeni) e non alle cose come esse sono in sé (noumeni).
Al di là delle sue differenze con l’empirismo moderno, la filo-
sofia kantiana può essere considerata una forma di soggettivismo?
Lo è, in prima battuta, per l’identificazione del puramente non
empirico con le forme puramente soggettive22. Lo è poi perché,
pur garantendo un’oggettività fenomenica alle forme puramente
soggettive e alle categorie, alla fine tale oggettività viene negata
nel senso della terza forma di oggettività identificata da Hegel23.
Questa garanzia kantiana dell’oggettività fa inevitabilmente (e
giustamente) sorgere il sospetto, sia negli empiristi tradizionali che
in quelli «post dogmatici», che la filosofia critica kantiana non sia
migliore dell’empirismo e del razionalismo moderni che preten-
deva superare24. Kant è da un lato troppo dogmatico – nel mettere
al riparo le forme della sensibilità e i concetti dell’intelletto dalla
critica empirista (ma non da quella dell’«empirismo raddoppiato»)
e troppo scettico nell’insistere sull’abisso invalicabile che separa
i fenomeni dalle cose in sé. Questa coesistenza di eccessi che si
compensano reciprocamente è una significativa concomitanza di
«separazioni puriste».

22
Marx reagí fortemente contro questo dualismo di forma e materia fin
dalla lettera scritta al padre all’età di diciannove anni. Qui Marx critica il proprio
abbozzo kantiano-fichteano di una scienza del diritto: «L’errore stava nel credere
che una cosa potesse e dovesse svolgersi separata dall’altra, e nell’ottenere io così
non un’autentica forma, ma un casellario, in cui poi spargevo sabbia» (MEOC,
I: 11). Giungere alle «forme reali» è ciò che fa l’«empirismo raddoppiato». Per
uno studio eccellente sul tema della forma in Kant, cfr. Pippin (1982).
23
Hegel commenta: «l’oggettività kantiana del pensiero è, a sua volta, soltanto
soggettiva, in quanto, secondo Kant, i pensieri, sebbene siano determinazioni
universali, sono però soltanto nostri pensieri, e un abisso invalicabile li separa da
quello che è la cosa in sé». (Enciclopedia, §41, aggiunta n. 2)
24
Per la critica mossa dall’empirismo tradizionale, cfr. Hans Reichenbach
(1951). Per la critica mossa dagli empiristi «post dogmatici», cfr. Waismann
(1945): 48 e seguenti.

129
2. Critiche al soggettivismo
2.1 I concetti aristotelici di forma e forma sociale
La forma è, nella realtà, ciò che risponde a un concetto, che
dice che cosa sia una cosa. La forma implica la necessità, l’universalità
(il genere) e la qualità. Per esempio, nella teoria di Marx, il valore è
la forma sociale del prodotto del lavoro nel capitalismo; questa for-
ma sociale è una caratteristica effettuale del mondo che risponde al
concetto marxiano di valore. Il valore è qualitativo in quanto è de-
terminato dal lavoro astratto socialmente necessario; implica l’univer-
salità poiché è la forma sociale che tutti i prodotti hanno la tenden-
za ad assumere nel capitalismo; e implica la necessità in vari modi,
uno dei quali è la necessaria connessione tra il valore e il denaro25.
Il soggettivismo presuppone l’esistenza di una cosa anche senza
conoscere alcuna determinazione di essa. La «cosa in sé» di Kant è
l’esempio tipico di questo atteggiamento. La tradizione aristotelica
– inserisco in questa tradizione anche Hegel e Marx – rifiuta questa
vuota ontologia. Muovendo una critica aristotelica, Elizabeth An-
scombie scrive: «una tale visione è basata sul presupposto implicito
– che abbiamo visto all’opera in Locke – che è possibile identifi-
care una cosa senza determinarne le caratteristiche – e che se non
possiamo farlo, ciò dipende dalla nostra incapacità di concepire la
sostanza se non come avente alcune qualità. La cosa, intesa come
presupposto, diviene un’entità misteriosa che in sé non ha qualità,
“un qualcosa che non conosciamo per come è’, che è sostrato delle
caratteristiche che si dice “abbia” e che sola ci rende possibile il
concepirla» (Anscombe, 1961: 10-11). La divisone soggettivista
tra ciò che una cosa è «in sé» (l’oggettivo) e ciò che è «per noi» (il
soggettivo) è un’astrazione inutile26. Ciò che è veramente assoluto
– in ultima istanza – è proprio l’inestricabilità dell’«in sé» e del
«per noi».

25
Su questo, cfr. Murray (1993a).
26
È alla separazione dell’in sé e del per noi che volgiamo le nostre obiezioni,
non alla «distinzione razionale» che può essere ragionevolmente compiuta.

130
Hegel insiste su questa assolutezza: «Gli uomini tendono in
generale a conoscere il mondo, a appropriarsene e a assoggettarlo
a sé, e, alla fine, la realtà del mondo deve essere inevitabilmente
per così dire schiacciata, cioè idealizzata. Ma al tempo stesso va
però osservato che non è l’attività soggettiva dell’autocoscienza a
introdurre l’unità assoluta nella varietà. Quest’identità è piuttosto
l’assoluto, il vero stesso» (Enciclopedia, § 42, aggiunta n. 1). Ra-
gionando ancora lungo le linee aristoteliche, Hegel conclude che
il «che cosa esso è» [what it is] di una cosa non può essere separato
dal «che esso è» [that it is], come vorrebbe il soggettivismo. E la
forma della cosa è ciò che risponde alla domanda del «che cosa esso
è». Hegel scrive: «Ma soltanto per il fatto che spettasse loro [agli
oggetti] l’essere, non si avrebbe alcun guadagno, né per gli oggetti,
né per noi. Quel che importa nel contenuto è che sia un contenuto
vero […] Quello che conta, dunque, non è affatto la distinzione tra
soggettività e oggettività, ma è il contenuto, e il contenuto è tanto
soggettivo quanto oggettivo»* (Enciclopedia, § 42, aggiunta n. 3).
Questa conclusione chiara, per quanto non innocente, secondo la
quale nel conoscere noi vogliamo conoscere che cosa sono le cose,
trova un’eco nel finale sbalorditivo di Donald Davidson al suo
dissolvimento della forma mentis soggettivista: «Abbandonando il
dualismo di schema e mondo non abbandoniamo il mondo, ma
torniamo a stabilire un contatto immediato con gli oggetti familiari
le cui stravaganze rendono veri o falsi i nostri enunciati e le nostre
opinioni» (Davidson, 1974: 282). Il nostro contatto con il mondo
è «immediato» solo laddove la «separazione purista» tra l’«in sé» e
il «per noi» risulta inattiva; il loro nesso è assoluto.

*
La citazione di Hegel riportata nel testo è ripresa dalla traduzione italiana di
Verra. Traducendo dalla versione inglese il passo suona: «Ma né noi né gli oggetti
abbiamo nulla da guadagnare dal mero fatto che essi posseggano l’essere. Il punto
principale non è che essi sono, ma che cosa essi sono … Messa perciò da parte
come non importante questa distinzione fra soggettivo ed oggettivo, noi siamo
grandemente interessati a conoscere che cosa una cosa è, cioè il contenuto, che
non è più oggettivo di quanto sia soggettivo». Questo permette di comprendere
la terminologia adottata dall’autore – ndr.

131
Aristotele riconosce che la domanda «che cosa è» è appli-
cabile sia alla società che alla natura: per questo Marx lo elogia
come «il grande indagatore che ha analizzato per la prima volta
la forma di valore, come tante altre forme di pensiero, forme di
società e forme naturali» (Capitale, I: 151). La Politica aristotelica
è un’analisi fondamentale delle forme sociali e politiche, del loro
contenuto, delle loro conseguenze e delle relazioni con le altre
forme – in breve un caso antico ma istruttivo di «empirismo
raddoppiato». L’affermazione fondamentale di Marx «ogni pro-
duzione è un’appropriazione della natura da parte dell’individuo,
entro e mediante una determinata forma di società» (Lineamenti,
I: 10) è profondamente aristotelica. Inoltre, essendo il Capitale,
un’analisi accurata e fondata sull’esperienza delle forme sociali
che caratterizzano il capitalismo, esso è un’opera aristotelica27. C’è
una questione terminologica importante che deve essere messa
in relazione a questa breve esposizione del concetto aristotelico
di forma e forma sociale. Si deve stare molto attenti all’uso dei
verbi «determinare» e «modificare». È facile slittare dal significato
dell’uno in quello dell’altro. «Determinare» rimanda a ciò che fa
di una cosa ciò che è; qualcosa di indeterminato, per esempio il
bisogno, la ricchezza, il lavoro, è privo di forma – e quindi, per
Aristotele – di realtà. «Modificare» opera ad un livello metafisico
e concettuale differente; abbiamo qui a che fare con qualcosa che
è reale, che è determinato, che ha una forma, e che è sottoposto
ad un cambiamento. In questo caso il problema non è Che cosa
è? Ma, assumendo che già lo si sappia, Come si comporta?28 L’em-
pirismo ordinario mira a quest’ultima questione; l’«empirismo
raddoppiato» ad entrambe.

27
Questa posizione è esaminata dettagliatamente nel secondo dei due suoi
eccellenti studi sulla relazione tra Marx e Aristotele, da George E. McCarthy,
Marx and the Ancients e Dialectics and Decadence: Echoes of Antiquity in Marx
and Nietzsche.
28
Cfr. questa distinzione concettuale con quella lakatossiana tra proposizioni
centrali e periferiche discussa da Tony Smith in Campbell e Moseley (1997).

132
2.2 Il pragmatismo e l’empirismo «post-dogmatico»
Sui seguenti punti, i pragmatisti e gli empiristi «post-dogma-
tici» come William James, Fredrich Waismann, W. V. Quine, e
Donald Davidson fanno causa comune con gli aristotelici: 1) rico-
noscono che la posizione soggettivista è incentrata sulla posizione
purista secondo la quale l’oggettivo può essere cavato dal soggettivo
e l’empirico dal concettuale, e 2) trovano questa posizione inso-
stenibile, per quanto comprensibile29. Una chiara affermazione di
questo secondo punto la si trova nella lezione di William James
dal titolo Pragmatismo e umanismo. L’«umanismo», al quale James
concede l’approvazione pragmatista, finisce per essere precisamente
il rifiuto della separazione soggettivista tra il soggettivo e l’oggetti-
vo. James definisce «umanismo» «la dottrina secondo cui anche le
verità sono prodotti umani, per quanto in misura imprecisabile»
(James, 1907: 137). L’affermazione fondamentale per i nostri sco-
pi è «in misura imprecisabile», in quanto esclude la separazione
soggettivista tra soggettivo e oggettivo, concettuale e empirico.
All’immagine soggettivista, per la quale i contributi umani sono
erbacce che possono essere estirpate dal giardino della conoscenza
(144), James sostituisce quella del fiume e dei suoi argini: «È il
fiume che crea le rive o sono le rive che fanno il fiume? […] Come
non si può rispondere a simili domande, è altrettanto impossibile
separare il reale dai fattori umani nella crescita dell’esperienza
cognitiva» (142)30. La critica di James al soggettivismo è di tipo
fenomenologico.
Gli empiristi «post-dogmatici» contemporanei ragionano lungo
le medesime direttrici. W. V. O. Quine, nel suo rinomato saggio Due
dogmi dell’empirismo, afferma: «A questo punto, perciò, vorrei sugge-
rire che non ha alcun senso, e ha causato invece molte assurdità, par-

29
Questo significa che il pragmatismo e l’empirismo «post-dogmatico»
piuttosto che all’empirismo e al soggettivismo, rivolgono la propria critica alla
sottostante «separazione purista» che caratterizza la filosofia moderna.
30
Questo mostra il problema di Hume in relazione alle «distinzioni ra-
zionali».

133
lare di una componente linguistica e di una componente fattuale nella
verità di una qualsiasi singola proposizione. Presa nel suo insieme, la
scienza dipende dalla linguaggio e dall’esperienza ad un tempo; ma
ciò non significa che si possa dire altrettanto di ciascuna proposizione
della scienza presa singolarmente.[…] L’unità di misura della signi-
ficanza empirica è tutta la scienza nella sua globalità» (Quine, 1951:
40)31. Il rifiuto di Quine delle «componenti» separabili riconduce
l’empirismo ai blocchi di partenza e la sua affermazione finale espri-
me in modo succinto la prospettiva dell’«empirismo raddoppiato».
Donald Davidson (che appare più vicino a Hegel – o a
Marx) scava una fossa ancora più profonda nel terreno dell’em-
pirismo: «Abbiamo l’idea per cui qualunque linguaggio distorce
la realtà; quest’idea implica che la mente, ammesso che riesca
ad accontentarsi delle cose così come sono esse sono realmente,
vi riesce soltanto in assenza di qualunque parola. Ciò equivale a
concepire il linguaggio come un mezzo inerte (che però non può
non distorcere) indipendente dalle attività umane per cui è impie-
gato; una concezione del linguaggio assolutamente insostenibile.
Tuttavia, se la mente è in grado di confrontarsi col reale senza
distorsioni, dev’essere essa stessa priva di categorie e di concetti.
Questo io, privo di ogni caratteristica, ci è familiare a partire
dalle teorie provenienti da regioni assai diverse del panorama
filosofico. Per esempio ci sono teorie secondo le quali la libertà
consiste nel prendere decisioni indipendentemente da qualunque
desiderio, abitudine e disposizione dell’agente; e ci sono teorie
della conoscenza che ventilano l’idea per cui la mente sarebbe in
grado di osservare la totalità delle proprie percezioni e idee. In
ogni caso, la mente viene separata dai propri tratti costitutivi; la
conclusione, come ho detto, è inevitabile a partire da certe linee
di ragionamento, ma si tratta di una conclusione che deve invaria-
bilmente indurci a respingere le premesse» (Davidson, 1974: 265).

31
Cfr. il commento di Waismann: «Gli uomini sono inclini a pensare che
ci sia un mondo di fatti opposto ad un mondo di parole che descrivono questi
fatti. Non sono troppo contento di questo» (Waismann, 1945: 54).

134
Questi pragmatisti e questi empiristi «post-dogmatici» non sono
in disaccordo con l’idea che ci sia una componente umana e soggetti-
va nella conoscenza così come una componente empirica o oggettiva;
pensano soltanto che qualsiasi sforzo di separare una componente
dall’altra sia vano: come Hume riconobbe con le sue «distinzioni ra-
zionali», ciò che può essere distinto non può sempre essere separato.
Marx è d’accordo su entrambi i punti. Egli approva fortemente la
tradizione dell’idealismo tedesco, che si costruisce meravigliosamente
sulle intuizioni dell’empirismo moderno (e del razionalismo per il
contenuto), proprio riconoscendo il ruolo costitutivo dell’attività
umana nella conoscenza; allo stesso tempo egli ne critica la concezione
purista di quella attività. È questo l’inequivocabile messaggio delle Tesi
su Feuerbach; la prima tesi inizia così: «Il difetto principale d’ogni ma-
terialismo fino ad oggi (compreso quello di Feuerbach) è che l’oggetto
[Gegenstand], la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto
la forma dell’obietto o dell’intuizione; ma non come attività sensibile
umana, prassi; non soggettivamente. Di conseguenza il lato attivo fu
sviluppato astrattamente, in opposizione al materialismo, dall’ideali-
smo – che naturalmente non conosce l’attività reale, sensibile in quan-
to tale» (MEOC, V: 3). Questa critica al soggettivismo e alle sue pre-
messe mette Marx all’avanguardia tra gli empiristi «post-dogmatici».

3. La teoria marxiana dell’«empirismo raddoppiato», la forma sociale


e la causalità formale
La forza dell’approccio marxiano alla forma sociale poggia
sulla sua definita32 e solida filosofia sottostante: Marx era un em-
pirista «post-dogmatico» consapevole e raffinato molto prima che
il positivismo logico avesse alzato il capo. Voglio adesso prendere
in considerazione ulteriori punti di forza della teoria marxiana. 1)

32
In opposizione alle disordinate affermazioni di Simmel relative alla forma
sociale oscillanti fra il soggettivo e l’oggettivo, come le dipinge David Frisby nella
sua Introduzione alla Filosofia del denaro di Simmel. Dato l’orizzonte neokantiano
del pensiero di Simmel, tali oscillazioni sono normali.

135
Una volta attestata la centralità della forma sociale e della spiega-
zione scientifica basata sulla causalità formale nella teoria marxia-
na, cominciamo ad apprezzare l’enorme mole di fenomeni che la
teoria marxiana del capitalismo è in grado di spiegare e predire
con successo: fenomeni che, come indicato da Martha Campbell,
sia l’economia classica che quella neoclassica non sono in grado di
conoscere e che sono metodologicamente – per non dire politica-
mente – esclusi dall’ambito del conoscibile. 2) La teoria marxiana
mostra precisamente che cosa non vada nelle teorie rivali (economia
classica e neoclassica) e dove esse sbaglino. Questa sua capacità di
svelamento è un importante punto a suo favore nel confronto
con i risultati di programmi di ricerca in competizione con essa.
La teoria marxiana fornisce una spiegazione storico-materialistica
del perché l’economia classica e quella neoclassica sbaglino – ciò è
particolarmente adeguato e apprezzabile quando si ha a che fare
con teorie inadeguate. Per la sua complessità è impossibile in questo
saggio procedere nel dettaglio33.

3.1 La capacità esplicativa della teoria marxiana


Non tenterò qui una valutazione complessiva, men che
meno comparata, della forza esplicativa della teoria marxiana del
capitalismo. Il fatto che io stesso riprenda la posizione di Martha
Campbell, secondo cui nella teoria classica o in quella dell’utilità
non ci sono concetti equivalenti a quelli di Marx, suggerisce che
una valutazione comparativa non è, in questo senso, cosa sempli-
ce; tuttavia, una volta che sia stata compresa la teoria marxiana
della forma sociale, è abbastanza facile vedere quanto le teorie che
competono con quella marxiana non siano serie rivali. Questo per
una semplice ragione: se c’è sempre una determinata forma sociale
di produzione, distribuzione, bisogno, ecc., essa avrà sempre degli

33
Il concetto chiave di questa discussione è che le forme sociali peculiarmente
astratte del capitalismo favoriscono la comprensione astratta del lavoro e del pen-
siero tipiche, rispettivamente, dell’economia politica e della filosofia moderna.

136
effetti (causalità formale). Non riuscire a teorizzare la forma socia-
le significa non riuscire a comprendere i movimenti della società
reale sotto analisi e le loro cause34. Qui mi limiterò ad osservare
come le considerazioni presenti in questo saggio possano favorire
il giudizio sulla forza esplicativa della teoria marxiana. Farò questo
attraverso alcuni commenti a due recenti saggi di Fred Moseley
(Moseley, 1993b e Moseley, 1995), nei quali egli dà il proprio
contributo alla valutazione comparata della teoria marxiana,
difendendola dalle critiche di Daniel Hausman e Mark Blaug.
La difesa di Moseley tende a paragonare le teorie come se
operassero sul medesimo terreno. In questo modo si perde l’aspetto
significativo dell’osservazione di Campbell: c’è un senso in cui la
teoria marxiana non si occupa delle stesse cose della teoria classica
o di quella dell’utilità. Mentre la teoria marxiana parla di realtà
determinate, le altre due chiacchierano di astrazioni ipostatizzate
(precisamente «lavoro» e «utilità»). Quando, per esempio, afferma
che «la teoria neoclassica fornisce un contenuto empirico molto
minore rispetto a quella di Marx» (1993b: 12), Moseley suppone
che le condizioni del dominio delle due teorie siano ben stabilite
e identiche. La differenza sarebbe che in questo campo la teoria
marxiana ci permetterebbe di andare in più direzioni. Mentre
concordo con l’affermazione di Moseley relativa alla maggiore ca-
pacità esplicativa della teoria marxiana, le considerazioni presenti in
questo saggio suggeriscono che i presupposti che portano a questo
giudizio meritino un riesame.
I domini delle teorie rivali sono radicalmente differenti; la
teoria marxiana si occupa della vita sociale reale in una sua forma
specifica, mentre la teoria classica e quella neoclassica, negando le
forme sociali, non sono in grado di cogliere la reale vita sociale, al

34
Per Aristotele il mutamento della forma (sociale) è lo stesso di movimento
che Marx tematizza attraverso il concetto di sussunzione formale.
35
Dico «minimizza» perché anche Moseley si appella a fattori che aprono
la via alla forma sociale, come, per esempio, la posizione marxiana relativa alla
necessaria connessione tra valore e denaro.

137
massimo esse hanno a che fare con aspetti dei fenomeni. La teoria
marxiana si contrappone loro non come le mele agli aranci, ma come
le mele al colore rosso. Nella teoria sociale di Marx le forme sociali
specifiche determinano (non modificano) i fenomeni, identificando-
li, spiegandoli e predicendoli. I fondamenti soggettivisti della teoria
neoclassica impediscono di tematizzare i fenomeni in questo modo.
Da tali considerazioni deriva (adesso in un senso più pregnante) un
ulteriore motivo della superiorità empirica della teoria marxiana.
Il modo in cui Moseley argomenta la superiorità della teo-
ria marxiana minimizza la portata cruciale della forma sociale e
della causalità formale35. Per dimostrare, contro Hausman, che
Marx spiega in modo convincente il motivo per cui il saggio del
profitto non cade a zero, Moseley cita questo passo: «La legge del-
l’accumulazione capitalistica mistificata in legge di natura esprime
dunque in realtà solo il fatto che la sua natura propria esclude
ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro o ogni
aumento del prezzo del lavoro che siano tali da esporre a un serio
pericolo la costante riproduzione del rapporto capitalistico e la sua
riproduzione su scala sempre più allargata» (Capitale, I: 679-680).
Mi soffermo sulla «sua natura propria» dell’accumulazione (capi-
talistica) per spiegare la causalità formale: la legge fondamentale
dell’accumulazione capitalistica afferma che il capitale accumulato
è ricchezza in una determina forma sociale (quindi la legge del-
l’accumulazione capitalistica non è una «legge di natura»), e che
nel processo si riproduce la forma specifica del rapporto sociale
tra capitalisti e lavoratori salariati. Mettendo da parte i periodi di
crisi e di crollo, la teoria marxiana dell’accumulazione capitalistica
afferma che il «rapporto di capitale», quella determinata forma di
rapporto sociale tra capitalisti e lavoratori salariati, continuerà e si
estenderà. Sicuramente questa è una predizione straordinariamente
ben riuscita, ma, a causa dell’influenza del soggettivismo, con la
sua cecità nei confronti della forma sociale, raramente osservata.
Esaminando la superiorità empirica della teoria marxiana
rispetto a quella neoclassica, Moseley rivolge la propria attenzione
ai cambiamenti tecnologici e ai conflitti tra capitalisti e lavoratori

138
salariati per la durata della giornata lavorativa. Queste sono mani-
festazioni della tendenza del capitale ad aumentare rispettivamente
il plusvalore relativo e quello assoluto36. Non bisogna qui trascurare,
o ignorare, il ruolo della forma sociale e della causalità formale;
questo in due modi: 1) che tale cambiamento tecnologico, un
aspetto del fenomeno della produzione capitalistica riconoscibile da
tutti, sia connesso al capitalismo dipende, per Marx (non spiego
qui come e perché), dal ruolo causale della forma di valore della
produzione sociale. Che ci siano conflitti tra capitalisti e lavoratori
salariati, un aspetto del rapporto di lavoro capitalistico riconoscibile
da tutti, è spiegato similmente in termini di causalità formale; il
conflitto procede dalla forma sociale specifica del rapporto; 2) non
è propriamente vero che la teoria marxiana predice il «cambiamento
tecnologico» mentre la teoria neoclassica non è in grado di farlo;
Marx identifica e predice la forma sociale di quel cambiamento
tecnologico. Il cambiamento tecnologico non si identifica con
nuovi «strumenti di produzione» (un concetto generale e inde-
terminato); no, gli «strumenti di produzione» hanno sempre una
forma sociale determinata; Marx identifica quella forma sociale, il
capitale, e afferma che i nuovi «strumenti di produzione» saranno
determinati da esso.
In modo simile, la lotta per l’aumento del plusvalore assoluto
è determinata dalle forme specifiche del rapporto di capitale: il ca-

36
Per Marx la giornata lavorativa si divide in due parti, il tempo di lavoro
necessario e il tempo di pluslavoro. Il tempo di lavoro necessario è quella parte della
giornata lavorativa spesa per la produzione di una quantità di valore equivalente al
valore della forza-lavoro del lavoratore; questa è la fonte del salario. Il pluslavoro
è la parte rimanente della giornata lavorativa ed è la fonte del plusvalore (che
si distribuisce nelle forme del profitto, dell’interesse e della rendita). I concetti
di plusvalore assoluto e relativo riguardano i due modi attraverso i quali si può
incrementare il plusvalore: diminuendo la parte della giornata lavorativa dedicata
al lavoro necessario (di solito attraverso un incremento della produttività nella
produzione di quelle merci che entrano nel valore della forza-lavoro) – plusvalore
relativo – o aumentando la parte della giornata lavorativa dedicata al pluslavoro,
lasciando invariata l’altra parte – plusvalore assoluto. Marx distingue inoltre tra
l’incremento del plusvalore per mezzo dell’allungamento della giornata lavorativa
e quello per mezzo della sua intensificazione.

139
pitalista tende ad aumentare la durata o ad intensificare la giornata
lavorativa non per aumentare il plusprodotto, ma il plusprodotto in
una forma sociale determinata, che nel capitalismo è il valore. Marx
non afferma semplicemente che i capitalisti saranno sempre in con-
flitto con i lavoratori per ottenere una quantità sempre maggiore di
sovrappiù; egli mostra che il sovrappiù avrà la forma del plusvalore.
Ciò che dà maggiore forza a questi temi (relativi al cambiamento
tecnologico e al conflitto tra capitale e lavoro salariato) è l’esplicita
concettualizzazione marxiana della tendenza del capitale all’au-
mento del plusvalore relativo e assoluto quale sussunzione reale o
formale della tecnologia e del lavoro alle forme sociali del capitale37.
Quando viene messa da parte la forma sociale determinata della
«tecnologia» e del «lavoro», non si riesce a rispondere in modo
pertinente alla domanda «che cosa è» e si perde di vista l’intero
campo di azione della causalità formale, ovvero la forza delle forme
sociali. In questo sta il tremendo fallimento empirico dell’economia
classica e di quella neoclassica. Il trionfo della teoria marxiana
sta proprio nell’essere in grado di rivolgersi a tali questioni38.

3.2 Dove sbagliano le teorie classiche e quella neoclassihe


La teoria marxiana svela quanto siano poco salde le gambe pu-
riste dell’economia classica e di quella neoclassica. In prima battuta,
in generale, le loro premesse precludono ogni possibile approccio
alla forma sociale basato sull’esperienza. È questo un difetto molto
serio se Marx ha ragione nell’affermare che «ogni produzione è
un’appropriazione della natura da parte dell’individuo, entro e me-

37
Attraverso la sussunzione formale del processo lavorativo al capitale si de-
termina il rapporto capitalista/lavoratore salariato e la finalità del processo diventa
la produzione di plusvalore. Attraverso la sussunzione reale il processo lavorativo
subisce un cambiamento tecnologico volto all’incremento di plusvalore.
38
Non si pensi che la teoria marxiana abbia un punto di vista esclusivo da
cui, grazie ad un’attenta osservazione e articolazione della forma sociale o ad una
spiegazione per mezzo della causalità formale, tutto sia sotto controllo. Contributi
intelligenti vengono da molti punti di vista diversi. Vedi Murray (ed.) (1997).

140
diante una determinata forma di società» (Lineamenti, I: 10) e che
le forme sociali determinano ciò che accade nel mondo (causalità
formale)39. In seconda battuta, le «separazioni puriste» (de)formano
la costituzione dei concetti fondamentali di lavoro e utilità. Il pu-
rismo, specialmente nella sua classica forma empirista, incoraggia
una negligenza metodologica laddove si presentano questioni di
forma: nell’orbita dell’empirismo classico, le domanda «che cosa è»
ottiene risposte deboli e confuse. È proprio qui che entra in gioco
una seconda caratteristica dell’empirismo (non «raddoppiato»), che
lo rende non idoneo. Come osserva Hegel, l’empirismo scientifico
si illude di potersela cavare senza concetti e forme, o che essi non
abbiano un ruolo costitutivo nella scienza40. La scienza non è mai
stata – né può essere – fatta senza «metafisica», ovvero senza ricor-
rere alle caratteristiche necessarie e universali dei suoi concetti, al
«contenuto dei suoi concetti» (è naturalmente possibile provare a
nascondere questa realtà, auto-ingannandosi come fa l’empirismo
scientifico). Ci si può quindi aspettare che, nei claudicanti auto-
chiarimenti dei propri concetti – in particolar modo per quanto
concerne le pietre angolari: il lavoro e l’utilità – gli economisti clas-
sici e neoclassici non siano alieni a pregiudizi puristi. E non lo sono.

3.2.1 L’economia classica


L’economia politica classica è conosciuta per la sua teoria del
valore-lavoro: il lavoro è la fonte di tutto il valore. Ciò che non è

39
Si noti il contrasto tra il discorso di Adam Smith sulla «ricchezza» delle nazioni,
che non si pronuncia sulla questione della forma di quella ricchezza, e le parole con cui
Marx inizia il Capitale: «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di
produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci” e la merce
singola si presenta come sua forma elementare» (Capitale, I: 67). Sul significato di
questo incipit cfr. Paul Mattick Jr. in Campbell e Moseley (1997).
40
«L’errore fondamentale dell’empirismo scientifico consiste sempre in questo:
l’empirismo usa le categorie metafisiche di materia, forza, e anche di uno, di molto,
di universalità, ed, ancora di infinito e così via, e sulla scorta di tali categorie procede
a trarre conclusioni, presupponendo e applicando le forme del sillogismo, ma, nel fare
tutto questo, non sa di contenere e fare della metafisica, ed usa quelle categorie e le loro
connessioni in modo del tutto acritico e inconsapevole» (Enciclopedia, § 38).

141
chiaro in questa semplice proposizione è che cosa siano il lavoro e il
valore. Sono proprio queste le domande alle quali i sostenitori del
soggettivismo e dei suoi presupposti non riescono a dare risposte
adeguate. Ciononostante, esse gli ronzano per la testa e, a modo
loro (vale a dire confusamente), pensatori dalla forma mentis clas-
sica gli girano attorno. Vedremo come i problemi in cui vengono a
trovarsi ed il ruolo giocato dal loro soggettivismo e dal loro purismo
li portino in un vicolo cieco, prima perché deformano la distinzione
tra ricchezza (e lavoro produttore di ricchezza) e valore (e lavoro
produttore di valore) e poi perché giungono ad una concezione
astratta (idealistica) del lavoro.
Per diverse ragioni, vorrei procedere in un modo per così dire
obliquo e prendere in considerazione un brano dal Secondo trattato
di Locke. La filosofia di Locke (almeno nella sua forma ufficiale) è
molto vicina al soggettivismo che caratterizza l’economia politica
classica41: siamo interessati a comprendere proprio le relazioni
tra il purismo della filosofia moderna e il purismo dell’economia
classica. Per questa ragione Locke è particolarmente appropriato
perché sia Locke che l’economia politica classica si muovono tra
l’oggettivismo purista delle loro ontologie (materia e valore) e il
soggettivismo purista delle loro epistemologie empiriste. La teoria
lockeana del lavoro proprietà (non valore) può essere considerata
come un dei bersagli principali del primo libro del Capitale42. Nella
sua riflessione sull’economia Locke è comunemente, e non senza
ragione, accomunato a Petty, Berkeley e Hume come un precursore
della teoria classica del valore. Questo è abbastanza giusto, tuttavia
Locke era una grande mente e spesso le grandi menti riescono a
intuire la realtà anche quando questa non si mostra esplicitamente.
Con il senno di poi fornitoci dal teoria marxiana del valore, credo

41
Cfr. l’osservazione di Marx: «Gli economisti inglesi più antichi si riallac-
ciano a Bacone e a Hobbes considerando questi i loro filosofi, mentre più tardi
il Locke divenne “il filosofo” per eccellenza dell’economia politica in Inghilterra,
Francia e Italia» (Capitale, I: 433, n. 111).
42
Cfr. Capitale, I: specialmente pp. 675-76.

142
sia possibile affermare che Locke non adotti in modo rigido la
teoria classica del valore, non perché nato troppo presto o perché
incapace di raggiungere l’acume di un Ricardo o di un Mill, ma
perché pensava in maniera più profonda: egli intuiva i problemi della
teoria classica del lavoro, sebbene anch’egli ne fosse irretito. Il suo
maggiore merito sta perciò nella resistenza alla teoria classica del
lavoro piuttosto che nella sua teoria stessa.
Locke scrive: «un iugero di terra, che produce qui venti staia
di frumento, e un altro iugero in America, che, con la stessa col-
tivazione, produrrebbe lo stesso, sono, senza dubbio, dello stesso
valore naturale intrinseco: ma tuttavia il vantaggio che in un anno
gli uomini ricavano dall’uno vale cinque sterline e quello che ricava-
no dall’altro non vale forse nemmeno un penny, se tutto il profitto
che ne ricavasse un indiano dovesse essere valutato e venduto qui,
o tutt’al più, potrei dire nemmeno un millesimo. È dunque il
lavoro che conferisce alla terra la maggior parte del valore e, senza
di esso, quella appena varrebbe qualcosa; è ad esso che dobbiamo
la maggior parte di tutti i prodotti utili della terra» (Locke, 1690b:
268). I problemi qui individuati da Locke, relativi alla confusione
fra i concetti di ricchezza e valore, sono caratteristici dell’economia
politica classica. La ricchezza è un concetto generale, universalmente
applicabile ma indeterminato, mentre il valore è il concetto della
forma sociale determinata della ricchezza nel capitalismo. Così,
mentre la terra incolta è intrinsecamente una fonte di ricchezza,
essa produce valore solo entro alcune forme sociali (commerciali).
Né Locke né gli economisti classici esprimono esplicitamente
questa distinzione o quella correlata fra il lavoro produttore di
ricchezza e il lavoro produttore di valore: queste due distinzioni
danno origine alla critica marxiana dell’economia politica classica.
Per questa via possiamo individuare questi problemi fon-
damentali dell’economia politica classica sollevati dalle parole di
Locke: 1) l’incapacità di fissare la distinzione fra valore e ricchezza
(Locke oscilla tra valore [value] e prezzo, e utilità e valore [wor-
th]); 2) la relativa incapacità di distinguere fra lavoro produttore
di ricchezza e lavoro produttore di valore (il brano suggerisce

143
erroneamente che tutto il lavoro produttore di ricchezza sarebbe
produttore di valore); 3) il conseguente fallimento nel riconoscere
che il valore e la ricchezza, il lavoro produttore di valore e il lavoro
produttore di ricchezza sono logicamente differenti (in ogni cop-
pia il primo è un’astrazione determinata, il secondo un’astrazione
generale); 4) la conseguente tendenza a reificare la «ricchezza»,
per esempio trattandola come se fosse effettivamente reale quando
non lo è – vale a dire quando è astratta da qualsiasi forma sociale
determinata (come il valore)43: la domanda «che cosa è» relativa a
qualsiasi ricchezza effettuale necessita di una risposta e una qualsiasi
risposta per essere adeguata deve identificare la ricchezza in una
forma sociale determinata; 5) la tendenza ad identificare ricchezza
e valore, il lavoro produttore di ricchezza e il lavoro produttore di
valore; 6) l’idea sbagliata che il valore sarebbe intrinseco agli oggetti
nello stesso modo in cui lo sono le proprietà che ce lo rendono
utile; 7) l’incapacità di riconoscere la relazione interna fra valore
e denaro44, ovvero che il valore deve apparire come qualcosa di
altro da sé, come valore d’uso – non essendoci tale connessione fra
ricchezza e denaro – e che non può esserci una misura invariabile
del valore45; 8) il presupposto sbagliato – derivante dall’incom-
prensione della differenza fra ricchezza e valore – che la ricchezza
possa essere sommata nello stesso modo in cui si somma la forma
fenomenica necessaria del valore, cioè il denaro.
43
A proposito della tendenza a reificare le astrazioni generali, cfr. l’eccellente
libro di Derek Sayer, The Violence of Abstraction.
44
A questo proposito dobbiamo dire qualcosa relativamente alla teoria del
valore di Locke, che è altra rispetto a quella classica: essa si fonda, infatti, sulla
domanda e sull’offerta. Locke vede giustamente che le condizioni del mercato
giocano un ruolo costitutivo nella determinazione del valore. Stando così le cose
la nozione (indeterminata) classica di lavoro come fonte del valore non funzio-
nerebbe (così come di fatto avviene). Marx osserva infatti che i ricardiani non
possono replicare in modo convincente all’attacco di Samuel Bailey verso la teoria
ricardiana del valore «assoluto» perché «non hanno trovato nel Ricardo stesso
nessun punto che schiudesse loro il nesso interno fra valore e forma di valore,
ossia valore di scambio» (Capitale, I: 115, n. 36).
45
Cfr. la trattazione della misura invariabile del valore di Ricardo fatta da
Marta Campbell in Campbell e Moseley (1997).

144
Sebbene Locke non faccia una chiara distinzione fra ricchezza
e valore, penso che sia proprio l’intuizione di essa che gli permette
di tenersi lontano da una rigida teoria del valore-lavoro. La famosa
affermazione di Petty, secondo la quale il lavoro è il padre e la terra
è la madre della ricchezza materiale (citata da Marx, Capitale, I:
75), poteva quindi risultare fastidiosa per Locke46. Non c’è spazio
per l’affermazione di Petty nell’orizzonte purista della teoria classica
del valore, per la quale solo il lavoro puro e semplice è la fonte del
valore. Quest’ultimo è il suo errore più grande – e anche quello dei
socialisti ricardiani, come Marx osserva sagacemente nella Critica al
programma di Gotha: «Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La
natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza
effettiva!) altrettanto quanto il lavoro» (Gotha: 7). Sebbene Locke
non sia completamente in linea con Ricardo, la sua idea della
ricchezza implica nondimeno una concettualizzazione soggetti-
vista del lavoro, in relazione alla quale il «valore aggiunto» dal
(puro) lavoro può essere ricavato e la sua proporzione accertata
matematicamente47, ed implica inoltre una concezione oggettivista
del valore come una proprietà intrinseca dei prodotti. Ancora, a
modo suo, ambiguamente, Locke non cede incondizionatamente
alle concezioni puriste del valore e del lavoro, alle astrazioni pure
(per prendere in prestito un’espressione da Hegel) che determinano
l’approccio classico stretto.

46
Confrontare il commento di Petty sui ruoli sessuali e sul loro peso (nella
metafora padre-madre, lavoro-terra) con quello di Locke ci rivela qualcosa sulle
loro concezioni in proposito.
47
Il purismo presente nella visione di Locke può essere messo in risalto
mettendo in relazione le sue affermazioni relative alla proporzione numerica-
mente identificabile del contributo del lavoro (puro) alla ricchezza, con la difesa
antipurista di James dell’«umanismo», secondo il quale l’apporto del fattore
soggettivo alla conoscenza è «indeterminabile». L’idea lockeana della ricchezza
può utilmente essere messa in relazione alla teoria della conoscenza di Kant: la
conoscenza implica sempre sia l’intuizione (la natura) che l’attività del soggetto
trascendentale (il lavoro), e la critica della ragion pura determina esattamente
l’apporto del soggetto alla conoscenza.

145
Riassumendo: 1) l’orizzonte dell’empirismo ordinario rende
l’economia classica cieca di fronte alla realtà della forma sociale;
nessuna meraviglia quindi che essa non sia in grado di fare quelle
importanti distinzioni fra valore e ricchezza, lavoro produttore
di valore e lavoro produttore di ricchezza, o di comprendere
qualsiasi elemento fondamentale che derivi da queste distinzioni;
2) operando all’interno dei presupposti puristi, attraverso una
concezione coerentemente purista del lavoro che attribuisce un
«potere creativo sovrannaturale» al (puro) lavoro, l’economia po-
litica classica giunge ad affermare che il lavoro è la fonte di ogni
ricchezza; 3) come Locke – che da un punto di vista epistemo-
logico è un empirista, ma che è, quando giunge alla materia, un
oggettivista purista (cartesiano) – anche l’economia politica classica
è empirista da un punto di vista epistemologico, ma purista og-
gettivista nella sua teoria del valore come «intrinseco» ai prodotti;
4) sebbene Locke possa a ragione essere letto come un precursore
dell’economia politica classica, tale interpretazione non tiene con-
to delle sue differenze con le indicazioni date da Marx nella sua
critica alle teorie classiche del valore, del lavoro e della ricchezza.

3.2.2 L’economia neoclassica


Gli orizzonti empiristi ordinari e (più ampiamente) sogget-
tivisti dell’economia neoclassica conducono verso gli stessi tipi di
problemi incontrati nell’economia politica classica: essi derivano
dalla mancanza di attenzione alla forma sociale e dalla concettua-
lizzazione soggettivista della sua categoria fondamentale (utilità).
Così come l’economia politica classica non è riuscita a stabilire la
distinzione fra ricchezza e valore, l’economia neoclassica non è in
grado di distinguere fra valore d’uso e utilità; e dove l’economia
classica concepisce il lavoro come puro lavoro, la fonte «creatrice
sovrannaturale» di tutta la ricchezza, l’economia neoclassica si vanta
della propria concezione «puramente soggettiva» dell’utilità.
Una trattazione esaustiva dell’affermazione marxiana secondo
la quale l’economia neoclassica poggia su una distinzione erronea

146
fra valore d’uso e utilità – il primo un’astrazione generale, la se-
conda un’astrazione determinata – non può essere affrontata in
questa sede48. Marx fa riferimento all’utilità come una «astrazione
apparentemente metafisica» (MEOC, V: 424): «metafisica» (qui
nel senso deteriore) perché tale astrazione ha la pretesa di rap-
presentare delle realtà individuali, qualitativamente omogenee ed
esatte; e «apparentemente» perché questa astrazione deteriore indica
la realtà delle pratiche dello scambio generalizzato di merci. In
quanto opposto all’utilità, il concetto generale di valore d’uso non
presuppone alcuna commensurabilità dei valori d’uso. L’utilità è
un concetto legato a società che hanno una forma sociale specifica,
precisamente quelle nelle quali esiste uno scambio generalizzato
di merci49. Ostacolata dai pregiudizi empiristi nei confronti della
forma sociale, l’economia neoclassica non è capace di riconoscere
la differenza tra valore d’uso e utilità e i rapporti tra l’utilità e la
forma sociale dello scambio generalizzato di merci.
Per l’economia neoclassica l’idea di Marx, secondo la quale
il valore d’uso è una proprietà degli oggetti utili, è un residuo di
oggettivismo metafisico (=deteriore), un errore enorme. In realtà è
divertente osservare come gli autori neoclassici sviluppino l’ineso-
rabile e inevitabile confusione delle loro inclinazioni soggettiviste.
Quando gli autori neoclassici si preoccupano di provare a definire
con precisione ciò di cui pretendono di parlare – l’utilità – fini-
scono necessariamente per passare, sempre di nuovo, d’equivoco
in equivoco. Dico «necessariamente» perché sono ossessionati dai
loro pregiudizi soggettivisti. C.E. Ferguson scrive: «Se si cercasse un
criterio unico di distinzione della teoria microeconomica moderna
rispetto ai suoi precedenti classici, dovremmo probabilmente tro-
varlo nella introduzione del teoria soggettiva del valore» (Ferguson,

48
Ho personalmente trattato questo argomento per esteso in un saggio
inedito The Difference between Use-Value and Utility and the Difference it Makes:
Grounds for a Marxian Critique of Neoclassical Theories of Value and Price.
49
Marx afferma inoltre che solo laddove vi sia una dominanza del capitale
come forma sociale, ha luogo una tale generalizzazione.

147
1972: 20-21). In modo simile, nel dizionario di economia New
Palgrave, Antonietta Campus caratterizza efficacemente l’utilità
come valore d’uso «reinterpretato in termini soggettivi» (Campus,
1987: 320). Che tipo di «reinterpretazione» è questa? Che cosa è
questa «teoria soggettiva del valore»? È il concetto di valore d’uso
inchiodato alla croce dei vani dualismi soggettivisti. Vediamo che
cosa accade quando si cerchi di capire che cosa sia questa supposta
«reinterpretazione».
Ferguson afferma: «Gli economisti definiscono l’“utilità” come
quella qualità che rende un merce desiderata» (Ferguson, 1972: 20).
La qualità di cosa? Della merce? Ma una qualità della merce è la
sua qualità, non del soggetto, e allora è qualcosa di oggettivo, nel
senso effettivo del termine. Inoltre vediamo Ferguson identificare
superficialmente l’utilità con la soddisfazione (18) e dire «qualun-
que bene o servizio deliberatamente consumato da una famiglia
procura utilità» (21). Si vede che il consumo di un bene procura la
soddisfazione dei membri di una famiglia, ma se la soddisfazione è
ciò che è l’utilità, come può essa essere una qualità della merce?
Relativamente ai primi teorici dell’utilità marginale, Gossen,
Jevons e Walras, Ferguson afferma che essi consideravano l’utilità
«come una qualità misurabile delle merci» (21), implicando che l’uti-
lità è una proprietà della merce e non del soggetto. Si consideri quan-
to queste ultime affermazioni possano andare d’accordo con quelle
di Ferguson o con quelle di Campus relative alla teoria soggettiva del
valore quale innovazione cruciale della microeconomia neoclassica.
C. Welch spinge questi fraintendimenti al massimo nel suo
contributo al New Palgrave laddove scrive che i primi marginalisti
difendevano il «concetto di piacere come una qualità inerente ai
beni» (Welch, 1987: 772), una frase che suggerisce che i pionieri
della teoria neoclassica attraversavano lo specchio magico per passa-
re in un mondo capovolto dove il piacere è una proprietà delle cose!
Nel suo contributo al New Palgrave, R. D. Collison Black
mostra all’opera la (cattiva) inclinazione all’astrazione della forma
mentis soggettivista: «L’utilità, nel senso della desiderabilità, è un
concetto puramente soggettivo distinto chiaramente dall’esser

148
utile o dalla conformità ad uno scopo» (Black, 1987: 776). Black
ha il buon senso di richiamare l’attenzione sulla confusione dei
teorici dell’utilità relativamente a questa distinzione. Tuttavia,
evidentemente, tale distinzione non è troppo chiara neppure a
Black stesso, al punto che nella frase precedente a quella appena
citata egli scrive che la «desiderabilità» è «la capacità di un bene o
servizio di soddisfare una volontà di qualsiasi tipo» (è questa una
definizione sensata del valore d’uso, più o meno identica a quella di
Marx nella prima pagina del Capitale!). Queste capacità dei beni di
soddisfare gli scopi o i nostri bisogni sono «puramente soggettive»?
Così Black non è più coerente di quei teorici dell’utilità che biasi-
ma. Né è nella posizione di esserlo, perché egli è irretito, proprio
come loro, dal presupposto soggettivista secondo cui il «puramente
soggettivo» è un’espressione che individua qualcosa di effettuale50.
Se si lascia cadere questo pregiudizio, all’idea neoclassica di una
«teoria soggettiva del valore» viene a mancare il concetto cardine51.
E insieme ad esso cade l’idea che l’economia neoclassica abbia una
stampella a cui appoggiarsi teoreticamente.

50
Marx attacca esplicitamente questo presupposto soggettivista quando scrive
all’inizio del primo capitolo del Capitale: «L’utilità di una cosa ne fa un valore
d’uso. Ma questa utilità non aleggia nell’aria. È un portato delle qualità del corpo
della merce e non esiste senza di esso» (Capitale, I: 68). Le teorie dell’utilità
vogliono fare dell’utilità qualcosa che «aleggia nell’aria»; vogliono astrarre dal
concetto di utilità tutte le qualità dell’oggetto – affidandosi alla cattiva astrazione
del «puramente soggettivo». Marx intende confutare l’idea dell’utilità come qual-
cosa di «puramente soggettivo». E lo fa immediatamente nel primo capitolo del
Capitale unendo «l’oggettivismo purista» della teoria classica del valore (il valore
è una proprietà intrinseca degli oggetti) con il «soggettivismo purista» della teoria
dell’utilità (il valore d’uso è indipendente dalle proprietà di un oggetto): «Finora
nessun chimico ha ancora scoperto valore di scambio in perle o diamante. Gli
scopritori economici di questa sostanza chimica, i quali hanno pretese speciali
di profondità critica, trovano però che il valore d’uso delle cose è indipendente
dalle loro qualità di cose, mentre il loro valore compete ad esse come cose» (115).
L’intento fondamentale di questo saggio consisteva proprio nello svelare le radici
concettuali più profonde di queste erronee opinioni.
51
Questa critica marxiana sradica alle radici le teorie dell’utilità: è a niente
serve l’innovazione neoclassica delle utilità «marginali», come la successiva rinuncia
neoclassica alle utilità intersoggettive.

149
4. Conclusioni
In questo saggio abbiamo esplorato le profonde differenze
filosofiche che pongono Marx lontano dal panorama della filosofia
moderna e di quelle tradizioni scientifiche – come l’economia clas-
sica e neoclassica – che poggiano sulle assunzioni puriste che sono il
risultato del lavoro sporco* fatto dalla filosofia moderna, principal-
mente dagli empiristi. Abbiamo visto come il rifiuto marxiano delle
moderne «separazioni puriste» tra il concettuale e l’empirico e tra il
soggettivo e l’oggettivo apra lo spazio all’«empirismo raddoppiato»
e ad un approccio consapevole, realistico e basato sull’esperienza
alle forme sociali e alle loro forze (causalità formale). Questo ci
permette di collocare il suo pensiero in compagnia di Aristotele
e Hegel (guardando indietro) e dei pragmatisti e degli empiristi
«post-dogmatici» (guardando avanti). L’ultima parte del saggio
ha analizzato il significato di queste astruserie filosofiche al fine
di determinare la validità della teoria marxiana quale programma
di ricerca scientifico in rapporto all’economia classica e a quella
neoclassica. Mettendo in risalto la sua attenzione alla forma sociale
e alla causalità formale, abbiamo trovato ragioni per giudicare la
teoria marxiana, nella sua capacità esplicativa, notevolemente su-
periore a quella dei due rivali scientifici, ed abbiamo visto come la
critica marxiana del purismo sveli la radice dei loro errori. Tutte
queste considerazioni mettono in evidenza la vitalità filosofica e
scientifica della teoria marxiana52.

*
Letteralmente «underlaborer». È il termine usato da Locke all’inizio dei
suoi Saggi sull’intelletto umano per descrivere gli sforzi epistemologici sviluppati
nel libro; essi sono messi in rapporto alla ripulitura di un campo da sporcizie e
sottobosco al fine di poterlo lavorare (ovvero di poter aumentare le conoscenze
scientifiche) - ndr.
52
Voglio ringraziare per i loro pazienti, vari e proficui commenti: Chris
Arthur, Martha Campbell, Peter Fuss, Paul Mattick Jr, Fred Moseley, Geert
Reuten, Jeanne Schuler e Tony Smith.

150
Riccardo Bellofiore
Marx e la fondazione macro-monetaria della microeconomia

151
152
In molti dei suoi scritti recenti, Fred Moseley ha sottolineato
che la teoria di Marx deve essere interpretata secondo un approccio
tanto «macro» quanto «monetario», e che su di esso poggia la deter-
minazione dei prezzi di produzione1. Moseley riconosce che anche
altri interpreti hanno proposto una lettura «macro-monetaria» della
teoria marxiana. Piuttosto che aprire un dialogo con queste altre
prospettive interpretative, Moseley si è accontentato di sviluppare la
propria. Un confronto aperto e una critica rigorosa sono perciò op-
portuni per individuare similitudini e differenze tra le varie posizioni.
Non posso che essere d’accordo con l’idea secondo cui l’origi-
nalità di Marx risiederebbe in quella che ho altrove definito come
una vera e propria «teoria monetaria del valore-lavoro» e nella sua
prospettiva «macro-sociale»: due elementi che caratterizzano la mia
lettura di questo autore fin dagli anni ottanta. Tali affermazioni de-
vono essere tuttavia vagliate attentamente, poiché non è per niente
ovvio che il primo libro del Capitale di Marx possa essere letto alla
maniera di Moseley, sia per quanto riguarda il versante «macro» che
per quel che riguarda il versante «monetario». Una prima ragione
sta nel fatto che, con poche eccezioni, il collegamento fondamen-
tale tra il denaro e il valore ha soltanto recentemente catalizzato
l’attenzione degli studiosi di Marx, ed è ancora oggi uno dei punti
più controversi di tutta l’economia marxiana. Un’altra ragione sta
nel fatto che la distinzione tra macro e micro è un risultato della
rivoluzione keynesiana, essa stessa alquanto controversa nel suo
significato. L’applicazione di questi aggettivi a Marx deve essere
chiarita fin nei minimi dettagli.

1
Cfr. Moseley (1993, 1997, 2002, 2003 e 2004).

153
L’argomentazione di Moseley può essere riassunta attraverso
alcune citazioni tratte da Moseley (2004). «Il primo libro del Capi-
tale», egli afferma, «è, in primo luogo, rivolto alla determinazione
dell’incremento totale del denaro (dD), o del plusvalore totale,
prodotto complessivamente nell’economia capitalistica» (2004: 146).
Le grandezze monetarie «sono determinate attraverso le quantità di
tempo di lavoro che sono assunte come date» (2004: 147): sono
presupposte, sono cioè un dato conosciuto. In questo senso, le gran-
dezze monetarie sono le variabili dipendenti e le quantità di lavoro
richieste per la produzione delle merci, ossia i valori-lavoro, sono i
«dati», le variabili indipendenti. Parte integrante di questo approccio
definito come “monetario” è, per Moseley, la prospettiva per la quale
«il lavoro necessario dipende dal numero delle ore che sono necessarie
al lavoratore per produrre nuovo valore (in termini monetari), che è
uguale al capitale variabile monetario con il quale è comprata la for-
za-lavoro» (2004: 153). È questa una prospettiva nella quale il valore
della forza-lavoro è determinato senza prendere come dato il paniere
del salario reale medio di sussistenza. La maggior parte del primo
libro è strutturata in rapporto ai capitali individuali e ai lavoratori
individuali, ma, poiché la teoria di Marx riguarda tutti i capitali,
essa si rivolge anche alla somma di tutti i capitali, ovvero al capitale
sociale totale. Nel primo libro del Capitale, dunque, i capitali indivi-
duali rimandano al capitale sociale totale (2004: 155), e i lavoratori
individuali alla classe lavoratrice nel suo complesso. In questo senso
l’approccio «monetario» sarebbe anche una prospettiva «macro».
Sebbene il sostegno di Moseley alla prospettiva «macro-mone-
taria» sia benvenuto, sosterrò che la sua lettura non è né veramente
monetaria né veramente macroeconomica, ma esattamente l’opposto:
almeno se si accettano i significati attribuiti a questi termini da
gran parte del pensiero economico eterodosso. Semmai, la lettura di
Moseley sembra avvicinarsi maggiormente all’economia ortodossa.
Il denaro è per lui un velo: in forza di ciò, il plusvalore è plusdenaro,
e quest’ultimo è la necessaria forma fenomenica del pluslavoro che
lo determina. «Macro» ha dunque il senso di una aggregazione: la
totalità è semplicemente la somma delle componenti individuali.

154
Alcuni richiami (ridondanti) alla terminologia hegeliana e certe
citazioni (dubbie) non sono in grado di chiarire il motivo per cui
una tale aggregazione dovrebbe dare priorità logica alle grandezze
«macro-monetarie» rispetto a quelle individuali.
Sosterrò inoltre che il tentativo di Moseley di descrivere
il sistema marxiano come se fosse libero da difficoltà interne
fallisce, e che la sua interpretazione «macro-monetaria» non è
convincente proprio in alcuni snodi fondamentali. Suggerirò,
invece, che una riformulazione della teoria monetaria marxiana
ed una traduzione della sua teoria dello sfruttamento in ter-
mini autenticamente «macroeconomici» sono necessari proprio
per superare alcune debolezze dell’argomentazione marxiana.
Nell’intraprendere questo esercizio dialogico e critico con
Moseley, procederò per fasi e, sfortunatamente (per mancanza
di spazio), in modo alquanto impressionistico, aiutandomi con
alcune citazioni. Nella prima metà del saggio (i primi tre para-
grafi), presenterò la mia lettura della teoria macro-monetaria del
valore-lavoro, distinguendo chiaramente l’interpretazione dell’argo-
mentazione marxiana dalla mia personale ricostruzione e sviluppo
della medesima. Nella seconda metà del saggio (i paragrafi 4 e 5)
metterò a confronto la discussione sul primo libro del Capitale
con l’approccio di Moseley. Il presente saggio, dunque, presenta
un abbozzo sintetico della mia lettura di Marx in parallelo con una
critica dell’interpretazione di Moseley, entrambe messe alla prova
dell’evidenza testuale.
Nel primo paragrafo presenterò una rapida rassegna generale2
del senso fondamentale del primo libro del Capitale. Qui il mio
obiettivo non sarà quello di restituire troppo alla lettera il pensiero
di Marx: voglio anzi mettere subito in evidenza i momenti «macro»
e «monetario» della prospettiva marxiana, nascosti dallo sviluppo
originale dell’argomentazione. Nei paragrafi seguenti esaminerò più
da vicino alcune delle questioni fondamentali nell’argomentazione

2
Per una rassegna più estesa del pensiero economico marxiano, cfr. Bel-
lofiore (2001).

155
del Capitale, analizzando più approfonditamente la formulazione
propria di Marx. Nel secondo paragrafo, mostrerò in quale senso
la natura «monetaria» del valore alla Marx sia inestricabilmente
connessa alla teoria del denaro come merce – sia chiaro: merce
speciale, «esclusa». È qui che sta il fondamento ultimo della «teoria
del valore-lavoro», cioè del valore quale espressione in denaro di
nient’altro che lavoro nella sua peculiare forma capitalistica. Il valo-
re «intrinseco» (che è stato alcune volte, chiamato nella letteratura
secondaria e dallo stesso Marx, valore «assoluto») e il lavoro astratto
cristallizzato nelle merci, la cui misura «immanente» è il tempo di
lavoro, si deve esprimere in una misura «esterna», il denaro come
merce, il cui lavoro concreto è forma fenomenica necessaria del
lavoro astratto congelato nelle merci. Nel terzo paragrafo ricorderò
che la teoria marxiana dell’origine del plusvalore è parte di una
argomentazione «controfattuale» (o meglio, discende dall’applica-
zione di un «metodo della comparazione»): il plusvalore risulta dal
prolungamento della giornata lavorativa oltre il punto nel quale il
lavoro vivo è pari al lavoro necessario.
Nel quarto paragrafo, dirò qualcosa sulla determinazione del
valore della forza-lavoro nel primo libro del Capitale, giungendo a
conclusioni contrastanti con quelle di Moseley, e che si avvicinano
molto all’interpretazione della teoria del salario da parte di Rosa Lu-
xemburg nella sua Introduzione all’economia politica. Il valore della
forza-lavoro è determinato da Marx in relazione ad un paniere «rea-
le» di sussistenza, che di fatto regola il salario monetario. Nel quinto
paragrafo presenterò alcune citazioni tratte dal primo libro, le quali
mostrano in modo evidente che la prospettiva marxiana è veramente
«macro», come sostiene anche Moseley. Queste stesse citazioni mo-
strano però che la prospettiva «macro» giunge a conclusioni opposte
rispetto alla prospettiva «micro». Uno degli esempi più chiari di ciò
ha a che vedere proprio con la determinazione del salario reale per
la classe dei lavoratori da parte del capitale totale. Il che contrasta
palesemente con l’interpretazione dei testi presentata da Moseley.
Nel corso del saggio non potrò che dare per scontato il per-
corso di lettura della teoria marxiana che ho svolto in altri miei

156
scritti3. Un percorso che mi ha condotto a sostenere che le difficoltà
presenti nell’argomentazione propria di Marx, tanto sul piano della
teoria monetaria quanto su quello della teoria del valore, possono
essere superate soltanto se la teoria del valore-lavoro viene ripensata
come teoria conflittuale dell’estrazione del lavoro vivo attraverso
la lotta di classe, e se la natura essenzialmente monetaria del capi-
talismo implica che in questo modo di produzione il denaro non
può avere natura di merce, in quanto la moneta apre il circuito
quale finanziamento (bancario) alla produzione. La teoria del va-
lore-lavoro astratto, insomma, può essere confermata e sviluppata
soltanto qualora gli aspetti monetari e macro della teoria marxiana
vengano non soltanto resi coerenti, ma anche rafforzati.

1. Il significato fondamentale del primo libro del Capitale: un breve


compendio

Per Marx, la società capitalistica è definita come quel con-


testo storico in cui le condizioni «oggettive» della produzione
(mezzi di produzione, incluso le risorse originarie e il lavoro)
sono possedute privatamente da una parte della società, la classe
capitalista, mentre l’altra parte, la classe dei lavoratori, ne è esclu-
sa4. I lavoratori, separati dalle condizioni materiali del lavoro e
quindi incapaci di produrre indipendentemente i propri mezzi di
sussistenza, sono costretti a vendere alle imprese capitaliste la sola

3
I più rilevanti sono Bellofiore (1989) [cfr., in italiano, Bellofiore (1993)]
e Bellofiore e Finelli (1998) [cfr., in italiano, Bellofiore (1996)].
4
Sebbene l’aspetto finanziario del quadro che sto fornendo non sia svilup-
pato nel primo libro del Capitale e sia esplicitamente introdotto soltanto nel
terzo libro, nella mia prospettiva deve esser considerato fin dall’inizio come una
caratteristica determinante del rapporto sociale capitalistico. Tale questione sarà
chiarita in seguito in questo saggio. Per un’esposizione più dettagliata della posi-
zione secondo la quale Marx è un precursore della teoria del circuito monetario,
si vedano i saggi raccolti in Bellofiore (1997) e soprattutto Graziani (1983a,
1983b). Cfr. inoltre Bellofiore (2004). Per una breve rassegna della teoria del
circuito monetario, cfr. Bellofiore e Seccareccia (1999).

157
cosa che posseggono, la condizione «soggettiva» della produzione
(la loro forza-lavoro), in cambio di un salario monetario da spen-
dere nell’acquisto dei beni salario. La forza lavoro è la capacità
di lavorare: essa è costituita dalle capacità fisiche e mentali che
vengono messe in moto nel lavoro utile, che produce qualsiasi
tipo di valori d’uso, e che è inseparabile dal corpo vivente degli
esseri umani. Il contratto di lavoro tra i capitalisti e i lavoratori
salariati presuppone che questi ultimi siano formalmente soggetti
liberi (diversi dagli schiavi e dai servi), e, quindi, che mettano
la loro forza-lavoro a disposizione dei capitalisti soltanto per un
periodo limitato di tempo. I proprietari dei mezzi di produzione,
i «capitalisti industriali», hanno bisogno di un finanziamento ini-
ziale dai proprietari di denaro, i «capitalisti monetari», non solo
per comprare i mezzi di produzione dagli altri capitalisti (il che,
dal punto di vista della classe capitalistica nel suo complesso, è
una transazione interna alla medesima), ma anche, e soprattutto,
per comprare la forza-lavoro dei lavoratori (il che, dallo stesso
punto di vista, è il suo solo acquisto «esterno»). Le merci prodotte
appartengono ai capitalisti industriali, che le vendono ai «capita-
listi commerciali», i quali, a loro volta, le realizzano sul mercato.
Marx nel primo libro suppone che i capitalisti industriali
abbiano inizialmente già a loro disposizione il denaro di cui
hanno bisogno per attivare i processi produttivi, e che vendano le
loro merci sul mercato senza bisogno di intermediari. Dunque, a
questo livello di astrazione, le tre figure dei capitalisti (industriali,
monetari, commerciali) non hanno bisogno di essere distinte.
Il processo capitalistico, in un dato periodo di produzione,
può essere riassunto in questi termini. All’inizio del circuito, la
compera della forza-lavoro sul cosiddetto mercato del lavoro per-
mette all’imprenditore capitalista di dare inizio alla produzione
immediata. Le imprese si aspettano di vendere sul mercato le
merci prodotte in cambio di denaro. Ciò che ottengono deve
per lo meno coprire l’anticipo iniziale, in modo da chiudere il
circuito. Qui sono coinvolti due tipi di circolazione monetaria.
I salariati vendono le merci, MFL (la loro forza-lavoro) in cambio

158
di denaro, D, così da ottenere merci differenti, MPS (il paniere di
merci necessarie alla riproduzione dei lavoratori, provenienti dai
precedenti processi di produzione e appropriate dai capitalisti). I
lavoratori sono così intrappolati in ciò che Marx chiama la «cir-
colazione semplice delle merci», o M – D – M’. Dall’altro lato,
le imprese capitalistiche comprano merci per venderle, quindi
la circolazione appare dal loro punto di vista D – M – D’. Una
volta espressa in questa forma, è chiaro che la circolazione capi-
talistica ha senso solo se la quantità di denaro alla fine del circuito
è maggiore di quella anticipata all’inizio – cioè se D’ > D e se il
valore anticipato sotto forma di denaro è stato in grado di otte-
nere un plusvalore, consistente in un profitto monetario lordo 5.
D – M – D’ è la «formula generale del capitale», e il capitale è
definito da Marx come valore che si autovalorizza. La divisione
tra capitalisti e lavoratori salariati potrebbe a questo punto essere
reinterpretata come la «separazione» tra coloro che hanno accesso
all’anticipazione di denaro come capitale, «denaro che genera
denaro», indipendentemente dalla disponibilità di una merce e
dunque anche prima della sua produzione, e quelli che hanno
invece accesso al denaro solo come reddito, e che per ottenerlo
devono già avere la disponibilità di una merce da vendere.
La domanda fondamentale affrontata da Marx nel primo
libro del Capitale è quindi la seguente: come può la classe ca-
pitalistica ottenere dal processo economico più di quanto non vi

5
Che le imprese divideranno con i capitalisti finanziari, i capitalisti mercan-
tili, i proprietari terrieri e i rentier. Non tratterò qui la questione di come una
maggiore quantità di denaro (in quanto maggiore ricchezza astratta) prodotta dai
lavoratori salariati si realizzi effettivamente nella circolazione in una quantità di
denaro (come mezzo di scambio) maggiore di quella immessa nel sistema all’inizio
del circuito dai capitalisti monetari (attualmente le banche). Il modello iniziale
di Marx non sembra essere corretto dal punto di vista della teoria del circuito
monetario, secondo la quale la totalità delle imprese può recuperare, alla fine
del circuito, soltanto il medesimo ammontare di finanziamento che gli è stato
fornito dal sistema bancario. Suggerimenti interessanti che possono fornire una
risposta migliore vengono da Luxemburg e Kalecki: tuttavia questa è un’area
ancora aperta alla ricerca.

159
immetta? Ciò che essi immettono, come classe, è il capitale
monetario, che «esibisce» (o «espone»: nel seguito useremo i
due termini come sinonomi) il lavoro astratto materializzato
nei mezzi di produzione e nei mezzi di sussistenza richiesti per
il processo di produzione. Ciò che essi ottengono è denaro che
«esibisce» il lavoro astratto cristallizzato nelle merci prodotte e
vendute sul mercato alla fine del circuito. Da un punto di vista
macroeconomico, è chiaro che la «valorizzazione» del capitale
non può avere la propria origine nelle transazioni «interne» alla
classe capitalistica, ossia tra le imprese, perché qualsiasi profitto
un produttore ottenga attraverso l’acquisto a prezzo più basso e
la vendita a prezzo più alto determinerebbe una perdita per gli
altri produttori. Di conseguenza, la fonte del plusvalore deve essere
rintracciata nel solo scambio che è «esterno» alla classe capitalistica,
ovvero l’acquisto della forza-lavoro.
La questione qui è semplicemente comprendere attraverso
quale meccanismo tutto ciò può aver luogo. Ritornerò su questo
punto in maggiore dettaglio, ma penso che il ragionamento di
Marx sia, in estrema sintesi, il seguente. Nel processo lavorativo
capitalistico, la totalità dei lavoratori salariati riproduce i mezzi di
produzione impiegati e produce un prodotto netto. Il prodotto
netto è «esibito» sul mercato in un neo valore che si aggiunge al
valore dei mezzi di produzione. Questo vero e proprio «valore ag-
giunto» è nient’altro che l’espressione monetaria del tempo di lavoro
(socialmente necessario) «oggettualizzato» in merci dai lavoratori
salariati nel periodo attuale. Il «valore della forza-lavoro» con
riferimento all’intera classe lavoratrice è dato dal lavoro contenuto
nei salari monetari, che è regolato dal tempo di lavoro (produttore
di merci) richiesto alla riproduzione della capacità di lavoro, e
quindi dal tempo di lavoro che è richiesto per (ri)produrre i mezzi
di sussistenza acquistati sul mercato. Perciò, il plusvalore proviene
dal «pluslavoro»: la differenza positiva tra, da una parte, tutto il
lavoro vivo speso nella produzione del prodotto netto del capitale,
e, dall’altra, la quota di lavoro vivo necessaria alla riproduzione dei
salari, che Marx chiama lavoro necessario.

160
2. Il valore come lavoro astratto: il denaro come merce
come mediazione necessaria
2.1 L’espressione monetaria del tempo di lavoro astratto
La riconduzione del plusvalore al pluslavoro può essere meglio
compresa volgendosi verso la maniera peculiare attraverso la quale
Marx sviluppa e capovolge la teoria del valore-lavoro formulata ori-
ginariamente dagli economisti «classici», Smith e Ricardo6. Il punto
di partenza del ragionamento è che il capitalismo è un’economia
di scambio generale di merci: per questo, l’analisi dello scambio «in
quanto tale» (scambio «generale», o scambio «semplice») si dà prima
dell’analisi dello scambio «capitalistico». Nello scambio semplice, i
produttori particolari sono separati e in competizione l’uno con
l’altro. Il lavoro di questi «individui» è immediatamente privato e
può diventare sociale soltanto sul mercato finale delle merci. Que-
sto avviene indirettamente: ogni merce è uguale alle altre in certe
proporzioni quantitative, ha tanto «valore di scambio» quanto è
espresso dal denaro, nella sua qualità di «equivalente generale». Il
denaro è una merce particolare con potere d’acquisto generale; essa
si è originata attraverso un processo di selezione ed esclusione che
viene sanzionato dallo stato. Questa uguaglianza dei prodotti che
si ha sul mercato è anche, nello stesso movimento, l’uguaglianza
dei lavori che li producono. Così, il lavoro non è sociale ex ante ma
solo in quanto il suo prodotto finale è denaro: ricchezza «generica»
o «astratta». Il lavoro particolare, che è sempre anche «lavoro
concreto», che produce un oggetto di una qualche utilità per altri,
dunque un «valore d’uso», vale per il produttore come il suo op-
posto, come lavoro «astratto», come una quota del lavoro aggregato
la cui socializzazione ex post è esposta nel valore monetario della
produzione (e, quindi, come una quota del lavoro concreto che
produce il denaro come merce). Non di meno, sebbene sia soltanto

6
Questa lettura è molto diversa da quella tradizionale proposta da Dobb
(1937) e Sweezy (1942), ed è fortemente influenzata da Colletti (1969) e Na-
poleoni (1972). Su questo cfr. Bellofiore (1999).

161
attraverso il denaro che il lavoro privato diventa lavoro sociale, non è
il denaro che determina la commensurabilità delle merci. Al contrario:
le merci hanno un valore di scambio perché, anche prima dello
scambio finale sul mercato delle merci, esse hanno già acquisito la
proprietà ideale di essere universalmente scambiabili, e possiedono
quindi la «forma di valore». Tale proprietà, per così dire, scaturisce
dal lavoro «astratto» oggettualizzato come «sostanza del valore». Il
denaro non è nient’altro che valore resosi autonomo nello scambio,
separato dalle merci ed esistente al loro fianco: e come tale esso è
l’«espressione» esterna del lavoro astratto indirettamente sociale.
Quest’analisi qualitativa dello scambio in generale ha una
precisa controparte quantitativa. La «grandezza di valore» di una
merce è determinata dal lavoro «socialmente necessario» alla sua
produzione, che dovrà essere esposto in denaro. In una determinata
branca della produzione, ogni merce di un dato tipo e qualità è
venduta allo stesso prezzo monetario. Quindi, la grandezza di valore
è determinata non dal tempo di lavoro individuale realmente speso
dal singolo produttore (che determina il suo «valore individuale»),
bensì dal tempo di lavoro che deve essere speso in condizioni
normali e con un grado medio di abilità e intensità del lavoro (che
determina il suo «valore sociale»). La grandezza di valore è anche in-
versamente proporzionale alla forza produttiva7 del lavoro che pro-
duce la merce. Come si è detto, i “valori” delle merci si esibiscono
necessariamente come prezzi monetari nello scambio. La quantità
di denaro che è prodotta da un’ora di lavoro, in un dato paese e in
dato periodo, può essere definita come l’«espressione monetaria del
lavoro»: il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre una
merce, moltiplicato per l’espressione monetaria del lavoro, ci dà ciò
che è stato chiamato in seguito il suo prezzo «semplice» o «diretto».

7
In molte traduzioni, inclusa quella italiana, si tende a considerare equiva-
lenti le nozioni di «forza produttiva» e di «produttività» del lavoro. Così non è
in Marx. Spesso, «produttivo» ha a che vedere con la produttività di plusvalore
del lavoro comandato dal capitale. Quando attiene alla dimensione del valore
d’uso, la «produttività» del lavoro può accrescersi per un tempo di lavoro più
esteso o più intenso.

162
Il valore di scambio relativo tra due merci è in Marx il rapporto
tra i loro prezzi semplici: esso è quindi proporzionale al rapporto
tra i loro valori «intrinseci». In questo modo di vedere le cose,
è sempre possibile tradurre la misura «esterna» della grandezza
di valore di ogni merce, esibita in termini monetari (idealmente
anticipata, cioè «rappresentata», dai produttori già prima dello
scambio), nella misura «immanente», cioè in unità di tempo di
lavoro. Si noti, comunque, che il valore non è identico al prezzo
definito arbitrariamente come quel qualsiasi rapporto tra la mer-
ce e il denaro che si fissi accidentalmente sul mercato. Il valore
«espone» una relazione necessaria con il tempo di lavoro (astratto)
che è stato speso nella produzione delle merci. Per essere assunto
come «regolatore» effettivo dei prezzi di mercato, a questo stadio
iniziale e ancora molto astratto dell’indagine, il concetto di valore
implica una coincidenza tra la domanda e l’offerta delle varie merci.
D’altro canto, il concetto di valore implica anche l’opposto, cioè
che l’allocazione spontanea dei lavori immediatamente «privati» dei
produttori autonomi ed indipendenti si affermi solo a posteriori
sul mercato, come una «divisione sociale del lavoro». Astraendo da
ciò, e dalle possibili divergenze tra domande e offerte, «prezzo» è
il nome-monetario preso dalle merci: il tempo di lavoro che esso
esibisce può differire dal lavoro socialmente necessario contenuto
nella merce. La massa complessiva delle nuove merci prodotte nel
periodo è vista da Marx come una quantità omogenea di valore,
la cui espressione monetaria deve necessariamente essere uguale al
loro prezzo totale in denaro. Qualsiasi divergenza tra i valori e i
prezzi non può che ridistribuire il lavoro diretto complessivo tra
i produttori, il «contenuto» nascosto dietro la «forma» di valore
presa dal prodotto netto.

2.2 Il ruolo fondamentale del denaro come merce


Nell’argomentazione che ho appena riassunto, ciò che voglio
sottolineare, con l’aiuto di alcune citazioni, è come l’idea secondo
la quale il valore non esibisce nient’altro che lavoro si basa, per

163
Marx, sulle seguenti tesi: (i) i prodotti sono merci (e quindi hanno
valore) in quanto sono venduti sul mercato in cambio di denaro;
(ii) il denaro è una merce (molto particolare); (iii) questa necessa-
ria «validazione» monetaria ex post è, contemporaneamente, una
«espressione» passiva, esterna, della «sostanza» intrinseca, cioè del
tempo di lavoro «astratto» omogeneo cristallizzato nelle merci, che
deve confermare (e misurare) esse stesse nella sfera della circolazio-
ne; (iv) i valori sono una pre-condizione della circolazione monetaria
(quest’ultima tesi, si badi, sembra contraddire la prima).
«La forma generale del valore» scrive Marx «sorge soltanto
come opera comune del mondo delle merci» e «l’oggettività di
valore delle merci […] può essere espressa soltanto mediante la loro
relazione sociale onnilaterale» (Capitale, I: 98-99)8. Alcune pagine
prima si precisa che «le proprietà di una cosa non sorgono dal suo
rapporto con altre cose, ma anzi si limitano ad agire in tale rap-
porto» (Capitale, I: 90). Soltanto all’interno dello scambio effettivo
tutte le merci si presentano come qualitativamente uguali, come
valori in generale, e come valori di differente grandezza quantitati-
va. Nella sfera della circolazione, quindi, i lavori immediatamente
privati, concreti, si presentano come una quota del lavoro sociale
astratto attraverso la loro metamorfosi in denaro. Ma Marx affer-
ma esplicitamente che «[l]e merci non diventano commensurabili
per mezzo del denaro. Viceversa, poiché tutte le merci come valori
sono lavoro umano oggettualizzato, quindi sono commensurabili
in sé e per sé, possono misurare i loro valori in comune in una
stessa merce specifica e, in tal modo, trasformare questa nella loro
comune misura di valore, ossia in denaro. Il denaro come misura
di valore è la forma fenomenica necessaria della misura immanen-
te di valore delle merci, del tempo di lavoro» (Capitale, I: 127).

8
Nelle citazioni da Marx presenti in questo saggio, il corsivo, assente nella
traduzione inglese e presente in quella italiana, è stato ripristinato. Il corsivo è
fondamentale per comprendere meglio l’andamento del pensiero marxiano. Per
tale ragione, quando voglio evidenziare alcune parti le scriverò in maiuscoletto,
in modo tale che il lettore possa distinguere i miei accenti da quelli di Marx.

164
Poiché in generale «[i]l corpo della merce che serve da equiva-
lente, vale sempre come incarnazione di lavoro astrattamente umano
ed è sempre il prodotto di un determinato lavoro utile, concreto», e
poiché il «lavoro concreto diventa forma fenomenica del suo oppo-
sto, di lavoro astrattamente umano» (Capitale, I: 90-1), nell’oro, in
quanto «equivalente generale», il lavoro concreto che produce l’oro
diventa la forma fenomenica del suo opposto, il lavoro umano astratto.
Sebbene lavoro di un produttore «privato», esso funge da lavoro che
ha forma immediatamente sociale. La misura del valore di una merce
in oro, la sua forma-denaro, è il «prezzo». Una volta che il denaro ven-
ga considerato come standard «convenzionale» del prezzo, quantità
di metallo con peso determinato, il prezzo diventa il nome-denaro del
lavoro oggettualizzato nella merce. In questo modo il lavoro astratto
intrinseco alle merce è «esposto» dal lavoro concreto che produce l’oro
come denaro. Ma il prezzo delle merci è «come loro forma di valore in
generale, una forma distinta dalla loro forma corporea tangibilmente
reale, quindi è solo forma ideale ossia rappresentata. Il valore del
ferro, della tela, del grano, ecc., esiste, sebbene invisibile, proprio in
queste cose; viene rappresentato mediante la loro eguaglianza
con l’oro: relazione con l’oro, che, per così dire, s’aggira fantasma-
goricamente solo nelle teste delle merci» (Capitale, I: 128). Mentre
«l’oro può servire come misura dei valori soltanto perché anch’esso
è prodotto di lavoro» (Capitale, I:131), il valore delle merci è già
«espresso» nei loro prezzi come denaro ideale – cioè come una data
quantità del lavoro che produce l’oro – prima che essi entrino nella
circolazione. Il valore è, in questo senso, una pre-condizione della
circolazione, non il suo risultato: la teoria del denaro come merce
rende questa affermazione compatibile con l’idea che il valore alla
fine viene alla luce, o si attualizza, nell’intersezione della produzione
e della circolazione9.

9
Questa prospettiva è sviluppata nel mio commento a de Brunhoff in
Bellofiore (1998 e in Realfonzo-Bellofiore (2003). Nel testo utilizzerò quasi
sempre l’espressione «teoria del denaro come merce» e non la più diffusa «teoria
della merce denaro», o della merce-moneta. La ragione sta nel sottolineare la
differenza da Ricardo. In Ricardo, il denaro è una merce perché esso è simile

165
Questo filo di ragionamento rimanda ad un aspetto cruciale
dell’argomentazione marxiana, che non possiamo sviluppare in
questa sede, e per cui rimandiamo ad altri lavori. Per Marx, il «va-
lore» che sta dietro il valore di scambio, prima della metamorfosi
con il denaro, a stretto rigore, non esiste ancora, è una entità solo
latente, un vero e proprio fantasma. Deve «incorporarsi», nel senso
di «prendere corpo», una vera e propria «possessione»; Marx parla
anche di «incarnazione». Marx, infatti, mentre non parla mai, a
proposito del lavoro astratto, di lavoro incorporato, parla invece di
«valore incorporato»: incorporato nel denaro come merce – a quel
punto, la metafora del fantasma si muta in quella della crisalide.
In effetti, il valore «intrinseco» della merce10, come denaro
ideale, deve ancora «realizzarsi», cioè rendersi attuale, venire concre-
tamente all’esistenza11. Quando ciò avviene, il lavoro astratto nelle
merci si espone (ed esprime), nel lavoro concreto che produce la
merce-denaro, l’unico lavoro che Marx definisce «immediatamente
sociale». Cionondimeno, nello scambio effettivo, «[n]ei loro prezzi,

a tutte le altre merci, poiché ha in comune con loro il fatto di essere prodotto
del lavoro, senza alcuna qualificazione particolare. In Marx il denaro è merce
in quanto esso è escluso da, ed opposto a, l’intero mondo delle merci. È questa
la ragione per cui il lavoro concreto che produce il denaro come merce è il solo
tramite attraverso il quale il lavoro astratto «latente» in tutte le altre merci può
alla fine «giungere all’esistenza».
10
In altri saggi, invece di valore «intrinseco» ho utilizzato (seguendo Napoleo-
ni, e in pochi casi lo stesso Marx) valore «assoluto», ma anche valore «potenziale»
(cfr. Bellofiore 1996). Potenziale va inteso nel senso di latente e ideale. Questa
«potenzialità», come provo a mostrare in questo saggio (e nell’altro saggio appena
citato), deve essere vista nel contesto più ampio della realtà del valore in tutte
le fasi del circuito capitalistico. Inoltre, è trattando tutto il lavoro come astratto
nella produzione in senso stretto, cioè nel momento centrale del ciclo del capitale,
che si vede come si produce capitale. Un risultato del genere è conseguente, per
così dire, all’imprinting della forma valore, e dunque del denaro, sulla produzione
immediata, da entrambi gli estremi del circuito monetario capitalistico: dal finan-
ziamento iniziale, «in avanti»; dallo scambio monetario finale sul mercato delle
merci, «all’indietro». Questo punto sarà meglio chiarito in seguito attraverso la
ricostruzione e lo sviluppo della teoria «macro-monetaria» del valore-lavoro.
11
È in questo senso che impiegheremo sempre l’espressione «realizzazione»
del valore/plusvalore.

166
le merci sono già identificate a determinate quantità ideali di
denaro […] la massa di mezzi di circolazione richiesta per il pro-
cesso di circolazione del mondo delle merci è già determinata dalla
somma dei prezzi delle merci. Di fatto il denaro non fa che esporre
realmente la somma d’oro già rappresentata idealmente nella
somma dei prezzi delle merci» (Capitale, I:149, trad. modificata).
La circolazione monetaria è «aperta» dal baratto iniziale dell’oro
come merce contro un’altra merce: cioè l’oro come denaro, «entra
come merce di valore dato. […] Questo valore è presupposto nella
funzione del denaro come misura del valore, quindi nella determi-
nazione del prezzo […] In quanto segue, il valore dell’oro viene
presupposto come dato, come di fatto è dato nel momento del-
la stima dei prezzi (Capitale, I: 150-51). Ancora, nel primo libro,
questo valore di scambio è spiegato presupponendo che i rapporti
quantitativi di scambio siano proporzionali al lavoro «incorporato»:
Come ogni merce, il denaro può esprimere la propria grandezza di
valore solo relativamente, in altre merci. II suo proprio valore è de-
terminato dal tempo di lavoro richiesto per la sua produzione e si
esprime nelle quantità di ogni altra merce nella quale si è coagulato
altrettanto tempo di lavoro. Questa fissazione della sua grandezza
relativa di valore ha luogo alla sua fonte di produzione nel traffico
immediato di scambio. Appena entra in circolazione come denaro, il
suo valore è già dato (Capitale, I: 124, trad. modificata).

2.3 Alcune risposte alle critiche


Questa argomentazione, che è espressa nel modo più chiaro
nelle pagine iniziali del Capitale, muove dal valore di scambio al
valore, dal valore al denaro, e dal denaro al lavoro (anche se, va
ammesso, nel primo paragrafo del primo capitolo, Marx compie
sfortunatamente un cortocircuito connettendo valore e lavoro pri-
ma di avere introdotto la forma di valore e il denaro). Proprio per
questo, la sue esposizione può essere attaccata da vari punti di vista.
Così, Böhm-Bawerk non è stato in grado di comprendere
l’essenziale aspetto monetario della teoria marxiana del valore, ed ha
solo prestato attenzione a ciò che gli appariva come una deduzione

167
lineare valore di scambio/valore/lavoro astratto. Ne ha concluso,
abbastanza ragionevolmente, che astrarre dai valori d’uso specifici
non significa di per sé astrarre dal valore d’uso «in generale». E ha
obiettato che, visto che le merci non prodotte hanno anch’esse dei
valori di scambio, le proprietà comuni che permettono lo scambio
sul mercato e che sono nascoste dietro il concetto di valore sono
l’utilità e la scarsità. Questa prima critica deve trovare una risposta
più forte rispetto a quella di Marx; questo verrà fatto nel prossimo
paragrafo.
Una seconda critica, più recente e meglio disposta nei confronti
di Marx, proviene dal campo marxiano. Molti teorici che fanno
parte della corrente della «forma-valore» (incluso Geert Reuten e
Nicola Taylor) sottolineano che, mentre la connessione del valore
al denaro come equivalente universale (ma non la connessione del
valore al denaro come merce) è in generale convincente, meno
lo è l’idea di un valore «intrinseco» o «assoluto» determinato dal
dispendio di lavoro come entità socialmente omogenea che si co-
stituisce prima della vendita dei prodotti sul mercato delle merci.
Di fatto, secondo questa posizione, Marx stesso indicherebbe che
l’uguaglianza sociale tra i lavori si compie soltanto nella circolazio-
ne, quando la merce è realmente venduta: i lavori concreti nella
produzione immediata sono insomma eterogenei, e quindi non-
addizionabili. A me pare che in questa interpretazione, come in
molte altre, vi sia una sottovalutazione della rilevanza della teoria del
denaro come merce, vera e propria «fondazione» del nesso insepa-
rabile stabilito da Marx tra il valore e il lavoro, e secondo il quale
il primo (necessariamente «esposto» in denaro secondo un valore
già dato) non è nient’altro che la «materiatura» del secondo12.
Alcuni interpreti, marxisti e no, hanno sostenuto che i valori
regolerebbero i prezzi soltanto in un’«economia mercantile sempli-

12
La necessaria connessione interna che si dà in Marx tra, da un lato, il
valore come nient’altro che espressione di una oggettualizzazione del lavoro vivo,
e dall’altro il denaro come merce, è contestata anche da Martha Campbell nei
suoi molti scritti sull’argomento.

168
ce», dove i lavoratori posseggono i mezzi di produzione e dove il
reddito è interamente devoluto ai produttori. Una tale economia
mercantile semplice può essere vista come un precedente storico
del capitalismo oppure come una finzione, una prima e imperfetta
approssimazione all’analisi del capitalismo. Poiché nel capitali-
smo i prezzi di concorrenza che fungono da centri di gravità dei
prezzi di mercato sono «prezzi di produzione» (incorporano, cioè,
un uguale saggio di profitto) e divergono in generale dai prezzi
semplici, e poiché la «trasformazione» di questi ultimi nei primi è
problematica, questa è diventata una terza ragione di attacco contro
la teoria del valore di Marx. Questa posizione ignora il fatto che,
per Marx, lo scambio di merci è generale soltanto quando il modo
di produzione capitalistico è dominante – cioè, soltanto quando
i lavoratori sono sistematicamente costretti a vendere la propria
forza-lavoro in cambio di denaro come capitale (variabile), che
diviene così valore autovalorizzantesi. Di conseguenza, il lavoro è
la “sostanza” celata dietro la forma-valore a causa di una sequenza
più fondamentale che va dal denaro (-capitale) al lavoro (vivo) al
(plus) valore. Gli «individui» privati - separati e opposti l’uno al-
l’altro nel mercato delle merci, dove diventano sociali attraverso la
metamorfosi dei loro prodotti in denaro - possono adesso essere
interpretati come lavoratori collettivi, organizzati dai capitali parti-
colari in concorrenza tra di loro.
Tuttavia, come ho argomentato altrove, la teoria del denaro
come merce proposta da Marx a partire dall’indagine della sfera
della circolazione delle merci, all’inizio del Capitale, deve essere
ridiscussa non appena l’analisi muove a considerare il processo di
produzione capitalistico. Giunti a questo punto, si deve riconoscere
che nel capitalismo il ciclo capitalistico si apre con una anticipa-
zione di moneta nella forma di credito bancario, che finanzia la
produzione delle imprese e che è creata dal nulla’, appoggiandosi
soltanto sull’attesa di una valorizzazione futura. È questo un motivo
ulteriore che ci spinge alla ricerca di un differente fondamento
– più solido di quello di Marx – della riconduzione dei valori delle
merci a nient’altro che espressione (monetaria) del solo lavoro.

169
Ma prima di affrontare direttamente tale questione dobbiamo
ripercorrere l’argomentazione marxiana dell’origine del plusvalore.
Un’argomentazione in cui Marx procede ancora riducendo le
grandezze monetarie all’oro, e in forza di ciò “traducendo” i prezzi
monetari che esibiscono i valori in quantità di tempo di lavoro.

3. L’origine del plusvalore e il «metodo della comparazione»


3.1 Marx sull’origine del plusvalore
Il processo di valorizzazione può essere riassunto quantitativa-
mente con l’aiuto di alcune definizioni. Marx chiama la parte del
capitale monetario anticipato dalle imprese e usato per comprare i
mezzi di produzione «capitale costante» perché, attraverso la media-
zione del lavoro come lavoro concreto, il valore delle materie prime
e degli strumenti di produzione viene puramente e semplicemente
trasferito al valore del prodotto. Marx chiama la porzione rimanente
del capitale monetario anticipato – più precisamente, la forma mo-
netaria presa dai mezzi di sussistenza che va a comprare i lavoratori,
consentendo così di «incorporarli» (questa volta non nel senso di
«prendere possesso» ma nel senso di «includerli») nel processo di
valorizzazione – «capitale variabile», perché, quando il lavoro vivo,
come lavoro astratto, è estratto dalla capacità di lavoro dei lavorato-
ri, esso non solo restituisce il valore anticipato dai capitalisti nella
compera della forza-lavoro, ma produce anche valore oltre questo
limite, e, quindi, dà vita a un plusvalore. Il rapporto del plusvalore
con il capitale variabile è definito da Marx «saggio di plusvalore».
Quest’ultimo corrisponde al «grado di sfruttamento», inteso quale
appropriazione da parte del capitale di un «pluslavoro» all’interno
della giornata lavorativa sociale: più alto (basso) è il rapporto, più
(meno) ore di lavoro i lavoratori spendono per la classe capitalistica
rispetto alle ore che spendono per produrre il proprio consumo.
Una ripartizione simile tra capitale costante, capitale variabile e
plusvalore può essere scovata nel valore dell’output prodotto dai
singoli capitali come componenti del capitale complessivo.

170
Dall’altro lato, Marx chiarisce nel terzo libro del Capitale
come i capitalisti non possono che mettere in rapporto il plusvalore
con il capitale complessivo che hanno anticipato. Il plusvalore,
in quanto riferito alla somma del capitale costante e del capitale
variabile, prende il nome di «profitto», e questo nuovo rapporto è
perciò definito «saggio di profitto». Poiché esso mette in relazione
il plusvalore non soltanto al capitale variabile, ma anche a quello
costante, il saggio del profitto oscura, dunque nasconde e dissimula,
la necessaria relazione interna tra il plusvalore, come effetto, e il
lavoro vivo, come causa. Il profitto a questo punto viene compreso
come prodotto dal capitale complessivo quale cosa (vuoi come som-
ma monetaria, vuoi come insieme dei mezzi di produzione, che
include i lavoratori come cose tra altre cose) e non come rapporto
sociale tra classi. Tuttavia, questa mistificazione «feticistica», che pare
far discendere il profitto da una proprietà naturale dell’oro o degli
strumenti di produzione, non è mera illusione, essa discende anzi
direttamente dal «carattere di feticcio» del capitale, dalla natura
«cosale» e «reificata» del rapporto sociale in questione, storicamente
determinato. Dipende, nel caso specifico, anche dal fatto che, per
sfruttare il lavoro, il capitale deve, allo stesso tempo, essere anticipa-
to nella forma di capitale costante, moneta e mezzi di produzione.
Di conseguenza, il lavoro salariato è davvero una parte del capitale,
come lo sono gli strumenti di lavoro e le materie prime, sebbene
il lavoro vivo dei salariati sia al tempo stesso davvvero il tutto dal
quale il plusvalore, e quindi il capitale stesso, provengono. Da
questo punto di vista, il saggio di profitto esprime esattamente il
«grado di valorizzazione» di tutto il valore anticipato come capitale.
Torniamo al primo libro del Capitale13. Per comprendere come
si produce capitale secondo la teoria di Marx, per intendere cioè la
«genesi» dei profitti monetari lordi, è necessario assumere, come fa
Marx, che le imprese capitalistiche producano al fine di soddisfare
una domanda effettiva di merci, che è l’elemento trainante a cui

13
In seguito utilizzerò il termine «profitto», anticipando il terzo libro, come
indicato nel paragrafo precedente.

171
l’offerta risponde. I «metodi di produzione» (inclusi l’intensità e
la forza produttiva del lavoro), l’occupazione e il salario reale sono
tutti a questo punto da considerare «dati» conosciuti. Marx a questo
punto procede attraverso quello che è stato chiamato da Rubin il
metodo della comparazione14. In questo almeno simile a tutte le altre
merci, la merce particolarissima forza-lavoro ha un valore di scam-
bio e un valore d’uso. Il primo esibisce il «lavoro necessario», che
è considerato da Marx come un dato già prima della produzione, e
corrisponde al lavoro «incorporato» nel capitale variabile monetario
anticipato. Il secondo è il «lavoro vivo», ovvero il lavoro in movi-
mento, la prestazione lavorativa durante la produzione immediata.
Se il lavoro vivo estratto dai lavoratori fosse pari al lavoro necessario
– se, cioè, il sistema economico consentisse una riproduzione tale
da soddisfare soltanto il consumo dei lavoratori secondo la «sus-
sistenza» - non ci sarebbe plusvalore e, quindi, nemmeno profitti
(monetari lordi). Sebbene capitalisticamente impossibile, questa
situazione è significativa e reale nello stesso capitalismo, poiché un
processo di produzione capitalistico che sia vitale deve reintegrare
il capitale anticipato al fine di riprodurre la popolazione lavoratrice
secondo lo standard di vita storicamente dato. In questa situazione,
analoga al «flusso circolare» di Schumpeter, i prezzi relativi si ri-
ducono al rapporto tra i prezzi semplici, sono cioè proporzionali
alle quantità di lavoro «contenute» nelle merci.
Il lavoro vivo dei lavoratori salariati non è una grandezza co-
stante, ma è per sua natura variabile. È un «fluido». La quantità
della sua «materiatura» effettiva15 è ancora da determinare quando

14
Come ho spiegato in Bellofiore (2002: 107-8); ma cfr. anche Bellofiore
(1996: 45-55 e 65-77), la mia lettura del metodo della comparazione di Marx,
qui riassunto, differisce in molti punti da quello di Rubin. Il paragone controfat-
tuale lì delineato è anticipato in Bellofiore (1980: 81-82): questa linea di ricerca
è stata ripresa da Stefano Perri.
15
Marx parla di «materiatura», più che semplicemente di «materializzazione»,
con riferimento all’incorporazione «passiva» (dal punto di vista del materiale
adeguato in cui la materializzazione deve avvenire) nel denaro come merce, in
ipotesi l’oro.

172
il contratto di lavoro viene stipulato. Quel fluido «congelerà» 16
solo come esito della produzione in senso stretto. La lunghezza
della giornata lavorativa può evidentemente essere estesa oltre il
limite del lavoro necessario, cosicché vi sia un pluslavoro. E lo
è, di fatto. Infatti, il controllo e l’obbligo al lavoro imposto dal
capitale ai lavoratori garantisce che questa estensione potenziale
della giornata lavorativa sociale oltre il tempo di lavoro necessa-
rio abbia luogo nella realtà effettuale. In questo modo emergono
quelli che, con Napoleoni, possiamo chiamare «profitti originari».
Marx assume qui che la lunghezza della giornata lavorativa sia
la stessa per ogni lavoratore, cosicché i profitti originari siano
proporzionali all’occupazione. La loro somma è il plusvalore com-
plessivo. Per non confondere l’indagine sull’origine del plusvalore
capitalistico con quella relativa alla sua distribuzione tra i molti
capitali in concorrenza, Marx si attiene alla medesima regola di
determinazione del prezzo adottata in precedenza: i «prezzi sem-
plici» proporzionali al lavoro contenuto nelle merci. Egli può
quindi sottrarre dalla quantità complessiva del lavoro vivo che
è stato realmente estorto nel processo lavorativo capitalistico e
oggettualizzato nel nuovo valore («sociale») aggiunto, la quantità
minore di lavoro che i lavoratori devono realmente svolgere per
produrre l’equivalente del salario monetario che è stato loro pagato.
Si noti che la comparazione che Marx fa non è svolta tra una si-
tuazione in cui sono presenti produttori non capitalistici di merci, il
cui reddito da lavoro («salario») esaurisce il prodotto, e una situazione
dove sono presenti capitalisti che guadagnano profitti grazie a una
riduzione proporzionale del «salario». È piuttosto tra due situazioni
effettivamente capitalistiche, dove il fattore determinante dal punto
di vista della costituzione della situazione capitalistica effettiva con-
siste nella «continuazione», cioè nel prolungamento della giornata
lavorativa sociale (mentre si mantiene costante la regola del prezzo).
Si noti, inoltre, che un’implicazione della regola di determinazione

16
Marx parla più precisamente di «gelatina».

173
del prezzo adottata da Marx17 è che il tempo di lavoro esposto nel
valore del monte salari monetario è lo stesso del tempo di lavoro
necessario a produrre i mezzi di sussistenza acquistati sul mercato.
Se il consumo che i salariati possono effettuare sul mercato
delle merci, in termini reali, tramite la spesa dei salari monetari
che ricevono sul mercato del lavoro, è posto come un «dato», al
livello di sussistenza, e se le aspettative di vendita delle imprese si
assumono, per ipotesi, confermate, allora il processo di autoespan-
sione del capitale può essere visto come determinato in modo
teoricamente trasparente dallo sfruttamento della classe lavoratrice
nella produzione, qualcosa che non fa che riflettersi nella circolazione
«finale» quale luogo dove vengono guadagnati i profitti monetari.

17
Per una argomentazione che chiarisca in dettaglio come e perché Marx
adotti implicitamente e preliminarmente nel primo libro del Capitale una regola
di determinazione del prezzo di questo genere – che implica condizioni tecniche
e sociali medie (ma non uguaglianza nelle composizioni organiche del capitale)
– rimando a Bellofiore (1996), Bellofiore e Finelli (1998) e a Bellofiore (2002).
Una regola del prezzo del tipo «prezzi semplici» = «valori intrinseci», e per la
quale i prezzi relativi sono proporzionali ai lavori «contenuti», discende in modo
immediato dal «metodo della comparazione» adottato esplicitamente da Marx. Essa
è il presupposto logico necessario su cui si erge la spiegazione marxiana dell’origine
del plusvalore. Come risulterà più chiaro in seguito, una simile regola del prezzo
sta alla base anche dalla teoria marxiana del salario nel suo lato macroeconomico
e, perciò, fa da fondamento alla sua teoria della distribuzione. In ogni caso, essa
corrisponde ad una delle più importanti assunzioni marxiane quale risulta da
una nota fondamentale del primo libro: «la formazione del capitale deve essere
possibile anche se il prezzo delle merci è eguale al valore delle merci. Non può
essere spiegata con la differenza fra i prezzi e i valori delle merci. Se i prezzi
differiscono realmente dai valori, occorre ridurre i prezzi ai valori, cioè fare
astrazione da questa circostanza come casuale, se si vuole avere davanti a sé puro
il fenomeno della formazione del capitale sulla base dello scambio di merci, e se
non si vuole essere confusi nell’osservarlo da circostanze secondarie perturbatrici
ed estranee al vero e proprio andamento del fenomeno» (Capitale, I: 198-9).
Marx aggiunge che tutti coloro che sono interessati al pensiero «disinteressato»
relativo al problema della formazione del capitale devono procedere in questo
modo: «data la regolazione dei prezzi mediante il prezzo medio, cioè in ultima
istanza, mediante il valore della merce, come può nascere capitale? Dico “in ultima
istanza”, perché i prezzi medi non coincidono direttamente con le grandezze di
valore delle merci, come credono A. Smith, il Ricardo, ecc.» (Capitale, I: 199)
Hic Rhodus, hic salta!

174
Naturalmente, la possibilità di un pluslavoro esiste fin dall’inizio,
una volta che la forza produttiva del lavoro abbia raggiunto un
certo livello. Comunque, la questione fondamentale per Marx è
che, poiché il carattere specifico della merce forza-lavoro è quello
di essere inestricabilmente legata ai corpi dei lavoratori, essi possono
resistere alla costrizione del capitale al (plus)lavoro. Nel capitalismo
c’è «creazione» di valore solo in quanto c’è «creazione» di plusvalore,
ossia valorizzazione; la valorizzazione potenziale attesa dall’acquisto
della forza-lavoro sul mercato del lavoro si realizza solo in quanto
la classe capitalista vince la lotta di classe nella produzione e riesce
a far lavorare i lavoratori (e a condizione, naturalmente, che le
imprese siano poi anche in grado di vendere i loro prodotti come
merci, anche qui in conformità alle aspettative).
Sono convinto che stia qui la giustificazione ultima e adeguata
dell’identità marxiana tra valore e lavoro, via denaro, che ridefinirei,
sulla base del Marx del capitolo 5 del primo libro del Capitale, in
questo modo: il lavoro vivo è la sola sorgente del neo valore. A questo
punto, la «crisalide», il valore che si è impossessato del corpo del de-
naro come merce, si è tramutata in «farfalla»: non però come Sog-
getto che pone i propri presupposti in analogia all’Idea hegeliana
(secondo la lettura marxiana di Hegel), senza uscire dalla dimensio-
ne monetaria o del lavoro morto; ma come «fantasma» che si è tra-
mutato in «vampiro», che «succhia»18 lavoro vivo dai lavoratori che
sono stati «annessi» o «incorporati» nel mostro meccanico del capi-
tale, e che vengono «messi al lavoro», sicché di riflesso quel mostro
si mette a «lavorare» esso stesso «come se avesse amore in corpo».
Questa, a me pare, è la sola risposta forte alla critica di Böhm
Bawerk che ho ricordato nel paragrafo 2.3. Il valore non esibisce
in denaro nient’altro che lavoro «morto», «oggettualizzato», per-
ché il plusvalore – che è a ben vedere l’unica autentica ricchezza
per il capitale – dipende causalmente dalla «oggettualizzazione», o
«materiatura», del fluido del lavoro vivo dei lavoratori salariati,

18
Le traduzioni italiane rendono spesso questa espressione ringentilendola,
parlando p. es. di «assorbimento» del lavoro da parte del capitale.

175
estratto e prolungato oltre il limite del lavoro necessario nei processi
capitalistici di lavoro, intesi questi ultimi quale terreno di possibile
contestazione in cui i lavoratori sono sempre potenzialmente recalci-
tranti, e dove il capitale ha bisogno di assicurarsi il lavoro per ottenere
il pluslavoro. Nel capitalismo la «capacità di generare» surplus è
insomma una variabile endogena da ricondurre alla determinazione
di forma della produzione quale produzione di un plusvalore che
deve realizzarsi sul mercato.
Con certi metodi di produzione, e assunto che la concor-
renza sul mercato del lavoro determini un salario reale uniforme,
lo stesso «lavoro necessario» va considerato un dato. Su questo
sfondo, l’estrazione del plusvalore viene indagata, all’inizio, come
conseguente a un prolungamento della giornata lavorativa. Marx
definisce questo processo mirato all’ottenimento del plusvalore
come estrazione di «plusvalore assoluto». Quando la lunghezza
della giornata lavorativa viene limitata legalmente o attraverso il
conflitto sociale, il capitale può aumentare il proprio plusvalore at-
traverso una estrazione di «plusvalore relativo», cioè introducendo
innovazioni tecnologiche e/o accelerando il ritmo della produzione
(ovvero intensificando il lavoro rispetto alla norma. Il cambiamento
tecnico, che conduce ad un incremento della forza produttiva del
lavoro, diminuisce il valore unitario delle merci. Nel momento in
cui il cambiamento dell’organizzazione della produzione influenza
direttamente o indirettamente le condizioni della produzione dei
beni salario, il lavoro necessario decresce perché scendono i «prezzi
semplici» delle merci che compongono il salario reale di sussi-
stenza; ne consegue una riduzione del valore della forza-lavoro.
L’abbassamento del lavoro necessario fa spazio ad un maggiore
pluslavoro all’interno della giornata lavorativa e, quindi, consente
l’estrazione di un maggiore plusvalore. Il cambiamento delle tec-
niche di produzione che dà luogo all’incremento del plusvalore re-
lativo (che comprende l’aumento della forza produttiva del lavoro,
la quale spesso e volentieri si porta dietro una maggiore intensità
del lavoro) è una modalità di controllo dell’attività del lavoratore
molto più efficace rispetto al semplice controllo personale da cui

176
sgorga il plusvalore assoluto, o anche rispetto alla pura e semplice
accelerazione del ritmo della produzione su base tecnica data (se
sconnesso, cioè, dall’introduzione di innovazioni tecnologiche).
Nel capitalismo, dunque, progresso tecnico e più alta intensità di
lavoro vanno di norma di pari passo19.
Il modo di produzione specificamente capitalistico si sviluppa
attraverso gli stadi della «cooperazione», della «divisione manifat-
turiera del lavoro», del «macchinismo e della grande industria».
In quest’ultimo, il lavoro non è più sussunto solo «formalmente»
al capitale – con l’estrazione del plusvalore che si dà all’interno
di una struttura tecnica storicamente ereditata e immutata – ma
viene sussunto anche «realmente», in un sistema di produzione che
è stato «disegnato» sin dall’inizio capitalisticamente20. I lavoratori
diventano «appendici» dei mezzi di produzione, che a loro volta
fungono da strumenti di «assorbimento» della forza di lavoro in mo-
vimento, di «estrazione» del lavoro vivo. I lavoratori sono soltanto
dei «portatori» della sorgente da cui fluisce il fluido del lavoro vivo,
la sorgente del valore. È chiaro a questo punto che le proprietà e
le abilità concrete del lavoratore derivano da una struttura produt-
tiva continuamente rivoluzionata al fine anche di un più efficace
comando del lavoro vivo all’interno del processo di valorizzazione.
Adesso il lavoro, non solo «conta» come, ma è puramente
astratto, indifferente alla sua forma particolare (che è dettata dal ca-
pitale): e questo già nel momento della produzione, dove i capitalisti,
nella loro incessante ricerca di (extra) profitti, provano a «manipo-
lare» i lavoratori come se la loro attività fosse riducibile a oggetto
passivo21. Il processo attraverso il quale il lavoro è spogliato di tutte
le sue determinazioni qualitative, di tutte le sue «proprietà», e viene
ridotto a mera quantità, comprende sia la tendenza storicamente do-
minante alla dequalificazione e frantumazione che le fasi periodiche

19
Su questo punto insistono giustamente i lavori di Massimiliano Tomba.
20
La sussunzione reale del lavoro al capitale è il punto nodale degli scritti
di Patrick Murray, in particolare cfr. Murray (2004).
21
Si veda il paragrafo 3.3 per alcune osservazioni sulla concorrenza in Marx.

177
di parziale e momentanea ri-qualificazione e riunificazione. Il lavoro
astratto non può quindi essere identificato con il lavoro «degradato»
alla Braverman, e neppure con un lavoro «de-concretizzato»22.

3.2 Una nuova visione dello sfruttamento


È necessario un momento di riflessione per apprezzare ap-
pieno le caratteristiche peculiari di questa realtà sociale unica. Il
conseguimento del profitto lordo avviene grazie ad uno «sfrutta-
mento» dei lavoratori, e questo in un duplice senso. C’è senz’altro
sfruttamento per la divisione della giornata lavorativa sociale, nella
quale i lavoratori scambiano più lavoro vivo contro meno lavoro
necessario «oggettualizzato» nel salario. Questo è però il punto di
vista tradizionale, «distributivo», sullo sfruttamento. Corretto, ma
limitato. Esso prende in considerazione la spartizione della quantità
di lavoro «sociale»23 incorporata nel neo valore aggiunto in un dato
periodo. La sua misura «immanente» è il pluslavoro oltre il lavoro
necessario. Si tratta però soltanto dell’esito finale di un ben più si-
gnificativo «sfruttamento» dei lavoratori in altro senso. La ricchezza

22
Secondo Marx, il lavoratore individuale nel capitalismo, in quanto lavo-
ratore parziale, non eroga lavoro concreto. Ciò non vale però per il lavoratore
complessivo organizzato dai singoli capitali in concorrenza, il cui lavoro è tanto
concreto quanto astratto.
23
A proposito di lavoro «sociale», Marx distingue varie categorie. Innanzi-
tutto, il lavoro astratto, che è lavoro sociale solo «in potenza» (in quanto lavoro
immediatamente «privato», cioè «sociale» solo mediatamente, per il tramite dello
scambio sul mercato): si tratta di un lavoro già commensurabile prima della
circolazione finale, e che si «esprime» nel denaro come merce. Poi, il lavoro
«immediatamente sociale», ovvero il lavoro concreto che produce il denaro come
merce, e che passivamente «espone» quel lavoro astratto. A queste due si era già
accennato nel testo. Vi è poi il lavoro immediatamente socializzato:ad esempio,
il lavoro di una comunità di produttori associati, ma anche il lavoro all’interno
di una «fabbrica» capitalistica. Il lavoro «sociale» di cui si parla nel testo corri-
spondente a questa nota è invece il lavoro «comune» prestato nell’intera società: il
lavoro totale prestato dai lavoratori in un certo periodo, che è dunque sociale dal
punto di vista dell’intera classe capitalistica, ma che viene nondimeno speso nelle
singole imprese, quali produttori «separati» e «indipendenti», dunque comandato
dai capitalisti in concorrenza, secondo modalità immediatamente «private».

178
capitalistica proviene dall’uso della capacità lavorativa dei lavoratori:
tale uso inverte la natura del lavoro, che è reso astratto – «puro e
semplice» perché «eterodiretto» – già nella produzione immediata.
La misura quantitativa di questo secondo concetto «produttivo» di
sfruttamento – un concetto che si riferisce alla formazione, piuttosto
che alla spartizione, di tutto il neo valore aggiunto – non può che
essere l’intera giornata lavorativa sociale, esito della «lotta di classe
nella produzione». Da questa seconda prospettiva, lo sfruttamento
si identifica con l’astrazione/estrazione del lavoro vivo – cioè con
tutto il lavoro estratto dai lavoratori.
Marx mostra nel primo libro del Capitale, e ancora di più
nel Capitolo sesto inedito, che il lavoro astratto riflette una vera e
propria «inversione di soggetto e oggetto». Più precisamente, una
«ipostasi reale», che si approfondisce nel suo percorso teorico ed
espositivo: che muove dal mercato finale delle merci, che torna
indietro al mercato del lavoro, e che prosegue in avanti al pro-
cesso di produzione immediato. Nello scambio sul mercato finale
delle merci, il lavoro «oggettualizzato» è qualificato come «astratto»
perché, quando si esprime ed espone come valore nel denaro, il
prodotto dell’attività lavorativa umana in quanto merce si presenta
come una realtà indipendente ed estraniata, separata dalla propria
origine nel lavoro vivo. La conseguente «alienazione» degli indivi-
dui è l’altra faccia della «reificazione» e del «feticismo», inevitabili
conseguenze del «carattere di feticcio» tipico dello scambio generale
e monetario. Reificazione: perché i rapporti di produzione tra le
persone prendono necessariamente la forma di uno scambio tra
cose in un’economia di mercato (capitalistica). Feticismo: perché i
prodotti del lavoro sembrano provvisti di proprietà sociali come se
queste ultime fossero donate loro dalla natura.
Queste caratteristiche ricompaiono in tutta evidenza anche
nelle altre due fasi del circuito capitalistico. Sul mercato del lavoro,
gli esseri umani altro non sono che «personificazioni» della merce
che vendono, la forza-lavoro, che è lavoro in «potenza». Nella pro-
duzione immediata, il lavoro «in divenire» è organizzato e foggiato
dal capitale, in quanto «valore in processo», e viene incluso in una

179
organizzazione materiale determinata, che è progettata per imporre
l’estrazione del plusvalore. Per accumularsi, il lavoro morto deve
«incorporare» il lavoro vivo. Il lavoro morto «che succhia» il lavoro
vivo nel processo di astrazione è, in effetti, il vero Soggetto, per il
quale i singoli lavoratori concreti valgono come meri predicati. Si
è anticipato che in questo modo di vedere le cose il capitale, in
quanto valore autovalorizzantesi, rischia di ridursi alla Idea Assoluta
di Hegel, che cerca di rendersi attuale e di riprodurre le proprie
condizioni di esistenza, come totalità «chiusa», nel circolo continuo
del presupposto posto. Se non fosse per la circostanza cruciale, e di-
stintiva della critica marxiana dell’economia politica: che il capitale
si costituisce davvero come tale soltanto «annettendosi» i lavoratori,
facendoli divenire suo momento interno; e che però al tempo stes-
so, proprio in forza di ciò, è lui a dipendere dalla loro attività, dal
fluido del lavoro non-oggettualizzato, non-morto, vivo24.

3.3 La concorrenza «dinamica» nel primo libro


Prima di procedere, è necessario anche sottolineare il ruolo
cruciale svolto dalla concorrenza nella teoria di Marx. La concor-
renza è per lui una caratteristica essenziale della realtà capitalistica.
Ciò che tutti i capitali hanno in comune, la tendenza interna del
«capitale in generale», è la loro capacità sistematica di far aumen-
tare il denaro. Abbiamo visto che ciò avviene attraverso lo sfrutta-
mento della classe lavoratrice da parte del capitale. La natura del
capitale, comunque, si realizza soltanto attraverso l’interrelazione
dei molti capitali in opposizione l’uno all’altro. Questo era già
chiaro nella definizione fondamentale del lavoro astratto e del
valore. Il «lavoro socialmente necessario» si determina attraverso
la socializzazione ex post, nello scambio tra produttori (capitalisti)
di merci, separati l’uno dall’altro. La determinazione dei «valori
sociali», in quanto regolatori della produzione che guidano ad una

24
Su questo Chris Arthur (1993, 1999) segue da tempo una linea di indagine
parallela, e che conduce alle medesime conclusioni.

180
qualche allocazione d’«equilibrio» del lavoro sociale – la «legge
del valore» –, si afferma al livello dei capitali individuali soltanto
attraverso la mediazione dell’interazione reciproca sul mercato.
Il concetto marxiano di concorrenza è originale rispetto a
quello dei Classici, perché di due tipi. Il concetto ricardiano di
concorrenza, che è presente anche in Marx, è ciò che può essere
definito concorrenza inter-settoriale (o «statica»). Esso esprime
la tendenza alla perequazione del saggio del profitto tra i set-
tori. Questo tipo di concorrenza sarà il centro dell’analisi nel
terzo libro, specialmente nella seconda sezione. Ma in Marx,
già nel primo libro (quarta sezione, decimo capitolo), c’è anche
una concorrenza infra-settoriale (o «dinamica»). Questa parte
dell’eredità marxiana è stata una fonte di ispirazione fondamen-
tale per Schumpeter25. La lotta per assicurarsi, anche se solo
temporaneamente, un plusvalore extra esprime una tendenza a
diversificare il saggio del profitto all’interno di un dato settore.
All’interno di un dato settore, c’è una stratificazione delle
condizioni di produzione e le imprese possono essere classificate
in relazione alla loro produttività: alta, media o bassa. Il valore
sociale di un’unità di prodotto tende verso il valore individuale
delle imprese che producono la massa dominante delle merci
vendute in quel settore (questo, naturalmente, implica che uno
spostamento sufficientemente forte della domanda possa interes-
sare indirettamente il valore sociale). Quelle imprese, il cui valore
individuale è più basso (più alto) del valore sociale, ottengono un
plusvalore che è più alto (più basso) del normale. C’è quindi, per
i singoli capitali, un continuo incentivo all’innovazione, alla ricerca
di un plusvalore extra, qualunque sia l’industria coinvolta. Questo
determina un micro-meccanismo che tende alla produzione siste-
matica del plusvalore relativo, indipendentemente dalle motivazioni
coscienti dei capitalisti individuali. I nuovi e più avanzati metodi

25
Henryk Grossmann (1941) ha il merito di avere sottolineato questo
punto, recentemente ripreso da Tony Smith in molti dei suoi scritti. Cfr. anche
Bellofiore (1985a, 1985b).

181
di produzione che incrementano la produttività del lavoro sono
incorporati nei processi lavorativi più meccanizzati. In questo modo
la «composizione tecnica del capitale», ovvero il numero dei mezzi
di produzione in relazione al numero dei lavoratori impiegati, sale.
Questo è rappresentato da una crescita nel rapporto tra capitale co-
stante e capitale variabile, entrambi misurati ai loro valori correnti
prima dell’innovazione, che Marx chiama «composizione organica
del capitale». Ma la «svalutazione» (la riduzione del valore unitario)
delle merci, derivante dall’innovazione, si diffonde anche al settore
dei beni capitale e potrebbe determinare una caduta della «compo-
sizione di valore del capitale», cioè del valore della composizione del
capitale misurata ai valori predominanti in seguito al cambiamento.

3.4 Verso una teoria del denaro non-merce: il finanziamento come


una ante-validazione monetaria del lavoro astratto
A questo punto è possibile comprendere come dietro l’anarchi-
ca «divisione sociale del lavoro», che si svolge tra produttore privati
separati ed autonomi, che si connettono per il tramite del mercato,
per così dire a posteriori, opera una «divisione tecnica del lavoro»,
che si svolge invece all’interno della produzione. Quest’ultima è
soggetta all’impulso della valorizzazione: qui, un piano dispotico
a priori delle imprese capitalistiche conduce ad un eguagliamento
tecnologico e organizzativo e ad una precommisurazione sociale della
spesa di forza-lavoro, che anticipa provvisoriamente la validazione
finale sul mercato delle merci26. Questo processo impone al lavoro
– già entro la produzione diretta, e dunque prima dello scambio «fi-
nale» – le proprietà quantitative e qualitative di essere lavoro astrat-

26
La questione relativa alla «precommisurazione» che era già stata intuita
da Napoleoni (1973), è al centro di Reuten-Williams (1989), specialmente nel
primo capitolo. Nei capitoli 2 e 5, i due autori introducono una nozione di
«pre-validazione» che corrisponde, grosso modo, alla mia «ante-validazione». Le
mie fonti di ispirazione primarie sono qui comunque autori come Suzanne de
Brunhoff (dalla quale il termine è preso in prestito) e Augusto Graziani (per il
suo concetto di «finanziamento iniziale»).

182
to che deve essere erogato nella quantità socialmente necessaria. In
una teoria monetaria in cui il denaro non è merce – dove l’idea
che i valori non siano altro che «materiatura» di lavoro (contenuto
nel denaro come misura del valore) non regge più – la dicotomia
problematica tra l’eterogeneità dei lavori concreti nella produzione
e l’omogeneità del lavoro astratto che si compie in modo finale nella
circolazione, attraverso la «attualizzazione» dei valori nel denaro,
può essere superata. Infatti, il finanziamento bancario alle imprese
non è nient’altro che una ante-validazione monetaria che permette
ai capitalisti industriali di dar luogo ad una precommisurazione del
lavoro nella produzione: cosicché, ancora di più che nell’approccio
originale di Marx, il processo capitalistico deve essere visto come
«denaro in movimento», un processo monetario sequenziale che
nasconde dietro di sé il «lavoro in movimento». Il circuito mone-
tario capitalistico e l’astrazione del lavoro non sono che due facce
di una stessa medaglia.
Una volta che il capitalismo ha raggiunto la propria piena
maturità nell’industria su larga scala e nel sistema di macchine, la
soggezione del lavoro vivo dei lavoratori salariati al capitale e la con-
seguente astrazione preliminare del lavoro nella produzione devono
essere viste come il vero fondamento essenziale dell’astrazione del la-
voro che ha poi luogo nello scambio finale sul mercato delle merci. Tale
astrazione del lavoro che si verifica nella produzione non potrebbe
aver avuto luogo senza un precedente anticipo di denaro come capitale
monetario, sulla base di un incontro delle aspettative di banchieri
e imprenditori in relazione all’esito atteso della produzione non
in quanto generico processo lavorativo, ma in quanto momento
centrale della valorizzazione capitalistica.
Il valore e il plusvalore hanno dunque una pre-esistenza
«ideale», prima della circolazione «reale». Come in Marx, questi
valori attesi hanno già una determinata dimensione quantitativa
in termini monetari e di tempo di lavoro. Ma la loro condizione di
possibilità è adesso esplicitamente il finanziamento bancario della
produzione in quanto ante-validazione monetaria del processo di
lavoro capitalistico come processo di valorizzazione. La precondi-

183
zione monetaria della produzione capitalistica di merci è l’anticipo
di denaro (non-merce) nella forma di capitale monetario, necessaria
perché possa essere attivata la produzione. La natura monetaria
della teoria marxiana non può che uscire rinforzata, e non indebo-
lita, da questa prospettiva ricostruttiva, che lungi dal danneggiare
dà un più solido fondamento alla teoria del valore-lavoro intesa
in primo luogo come teoria dell’origine del plusvalore, cioè come
teoria dello sfruttamento.

4. Il denaro non-merce e il valore della forza-lavoro


4.1 La valorizzazione capitalistica come sequenza monetaria
C’è però un altro problema che si determina con l’abbandono
della teoria marxiana del denaro come merce, ed è il seguente: se
si assume che il denaro sia merce, come avviene nel primo libro
del Capitale, ne consegue che: (i) il potere d’acquisto del denaro (che
in seguito per brevità definiremo «valore del denaro», sebbene il
termine sia ambiguo) può essere preso come un dato prima del
processo di produzione; (ii) il capitale variabile, in quanto grandez-
za monetaria, può essere convertito in una grandezza in tempo di
lavoro prima dell’inizio della produzione; (iii) inoltre, assumendo
che non si verifichino problemi di realizzazione del prodotto-merce,
quest’ultimo può essere calcolato in termini di tempo di lavoro con-
tenuto prima dello scambio effettivo sul mercato finale delle merci.
Lo sfruttamento – sia come estensione della giornata lavorativa so-
ciale, oggettualizzata dal lavoro vivo, che come pluslavoro nascosto
dietro il plusvalore – è in questo ragionamento definito con grande
accuratezza. Una volta che lasciamo cadere l’idea del denaro-mer-
ce, potrebbe sembrare che tutto questo non sia più vero. A mio
parere, questa difficoltà può essere superata con un’analisi più ac-
curata del significato di «valore della forza-lavoro» nel primo libro.
Abbiamo visto che Marx adotta una duplice determinazione
di questa grandezza. Essa è, ad un tempo, (a) l’ammontare del
tempo di lavoro (concreto) speso per produrre il denaro come
merce (che ha un valore dato) e che, in quanto denaro, è anti-

184
cipato come capitale variabile, e (b) l’ammontare del tempo di
lavoro (astratto) materializzato nel paniere di sussistenza, che il
denaro non fa che «esporre». Detto altrimenti: il tempo di lavoro
concreto «contenuto» nella merce denaro è la forma fenomenica
(necessaria) del tempo di lavoro astratto contenuto nei beni salario.
Non c’è contrasto tra le due definizioni se ci atteniamo alla legge
del prezzo secondo la quale i prezzi relativi sono proporzionali al
lavoro (socialmente necessario) incorporato nelle merci. Le cose
cambiano se cambia la legge del prezzo. Nel primo libro, i salari
sono il dato conosciuto, ad un qualche livello della sussistenza,
che è fissato dalle determinanti «storiche e morali» e dal conflitto
sociale. Su questo sfondo, quando, nel terzo libro, si introducono
prezzi di produzione che divergono dai c.d. valori-lavoro, cioè dai
prezzi «semplici», allora il capitale variabile, che è una grandezza
espressa in termini monetari, deve essere ripensato nei termini dei
medesimi beni-salario di sussistenza assunti come dati, ma che
vanno ora valutati a prezzi di produzione. Se al contrario i salari
vengono assunti come «dati» quali grandezza monetaria che non
ha alcuna connessione con la sussistenza «storica e morale», allora il
passaggio ai nuovi prezzi non potrà che mutare l’ammontare dei
valori d’uso che i lavoratori possono acquistare, se si ipotizza che
il monte salari monetari al nuovo livello di astrazione (terzo libro)
debba essere considerato della medesima grandezza quantitativa
del precedente livello di astrazione (primo libro). Negli ultimi due
decenni è diventato di moda percorrere la seconda strada. È ciò che
fa anche Moseley. Nelle pagine seguenti, analizzerò il significato del
ciclo del capitale monetario come «formula generale del capitale»
nel Capitale e presenterò argomenti testuali che dimostrano che
Marx considerava il salario reale di sussistenza come «dato», il dato
conosciuto, nel primo libro.
Il primo punto è quello di fornire una migliore comprensio-
ne dell’argomento marxiano della valorizzazione capitalistica in
quanto produzione di (più) denaro a mezzo di denaro. Moseley
legge questo argomento come se il valore dovesse essere identifi-
cato solo con la forma di denaro (per di più identificata sempre e

185
comunque con la moneta), e dunque come se la forma di merce
non potesse essere essa stessa una forma di esistenza del valore
– quindi, come se i beni di produzione e i beni-salario in quanto
merci non fossero essi stessi modi di esistenza del valore. Marx
afferma esplicitamente l’opposto: «nella circolazione D-M-D’,
l’una e l’altra, merce e denaro, funzionano soltanto come differenti
modi di esistere del valore stesso: il denaro come modo di esistenza
generale, la merce come modo di esistenza particolare, per così
dire, solo in travestimento» (Capitale, I: 187). Il capitale quindi
non può essere ridotto al denaro come tale – ancora meno, na-
turalmente, alle merci come tali. Esso è in realtà il movimento del
passaggio di queste forme l’una nell’altra per produrre più ricchezza
astratta, plusvalore da reinvestire e far crescere in una spirale:
Il valore trapassa costantemente da una forma all’altra, senza
perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un sogget-
to automatico. Se si isolano le forme fenomeniche particolari
assunte alternativamente nel ciclo della sua vita dal valore va-
lorizzantesi, si hanno le dichiarazioni: capitale è denaro, capitale
è merce. Ma di fatto qui il valore diventa soggetto di un processo
nel quale esso, nell’assumere forma di denaro e forma di merce
passando continuamente dall’una all’altra, altera anche la propria
grandezza, e, in qualità di plusvalore, si stacca da se stesso in
qualità di valore iniziale; valorizza se stesso […] Come soggetto
prepotente di tale processo, nel quale ora assume ora dismette
la forma di denaro e la forma di merce, ma in questo variare
si conserva e si espande, il valore ha bisogno prima di tutto di
una forma autonoma, per mezzo della quale venga constatata
la sua identità con se stesso. E possiede questa forma solo nel
denaro. Quindi il denaro costituisce il punto di partenza e il
punto conclusivo d’ogni processo di valorizzazione. Era cento
sterline, ora è centodieci sterline, e così via. Ma qui il denaro,
per sé preso, conta solo come una forma del valore, poiché esso
ha due forme […] Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto
possano aver aspetto miserabile o per quanto possano aver cattivo
odore, sono in fede e in verità denaro, sono giudei intimamente
circoncisi, e per di più mezzi taumaturgici per far del denaro più
denaro […] Il valore diventa dunque valore in processo, denaro
in processo, e come tale capitale (Capitale, I: 187-88).

186
Come è possibile pensare il processo di produzione come denaro
che produce denaro anche quando il capitale ha abbandonato la forma
esplicita di denaro e ha preso la forma travestita delle merci? La risposta
è la seguente. Nella analisi dell’origine del plusvalore, il capitale co-
stante, che acquista i mezzi di produzione, viene dapprima assunto a
valore zero da Marx; per quanto, in realtà, i beni di produzione agi-
scano quali portatori di lavoro morto che «succhia» il lavoro vivo dai
lavoratori. In questo modo, la metamorfosi dalla forma di denaro in
quella di merce è irrilevante per il capitale costante. Il capitale varia-
bile, a sua volta, non interviene nel processo lavorativo capitalistico,
né nella sua forma denaro né in quella di merce, perché i compratori
dei mezzi di sussistenza spendono il proprio salario monetario, che
fuoriesce dalla produzione come tale. Ciò che entra nel processo di
produzione sono i lavoratori in carne e ossa che il monte salari mo-
netario è in grado di comprare, e ciò che conta qui è l’estrazione del
lavoro vivo. Il valore delle merci che essi producono è determinato
dalla quantità di lavoro in esse contenuto, dal tempo di lavoro social-
mente necessario per produrre i valori d’uso. Questo valore è calcolato
prima dello scambio effettivo come grandezza monetaria attraverso
il suo prezzo atteso, che esprime direttamente – come lavoro sociale
medio, come lavoro immediatamente sociale – il lavoro indirettamente
sociale contenuto nelle merci. Abbiamo così l’«oggettualizzazione»
del lavoro vivo espressa in una quantità monetaria prima dello
scambio finale sul mercato delle merci. Avendo la merce denaro un
potere d’acquisto dato, questa quantità nominale esprime soltanto
ciò che il lavoro nelle sue dinamiche «fluide» ha «congelato» nelle merci
prodotte: qualcosa che potrebbe essere ridotto «idealmente» ad una
certa quantità di tempo di lavoro prima che la circolazione effettiva
abbia luogo. Per la stessa ragione i salari monetari dei lavoratori
sono conosciuti in quanto espressione di una data quantità di tempo
di lavoro, sia perché per Marx (come già sappiamo) il denaro è una
merce, sia perché (come mostrerò) per lui il livello dei salari è deter-
minato dal lavoro necessario a produrre il paniere reale di sussistenza.
È chiaro allora che il capitale in qualsiasi delle sue forme è denaro
«in fede e in verità». È tale perché, in qualsiasi delle sue forme, è «ric-

187
chezza astratta» che produce più «ricchezza astratta». La ricchezza
astratta deve necessariamente prendere la forma del denaro: ma que-
st’ultima non è nient’altro che l’espressione esterna del lavoro astratto
che rimane latente nella forma di esistenza «reale» delle merci create
dal lavoro vivo, e che lotta per «venire all’esistenza» come denaro
reale nella circolazione (ancora un tema rubiniano27). Il capitale
non è né denaro né merci, è una sostanza automoventesi per la quale il
denaro e le merci sono semplici forme. Questa sostanza automoventesi
è il valore che crea più valore. In ultima istanza il valore non esibisce
che una quantità di lavoro sociale «oggettualizzato». Il denaro nella
circolazione «espone» questo valore, che però è già dato prima dello
scambio finale come grandezza «latente» nelle merci.
La «formula generale del capitale», a differenza della lettura di
Moseley, non mostra alcuna ragione perché si privilegi la spiegazione
dei valori a partire dalla forma di denaro del capitale, piuttosto che
da quella di merce come «travestimento» del denaro in movimento.
Tanto più che nel primo libro del Capitale il cambiamento di forma
non implica alcun cambiamento nella grandezza dei valori. Le due
dimensioni, presupposto l’assunto sui prezzi relativi come prezzi
«semplici», si rispecchiano l’una nell’altra senza tensioni. Marx sta
costruendo un oggetto teorico di conoscenza, che ha senza alcun
dubbio una dimensione quantitativa, ma tale dimensione quan-
titativa non è ancora pienamente specificata nel suo ammontare.

4.2 Marx sul valore della forza-lavoro


Per risolvere il problema della determinazione del salario dob-
biamo analizzare le affermazioni esplicite di Marx relative al valore
della forza-lavoro. Marx è cristallino, nel primo libro, nell’affermare
che il salario di sussistenza è un «dato»: inoltre non lascia mai pen-
sare che prendendo come presupposto il salario monetario, come
pure fa, si contraddica il salario reale preso come dato conosciuto.
Sebbene, a differenza delle altre merci, il valore della forza-lavoro

27
Cfr. Rubin (1928), in tutto il libro ma soprattutto nel Capitolo 13.

188
incorpori un elemento storico e morale, Marx scrive, senza alcuna
ambiguità, che «per un determinato paese in un determinato pe-
riodo, il volume medio dei mezzi di sussistenza necessari, è dato»
(Capitale, I: 204). Nella pagina precedente Marx precisava che «la
produzione della forza-lavoro consiste nella riproduzione, ossia
nella sua conservazione. Per la propria conservazione l’individuo
vivente ha bisogno di una certa somma di mezzi di sussistenza.
Dunque il tempo di lavoro necessario per la produzione della
forza-lavoro si risolve nel tempo di lavoro necessario per la
produzione di quei mezzi di sussistenza», e in questo senso «il va-
lore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per
la conservazione del possessore della forza-lavoro» (Capitale, I: 203).
La questione torna ancora a p. 265: il valore della forza-lavoro
«come quello di ogni altra merce, è determinato dal tempo di lavoro
necessario per la sua produzione. se dunque la produzione dei mezzi
di sostentamento quotidiani medi dell’operaio esige sei ore, questi
deve lavorare in media sei ore al giorno per produrre quotidiana-
mente la propria forza-lavoro, ossia per riprodurre il valore che ha
ottenuto vendendola». È chiaro che qui il salario monetario deve
dunque «riflettere» le merci che rientrano nella sussistenza valutate ai
loro prezzi «semplici», ai c.d. valori-lavoro. Ancora a p. 567: «Il valore
della forza-lavoro è determinato dal valore dei mezzi di sussistenza
che per consuetudine sono necessari all’operaio medio. In un’epoca
determinata di una società determinata, la massa di questi mezzi
di sussistenza è data benché la sua forma possa variare, e va quindi
trattata come grandezza costante. Quello che varia è il valore di
questa massa. A p. 571: «Il valore della forza-lavoro è determinato dal
valore di una determinata quantità di mezzi di sussistenza. Quello
che varia con il variare della forza produttiva del lavoro, è il valore
di questi mezzi di sussistenza, non la loro massa». In breve: ciò che è
dato è il salario di sussistenza, una grandezza reale, il cui valore può
certo cambiare, ma in seguito ad un cambiamento della quantità di
lavoro necessario alla sua produzione. Il suo valore, a me pare, può
cambiare anche in seguito al cambiamento della legge del prezzo e,
quindi, della «esibizione» nel denaro del lavoro contenuto nelle mer-

189
ci, che fa sì che si debba valutare il paniere del consumo di sussistenza
ai prezzi correnti, che deviano di norma dai prezzi «semplici».
Marx sa molto bene che i capitalisti devono anticipare i
salari in forma monetaria prima che il processo di produzione
inizi, sebbene in realtà il denaro funzioni qui come mezzo di
pagamento e non come mezzo di acquisto, in quanto i salari
sono pagati ai lavoratori soltanto dopo che il lavoro è stato svolto
Il prezzo della forza-lavoro è stabilito per contratto benché venga
realizzato solo in un secondo tempo, come il canone d’affitto di una
casa. La forza-lavoro è venduta benché venga pagata soltanto in un
secondo tempo. Tuttavia, per una comprensione del rapporto nella
sua forma pura, è utile presupporre per un momento che il possessore
della forza-lavoro ne riceva subito il prezzo stabilito per contratto,
ogni volta che la vende (Capitale, I: 208, traduz. modificata).

Egli sa bene anche che, nella pratica, i capitalisti provano co-


stantemente ad abbassare il prezzo della forza-lavoro al di sotto del
valore della forza-lavoro. Così, la quantità dei beni salario ricevuti
dai lavoratori potrebbe scendere al di sotto del livello di sussistenza
determinato. Nonostante ciò, egli vuole analizzare la nascita del plu-
svalore nella sua «purezza», e quindi assume che non ci sia, per così
dire, inganno nei confronti dei lavoratori, e che essi ottengano ciò a
cui hanno diritto secondo la «legalità» del mondo delle merci. In ef-
fetti, nel capitolo della terza sezione «La giornata lavorativa», come nei
capitoli sulla «Cooperazione», «Divisione del lavoro e manifattura» e
«Macchinismo e grande industria» della quarta sezione, Marx mostra
come le lotte della classe lavoratrice ripetutamente impongano – «dal
basso», per così dire, e in contrapposizione all’interesse dei capitalisti
individuali – il paniere di sussistenza necessario alla riproduzione dei
salariati. Inoltre, questo salario di sussistenza è preso da Marx come
il salario (minimo) reale corrente, e le lotte dei lavoratori potrebbero
riuscire ad innalzarlo28. Questa prospettiva «convenzionalista» e «con-

28
Per gli sviluppi di questa idea del salario e della distribuzione all’interno
della tradizione della teoria del circuito monetario, cfr. Bellofiore e Realfonzo
(1997) e Bellofiore et al. (2000).

190
flittualista» del salario di sussistenza giustifica l’ipotesi, che è presente
nel Capitale, secondo la quale l’ammontare del monte salari in termi-
ni monetari non è mai minore di quanto è necessario per acquistare il
salario reale di sussistenza.

4.3 Una prospettiva luxemburghiana sul valore della forza-lavoro


Rosa Luxemburg, nel capitolo sul salario nella sua Introduzione
all’economia politica, è stata probabilmente la più lucida interprete
di questo punto della teoria di Marx29. Per comprendere la posi-
zione marxiana in tutta la sua forza analitica, il punto di partenza
è la differenza qualitativa, la differentia specifica, del lavoro salariato
rispetto al lavoro feudale; è necessario mostrare come tale differenza
qualitativa getti nuova luce sulle conseguenze della sussunzione reale
del lavoro al capitale e sulla connessa estrazione del plusvalore relati-
vo. Luxemburg sottolinea che nel feudalesimo ciò che è dato non è
l’ammontare del prodotto che va ai servi della gleba, ma quello che va
ai proprietari terrieri, così almeno in teoria la quota distributiva dei
produttori diretti può crescere assieme al loro «sforzo» lavorativo. Nel
capitalismo, al contrario, è data la sussistenza reale, e la quota che va ai
lavoratori salariati è determinata principalmente e «automaticamen-
te» dall’incessante progresso tecnico. La crescita conseguente della
«forza produttiva» del lavoro abbassa di conseguenza il valore dei beni
salario, il «lavoro necessario», e perciò anche la posizione relativa della
classe lavoratrice rispetto alla classe capitalista per quel che riguarda la
distribuzione del neovalore. Per Luxemburg si può avere una crescita
del salario reale simultaneamente ad una crescita della forza produt-
tiva del lavoro, ma la prima tende inevitabilmente a restare indietro
rispetto alla seconda. Ne risulta una caduta del salario «relativo», e
perciò della quota di lavoro vivo che torna ai lavoratori. È questa, per
Luxemburg, una vera e propria «legge» distributiva nel capitalismo.

29
Cfr Luxemburg (1925). Spero si rimedi presto all’assenza di una tra-
duzione inglese completa del libro. Rosdolsky (1968) nella sua appendice al
capitolo XX, sulla teoria marxiana del salario, fornisce alcuni estratti del libro
della Luxemburg.

191
Una comprensione piena della interpretazione della analisi
del salario di Marx condotta da Luxemburg non può che essere
incentrata sul contrasto tipico nel capitalismo tra il livello di
sussistenza dei lavoratori, grandezza costante e predeterminata, e
la incessante tendenza del capitale ad incrementare il plusvalore,
e quindi il pluslavoro, nella massima misura possibile. Per citare
ancora Marx:
La giornata lavorativa non è una grandezza costante, ma una
grandezza variabile. Certo, una delle sue parti è determinata
dal tempo di lavoro richiesto per la continua riproduzione
dell’operaio, ma la sua grandezza complessiva cambia con la
lunghezza o durata del pluslavoro. La giornata lavorativa è
dunque determinabile, ma presa in sé e per sé è indeterminata.
(Capitale, I: 266).

Quando le lotte dei lavoratori riescono a imporre limiti legali


alla estensione della giornata lavorativa, bloccando il mero pro-
lungamento della quantità totale delle ore lavorate, l’offensiva del
capitale prende la duplice forma o di un incremento della grandezza
«intensiva» della giornata lavorativa (attraverso una più alta inten-
sità del lavoro) o di un aumento della forza produttiva del lavoro
che anch’essa fa del pluslavoro un’entità variabile (qualcosa che si
produce attraverso la concorrenza dinamica interna alle branche
della produzione, e che conduce ad un progressivo abbassamento
del valore «sociale» in tutte le industrie, e perciò anche ad un ab-
bassamento del valore della forza-lavoro).
È importante comprendere come questa caduta tendenziale
del salario relativo, che non è che l’altra faccia dell’estrazione del
plusvalore relativo, è una caratteristica essenziale per comprendere
il ragionamento di Marx sulla dinamica della distribuzione del red-
dito nel modo di produzione capitalistico. Questa interpretazione
ci permette innanzi tutto di rifiutare l’idea diffusa che la teoria del
valore-lavoro, in quanto teoria dello sfruttamento, implichi che nel
capitalismo vi sia un peggioramento della condizione dei lavoratori
dal punto di vista del valore d’uso. Questo è chiaramente insoste-
nibile dal punto di vista di Luxemburg (e Marx) perché il salario

192
relativo può ridursi mentre al contempo sta aumentando il salario
reale. Anche ammettendo una caduta del salario monetario
a forza produttiva del lavoro in aumento, il prezzo della forza-
lavoro potrebbe essere in costante caduta, mentre la massa dei
mezzi di sussistenza dell’operaio potrebbe contemporaneamente
e costantemente aumentare: però relativamente, cioè a paragone
del plusvalore, il valore della forza-lavoro scenderebbe costan-
temente e così si allargherebbe l’abisso fra le condizioni di vita
dell’operaio e quelle del capitalista (Capitale, I: 571).

Se e quando questo impoverimento relativo viene contrastato,


ciò non è altro che il risultato delle lotte della classe lavoratrice, non
una tendenza automatica ed interna alla meccanica capitalistica.
Questo modo di leggere il salario in Marx ci consente anche di
intendere come Marx metta in relazione, non solo l’estrazione e la
distribuzione del plusvalore, ma anche l’accumulazione capitalistica
e la distribuzione del reddito: «la grandezza dell’accumulazione è la
variabile indipendente, la grandezza del salario quella dipendente,
non viceversa» (Capitale, I: 679). La verità che si cela dietro questa
proposizione è duplice. In primo luogo, sebbene in ogni periodo il
salario reale sia da prendersi come dato, l’accumulazione capitalisti-
ca è costituita da un movimento dinamico ed evolutivo che, da un
lato, spinge in basso il salario relativo e, dall’altro, può tollerare, nel
tempo, un incremento nel salario reale prodotto dal conflitto sociale:
la crescita del salario reale può essere del tutto compatibile con una
più alta redditività del capitale e con una ulteriore accumulazione.
In secondo luogo, l’accumulazione capitalistica – in quanto implica
un cambiamento qualitativo dei metodi di produzione, e non si
limita semplicemente alla crescita quantitativa estensiva – agisce
su due lati: sulla domanda e sull’offerta di lavoro. L’accumulazione
capitalistica incrementa la prima e nello stesso momento rende
ridondante parte della seconda, creando un esercito industriale di
riserva, così da inibire la pressione sui salari.
Si deve notare, in ogni caso, che questa dipendenza «asso-
luta» dei lavoratori dalla classe capitalista può essere, in alcune
circostanze storiche, capovolta. La determinazione dell’offerta

193
dalla domanda – la «legge della popolazione» specificamente ca-
pitalistica – può essere ribaltata quando la «contro-produttività»
potenziale dei lavoratori diviene attuale: cioè quando le loro lotte
sono forti abbastanza da interrompere la tendenza all’abbassamen-
to del salario relativo, e da limitare il comando del capitale nel
processo lavorativo. Questo è ciò che è avvenuto durante gli anni
sessanta e settanta, secondo alcune versioni «produttiviste» della
teoria della crisi da compressione del profitto: mi riferisco qui alla
versione datane dal primo Aglietta piuttosto che a quella di Glyn-
Sutcliffe30. Questa prospettiva è abbastanza coerente con il Marx
che sto presentando. Il conflitto all’interno del processo lavorativo
capitalistico è il nucleo della valorizzazione ed è esattamente ciò a
cui si riferisce gran parte del primo libro del Capitale. La lunghezza
della giornata lavorativa sociale, l’intensità del lavoro, la capacità del
capitale di «sfruttare» l’incremento potenziale della forza produttiva
del lavoro: tutti questi aspetti sono «soggetti alla determinazione»
da parte della lotta di classe nella produzione, ma in sé e per sé
sono ancora «indeterminati», prima almeno della considerazione
delle dinamiche interne al processo capitalistico di lavoro visto
come «terreno contestato». Per determinarli il capitale deve vincere
l’antagonismo dei lavoratori nel momento della produzione, ed è
questo infatti l’argomento principale del primo libro (qualitativa-
mente e quantitativamente).
Possiamo concluderne che l’insistenza di Moseley sul fatto che
nel primo libro i «valori» sono «dati», nel senso che sono il dato
conosciuto, non può neanch’essa essere accettata. Nella analisi di
Marx relativa all’estrazione del plusvalore (assoluto o relativo), l’am-
montare complessivo (estensivo o intensivo) del tempo di lavoro
oppure il valore delle merci che entrano nel paniere di sussistenza
deve essere considerato variabile. Il primo libro ha come oggetto
principale proprio la «formazione» del valore attraverso i processi
intrecciati della lotta di classe e della concorrenza dinamica. La

30
Cfr. Aglietta (1976) e Glyn e Sutcliffe (1972).

194
prospettiva di Moseley non cessa di essere alquanto problematica
se invece i «valori» vengono presi come «dati» in un senso più
debole, secondo il quale nel primo libro le quantità di lavoro
sarebbero le «variabili indipendenti», che possono variare, per così
dire, «dall’esterno» rispetto alle grandezze monetarie come «variabili
dipendenti». Si è già visto nel paragrafo precedente come la neces-
saria riformulazione della prospettiva «macro-monetaria» marxiana
comporta che il denaro come capitale monetario, cioè in quanto
finanziamento bancario alla produzione, entri nella stessa costitu-
zione dei valori prima che la produzione immediata abbia inizio,
sicché l’esistenza di una qualche «sostanza» di valore (socialmente
omogenea) dipende in realtà da questa ante-validazione monetaria.

4.4 Il potere d’acquisto del capitale monetario e il valore della for-


za-lavoro in una prospettiva in cui il denaro non è una merce
Traiamo alcune conseguenze dal ragionamento che precede,
in una ottica meno interpretativa e più volta alla ricostruzione.
Se il salario reale viene assunto come dato e costante, in quanto
salario di sussistenza, all’inizio del circuito capitalistico, allora il
valore del capitale monetario può essere preso come un dato in termini
di quantità di tempo di lavoro, anche nel caso in cui il denaro non
sia una merce. Il potere d’acquisto del capitale variabile monetario
nella fase di apertura del circuito monetario marxiano – quello che
possiamo definire «il valore del denaro come capitale monetario» –è
regolato dal tempo di lavoro contenuto nei mezzi di sussistenza.
Dato il salario reale medio giornaliero, il potere d’acquisto del capi-
tale variabile è espresso dal numero di lavoratori acquistati da quella
grandezza monetaria, e quest’ultima grandezza dipende dal paniere
di sussistenza. Dato il «grado di sfruttamento» atteso, la forza-lavoro
di questi lavoratori può essere idealmente «trasformata» in lavoro
vivo, e quindi nel neovalore prodotto nel periodo.
Devono qui essere messi in evidenza due punti. In primo
luogo, nella produzione immediata l’astrazione del lavoro è,
come Marx afferma chiaramente nei Lineamenti, «in divenire». È

195
un’astrazione che è «latente» nel lavoro «oggettualizzato» nelle merci
prodotte, in attesa di una validazione sul mercato finale delle merci.
Da questo punto di vista, tale astrazione è possibile soltanto grazie
al finanziamento bancario che ante-valida la produzione attesa di
valore e di plusvalore. È infatti solo questo processo monetario che
garantisce che i lavori concreti posseggano una qualità sociale omo-
genea, che la prestazione lavorativa sia anche erogazione di lavoro
astratto. Questo modo di vedere le cose ci obbliga evidentemente
ad abbandonare la teoria del denaro-merce. In secondo luogo, poi-
ché è soltanto nella circolazione finale che il lavoro astratto «viene ad
esistere», la validazione monetaria ex post ha luogo soltanto quando
la domanda effettiva fissa reddito e prezzi di mercato, indipenden-
temente dal fatto che questi ultimi gravitino o meno attorno ai
prezzi di produzione. Di conseguenza, in un impianto categoriale
dove il denaro non è merce, il potere d’acquisto del denaro speso
nella fase di chiusura del circuito monetario marxiano – quello che
possiamo chiamare il «valore del denaro come reddito» – è definito
soltanto nel momento dello scambio finale.
Ciò significa, naturalmente, che l’affermazione di Moseley, se-
condo la quale il «valore del denaro» deve essere assunto come dato
e costante, non può essere più accettata una volta che si abbandoni
l’idea marxiana originaria del denaro come merce. Questa non è una
critica; è soltanto una conseguenza logica di quanto sostenuto sin
qui. Significa che, per essere coerente, il ragionamento di Moseley
dovrebbe apertamente assumere la prospettiva del denaro-merce
quale parte integrante della teoria del valore-lavoro, altrimenti il
valore del denaro sarà fissato solo compiuta la fase finale del cir-
cuito. Dalla diversa prospettiva che qui sto proponendo, il valore
del denaro ex post, può essere preso come noto ex ante soltanto se
si assume che le aspettative di breve termine delle imprese relative alla
loro capacità di vendere il prodotto ai prezzi monetari «ideali» siano
confermate nel mercato delle merci ai prezzi monetari «reali». È ciò
che fa Marx nei tre libri del Capitale, con poche eccezioni.
Se si accetta questo filo di ragionamento, la sequenza di Marx
regge perfettamente all’interno della mia «ricostruzione»: i prezzi

196
monetari «ideali» rappresentano soltanto il lavoro astratto «conge-
lato» nelle merci – sono lavoro «oggettualizzato», la cui socialità
attesa dovrà trovare validazione finale nel denaro come equivalente
generale, come potere d’acquisto generale. La sequenza ha natura
monetaria in un senso più forte rispetto a quello della esposizione
originaria di Marx, perché adesso il lavoro vivo acquisisce la sua
qualità sociale solo per mezzo di una conferma monetaria ex ante,
per il tramite del finanziamento bancario, e non soltanto grazie alla
conferma ex post per il tramite del denaro come equivalente generale.

5. «Macro» e «micro» nel primo libro del Capitale e nel Capitolo


sesto inedito
Stando così le cose, è chiaro che due dei pilastri dell’argo-
mentazione di Moseley non possono essere accettati. Nei paragrafi
precedenti ho presentato una solida argomentazione testuale che
dimostra, senza ambiguità, che Marx nel primo libro del Capitale
assume il valore della forza-lavoro come «dato» in termini reali. Ho
poi chiarito che, anche se il valore del denaro è «dato» prima della
analisi della valorizzazione e della stima del prezzo, come giusta-
mente sottolinea Moseley, questo rimane vero solo se si mantiene
la originaria teoria marxiana del denaro-merce: un punto, questo,
che Moseley non ha ancora chiarito adeguatamente. Per mio con-
to, ritengo che la teoria del denaro-merce sia insufficiente in una
indagine del capitalismo come teoria monetaria della produzione:
essa può essere accettata soltanto come punto di partenza del tutto
provvisorio nella costruzione sistematica del Capitale, adeguato
soltanto quando il rapporto sociale capitale/lavoro e la produzio-
ne capitalistica di merci non sono ancora il centro della analisi, e
quest’ultima si limita ancora alla circolazione generalizzata di merci
la cui natura capitalistica va ancora fondata. Se però ci muoviamo
verso un approccio con moneta segno, allora il valore del denaro
nel senso marxiano viene ad essere determinato soltanto ex post,
quando la produzione di merci viene venduta effettivamente sul
mercato. Il valore del denaro può essere assunto come una variabile

197
nota ex ante, all’apertura del circuito monetario, soltanto sulla base
di assunzioni molto precise relative all’esito atteso della lotta di
classe nella produzione e della «attualizzazione» del plusvalore che
prima della circolazione finale è solo in potenza, ideale.
Dobbiamo adesso passare a considerare la posizione di Mose-
ley circa la supposta natura «macroeconomica» dell’argomentazione
marxiana nel primo libro. Come ho affermato nella introduzione,
condivido con Moseley l’idea che vada proposta una lettura «macro-
monetaria» della teoria marxiana del valore. Tuttavia, come già in
precedenza per quel che riguardava gli aspetti monetari della teoria
di Marx, sono in disaccordo con Moseley: in questo caso, ciò che ci
divide riguarda tanto l’evidenza testuale quanto il significato da dare
ad un approccio autenticamente «macroeconomico». Moseley deve
in effetti tenere conto del fatto che la natura «macro» del primo li-
bro, come deve scrivere ripetutamente, non è ovvia. La sua strategia
è allora quella d’interpretare la circostanza indiscutibile che Marx
analizza, molto spesso, il processo di valorizzazione al livello del ca-
pitale individuale, come se metodologicamente queste conclusioni
potessero essere estese senza problemi al capitale complessivo – cioè
come se il capitale individuale potesse essere inteso come un capi-
tale «rappresentativo» dell’aggregato. Ma questo è, naturalmente,
esattamente ciò che l’economia dominante intende per «macro»: in
altri termini, la dimensione macroeconomica come nient’altro che
la mera somma degli elementi microeconomici che la costituiscono.
Dal mio punto di vista, la dimensione macroeconomica è
qualcosa di più della mera aggregazione delle sue parti costituenti.
La fondazione «macroeconomica» e i suoi risultati non sono soltan-
to antecedenti, ma anche opposti alla logica microeconomica: in un
certo senso la «micro» distorce e capovolge la prospettiva «macro».
In questo modo di vedere le cose, la priorità e l’autonomia della
logica «macroeconomica» stanno a significare che l’analisi deve
prima scoprire le leggi di sopravvivenza e di crescita del sistema, e
solo in seguito mostrare come i comportamenti individuali inverino
o contraddicano quelle «leggi» di riproduzione. L’originalità della
posizione di Marx, se la traduciamo in un dizionario concettuale a

198
lui posteriore, non sta soltanto nella sua fondazione macro-sociale
della microeconomia, ma anche nella sua accurata indagine del
meccanismo micro-concorrenziale che realizza la tendenza sistemi-
ca: sta cioè nel suo procedere circolare, dalla «macro» alla «micro»,
e dalla «micro» alla «macro». Questi due movimenti non possono
non scomparire in una lettura come quella di Moseley, in questo
simile agli altri nuovi approcci alla teoria monetaria marxiana: dove
il capitale «totale» non è altro che la somma dei capitali individuali;
e dove a questo punto, in modo del tutto arbitrario, questa sup-
posta dimensione «macro» viene presa come un «dato» nell’analisi
del comportamento «micro» degli agenti. La questione non può
essere sviluppata in modo adeguato nello spazio che mi rimane. Ciò
che mi limiterò a fare sarà fornire alcuni chiarimenti preliminari
sul modo in cui Marx introduce la dimensione «macroeconomica»
nel primo libro. Questo modo di procedere è giustificato dalla
circostanza che non sono numerose, anche se sono trasparenti ed
esplicite, le citazioni che ci permettono di comprendere come e per-
ché la logica «macro» è, in alcuni casi, opposta e invertita rispetto
a quella «micro». È comunque significativo che questi passi discu-
tano proprio la determinazione del salario per la classe lavoratrice.
Nell’analisi della produzione del plusvalore assoluto, Marx
sviluppa esplicitamente la propria argomentazione in un modo «ma-
cro», e in questi luoghi sembra che il suo approccio possa essere in
effetti letto nei termini di una semplice aggregazione. Marx scrive: «Il
lavoro che viene messo in movimento, giorno per giorno, dal capitale
complessivo di una società può essere considerato un’unica giornata
lavorativa. Se, per esempio, il numero degli operai è di un milione
e la giornata lavorativa media di un operaio di dieci ore, la giornata
lavorativa sociale sarà di dieci milioni di ore» (Capitale, I: 345). In
questa direzione vanno in genere le citazioni di Moseley. Questa let-
tura può trovare conferma se guardiamo come è definito in seguito il
plusvalore prodotto da un dato capitale: esso è «uguale al plusvalore
fornito dal singolo operaio moltiplicato per il numero degli operai
occupati nello stesso tempo […] è chiaro che la giornata lavorativa
complessiva di un numero piuttosto considerevole di operai occupati

199
nello stesso tempo, divisa per il numero degli operai è in sé e per sé
una giornata di lavoro sociale medio (Capitale, I: 363-64). Sul fonda-
mento della divisione macrosociale tra la classe capitalista e classe la-
voratrice, assumendo che il processo lavorativo vada avanti senza in-
toppi secondo le attese, e escludendo dall’analisi tanto la concorrenza
dinamica quanto il cambiamento strutturale, Marx può costruire la
giornata di lavoro sociale come niente altro che la somma dei tempi
di lavoro socialmente necessari spesi nelle differenti branche della
produzione. Da questo punto di vista, l’analisi dell’estrazione del la-
voro vivo dai lavoratori individuali da parte dei capitalisti individuali
potrebbe essere senza problemi estesa al capitale totale (tenendo
però sempre a mente che ciò che viene addizionato sono quantità
di tempo di lavoro socialmente necessario, e che deve ancora essere
chiarito che cosa significhi con precisione questo «socialmente»).
Le cose però cambiano negli ultimi capitoli – e, come an-
ticipato, è significativo che questo accada proprio nello studio
degli aspetti monetari del processo capitalistico e della natura
nascosta del salario. Si veda, per esempio, la seguente citazione:
L’illusione generata dalla forma di denaro scompare subito, ap-
pena invece del singolo capitalista e del singolo operaio vengono
considerate la classe capitalista e la classe operaia. La classe
capitalista dà costantemente alla classe operaia, in forma
di denaro, assegni su una parte dei prodotti che questa ha
prodotto e che la classe capitalista si è appropriata. Gli
operai restituiscono anch’essi costantemente quegli assegni
alla classe capitalista sottraendole così la parte del proprio
prodotto che spetta loro. La forma di merce del prodotto
e la forma di denaro della merce travestono la transazione.
Dunque il capitale variabile è soltanto una forma storica feno-
menica particolare nella quale si presenta il fondo dei mezzi di
sussistenza ossia il fondo di lavoro del quale l’operaio abbisogna
per il proprio mantenimento e la propria riproduzione, e che egli
deve sempre produrre e riprodurre da sé in tutti i sistemi della
produzione sociale, (Capitale, I: 623, traduzione modificata).

Qui è ovvio che il capitale variabile, in quanto anticipo mo-


netario, nasconde l’essenziale processo di classe della distribuzione

200
del reddito, che può essere compreso soltanto una volta che il
salario reale – si badi: non del lavoratore individuale, ma della
intera classe lavoratrice – è preso come un dato. Come in altri modi
di produzione precapitalistici, «il fondo dei mezzi di sussistenza»
deve essere preso come un presupposto noto, come la «la parte
del proprio prodotto che spetta loro» – la differentia specifica
del capitalismo è centrata piuttosto sulle dinamiche della durata
(intensiva e/o estensiva) del tempo di lavoro e della forza produttiva
dei lavoratori. È chiaro inoltre che questa verità può essere afferrata
solo se, per parafrasare Marx «noi non contempliamo più il singolo
capitalista e il singolo operaio, ma la classe capitalista e la classe
operaia, non più il processo isolato di produzione della merce,
ma il processo di produzione capitalistico in pieno movimento e
in tutto il suo ambito sociale» (Capitale, I: 627). Poiché la logica
«macro» e quella «micro» sono opposte, e la seconda distorce la
prima, l’indagine non può che essere incardinata su metodo ben
diverso da quello inizialmente appropriato per la produzione di
merci: «invece del capitalista singolo e dell’operaio singolo tenia-
mo presente il complesso, la classe dei capitalisti e di fronte ad
essa la classe degli operai» (Capitale, I: 642). In questo modo, per
utilizzare una frase di Marx nella stessa pagina, «la cosa si presenta
in maniera del tutto differente» dalla prospettiva «micro». Infatti,
traducendo nel linguaggio contemporaneo, il percorso di Marx nel
primo libro è stato da (ciò che inizialmente appare come) un’analisi
del processo di produzione dalla prospettiva «micro» e «individuale»
alla costruzione teorica, da una prospettiva «macro-sociale», della
produzione e della riproduzione del plusvalore nel suo complesso, e
poi della costituzione e riproduzione dello stesso rapporto di classe.
Di fatto, abbiamo qui un esempio del metodo, che Marx riprende
da Hegel, del presupposto posto.
In effetti, una volta che si prenda in considerazione l’intera
struttura teorica del primo libro del Capitale, emerge chiaramente
che l’estrazione conflittuale del lavoro vivo nella produzione, in
quanto terreno contestato, piuttosto che essere un processo «mi-
cro», è un processo «macro», incluso in un più largo e complesso

201
rapporto sociale tra capitale e lavoro. Questa relazione sociale
fondamentale – la cui analisi è al centro del primo libro del Ca-
pitale – comprende la contrattazione sul cosiddetto «mercato del
lavoro», che a sua volta dipende dai rapporti infra-capitalistici tra
il capitale monetario e il capitale industriale. Il fondamento della
tesi, secondo la quale il reddito monetario non rappresenta nien-
t’altro che lavoro astratto, segue necessariamente dall’idea che la
classe capitalistica nel suo complesso può ottenere ricchezza astratta
soltanto se è in grado di controllare l’estrazione del lavoro vivo dalla
classe lavoratrice nel suo complesso. Una volta che questo punto sia
stato fermamente afferrato, si può allora comprendere che è questo
«macro» processo, di divisione di classe, che, attraverso la lotta di
classe, determina o una più alta intensità del lavoro, o un prolun-
gamento della giornata lavorativa sociale, o un incremento della
sua forza produttiva. Si noti comunque che quest’ultimo si ottiene
attraverso la costante ricerca di un extraprofitto – una concorrenza
non tra, ma entro le industrie, che tendono a differenziare i propri
saggi di profitto. Questa concorrenza dinamica opera qui come il
processo «micro» che definisce la configurazione produttiva e lo
stato delle tecniche, quindi come ciò che alla fine determina gli
stessi valori delle merci.
Ne discende che i «valori» non soltanto sono costituiti moneta-
riamente, attraverso l’ante-validazione del finanziamento bancario:
come si è sottolineato nel paragrafo precedente, essi sono anche
l’esito di un processo sociale, la concorrenza infrasettoriale che de-
finisce il tempo di lavoro socialmente necessario; possono dunque
essere presi come «dati» soltanto temporaneamente. Il conseguente
cambiamento strutturale non fa che realizzare la tendenza sistemica
che, per Marx, è implicita nel rapporto sociale tra capitale e la-
voro: ma quest’ultima non si realizzerebbe senza l’operare di questo
tipo di concorrenza. Il Capitale, allora, può essere letto come una
macro-fondazione dei micro-comportamenti, in una spirale: una
macro-fondazione costruita su di un concetto di concorrenza
profondamente diverso tanto da quello classico quanto da quello
neoclassico pur con tutte le loro differenze e controversie.

202
Questa integrazione reciproca della prospettiva macro-sociale
con il micro-meccanismo che la realizza è un’altra ragione per cui,
nel primo libro, le quantità di lavoro non possono essere prese
semplicemente come «date», e del perché il sistema «macro» non
può essere ridotto alla aggregazione dei «micro» processi di valoriz-
zazione. L’adozione di una prospettiva macro-sociale come opposta
a quella micro-individuale è chiarissima nella trattazione del salario
nel Capitolo sesto inedito. Analizzando l’origine del plusvalore al
livello «individuale», il teorico è costretto a guardare al salario sol-
tanto come ad una grandezza monetaria, la cui controparte dipende
dal prezzo delle merci e dalle scelte individuali di consumo dei
lavoratori. Quando invece il processo capitalistico è descritto nei
termini dell’intero sociale le cose cambiano drasticamente.
Il lavoratore «libero», scrive Marx, riceve il salario «in forma
di denaro, di valore di scambio, forma sociale astratta della ricchezza
[…] nient’altro che la forma argentata o dorata, cuprea o cartacea,
dei mezzi di sussistenza in cui esso deve costantemente risolversi»
(Capitolo sesto inedito: 66). È il lavoratore che converte il denaro
nei valori d’uso che desidera: e «come possessore di denaro, come
acquirente di merci, egli sta nei confronti dei venditori di merci
nello stesso rapporto che tutti gli altri acquirenti» (Capitolo sesto
inedito: 67). Questa è la prospettiva «micro».
Marx aveva però scritto, poche pagine prima, in un brano che
Moseley stesso cita, ma con tagli che ne fanno perdere la sostanza
del ragionamento: «se consideriamo l’intero capitale, cioè l’insieme
degli acquirenti di forza-lavoro, da un lato, e l’insieme dei venditori
di forza-lavoro, cioè l’insieme dei lavoratori, dall’altro» allora «l’in-
tera ricchezza oggettiva si contrappone [al lavoratore] come proprietà
del possessore di merci», le imprese capitaliste. «Che il capitalista n.
1 possieda denaro e comperi mezzi di produzione dal capitalista
n. 2, mentre il lavoratore, col denaro ricevuto dal capitalista n. 1,
compera mezzi di sussistenza dal capitalista n. 3, non cambia in
nulla il fatto che i capitalisti 1, 2, 3 sono tutti insieme proprietari
esclusivi del denaro, dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussi-
stenza» (Capitolo sesto inedito: 34). Così anche nell’atto iniziale della

203
circolazione, quando il capitale monetario sta di fronte ai lavoratori
come forza-lavoro sul mercato del lavoro, e quindi prima del reale
processo di produzione, «ciò che imprime ad essi [al denaro e alle
merci] come suggello un carattere di capitale non è né la natura di
denaro del primo, né la specifica natura, il valore d’uso materiale
delle seconde come mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, ma
il fatto che quel denaro e quelle merci, mezzi di sussistenza e mezzi
di produzione, si ergono di fronte alla forza-lavoro spogliata di
qualunque ricchezza materiale come potenze autonome impersonate
dai loro proprietari» (Capitolo sesto inedito: 34-35). E conclude:
Le merci figurano come acquirenti di persone. Il compratore di
forza-lavoro non è se non la personificazione di un lavoro og-
gettualizzato che presta ai lavoratori una parte di se stesso, sotto
forma di mezzi di sussistenza, per incorporare all’altra parte di
se stesso forza-lavoro viva, e, grazie a questa incorporazione,
conservarsi nella sua integrità e crescere al di sopra della sua
massa originaria. Non è il lavoratore che acquista mezzi di
sussistenza e mezzi di produzione; sono i mezzi di sussistenza
che acquistano il lavoratore per incorporarlo ai mezzi di
produzione (Capitolo sesto inedito: 35, traduzione modificata).

Marx non poteva essere più chiaro.

Al posto di una conclusione


Fred Moseley sottolinea, a ragione, gli aspetti «macro-moneta-
ri» della teoria di Marx. È vero che per Marx il valore e il denaro
sono inestricabilmente connessi. È vero anche che alcuni punti
dell’esposizione possono, oggi, essere compresi come «macroecono-
mici» nella loro struttura concettuale. Ma Moseley non sottolinea
in modo adeguato come la formulazione marxiana originaria della
teoria monetaria del valore-lavoro sia costruita sull’idea del denaro
come merce, che è a fondamento della affermazione secondo la
quale il valore del denaro è già «dato» all’inizio del ciclo del capitale
monetario, una tesi che si fonda inoltre sullo scambio in condizio-
ne di baratto tra merce e oro al punto di origine di quest’ultimo.
Inoltre Moseley non ha preso in considerazione, almeno fino ad

204
oggi, le varie citazioni, prive di ambiguità, dalle quali risulta con
chiarezza che la teoria del salario di Marx si basa sull’idea che il
salario reale di sussistenza debba essere preso come una grandezza
nota alla apertura del circuito. Più in generale, Moseley considera
le quantità aggregare di «denaro» (capitale costante e variabile più
plusvalore) come un semplice velo delle quantità di lavoro che esse
rappresentano; e interpreta la prospettiva «macro» come la mera
somma dei capitali e dei lavoratori individuali.
Ho cercato di presentare una ricostruzione alternativa di
Marx, dove la fondazione macro-monetaria della microeconomia è
ridefinita all’interno di una teoria in cui il denaro non è una merce.

Ho affermato che l’antevalidazione bancaria della valoriz-


zazione è un presupposto necessario per l’omogeneità sociale dei
vari lavori vivi spesi nei differenti processi lavorativi capitalistici.
Grazie a questo, ciascuno di essi è parte dello stesso lavoro astrat-
to (latente) prima della circolazione delle merci (che deve essere
definitivamente validato ex post attraverso l’equivalente generale).
Questo mi ha permesso di mantenere l’esplicita sequenza marxiana
che va dal valore espresso come denaro ideale al valore espresso
come denaro reale, dove il denaro è «forma fenomenica necessaria»
di nient’altro che quantità di tempo di lavoro. Abbiamo qui una
nuova prospettiva dello «sfruttamento» capitalistico che interessa
la giornata lavorativa nel suo complesso, una prospettiva che riesce,
meglio di quella di Marx, a fondare la tesi che il (neo) valore pro-
dotto è l’«oggettualizzazione» e la «materiatura» di nient’altro che
lavoro (vivo) estratto conflittualmente nella produzione immediata
all’interno dell’economia nel suo complesso. Inoltre ho mostrato
come questa prospettiva «macro» sia necessaria per comprendere
adeguatamente la teoria marxiana della determinazione del salario
e la dipendenza della distribuzione dalla accumulazione. Seguendo
questa linea di ragionamento, ho provato che il consumo reale di
tutti i lavoratori, deciso di fatto (sebbene inconsciamente) dalla
classe capitalista, sia rigorosamente marxiano, sebbene questo sem-
bri contraddire ciò che suggerisce la prospettiva «micro».

205
È interessante notare che, in questa diversa prospettiva, gli
aspetti «monetari» della teoria marxiana sono l’esempio più im-
portante di ciò che Schumpeter (1954: 276-78) definiva analisi
monetaria nella sua Storia dell’analisi economica: una analisi nella
quale il denaro e la moneta non sono aspetti secondari, bensì sono
introdotti nel momento fondativo della struttura analitica. Non
possono essere ridotti a velo dei prodotti in quanto merci, perché
hanno una vita ed una rilevanza loro proprie, e segnano tutte le ca-
ratteristiche essenziali del processo capitalistico, a partire dalla stessa
costituzione e determinazione quantitativa delle grandezze reali. È
interessante inoltre osservare come in Marx si trovi già quella idea
tipica di Keynes secondo la quale la logica «macro» non soltanto
precede, ma si oppone e in molti casi capovolge la logica «micro».
Ma come interpretare, allora, il fatto che nel Capitale sia-
no dati sia il monte salari monetario che la sussistenza reale? È
questo un segnale di una contraddizione implicita nel sistema
marxiano, che Marx stesso non aveva afferrato completamente?
Non credo; ed anche assumendo una tale linea argomentativa,
questa supposta contraddizione dovrebbe essere superata all’in-
terno della teoria macro-monetaria del valore così come è stata
da me delineata. Una volta che il primo libro del Capitale venga
interpretato e ricostruito lungo le linee di questo saggio, e una
volta che si sia tenuto conto del risultato della trasformazione dei
valori di scambio nei prezzi di produzione31, possiamo guardare
al processo capitalistico in un modo diverso da quello consue-
to. Il circuito del capitale monetario si «apre» e si «chiude» con
grandezze monetarie. La quantità di lavoro «esibita» dal capitale
costante e variabile (intesi come quantità di moneta date) deve
essere determinata applicando ai mezzi di produzione e ai mezzi
di sussistenza i prezzi di produzione. Nello stesso tempo, il valore
prodotto complessivamente nell’economia non è nient’altro che
lavoro «esibito» dal capitale costante più il lavoro vivo estratto
dalla classe capitalista da tutti i lavoratori, il neo valore, esibito nel

31
Cfr. Bellofiore (2002).

206
reddito monetario. Sottraendo da questa grandezza il lavoro rap-
presentato dal monte salari monetario, abbiamo il plusvalore come
una quantità di lavoro «esibito» nei profitti monetari lordi. Ma
nascosta dietro questa deduzione vi è la divisione reale del prodotto
complessivo, realizzata attraverso il comportamento inconscio che
porta la classe capitalista a fissare il salario reale dato per la classe
lavoratrice, il cui livello minimo è la «sussistenza». In altre parole,
dietro il lavoro «esibito» nei salari monetari e nei profitti monetari
lordi, ritroviamo la divisione del prodotto-merce complessivo che
deriva dalla lotta di classe nella produzione, e che corrisponde alla
divisione della giornata lavorativa sociale tra il «lavoro necessario»
congelato nei mezzi di sussistenza (il tempo di lavoro necessario
alla loro produzione) ed il «pluslavoro» residuale, una volta che il
lavoro necessario sia sottratto dal lavoro vivo prestato dai lavoratori.
L’apparenza – più precisamente, il monte salari monetario dato
e i profitti monetari lordi, un una volta «tradotti» nella quantità di
lavoro che tali grandezze sono in grado di «comandare» sul mercato
a seconda della regola dei prezzi adottata – maschera il processo
essenziale: la suddivisione «macro» e di classe del prodotto-merce
reale tra le classi. Il processo «essenziale» di sfruttamento così
concepito corrisponde con tutta evidenza a quello che leggiamo
nel primo libro del Capitale. Un processo essenziale che è colto
pienamente e senza approssimazioni dal ragionameno in «valori»,
cioè attenendosi strettamente alla assunzione marxiana relativa
alla «legge del prezzo» in quel volume: una assunzione necessaria
all’analisi della «formazione del capitale» nella sua purezza. Questo
processo essenziale, in quanto nucleo della valorizzazione capitalisti-
ca, non viene modificato dalle successive concretizzazioni, e rimane
il medesimo nel prosieguo della costruzione sistemica complessiva
tipica di Marx.

207
208
Tony Smith
La relazione capitale/consumatore nella produzione snella:
la continua rilevanza del secondo libro del Capitale

209
210
Molti teorici della società affermano che nei settori e nelle
regioni dominanti dell’economia contemporanea stia avvenendo
una transizione dal «fordismo» al sistema di produzione e distri-
buzione definito «produzione snella» [lean production]. Il presente
saggio indagherà l’importanza del secondo libro del Capitale alla
luce della presunta ascesa della produzione snella. Il primo obiet-
tivo è quello di schizzare brevemente un quadro della natura della
transizione in questione.

Dal fordismo alla produzione snella


Il termine «fordismo» si riferisce ad un idealtipo utilizzato
per descrivere la forma di capitalismo egemonica, in alcuni set-
tori e regioni, a metà ventesimo secolo. Questo idealtipo si con-
traddistingue come sintesi di diverse caratteristiche, tra le quali:
1. �����������������������������������������������������������
un processo lavorativo organizzato attorno a catene di mon-
taggio nelle quali a ciascun lavoratore è assegnata una mansione
specifica da svolgere ripetutamente;
2. �����������������������������������������������������������
un sistema estensivo di gerachizzazione e divisione rigida
degli impieghi [formal job classifications], con regole di lavoro ca-
ratterizzate da una stretta separazione tra lavoro manuale e lavoro
intellettuale;
3. ����������������������������������������������������������
uno sviluppo esteso del lavoro indiretto, incluso un appa-
rato burocratico di supervisori e manager intermedi, dipartimenti
di controllo qualità e così via;
4. ����������������������������������������������������������
lo stoccaggio di ampie scorte ad ogni stadio del processo
di produzione e di distribuzione nel caso [just in case] sorgano
problemi che minaccino l’interruzione della produzione e della
distribuzione;

211
5. �����������������������������������������������������
produzione di massa di beni e servizi standardizzati;
6. �������������������
netta distinzione [hand off relationships] tra imprese di
assemblaggio e loro fornitori e distributori;
7. ����������������������������
mercati di consumo di massa.

Ci si potrebbe chiedere se questi fattori siano sufficienti a


giustificare l’affermazione che il fordismo identificherebbe un’epoca
precisa nel capitalismo. La produzione e i mercati di consumo di
massa si presentarono ben prima che Henry Ford iniziasse la pro-
pria attività nel Michigan (Hounshell, 1984; Walker, 1989; Glick
e Brenner, 1991). Non è questo il luogo per risolvere questo pro-
blema. La questione più interessante, per noi, è se adesso stia emer-
gendo un nuovo stadio nell’evoluzione economica del capitalismo.
Ciascuna delle sette caratteristiche sopra elencate ha con-
tribuito alla crisi del fordismo, esplosa tra la fine degli anni
sessanta e l’inizio degli anni settanta del Novecento. Molte le
cause che hanno determinato questa crisi, dalle differenti stra-
tegie dei capitali, ai diversi rapporti di forza tra le classi, alle
diverse politiche governative, e così via (Bonefeld e Holloway,
1991). Malgrado la grande complessità e non uniformità dei
processi economici, molti teorici della società hanno sostenuto
che sia possibile rinvenire una linea di sviluppo particolarmente
significativa, segnata dal passaggio dal fordismo alla produzione
snella. L’elenco seguente descrive questa linea di sviluppo così
come è stata definita nella letteratura sulla produzione snella.
1) ��������������������������������������������������
La frammentazione e l’atomizzazione della singola
mansione di lavoro ha raggiunto un punto limite nel fordismo1.
Inoltre, lo sviluppo sembra richiedere una reintegrazione del
processo lavorativo e una maggiore attenzione alla cooperazio-
ne sul luogo di lavoro («il concetto di team») (Aoki, 1988).
2) �������������������������������������������������������
Il tentativo di imporre una stretta separazione tra la-
voro manuale e lavoro intellettuale ha raggiunto anch’esso il

1
Questo punto, e quelli che seguono, valgono sia per gli sviluppi nella
fabbrica che nel lavoro impiegatizio.

212
proprio limite. A lungo termine si è visto che i maggiori svi-
luppi nella produttività vengono da cambiamenti incrementali
nel processo produttivo (Dertouzos et al., 1991). Perché questi
siano garantiti, è necessario sollecitare l’intuizione e la creatività
della forza-lavoro. Questo è stato chiamato kaizen, o «miglio-
ramento continuo» [continuous improvement] (Imai, 1986).
3) ��������������������������������������������������������
I costi del lavoro indiretto, ovvero di quel lavoro che
non aggiunge valore al prodotto finale, hanno toccato il picco
nel fordismo2: il lavoro di supervisione, il controllo di qualità,
l’assistenza, la pulizia, e così via. Questi costi si possono ridurre se
coloro che operano nella fabbrica e negli uffici divengono lavoratori
pluriqualificati [multiskilled] in grado di auto-dirigersi, a differenza
del lavoratore parcellizzato delle passate epoche del capitalismo. Il
lavoratore versatile incorpora in sé il controllo di qualità, l’assistenza
alle macchine, le mansioni di pulizia (Koike, 1988).
4) �������������������������������������������������������������
Anche i costi associati alle giacenze del «just in case» ave-
vano raggiunto il loro punto limite. Se ogni stadio del processo
di produzione e di distribuzione è completato come si deve, in
tempo [just in time] perché i semilavorati possano essere utilizzati
dallo stadio successivo del processo, le giacenze possono essere di-
minuite. In questo approccio al processo produttivo e distributivo
l’assemblaggio finale è concluso soltanto quando c’è un ordine,
i semilavorati sono prodotti soltanto quando sono richiesti per
l’assemblaggio e i fornitori consegnano i pezzi e le materie prime
solo quando la produzione ne ha bisogno.
5) �������������������������������������������������������
Nel fordismo il capitale costante era investito in mac-
chinari a compito singolo [single purpose machines]. I proprietari
e gli amministratori del capitale volevano naturalmente ottenere
il massimo profitto dal loro investimento, così erano disposti ad
aumentare i ritmi della produzione standardizzata. Inoltre i costi
unitari per un nuovo tipo di prodotti erano inizialmente molto

2
Il termine «valore» non è qui utilizzato in senso tecnico come nella teoria
del valore lavoro, bensì nel senso lato con cui è impiegato nella letteratura sulla
produzione snella.

213
alti, poiché era necessario che le macchine venissero cambiate. Con
l’introduzione di macchine a compito multiplo [general purpose
machines] (strumenti controllati da computer, robot, desktop com-
puter, ecc.), si può passare a una nuova produzione semplicemente
riprogrammando le macchine, senza un particolare aumento dei
costi unitari. Sorge quindi la tendenza ad una produzione a più
breve termine con prodotti maggiormente differenziati3. Mentre la
scala e il volume divengono sempre più irrilevanti4, nella produzio-
ne snella i profitti maggiori derivano dai beni e dai servizi adatti
ai bisogni specifici di utenti particolari, in un modo che non può
essere facilmente copiato da altri5.
6) ����������������������������������������������������������
L’approccio «just in time» implica, ovviamente, che le im-
prese di assemblaggio e i loro fornitori e distributori non possano
essere nettamente distinti [hands off] come avveniva nel fordismo.
Nella produzione snella i fornitori, gli assemblatori e i distributori
devono condividere tra loro informazioni, tecnologie e personale.
Questa condivisione determina progressi come la progettazione si-
multanea [concurrent engineering], nella quale il progetto delle parti
realizzate dai fornitori e del prodotto finale realizzato dall’impresa
di assemblaggio procede di pari passo. Il risultato di queste relazioni
più strette fra le imprese è che sempre più aspetti della produzio-

3
Fino ad un certo grado, periodi più brevi di produzione maggiormente
differenziata possono essere ottenuti anche con tecnologie convenzionali. Mentre
i produttori americani inseguivano il sogno dell’automatizzazione completa, quelli
giapponesi imparavano a creare macchine multifunzionali combinando macchinari
convenzionali a basso costo nelle cellule produttive [manufacturing cells] (Warner,
1989: 276). È chiaro comunque che il sistema di produzione snella tende ad
evolversi in modo tale che le macchine convenzionali siano sostituite da macchine
multifunzionali programmabili, capaci di passare da una produzione ad un’altra
ad un prezzo basso (Ohno, 1988; Maleki, 1991).
4
Le economie di scala giocano il ruolo più importante nella produzione di
moduli che possono essere utilizzati nella produzione di differenti prodotti finali.
5
Reich mostra come le imprese più proficue nei settori siderurgico, plastico,
della pressofusione, dei semiconduttori, del software, delle telecomunicazioni,
dei trasporti su gomma, su rotaia ed aerei e, infine, della finanza illustrino tutte
questo principio.

214
ne e della distribuzione possono essere esternalizzati, senza che il
processo complessivo di produzione e distribuzione si interrompa.
7) ���������������������������������������������������
Nella produzione snella il consumatore è integrato
nel processo produttivo in un modo qualitativamente nuovo.
La domanda del consumatore dà il via alla catena degli even-
ti «just in time». Perché i cicli di produzione si accorcino, le
imprese che adottano un sistema di produzione snella devono
approfittare delle tecnologie informatiche per rispondere ai cam-
biamenti della domanda dei consumatori quasi in tempo reale.
Gli autori di un importante studio sull’industria globale del-
l’automobile, The Machine That Changed the World: The Story of
Lean Production, credono che il sistema di produzione snella stia
dimostrando la sua superiorità nei confronti sia della produzione
di massa fordista che della produzione artigiana:
Crediamo che, alla fine, la produzione snella sostituirà sia la
produzione di massa che i residui della produzione artigiana in
tutte le aree industriali, così da diventare il sistema globale di
produzione del ventunesimo secolo. (Womack et al., 1990: 278)

È questa una posizione controversa6. Il presente saggio cerca


di seguire una differente linea di indagine: assumendo che tale
posizione sia esatta, come dobbiamo valutare la rilevanza attuale
del Capitale di Marx?
Nei tre libri del Capitale, Marx ha presentato una teoria ge-
nerale del capitalismo, ovvero ciò che egli pensava fosse la logica
generale del capitale. Nei termini della filosofia della scienza di
Lakatos, l’ordinamento delle categorie economiche nel Capitale
costituisce il «nucleo centrale» del programma di ricerca marxiano,
il quale orienta le analisi empiriche dei fenomeni concreti del capi-
talismo (Smith, 1997). Se i risultati di questa ricerca sono in ultima
istanza incoerenti con il sottostante nucleo centrale, il programma
di ricerca stesso, nella sua complessità, è messo in discussione.
Nel primo libro del Capitale, Marx afferma che esiste, nella
produzione, un fondamentale antagonismo tra capitale e lavo-
6
Sul dibattito tra i critici e i difensori di questa tesi cfr. Babson (1995).

215
ro salariato. Molti teorici dell’impresa e molti scienziati sociali
«mainstream» sostengono che la ricerca concreta all’interno della
produzione snella conduca a risultati incoerenti rispetto ad una tale
visione della natura generale del capitalismo. Essi ritengono che
il potenziamento delle capacità [empowerment] della forza-lavoro
e la creazione di «lavoratori della conoscenza» pluriqualificati tra-
scenda le caratteristiche alienanti delle precedenti attività lavorative
(Womack et al., 1990, Tapscott e Caston, 1993). In un articolo
precedente abbiamo difeso la continua rilevanza del primo libro del
Capitale, mostrando che la coercizione strutturale, lo sfruttamento
e la sussunzione reale del lavoro sotto la forza aliena del capitale
continua a caratterizzare le relazioni tra capitale e lavoro salariato
nella produzione snella (Smith, 1994a).
Nel secondo libro Marx riprende la conclusione del primo
libro secondo la quale l’accumulazione del capitale poggia sullo
sfruttamento del lavoro salariato nel processo di produzione. Come
Marx scrive in seguito,
Questo processo di produzione immediato non esaurisce il corso
dell’esistenza del capitale. Esso, nel mondo della realtà, viene
completato dal processo di circolazione, il quale ha costituito
oggetto delle indagini del secondo libro (Capitale, III: 53).

Nelle parti iniziali del secondo libro del Capitale, Marx esa-
mina la relazione tra l’accumulazione capitalistica e la circolazione
attraverso l’analisi dei tempi e dei costi necessari perché il capitale
completi il circuito capitalistico D – M … P … M’ – D’7. Ci sono
degli elementi indiscutibili della produzione snella che confermano
questo aspetto della teoria generale del capitale di Marx. Essi sa-

7
Lo stadio D – M del circuito è quello dell’investimento del denaro capitale
nelle merci necessarie alla produzione, cioè mezzi di produzione e forza-lavoro.
Il processo di produzione, P, si risolve in una nuova merce, M’, che, se venduta
al proprio valore, permette di ottenere una quantità di denaro (D’) maggiore
rispetto a quella inizialmente investita. Una volta detratto il consumo personale
del capitalista, le tasse e così via, questo denaro capitale può essere investito nuo-
vamente, può quindi iniziare un nuovo circuito. Per l’analisi delle trasformazioni
di questo circuito fatta da Marx, cfr. Arthur (1998).

216
ranno discussi nel paragrafo successivo. Il terzo paragrafo introduce
un aspetto del sistema a produzione snella che mette in discussione
sia la teoria sviluppata nel secondo libro che la teoria generale del
capitalismo di Marx. Nel paragrafo finale, poi, verranno proposte
delle risposte a queste domande.

Tempo di circolazione e costi di giacenza nella produzione snella


Marx afferma nel secondo libro che maggiore è il numero dei
cicli che il capitale riesce a compiere in un periodo dato, maggiore
è la quantità di capitale che riesce ad accumulare:
Durante il suo tempo di circolazione, il capitale non opera come
capitale produttivo e perciò non produce merce né plusvalore.
[…] Quanto più le metamorfosi della circolazione del capitale
sono soltanto ideali, cioè quanto più tempo di circolazione
diviene = 0 o si avvicina a zero, tanto più il capitale opera di
fatto come tale, tanto più grande diviene la sua produttività e
autovalorizzazione. (Capitale, II: 128-9; vedi anche 261, 309-
310, 332-333).

Da questa prospettiva, la produzione snella può essere vista


come un tentativo di riduzione del tempo di rotazione del capitale,
in risposta alla crisi del fordismo. Molte caratteristiche concrete
della produzione snella sembrano giustificare l’enfasi marxiana
sulla riduzione del tempo di rotazione presente nella sua teoria
del capitale. L’approccio «just in time», per esempio, è concepito
affinché ogni stadio del processo di produzione e distribuzione
risponda rapidamente alle richieste dello stadio successivo, in
modo da ridurre il tempo di circolazione. Tutte le innovazioni per
diminuire la «lentezza» e rendere «snella» la produzione e la circo-
lazione – come l’eliminazione dei dipartimenti separati di controllo
della qualità – sono chiaramente volti alla riduzione del tempo di
circolazione. Così anche l’introduzione delle macchine a compito
multiplo come robot, strumenti controllati dal computer, mezzi
di trasposto automatizzati, sono tutti volti alla velocizzazione della
trasformazione delle materie prime nel prodotto finito. La spinta

217
alla riduzione del ciclo del prodotto per mezzo della progettazione
simultanea è un’altra caratteristica del modello di produzione snella
finalizzata alla riduzione del tempo di circolazione.
Si deve aggiungere a questa lista la divisione della produzione
per mezzo delle «esternalizzazioni». Se gli stadi della produzione
e della distribuzione sono gestiti da un’azienda integrata vertical-
mente [vertically integrate company], una considerevole quantità di
capitale è vincolata a lungo prima della vendita finale. Negli accordi
di subappalto, gli stadi del processo di produzione e di distribuzio-
ne sono assegnati a differenti unità di capitale, ognuna delle quali
procede nel proprio circuito ad una velocità proporzionalmente
più elevata rispetto al capitale investito nelle imprese integrate
verticalmente del fordismo [vertically integrated firms]8.
Un secondo problema analizzato nel secondo libro del Capitale
riguarda il ruolo specifico giocato dalle giacenze nel circuito generale
del capitale. Marx afferma che, se le giacenze di merci invendute au-
mentano, costi di deposito ridurranno almeno la quantità di sovrappiù
di cui ci si può appropriare in un determinato lasso di tempo (Capi-
tale, II: pp. 140 ss., 261). L’accumulazione può perfino bloccarsi; gli
input e gli output deperibili possono anche rovinarsi prima di svolgere

8
Ciò non implica affatto che l’integrazione verticale scompaia con la
produzione snella. L’integrazione verticale tende ad abbassare i costi di input
poiché il costo finale di un macchinario prodotto all’interno di un’impresa è
semplicemente la somma dei costi richiesti per la sua produzione, mentre il
prezzo della stessa macchina comprata da un’altra impresa include, oltre ai costi
di produzione, il profitto di quella impresa. David Harvey suppone che esista
un punto di equilibrio nel quale il bilanciamento tra la centralizzazione e la
decentralizzazione è ottimale per l’accumulazione, cioè dove l’abbassamento dei
costi di input dovuti all’integrazione verticale non supera l’incremento dei costi
dovuto ad un maggiore tempo di circolazione (Harvey, 1982). Il fordismo può
essere visto come una struttura organizzativa ad integrazione verticale che ha
passato il punto di equilibrio in cui i suoi vantaggi compensano l’incremento del
tempo di circolazione. La produzione snella può essere vista come un tentativo
di correggere questo squilibrio; la scomposizione della produzione velocizza il
processo di circolazione, permettendo che una maggiore quantità di capitale sia
accumulata in una data unità di tempo. Come beneficio ulteriore, le tecnologie
informatiche permettono alle imprese di monitorare attentamente i subappalti,
così da ottenere i benefici dell’integrazione verticale senza i suoi costi.

218
il loro ruolo nel processo di accumulazione9, o i loro prezzi possono
diminuire significativamente tra il momento in cui sono stati prodot-
ti e il momento in cui sono venduti (Capitale, II: pp. 301-302; 333).
Anche per questo aspetto, il secondo libro fornisce una strut-
tura teorica in grado di comprendere gli sviluppi del capitalismo
contemporaneo. Uno scopo esplicito del sistema «just in time» è
quello di ridurre le giacenze ad ogni livello del processo di produ-
zione e di distribuzione. La quantità di materie prime e semilavorati
ottenuti dai fornitori diminuisce; le scorte di sicurezza delle parti
utilizzate nella produzione si riducono; i rapporti con i distributori
sono coordinati in vista della riduzione delle giacenze di prodotti
invenduti. Tutte queste misure confermano la tesi marxiana espressa
nel secondo libro, secondo la quale le giacenze giocano un ruolo
molto importante nel processo di accumulazione del capitale.
La vendita finale, lo stadio finale M’ – D’, è, naturalmente,
parte della circolazione generale del capitale. Così la spinta generale
alla riduzione del tempo di circolazione include anche l’imperativo
della riduzione del tempo di vendita:
Secondo il diverso grado di velocità con cui il capitale respinge
la sua forma di merce e assume la sua forma di denaro, ossia
secondo la rapidità della vendita, lo stesso valore-capitale, in
grado assai differente, servirà come creatore di prodotto e di
valore e la scala della riproduzione si estenderà o si restringerà
(Capitale, II: 44-5).

L’importanza generale delle giacenze nel processo di circola-


zione è, allo stesso modo, tenuta in considerazione in questa fase
particolare della circolazione:

9
«Per la circolazione del capitale-merce M’ – D’, sono tracciati determi-
nati limiti dalla forma di esistenza delle merci stesse, dal loro esistere come
valori d’uso. Esse sono per natura deperibili. Se dunque, entro un certo limite
non entrano nel consumo, produttivo o individuale secondo la loro destina-
zione; se, in altre parole, non vengono vendute entro un determinato tempo,
si guastano e perdono insieme al loro valore d’uso la proprietà di essere de-
positarie del valore di scambio. Il valore-capitale in esse contenuto, rispetti-
vamente il plusvalore di cui si è accresciuto, va perduto». (Capitale, II: 131)

219
Il ciclo del capitale procede normalmente solo fino a che le sue
differenti fasi trapassano l’una nell’altra senza ristagno. Se il capi-
tale ristagna […] nell’ultima fase M’ – D’ le merci ammucchiate
senza poter essere vendute ostruiscono il flusso della circolazione.
(Capitale, II: 54; vedi anche 106 ss., 149 ss., 267).

Inoltre, l’investimento di capitale fisso subisce una perdita


ogniqualvolta il capitale fisso si svaluta prima che sia completamen-
te ammortizzato; perciò la vendita deve avvenire prima di questa
svalutazione, se si vuole recuperare l’investimento (Capitale, II:
74 s., 108, 174 s., 191s.). Lo stesso avviene per la circolazione del
capitale costante: se i prezzi delle materie prime si abbassano prima
che le merci prodotte con quelle materie prime siano vendute, il
capitale investito in quelle materie prime si svaluta (Capitale, II:
111-112).
Come vedremo in seguito, è parte integrante della produzione
snella un feedback continuo tra imprese capitalistiche e consumato-
ri, volta a velocizzare il movimento del capitale nella fase M’ – D’
del circuito capitalistico. Da questa prospettiva la produzione snella
appare coerente con la teoria generale del capitalismo di Marx, così
come essa si articola nel secondo libro. Da un’altra prospettiva,
tuttavia, questo aspetto della produzione snella mette in discussione
i fondamenti del marxismo.

Produzione snella: istituzionalizzazione della sovranità


del consumatore?
Marx non trascurava di certo, da un punto di vista teorico,
l’importanza dell’attività di consumo. Non avrebbe potuto insistere
di più sul fatto che, se nessuno vuole comprare una merce, il lavoro
speso nella sua produzione è stato socialmente sprecato; se una
merce non ha valore d’uso, essa non ha valore. Il comportamento
del consumatore ha, quindi, un ruolo centrale nella teoria marxiana
del valore. Si deve inoltre ricordare che, per Marx, la formazione
dei desideri del nuovo consumatore è connessa, nel capitalismo,
ad un’ampliamento delle capacità umane e all’emancipazione dai

220
limiti delle società tradizionali, dove usanze rigide intrappolano lo
sviluppo umano in una sfera ristretta di ruoli:
[La produzione fondata sul capitale è] la scoperta, la creazione
e la soddisfazione di nuovi bisogni derivanti dalla società stes-
sa; la coltivazione di tutte le qualità dell’uomo sociale e la sua
produzione come uomo per quanto è possibile ricco di bisogni
perché ricco di qualità e relazioni […] [Il capitalismo implica]
uno sviluppo di un sistema sempre più ampio e globale di tipi
di lavoro, di tipi di produzione, ai quali corrisponde un sistema
sempre più ampliato e ricco di bisogni (Lineamenti, II: 10-11).

Concentrarsi esclusivamente sul lato negativo del consumo


nel capitalismo sarebbe unilaterale e, quindi, non dialettico ed
erroneo. Detto questo, rimane vero che forse l’elemento più im-
portante del «nucleo centrale» del programma di ricerca marxiano
è la proposizione secondo la quale l’accumulazione del capitale è il
fine ultimo della vita economica, capace di sussumere tutti gli altri
aspetti del mondo sociale ai suoi imperativi. In termini specifici,
per Marx, il circuito di accumulazione del capitale è la struttura
fondamentale entro la quale l’attività del consumatore è sussunta
come momento accessorio:
Il volume della massa di merce prodotta dalla produzione ca-
pitalistica viene determinato dalla scala di questa produzione e
dal bisogno di quest’ultima di estendersi costantemente, non
da un circolo predestinato di domanda e offerta, di bisogni da
soddisfare (Capitale, II: 77).

Di contro, la proposizione fondamentale del più signifi-


cativo programma di ricerca in competizione con il marxismo,
l’economia neoclassica, è quella secondo la quale Marx ha ca-
povolto ogni cosa: lo scopo finale dell’attività economica nel
capitalismo è la soddisfazione della domanda del consumatore;
l’accumulazione del capitale è, perciò, semplicemente un mezzo
per raggiungere questo fine. I marxisti, naturalmente, hanno
sempre guardato a questo concetto di sovranità del consumatore
con una certa ostilità, considerandolo un’ideologia legittimante
volta a mascherare i rapporti sociali essenziali del capitalismo.

221
È estremamente interessante notare che i principali ideologi
del capitalismo contemporaneo, i difensori della produzione snel-
la, affermino che la visione di Marx era plausibile in relazione al
fordismo. Per loro, nel fordismo c’era un abisso invalicabile tra i
singoli individui e la produzione di massa di merci standardizzate.
La persistenza dell’abisso faceva sì che le merci rimanessero aliene
al consumatore, un qualcosa di non abbastanza «adatto» ai suoi
specifici bisogni e desideri10. Proprio la presenza di questo abisso
faceva sì che la soddisfazione dei bisogni dei consumatori non fosse
il fine ultimo della vita economica. Questi teorici asseriscono che
tale alienazione del consumatore dalle merci non sia una carat-
teristica intrinseca del capitalismo. Con i cambiamenti tecnici e
organizzativi associati alla produzione snella, la merce non è più un
prodotto standardizzato, bensì qualcosa che riflette perfettamente
i gusti individuali del consumatore o di definiti segmenti di con-
sumatori. Con il costituirsi del feedback continuo tra consumatori
e processo di progettazione del prodotto, l’alienazione del consu-
matore dall’oggetto di consumo comincia a svanire:
Determinare il processo economico dal punto di vista del pro-
duttore, come avveniva nell’economia industriale [cioè fordista]
non è più possibile. Una caratteristica dell’ambigua nuova
economia è la necessità di definire il processo economico nei
termini del cambiamento dei bisogni del consumatore. (Davis,
1987: 195)11

10
È vero che nel fordismo la segmentazione del mercato divideva gli oggetti
di consumo di massa in nicchie separate in relazione alla classe, al luogo, all’età,
al sesso, alla razza e ad altre categorie. Non molto dopo la dichiarazione di Henry
Ford secondo la quale i consumatori potevano avere la «Model T» in qualsiasi
colore volessero, purché fosse nera, la General Motors cominciò a sviluppare
prodotti diversi per i diversi segmenti del mercato dell’auto; in questo modo essa
riuscì ad assicurarsi una porzione del mercato di Ford. Tuttavia questi segmenti
erano definiti in termini piuttosto vaghi. Non c’era niente nella produzione di
massa che si avvicinasse all’affermazione dell’unicità individuale del consumatore.
Questo aspetto era andato perduto con il superamento del lavoro artigiano.
11
«La sfida della nuova era del commercio, con i suoi prodotti virtuali,
è quella di rendere adatto il prodotto al consumatore, non il consumatore al
prodotto» (Davidow e Malone, 1992: 219).

222
Secondo questa visione, il consumatore è il sole attorno al
quale ruota la produzione snella; la sovranità del consumatore è
adesso istituita su larga scala per la prima volta nella storia umana.
Se questa tesi è corretta, l’evoluzione economica nel capitalismo ha
realizzato qualcosa che tutta l’economia neoclassica, con la sua am-
pia sofisticazione matematica, non è riuscita a fare: fornire un rifiu-
to empiricamente convincente dell’idea marxiana secondo la quale
i bisogni del consumatore sono un argomento secondario nel capi-
talismo. La continua relazione reciproca tra capitale e consumatore
merita di essere analizzata più in dettaglio, basandoci sulle descri-
zioni di essa fatte nella letteratura concernente la produzione snella.
Il primo passo in questo ciclo è la raccolta e l’analisi di infor-
mazioni relative ai modelli di comportamento del consumatore.
Diversi tipi di tecnologie informatiche sono impiegati a questo fine,
fra questi: scanner che registrano istantaneamente gli acquisti del
consumatore al momento della vendita; tecnologie multimediali o
via cavo, che permettono l’acquisto da casa; computer in rete che
permettono di trasmettere le preferenze del consumatore in modo
diretto dal distributore al produttore; memorie capaci di immagaz-
zinare immensi data base sui consumatori; programmi che permet-
tono aggiornamenti dei data base in tempo reale; numeri di telefono
gratuiti per le domande o le rimostranze degli acquirenti; posta vo-
cale; bacheche computerizzate che permettono alle imprese di mo-
nitorare i gruppi di utenti; ecc. Inoltre, le imprese possono scegliere
di comprare i dati dai provider (Tapscott e Caston, 1993: 108).
La raccolta di maggiori informazioni e una migliore analisi dei
dati permettono di conoscere più precisamente i desideri del con-
sumatore; a questo scopo, le informazioni devono, quindi, essere
continuamente aggiornate. In linea di principio tali informazioni
dovrebbero permettere alle imprese snelle l’identificazione del punto
limite del «singolo», ovvero la determinazione delle caratteristiche
del prodotto voluto da ogni individuo (Ginger e Edelman, 1990).
Lo stadio successivo è produrre un bene o un servizio che abbia
le caratteristiche volute dai consumatori individuali. Quando que-
sto avviene su larga scala, il risultato differisce sia dalla produzione

223
artigiana che dalla produzione di massa della fabbrica tradizionale.
Questo nuovo fenomeno è stato chiamato «personalizzazione di
massa» [mass costumation; micromass consumption] (Davidow e
Malone, 1992: 5; Davis, 1987: passim). La produzione avviene su
larga scala come nella produzione di massa del fordismo, ma tale
produzione è personalizzata onde soddisfare i singoli bisogni dei
consumatori individuali o quelli di gruppi definiti di consumatori12.
La personalizzazione di massa può avvenire in molti modi. In
alcuni settori i computer, collegati a banche dati sui consumatori,
forniscono immediatamente ai venditori molte informazioni sui
bisogni particolari dei consumatori individuali. Hotel, linee di
aerei e servizi finanziari sono esempi di industrie che personaliz-
zano i prodotti o i servizi che vendono ai bisogni individuali dei
loro clienti (Womack, et al., 1990: 169-93; Tapscott e Caston,
1993: 67, 158). In altri settori la personalizzazione di massa av-
viene attraverso la progettazione di prodotti «aperti» [open-ended
products]. Questi sono beni di consumo che è possibile utilizzare
in vario modo, in grado quindi di soddisfare – attraverso diverse
programmazioni – la varietà dei bisogni dei consumatori. Se la
programmazione è lasciata nelle mani dei consumatori, essi non
sono più dei destinatari passivi di merci. Essi sono intergrati nel
processo di progettazione come «prosumatori», aiutano cioè a pro-
durre ciò che consumano (Toffler, 1980). Altri esempi delle attività
dei «prosumatori» includono la stampa del proprio biglietto aereo,
l’attività di home banking, la diagnosi e la riparazione di macchine
elettroniche, l’uso della videocamera per i propri video, e così via.
Altre tecnologie di personalizzazione di massa permettono la
produzione di un’ampia gamma di prodotti, in modo tale che i
produttori possano consegnare rapidamente i prodotti ai consu-
matori e nello stesso tempo rispondere velocemente agli improv-

12
«La personalizzazione di massa dei mercati significa che può essere rag-
giunto lo stesso numero di clienti come nella produzione di massa dell’economia
industriale [ossia fordista], e che essi, simultaneamente, possono essere trattati indi-
vidualmente, come nei mercati delle economie preindustriali» (Davis, 1987: 169).

224
visi cambiamenti della domanda. La sostituzione di macchine a
compito singolo con macchine a compito multiplo ha una grande
importanza in questo contesto. I programmi di progettazione
(CAD) e di fabbricazione computerizzata (CAM) permettono l’in-
troduzione di nuovi prodotti senza che i macchinari, controllati dai
computer attraverso questi programmi, debbano essere sostituiti.
Questo significa che la necessità di incrementare la produzione per
recuperare i costi del macchinario perde forza coercitiva.
Una volta che il progetto è stato determinato, può essere
trasmesso istantaneamente ai computer che operano nella zona di
fabbricazione, in modo tale che il processo di produzione materiale
possa avere inizio. In questo modo il tempo che trascorre tra la
fase di progettazione e la consegna ai consumatori di una nuova
linea di prodotti diminuisce considerevolmente. In Giappone, il
traguardo è quello di produrre e consegnare un’auto con le ca-
ratteristiche richieste da un consumatore individuale in 72 ore a
partire dall’ordine. I fabbricanti di auto giapponesi sono in grado di
ridurre il periodo tra l’inizio di un nuovo processo di progettazione
e l’immissione della nuova auto nel mercato a 46 mesi, rispetto ai
60 mesi necessari alle fabbriche fordiste negli Stati Uniti.
Questo risparmio di tempo mostra che le imprese snelle
sono in grado di rispondere più rapidamente ai cambiamenti
nelle preferenze dei consumatori nel mercato dell’automobile13.
I modelli hanno periodi di vita più brevi: le imprese giapponesi
producono una quantità minore di unità di auto di ogni mo-
dello rispetto a quanto facessero le imprese americane o europee
prima che adottassero la produzione snella (500.000 contro
circa 2.000.000) (Womack et al., 1990: 111, 124). Molto im-
portanti sono anche gli sviluppi nelle tecnologie di trasporto
che permettono di consegnare tempestivamente i prodotti 14.

13
Cfr. Kenney e Florida (1993: 302-3).
14
Cfr. Capitale, II:153 ss., 262, 264 per un’analisi di come la tendenza allo
sviluppo delle tecnologie di trasporto possa essere dedotta dalla forma di capitale.
Questa tendenza è ampiamente illustrata nella produzione snella.

225
La personalizzazione di massa richiede innovazioni organizza-
tive paragonabili a quelle tecniche. Il sistema di produzione «just
in time» abolisce le grandi quantità di giacenze invendute e di
semilavorati, eliminando così uno dei motivi per cui le imprese
fordiste erano riluttanti ai cambiamenti rapidi delle linee di pro-
duzione (Tapscott e Caston, 1993: 85, 98). La decentralizzazione
delle decisioni, talvolta presentata come passaggio alla «azienda
orizzontale» (Byrne, 1993), permette una risposta più rapida ai
cambiamenti nella domanda del consumatore rispetto alle gerarchie
burocratiche caratteristiche delle imprese fordiste. La sostituzione
del lavoratore parcellizzato con squadre di lavoratori pluriqualificati
rimuove un’altra barriera. Le squadre di progettazione, inclusi i
rappresentanti dei servizi e del marketing al fianco degli ingegne-
ri, merita un’attenzione particolare15. Questi team permettono ai
progettisti di avere una conoscenza aggiornata dei movimenti nella
domanda dei consumatori. Inoltre, queste squadre sono il luogo nel
quale i reclami e le domande dei consumatori possono trasformarsi
in idee per nuovi prodotti. Lo spostamento verso la progettazione
simultanea è un altro cambiamento organizzativo che rende le
imprese capaci di adattarsi più rapidamente ai cambiamenti nelle
preferenze dei consumatori. Il termine «progettazione simultanea»
si riferisce al processo nel quale le differenti parti del prodotto finale
sono progettate simultaneamente, incluse le parti progettate dalle
imprese in appalto (Clark e Fujimoto, 1989).
Il processo di feedback che mette in relazione i consumatori
e i fabbricanti si completa attraverso la monitorizzazione della
risposta del consumatore all’introduzione di un nuovo prodotto o
di un nuovo servizio. Le tecnologie per la raccolta di informazioni
permettono all’impresa capitalistica la misurazione del livello di
soddisfazione del consumatore, in modo da determinare se la com-
plessità della progettazione uguaglia i livelli di competenza del con-

15
Questa è una caratteristica fondamentale dell’approccio manageriale definito
«quality function deployment», il cui obiettivo è conciliare ciò che vogliono i
consumatori con ciò che gli ingegneri possono costruire.

226
sumatore, e così via. Le tecnologie della produzione snella e le sue
forme di organizzazione permettono cambiamenti immediati nella
produzione e nella progettazione delle linee dei prodotti in relazio-
ne alla risposta dei consumatori, e quindi che il ciclo inizi di nuovo.
Tutte queste caratteristiche della produzione snella conferma-
no l’attenzione data da Marx nel secondo libro all’importanza di
ridurre il tempo in cui il capitale è impegnato nello stadio M’ – D’
del circuito capitalistico. La sfida alla teoria marxiana non sta in
questo, bensì, si sviluppa a partire dalla precisa categorizzazione dei
rapporti sociali che sottendono questa fase del circuito. Astraendo
dalle transazioni tra le differenti unità di capitale, il processo M’
– D’ definisce la relazione tra il capitale e il consumatore. I difensori
della produzione snella affermano che questa relazione è adesso
qualitativamente differente rispetto a quella presente nei primi
stadi del capitalismo. La logica profonda del sistema capitalistico
si è trasformata in un modo che la teoria marxiana è incapace di
comprendere. Le imprese e i consumatori sono adesso uniti da una
relazione a lungo termine nella quale i desideri dei consumatori
sono diventati l’obiettivo dell’attività economica: «Il fine delle […]
imprese è la massimizzazione del legame con i loro consumatori.
Ciò si compie attraverso la massimizzazione della soddisfazione dei
consumatori e la costituzione di un destino comune tra impresa e
consumatore» (Davidow e Malone, 1992: 222).
In questo «destino comune» i consumatori investono il denaro
necessario all’acquisto della merce e contemporaneamente il tempo
loro necessario per conoscere i prodotti dell’azienda. In cambio,
essi ricevono informazioni aggiornate sui prodotti disponibili, un
servizio di più alto livello, l’opportunità di incidere sullo sviluppo
futuro del prodotto, sconti speciali e forse il permesso di entrare nel
data base dell’azienda per seguire le tracce dei propri ordini e delle
proprie spedizioni. I consumatori partecipano al futuro dell’azienda
attraverso questa spesa di tempo e di denaro. È questo un impegno
a lungo termine; possono essere necessari anni perché un’impresa
diventi credibile, perché costruisca infrastrutture di servizio, perché
possa stabilire una profonda relazione con i consumatori, ma quando

227
lo fa, può contare sulla fedeltà del consumatore verso più generazioni
di prodotti16. Con tale investimento di risorse per il mantenimento
del «destino comune», si può affermare che il consumatore sia dentro
l’impresa snella, non fuori. Infatti, i consumatori sono apparentemen-
te «interni» all’impresa, in un senso profondo come gli azionisti:
Alla fine il consumatore assomiglierà di più ad un’azionista del-
l’azienda. Entrambi condivideranno una responsabilità comune
al successo di lungo termine dell’azienda. Il consumatore di beni
costosi potrebbe avere più attaccamento dell’azionista, in quanto
quest’ultimo potrebbe passare ad un concorrente anche solo per
un guadagno marginale (Davidow e Malone, 1992: 229).

L’attenzione rivolta alla produzione snella si è concentrata


sulla relazione tra capitale e lavoro salariato e sulle relazioni tra le
differenti unità di capitale nella rete produttiva. Tuttavia, centrale
nell’analisi di questo modello è la relazione tra il capitale e il con-
sumatore. Se la posizione per cui la produzione snella determina
la sovranità del consumatore potesse essere confermata, l’analisi
marxista del capitalismo risulterebbe indebolita. Può questa posi-
zione essere confermata?

Uno sguardo critico alla relazione capitale/consumatore


nella produzione snella
Noi ammettiamo che nella produzione snella la domanda del
consumatore sia incorporata nella progettazione e nella produzione
in un modo qualitativamente nuovo, tuttavia, anche ammettendo

16
«Spesso l’incombenza è un vantaggio speciale: il consumatore investe tempo
per capire il funzionamento di una singola applicazione, ottiene benefici da essa
e costruisce dei legami che lo vincolano al produttore» (Tapscott e Caston, 1993:
105). Ciò è estremamente importante nella produzione snella. Quando i costi
di avvio sono alti e la durata del prodotto è breve, molti produttori potrebbero
non vedere un ritorno su nuove linee di prodotto fino alla terza o alla quarta
generazione. Questo significa che la ricompensa per trattenere i consumatori è
piuttosto alta. Creare nuovi clienti costa 5 volte di più che trattenere i vecchi;
mantenere il 2% di clienti in più equivale a tagliare i costi del 10% (Davidow
e Malone, 1992: 222, 152).

228
questo, il gergo della sovranità del consumatore mistifica e distorce
il vero stato delle cose. L’argomentazione può essere divisa in due
parti: la prima si occupa dei limiti del potere del consumatore
nella produzione snella; la seconda dei modi nei quali l’attività del
consumatore rimane un momento subordinato all’interno della
circolazione del capitale.

La subordinazione del consumatore nell’età della


personalizzazione di massa
La prima cosa da notare è che il ruolo del consumatore nel
processo di progettazione può diventare più importante senza
che sia scalzata l’asimmetria di potere nella relazione tra capi-
tale e consumatore. Tre domande sono importanti al riguardo:
quale estremo del rapporto tra capitale e consumatore ha avuto
la forza di determinare dei cambiamenti in essa? Quali erano le
sue motivazioni per farlo? Quale estremo del rapporto ha mag-
giore capacità di assicurarsi che il procedere della trasformazione
promuova i propri interessi? In relazione alla prima domanda, la
trasformazione dei rapporti con il consumatore è stata iniziata
dal capitale. Si può generalizzare quanto notano Kenney e Flo-
rida, generalmente favorevoli alla produzione snella, nella loro
discussione sul Giappone:
Il Giappone testimonia la frammentazione del consumo di massa
contestualmente al sorgere della «innovation-mediated produc-
tion». Questa non è l’illusoria frammentazione democratica difesa
dai venditori, dagli economisti e dai teorici post-moderni, ma
piuttosto una frammentazione strutturata, razionale e pressoché
pianificata, guidata dalle capacità produttive della innovation-
mediated production. (Kenney e Florida, 1993: 320)17.

17
Essi forniscono un esempio: «L’industria automobilistica giapponese si sta
avvicinando alle tecniche di mercato che assomigliano a quelle della industria
dell’alta moda, con continui cambiamenti nel design e con la creazione di linee di
auto limitate nel numero o nel tempo in cui possono essere ordinate» (Kenney e
Florida, 1993: 321-2). Questo approccio si è diffuso anche in altri settori, come
per esempio nell’elettronica.

229
Il motivo di questa transizione è abbastanza chiaro. L’integra-
zione dei consumatori nel processo di progettazione nella produ-
zione snella non è un fine in sé, bensì semplicemente un mezzo di
espansione dell’accumulazione capitalistica. Questa integrazione è
una strategia intrapresa dal capitale nella speranza di incrementare
il saggio di consumo, punto questo riconosciuto anche da uno dei
più strenui difensori di questa versione del capitalismo:
Spostare la determinazione della configurazione finale del prodot-
to a valle, nello spazio del consumatore, ha conseguenze molto
pratiche. I consumatori che creano e controllano la fabbricazione
dei loro beni e servizi promettono un consumo maggiore rispetto
alle persone che non lo fanno (Davis, 1987: 55).

Chi, infine, ha maggiore capacità di assicurarsi che la trasfor-


mazione del rapporto tra capitale e consumatore favorisca i propri
interessi? Il concetto che il consumatore nella produzione snella sia
più che un azionista è una classica frase ideologica priva di senso.
I manager delle imprese sono agenti degli investitori di capitale e
ci sono molti meccanismi sociali volti ad assicurare che agiscano
in favore degli interessi di quegli stessi investitori. La relazione tra
principale e agente non si estende ai consumatori. Nel comitato
di direzione, a sorvegliare le azioni del management, non c’è alcun
rappresentante degli interessi del consumatore18.
La questione dell’equilibrio strutturale di potere tra capitale e
consumatore è sicuramente importante nella presente analisi. Tutta-
via è molto importante anche approfondire gli effetti del consumo
nella produzione snella sulla soggettività del consumatore. Un tale
studio porta ai risultati che seguono, i quali rinforzano nella loro
interezza il rifiuto della posizione secondo cui la produzione snella
determinerebbe la vera sovranità del consumatore.
In primo luogo, affinché il circuito dell’accumulazione del
capitale proceda in modo scorrevole, non basta che le merci siano

18
Per una discussione interessante sul modo in cui gli interessi del consu-
matore erano rappresentati nel Socialismo, cfr. Devine (1988), Elson (1988) e
Schweickert (1994).

230
prodotte e acquistate entro un periodo di tempo dato; gli oggetti
acquistati devono consumarsi entro un certo periodo, in modo tale
che il consumatore possa ripresentarsi rapidamente sul mercato
pronto per acquistare di nuovo. Più è breve «il tempo di consumo
socialmente necessario», più velocemente il capitale compie il suo
ciclo e più capitale può essere accumulato in un dato periodo di
tempo, rimanendo inalterate le altre condizioni. Nella produzione
snella una diminuzione del tempo di consumo socialmente neces-
sario deve essere realizzata attraverso cicli più brevi del prodotto,
cambiamenti di progettazione più frequenti e maggiore importanza
dello stile (Harvey, 1989). Maggiore è l’incremento del saggio di
consumo determinato dalla produzione snella, maggiore è la pres-
sione affinché i consumatori si identifichino sulla base della propria
attività di consumo («sei ciò che compri»). È necessaria una grande
quantità di energia psichica per superare la proliferazione di valori
simbolici assunti dalle varie merci. Questa intensificazione del con-
sumo forgia profondamente la soggettività umana inducendola alla
frammentazione e alla dissoluzione, ad essere cioè meno «sovrana».
I difensori della produzione snella si mostrano quindi incoerenti:
difendono un sistema che ha la tendenza a condurre verso una
frammentazione «postmoderna» del sé, facendo appello al concetto
tradizionale di soggetto integrato [integrated subject] (sovranità).
Questo processo può essere analizzato da un altro punto di
vista. Le merci promettono una soddisfazione che non possono
mantenere; se lo facessero, non ci sarebbe motivo per rivolgersi
ancora al mercato per acquistare un’altra merce. Il consumismo,
come hanno notato Adorno e Benjamin, ha la stessa struttura della
dipendenza dalla droga: l’acquisto di una merce determina un mo-
mento di positività; in seguito c’è la caduta e la necessità di fare un
nuovo acquisto per ottenere un’altra dose. Con l’aumento del ritmo
di consumo, la produzione snella tende a lasciare il consumatore in
uno stato di insoddisfazione e ansietà, interrotto dall’impeto fugace
dell’acquisto. Un soggetto in uno stato di dipendenza non diventa
improvvisamente «sovrano» semplicemente perché partecipa alla
progettazione della droga.

231
In secondo luogo, la metafora della droga coglie soltanto una
delle tendenze della produzione snella; ci saranno molti consuma-
tori ai quali questa metafora non è applicabile. Potrebbe sembrare
che almeno per questi ultimi, le misure volte ad incorporare i
desideri del consumatore nella progettazione e nella produzione
rimuovano l’abisso tra loro e le merci, rendendo più plausibile l’idea
della sovranità del consumatore. Anche in questo caso la situazione
è invece più complessa.
Anche nel caso in cui i consumatori acquistassero merci che
sono state personalizzate per loro, l’abisso tra il consumatore e il pro-
dotto potrebbe rimanere. Sorge un divario ogniqualvolta gli acquisti
contribuiscono al determinarsi di effetti che vanno contro gli inte-
ressi collettivi nei quali i consumatori si riconoscono. Questo pro-
blema tende a proporsi nel capitalismo come risultato dei limiti del
meccanismo di prezzo come mezzo di trasmissione di informazioni.
I prezzi di mercato trasmettono informazioni relative alla domanda
effettiva di una merce, ai costi interni della sua produzione (cioè ai
costi che l’impresa produttrice deve pagare) e ai prevalenti saggi di
profitto. Quello dei prezzi non è tuttavia un sistema efficiente di
trasmissione dei costi esterni di produzione imposti sui lavoratori e
sulle loro comunità. Esempi di questi costi esterni includono lo stress
fisico e psicologico inflitto alla forza-lavoro e i danni all’ambiente.
Supponiamo che un certo numero di consumatori non voglia
infliggere danni evitabili alla forza-lavoro o all’ambiente. I prezzi
delle merci che essi prendono in considerazione non rivelano se
l’impresa che produce queste merci provochi tali danni. Le in-
formazioni al riguardo disponibili al consumatore al di fuori del
meccanismo del prezzo sono spesso inaffidabili e discordanti e
richiedono una certa quantità di tempo e di conoscenza per venirne
a capo. In questo modo, il consumatore che desidera limitare la
degradazione ambientale e promuovere condizioni di lavoro sicure
potrebbe fare acquisti favorendo proprio ciò che invece vuole evi-
tare. In questi casi ha senso dire che i consumatori sono alienati
rispetto alle merci che hanno acquistato, anche se queste merci
sono state progettate per loro (Smith, 1995).

232
La terza considerazione riguarda un’altra difficoltà che pro-
viene dai limiti della forma di merce. Il capitalismo possiede
certamente una sorprendente capacità di fondere differenti forme
di esperienza nel processo di mercificazione. La sessualità e i suoi
simboli sono messi in vendita ovunque, evocando in egual misura
desideri e ansie. Le opere d’arte diventano oggetti di speculazione.
L’attivismo politico è sostituito dall’acquisto di magliette o compact
disk che dichiarano il loro sostegno ad una causa. Lo scambio di
merci è in grado di assimilare anche la ribellione contro la società
di mercato; il surrealismo diviene soltanto un’altra tecnica tra le
tante impiegate per richiamare l’attenzione del consumatore ed il
punk fa esplodere una nuova moda nell’abbigliamento.
La mercificazione ha un costo. La vita degli uomini si è
impoverita quando la sessualità, l’esperienza estetica, l’attivismo
politico e la ribellione si sono ridotti alla forma di merce19. Questo
impoverimento non è rimosso dalla produzione per il fatto che le
merci vengano prodotte tenendo conto delle particolarità richieste
dai singoli consumatori o da piccoli gruppi di consumatori. L’im-
mersione in quelle merci continua a tenere fuori il consumatore
dalle possibilità offerte dalle esperienze non mercificabili. La produ-
zione snella, non meno delle altre varianti del capitalismo, conduce
all’abbandono dei desideri e dei bisogni del consumatore che non
assumono la forma di merce. In questo senso l’abisso tra il consu-
matore e le merci rimane, al di là del fatto che quelle merci siano
o meno progettate in vista dei desideri dei consumatori individuali.
Una quarta considerazione è relativa ai difensori della tesi se-
condo cui, nella produzione snella, il consumatore è il sole attorno
al quale ruota il sistema capitalistico. Se questo fosse vero, come
sarebbe possibile spiegare gli sforzi pervasivi delle imprese capitali-
ste volti a manipolare le inclinazioni psicologiche dei consumatori?

19
Questa affermazione riposa su di un’implicita antropologia filosofica;
essa presuppone una visione relativa alle condizioni di possibilità dello sviluppo
e dell’autorealizzazione umana. Non c’è spazio qui per sviluppare esplicitamente
tale antropologia. In questa direzione cfr. Geras (1983).

233
Affermazioni gonfiate, se non fraudolente, si introducono sempre
di più in tutti gli angoli della nostra quotidianità. Entrano nella
nostra casa attraverso la ripetizione di immagini e musica, sfuggen-
do al ragionamento conscio rivolgendosi direttamente ai desideri
subconsci. Le spese pubblicitarie negli Stati Uniti sono passate dai
61 miliardi di dollari del 1981 ai 130 miliardi di dollari e più del
1994 (Rank, 1994). Le persone negli Stati Uniti sono esposte oggi
a 3000 messaggi pubblicitari al giorno. Al momento del diploma,
i ragazzi statunitensi intorno ai diciotto anni hanno subito l’im-
posizione di 350.000 spot (Matsu, 1994). Questo è senz’altro il
più esteso e sofisticato sistema di propaganda che si sia mai visto
sulla faccia della terra20. Vengono escogitate continuamente nuove
tecnologie per la distribuzione dei messaggi pubblicitari e per la
verifica della loro efficacia: stampanti a colori istallate nelle case che
periodicamente stampano coupon o brossure; televisioni istallate
negli aeroporti e nei supermercati che trasmettono continuamente
spot pubblicitari; sensori, sensibili al calore, istallati nelle televisioni
di casa in grado di percepire quando un utente di una particolare
categoria demografica sta assistendo al messaggio pubblicitario.
Quelli che hanno il maggior potere manipolativo sono senza
dubbio i messaggi finalizzati ai giovani, che hanno meno conoscen-
za delle tecniche di persuasione (Kline, 1993). La produzione snella
intende rifornire il consumatore per tutto l’arco della sua vita – dalla
culla alla tomba – con un paniere di prodotti in continua crescita. I
messaggi pubblicitari finalizzati ai bambini svolgono un ruolo fon-
damentale nella loro integrazione nel millantato «destino comune».

20
È possibile considerare la pubblicità come un sistema pervasivo di ma-
nipolazione, senza necessariamente dover seguire Adorno e altri che affermano
che la pubblicità (ed altri artefatti della cultura industriale) avrebbe soppresso la
possibilità di un’azione autonoma. I destinatari della pubblicità non sono automi
passivi; sono spesso in grado di trovare la propria strada attraverso il labirinto di
immagini pubblicitarie, di costruire significati che non coincidono necessariamente
con quelli originali della pubblicità. Questo non diminuisce affatto la natura
manipolativa del sistema pubblicitario. Un tentativo di manipolazione non si
trasforma improvvisamente in qualcos’altro se fallisce o riesce solo in parte.

234
Malgrado tutti gli aspetti che abbiamo analizzato, non si
può negare che nella produzione snella i desideri dei consumatori
modellino direttamente i processi di produzione in un modo
qualitativamente nuovo. Nella produzione snella, parlare di «em-
powerment» del consumatore, di potenziamento delle sue capacità,
conduce tuttavia alle stesse difficoltà che abbiamo riscontrato a pro-
posito dell’empowerment del lavoratore. Vorrei sviluppare questo
punto cercando di far venire alla luce un’analogia tra la sussunzione
formale e la sussunzione reale nel rapporto tra capitale e lavoro
salariato e nel rapporto tra capitale e consumatore.
Il lavoro salariato è sussunto formalmente sotto il capitale
quando l’accordo contrattuale tra il capitale e il lavoro porta la
forza-lavoro sotto la supervisione del capitale nelle fabbriche. La
sussunzione reale del lavoro si ha nel momento in cui i rappresen-
tanti del capitale vanno al di là della mera supervisione e trasfor-
mano il processo lavorativo stesso in vista dei propri interessi. La
sussunzione reale del lavoro è abbastanza ovvia nel caso in cui gli
ordini vengano unilateralmente dall’alto, come nel fordismo. Nella
produzione snella le cose sono più subdole. La direzione mette in
moto l’intelligenza e la creatività della forza-lavoro, cercando di
oggettivare le conoscenze dei lavoratori in una forma appropriabile.
Una volta appropriate, queste conoscenze possono essere utilizzate
contro gli interessi dei lavoratori, come per esempio quando i sug-
gerimenti dei lavoratori portano alla velocizzazione del processo e
quindi a più alti livelli di stress. Per quanto differente possa essere
questa forma rispetto alla precedente, abbiamo comunque a che
fare con una sussunzione reale del lavoro sotto il capitale (Smith,
1994a, 1994b).
La distinzione tra sussunzione reale e formale può dimostrarsi
significativa anche all’interno del regno del consumo. I consumatori
possono essere visti come formalmente sussunti al capitale quando
sono semplicemente legati ad esso dal solo contratto d’acquisto.
Un processo di sussunzione reale si presenta nel momento in cui
i produttori e i distributori vanno al di là di questo e modellano
attivamente la domanda del consumatore. La sussunzione reale dei

235
consumatori è abbastanza ovvia laddove sia presente la manipola-
zione pubblicitaria di massa. Ma sono possibili forme ancora più
subdole di sussunzione reale nel regno del consumo.
Nella produzione snella le imprese cercano di mettere in atto
una sorta di autodefinizione dei bisogni dei consumatori. L’uso
della tecnologia informatica per seguire istantaneamente e in
modo continuo la risposta del consumatore può essere vista come
un’oggettivazione della soggettività e dell’auto-comprensione del
consumatore. Una volta che queste informazioni sono oggettivate,
produttori e distributori possono appropriarsene. Le tecnologie
informatiche permettono alle imprese di conoscere il nome e l’indi-
rizzo di ogni persona che compra un prodotto e di costruire archivi
storici relativi agli acquisti di ognuno21 (Hapoienu, 1990; Davis,
1989; McDonough, 1998). Una volta in possesso di queste infor-
mazioni, le si può utilizzare contro il consumatore – la fonte stessa
delle informazioni. Con questi dati si possono spedire messaggi in-
dividuali ad ogni singolo consumatore («micromarketing») (Mayer,
1990). I messaggi indirizzati ad una massa anonima sono meno
efficaci rispetto a quelli diretti personalmente a te; più cose uno co-
nosce su di te, più sei esposto alla manipolazione22. Questa è sicura-
mente una forma di sussunzione reale del consumatore al capitale23.

21
Attraverso le reti telematiche, le nostre vite diventano sempre più mediate
dalle trasmissioni digitali; in questo modo accumulare archivi di dati diventa
molto semplice.
22
Si può prevedere lo sviluppo futuro di questa tendenza: «Si supponga che le
preferenze di colore siano determinate geneticamente; le persone che preferiscono il
rosso potrebbero essere più predisposte a considerare nuovi stimoli, mentre le perso-
ne che preferiscono il blu sono più soggette alla persuasione attraverso messaggi in-
timidatori. Le risposte ad eventuali mail capaci di fornire informazioni relative alle
predilezioni cromatiche dei singoli destinatari permettono di individuare il codice
comunicativo necessario per quello stesso destinatario. Assunto che vengono scoper-
ti sempre più tratti comportamentali legati all’apparato genetico, i pubblicitari e i
venditori potranno costruire archivi genetici dei loro consumatori – così come oggi
costruiscono archivi demografici e psicologici individualizzati» (Schrage, 1993).
23
Questo ha anche una dimensione politica. I politici saranno in grado
di personalizzare una differente versione della loro agenda politica per ogni

236
Questo completa la prima metà della difesa della continua
rilevanza del secondo libro del Capitale nell’epoca della produzione
snella. Il prossimo obiettivo è quello di spostare la nostra attenzione
al circuito dell’accumulazione capitalistica e al posto che in essa
occupa l’attività del consumatore.

Il consumo e la riproduzione del circuito dell’accumulazione


capitalistica
Se escludiamo la porzione di plusvalore necessaria al con-
sumo del capitalista, la relazione tra capitale e consumatore
prende la forma del circuito nel quale i lavoratori salariati scam-
biano la propria forza-lavoro con denaro (L – D) e usano quel
denaro per acquistare merci per il loro consumo personale (D
– M). Nel secondo libro, Marx analizza come questo circui-
to del consumo (L – D – M) rimanga solo un momento del
processo generale di circolazione nel capitalismo, un momento
che sta all’interno di una serie di relazioni funzionali con il cir-
cuito di capitale. Il circuito del consumo dei lavoratori salariati
produce la merce forza-lavoro, che quando è venduta prende
la forma reificata di capitale variabile. L’atto del consumo non
permette assolutamente al lavoratore di sfuggire alla reificazione:
Il denaro, che il lavoratore riceve, viene da lui speso per con-
servare la sua forza-lavoro, cioè – considerate nel loro insieme
la classe dei capitalisti e la classe dei lavoratori – per conservare
al capitalista lo strumento per mezzo del quale soltanto egli può
restare capitalista (Capitale, II: 399)24.

elettore, basata su archivi contenenti le informazioni relative a ciò che ogni


elettore individuale ha guardato e comprato attraverso i sistemi informatici.
24
Si assuma che ci sono x lavoratori, ciascuno dei quali è pagato 100 Lst.
Come Marx scrive «con questo capitale di x X 100 Lst. la classe capitalistica compra
una certa massa di forza-lavoro, ossia paga salario ad un certo numero di lavoratori:
prima transazione. Con la stessa somma i lavoratori comprano dai capitalisti una
quantità di merci; con ciò nelle mani dei capitalisti rifluisce la somma di x X 100
sterline: seconda transazione. E ciò si ripete costantemente. La somma di x X
100 Lst. dunque non può mai mettere la classe operaia in grado di comprare la

237
L’acquisto di merci, la fase D – M del circuito L – D – M,
è, nello stesso tempo, la fase M’ – D’ del circuito del capitale di
un’impresa nella sezione II, quello dedicato alla produzione dei
mezzi di consumo (Capitale, II: 59 s., 309-310, 325 s., 406 s.).
In altre parole, l’acquisto di merce dei lavoratori salariati permette
alle unità di capitale della sezione II la realizzazione del plusvalore
e l’accumulazione di capitale. Con questo capitale possono rico-
minciare a investire in capitale variabile e, quindi, a continuare la
reificazione e lo sfruttamento dei loro lavoratori salariati.
Il capitale variabile investito nell’acquisto della forza-lavoro
è, in ultima istanza, fornito dall’attività dei lavoratori salariati
stessi: «Il denaro, che è qui anticipato al lavoratore, è solo forma
di equivalente trasformata di una parte di valore del valore-merce
da esso prodotto» (Capitale, II: 72). Ancora:
La continua compravendita della forza-lavoro quindi perpetua,
da un lato, la forza-lavoro come elemento del capitale, che
appare così come creatore di merci, di oggetti d’uso che hanno
un valore, inoltre la parte di capitale che acquista la forza-lavoro
viene così continuamente ricostruita per mezzo del prodotto di
questa, l’operaio stesso crea quindi continuamente il fondo di
capitale dal quale viene pagato (Capitale, II: 399).

Questi brani ci portano al cuore della posizione marxiana


secondo la quale l’accumulazione del capitale, e non la sovranità
del consumatore, è l’alpha e l’omega del modo di produzione
capitalistico. Volgendoci alla letteratura sulla produzione snella: ci
sono dei fenomeni concreti descritti che possono mettere in dubbio
questa parte della teoria generale del capitalismo di Marx? La rispo-
sta non può che essere no. Neanche il più fanatico difensore della
produzione snella ha mai osato affermare che, grazie alla spesa del
consumatore per le merci, qualcuno possa sfuggire alla propria posi-

parte del prodotto che rappresenta il capitale costante, per tacere della parte che
rappresenta il plusvalore della classe capitalistica. Con le x X 100 Lst. i lavoratori
possono comprare sempre soltanto una parte di valore del prodotto sociale, che è
uguale alla parte di valore che rappresenta il valore del capitale variabile anticipato.

238
zione di classe nel processo di accumulazione. Di fronte a questo ar-
gomento fondamentale i difensori della produzione snella tacciono.
Quanto più analiticamente si considera il modo in cui i rap-
porti del consumatore nella produzione snella sono determinati
dalle dinamiche di classe, tanto meno plausibile diventa l’affer-
mazione che il consumatore sarebbe il centro di questa versione
del capitalismo. Sotto la forma del capitale, soltanto quei bisogni
e quei desideri che hanno un sufficiente potere d’acquisto sono
socialmente riconosciuti. Ciò che conta non è la «domanda» per
sé, ma la domanda effettiva. Il primo e principale fattore che de-
termina il livello della domanda effettiva di un agente è il posto
che occupa nel circuito dell’accumulazione del capitale. Coloro
che controllano e che sono proprietari del capitale necessaria-
mente tendono a gioire degli alti livelli della domanda effettiva,
mentre le opportunità di consumo di coloro che non lo sono
tendono a divenire necessariamente più precarie. La produzione
snella non fa niente per ribaltare questo aspetto; si limita semmai
ad inasprire le differenze nelle opportunità di consumo dei due
lati del rapporto. Nella produzione snella c’è una quantità signi-
ficativa di disoccupazione involontaria25. Ci sono inoltre numeri
crescenti di lavoratori part-time o temporanei, specialmente nelle
ditte che sono in subappalto. La disoccupazione involontaria, il
lavoro part-time e temporaneo riducono significativamente il po-
tere d’acquisto di questi (potenziali) consumatori, restringendo le
loro possibilità di godere delle meraviglie della personalizzazione
di massa. La produzione snella è inoltre legata alla frammenta-

25
Kenney e Florida scrivono che in Giappone, dove il modello di produzione
snella è da più tempo attivo, «l’automatizzazione non è una minaccia immediata
alla domanda del consumatore di impiego a lungo termine» (Kenney e Florida,
1993: 317-8). In questo brano essi dimenticano improvvisamente ciò che, sotto
altri aspetti, conoscono molto bene: in Giappone, così come altrove, soltanto
una percentuale relativamente bassa della forza-lavoro gode di garanzie lavorative
nei sistemi di produzione snella. In queste società, la disoccupazione continua a
esistere come risultato dei cambiamenti tecnici, degli spostamenti della domanda,
delle opportunità di speculazione e delle crisi cicliche; la disoccupazione si sposta
verso le imprese più piccole, alla periferia delle imprese «centrali».

239
zione globale della forza-lavoro: il capitale cerca, con successo,
regioni in cui può ottenere alti livelli di produttività e salari bassi
(Shaiken, 1990). La risultante pressione sui salari reali determina
un ampliamento dell’abisso tra il consumatore e le merci, anche
per molti di quei fortunati che hanno un impiego full-time.
Dobbiamo concludere che l’affermazione che la produzione
snella darebbe inizio all’età dell’oro della sovranità del consumatore
risulta falsa. In essa, l’asimmetria nel potere economico tra le unità
di capitale e il consumatore è ancora più pronunciata. Parlare di so-
vranità del consumatore è una mistificazione del sistema economico
nel quale gli imperativi dell’accumulazione del capitale continuano
a subordinare tutte le altre questioni sociali. Detto questo, la teoria
marxiana in generale, e il secondo libro del Capitale in particolare,
rimangono il punto di partenza per qualsiasi serio tentativo di
comprendere il mondo sociale nel quale viviamo.

240
Fred Moseley
Lo sviluppo della teoria marxiana della distribuzione
del plusvalore

241
242
La teoria marxiana della produzione e della distribuzione del
plusvalore è basata su una premessa metodologica fondamentale
che non è stata sufficientemente analizzata: l’ammontare totale del
plusvalore è determinato precedentemente e indipendentemente dalla
divisione di esso in parti aliquote. Le parti aliquote del plusvalore
sono determinate ad uno stadio successivo di analisi, nel quale
l’ammontare totale del plusvalore è preso come una grandezza
data. Questa premessa è discussa per la prima volta da Marx nei
Lineamenti in relazione alla perequazione dei saggi di profitto nel-
le differenti branche della produzione. Nel secondo abbozzo del
Capitale, scritto nel 1861-63, parti del quale sono state pubblicate
in inglese soltanto recentemente, Marx prende le mosse da questa
premessa quando elabora la propria teoria della rendita, dell’inte-
resse e del profitto mercantile. Negli abbozzi rimanenti del Capi-
tale, questa premessa fondamentale è coerentemente ribadita ed
enfatizzata, specialmente nel terzo libro, nel quale la distribuzione
del plusvalore è l’argomento principale.
Marx esprime questo fondamentale assunto alla sua teoria,
relativa all’anteriore determinazione della quantità totale del plusva-
lore, nei termini della distinzione tra i differenti stadi di analisi del
«capitale in generale» e della «concorrenza» (o dei «molti capitali»).
Il capitale in generale si riferisce alle proprietà essenziali che tutti
i capitali hanno in comune. Il tratto più importante, comune a
tutti i capitali, è la loro capacità di auto-espandersi, ossia la loro
capacità di produrre plusvalore. Dunque, il problema principale
implicato nell’analisi del capitale in generale è la determinazione
della quantità totale del plusvalore prodotto nell’economia capita-
listica nel suo complesso. La concorrenza si riferisce alle relazioni

243
tra i capitali e, in particolare, alla distribuzione del plusvalore tra i
capitali: prima tra le differenti branche della produzione, poi nel-
l’ulteriore divisione del plusvalore in profitto industriale, profitto
mercantile, interesse e rendita.
Sfortunatamente, questa importante premessa alla teoria
marxiana è stata pressoché completamente elusa nella vasta let-
teratura sul tema, almeno in quella inglese. In particolare questa
premessa non è stata debitamente considerata nel lungo dibattito
sul cosiddetto «problema della trasformazione». La principale ec-
cezione a questa omissione è Rosdolsky (1977: 41-50 e 367-75),
il quale sottolinea che la spiegazione di Marx della perequazione
dei saggi di profitto tra le industrie nei Lineamenti è basata proprio
su questo principio (un’altra eccezione è Foley, 1986). Comunque,
la trattazione di Rosdolsky è ugualmente limitata: essa si riferisce
esclusivamente ai Lineamenti e alla teoria marxiana dell’uguaglianza
dei profitti e non ai successivi abbozzi del Capitale né alle altre
componenti del plusvalore.
In un saggio precedente (Moseley, 1993a), ho cercato di mo-
strare l’importanza di questa premessa metodologica per la teoria
dell’uguaglianza dei saggi di profitto e dei prezzi di produzione,
ossia per la soluzione marxiana al problema della trasformazione.
In particolare, ho spiegato che la diffusa interpretazione della
teoria di Marx nei termini di una teoria lineare della produzione,
che ho chiamato interpretazione «neoricardiana», è erronea perché
ignora la suddetta fondamentale premessa (ma anche per altre ra-
gioni1) ed è invece fondata su un presupposto diverso. Nella teoria

1
L’altra principale differenza tra la teoria lineare della produzione e quella
di Marx, e quindi l’altro principale errore nell’interpretazione neoricardiana, ha
a che fare con i dati fondamentali delle due teorie. Nella teoria lineare della
produzione, sono date le quantità fisiche delle condizioni tecniche di produzione
e del salario reale. Nella teoria di Marx sono date le somme di denaro che sono
investite come capitale, cioè il primo D nella «formula generale del capitale» di
Marx D-M-D’. Questa differenza è rilevante soprattutto in rapporto alla critica
neoricardiana secondo la quale Marx avrebbe fallito nel trasformare l’input di
capitale costante e variabile dai valori ai prezzi. Affermo, invece, che gli input
di capitale costante e variabile sono presi per dati in termini monetari e quindi

244
di Marx, il saggio di profitto è determinato al livello di astrazione
del capitale in generale come il rapporto tra l’ammontare com-
plessivo di plusvalore e il capitale totale investito nell’economia
capitalistica nel suo complesso. Questo saggio di profitto è poi
preso come dato nella determinazione dei prezzi di produzione.
Nell’interpretazione neoricardiana non c’è alcuna distinzione tra
il livello di astrazione del capitale in generale e la concorrenza.
Allo stesso modo non viene riconosciuta la determinazione an-
teriore del saggio di profitto nell’analisi dei prezzi di produzione.
Il saggio di profitto è invece determinato simultaneamente ai
prezzi di produzione. Da questa fondamentale incomprensione
segue che la principale critica mossa alla teoria di Marx da parte
dei neoricardiani – che la soluzione marxiana al «problema della
trasformazione» è logicamente incompleta ed incoerente – non
è valida. Se la teoria di Marx non è correttamente interpretata,
incluso questa premessa dell’anteriore determinazione dell’am-
montare complessivo del plusvalore e del saggio generale del
profitto, allora non c’è alcun errore logico nella sua soluzione del
«problema della trasformazione».
Lo scopo principale di questo saggio è quello di ampliare
il saggio menzionato, fornendo ulteriori rilevanti prove testuali
dell’importante premessa metodologica alla teoria marxiana della
produzione e della distribuzione del plusvalore. I differenti abbozzi
del Capitale saranno esaminati per mostrare la loro coerenza e con-
formità a questa premessa. Non sarà analizzata soltanto la teoria
dell’uguaglianza dei saggi di profitto, ma anche la teoria relativa alle
diverse componenti del plusvalore, dimostrando così la sua confor-
mità alla premessa fondamentale e la connessione logica tra questi
differenti aspetti della teoria della distribuzione del plusvalore. Lo
scotto dell’interpretazione sarà pagato da coloro – specialmente i
neoricardiani – che hanno per così tanto tempo ignorato questa
premessa fondamentale.

non necessitano di essere trasformati da valori in prezzi. Altri che hanno svolto
argomentazioni simili sono Carchedi (1984 e 1991) e Mattick (1981).

245
1. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica
1857-58
I Lineamenti si occupano quasi interamente dell’analisi del
capitale in generale. La distribuzione del plusvalore è trattata mar-
ginalmente. Il solo aspetto della distribuzione del plusvalore che è
analizzato, per quanto soltanto brevemente e di passaggio, è la pe-
requazione dei saggi di profitto nelle differenti branche della produ-
zione. L’affermazione più chiara della premessa dell’anteriore deter-
minazione dell’ammontare complessivo del plusvalore è la seguente:
Il plusvalore assoluto[…] non può mai attraverso questa operazione
[la perequazione dei saggi di profitto] né aumentare né diminuire;
non è esso, ma soltanto la sua distribuzione tra i diversi capitali
ad esserne modificata (Lineamenti, II: 476, corsivo mio).

Poche pagine dopo Marx commenta:


Il profitto dei capitalisti in quanto classe o il profitto del capitale
deve già esistere prima che possa essere distribuito, ed è somma-
mente assurdo voler spiegare la sua origine dalla distribuzione
(Lineamenti, II: 3782, corsivo mio).

Così, sebbene Marx lasci l’elaborazione della sua teoria della


perequazione dei saggi del profitto all’analisi successiva della con-
correnza, è già chiaro nei Lineamenti che questa teoria si sarebbe
basata sulla premessa di una determinazione del plusvalore com-
plessivo precedente alla sua distribuzione tra le differenti branche
della produzione.

2. I manoscritti del 1861-633


Nell’estate del 1861, Marx comincia a lavorare al secondo
abbozzo del Capitale. Egli continua ad occuparsi di questo ma-

2
Si veda anche Lineamenti, II: 48-59.
3
Michael Heinrich (1989) ha affermato che durante il lavoro sui manoscritti
del 1861-63, Marx incontra delle difficoltà nel mantenere la distinzione tra il
capitale in generale e la concorrenza e che, infine, abbandona questa distinzione.

246
noscritto durante i due anni seguenti, scrivendo moltissimo e
producendo ciò che sarebbe poi stato pubblicato in cinque volumi
(edizione Collected Works). I due terzi circa di questo manoscritto
sono stati precedentemente pubblicati in inglese come Teorie sul
plusvalore. L’intero manoscritto, incluse le parti precedentemente
non pubblicate, è recentemente apparso in lingua inglese nei volu-
mi 30-34 delle Marx-Engels Collected Works. Essi traducono alcuni
volumi dell’autorevole edizione tedesca Marx-Engels-Gesamtausgabe
apparsi fra il 1976 ed il 1982 (voll. II/3.1-6). La pubblicazione di
questo intero manoscritto è un evento importante per gli studi
marxiani: esso stabilisce, infatti, un collegamento essenziale tra
i Lineamenti e il Capitale e dovrebbe fornire la possibilità di ap-
profondimenti nella struttura logica e nel contenuto del Capitale,
simili forse a quelli resi possibili dalla pubblicazione della tradu-
zione inglese dei Lineamenti negli anni settanta. Esso dovrebbe
essere studiato attentamente da tutti coloro che intendono com-
prendere il Capitale di Marx. (Oakley, 1983, Capitolo 6, scritto
prima della pubblicazione dell’edizione completa in lingua inglese,
offre una breve e buona introduzione al manoscritto 1861-63).
Poiché Marx aveva già rimaneggiato e pubblicato ciò che in
seguito diverrà Per la critica dell’economia politica, il manoscritto
prende avvio con ciò che sarebbe poi diventato il quarto capitolo
del primo libro del Capitale («La trasformazione del denaro in capi-
tale»). Egli scrive degli abbozzi di quelle che in seguito diverranno
le sezioni 2-4 del primo libro, contenenti i capitoli fondamentali
della sua teoria del plusvalore, del plusvalore assoluto (la giornata
lavorativa) e del plusvalore relativo (cambiamento tecnologico).
Marx si interrompe, quindi, per lavorare alle Teorie sul plusvalore,
intese originariamente come rassegna critica dei tentativi compiuti
dagli economisti classici di spiegare l’origine e la determinazione
del plusvalore. Il piano originario di Marx sembra comprendere

In Moseley (1995) ho argomentato, invece, che Marx non incontra tali difficoltà
durante il lavoro sul manoscritto e che mantiene questa distinzione nella versione
finale del Capitale. Questo saggio fornisce ulteriori prove testuali a supporto della
mia critica a Heinrich.

247
questa rassegna critica delle teorie sul plusvalore, subito dopo la
propria teoria, all’interno dello stesso libro, così come aveva fatto
con le teorie del valore e del denaro in Per la critica.
Comunque, presto Marx va ben oltre l’intenzione originaria
di analizzare non solo la produzione, ma anche, contemporanea-
mente, la distribuzione del plusvalore; infatti, egli utilizza que-
st’ampia critica degli economisti classici per elaborare in modo
più dettagliato la propria teoria della distribuzione del plusvalore.
La discussione seguente si concentrerà su quelle parti delle Teorie
del Plusvalore e sulle parti rimanenti, precedentemente inedite in
lingua inglese, del Manoscritto 1861-63, parti che trattano della
distribuzione del plusvalore.
Marx comincia la sua rassegna critica delle teorie del plusvalore
degli economisti classici con la seguente «osservazione generale»:
Tutti gli economisti commettono l’errore di considerare il
plusvalore non semplicemente in quanto tale, ma nelle forme
particolari di profitto e rendita (Teorie, I: 6).

Quantitativamente questo significa che gli economisti classi-


ci condividono l’errore di non distinguere fra la determinazione
dell’ammontare complessivo di plusvalore e la distribuzione di
esso nelle forme specifiche del profitto, della rendita ecc. Così, fin
dall’inizio delle Teorie sul plusvalore, Marx ha chiaramente in testa
questa distinzione cruciale.
Marx, in seguito, scrive ciò che noi conosciamo come il Volume
1 delle Teorie sul plusvalore, dedicato soprattutto alla teoria del valore
e della distribuzione di Smith e ai concetti di lavoro produttivo e im-
produttivo. Poi il suo lavoro prende una piega sorprendente: invece di
considerare la teoria del plusvalore di Ricardo e i successivi economisti
ricardiani, come aveva originariamente progettato (Teorie, II: p. 655,
n.1), Marx prende in considerazione un’opera più recente, pubblicata
nel 1851 da Rodbertus, il quale aveva cercato di sviluppare una nuova
teoria della rendita seguendo la traccia di Ricardo, ma tentando di dare
una risposta al problema ricardiano della rendita assoluta (la teoria di
Ricardo non era in grado di spiegare come la terra meno fertile potesse

248
ricevere ugualmente una rendita). Questo argomento è fuori posto
nel Manoscritto sia cronologicamente che logicamente perché riguar-
da la rendita, una forma di distribuzione del plusvalore, piuttosto che
la produzione del plusvalore stesso. Marx designa come digressione
questa sezione del Manoscritto. Sembra che la ragione immediata
di questa svolta sorprendente sia principalmente di ordine pratico e
casuale. L’anno precedente Lassalle aveva prestato a Marx una copia
del libro di Rodbertus e, proprio in quel periodo, gli aveva scritto
chiedendone la restituzione (cfr. Teorie, II: p. 655, n.1). Quindi, ov-
viamente, Marx studia il libro di Rodbertus in questo lasso di tempo.
Il volume risulta essere più interessante di quanto Marx si
aspettasse e pare aver stimolato la sua riflessione sulla rendita e sulla
distribuzione del plusvalore in generale. Esso induce Marx a scri-
vere un esteso excursus teorico per gran parte dell’anno successivo,
durante il quale egli cominciò ad elaborare in modo dettagliato la
propria teoria della distribuzione del plusvalore, basata sulla pre-
messa dell’anteriore determinazione dell’ammontare complessivo
di plusvalore. Questo importante excursus sarà adesso esaminato
nei suoi particolari.

2.1 Rodbertus
All’inizio della sezione su Rodbertus, Marx sottolinea che la
teoria della rendita deve essere compresa in relazione alla perequa-
zione dei saggi di profitto nelle differenti branche di produzione.
Quindi egli abbozza, per la prima volta, i dettagli della sua teoria
della perequazione dei saggi di profitto e dei prezzi di produzione
(che qui Marx chiama «prezzi medi» o «prezzi di costo») (Teorie,
II: 14-19; 57-64). In questi schizzi Marx sottolinea che il saggio
generale di profitto, al quale tutti i saggi di profitto individuali
sono uniformati, è determinato dal rapporto dell’ammontare totale
di plusvalore diviso l’ammontare totale del capitale investito. Egli
suppone che l’ammontare totale del plusvalore sia determinato
da un’analisi precedente del capitale in generale. L’ammontare
totale di plusvalore è poi distribuito tra le differenti branche di

249
produzione attraverso la vendita delle merci ai prezzi medi che
differiscono dai loro valori e che sono in parte determinati da tale
saggio generale di profitto. In questo modo, ogni singolo capitale
è trattato come una «porzione del capitale complessivo» e riceve la
propria parte del plusvalore totale in relazione alla propria specifica
grandezza. I capitalisti «si dividono da fratelli nemici il bottino del
lavoro estraneo appropriato» (Teorie, II: 19). La grandezza totale
di questo bottino è già stata determinata dalla precedente analisi
del capitale in generale.
La rendita è quindi spiegata come un’ulteriore applicazione di
questa teoria del saggio generale di profitto e dei prezzi di produzio-
ne. Essa è una parte del plusvalore totale di cui i proprietari terrieri
possono appropriarsi grazie al monopolio della terra (e delle altre
risorse naturali), senza che esso sia distribuito fra tutti i capitalisti.
In questa teoria della rendita, l’ammontare totale del plusvalore è
ancora preso come una grandezza data, determinata dalla prece-
dente analisi del capitale in generale. Questo ammontare totale di
plusvalore è diviso fra il profitto e la rendita; la rendita non entra
nella perequazione dei saggi di profitto fra le industrie.
Questa proprietà [delle risorse naturali] è un mezzo per impedire
questo processo che si verifica nelle restanti sfere di produzione
capitalistica e per fermare in se stessa il plusvalore prodotto in
quella sfera particolare di produzione, cosicché esso si divide ora
fra il capitalista e il proprietario industriale (Teorie, II: 33).

Marx tratteggia anche la sua soluzione generale del problema


della rendita assoluta di Ricardo: la rendita sulla terra meno fertile
non è dovuta ad un prezzo di monopolio del prodotto agricolo
(cioè ad un prezzo più grande del valore del prodotto). Egli affer-
ma che la rendita assoluta in questo senso è possibile in quanto la
composizione del capitale nell’agricoltura potrebbe essere minore
della composizione media negli altri settori (e, infatti, era minore
in Inghilterra al tempo e tende ad essere minore in tutti i paesi
capitalisti). In questo caso, il valore dei beni agricoli è maggiore
del loro prezzo di produzione, quindi il prezzo effettivo dei beni
agricoli potrebbe crescere al di sopra del loro prezzo di produzione

250
senza necessariamente essere più grande del loro valore. Lo scarto
del prezzo effettivo sul prezzo di produzione è l’origine della rendita
assoluta sulla terra meno fertile. Ricardo e Rodbertus non sono
stati capaci di spiegare la possibilità della rendita assoluta in quanto
essi non hanno distinto tra il valore e il prezzo di produzione delle
merci. Subito dopo aver lavorato a questa sezione su Rodbertus,
Marx scrive un’importante lettera ad Engels nella quale riassume
le sue nuove acquisizioni teoriche. Originariamente egli aveva
progettato di trattare la rendita soltanto nel secondo libro sulla
proprietà terriera, come parte dei sei libri sull’economia politica
(Per la critica: 3). Egli adesso comprende chiaramente che la ren-
dita è un aspetto della distribuzione del plusvalore, intimamente
connesso con la perequazione dei saggi di profitto. Decide perciò
di inserire la discussione sulla rendita nel primo libro sul capitale,
nelle sezioni sulla concorrenza e sulla distribuzione del plusvalore.
La lettera ad Engels comincia così:
Ora mi propongo di collocare subito in questo volume, come un
capitolo inserito, la teoria della rendita, vale a dire come illustra-
zione d’una tesi già enunciata in precedenza (MEOC XLI: 296).

Marx, in seguito, presenta un rapido schizzo della teoria dei


prezzi di produzione (o «prezzi di costo») e della sua teoria della
rendita. Ancora una volta, l’ammontare totale del plusvalore e il
saggio generale di profitto sono presi come dati nella determi-
nazione dei «prezzi di costo» e nella divisione del plusvalore fra
profitto e rendita.

2.2 Ricardo
Uno dei principali risultati del confronto di Marx con Rod-
bertus è che sia quest’ultimo che Ricardo, seguendo Smith, fanno
l’errore di assumere che i prezzi di costo (o prezzi di produzione)
delle merci individuali siano uguali ai loro valori (cioè l’errore di
«identificare prezzi di costo e valori»); questo falso presupposto
li conduce alla loro erronea teoria della rendita. Perciò Marx in
seguito discute la «Teoria di Ricardo e di A. Smith sul prezzo di

251
costo». (Teorie, II: cap. 10). In questa sezione, Marx afferma che
Ricardo non era in grado di fornire una soddisfacente teoria dei
prezzi di costo perché non aveva seguito una logica adeguata alla
trattazione della produzione e della distribuzione del plusvalore.
Invece di determinare prima l’ammontare complessivo di plusvalore
e il saggio generale di profitto, e in seguito determinare i prezzi di
costo sulla base del saggio del profitto prima determinato, Ricardo
assume semplicemente un saggio di profitto dato (senza spiegare
questa determinazione) ed esamina la coerenza dell’assunzione del-
l’uniformità dei saggi di profitto con la determinazione dei prezzi
per mezzo del tempo di lavoro.
Questa importante critica metodologica merita una lunga
citazione:
Il metodo di Ricardo consiste in questo: egli parte dalla de-
terminazione della grandezza di valore della merce mediante il
tempo di lavoro e indaga poi se i restanti rapporti, le categorie
economiche, contraddicono questa determinazione del valore o in
qualche misura essi la modifichino. Si vede subito a prima vista
tanto la legittimità storica di questo modo di procedere, la sua
necessità scientifica nella storia dell’economia, ma in pari tempo
anche la sua insufficienza scientifica, insufficienza che non solo si
mostra nel modo della rappresentazione (formale), ma conduce
ad erronei risultati, perché salta dei termini medi necessari e cerca
di provare in modo immediato la congruenza delle categorie
economiche tra loro (Teorie, II: 167-8, corsivo mio).
Anziché presupporre questo saggio generale del profitto, Ricar-
do avrebbe dovuto piuttosto indagare fino a che punto la sua
esistenza corrisponda in genere alla determinazione dei valori
mediante il tempo di lavoro, ed egli avrebbe trovato che, anziché
corrispondervi, prima facie la contraddice e che quindi la sua
esistenza va sviluppata solo mediante una massa di termini medi,
sviluppo assai diverso dalla semplice sussunzione sotto la legge
dei valori. In tal modo egli avrebbe ricavato un giudizio del tutto
differente sulla natura del profitto e non l’avrebbe direttamente
identificato col plusvalore (Teorie, II: 178, corsivo mio).

Il più importante collegamento, «termine medio necessario»,


omesso da Ricardo è la determinazione anteriore dell’ammontare

252
complessivo del plusvalore e del saggio generale del profitto, che
è poi preso come dato nella seguente determinazione dei prezzi di
costo. Marx riassume la sua critica dell’inadeguatezza del metodo
logico di Ricardo nel seguente brano:
La perequazione dei plusvalori in different trades non muta niente
nella grandezza assoluta di questo plusvalore complessivo, ma muta
solo la sua ripartizione nelle different trades. La determinazione
stessa di questo plusvalore risulta però solo dalla determinazione del
valore mediante il tempo di lavoro. Senza di essa, il profitto medio
è media di niente, pura fancy. E allora potrebbe essere tanto
del 1000 quanto del 10 per cento. […] Si vede che, quando
gli si rimprovera un eccesso di astrazione, il rimprovero inverso
sarebbe quello legittimo; la mancanza di forza d’astrazione, l’in-
capacità di dimenticare nei valori delle merci i profitti, un fact che
gli si presenta dalla concorrenza (Teorie, II: 196, corsivo mio).

Nel prosieguo del manoscritto, dopo le sezioni dedicate alla


teoria della rendita di Ricardo, alla teoria della rendita di Smith e
alla teoria del plusvalore di Ricardo (che non contiene niente di
nuovo per il nostro scopo), Marx ritorna alla teoria del profitto
di Ricardo. Qui ancora un volta Marx sottolinea che una corretta
comprensione dell’uguaglianza dei saggi del profitto richiede il «il
termine medio» dell’anteriore determinazione dell’ammontare to-
tale del plusvalore. L’uguaglianza dei saggi di profitto è fraintesa se:
non è mediata, attraverso una serie di membri intermedi, con
le leggi generali sui valori ecc., in breve se profitto e plusva-
lore vengono identificati, il che è esatto solo per il capitale
complessivo. Perciò manca anche in Ricardo ogni modo di
giungere alla determinazione di un saggio generale di profitto
(Teorie, II: 467).

Inoltre, Marx sottolinea ancora che la determinazione anterio-


re del saggio generale del profitto si configura come rapporto fra
l’ammontare totale del plusvalore e il capitale complessivo:
Il saggio generale di profitto nasce per il fatto che l’intero plusvalore
prodotto viene calcolato sul capitale complessivo della società (classe
dei capitalisti); ogni capitale in ogni ramo di industria particolare

253
viene perciò rappresentato in quanto parte aliquota di un capitale
complessivo della stessa composizione organica […] In quanto
parte aliquota siffatta, esso deriva il suo dividendo in rapporto
alla sua grandezza dal plusvalore generato dalla somma del capitale
[…] Il plusvalore così ripartito costituisce il profitto medio ossia il
saggio generale di profitto, come esso entra nei costi di produzione
di ogni ramo di industria (Teorie, II: 475, corsivo mio).

2.3 Il reddito e le sue fonti


La successiva sezione del Manoscritto 1861-63 importante
per il nostro scopo è quella intitolata «Revenue and its sour-
ces. L’economia volgare» che è un primo abbozzo di ciò che in
seguito diverrà la settima sezione del terzo libro del Capitale.
Questa sezione include la prima estesa discussione marxiana
dell’interesse, un’altra forma della distribuzione del plusvalore,
oltre rendita e profitto. Marx afferma che l’interesse, come la
rendita, è una parte del plusvalore complessivo e che la quantità
totale del plusvalore è determinata prima della sua divisione in
profitto, rendita e interesse.
L’interesse non è quindi altro che una parte del profitto (che a
sua volta non è altro che plusvalore, lavoro non pagato), che il
capitalista industriale paga al proprietario di un capitale estraneo
di cui si serve, in tutto o in parte, per «lavorare». È una parte
del profitto – del plusvalore –, che, fissata come categoria a
sé, viene separata sotto un nome a sé dal profitto complessivo;
separazione, questa, che non si riferisce affatto alla sua origine,
ma soltanto al modo in cui esso è pagato o appropriato (Teorie,
III: 505, corsivo mio).

Inoltre Marx contrappone la sua premessa dell’anteriore


determinazione dell’ammontare totale del valore e del plusvalore
alla premessa, diametralmente opposta, degli economisti volgari
secondo la quale il plusvalore è determinato come la somma del
profitto più l’interesse più la rendita.
Il tutto viene però mistificato dalla forma autonoma raggiunta da
queste differenti parti del plusvalore [profitto, rendita e interes-

254
se], dalla diversità delle persone a cui affluiscono, dalla diversità
degli elementi su cui si fonda il loro titolo di proprietà, e infine
dall’autonomia con cui alcune di queste parti si contrappongono
al processo come condizioni. Da parti in cui si può scomporre il
valore, si trasformano in elementi autonomi che lo costituiscono
(Teorie, III: 546, corsivo mio).

Infine, Marx dedica ancora alcune pagine di questa sezione


alla discussione della relazione fra il capitale portatore di interesse,
il capitale mercantile (o commerciale) e il capitale industriale. Egli
afferma che il capitale portatore di interesse e il capitale mercantile
derivano dalla, e sono subordinati alla, forma del capitale industria-
le. In altre parole l’analisi del capitale portatore di interesse e del
capitale mercantile segue quella del capitale industriale e i redditi
ottenuti dal capitale portatore di interesse e dal capitale mercantile
sono parti dell’ammontare complessivo del plusvalore prodotto dal
capitale industriale (o più precisamente dal lavoro impiegato dal
capitale industriale). Marx ritorna, nella sezione successiva che sarà
discussa oltre, ad una più estesa analisi del capitale e del profitto
mercantile come una forma ulteriore della distribuzione dell’am-
montare complessivo del plusvalore.

2.4 Capitale mercantile


Veniamo adesso ad una parte importante del Manoscritto
1861-63 che soltanto recentemente è stato pubblicato in lingua
inglese nel volume 33 dei MECW. Come continuazione diretta
della sezione sulla «Revenue and its sources», nella quale il capitale
mercantile era brevemente discusso, due delle tre sezioni successive
presentano un’analisi più estesa del capitale mercantile e del profitto
che da esso deriva.
Il capitale mercantile è capitale che funziona soltanto nella sfera
della circolazione, cioè svolge soltanto le funzioni di pura compra-
vendita e le attività ad essa connesse. Poiché, secondo Marx, queste
funzioni sono di per sé «improduttive», cioè non produttive di va-
lore o plusvalore (cfr. Moseley, 1992, cap. 2, per una più approfon-

255
dita discussione del concetto marxiano del lavoro improduttivo), è
necessario analizzare come il capitale mercantile possa ottenere un
profitto, in quanto esso, come ogni altro capitale, deve ottenerne.
La breve risposta al problema, in questo manoscritto, è che il
capitale mercantile ottiene il proprio profitto deducendolo dal plu-
svalore prodotto dal capitale industriale. Come avveniva per le altre
forme di distribuzione del plusvalore già incontrate, l’ammontare
complessivo di plusvalore è determinato prima della deduzione del
profitto mercantile ed è considerato un dato nella sua analisi. Marx
abbozza brevemente il meccanismo generale attraverso il quale
avviene la deduzione del capitale mercantile dal plusvalore com-
plessivo – attraverso la differenza fra prezzo di compera e prezzo di
vendita del capitale mercantile. Questa differenza rende il capitale
mercantile capace di recuperare il suo costo e di ottenere il saggio
medio di profitto (ulteriori dettagli su questo meccanismo di prezzo
sono presenti nella quarta sezione del terzo libro del Capitale che
sarà discussa più avanti).

2.5 Capitale e profitto


Tra le due sezioni sul capitale mercantile appena discusse, si
trova una sezione intitolata «Terzo Capitolo. Capitale e profitto».
Coerentemente con il progetto marxiano presente nei Lineamenti,
la trattazione del capitale in generale doveva comprendere tre ca-
pitoli: 1) Il processo di produzione del capitale; 2) Il processo di
circolazione del capitale; e 3) Capitale e profitto. Marx decide, in
seguito alla sua lunga deviazione teorica rispetto al piano di esposi-
zione del primo capitolo – attraverso le Teorie del plusvalore e i vari
aspetti della distribuzione del plusvalore sopra discussi – , di scri-
vere un abbozzo del terzo capitolo (Marx inizia la stesura di questo
abbozzo in un quaderno separato sulla copertina del quale scrive
«Ultimum», suggerendo che doveva trattarsi più di una versione
definitiva che di un laboratorio teorico dei quaderni precedenti e
successivi. Cfr. MECW, 33: 506, nota 4). Come vedremo, questo
abbozzo rimane soprattutto al livello di astrazione del capitale in

256
generale, sebbene sia sfiorata la determinazione del saggio medio
di profitto, in quanto in diretto rapporto con l’oggetto di questo
capitolo. Un esame della decisione di scrivere l’abbozzo del terzo
capitolo serve ad analizzare la relazione tra questo capitolo e i
vari aspetti della distribuzione del plusvalore sui quali Marx stava
lavorando.
In questa stesura del terzo capitolo su «Capitale e profitto»,
la maggior parte dell’attenzione è dedicata alla caduta tendenzia-
le del saggio di profitto, che Marx definisce «la più importante
questione della sezione» (MECW, 33: 104-45). Il capitolo in-
clude anche una significativa disamina delle «due trasformazioni
del plusvalore in profitto» che è particolarmente rilevante per
l’oggetto della nostra analisi della distribuzione del plusvalore.
Nella prima trasformazione il plusvalore è trasformato in profit-
to, è cioè in relazione alla massa complessiva del capitale investito
e non soltanto alla massa del capitale variabile che, per Marx, è
l’origine del plusvalore. Come risultato di questa trasformazione,
l’origine del plusvalore è rimossa e quindi non riconosciuta dagli
agenti della produzione capitalistica. In questa prima trasformazio-
ne, la grandezza del plusvalore non cambia, essa è semplicemente
messa in relazione al capitale complessivo e non al solo capitale
variabile. Questa prima trasformazione diverrà alla fine l’oggetto
di analisi della prima sezione del terzo libro del Capitale («La tra-
sformazione del plusvalore in profitto e del saggio del plusvalore
in saggio di profitto»).
Il profitto – come prima trasformazione del plusvalore – ed
il saggio di profitto in questa prima trasformazione – esprime
il plusvalore in proporzione al capitale complessivo anticipato
del quale è il prodotto – considerando uguali tutte le parti del
capitale, e relazionandosi ad esso come una somma omogenea
di valore, senza alcun riguardo per la relazione organica nella
quale stanno le differenti parti di questo capitale nella creazione
di plusvalore (MECW, 33: 100).

Il profitto, quale ci appare qui, è dunque la stessa cosa che il


plusvalore, soltanto in forma mistificata, che per altro sorge

257
necessariamente nel modo capitalistico di produzione. Poiché
nella formazione del prezzo di costo – quale a noi appare – non
è dato di rilevare differenza alcuna tra capitale costante e capitale
variabile, l’origine della modificazione di valore che si verifica
durante il processo della produzione deve essere attribuito non
alla parte variabile del capitale ma al capitale complessivo (Ca-
pitale, III: 62-63).

Nella seconda trasformazione il profitto è trasformato in profitto


medio e viene perciò determinato il profitto medio. In questa se-
conda trasformazione, l’ammontare totale del profitto è distribuito
tra i vari capitali in modo tale che il profitto ottenuto da ciascun
capitale sia proporzionale alla grandezza del capitale complessivo
investito, invece che uguale all’ammontare del plusvalore effettiva-
mente prodotto da ogni capitale (o meglio dal lavoro impiegato da
ogni capitale). La redistribuzione del plusvalore è realizzata attra-
verso la formazione di un saggio medio di profitto, che è uguale al
profitto complessivo diviso il capitale totale; i prezzi di produzione
si basano su questo saggio medio di profitto. In questa seconda
trasformazione la massa di profitto ottenuta da ogni singolo capitale
cambia, rendendo ancora più oscura l’origine del plusvalore. Tale
trasformazione diverrà l’oggetto di analisi della seconda sezione del
terzo libro («La trasformazione del profitto in profitto medio»).
Sulla base della prima trasformazione, quindi, prende avvio la
seconda, che non riguarda soltanto la forma, ma anche la sostanza
stessa, andando ad innalzare la grandezza assoluta del profitto.
[…] Questa grandezza assoluta del profitto rimaneva intatta
attraverso la prima trasformazione (MECW: 33, 97).

Nella seconda trasformazione, Marx sottolinea ancora chiara-


mente che il saggio medio del profitto è determinato dal rapporto tra
l’ammontare complessivo del plusvalore e la massa totale di capitale.
Il profitto medio non può essere che la distribuzione di quel
profitto complessivo (e di quel plusvalore complessivo da esso
rappresentato o la rappresentazione del pluslavoro complessivo)
tra i capitali individuali in ogni sfera della produzione, in propor-
zioni uguali. […] Esso rappresenta quindi il risultato del calcolo

258
particolare nel quale i differenti capitali si dividono tra loro le
parti aliquote del profitto complessivo. Ciò che è a disposizione
della divisione è determinato soltanto dalla quantità assoluta del
profitto o del plusvalore complessivo (MECW: 33, 99, corsivo mio).

Il profitto medio sta in rapporto all’ammontare complessivo


del plusvalore, quindi al plusvalore realizzato da tutta la classe
capitalistica sul capitale complessivo, o sul capitale impiegato da
tutta la classe capitalistica […] – esso si riferisce al plusvalore
totale come profitto su quel capitale sociale, senza considerare
la relazione organica nella quale le componenti individuali di
quel capitale complessivo hanno partecipato direttamente alla
produzione di quel plusvalore complessivo (MECW: 33, 100).

Il saggio medio di profitto non è nient’altro che il plusvalore com-


plessivo calcolato su questo capitale complessivo (MECW: 33, 104).

Marx afferma anche che una più accurata analisi della deter-
minazione del saggio medio di profitto, e della conseguente distri-
buzione del plusvalore, «appartiene al capitolo sulla concorrenza»
(MECW: 33, 94 e 101). Quindi Marx, in questo periodo, stava
ancora pensando che questo terzo capitolo sul capitale e profitto
facesse parte dell’analisi del capitale in generale. Tuttavia, l’intima
relazione tra le «due trasformazioni» del plusvalore in profitto ri-
chiede almeno una disamina del saggio medio di profitto.

2.6 Profilo del terzo libro del Capitale


Come accennato sopra, dopo aver completato l’abbozzo di
«Capitale e profitto», Marx compie un’analisi del capitale mercan-
tile, da noi già esaminata nel paragrafo precedente 2.4. In seguito,
riprende la stesura delle Teorie sul Plusvalore, scrivendo i capitoli
conclusivi su Ramsay, Cherbuliez e Jones. In questi capitoli l’at-
tenzione di Marx è volta soprattutto alla distinzione, intravista da
questi autori, tra il capitale costante ed il capitale variabile e alla
caduta del saggio del profitto derivante da questa distinzione. Per
noi le parti più importanti di queste sezioni sono gli abbozzi di

259
ciò che in seguito diverrà il terzo libro del Capitale presentati da
Marx nella critica a Cherbuliez e Jones4. Questi abbozzi saranno
presentati nell’ordine inverso rispetto a quello in cui appaiono (cir-
ca 50 pagine a stampa ciascuno), poiché il secondo è più generale
del primo del quale è presupposto.
Il secondo abbozzo è relativo a ciò che Marx chiama la
terza sezione (invece che terzo capitolo) su «capitale e profitto»:
1. Trasformazione del plusvalore in profitto. La differenza tra il
saggio del profitto e il saggio di plusvalore
2. Trasformazione del profitto in profitto medio. Formazione
del saggio generale del profitto. Trasformazione dei valori in prezzi
di produzione.
3. Le teorie di A. Smith e Ricardo sul profitto e sui prezzi di
produzione.
4. La rendita fondiaria (Illustrazione della differenza tra valore
e prezzo di produzione).
5. La storia della cosiddetta legge ricardiana della rendita.
6. La legge della caduta del saggio del profitto. A. Smith, il
Ricardo, il Carey.
7. Teorie sul profitto.
8. Divisione del profitto in profitto industriale e interesse. Il
capitale mercantile. Il capitale-denaro.
9. Revenue and its sources. Qui bisogna inserire anche il
problema del rapporto tra processo di produzione e processo di
distribuzione.
10. Movimenti di riafflusso del denaro nel processo complessivo
della produzione capitalistica.
11. L’economia volgare
12. Conclusione. Capitale e lavoro salariato (Teorie, I: 446).

Il carattere più singolare di questo schema è che il contenuto


di «Capitale e profitto» è adesso molto più ampio rispetto a quello

4
Nelle Teorie sul plusvalore, questi abbozzi si trovano alla fine del primo
volume, in una posizione diversa rispetto alla loro effettiva collocazione nel
Manoscritto 1861-63. In questo modo sembra che queste parti siano state scritte
all’inizio della redazione del manoscritto e prima della lunga deviazione teorica
durante la quale Marx sviluppò dettagliatamente la sua teoria della distribuzione
del plusvalore che lo condusse, in seguito, alla scrittura di queste stesse parti.

260
presente nello schema di pochi mesi prima: esso non contiene più
alcuni aspetti del capitale in generale (la prima trasformazione
del plusvalore in profitto e la caduta del saggio di profitto), ma
include tutti gli aspetti della concorrenza o della distribuzione del
plusvalore sui quali Marx aveva lavorato l’anno precedente: il saggio
medio o generale di profitto e i prezzi di produzione, la rendita,
l’interesse, il profitto mercantile ed infine il reddito e le sue fonti.
Evidentemente il lavoro dell’anno precedente su questo oggetto
lo aveva convinto che certi elementi dovessero essere inclusi nella
terza «sezione» su «Capitale e profitto», piuttosto che attendere un
volume successivo sulla concorrenza (Oakley, 1983: 82-110, nota
anche l’allargamento del contenuto di «Capitale e profitto» agli
aspetti della concorrenza e della distribuzione del plusvalore, ac-
canto al capitale in generale). Possiamo rilevare che questo schema
è molto vicino alla versione finale del terzo libro del Capitale, che
Marx scriverà nei due anni seguenti (1864-65)5.
L’altro è uno schema più dettagliato del «secondo capitolo
della terza parte, su «Capitale e profitto», dove si tratta della
formazione del saggio generale del profitto» (Teorie I: 446) (si
noti che questo titolo presuppone lo schema più generale, ap-
pena analizzato, dell’intera «terza parte» su «capitale e profitto»):
1. Diversa composizione organica dei capitali […]
2. Le differenze nel rapporto di valore tra le parti dei diversi
capitali non derivano dalla composizione organica di questi […]
3. La diversità dei saggi di profitto nelle diverse sfere della pro-
duzione capitalistica, derivante da questa differenza […]
4. Per il capitale complessivo vale però ciò che è stato esposto nel
cap. I. Nella produzione capitalistica ciascun capitale è posto come una
parcella, come una parte aliquota del capitale complessivo. Formazione
del saggio generale del profitto (concorrenza).

5
La «Trasformazione del profitto in profitto medio», che più tardi diventerà
la seconda sezione del terzo libro, e che è un momento della distribuzione del
plusvalore, è discussa prima della «legge della caduta tendenziale del profitto»
che diventerà in seguito la terza sezione del terzo libro e che è un momento
del capitale in generale, a causa della relazione tra le «due trasformazioni del
plusvalore in profitto» analizzata nel paragrafo precedente.

261
5. Trasformazione dei valori in prezzi di produzione […]
6. Intorno al Ricardo deve inoltre essere inserito: l’influsso delle
oscillazioni generali del salario sul saggio generale del profitto e quindi
sui prezzi di produzione (Teorie, I: 446-447, corsivo mio).

Questo schema è molto vicino alla versione finale della se-


conda sezione del terzo libro: 1-3 saranno oggetto dell’analisi del
capitolo 8; 4-5 del capitolo 9; 6 del capitolo 11 (i capitoli 10 e 12
non sono presenti in questo schema). Si noti soprattutto il punto
4 che è un’importante glossa metodologica che supporta con forza
l’idea che guida il nostro saggio secondo la quale l’ammontare totale
del plusvalore è determinato anteriormente alla sua distribuzione
e non è influenzato da questa. Si noti inoltre il secondo giudizio
espresso nel punto 4 che rende limpida l’idea che il capitale in-
dividuale, di cui Marx parla spesso nel primo libro del Capitale
(cioè nella «produzione capitalistica») non è un effettivo capitale
individuale per sé, bensì una rappresentazione del capitale totale
(«è posto come una parcella, come una parte aliquota del capitale
complessivo»), mostrando così che l’oggetto del primo libro è il
capitale complessivo o il capitale in generale. Si noti infine che il
termine «concorrenza», inserito tra parentesi nel testo di Marx,
indica chiaramente che la teoria della perequazione dei saggi di
profitto e la teoria dei prezzi di produzione appartengono al livello
di astrazione della concorrenza.
Possiamo a questo punto affermare che l’anno di studio de-
dicato ai differenti aspetti della distribuzione del plusvalore porti,
in Marx, a una maggiore chiarezza sulla riflessione relativa a questi
argomenti e che lo induca ad includerli nella sezione «Capitale e
profitto», assieme agli aspetti del capitale in generale già inclusi.
Il successivo manoscritto, scritto da Marx nel 1864-65, è il primo
e solo completo abbozzo del terzo libro del Capitale, così come
noi oggi lo conosciamo. Evidentemente il lavoro compiuto nel
Manoscritto 1861-63 aveva chiarito il suo pensiero in modo tale da
permettergli la stesura di questo libro. Il fatto che il primo abbozzo,
certo non pronto per la pubblicazione, sia così chiaro e completo,
è un’ulteriore prova della comprensione raggiunta da Marx durante

262
il lavoro sul Manoscritto 1861-63. Volgiamo ora l’attenzione al
Manoscritto 1864-65 che compone il terzo libro.

3. Il terzo libro del Capitale


Come indicato dallo schema di Marx appena discusso, il terzo
libro del Capitale riguarda in prima battuta l’analisi della distribu-
zione del plusvalore nelle sue parti componenti – prima la perequa-
zione dei saggi di profitto tra le diverse branche della produzione,
poi la seguente divisione del plusvalore tra profitto mercantile,
interesse e rendita al livello di astrazione della concorrenza. Una
discussione dell’intero terzo libro esula dai compiti di questo saggio.
Sarà invece offerta una breve presentazione di ogni aspetto specifico
della distribuzione del plusvalore discusso nel terzo libro con due
obiettivi principali: 1) fornire un’ulteriore base alla tesi principale di
questo saggio – ovvero che l’ammontare complessivo del plusvalore
è preso come una grandezza determinata ex ante rispetto all’analisi
della distribuzione del plusvalore; e 2) esaminare più in dettaglio
la teoria marxiana della determinazione delle forme particolari di
plusvalore. La versione di queste teorie, presentata in questo abboz-
zo del terzo libro, è la definitiva e più completa datane da Marx.

3.1 Uniformità dei saggi di profitto e prezzi di produzione


(seconda sezione)6
La teoria marxiana dell’uniformità dei saggi di profitto e dei
prezzi di produzione presentata nel terzo libro può essere riassunta
come segue (si veda Moseley, 1993 per una discussione più appro-
fondita): prima di tutto, il saggio generale di profitto è determinato
attraverso il rapporto tra l’ammontare complessivo del plusvalore
prodotto (S) e il capitale totale (C) investito nell’economia capi-
talistica nel suo complesso. Espresso algebricamente:
(1) R = S/C

6
Tema trattato con particolare cura nel Capitolo 9

263
Come affermato più volte in precedenza, l’ammontare com-
plessivo del plusvalore (S) è determinato al precedente livello di
analisi, quello del capitale in generale, e viene preso come dato
nell’analisi della distribuzione del plusvalore. Anche l’ammontare
complessivo di capitale investito (C) è preso come dato, in quan-
to è la somma iniziale di denaro (D) nella «formula generale del
capitale» D-M-D’.
Essi [i prezzi di produzione] sono basati sul presupposto del-
l’esistenza di un saggio generale del profitto (Capitale, III: 198).
Il saggio generale del profitto è in realtà determinato: 1) dal
plusvalore che il capitale complessivo produce, 2) dal rapporto
tra questo plusvalore e il valore del capitale complessivo, e 3)
dalla concorrenza, ma solamente nella misura in cui questa è il
movimento per mezzo del quale i capitali investiti in partico-
lari sfere di produzione cercano di trarre da questo plusvalore
dividendi uguali, proporzionalmente alle loro grandezze relative
(Capitale, III: 435).

Successivamente il prezzo di produzione di ogni merce è de-


terminato conformemente alla seguente equazione:
(2) Pi = Ki + R Ci
dove Ki è il costo di produzione della merce (la somma del
capitale variabile e di quello costante spesi) (un flusso variabile) e
Ci è lo stock complessivo di capitale investito nella data industria.
Nella determinazione dei prezzi di produzione, il saggio generale
di profitto (R) è preso come dato, cioè come determinato dalla
precedente analisi del capitale in generale. Le grandezze dei capitali
individuali investiti e consumati in ogni industria (Ci e Ki) sono
anch’essi dei dati, in quanto somme di denaro con cui è iniziata
la circolazione del capitale per ogni industria, come il capitale
complessivo al livello di analisi del capitale in generale. I prezzi di
produzione sono quindi determinati aggiungendo il profitto medio
al costo di produzione di ogni merce, il profitto medio è determi-
nato come prodotto del saggio generale del profitto e del capitale

264
investito in ogni industria e il saggio generale del profitto attraverso
la precedente analisi del capitale in generale. In questo modo l’am-
montare complessivo del plusvalore è distribuito in modo tale che
tutte le industrie ricevano lo stesso saggio di profitto.
La formula in base alla quale il prezzo di produzione di una
merce è k + p, cioè uguale al prezzo di costo più il profitto, si è
ora più precisamente determinata in quanto p è eguale a kp’(p’
rappresenta il saggio generale di profitto), e per conseguenza il
prezzo di produzione è eguale a k+kp (Capitale, III: 206-7) [Marx
trascura qui la differenza tra lo stock e il flusso di capitale].

I prezzi di produzione derivano da un livellamento dei valori


delle merci. Tale livellamento, dopo aver restituito i rispettivi
valori-capitale consumati nelle diverse sfere di produzione, ri-
partisce il plusvalore complessivo, non nella proporzione in cui
esso è stato prodotto nelle diverse sfere di produzione […] ma
in rapporto alla grandezza del capitale in esse anticipato. […]
I capitali tendono costantemente a realizzare, per mezzo della
concorrenza, questo livellamento nella ripartizione del plusvalore
creato dal capitale complessivo (Capitale, III: 869).

Il profitto medio incluso nel prezzo di ogni merce (=R Ci) non
sarà uguale all’ammontare di plusvalore effettivamente contenuto
in quella merce: il prezzo di produzione di ogni merce quindi
non sarà generalmente uguale al suo valore, o proporzionale
alla quantità di tempo di lavoro richiesta alla sua produzione.
L’ammontare complessivo di plusvalore non è comunque alterato
dalla redistribuzione del plusvalore tra le differenti industrie:
prese tutte assieme, le divergenze dei profitti individuali dai
plusvalori individuali si bilanciano, in modo tale che la somma
dei profitti individuali è uguale all’ammontare complessivo del
plusvalore (S), così come è stato ottenuto nel primo libro at-
traverso l’analisi del capitale in generale (si veda Moseley 1993a
per una derivazione algebrica di questo risultato).
Il limite assoluto della parte di valore che costituisce il plusvalore
e che si risolve in profitto e rendita fondiaria, è quindi dato; esso
è determinato dalla eccedenza della parte non pagata della gior-
nata lavorativa su quella pagata, quindi dalla parte di valore del

265
prodotto complessivo in cui si attua questo pluslavoro. Se diamo,
come ho già fatto, a questo plusvalore determinato nei suoi limiti
e riferito al capitale complessivo anticipato, il nome di profitto,
questo profitto, considerato secondo la sua grandezza assoluta, è
uguale al plusvalore, quindi i suoi limiti sono determinati da leggi
così come i limiti del plusvalore. Ma l’ammontare del saggio del
profitto è del pari una grandezza contenuta in certi limiti, deter-
minati dal valore delle merci. Questo saggio è il rapporto tra il
plusvalore complessivo e il capitale complessivo sociale anticipato
alla produzione. Se questo capitale è 500 […] e il plusvalore 100,
il 20% costituisce il limite assoluto del saggio del profitto. La
distribuzione del profitto sociale in conformità a questo saggio
fra i capitali investiti nelle diverse sfere di produzione, crea prezzi
di produzione, che differiscono dai valori delle merci, e che sno i
prezzi medi di mercato effettivamente regolati. Questo scostamento,
tuttavia, non sopprime né la determinazione dei prezzi per mezzo
dei valori, né i limiti del profitto, regolati da leggi. […] Questa
aggiunta del 20% è essa stessa determinata dal plusvalore creato
dal capitale complessivo sociale e dal rapporto in cui il plusvalore
sta con il valore del capitale. È per questo motivo che l’aggiunta
è del 20% e non del 10 oppure del 100. La trasformazione dei
valori in prezzi di produzione non sopprime quindi i limiti del
profitto, ma modifica semplicemente la sua ripartizione fra i diversi
capitali particolari che compongono il capitale sociale (Capitale, III:
976-77, corsivo mio).

In un mio saggio precedente (Moseley, 1993a), ho risposto alla


diffusa critica neoricardiana che afferma che la teoria marxiana dei
prezzi di produzione è logicamente incompleta e incoerente. Uno
dei due punti principali della mia replica è che l’interpretazione
neoricardiana non riconosce la distinzione tra capitale in generale
e concorrenza e la determinazione anteriore del saggio generale di
profitto nell’analisi dei prezzi di produzione7. Se il metodo marxia-
no è seguito correttamente, compresa questa fondamentale premes-

7
L’altro elemento fondamentale della mia interpretazione è che nella teoria
di Marx non sono date le quantità fisiche delle condizioni tecniche e del salario
reale, come nell’interpretazione neoricardiana, bensì le quantità di denaro investite
come capitale, si veda la nota 1.

266
sa della determinazione anteriore del saggio di profitto, allora non
c’è alcun errore logico nella teoria dei prezzi di produzione.

3.2 Profitto commerciale (sezione quarta)8


Il capitale commerciale è ciò che, nel Manoscritto 1861-63,
Marx chiama capitale mercantile, cioè il capitale impegnato nelle
funzioni di compravendita (e nelle attività connesse). Come sopra
affermato, la sola caratteristica del capitale commerciale è che la sua
circolazione non produce valore o plusvalore. Quindi il problema
che si pone è come il capitale commerciale ottenga un profitto se
non produce plusvalore. Abbiamo già visto prima che la risposta
generale di Marx alla domanda è che il capitale commerciale ottiene
il proprio profitto deducendolo dal plusvalore prodotto dal capitale
industriale e che il meccanismo attraverso il quale ha luogo questa
deduzione di plusvalore è la differenza tra il prezzo «all’ingrosso»,
al quale il capitale commerciale compra le merci dal capitale in-
dustriale, e il prezzo di vendita «al dettaglio», al quale il capitale
commerciale vende tutte le merci ai consumatori. L’ammontare
complessivo di plusvalore è preso come dato e rimane lo stesso,
ma deve adesso essere spartito (allo stesso saggio di profitto) con
il capitale commerciale.
Poiché il capitale commerciale stesso non produce plusvalore alcu-
no, è chiaro che il plusvalore che ad esso è attribuito, sotto la forma di
profitto medio, costituisce una parte del plusvalore creato dal capitale
produttivo complessivo. La questione è ora questa: come il capitale
commerciale giunge ad impadronirsi della parte che gli spetta del
plusvalore o del profitto creato dal capitale produttivo. […] È
chiaro che il commerciante può prelevare il suo profitto unicamente
dal prezzo delle merci che egli ha venduto, ed è ancora più chiaro
che questo profitto che egli fa con la vendita delle sue merci deve
essere uguale alla differenza fra il suo prezzo di acquisto ed il suo
prezzo di vendita (Capitale, III: 340, corsivo mio).

8
Il tema è trattato con attenzione nel capitolo 17.

267
Come sono determinati il prezzo di compera e il prezzo di
vendita del capitale commerciale? Marx inizialmente considera il
semplice caso nel quale non ci sono costi addizionali di circolazione
oltre quelli necessari alla compera delle merci. Il saggio generale del
profitto (R’) è adesso determinato come il rapporto tra l’ammon-
tare complessivo del plusvalore, determinato precedentemente, e la
somma tra il capitale industriale (Cp) e il capitale commerciale (Cc)
(a differenza di prima quando il rapporto era con il solo capitale
industriale).
(3) R’ = S/(Cp + Cc) < R = S/C
Il saggio generale di profitto è quindi minore rispetto a quando
era assente il capitale commerciale.
Il prezzo «all’ingrosso» del capitale commerciale (WP) (o
il prezzo al quale vende il capitale industriale) è poi determinato
come segue (si considerino sia il capitale industriale complessivo e
il capitale commerciale complessivo piuttosto che i capitali indivi-
duali):
(4) WP = Kp + R’(Cp)
dove Kp è il costo di produzione (la somma del capitale co-
stante e variabile consumati).
Poiché R’<R, il profitto medio aggiunto ai costi di produzione
dal capitale industriale è minore rispetto alla situazione in cui il ca-
pitale commerciale è assente. In questo modo, il capitale industriale
si appropria una quota minore del plusvalore complessivo.
Ciò che rimane del plusvalore complessivo è poi ottenuto dal
capitale commerciale aggiungendo il profitto medio ai prezzi di com-
pera determinando i prezzi di vendita o prezzi «al dettaglio» (RP):
(5) RP = WP + R’(Cc)
Questo è dunque il modo in cui Marx spiega come il capitale
commerciale ottenga profitto pur non producendo plusvalore. Si
può semplicemente dimostrare perciò che la somma del profitto

268
industriale e del profitto commerciale determinati in questo modo
è uguale all’ammontare complessivo di plusvalore precedentemen-
te determinato e che il prezzo «al dettaglio» è uguale al prezzo
complessivo di tutte le merci nel caso precedente in cui il capitale
commerciale era assente. Marx presenta un esempio numerico di
questo metodo di determinazione a pp. 357-358 del terzo libro
(sviluppa un esempio simile in una lettera del 1868 a Engels, che
sarà discussa dopo nel paragrafo 5, cfr. MEOC, XLIII: 79-81).
Marx non presenta in tutti i suoi dettagli il caso più complesso
in cui vi sono costi addizionali di circolazione (Kc), ma i principi
generali appena discussi possono essere applicati con le seguenti
modifiche: 1) il saggio generale di profitto è ancora più basso in
quanto è adesso considerato un capitale commerciale ancora più
grande (Kc); 2) Kc è detratto dal prezzo «all’ingrosso» e aggiunto al
prezzo «al dettaglio». Le equazioni per la determinazione di questi
prezzi diventano:
(6) WP = Kp + R’(Cp) - Kc
(7) RP = WP + R’(Cp) + Kc
In questo modo, il capitale commerciale può sia recuperare i
costi addizionali di circolazione che ottenere il profitto medio dal
plusvalore prodotto dal capitale industriale. In questa analisi Marx
presuppone che l’ammontare totale di plusvalore sia determinato
anteriormente e non sia influenzato dalla sua divisione in profitto
industriale e profitto commerciale. Negli esempi di Marx, l’am-
montare totale di plusvalore è assunto come dato ed è di $ 1809.
Nel capitolo sesto del secondo libro del Capitale (I costi di
circolazione), Marx afferma che la «legge generale» per i costi di
circolazione è che essi sono recuperati dal plusvalore – preso come
un dato in questa analisi del profitto commerciale – prodotto dal
capitale produttivo.

9
Il segno del dollaro sostituisce il segno della sterlina utilizzato da Marx.

269
La legge generale è che tutti i costi di circolazione che scaturi-
scono solo dal mutamento di forma della merce non aggiungono
valore a quest’ultima. Sono puri e semplici costi per il realizzo
del valore o per la sua trasposizione da una forma nell’altra. Il
capitale sborsato in questi costi (compreso il lavoro da essi co-
mandato) appartiene ai faux frais della produzione capitalistica.
La sostituzione di essi deve avvenire mediante il plusprodotto e
costituisce, dal punto di vista dell’intera classe capitalistica, una
sottrazione di plusvalore (Capitale, II: 153, corsivo mio).

3.3 Interesse (sezione quinta)10


In conformità alla teoria marxiana dell’interesse, quest’ulti-
mo è semplicemente una parte dell’ammontare complessivo del
plusvalore che il capitale «in funzione» (il capitale industriale
o il capitale commerciale) deve pagare ai prestatori del capita-
le per l’uso del capitale. Ancora: l’ammontare complessivo di
plusvalore è determinato ex ante e preso come un dato e non
affetto da questa divisione in «profitto d’impresa» e interesse.
L’interesse […] è […] nient’altro che una parte del profitto, ossia del
plusvalore che il capitalista operante, industriale o commerciante, in
quanto impiega non il proprio capitale ma capitale preso a prestito
deve pagare al proprietario che gli ha prestato questo capitale (Capi-
tale, III: 439, Corsivo mio).
Quando si tratta di ripartire un tutto dato, come il profitto, fra due
persone, tale ripartizione dipende naturalmente in primo luogo dalla
grandezza del tutto da ripartire […] E le circostanze che determinano
la grandezza del profitto da ripartire, del prodotto-valore del lavoro non
pagato, differiscono considerevolmente da quelle che determinano la sua
ripartizione fra queste due categorie di capitalisti (Capitale, III: 427
corsivo mio).

Marx afferma che non esiste nessuna legge generale e sistema-


tica che determini il saggio d’interesse, così come avviene invece
con il saggio di profitto. Quindi non ci sono leggi generali che de-

10
Il tema è affrontato con particolare cura nei capitoli 22 e 23.

270
terminino la quota relativa del «profitto d’impresa» e dell’interesse
nell’ammontare complessivo del plusvalore. Il saggio d’interesse è
invece determinato dalla domanda e dall’offerta di capitale come
fondo di credito. Per il nostro scopo, il punto cruciale sta nel fatto
che il massimo saggio d’interesse è il saggio di profitto, che è de-
terminato in precedenza e indipendentemente dalla divisione del
plusvalore complessivo in «profitto d’impresa» e interesse.
Nella divisione in interesse e guadagno d’imprenditore, il profitto
medio stesso costituisce il limite per la somma di entrambi. Esso
fornisce la grandezza data di valore che essi possono dividere fra di
loro, e che è la sola che essi possono così ripartire. La proporzione
concreta secondo cui avviene questa divisione è qui casuale, ossia
unicamente determinata da rapporti di concorrenza (Capitale,
III: 979 corsivo mio).

3.4 Rendita (sezione sesta)11


Marx comincia l’analisi della rendita affermando con chiarezza
che essa non ha a che fare con una completa disamina della pro-
prietà terriera, ma soltanto con la rendita intesa come una forma
della distribuzione del plusvalore.
L’analisi della proprietà fondiaria nelle sue diverse forme storiche
esula dai limiti del presente lavoro. Ce ne occupiamo unica-
mente in quanto una parte del plusvalore prodotto dal capitale
finisce nelle mani del proprietario fondiario (Capitale, III: 713
corsivo mio).

Marx pone la questione della rendita differenziale, all’inizio


del capitolo 38, nel seguente modo, che indica chiaramente che
la rendita è analizzata in quanto parte del plusvalore complessivo,
che è determinato precedentemente e preso come dato.
Nell’analisi della rendita fondiaria, vogliamo dapprima partire
dall’ipotesi che i prodotti che fruttano una tale rendita, nel
caso dei quali una parte del plusvalore, quindi anche una parte

11
L’argomento è affrontato in modo approfondito nei capitoli 38 e 45.

271
del prezzo totale si risolve in rendita […] siano venduti ai loro
prezzi di produzione come tutte le altre merci .[…] Ci si do-
manda allora come in tale ipotesi si possa sviluppare una rendita
fondiaria, ossia come una parte del profitto possa convertirsi in
rendita fondiaria (Capitale, III: 741, corsivo mio).

Marx presuppone che l’agricoltura sia organizzata su base capi-


talistica, e che il capitale qui investito riceva lo stesso saggio medio
di profitto di quello investito in tutte le altre industrie. Tuttavia, il
settore agricolo è l’unico in cui i differenziali produttivi dei diversi
appezzamenti sono in parte dovuti all’ineguale fertilità naturale
della terra, che non può essere eliminata dalla concorrenza e dallo
spostamento di capitale. Il risultato di questo è che il prezzo di
produzione dei beni agricoli è determinato dalla quantità di lavoro
richiesta sulla terra meno fertile piuttosto che dalla quantità di
tempo di lavoro richiesta sulla terra di media fertilità. La maggiore
quantità di beni prodotti dalla stessa quantità di lavoro sulle terre
più fertili sarà venduta allo stesso prezzo dei beni prodotti sulla
terra meno fertile. I beni prodotti sulla terra più fertile conterranno
quindi un elevato «plusprofitto», cioè un profitto superiore al saggio
medio di profitto. Il plusprofitto si trasforma in rendita differenziale
che deve essere pagata ai proprietari terrieri in quanto proprietari
della terra e del monopolio dei benefici delle terre più fertili.
Nel capitolo 45, Marx spiega inoltre più dettagliatamente
la possibilità della rendita assoluta sulla terra meno fertile. Egli
afferma che la rendita assoluta (che si dà sebbene il prezzo dei
beni agricoli non sia più alto del loro valore) è possibile perché
la composizione del capitale nel settore agricolo può essere
minore della composizione media, in questo caso il valore dei
beni agricoli sarà più grande del loro prezzo di produzione. Il
prezzo effettivo dei beni agricoli può quindi crescere al di sopra
del loro prezzo di produzione senza necessariamente essere più
grande del loro valore, e questa eccedenza del prezzo effettivo
sul prezzo di produzione è l’origine della rendita assoluta sulla
terra meno fertile. Poiché la concorrenza tra i capitalisti tende
ad eliminare ogni saggio di profitto più alto di quello medio sul

272
capitale impiegato nel settore agricolo, il plusvalore eccedente che
proviene dall’agricoltura è fatto proprio dai proprietari terrieri
quale rendita assoluta. Ancora una volta è chiaro che la rendita
è una parte aliquota dell’ammontare complessivo del plusvalore
determinato anteriormente12.
In ogni caso questa rendita assoluta, che deriva dall’eccedenza
del valore sul prezzo di produzione, non è che una parte del
plusvalore agricolo, una trasformazione di questo plusvalore in
rendita, la sua appropriazione da parte del proprietario fondiario:
precisamente come la rendita differenziale deriva dalla trasfor-
mazione del plusprofitto in rendita, dalla sua appropriazione da
parte della proprietà fondiaria, a un prezzo di produzione che
agisce come regolatore generale (Capitale, III: 872).

3.5 I redditi e le loro fonti (sezione settima)13


La settima sezione – che non ha ricevuto la meritata attenzione
– è una sintesi della teoria marxiana della distribuzione del plusva-
lore presente nel terzo libro. L’attenzione è rivolta alla fondamentale
premessa che l’ammontare complessivo di plusvalore è determinato
precedentemente rispetto alla sua divisione in parti aliquote. Alcuni
passi, tra i molti simili nella settima sezione, comprendono:
Il profitto (guadagno d’imprenditore più interesse), e la rendita
non sono altro che forme particolari assunte da particolari parti
del plusvalore delle merci. La grandezza del plusvalore limita la
12
Si noti che la teoria di Marx non afferma che la rendita assoluta sia la
sola fonte della rendita sulla terra meno fertile. L’altra fonte possibile è la rendita
monopolistica, ossia la rendita che deriva dal prezzo dei beni agricoli più alto del
loro valore. La teoria di Marx, allora, non esige che la composizione del capitale
in agricoltura sia più bassa della media, e quindi essa rimane valida anche nel
caso che la composizione del capitale in agricoltura sia più alta della media. Le
ragioni per cui Marx distingue la rendita assoluta da quella monopolistica sono:
1) per distinguere se la fonte della rendita della terra meno fertile è il plusvalore
prodotto all’interno del settore agricolo o quello prodotto al di fuori; 2) perché
Ricardo aveva affermato che la rendita monopolistica era la sola fonte della rendita
sulla terra meno fertile. Come analizzato sopra, l’errore di Ricardo dipendeva
dalla mancata distinzione tra valore e prezzo di produzione.
13
Il tema è approfondito nei capitoli 49 e 50

273
somma delle parti in cui essi si può suddividere (Capitale, III:
947 corsivo mio).
La somma del profitto medio più la rendita fondiaria, non può mai
essere maggiore della grandezza di cui essi sono parti e che è data
già prima di questa suddivisione (Capitale, III: 948, corsivo mio).
La separazione e la suddivisione del valore aggiunto annualmente
ex novo dal lavoro apportato ex novo ai mezzi di produzione o
alla parte costante del capitale, nelle diverse forme di reddito:
salario, profitto e rendita, non modifica quindi minimamente i
limiti del valore stesso, la somma di valore che si ripartisce fra
queste diverse categorie; precisamente come un cambiamento nella
produzione reciproca di queste diverse parti non può cambiare
la loro somma, questa grandezza di valore data. […] Ciò che è
dato è quindi, innanzi tutto, la massa di valore delle merci, che si
scompone in salario profitto e rendita […] Il limite assoluto della
parte di valore che costituisce il plusvalore e che si risolve in profitto
e rendita fondiaria, è quindi dato; esso è determinato dalla eccedenza
della parte non pagata della giornata lavorativa su quella pagata,
quindi dalla parte di valore del prodotto complessivo in cui si
attua questo plusvalore (Capitale, III: 975-6 corsivo mio).

Inoltre, Marx mette a confronto la sua premessa con quella


fondamentalmente opposta degli economisti volgari, secondo la
quale le differenti forme di reddito – salario, profitto e rendita
– sono «fonti» indipendenti di valore, piuttosto che parti aliquo-
te dell’ammontare di plusvalore precedentemente determinato.
Marx chiama questa visione opposta «formula trinitaria» o le
«illusioni create dalla concorrenza».
Se quindi la parte del valore delle merci in cui è rappresentato
il lavoro aggiunto ex novo […] si scinde in diverse parti che,
sotto forma di redditi, assumono aspetti autonomi l’una rispetto
all’altra, ciò non significa affatto che il salario, il profitto e la
rendita fondiaria debbano ora essere considerati come elementi
costitutivi, la cui unione o somma costituirebbe la fonte del
prezzo regolatore delle merci stesse. […] In realtà il valore delle
merci è la grandezza data a priori, il valore complessivo di salario,
profitto e rendita, quale che sia la grandezza relativa di queste tre
parti costitutive. Nella concezione errata che abbiamo indicata, il

274
salario, il profitto e la rendita sono tre grandezze di valore auto-
nome, la cui grandezza complessiva produce, limita e determina la
grandezza del valore delle merci (Capitale, III: 979 corsivo mio).

4. Il primo libro del Capitale


La stesura finale del primo libro del Capitale, scritta nel
1866-67, offre una serie di anticipazioni sulla teoria marxiana
della distribuzione del plusvalore sviluppata nel terzo libro. Esse
forniscono una prova ulteriore del metodo marxiano dell’anteriore
determinazione del plusvalore complessivo e della seguente analisi
della distribuzione di questo nelle parti individuali. Le principali
si trovano: 1) nel secondo paragrafo del quarto capitolo, un’an-
ticipazione delle teorie marxiane relative al profitto mercantile e
all’interesse quali parti del plusvalore complessivo determinato ex
ante; 2) nel capitolo ottavo, la teoria della determinazione della
lunghezza della giornata lavorativa attraverso la lotta di classe tra
lavoratori e capitalisti; 3) nel capitolo nono un’anticipazione della
teoria marxiana dell’uniformità del saggio del profitto e dei prezzi
di produzione; 4) nel capitolo decimo il cambiamento tecnologico
come tendenza immanente del capitale in generale; e 5) nell’in-
troduzione alla settima sezione, un’anticipazione del terzo libro e
della teoria della distribuzione del plusvalore nelle sue parti. Per
limiti di spazio non sarà possibile discutere queste anticipazioni
dettagliatamente (si veda Moseley, 1995 per una discussione più ap-
profondita). Basti un esempio dall’introduzione alla settima parte:
Il capitalista che produce il plusvalore, cioè estrae direttamente
dagli operai lavoro non retribuito e lo fissa in merci, è sì il primo
ad appropriarsi questo plusvalore, ma non è affatto l’ultimo suo
proprietario. Deve in un secondo tempo spartirlo con capitalisti
che compiono altre funzioni nel complesso generale della produ-
zione sociale, con i proprietari fondiari, ecc. Quindi il plusvalore
si scinde in parti differenti. I suoi frammenti toccano a differenti
categorie di persone e vengono ad avere forme differenti, autonome
fra loro, come profitto, interesse, guadagno commerciale, rendita
fondiaria, ecc. Queste forme trasmutate del plusvalore potranno essere
trattate solo nel libro terzo (Capitale, I: 619-620 corsivo mio).

275
Il frazionarsi del plusvalore in parti differenti non ne cambia in nul-
la la natura, né cambia le condizioni necessarie affinché esso di-
venti elemento dell’accumulazione (Capitale, I: 620 Corsivo mio).

5. Lettere ad Engels, 1867-68


Un’ulteriore prova del metodo marxiano della determinazione
anteriore dell’ammontare complessivo di plusvalore è data da tre
importanti lettere scritte ad Engels tra il 1867 e il 1868, subito
dopo la pubblicazione della prima edizione del primo libro del
Capitale. Nell’agosto 1867 Marx scrive che uno dei due punti più
originali del suo libro è la determinazione dell’ammontare comples-
sivo di plusvalore prima dell’analisi delle sue forme particolari.
Il meglio del mio libro è: […] 2) la trattazione del plusvalore
indipendentemente dalle sue forme particolari quali il profitto,
l’interesse, la rendita fondiaria ecc. Questo si dimostrerà spe-
cialmente nel secondo volume. [L’allora piano di sviluppo del-
l’opera, poi modificato, prevedeva la pubblicazione di ciò che
conosciamo come secondo e terzo libro nel «Secondo Volume»].
La trattazione delle forme particolari nell’economia classica, che
questa di continuo mette in un sol fascio con la forma generale
è una gran confusione (MEOC, XLII: 357)14.

Marx ripete la stessa cosa in una lettera del gennaio 1868,


nella quale afferma che la sua trattazione del plusvalore è uno dei
«tre elementi del tutto nuovi» del suo libro:
1) che a differenza di ogni economia del passato, la quale consi-
dera come dati a priori i frammenti articolari del plusvalore con
le loro forme fisse di rendita, profitto, interesse, nel mio libro
viene trattata per prima cosa la forma generale del plusvalore,
in cui tutto questo si trova ancora indistinto, per così dire in
una soluzione (MEOC, XLIII: 13).

Infine, in un’importante lettera scritta nell’aprile 1868, Marx


delinea ad Engels i contenuti del terzo libro del Capitale. Alcuni
14
Questa dichiarazione è molto simile alla «Osservazione generale» all’inizio
delle Teorie sul plusvalore discussa precedentemente.

276
estratti di questa lettera indicano che l’oggetto principale del terzo
libro è la divisione del plusvalore nelle sue parti componenti:
Nel III libro arriviamo alla trasformazione del plusvalore nelle sue
diverse forme e nei suoi elementi costitutivi separati uno dall’altro.
I. Il profitto è per noi in un primo tempo solo un altro nome
o un’altra categoria del plusvalore. […]
II. […] La concorrenza crea un saggio medio di profitto o saggio
generale di profitto. Questo, ridotto alla sua espressione assoluta, non
può essere altro che il plusvalore prodotto dalla classe dei capitalisti
(annualmente) in proporzione al capitale anticipato nel suo volume
sociale. […] la massa di capitale appartenente a una sfera della
produzione, acciuffa una parte aliquota del plusvalore complessivo
nella proporzione in cui costituisce una parte del complessivo ca-
pitale sociale. […] Ma la determinazione dei prezzi delle merci
deve differenziarsi dai loro valori. […] Il prezzo così livellato
che ripartisce il plusvalore sociale in misura eguale fra le masse
di capitale, in proporzione alla loro grandezza, è il prezzo di
produzione delle merci […]
III. La tendenza alla diminuzione del saggio del profitto […]
IV. Finora si è trattato solo del capitale produttivo. Suben-
tra ora una modifica in base al capitale commerciale […]
V. […] Ora la scissione di questo profitto in utile dell’impresa e
interesse. […]
VI. Trasformazione del plusprofitto in rendita fondiaria.
VII. Siamo arrivati infine alle forme fenomeniche che servono di
punto di partenza all’economia volgare: la rendita fondiaria de-
rivante dalla terra, il profitto (interesse) del capitale, il salario
dal lavoro. Ma dal nostro punto di vista la cosa ora si presenta
diversamente. L’apparente movimento si spiega (MEOC, XLIII:
79-81).

Conclusioni
In questo saggio è stata presentata una mole considerevole di
passi a supporto della tesi che la teoria marxiana della distribuzione
del plusvalore è coerentemente basata, nelle varie stesure del Capi-
tale, sulla premessa fondamentale che l’ammontare complessivo del
plusvalore è determinato precedentemente ed indipendentemente
dalla divisione di esso in parti individuali. Marx diviene cosciente

277
di questa premessa elaborando la teoria delle differenti forme di
reddito nelle quali il plusvalore si divide.
Lo scotto di questa argomentazione sembra dover essere pa-
gata da coloro – specialmente i neo-ricardiani – che prima d’ora
hanno ignorato questa premessa fondamentale della teoria di
Marx, soprattutto nella loro interpretazione del «problema della
trasformazione». In un mio saggio precedente (Moseley, 1993a),
Ho mostrato che se la teoria di Marx è correttamente interpretata
tenendo conto di questa premessa, allora non c’è nessun errore
logico alla sua soluzione del «problema della trasformazione».
La replica dei neoricardiani deve mostrare come la loro inter-
pretazione della teoria di Marx, e in particolare del problema della
trasformazione, sia coerente con questa premessa fondamentale. Di-
versamente è possibile concludere soltanto che la loro critica della
teoria di Marx nei fatti non si applica alla teoria di Marx, per lo
meno non nei termini propri della sua logica, ma invece si applica
al loro fuorviante tentativo di interpretare la teoria marxiana nei
termini di una teoria lineare della produzione.

278
Roberto Fineschi
I quattro livelli di astrazione
del concetto marxiano di «capitale»

279
280
Introduzione
Marx iniziò l’elaborazione organica della propria teoria del
capitale negli anni cinquanta ed in particolare col Manoscritto
1857/58 (noto come Grundrisse). Autorevoli studi filologici hanno
mostrato come prima di quella data la sua analisi fosse ancora legata
a quella di Ricardo,1 o come solo trattasse problemi di «superficie»,2
ma senza giungere a una formulazione sistematica della materia.
Nel biennio indicato continuò il processo di ricerca ma parallela-
mente ad una prima esposizione3 con ampi tratti di organicità.
Scrivendo questo manoscritto Marx si chiarì progressivamente
le idee sulla struttura generale del «capitale», processo che tuttavia
non si concluse con i Grundrisse. Parti rilevanti della teoria furono
modificate e migliorate nel Manoscritto 1861/63, soprattutto per
quanto concerne le fondamentali categorie di valore di mercato e
prezzi di produzione,4 e nel Manoscritto 1863/65 dove abbiamo la

1
Cfr. �����������������������������������������������������������������
Tuchscheerer (1968): 222-245, Vygodskij (1965): 10-35 e (1975a),
Jahn/Nietzold (1978): 149-152; vedi anche Jahn/Noske (1979): 21-22.
2
Studiando principalmente teorie monetarie come la Currency Principle e la
Banking School. Vedi i nn. 8-9 della rivista Arbeitsblätter zur Mar-Engels-Forschung
Halle (Saale), 1979; vedi anche Jahn/Noske (1979) e (1983).
3
Marx parla nella postfazione alla seconda ed. tedesca del I libro del Capitale
di modo di esposizione distinguendolo dal modo di ricerca, riprendendo quasi
letteralmente quanto detto nell’Introduzione ai Grundrisse. Di cruciale importanza
è stabilire che cosa significhi «esposizione», «Darstellung»: essa non riguarda infatti
la mera retorica della presentazione di risultati dati, ma il modo in cui la teoria
stessa si sviluppa attraverso i suoi diversi livelli.
4
Cfr. Vygodskij (1965), p. 91, Jahn/Nietzold (1978), p. 158, Skambraks
(1978): 32-33 e M. Müller (1983): 9-13.

281
sola esposizione estesa del sistema del credito e del ruolo e della
funzione della banca. Il processo di sistemazione continuò tuttavia
anche nelle diverse edizioni del I libro del Capitale, dove si ha la
definitiva distinzione terminologica e concettuale fra valore, valore
d’uso e valore di scambio nell’ambito della teoria della merce.
D’altro canto, è generalmente accettato che il concetto di «ca-
pitale» sia connesso al concetto hegeliano di «spirito» o a quello di
«concetto»; importanti studi hanno cercato di dimostrare il legame
fra di essi, ponendo particolare attenzione su un paio di punti, che
hanno tracciato i binari della discussione successiva: i. il concetto
di valore nella circolazione semplice (a lungo erroneamente inter-
pretata come «produzione mercantile semplice»)5 e la sua relazione
con quello di capitale; ii. il concetto di «capitale in generale» ed il
suo rapporto con la concorrenza.6 In questo saggio ci si occuperà
della seconda questione.
Il celebre libro di Rosdolsky su quest’ultimo argomento è
stato generalmente accettato come ultima parola. Secondo la sua
ricostruzione, il «capitale in generale» – il concetto-chiave su cui
Marx insiste nel Manoscritto 1857/58 – costituiva solo una sorta di
espediente metodologico, utile nel momento della costruzione della
teoria – al fine di mostrare la centralità della produzione industriale
–, ma che bisognava abbandonare una volta che l’esposizione avesse
raggiunto livelli d’astrazione più bassi come concorrenza e credito;
queste ultime sarebbero state incluse nella parte generale per evitare
una doppia esposizione di essa una volta autonomamente ed una
volta insieme alle trattazioni particolari.
Questo tipo di interpretazione fu attaccato in Germania in due
importanti studi di M. Müller e W. Schwarz. Secondo entrambi il
concetto di capitale in generale non era stato affatto abbandonato,
ma semplicemente ridefinito perché era cambiato il suo rapporto

5
Cfr. Hecker (1995) e (1997), Reichelt (1969) e Backhaus (1974, 1975,
1978).
6
Per una ricostruzione del primo dibattito vedi Fineschi (2002), per una
ricostruzione del secondo verdi Fineschi 2001, appendice D.

282
con la concorrenza e con le altre parti più concrete della teoria.
Benché alcune categorie più concrete fossero state accolte nel
concetto di generalità, ciò non implicava che il concetto come
tale fosse stato abbandonato. Era piuttosto necessario dimostrare
il perché di quelle inclusioni. Senza poter entrare nel merito di
queste analisi, il mio punto di partenza è la tesi di Schwarz: dopo
il Manoscritto 1861/63 il concetto di capitale in generale, benché
non esplicitamente menzionato, continua a sussistere, si tratta
piuttosto di spiegare perché e come principalmente il concetto di
accumulazione fu incluso nell’ambito teorico della generalità.7
Una prima importante considerazione concerne la stessa
posizione del problema. Nel dibattito tradizionale si è discusso
in genere del rapporto fra capitale in generale e concorrenza. Ma
se osserviamo con attenzione gli schemi di Marx da cui questa
distinzione è estrapolata (vedi appendice) emerge che non ci sono
solo due livelli di astrazione. Secondo il piano più elaborato dei
Grundrisse – che poi è quello sostanzialmente seguito nella stesura
del manoscritto – vediamo che dopo la generalità ci sono altri
due livelli: la particolarità e la singolarità. È evidente che questa
articolazione è ispirata alla hegeliana dottrina del giudizio e del
sillogismo.8
Per analizzare le eventuali modifiche, si tratta innanzitutto
di vedere come tali categorie fossero definite inizialmente e come
poi venissero trasformandosi man mano che la teoria si sviluppa
ulteriormente.

7
Sull’argomento si veda Rosdolsky (1968): 34 ss., 76 ss., Vygodskij (1965):
133 ss., Reichelt (1970), p. 90, Jahn/Nietzold (1978): 166 ss.; Jahn/Marxhausen
(1978): 51 ff., e soprattutto M. Müller (1978): 62 ss. e Schwarz, 1974: 246 ss.
e 1978: 102 ss., 157, 175 ss., 241 ss., 273 ss.
8
Cfr. Enciclopedia § 163. Nella traduzione del termine «allgemein» con
«generale» – e talvolta del termine «einzeln» con «individuale» – va quasi com-
pletamente perso l’evidente riferimento a queste categorie. Il titolo di questo
saggio parla di quattro livelli di astrazione perché si tiene conto anche di una
sorta di «livello zero», quello della circolazione semplice, di cui tuttavia non ci si
occuperà esplicitamente in questo saggio. Sul rapporto Marx-Hegel mi permetto
di rimandare a Fineschi (2006).

283
Nel Manoscritto 1857/58, dopo due piani assai più generici [A]
e [B], il piano [C], il più organico, è articolato in tre parti: uni-
versalità, particolarità, singolarità. La prima inizia con l’origine del
capitale dal denaro e si conclude col rapporto fra capitale, profitto
ed interesse, passando attraverso la circolazione del capitale. La par-
ticolarità comincia con l’accumulazione, procede alla concorrenza
e finisce con la concentrazioni dei capitali. La singolarità è caratte-
rizzata dal credito, dal capitale azionario e dal mercato del denaro.
D’altro canto, il libro sul capitale non doveva essere che il
primo di sei. In una lettera a Lassalle [D], dove si parla del piano
dei sei libri, scrisse che il I libro sul Capitale conteneva dei «Vor-
chapters», capitoli preliminari. In un’altra lettera a Lassalle [E]
esplicitò che questi erano valore e denaro, presupposti del capitale
in generale. Prima dell’esposizione del capitale esiste quindi una
sorta di preliminare, la circolazione semplice di merci, chiamata
anche da Marx un presupposto che presuppone. In una lettera a
Engels [F], egli scrive a proposito dell’ulteriore divisione del libro
sul capitale e, pur non usando i termini particolarità e singolarità,
menziona esattamente gli argomenti che avrebbero dovuto essere
trattati in quelle sezioni, rispettivamente concorrenza, credito e
capitale azionario.
Iniziamo allora dal capitale in generale e dalla sua presunta
sparizione.

Generalità e particolarità del capitale


Il capitale in generale doveva essere parte del primo libro.9 Per la
critica dell’economia politica ed il Manoscritto 1861/63 furono scritte
come parti di esso, ma durante la stesura del secondo dei due testi
menzionai la categoria iniziò progressivamente a scomparire.
Nel Manoscritto 1857/58 Marx parla del capitale in generale
come della sua quintessenza, ciò che ogni capitale ha in comune.

9
Il libro sul capitale secondo il piano originario in sei libri (vedi [D] e la
Prefazione a Per la critica dell’economia politica).

284
Non abbiamo ancora capitali al plurale, nemmeno un capitale, ma
il concetto di esso prima che sia determinato in pluralità. I «molti»
capitali saranno affrontati quando la teoria nel suo autosvolgimento
raggiungerà la particolarità, ovvero la concorrenza, i molti capitali
in azione reciproca. Ma proprio questo punto, il rapporto fra gene-
ralità e particolarità sarà soggetto ai cambiamenti più importanti.
Ma vediamo prima di tutto l’articolazione nei Grundrisse:
• in [C], la «concorrenza» (particolarità) è posta nello stesso
contesto dell’accumulazione. Viceversa, nel Capitale la concorrenza
è esposta in un altro contesto, diverso da quello dell’accumulazione;
• in [C], l’accumulazione non viene solo dopo la circolazione
del capitale, ma addirittura dopo la trasformazione del capitale in
capitale e profitto;
• in [C], sia l’accumulazione che la concorrenza non vengono
solo dopo la trasformazione del capitale in capitale e profitto, ma
addirittura dopo la trasformazione del capitale in capitale e interesse.
• Nel Capitale la concorrenza si trova fra capitale/profitto ed
il capitale portatore d’interesse.
Vediamo come ciò si spieghi.
Ricalcando la divisione hegeliana del concetto, l’esposizione
inizia con le categorie più generali, con la quintessenza del capitale
che implica, nel prosieguo, la moltiplicazione in molti capitali, in cia-
scuno dei quali l’universalità si incarna. Vediamo le parole di Marx:
La terza forma del denaro, quale valore autonomo che si riferisce
negativamente alla circolazione, è il capitale; ma non il capitale
che uscendo dal processo di produzione, rientra nello scambio
per diventare denaro, bensì il capitale che nella forma di valore
che si riferisce a se stesso, diventa merce entra in circolazione.
(Capitale e interesse). Questa terza forma presuppone il capitale
nelle precedenti forme e rappresenta al tempo stesso il passaggio
dal capitale ai capitali particolari, ai capitali reali; giacché ora,
in quest’ultima forma, il capitale si scinde già, concettualmente
in due capitali con esistenza autonoma. Con la duplicità è poi
data in generale la pluralità. Tale è il corso di questo sviluppo
(Lineamenti, II: 67ss.; MEGA2 II/1.2: 359ss.)

285
Per adesso, l’accumulazione non sarebbe necessaria per porre il
capitale, verrebbe in seguito. Secondo questo piano, anche la ripro-
duzione verrebbe in seguito. Invece l’interesse può già essere esposto
e rappresenta il passaggio dal capitale ai capitali. Concorrenza e
molti capitali sono invece sullo stesso piano. Per adesso dunque
generalità coincide col singolo capitale «tipico» prima della pluralità
che sembra invece coincidere con la concorrenza. L’accumulazione
non è necessaria per porre10 il capitale, per raggiungere il rapporto
capitale/profitto. Questo tipo di impostazione è teoreticamente
consistente? Probabilmente no, è questo spingerà Marx ad appor-
tare dei cambiamenti migliorativi.
Vediamo come l’accumulazione diviene parte della generalità.
Già nell’indice del 1861 [H], nel capitolo IV del capitale
in generale, troviamo il titolo «accumulazione originaria» con
alcuni sottocapitoli. L’idea di dedicare un capitolo all’accumula-
zione prima che il capitale sia posto è qui chiaramente espressa,
anche se in una forma ibrida in cui non si distingue abbastanza
fra accumulazione originaria e quella propriamente capitalistica.
Abbiamo tuttavia una prima esposizione dei tratti essenziali
dell’accumulazione già nei Grundrisse proprio subito dopo quella
del plusvalore relativo; Marx considera gli effetti del reinvestimento
del plusvalore prodotto dal precedente processo di produzione.11
Una seconda occorrenza fuori programma la troviamo nell’espo-
sizione della circolazione dove egli distingue fra accumulazione
originaria e accumulazione propriamente capitalistica.12 Subito
prima Marx aveva abbozzato la legge della popolazione.13 Siamo

10
Che cosa significa «essere posto»? Affinché il capitale sia posto esso deve
produrre come proprio risultato i propri presupposti, ciò che all’inizio (logico)
non era posto da lui. Per essere «processo» il capitale deve riprodurre come
proprio risultato ciò che era un dato. Si tratta di stabilire se tale posizione dei
presupposti sia possibile senza l’Accumulazione.
11
Cfr. Lineamenti, I: 397ss.; MEGA2 II/1.1: 294ss.
12
Cfr. Lineamenti, II: 79ss.; MEGA2 II/1.2: 367ss.
13
Cfr. Lineamenti, II: 76ss.; MEGA2 II/1.2: 365ss.

286
evidentemente di fronte a categorie legate a ciò che nel Capitale
farà parte dell’esposizione dell’accumulazione. Che quella indicata
dovesse essere la posizione «giusta» del concetto di accumulazione
riemerge alla fine del Manoscritto 1861/6314 insieme alla questione
della riproduzione sociale complessiva e dei molti capitali. Eviden-
temente erano le necessità teoriche che lo portavano ad affrontare
in questi luoghi argomenti che secondo lo schizzo di piano men-
zionato sarebbero dovuti venire successivamente.
Vediamo però perché l’accumulazione sia necessaria a che il
capitale sia posto.
Se il capitale deve essere un processo che si autosviluppa, esso
ha bisogno di produrre i propri presupposti come un risultato. Per
far ciò deve sussumere il processo lavorativo per ottenere plusvalore
e, tendenzialmente, più ricchezza materiale. Esso sussiste, concet-
tualmente e di fatto, nella misura in cui ripete sempre di nuovo
il processo di valorizzazione e per farlo reimpiega ciò che è stato
precedentemente prodotto dal capitale. Quindi la riproduzione, che
di per sé è un concetto trans-storico ma che nel modo di produ-
zione capitalistico avviene nella forma sociale della valorizzazione
e dell’accumulazione capitalistica, è essenziale per il capitale che
senza di essa non è capitale. Il singolo processo di produzione è per
essenza un anello in una catena che presuppone – e che allo stesso
tempo è presupposto – della riproduzione di se stesso e di altri15.
Trattando dell’accumulazione, abbiamo introdotto gli «altri»
e quindi la questione della pluralità nell’ambito di essa. Vediamo
perché anche loro sono necessari.
1. Essenzialmente perché è la merce ad essere la «cellula eco-
nomica» del modo di produzione capitalistico, la forma assunta
in esso dal prodotto. La produzione di merci presume produttori
indipendenti ed autonomi (una pluralità di attori è perciò presente

Cfr. Manoscritto 1861/63, MEGA2, II/3.6: 2243ss.


14

Cfr. Capitale, I: 621; MEGA2, II/10: 506. Già in Manoscritto 1861/63,


15

MEGA II/3.6: 2243.


2

287
già dall’inizio, nel «livello zero»). Anche se assumiamo che essi
non siano capitalisti, lo diventeranno perché (i) il denaro è posto
adeguatamente solo se viene trasformato in capitale, (ii) il capitale
tende a crescere e ad espandersi a tutte la branche (proprio in
virtù della sua maggiore produttività). Se la produzione di merci
è generale, allora tutto è prodotto come merce, anche i mezzi di
produzione e la forza-lavoro16, il processo di produzione sarà allora
possibile, da un punto di vista in primo luogo logico, solo in con-
dizioni capitalistiche. Chi intende agire potrà farlo solo accettando
le regole di quel sistema.
Questa progressiva generalizzazione è suggerita da Marx nel
Manoscritto 1861/6317. Inoltre, la necessità di molti capitali prima
del profitto proprio al fine di porlo emerge chiaramente quan-
do Marx considera la circolazione del capitale come un intero.
Nella prima come nella seconda sezione si è però trattato sem-
pre soltanto di un capitale individuale, del movimento di una
parte autonomizzata del capitale sociale. Ma i cicli dei capitali
individuali si intrecciano gli uni con gli altri, si presuppongono
e condizionano reciprocamente, e appunto in questo intrecciarsi
formano il movimento del capitale sociale complessivo. Come
nella circolazione semplice delle merci la metamorfosi complessiva
di una merce appare come elemento della serie di metamorfosi
del mondo delle merci, così ora la metamorfosi del capitale
individuale appare come elemento della serie di metamorfosi
del capitale sociale (Capitale, II: 370; MEW, 24: 353).

2. Il fatto che l’intera produzione prenda forma in con-


dizioni capitalistiche non significa che essa sia realizzata da un
singolo capitale, al contrario è esattamente ciò ad essere im-
possibile. Grazie al punto 1 sappiamo che ciascun produttore
diventerà tendenzialmente un capitalista, non che ci sarà solo un
capitalista, perché la produzione è sempre produzione di merci.

16
Nel senso che ciò che ne rende possibile la sopravvivenza è prodotto
capitalisticamente. È questo un punto di contatto fra lo storico ed il biologico.
17
MEGA2 II/3.6: 2223.

288
L’impossibilità di un capitale universale è chiaramente espressa
da Marx nei Grundrisse:
Poiché il valore costituisce la base del capitale, e questo esiste
necessariamente solo in quanto attua uno scambio con un
equivalente, esso deve necessariamente procedere ad un movi-
mento di repulsione da se stesso. Un capitale universale che non
abbia di fronte a sé altri capitali con cui scambiare … è perciò
assurdo. La repulsione reciproca dei capitali è già implicita nel
capitale in quanto valore di scambio realizzato (Lineamenti II:
28; MEGA2 II/1.2, p. 334).

Scopriamo infine che i capitali, al plurale, erano presentati


sin dall’inizio perché una pluralità di agenti era un presupposto
implicito nel concetto di merce. Grazie al capitale abbiamo invece
una tendenza interna che trasforma ogni singolo produttore in un
capitalista.
Per avere capitale posto, cioè la trasformazione di capitale
in capitale e profitto, è dunque necessaria l’accumulazione di
un singolo capitale nella sua interazione con «altri» capitali (in-
cludendo quindi una prima analisi della loro interazione che
tenga conto anche della circolazione). L’intero processo dell’ac-
cumulazione dei molti capitali (la riproduzione sociale com-
plessiva) deve essere compresa nel concetto generale del capi-
tale prima della particolarità o concorrenza18. La riproduzione
sociale complessiva è l’ultimo anello prima della particolarità.

18
Diviene qui chiaro come si debba considerare l’eredità di Hegel in Marx.
All’inizio Marx segue schematicamente il modello hegeliano e cerca di derivare
la pluralità dei capitali dall’universalità rievocando esplicitamente la sua logica.
Questo è tuttavia un atteggiamento decisamente poco dialettico, la negazione
del metodo hegeliano. Mentre però costruisce il proprio modello, egli capisce
finalmente che la propria teoria potrà essere consistente solo se segue ed espone
la propria logica dialettica, non una logica esterna applicata ad essa. Questo sem-
bra essere l’errore principale di carattere metodologico, che molti studiosi vanno
ripetendo, cercare di applicare la logica di Hegel alla teoria marxiana del capitale,
invece di rispettare lo stesso metodo hegeliano, cioè di seguire la dialettica propria
del concetto di «capitale». Questa ripetizione scolastica di Hegel è proprio l’errore
che Marx imputa a Lassalle. Cfr. la lettera a Engels del 1 febbraio 1858.

289
Marx divenne conscio del carattere preliminare della ripro-
duzione sociale complessiva – cioè dell’accumulazione attraverso i
molto capitali – nel Manoscritto 1861/63. Lì scrive:
Qui inoltre va notato che noi dobbiamo esporre il processo di
circolazione o il processo di riproduzione prima di aver esposto il
capitale finito – capitale e profitto –, perché abbiamo da esporre
non solo come il capitale produce, ma come il capitale viene
prodotto. Il movimento reale, però, parte dal capitale esistente
– il movimento reale, vale a dire, quello in base alla produzione
capitalistica sviluppata, che comincia da se stessa, che presuppone
se stessa (Teorie, II: 561; Mega2, II/3.3: 1134).

È emerso che i molti capitali sono parte della generalità e


che ciò non solo non è contraddittorio, ma è necessario. Chiamo
allora Accumulazione I il processo del singolo capitale che ripro-
duce se stesso. Ma proprio nel far ciò viene fuori che esso deve
essere necessariamente in rapporto con «altri» (che alla fine, si è
visto, possono essere solo capitali). Ciascuno è un anello in una
catena; per porre propriamente l’accumulazione di un singolo è
necessario considerare le condizione dell’accumulazione di cia-
scuno di essi. Quali sono le condizioni astratte che consentono
alla società come intero di sopravvivere attraverso i singoli capi-
tali? La risposta a questa domanda è la teoria della riproduzione
sociale complessiva che possiamo chiamare Accumulazione II.
La differenza principale dal primo piano è che, pur avendo
i molti capitali, non abbiamo ancora concorrenza e particola-
rità. Infatti la ricerca non concerne l’analisi di ciascun capitale
che agisce indipendentemente e che cerca di far fuori gli altri
capitali; Marx cerca qui una risposta alla seguente domanda:
quali sono le condizioni materiali, in forma di valore, che
possano consentire alla società di sopravvivere? E di crescere?
Siamo dal punto di vista della totalità del capitale, non ancora
da quello dei singoli.

Qual è allora la differenza fra i due livelli di astrazione dopo


questo cambiamento? Il punto di vista della totalità e la coincidenza

290
di domanda e offerta, o di produzione e consumo, che valgono per
il primo ma non per il secondo.
Questa clausola di astrazione (domanda = consumo) è valida
nel I e nel II libro del Capitale, come Marx afferma chiaramente per
esempio nell’introduzione al capitolo sull’accumulazione e altrove.19
Essa è valida a partire dalla circolazione semplice e include anche
quella del capitale. La circolazione sin dall’inizio fu considerata parte
della generalità. È valida anche per la riproduzione sociale complessi-
va; anche se abbiamo scambio fra capitali e loro ricambio materiale,
ciò non significa che agiscano come particolari, infatti sono presi
in considerazione solo nella misura in cui sono parti molecolari del
capitale, ovvero dal punto di vista della sua totalità.
Proprio in virtù di questa clausola è possibile l’esposizione
dell’accumulazione del singolo capitale (accumulazione I) prima
del processo di circolazione, e della seconda parte dopo di esso
(accumulazione II). Nella realtà naturalmente non è possibile avere
accumulazione senza prima circolazione, ovvero senza vendere e
comprare in mezzo alla concorrenza dei capitali, ma qui si presume
che tutto faccia il proprio corso per studiare gli aspetti formali che
si hanno anche nel caso che tutto faccia il proprio corso. Vediamo
i cambiamenti in una ricostruzione schematica.

19
Cfr. Capitale, I: 621; MEGA2, II/10: 505, Capitale, II: 24 MEW, 24: 32.

291
Particolarità
Grazie al processo di accumulazione si ottiene:
1. ciò che era presupposto (la relazione capitale/lavoro, le pre-
condizioni materiali di produzione, ecc.) è adesso posto dal capitale
stesso, in modo tale che esso possa essere un processo;
2. essendo posto come capitale, l’esposizione delle categorie
è adesso la sua propria, queste sono aufgehoben, superate, ovvero
negate nella loro presunta particolare autonomia e conservate come
parte dell’intero che si autosviluppa. Questo secondo livello di
totalità (il primo era la circolazione semplice) è delineato secondo
una media ideale, il rapporto capitale/profitto dell’intera società,
non come particolarità, infatti la dinamica effettuale dei capitali
non viene ancora presa in considerazione. Benché l’attitudine sia
verso l’intero, l’intero già consiste di molti capitali. Adesso Marx
deve mettere insieme queste due dimensioni della teoria; l’intero
deve svilupparsi attraverso la dinamica dei capitali particolari che
cercano autonomamente di valorizzarsi. Perciò, è necessario abbon-
dare il livello di astrazione della media ideale posta per astrazione
e mostrare come essa sia invece un risultato posto dalla dinamica
effettuale dei molti capitali. Vediamo come.
Il plusvalore prodotto è risultato del processo capitalistico
di produzione nel suo complesso (produzione + circolazione).
Il frutto di esso, il plusvalore, si manifesta come risultato del-
l’intero e sembra dover essere misurato sul capitale anticipato e
non sul solo capitale variabile. Il plusvalore si trasforma quindi
in profitto ed il saggio del plusvalore in saggio del profitto. Era
questo nel piano originario il passo finale della generalità che poi,
grazie a un passaggio successivo – il capitale portatore di interesse
– procedeva alla particolarità. Adesso ci sono dei cambiamen-
ti. Prima dell’interesse, la teoria deve includere la media ideale
come risultato della concorrenza. Ma procediamo con ordine.
Possiamo adesso considerare ciascun capitale che agisce come
tale, cioè che mira al profitto individuale senza curarsi della valoriz-
zazione degli altri. Ciascuno realizza le leggi generali come agente

292
particolare fra i molti agenti particolari. Per adesso avevamo i molti,
ma essi erano considerati come momenti subordinati della dinamica
del capitale come un intero. Ora invece consideriamo la loro azione
particolare come «attuatori» della generalità. Ciò implica la caduta
della clausola di astrazione secondo cui si presumeva che produ-
zione e consumo coincidessero perfettamente. Nella particolarità,
Marx indaga come i capitali funzionano una volta che sono liberi di
muoversi in conformità non ad una media ideale stabilità a priori,
ma nel loro movimento reale, cioè nella concorrenza. Questo è il
contesto in cui il problema della trasformazione può essere corret-
tamente affrontato e risolto.
Marx parla di due generi di concorrenza: la prima all’interno di
una branca che produce un valore di mercato per tutti i prodotti fatti
e venduti; questo è un valore sociale e non corrisponde ai valori indi-
viduali (solo le merci prodotte dai capitali che adottato le tecniche di
produzione medie realizzano una grandezza di valore che corrisponde
al valore sociale). Il secondo tipo di concorrenza è fra le diverse bran-
che e determina il prezzo di produzione. Questo è una media delle
medie, cioè un prezzo di mercato particolare il cui profitto particolare
è allo stesso tempo socialmente necessario, quindi generale.
Per la prima volta Marx arriva a questo risultato nel Manoscrit-
to 1861/6320. L’argomentazione è ripresa nel Manoscritto 1863/65
nell’ambito dell’esposizione della concorrenza che dà i prezzi di
produzione come risultato e, infine, da Engels nel terzo libro del
Capitale21.
Quello che la concorrenza consegue, in primo luogo in una sfera di
produzione, è di produrre dai diversi valori individuali delle merci
un unico valore di mercato ed un unico prezzo di mercato. Ma la con-
correnza dei capitali nei diversi rami di produzione crea innanzitutto
il prezzo di produzione, che a sua volta livella i saggi del profitto fra le
diverse sfere di produzione.

Vedi anche il seguente passaggio:

20
Cfr. Teorie, II: 215: MEGA2, II/3.3: 854.
21
Cfr. Capitale, III: 223 (corr. RF); MEGA2, II/4.2: 255

293
Noi abbiamo detto che la concorrenza livella i saggi del profitto delle
diverse sfere di produzione al saggio medio del profitto, e trasforma
così i valori dei prodotti di queste diverse sfere in prezzi di produzione.
E questo processo si compie in virtù della incessante trasmigrazione
del capitale da una sfera all’altra, dove momentaneamente il profitto
è superiore alla media; si deve tuttavia tener conto delle oscillazioni
del profitto che si succedono in un medesimo ramo industriale entro
un’epoca determinata, e che sono collegate all’alternarsi degli anni
magri a quelli grassi. Questi ininterrotti spostamenti del capitale fra
le diverse sfere di produzione, danno origine a movimenti ascendenti
e discendenti del saggio del profitto, i quali tuttavia si compensano
reciprocamente in grado maggiore o minore, manifestando così la
tendenza a riportare ovunque il saggio del profitto al medesimo livel-
lo comune e generale (Capitale, III: 254; MEGA2, II/4.2: 278s.)22.

Perciò, questo livello medio di profitto – medio in riferimento al


capitale come intero – non è più un presupposto che poniamo come
clausola di astrazione; esso è adesso invece il risultato della dinamica
reale dei capitali particolari. Abbiamo adesso che un caso particolare è
incarnazione della media generale. La media sociale non è ovviamente
immodificabile una volta fissata; essa cambia esattamente seguendo i
due movimenti della concorrenza verso nuovi standard23.

22
Non è possibile affrontare il problema della trasformazione in questa
sede. Se tuttavia consideriamo che la teoria del valore del I capitolo è parte della
generalità, mentre il valore di mercato ed il prezzo di produzione sono parte
della particolarità, cioè che per determinare le grandezze di valore del secondo
caso è essenziale sia quello che si produce sia quello che effettivamente si vende,
a cambiare non è la soluzione del problema, ma proprio la sua impostazione.
Cercando di comparare prezzi e valori come due criteri differenti di misurazione
si arriverà sempre a contraddizioni. Si tratta invece di due diversi livelli di astra-
zione della stessa cosa. Si noti di passaggio che anche nella circolazione semplice
che cosa e quanto viene consumato sarebbe essenziale alla determinazione delle
grandezze di valore se non si assumesse che domanda ed offerta coincidono.
Anche in quel contesto, quindi, il punto non è che il consumo non è essenziale
alla determinazione delle grandezze di valore, si tratta piuttosto di prescindere
momentaneamente da tale questione per studiare altri aspetti.
23
Le grandezze di valore sono dunque poste, a questo livello, dagli standard
di produzione fissati dalla concorrenza. Dunque, in una certa misura, è pure
possibile misurare le grandezze di valore attraverso il tempo di lavoro una volta
che gli standards sono dati (e per un certo periodo essi sono dati). Questo implica

294
L’acquisizione fondamentale a cui eravamo interessati è co-
munque che la presupposta media sociale è adesso risultato del
processo reale dei capitali in concorrenza; le astratte grandezze
riferite all’intero sono adesso profitti concreti ottenuti da capitali
particolari operanti in una branca particolare. Si tratta di una media
soggetta a cambiamenti ma che sarà sostituita da una nuova media.
Questo risultato costituisce il passaggio verso la singolarità.24
Torniamo al capitale portatore di interesse.

Verso la singolarità
Nel Manoscritto 1861/63, dopo aver analizzato la caduta ten-
denziale del saggio del profitto, Marx affronta per la prima volta
alcune questioni concernenti l’ulteriore sviluppo della teoria, che

che le grandezze di valore non sono mai date ex ante (è questa è una critica
radicale della tradizione teoria del «valore-lavoro») perché il consumo è essenziale
alla fissazione delle grandezze di valore (non possiamo sapere prima degli scambi
quante e quali merci già prodotte saranno effettivamente consumate), ma ciò
implica pure che esse possano essere misurate dal tempo di lavoro nella misura
in cui gli standards durano. Nel lungo periodo, le grandezze di valore sono de-
terminate dal lavoro contenuto, ma la dinamica di fissazione delle grandezze di
lungo periodo è determinata a sua volta dalla reazione reciproca di produzione e
consumo che sono co-essenziali alla fissazione del risultato finale. Ciò non significa
che la grandezza di valore venga creata dalla circolazione, ma semplicemente che
la circolazione è essenziale alla fissazione di ciò che è effettualmente valore e di
ciò che è lavoro superfluo.
Il riferimento di Marx al concetto di «standard» nel manoscritto per il III
libro scompare nella versione a stampa di Engels: «Inoltre, se un produttore giunge
a fabbricare più a buon mercato e può quindi vendere meno caro degli altri ed
occupare un settore più ampio del mercato, vendendo al si sotto del prezzo cor-
rente di mercato o del valore di mercato, egli naturalmente lo fa: ha così inizio
quel processo per cui, uno dopo l’altro, i concorrenti sono costretti ad applicare
il sistema di produzione più economico ed il lavoro socialmente necessario viene
ridotto ad un nuovo standard (sott. RF)» (Capitale, III: 238 [corr. RF]; MEGA2,
II/4.2: 268). Engels invece scrive «ad una nuova misura ridotta».
24
Della particolarità fa parte anche la trattazione della caduta tendenziale
del saggio del profitto. Complessa la genesi e la funzione di questo capitolo; per
quanto concerne tuttavia il rapporto fra produzione e consumo, la tesi, che qui
non è possibile approfondire, è che nella terza parte del capitolo Marx schizzi
una teoria del ciclo.

295
in precedenza aveva toccato solo di passaggio. Si tratta di vedere
se esse corrispondano al concetto di singolarità schizzato nel ma-
noscritto 1857/58. I concetti che ricorrono costantemente sotto
questa categoria sono il credito ed il capitale azionario (talvolta
anche il mercato del denaro), a volte insieme a volte distinti in
punti diversi.
Ma vediamo innanzitutto la funzione del capitale portatore
di interesse. Nel Manoscritto 1857/58 esso costituiva il passaggio
dalla generalità alla particolarità. La generalità si concludeva con la
relazione capitale/profitto, D – D’, cioè con una quantità di denaro
aumentata rispetto a quella originariamente investita. Il processo
che dava quel risultato scompariva in esso, il generare denaro appare
come un fatto, ovvero la «cosa» denaro genera denaro come se ciò
fosse una sua peculiarità fisico-naturale. È questo il fondamento
del feticismo del capitale. Questa definizione generale resta sempre
valida, cambia solo la posizione strutturale della categoria.
Nel Manoscritto 1863/65, la categoria viene definita in questo
modo:
ma diversamente stanno le cose per il capitale produttivo di
interesse e proprio ciò costituisce il suo carattere specifico. Il
proprietario di denaro che vuole valorizzare il suo denaro come
capitale produttivo di interesse, lo aliena a un terzo, lo getta
nella circolazione, ne fa una merce in quanto capitale; non
unicamente come capitale per se stesso, ma anche per altri;
esso è solamente capitale per colui che lo aliena, ma a priori
viene ceduto al terzo come capitale, come valore che possiede
il valore d’uso di creare plusvalore, profitto (Capitale, III: 409;
MEGA2, II/4.2: 416).

Vediamo perché cambia la posizione. Abbiamo visto che la


generalità consisteva in una media ideale che doveva procedere alla
media reale posta. Il passaggio avviene grazie all’azione dei «molti»
capitali nella concorrenza che porta al profitto medio ed ai prezzi
di produzione. Per avere il capitale portatore di interesse come
momento posto del processo reale, la mera generalità non è allora
sufficiente. Infatti, affinché il capitale sia percepito come una cosa,

296
è necessario che gli attori del processo alla superficie della società
divengano consapevoli in qualche modo di questa «media»; l’esi-
stenza di un frutto medio del capitale come fatto naturale generato
dal capitale stesso a prescindere dal processo effettivo che lo pone è
possibile solo dopo che la concorrenza abbia posto la media ideale
come un fatto, come profitto medio sociale, qualcosa di dato alla
superficie della società.25
Col capitale portatore di interesse, generare profitto si manife-
sta come una qualità della cosa capitale/denaro: essere denaro im-
plica generarne. Ciò permette che il capitale sia prestato come una
merce il cui valore d’uso consiste proprio nel generare profitto come
se si potesse mettere da parte il processo reale di produzione che
consente la valorizzazione. Così il risultato del concetto generale di
capitale D – D’, diviene adesso una categoria economica realmente
operante alla superficie della società. Le conseguenze sono rilevanti:
Il movimento caratteristico del capitale in generale, il ritorno
del denaro al capitalista, il ritorno del capitale al suo punto di
partenza, assume nel capitale produttivo di interesse una figura
del tutto esteriore, distinta dal movimento reale di cui essa è la
forma […].
Il ritorno non si esprime dunque qui come conseguenza e come
risultato di una serie determinata di processi economici, ma come
conseguenza di una particolare stipulazione giuridica fra compra-
tori e venditori. Il tempo del ritorno dipende dal corso del pro-
cesso di riproduzione; per il capitale produttivo di interesse il suo
ritorno in quanto capitale sembra dipendere dal puro e semplice
accordo fra il prestatore e colui che prende a prestito. Di modo
che il riflusso del capitale, per quanto riguarda questa operazione,
non appare più come risultato determinato dal processo di produ-
zione, ma così, come se la forma del denaro non fosse mai andata
perduta per il capitale prestato. Senza dubbio queste operazioni
sono determinate in realtà dai loro riflussi reali. Ma ciò non appare
nella operazione stessa (Capitale, III: 414s.; II/4.2, 421].

25
Marx affronta per la prima volta la questione nel Manoscritto 1861/63
nella parte intitolata «Il reddito e le sue fonti». Il manoscritto è decisivo anche
per quanto concerne questo punto. Sul feticismo del capitale vedi il fondamentale
saggio Mazzone (1976).

297
Due punti sembrano decisivi:
1. la relazione con se stesso del capitale come mera quantità di
denaro, considerando il suo incremento quantitativo come una pro-
prietà dell’oggetto «capitale», porta la generalità della valorizzazione
ad essere concretamente individualizzata nel capitale portatore di
interesse; esso distingue così se stesso da tutti i processi concreti di
produzione, rappresentando concretamente la dimensione univer-
sale di fronte a tutti i processi particolari. Egli sta quindi di fronte
– esistente attualmente – a tutti i capitali come operanti la loro
essenza, rispetto alla quale essi sembrano modi particolari di realiz-
zazione. Il capitale in generale appare fenomenicamente di fronte ai
capitali particolari, come la loro forma di movimento dematerializ-
zata, come puro D – D’. Nel Manoscritto 1861/63 Marx afferma:
Ecco la forma puramente tangibile del valore che valorizza se
stesso o del denaro che crea denaro. In pari tempo la forma pura-
mente aconcettuale, l’incomprensibile, mistificata. Nello sviluppo
del capitale noi siamo partiti da D – M – D’, di cui D – D’
non era che il risultato. Ora troviamo D – D’ come soggetto… La
forma incomprensibile che incontriamo alla superficie e da cui,
perciò, siamo partiti nell’analisi, la ritroviamo come risultato del
processo in cui la figura del capitale diventa a poco a poco sem-
pre più estraniata e priva di relazione con la sua intima essenza.
Il denaro come la forma modificata della merce era ciò da cui
siamo partiti. Il denaro come la forma modificata del capitale è ciò
a cui perveniamo, esattamente come abbiamo riconosciuto che la
merce è il presupposto e il risultato del processo di produzione
del capitale (Teorie, III: 501; MEGA2, II/3.4: 1464).

La valorizzazione come proprietà intrinseca di una cosa – il


denaro – era il rompicapo da cui eravamo partiti, adesso è il risul-
tato del capitale come intero.
2. Questo è il fondamento del feticismo del capitale. Nella
circolazione semplice la cosa «denaro» sembra essere valore di per
sé, adesso è la cosa «capitale» che sembra generare valore di per sé.26

26
Cfr. le parole di Marx sono esplicite al proposito: «È nel capitale produt-
tivo di interesse che il rapporto capitalistico perviene alla sua forma più esteriore

298
Abbiamo quindi ottenuto l’esistenza del capitale in generale.
Ma ciò era già schizzato nel Manoscritto 1861/63:
Invece col capitale produttivo di interesse il feticcio è completo.
Questo è il capitale concluso – per cui è unità del processo di
produzione e del processo d circolazione – , e quindi in un
determinato periodo di tempo frutta un determinato profitto.
Nella forma del capitale produttivo di interesse resta quest’unica
determinazione, senza la mediazione del processo di produzione
e del processo di circolazione. Nel capitale e nel profitto per-
mane ancora il ricordo del loro passato, benché la diversità del
profitto dal plusvalore e il profitto uniforme di tutti i capitali
– il saggio generale del profitto – oscurino già molto il capitale,
ne facciano una cosa oscura e un mystère.
Nel capitale produttivo di interesse questo feticcio automatico
è completo, è il valore che valorizza se stesso, il denaro che fa
denaro, e in questa forma non porta più i segni della sua ori-
gine. Il rapporto sociale è completo come rapporto della cosa
(denaro, merce) con se stessa […]
Questo, intanto, è chiaro, che nel capitale + interesse, il capitale è
compiuto come fonte misteriosa che genera da se stessa l’interesse,
il proprio accrescimento. Anche per la rappresentazione, perciò,
il capitale assume specialmente questa forma. È il capitale par
excellence (Teorie, III: 488s.; MEGA2; II/3.4: 1454).

Il capitale portatore di interesse si manifesta come capitale par


excellence, capitale come tale che esiste di fronte al processo reale
di produzione, come se generasse profitto di suo, senza passare
attraverso di esso. L’interesse sarebbe ciò che ripaga la sua natu-
rale lucratività, mentre il profitto sarebbe il risultato dell’effettiva

e assume l’aspetto di un feticcio… Esso tuttavia si presenta pur sempre come


prodotto di un rapporto sociale, e non come prodotto di una semplice cosa»
(Capitale, III: 463; MEGA2, II/4.2: 461); «Ora la cosa (denaro, merce, valore),
come semplice cosa, è già capitale ed il capitale appare come semplice cosa; il
risultato del processo complessivo di riproduzione appare come una qualità che
la cosa ha di per se stessa» «il rapporto sociale è perfezionato come rapporto
di una cosa, del denaro, con se stessa. In luogo dell’effettiva trasformazione del
denaro in capitale non si ha qui che la sua forma priva di contenuto» (Capitale,
III: 464; MEGA2, II/4.2: 461s.).

299
applicazione materiale di quell’astratta universalità ad una branca
particolare.
Diverse volte in questo manoscritto Marx mette in eviden-
za la divisione fra il capitale portatore di interesse come capitale
in sé e le sue forme esistenti particolari come capitali operanti:
L’interesse è esplicitamente posto come offspring of capital, se-
parato, indipendente e estraneo al processo capitalistico stesso.
Spetta al capitale in quanto capitale […]
[…] Perciò l’eccedenza del profitto sull’interesse – la quantità
di plusvalore che il capitale deve unicamente al processo di
produzione, che produce unicamente come capitale in funzione
– ottiene, nei confronti dell’interesse come creazione di valore
inerente al capitale in sé, al capitale per sé, al capitale come capi-
tale, una figura particolare come profitto industriale (Teorie, III:
525; MEGA, II/3.4: 1490)

La separazione astratta fra dimensione reale del capitale come


processo produttivo e la sua dimensione ideale come incremento
di valore hanno adesso ottenuto una distinzione reale. Ciò implica
una duplicazione anche della figura del capitalista: da una parte
sia il possessore giuridico del capitale che lo presta, dall’altra l’im-
prenditore che lo impiega produttivamente27.
Alla fine della particolarità avevamo il profitto medio prodotto
da una branca particolare. Adesso quella valorizzazione media del
capitale esiste come universale incarnato in un particolare, di fronte
a tutti gli altri capitali particolari. L’universalità del capitale, presen-
te in ciascuno di essi, è adesso fisicamente incarnata in un singolo
capitale esistente accanto a loro. L’universale esiste effettualmente
come particolare ed è quindi singolare.

Singolarità
Abbiamo adesso il capitale in generale «esistente». Si trat-
ta adesso di vedere come funzioni l’intero della riproduzione

27
Cfr. Teorie, III: 492s.; MEGA2, II/3.4: 1457.

300
capitalistica una volta che si sia raggiunto questo livello di
astrazione finale.
Questa parte fu sviluppata da Marx quasi esclusivamente nel
Manoscritto 1863/65. Fino a pochi anni fa gli studiosi avevano a
disposizione solo l’edizione engelsiana di quel testo come III libro
del Capitale. Grazie alla nuova edizione storico critica (Marx-
Engels-Gesamtausgabe)28 nel 1992 è stato pubblicato l’originale. È
stata questa l’occasione per un ampio dibattito sul problema della
trasformazione. Quel testo è tuttavia molto utile per quanto con-
cerne la questione dei livelli di astrazione, in particolare per il più
concreto fra quelli di cui ci stiamo interessando: la singolarità.
Se guardiamo infatti l’indice di Marx e quello di Engels vedia-
mo immediatamente quando essi siano diversi. Soprattutto ciò che
Marx indicò essere il capitolo finale prima della rendita – Credito
e capitale fittizio – diviene un capitolo fra molti altri, un singolo
argomento accanto ad altri, non il titolo dell’ultima parte dell’espo-
sizione della teoria del capitale. Marx l’aveva divisa in tre parti
intitolate I, II: III, l’intervento di Engels portò invece alla creazione
di veri e propri capitoli per i quali inventò pure i titoli. Alcuni di
essi sono composti da passaggi tratti da una parte che Marx aveva
chiamato indicativamente «La confusione». Si trattava di una serie
di citazioni da vari autori che chiaramente non rappresentavano
una «esposizione» teorica (avevano addirittura un’impaginazione
autonoma). Engels li trasformò in «testo» accostando una citazione
all’altra e scrivendo delle parti integrative.
Quindi: il vero argomento della sezione diviene un capitolo
fra gli altri, tutti sullo stesso livello; alcuni di essi non esistevano
affatto, ma furono creati da Engels stesso. Evidentemente tornare al
manoscritto di Marx è in questo caso di particolare importanza.

Se ci atteniamo a ciò che nel manoscritto pare essere più vicino


ad una esposizione coerente, abbiamo un contesto generale intitola-
to «Credito e capitale fittizio» a sua volta articolato in tre passaggi:

28
Sulla MEGA2 vedi Mazzone (2002).

301
1) una parte dedicata ad uno schizzo del credito propria-
mente capitalistico: credito commerciale e credito bancario 29.
che nell’edizione di Engels diviene il capitolo 25 (comunque
modificato dall’inserimento nel testo principale di lunghe note);
2) una seconda parte dove Marx delinea le funzioni del cre-
dito nel modo di produzione capitalistico. Qui si ha una prima
esposizione del capitale azionario30. Nel testo a stampa questa parte
diviene il capitolo 27;
3) l’esposizione, divisa in tre punti, di questo livello di astrazione
come intero31. Nell’edizione di Engels questi saranno i capitoli 28-32.
Se confrontiamo questa articolazione con l’ipotesi dei quattro
livelli di astrazione, troviamo interessanti conferme. In primo luogo
abbiamo un capitolo 5 dove il capitale portatore di interesse costi-
tuisce il passaggio32 per procedere al credito ed al capitale fittizio.
Il credito come totalità costituisce l’ultima parte dell’esposizione
del capitale come tale dopo il quale segue la rendita. In secondo
luogo, le categorie fondamentali di credito e capitale fittizio sono
delineate come le forme più concrete di esistenza del capitale (si
può mostrare che il capitale fittizio corrisponde all’esposizione più
avanzata del capitale azionario).
Le linee generali della struttura della singolarità corrispondono
a quelle indicate nei piani precedenti.
Non è possibile procedere ad un’analisi dettagliata del funzio-
namento di questo livello di astrazione, mi limiterò ad indicarne
i tratti generali33.

29
Cfr. MEGA2, II/4.2: 468-475
30
Cfr. MEGA2, II/4.2: 502 ss.
31
Cfr. MEGA2, II/4.2: 506-561, 584-597.
32
Marx ribadisce in diversi passaggi che il credito costituisce lo svolgimento
proprio del capitale portatore di interesse: «Il capitale produttivo di interesse
riceve nel credito la forma peculiare della produzione capitalistica e ad essa
corrispondente. È una forma creata dal modo capitalistico di produzione stesso»
(Teorie, III: 554 [trad. corr.]; MEGA2, II/3.4: 1514). Cfr. anche Teorie, III: 503;
MEGA2, II/3.4: 1466).
33
Per un’analisi più approfondita vedi Fineschi (2001), cap. 8.

302
1) Nella prima parte della singolarità, Marx mostra come il
modo di produzione capitalistico sviluppato (logicamente prima
che storicamente) ri-formi categorie preesistenti ereditate, per es.
il credito della circolazione semplice34. La prima nuova categoria
è il credito bancario: la divisione capitalistica del lavoro implica
che la funzione legata alla gestione del denaro come tale venga
monopolizzata da un capitalista individuale: il banchiere 35. Se
consideriamo che la cosa «denaro» è già stata posta come capitale
– feticismo del capitale –, gestendo il denaro la banca controlla il
capitale portatore di interesse. Così, la banca è il rappresentante
fenomenicamente esistente del capitale in generale. Il capitale in
generale, che all’inizio era una mera astrazione, esiste adesso em-
piricamente come categoria nel capitale portatore di interesse e
opera grazie al capitalista universale, la banca36.
Il mercato del denaro è l’ulteriore sviluppo del credito bancario37.
2) Il secondo passo consiste nel mostrare (i) la genesi del capi-
tale azionario, (ii) la sua natura fittizia, (iii) le acquisizioni generali
34
Cfr. MEGA2, II/4.2: 469-475.
35
Cfr. Capitale, III: 377; MEGA2, II/4.2: 387.
36
Cfr. Capitale, III: 465; MEGA2, II/4.2: 463. Marx con ciò ottiene come
risultato ciò che nel Manoscritto 1857/58 era solo un’ipotesi di ricerca: «Ma
prima di procedere ancora un’osservazione. Il capitale in generale, a differenza
dei capitali particolari, si presenta senza dubbio 1) soltanto come un’astrazione;
non è un’astrazione arbitraria, bensì un’astrazione che coglie la differentia specifica
del capitale rispetto a tutte le altre forme di ricchezza o modi di sviluppo della
produzione (sociale). Si tratta di determinazioni che sono comuni a ogni capitale
in quanto tale o che fanno di qualsiasi forma determinata di valori un capitale.
E le differenze interne a questa astrazione sono anch’esse particolarità astratte
che caratterizzano ogni specie di capitale in quanto questo ne è la posizione o
negazione (per es. capitale fisso e capitale circolante); 2) ma il capitale in generale
a differenza dei particolari capitali reali è esso stesso un’esistenza reale […] Per
es. il capitale, in questa forma generale, sebbene appartenga ai singoli capitalisti,
nella sua forma elementare di capitale, costituisce il capitale che si accumula nella
banche o da esse viene distribuito, e […] si distribuisce in maniera così mera-
vigliosa in rapporto ai bisogni della produzione […] Mentre dunque l’elemento
generale per un verso è soltanto una differentia specifica di natura logica, nello
stesso tempo questa è una particolare forma reale accanto alla forma del particolare
e dell’individuale» (Lineamenti, II: 67s.; MEGA2, II/1.2: 359)
37
Cfr. Capitale, III: 436s.; MEGA
����2, �������������
II/4.2: 440s.

303
di questo livello di astrazione che in realtà solo spiegabili sono alla
luce del successivo punto 338.
3) Il terzo passo procede alla spiegazione di come il capitale, rag-
giunto questo livello di astrazione, funzioni come intero. L’esposizione
di quest’ultimo punto si articola in tre ulteriori passaggi. Il problema
di fondo è mostrare l’interconnessione fra il movimento del capitale
fittizio e quello del capitale reale. In primo luogo, per svelare la natura
generale del flusso di denaro, Marx mostra che capitale e circolazione
non sono concetti indipendenti. Confutando Tooke e Fullerton, egli
riporta il problema a quello delle diverse funzioni del denaro che può
esistere sia in forma di reddito che in forma di capitale39. In secondo
luogo, egli mostra l’origine concettuale del capitale azionario e la sua
connaturata tendenza a diventare fittizio. Così il mercato del denaro
si estende alla speculazione40. Ciascun capitale ha una duplice natura,
materiale e monetaria. Esse non si danno l’una senza l’altra, ma il capi-
tale portatore di interesse fa sì che questa separazione appaia possibile e
quindi il capitale si divida e le sue due anime agiscano come se fossero
indipendenti, ciascuna per proprio conto, rispettivamente nel mercato
finanziario e nella produzione materiale. Il capitale fittizio dipende dal
capitale reale, ma solo in maniera mediata e quindi solo in ultima istan-
za le grandezze di valore devono corrispondere. Nella misura un cui il
primo vive le sue esperienze fittizie, il suo valore può parventemente
cambiare al gioco di domanda e offerta. Ciò determina spostamenti di
ricchezza, ma non cambia la grandezza sociale nel suo complesso, qual-
cuno diventa più ricco, qualcuno più povero, ma la ricchezza sociale
resta la stessa. In terzo luogo, Marx cerca di delineare la relazione fra
accumulazione fittizia e accumulazione reale. Comincia con l’analisi
del credito prescindendo inizialmente dal credito commerciale, poi
considera il credito commerciale e bancario insieme, valutando le con-
seguenze sul saggio di interesse41. Procede quindi al rapporto fra cedole

38
Cfr. Capitale, III: 518s.; MEGA2, II/4.2: 502.
39
Cfr. Capitale, III: 526; MEGA2, II/4.2: 506.
40
Cfr. Capitale, III: 565; MEGA2, II/4.2: 536.
41
Capitale, III: 565; MEGA2, II/4.2: 536.

304
gonfiate e accumulazione reale42. Infine, l’unità di valore (divenuto
relativamente indipendente grazie al capitale fittizio) e valore d’uso
(il reale processo materiale di riproduzione), della forma astratta e di
quella concreta della ricchezza nel modo di produzione capitalistico si
riafferma violentemente attraverso la crisi43.

Conclusioni
Nel Manoscritto 1857/58, Marx schizza un piano del capitale
articolato in tre sezioni principali che, seguendo lo schema hege-
liano della dottrina del giudizio e del sillogismo, sono chiamate
universalità-particolarità-singolarità. Elaborando la teoria si hanno
tuttavia dei cambiamenti. Alcuni elementi che avrebbero dovuto far
parte della particolarità vengono spostati nell’universalità (la prima
fase dell’analisi del rapporto uno-molti capitali). Alcuni elementi
che avrebbero dovuto essere l’anello fra universalità e particolarità
divengono l’anello fra particolarità e singolarità (capitale portatore
di interesse). La triade come tale continua tuttavia a costituire l’os-
satura teorica dell’esposizione dialettica del concetto di capitale.
Se all’inizio Marx cercava di applicare lo schema hegeliano ad
una materia data per darle ordine, procedendo capisce che la teoria
del capitale vera e propria poteva essere elaborata solo seguendo
il modo peculiare in cui quelle astratte categorie si declinano nel
caso particolare. Seguendo la logica del capitale fu quindi possibile
giungere ad un impianto più coerente e teoreticamente consiste,
più dialettico di quanto fosse all’inizio.44

42
Cfr. Capitale, III: 574; MEGA2, II/4.2: 542.
43
Capitale, III: 569; MEGA2, II/4.2: 540 e Capitale, III: 605s.; MEGA2,
II/4.2: 594s.
44
Soprattutto nel dibattito tedesco autori come Reichelt e Backhaus hanno
sostenuto che un’esposizione dialettica vera e propria può essere trovata solo
nei Grundrisse e nell’Urtext (il testo preparatorio a Per la critica dell’economia
politica). In verità, pare che solo progressivamente Marx venga in chiaro sulla
struttura dialettica di tutta la teoria del capitale e non solo su quella della cir-
colazione semplice.

305
A. Introduzione al Manoscritto 1857/58 (pp. 36s.)

1) Le determinazioni generali astratte che come tali sono comuni


più o meno a tutte le forme di società…
2) Le categorie che costituiscono la struttura interna della società
borghese e su cui poggiano le classi fondamentali. Capitale,
lavoro salariato, proprietà fondiaria. Loro relazione reciproca.
Città e campagna. Le tre grandi classi sociali. Scambio tra di
esse. Circolazione. Credito (privato).
3) Sintesi della società borghese nella forma dello Stato. Considerata
in relazione a se stessa. Le classi “improduttive”. Imposte. Debito di
Stato. Credito pubblico. La popolazione. Le colonie. Emigrazione.
4) Rapporti internazionali della produzione. Divisione inter-
nazionale del lavoro. Scambio internazionale. Esportazioni e
importazioni. Corso del cambio.
5) Il mercato mondiale e la crisi.

B. Manoscritto 1857/58 (pp. 240s.)

I. 1) Concetto generale di capitale;


2) Particolarità del capitale: capitale circolante, capitale fisso
(capitale come mezzo di sussistenza, come materia prima,
come strumento di lavoro).
3) Capitale come denaro.

II. 1) Quantità del capitale. Accumulazione.


2) Il capitale misurato su se stesso. Profitto. Interesse. Valore del
capitale: ossia il capitale distinto da sé come capitale e profitto.
3) La circolazione dei capitali. a) Scambio del capitale col
capitale, Scambio del capitale col reddito. Capitale e prezzi.
b) Concorrenza dei capitali. c) Concentrazione dei capitali.

306
III. Il capitale come credito.

IV. Il capitale come capitale azionario.

V. Il capitale come mercato monetario.

VI. Il capitale come fonte della ricchezza. Il capitalista1.

C. Manoscritto 1857/58 (pp. 256s.)

Capitale

I. Generalità
1) a) Origine del capitale dal denaro
b) Capitale e lavoro (che si media attraverso il lavoro altrui)
c) Gli elementi del capitale, analizzato secondo il rapporto col
lavoro (prodotto, materia prima. Strumento di lavoro).
2) Particolarizzazione del capitale:
a) capitale circolante, capitale fisso. Circolazione del capitale
3) Singolarità del capitale: capitale e profitto. Capitale e interesse.
Il capitale come valore, distinto da se stesso in quanto interesse
e profitto.

1
Il piano continua con l’elencazione dei seguenti argomenti: «Dopo il ca-
pitale si dovrebbe trattare la proprietà fondiaria. Dopo questa il lavoro salariato.
Presupposti tutti e tre, si dovrebbe trattare del movimento dei prezzi, quale è
determinato dalla circolazione nella sua totalità interna. D’altra parte le tre classi
intese come la produzione nelle sue tre premesse e forme fondamentali della
circolazione. Poi lo Stato. (Stato e società borghese. – l’imposta o l’esistenza delle
classi improduttive. – Il debito pubblico. – La popolazione. – Lo stato nella sua
proiezione esterna: colonie. Commercio estero. Corso dei cambi. Denaro come
moneta internazionale. – Infine il mercato mondiale. Egemonia della società
borghese sullo Stato. Le crisi. Dissoluzione del modo di produzione capitalistico
e della forma di società fondati sul valore di scambio. Reale del porsi del lavoro
individuale come sociale e vice versa)».

307
II. Particolarità
1) Accumulazione dei capitali.
2) Concorrenza dei capitali.
3) Concentrazione dei capitali (differenza quantitativa del capi-
tale che è nello stesso tempo differenza qualitativa, in quanto
misura della sua grandezza e del suo effetto).

III. Singolarità
1) Il capitale come credito.
2) Il capitale come capitale azionario.
3) Il capitale come mercato monetario.
Il capitale come mercato monetario è posto nella sua totalità;
ivi esso è determinatore dei prezzi, datore di lavoro, regolatore
della produzione, in una parola: fonte di produzione

D. Lettera a Lassalle del 22 febbraio 1858


(MEW 29, pp. 550s.)

1) Il capitale (contiene alcuni capitali introduttivi2)


2) Rendita fondiaria
3) Lavoro salariato
4) Lo Stato
5) Mercato internazionale
6) Mercato mondiale

E. Lettera a Lassalle dell’11 marzo 1858 (MEW 29, p. 553ss.)

1) Il valore
2) Denaro
2
“Capitoli introduttivi” traduce “Vorchapters”, termine inventato da Marx
unendo la preposizione tedesca “vor”, che significa prima o davanti, e l’inglese
“chapter”, “capitolo”.

308
3) Il capitale in generale (processo di produzione di capitale,
processo di circolazione di capitale, unità si entrambi o capitale
e profitto, interesse).

F. Lettera ad Engels del 2 aprile 1858


(MEW 29, pp. 312ss.)

Suddivisione del libro I sul capitale:


a) Capitale in generale
b) La concorrenza, ossia l’azione reciproca dei molti capitali.
c) Credito, dove, di fronte ai singoli capitali, il capitale figura
come elemento universale.
d) Il capitale azionario, come la forma più perfetta (che trapassa
nel comunismo), insieme a tutte le sue contraddizioni.

G. Indice dell’Urtext

I) Valore

II) Denaro

III) Il capitale in generale


Passaggio dal denaro al capitale
1) Processo di produzione del capitale
a) Scambio del capitale con la capacità di lavorare
b) Il plusvalore assoluto
c) Il plusvalore relativo
d) L’accumulazione originaria (presupposto del rapporto di
capitale e lavoro salariato)
e) Rovesciamento della legge di appropriazione
2) Il processo di circolazione del capitale
(interrotto)

309
H. Indice del 1859 (o 1861)
(riprodotto nel Manoscritto 1857/58, pp. 661 ss.)

I. Il processo di produzione del capitale


1) Trasformazione del denaro in capitale
a) Passaggio
b) Scambio tra capitale e forza-lavoro
c) Il processo di lavoro
d) Il processo di valorizzazione
2) Il plusvalore assoluto
Tempo di lavoro assoluto e tempo di lavoro necessario
Pluslavoro. Sovrappopolazione. Tempo di lavoro supplementare
Plusvalore e lavoro necessario
3) Il plusvalore relativo
a) Cooperazione di masse
b) Divisione del lavoro
c) Macchine
4) Accumulazione originaria
Plusprodotto. Pluscapitale
Il capitale produce il lavoro salariato
L’accumulazione originaria
Concentrazione di forza-lavoro
Plusvalore nelle diverse forme e mediante mezzi diversi
Nesso tra plusvalore relativo e assoluto
Moltiplicazione delle branche della produzione
Popolazione
6) Lavoro salariato e capitale
Capitale forza collettiva, civilizzazione
Riproduzione del lavoratore mediante il salario
Superamento spontaneo dei lmiti della produzione capitalisti-
ca. Tempo disponibile. Il lavoro stesso trasformato in lavoro
sociale

310
Economia effettiva. Risparmio del tempo di lavoro ma non
in forma opposizionale.
Manifestarsi fenomenico [Erscheinung] della legge dell’appro-
priazione nella circolazione semplice di merci.
Rovesciamento di questa legge.

I. Lettera a Kugelmann del 13 ottobre del 1866


(MEW 31, p. 534)

Libro I Il processo di produzione del capitale


Libro II Il processo di circolazione del capitale
Libro III Configurazione del processo complessivo
Libro IV Per la storia della teoria

311
312
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… (all’acronimo
�����������������������������������������������������������������
MEGA segue rispettivamente il numero della sezione
(numeri romani), del volume (numero arabo, seguito dal numero del tomo
se è ulteriormente suddiviso), e delle pagine, per es.: MEGA2, II/3.3: 23).
MEOC – K. Marx, F. Engels, Opere Complete, Roma-Napoli, Editori
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numero del volume e le pagine, per es.: MEOC, XLI: 34).
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331
332
attività dell’ISMT

333
334
SEMINARI E CONVEGNI
DELL’INTERNATIONAL SYMPOSIUM
ON MARXIAN THEORY
1991-2008

1991-95: Christopher [Chris] Arthur, Martha Campbell,


Guglielmo [Mino] Carchedi, Paul Mattick Jr, Fred Moseley, Patrick
Murray, Geert Reuten, Tony Smith

1991 International Symposium on Marxian Theory I


Marx’s Method in Capital
2-7 giugno, Mount Holyoke College, South
Hadley, Mass., USA
Organizzatore Fred Moseley

1992 International Symposium on Marxian Theory II


Technology and Social Crisis
1-2 giugno, Mount Holyoke College, South
Hadley, Mass., USA
Organizzatore Fred Moseley

1993 International Symposium on Marxian Theory III


The State of Neoclassical Economics
7-11 giugno, Mount Holyoke College, South
Hadley, Mass., USA
��������������������������
Organizzatore Fred Moseley
(senza Mino Carchedi)

1994 International Symposium on Marxian Theory IV


Methodology
13-18 giugno, Mount Holyoke College, South
Hadley, Mass., USA
��������������������������
Organizzatore Fred Moseley
(senza Mino Carchedi)

335
1995 International Symposium on Marxian Theory V
Methodological Perspectives on Marx’s Capital,
Volume II
4-9 giugno, Mount Holyoke College, South
Hadley, Mass., USA
��������������������������
Organizzatore Fred Moseley
(senza Mino Carchedi e Paul Mattick)

1996-2000: Christopher [Chris] Arthur, Riccardo Bellofiore,


Martha Campbell, Paul Mattick Jr, Fred Moseley, Patrick Murray,
Geert Reuten, Tony Smith

1996 ��������������������������������������������
International Symposium on Marxian Theory VI
��������������������������������������������
A Methodological Appraisal of Marx’s Third
Volume of Capital
�������������������������������������������
2-7 giugno, University
�������������������������������
of Amsterdam, Olanda
Organizzatore Geert Reuten

1997a International Symposium on Marxian Theory VII


��������������������
Unresolved Questions
4-7 June, Tepoztlan, Messico
Organizzatore Fred Moseley

1997b Semenario International


Marx: Lógica y Capital
9-13 giugno, Universidad Autonoma Metropolitana,
Città del Messico, Messico
��������������������������
Organizzatore Mario Robles

1998a International Symposium on Marxian Theory VIII


�������������������������������������������
Marxist Perspectives on Contemporary Trends
in the World Economy
��������������������������������������������
8-11 giugno, Università di Bergamo, Bergamo
Organizzatore Riccardo Bellofiore
��������������������
(senza Paul Mattick)

336
1998b International Conference
����������
Classical and Marxian Political Economy:
The Legacy of Claudio Napoleoni
�����������������������������������
12-13 giugno, Università di Bergamo
Organizzatore Riccardo Bellofiore

1999 International
��������������������������������������������
Symposium on Marxian Theory IX
On Capitalist Crisis and on Brenner
9-14 agosto, Cranberry
�����������������������������������
Island, Maine (����������
Dept. of
Economics, Potsdam College, SUNY)
�����������������������������
Organizzatore Martha Campbell
(senza Paul Mattick)

2000 �������������������������������������������
International Symposium on Marxian Theory X
������� Marx’s Capital, Volume III
16-21 luglio, Università di Amsterdam, Olanda
��������������������������
Organizzatore Geert Reuten

2001-2003: Christopher [Chris] Arthur, Riccardo Bellofiore,


Martha Campbell, Fred Moseley, Patrick Murray, Geert Reuten, Tony
Smith, Nicola Taylor

2001 ��������������������������������������������
International Symposium on Marxian Theory XI
Beyond Capital
16-22 luglio Creighton University, Omaha,
Nebraska, US
Organizzatore Patrick Murray
(con Michael Lebowitz and Nicola Taylor)

2002 ���������������������������������������������
International Symposium on Marxian Theory XI�I
������� Marx’s Capital, Volume I
7-13 luglio, Università di Bergamo, Bergamo
���������������������������������
Organizzatore Riccardo Bellofiore

337
2003 ����������������������������������������������
International Symposium on Marxian Theory XI��
II
Marx’s Theory of Money
3-8 agosto, Mount Holyoke College, South
Hadley, USA
Organizzatore Fred Moseley
(con Suzanne de Brunhoff, Duncan Foley,
Claus Germer, Makoto Itoh, Lapavitsas,
Pichit Likitkijsomboon, Anitra Nelson)

2004-2006: Christopher [Chris] Arthur, Riccardo Bellofiore,


Martha Campbell, Roberto Fineschi, Fred Moseley, Patrick Murray,
Geert Reuten, Tony Smith

2004 International
���������������������������������������������
Symposium on Marxian Theory XI�
V
Recent Work in Marxian Theory
���������������������������������������
25-31 luglio, Cranberry
�������������������������
Island, Maine
(�������������������������������������������
Dept. of Economics, Potsdam College, SUNY)
Organizzatore Martha Campbell

2005 ��������������������������������������������
International Symposium on Marxian Theory XV
����������������������������������
Marx: sobre el concepto de capital
11-14 luglio, Universidad Autónoma Metropolitana
Unidad Xochimilco, Città del Messico
��������������������������
Organizzatore Mario Robles

2006 ���������������������������������������������
International Symposium on Marxian Theory XVI
Re-reading Marx – New Perspectives after
the Critical Editio�n
��������������������������������������������
10-13 luglio, Università di Bergamo, Bergamo
Organizzatore Riccardo Bellofiore
(con Roberto Finelli, Rolf Hecker, Michael Heinrich,
Regina Roth, Massimiliano Tomba)

338
2006-: Christopher [Chris] Arthur, Riccardo Bellofiore, Andrew
Brown, Martha Campbell, Roberto Fineschi, Fred Moseley, Patrick
Murray, Geert Reuten, Tony Smith

2007 ����������������������������������������������
International Symposium on Marxian Theory XVII
Marx’s Theory of Capital: Its Logical Structure
and Contemporary Relevance
State University of Iowa, Ames, Iowa, USA
������������������������
Organizzatore Tony Smith
(senza Roberto Fineschi)

339
VOLUMI ESITO DI SEMINARI O CONVEGNI ISMT

F. Moseley, (ed.) (1993), Marx’s Method in ‘Capital: A Reexamination,


New Jersey, Humanities Press.
F. Moseley, M. Campbell, (eds.) (1997), New Investigations of Marx’s
Method, New Jersey, Humanities Press.
C.J. Arthur, G. Reuten, (eds.) (1998), The Circulation of Capital: Essays
on Volume II of Marx’s ‘Capital’, London/New York, Macmillan.
M. Campbell, G. Reuten, (eds.) (2002), The Culmination of Capital:
Essays on Volume III of Marx’s ‘Capital’, London/New York, Palgra-
ve–Macmillan.
R. Bellofiore, N. Taylor, (eds.) (2004), The Constitution of Capital: Essays
on Volume I of Marx’s ‘Capital’, Basingstoke, Palgrave/Macmillan.
F. Moseley, (ed.) (2005), Marx’s Theory of Money: Modern Appraisals,
London/New York, Palgrave–Macmillan
R. Bellofiore, R. Fineschi, (eds.) ��������
(2008), Re-reading Marx. New Perspectives
after the Critical Edition, Basingstoke, Palgrave/Macmillan.

340
LIBRI E CURA DI LIBRI DI AUTORI ISMT*

Chris Arthur
Dialectics of Labour, Oxford, Basil Blackwell,1986.
The New Dialectic and Marx’s ‘Capital’, Leiden, Brill, 2002.
(ed.), The German Ideology by Marx and Engels, London, Lawrence &
Wishart, 1970.
(ed.), Law and Marxism by E. B. Pashukanis, London, Inklinks, 1978.
(ed.), Marx’s Capital: A Student Edition, London, Lawrence & Wishart,
1992.
(ed.) Engels Today: A Centenary Appreciation, London, Macmillan Press
and New York, St.Martin’s Press, 1996.

Riccardo Bellofiore
La passione della ragione. Scienza economica e teoria critica in Claudio
Napoleoni, Milano, Unicopli, 1991.
(a cura di), Tra teoria economica e grande cultura europea: Piero Sraffa,
Milano, Angeli, 1986.
(ed.), Marxian Theory: The Italian debate, special issue of “International
Journal of Political Economy”, XXVII, n. 2, Summer 1997.
(ed.), Marxian Economics: A Reappraisal. Vol. I: Method, Value and Money,
London & New York, Macmillan/St. Martin’s Press, 1998.

*
La lista che segue si limita a considerare, oltre ai volumi esito di convegni
dell’ISMT, i volumi o la cura di volumi da parte degli autori ISMT nella ultima
composizione del gruppo.

341
(ed.), Marxian Economics: A Reappraisal. Vol. II: Profit, Prices and Dynam-
ics, London & New York, Macmillan/St. Martin’s Press, 1998.
(a cura di), Il lavoro di domani. Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione
del capitale e mutamenti della produzione, Pisa, BFS, 1998 [pubbli-
cato in inglese da Elgar, Aldershot, 1999].
(a cura di), Ludwig von Mises, Teoria della moneta e dei mezzi di circola-
zione, Napoli, ESI, 1999.
(a cura di, con Mario Baldassarri), L’economia politica classica e marxia-
na: un dibattito sull’interpretazione di Claudio Napoleoni, numero
monografico della “Rivista di politica economica”, Aprile-Maggio,
Roma, SIPI, 1999.
(co-ed. con Piero Ferri), Financial Keynesianism and Market Instability:
The Economic Legacy of Hyman P. Minsky, Volume I, Cheltenham,
Elgar, 2001.
(co-ed. con Piero Ferri), Financial Fragility and Investment in the Capital-
ist Economy: The Economic Legacy of Hyman P. Minsky, Volume II,
Cheltenham, Elgar, 2001.
(a cura di, con E. Brancaccio), Il granello di sabbia. I pro e contro della
Tobin Tax, Milano, Feltrinelli, 2002 .
(a cura di), Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del No-
vecento, Roma, manifestolibri, 2007.

Roberto Fineschi
Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del
“Capitale”, Napoli, La città del sole, 2001.
Marx e Hegel. Contributi a una rilettura. Roma, Carocci, 2006.
Marx dopo la MEGA. Roma, Carocci, 2008.
(a cura di), Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive, Milano, Mimesis,
2005.
(a cura di), Karl Marx, Il capitale. Libro primo, Napoli, La città del sole,
2008.

342
Fred Moseley
The Falling Rate of Profit in the Postwar United States Economy, New York,
St. Martin’s Press, 1992.
(co-ed. con Robert Cherry, et al.), The Imperiled Economy, New York,
Union for Radical Political Economics, 1988.
(co-ed. con Edward Wolff ), International Perspectives on Profitability and
Accumulation, Brookfield VT, Edward Elgar, 1991.
(ed.) Heterodox Economic Theories: True or False?, Brookfield VT, Edward
Elgar Publishing, 1995.

Patrick Murray
Marx’s Theory of Scientific Knowledge, Atlantic Highlands, NJ, Humanities
Press, 1988.
(ed.), Reflections on Commercial Life: An Anthology of Classic Texts from
Plato to the Present, NY, Routledge, 1997.

Geert Reuten
(con Michael Williams), Value-Form and the State; the tendencies of accu-
mulation and the determination of economic policy in capitalist society,
London/New York, Routledge, 1989.

Tony Smith
The Logic of Marx’s Capital: Replies to Hegelian Criticism, State University
of New York Press, 1990.
The Role of Ethics in Social Theory: Essays from a Habermasian Perspective,
State University of New York Press, 1991.
Dialectical Social Theory and Its Critics: From Hegel to Analytical Marxism
and Postmodernism, State University of New York Press, 1993.
Technology and Capital in the Age of Lean Production: A Marxian Critique
of the “New Economy”, State University of New York Press, 2000.

343
Globalisation: A Systematic Marxian Account, Leiden, Brill, 2006
(co-ed. con Harry van der Linden), Radical Philosophy Today 4: Philosophy
Against Empire, Philosophy Documentation Center, 2006.
(co-ed. con Bertell Ollman), Dialectics for a New Century, London/New
York, Palgrave/Macmillan 2007

344
NOTe SUGLI AUTORI

Christopher J. Arthur ha insegnato all’Università del Sussex, in


Inghilterra.

Riccardo Bellofiore insegna Economia monetaria, Storia del pen-


siero economico e Teorie della conoscenza all’Università di Bergamo.

Martha Campbell ha ottenuto il Ph.D. in Economics alla New


School for Social Research nel 1991 e insegna Economia al Postdam
College, State University of New York, USA.

Roberto Fineschi ha ottenuto il dottorato di ricerca in filosofia al-


l’Università di Palermo. Borsa post-dottorato presso l’Università di Siena.

Fred Moseley ha ottenuto il BS in Mathematics alla Stanford Univer-


sity nel 1968 e il Ph.D. in Economics alla University of Massachussets nel
1980; insegna Economia al Mount Holyoke College, Massachussets, USA.

Patrick Murray ha ottenuto il Ph.D. in Philosophy of Science


alla Università di St. Louis nel 1979 e insegna Filosofia alla Creighton
University, Omaha, Nebraska, USA

Geert Reuten insegna Economia e Metodologia e Storia del pen-


siero economico alla Università di Amsterdam in Olanda.

Tony Smith ha studiato alle Università di Tubinga e Monaco, e ha


ottenuto il Ph.D. dalla State University at Stony Brook; insegna Filosofia
e Scienza Politica alla Iowa State University, USA.

345
Finito di stampare dalla Free Service s.r.l. – Napoli
nel mese di luglio 2008
per La Città del Sole s.r.l. - Napoli - Tel. 081/4206374

346

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