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Luca Scarabelli / Marco Rambaldi / Michele Spanghero

luca scarabelli

Millimetri sensazioni di cose minime*

La capacità di Luca Scarabelli di creare nell'ambiente quotidiano quel lieve scostamento della realtà che la rende intellettualmente piena di
fascino ed emotivamente instabile, è quasi unica, solo sua.
Ha imparato nell'isolamento del suo studio (a Mozzate in provincia di Como) la compostezza, l'elusione dell'eccesso spettacolare che le
mode apprezzano; si è abituato a non distrarsi dal lavoro, a vivere per quello. Anche se oggi sembra difficile pensarlo, l'artista è colui che fa
arte, che studia il processo con cui realizzare il proprio ideale artistico, che ha qualcosa da comunicare, che ha un modo diverso di vedere il
mondo, non solo feste a cui partecipare per farsi notare.

A Casabianca, Scarabelli porta alcune piastrelle del pavimento di questo suo studio, scelte per accompagnare l'idea di un possibile
autoritratto, per una mostra che nascerà nel momento in cui l'artista varcherà la soglia di casa. E’ un progetto in divenire, si formerà strada
facendo e non sarà propriamente progettato, sovvertendo così le pratiche tipiche della cultura occidentale che si fondano sulla riflessione
prima dell'azione.
Tornando allo studio, è il simbolo del luogo dove creare, sperimentare, che è alla deriva, come dice Scarabelli: “Lo porto a Casabianca
metaforicamente, perché nel mio non ci viene mai nessuno. Le piastrelle sono la testimonianza di una difficoltà, hanno dei motivi decorativi che sono la
sintesi opposta del mio lavoro, la decorazione è la cosa più distante che c'è da tutto quello che ho fatto, per quello sta sotto i piedi”.
In quello studio, che ho visitato, sul suo grande tavolo da lavoro sono appoggiate le immagine che compongono i suoi collage: autobiografici,
extraterrestri, nostalgici, fatti di cielo e di fiori, strappati da riviste d'arte. Sono enigmi in serie che vanno osservati lentamente. In un angolo
ci sono mille pallini di carta, come coriandoli, ogni tanto incollati su un foglio bianco. Il discorso sulla pittura portato avanti da Scarabelli si
traduce in grandi macchie di colore senza forma e in oggetti concreti come piccole presine fatte a mano o enormi collane di legno, macchie
di colore sparse secondo il principio della casualità. La pittura non è figurazione, ma condensazione di luce, il suo elemento primario. Riesce a
dirlo anche con una serie di disegni “bianco su bianco”, in cui l’immagine è fatta di materia luccicante ( glitter e colla vinavil) che compare
solo quando toccata dalla luce.

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Mentre mi guardo intorno, ma anche mentre in macchina torno verso Milano, con la campagna che sta scomparendo nella città, capisco la
curiosità per il paesaggio, visto spesso in sella alla bicicletta: è espressa da fotografie scattate per sbaglio, con la coda dell’occhio, che svelano
paesaggi transitori, che non esistono o che esistono solo contagiati dall’errore di una frazione di secondo, i Paesaggi malati.
Il mondo che viene rappresentato, anche in semplici fogli di cartone piegati, come Luogo in pausa (corrispondenze), è un mondo triste, solitario,
melanconico, retrò (con quella bellezza dello scorrere del tempo sulla carta scoperta molti anni prima che diventasse così di moda, come
oggi): cosmonauti russi anni sessanta, vecchie riviste turistiche, polaroid...
I colori e i materiali poveri di Scarabelli sono il ricordo di artisti e movimenti che sicuramente ha amato, con passione e ironia. Pensando a
come annota sui suoi diari “Questo l’ha già fatto…” ogni volta che pensa ad un lavoro nuovo.

Tra i paesaggi naturali, che siano terresti o lunari, la forza di gravità si fa sentire. Scarabelli si ritrae, proiettandosi idealmente nelle figure di
altri personaggi presi a prestito dal mondo dell’arte o della scienza, senza poggiare i piedi al suolo, tenuto in equilibrio da perni, persone, assi
di legno... così come per i personaggi nei collage, il sostegno è un elemento fondamentale, il presupposto del coinvolgimento dell'altro.
Il sostegno è al fare, all'idea, al corpo, bloccato nell'attimo appena precedente l'azione, come l'istante prima di spingere un pulsante che da
l'avvio a un accadimento. A questo possono servire gli esercizi di gravitazione, come scrive l'artista: “La forza di gravità è quella che permette al
collage di farsi. Sono da una parte la risposta a una condizione di stallo, fisica, morale, relazionale, in primis personale da autoritrarre”.
La parola scritta è un altro suo dono, un dono silenzioso. Come la sua pratica sviluppata sottovoce, in surplace. Una parola che a volte
descrive per evocazione, altre spiega con chiarezza e racconta le opere d’arte di oggi e di ieri con una conoscenza non comune. Una parola
che titola i suoi lavori aprendoli a numerose interpretazioni. Nell'autoritratto si proietta, inevitabilmente, anche quello che si vorrebbe
essere, e mi accorgo che è proprio così quando Scarabelli mi spiega ciò che avrebbe voluto portare a Casabianca e che probabilmente
rimarrà solo un progetto irrealizzato, come quello di presentare una pietra tombale, un monumento funebre con al posto del cavallo (che lo
proietterebbe nella storia, in un passato “continuo”) una bici (!), che gli farebbe rivivere la propria vita. Oppure disporre semplicemente dei
vasi con dei fiori lasciati a deperire, calle, calendule, gigli, rose bianche... fiori di campo, su un tavolo, alla parete un piccolo collage o
l'immagine dell’opera “autoritratto come ciclista cosmonauta” incorniciata, con appoggiata sopra una gerbera rossa. Ma non lo farà.

* Fernando Pessoa

Giulia Brivio
collabora con diverse riviste di settore, tra cui Artkey, è responsabile organizzativo e dei servizi di documentazione di Viafarini DOCVA,
Milano.

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6 piastrelle del mio studio, 2010. L'ombra di Charles (Plank Piece I, Autoritratto come ciclista
cm 25x25 ognuna 1973), 2008. Collage su carta a cosmonauta con sostenitore, 2008.
quadretti, cm 32x24 Stampa su tela, cm 50x40

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marco rambaldi

Opening 04

Alla base di questo lavoro di Marco Rambaldi, Opening, c’è un altro lavoro che ne costituisce il punto di inizio. Si tratta di Wall, del 2008. Foto
a colori di porzioni delle pareti bianche della galleria in cui andava a esporre. Le foto erano in scala 1:1 e venivano collocate a ricoprire
esattamente la porzione di muro che riproducevano.

Si tratta di un lavoro che mostra l’intenzione di ripartire da zero. Semplice in apparenza, ma con rimandi a opere fondamentali del
Novecento. Dal Quadrato bianco su sfondo bianco di Malevich. Alla esibizione della galleria vuota di Yves Klein. Alle grandi foto dell’interno
della galleria esposte sulle pareti della galleria stessa di Joseph Kossuth. A un lavoro sulla galleria vuota di Cesare Pietroiusti. Tra l’altro un
lavoro, Wall, che riprende un tema caro agli artisti degli anni Novanta e a Marco Rambaldi stesso. E cioè quel confine sottile che separa la
realtà e la sua rappresentazione, il naturale e l’artificiale, perché, al contrario delle opere concettuali, in Wall sono riprodotte fedelmente la
grana e le irregolarità della parete stessa.

Tuttavia più che della parete Wall parla dello sguardo. Infatti nel lavoro successivo, Opening appunto, di cui a Casabianca oggi si presenta la
quarta fase, Marco Rambaldi fotografa di spalle qualcuno che sta osservando la fotografia di una parete bianca, includendo così il lavoro
precedente. E le fasi successive di Opening fanno lo stesso, quasi in un gioco di specchi che potrebbe essere senza fine. Oggi, infatti, verranno
fotografati gli spettatori che guardano Opening 03 e Opening 02 e Opening 01 e Wall. E allora questo lavoro che ha inizio dalla superficie della
parete diventa opera che si svolge nel tempo e lo include tutto, passato, presente e futuro.

Inoltre, siccome le persone fotografate di spalle sono gli spettatori della mostra, come in certe esposizioni di Franco Vaccari, a diventare
opera è la mostra stessa. E man mano che le fasi di Opening procedono, il punto di inizio, cioè la foto iniziale della parete bianca sovrapposta
alla parete stessa, si fa sempre più lontana e dà l’illusione di sfondare il muro della galleria. Viene da pensare ai primi lavori di Marco
Rambaldi, della metà degli anni Novanta, in cui un ventilatore bianco a pale sembrava entrare dentro il muro della galleria, o una bicicletta
tagliata a metà sprofondare nel pavimento. Tra questi lavori e gli ultimi si stabilisce un sottile punto di contatto. Si disegna la traiettoria di un
percorso di cui viene da attendere con curiosità le tappe successive.

Anteo Radovan

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Opening 04, 2010

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Opening 04, 2010
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michele spanghero
Listening Is Making Sense II

Con l’opera site specific Listening Is Making Sense II Michele Spanghero (Gorizia, 1979) porta una sedia da arbitro di tennis all'interno della
struttura di Casabianca che consente allo spettatore di poggiare l'orecchio direttamente sull'asse portante del tetto e ascoltare un suono
elaborato che sembra scorrere in essa.
Il titolo riconnette questo lavoro al primo della serie, Listening Is Making Sense (2009), in cui lo spettatore doveva chinarsi al suolo per
porre via via l'orecchio su numerose, lunghe travi in legno che occupavano un’intera sala e che fungevano da «vettori per la propagazione
delle vibrazioni del suono prodotte in tempo reale da un software audio e diffuse sul legno da un trasduttore tattile (uno speaker che
trasforma il segnale audio in vibrazione meccanica e la diffonde per contatto con la materia)» (Spanghero). L’opera realizzata
appositamente per Casabianca invita lo spettatore, al contrario, ad un movimento ascendete, da terra alla sommità della sedia fino alla
trave, e, partendo dalla suggestione di un aforisma di Eleonor Roosevelt («Nessuno può farvi sentire inferiori senza il vostro consenso»)
postula, tra le righe, anche la questione del complesso rapporto tra artista, opera e pubblico.
La ricerca di Spanghero si muove nell’ambito della sound art ed è rivolta al tentativo di esperire differenti vie in questo campo in cui
l’approccio e la definizione stessa di sound art sono ancora in corso. Come afferma l’artista stesso: «la mia ricerca si focalizza sull’arte
acustica, declinata nella forma musicale o della sound art, e sull’arte visiva cercando una naturale sintesi (non sinestetica) tra queste due
forme espressive». Non a caso, infatti, il titolo Listening Is Making Sense pone l’accento sulla prevalenza dell’atto uditivo piuttosto che su
quello visivo. L’atto stesso del vedere, in opere come Eye Hear (2010), viene riletto come contrassegnato da una propria sonorità di cui
l’artista porta lo spettatore a prendere coscienza. Nelle opere di Spanghero è impossibile, di fatto, scindere nettamente l’elemento sonoro
da quello visivo, eppure entrambi conservano – soprattutto attraverso un minimalismo molto marcato – una purezza e un’indipendenza
che riqualifica entrambi gli elementi di partenza in qualcosa di completamente diverso dall’entità iniziale e la cui decifrazione nella mente
non può più passare per uno solo di essi, ma necessita di contemplarli nel loro compenetrarsi posto in essere dalla struttura installativa.

Silvia Conta

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Listening Is Making Sense II, 2010. Seggiolone, trasduttore audio, CD audio, amplificatore, 9
cavo audio (dimensioni ambientali)
1 Listening Is Making Sense II, 2010. Seggiolone, trasduttore audio, CD audio, amplificatore, cavo
0 audio (dimensioni ambientali)
Zola Predosa, 19 dicembre 2010

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