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PETROLIO E RISORSE IN UN AMBITO

SOSTENIBILE ED APPLICABILE.

di Domenico La Tosa
università di Bologna
matricola 0000473639

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a Rosanna, Marisa e Valentina, amiche di anni.

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INDICE.

Introduzione.

1. Il cambiamento climatico.
1.1 La concentrazione di CO2.

2. Il petrolio.
2.1 Le caratteristiche energetiche.
2.2 La quantità disponibile nel tempo.

3. Le fonti rinnovabili.
3.1 Un diverso approccio al problema energetico.
3.2 Decentralizzazione e sinergia.
3.3 (de)Crescita.

Conclusioni.

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INTRODUZIONE.

Questo paper è un modesto lavoro basato su anni di interesse nell'ambito dell'economia


sostenibile, delle energie e tecniche del rinnovabile nonchè di una visita fatta nel mese di giugno
alla Westcome di Aarhus, Danimarca, azienda da diversi anni operante nel settore dell'energia
rinnovabile.
Il problema energetico ed ambientale verso cui il mondo, industriale e non, occidentale o
meno, si avvicina sempre più giorno dopo giorno da anni è, o almeno dovrebbe essere, all'ordine
del giorno in tutti i telegiornali, su tutte le riviste del settore e non, a tutte le ore data la posta in
gioco, cioè l'esistenza della vita sulla Terra. Nonostante tutto, però, questo settore è ancora troppo
spesso appannaggio dei tecnici dell'economia, dei fisici, dei biologi, dei matematici e degli statistici
e, ultimi ma non ultimi, di persone (gli ambientalisti) che avendone capito la pregnanza lo hanno
adottato e, spesso, passano per estremisti o per “quelli degli orsi bianchi”.
In aggiunta, quello della “sostenibilità” è uno dei campi più multidisciplinari che possano
esistere, complessità che discende direttamente dal suo carattere olistico: tutto sulla Terra dovrà
essere sostenibile, pena la scomparsa del genere umano dal laboratorio dell'orologiaio cieco 1
dell'evoluzione. Ecco uno dei motivi per cui è così difficile sintetizzare e trattare una materia che
abbraccia la geologia, la biochimica, la statistica, la matematica, l'economia, l'ingegneria ma anche
l'agricoltura e l'alimentazione.
Il vento, però, sta cambiando: gli investimenti nella green economy aumentano
sensibilmente (al punto da far sospettare l'innescarsi di un'altra bolla come quella immobiliare e
quella di internet prima ancora), il petrolio diventa sempre più volano di instabilità
macroeconomica e di guerre ma soprattutto i partiti politici ambientalisti europei, dopo anni di
ruggente breakthrough, iniziano a raccogliere paradossalmente meno consensi dal momento che un
background ambientalista si è instillato, almeno a livello di dirigenza, quasi ovunque.

1 Richard Dawkins, The Blind Watchmaker, W. W. Norton & Company, 1986.

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1. IL CAMBIAMENTO CLIMATICO.

Il cambiamento climatico è solo uno degli aspetti del nefasto effetto dell'homo economicus
sull'ecosistema. Da un punto di vista semantico, infatti, sarebbe più corretto parlare di
“cambiamento dell'ecosistema” dal momento che la variazione di temperatura che si sta verificando
recentemente è solo un sintomo dello stato delle cose. L'effetto dell'aumento vertiginoso di CO 2
nell'atmosfera (ben oltre la soglia delle 350 ppm) sul ph degli oceani, l'alta presenza di azoto e
fosforo nelle falde acquifere e nei terreni, l'effetto delle diossine sulla fauna marina e terrestre oltre
che sull'uomo, e tanti altri aspetti solitamente lasciati a margine della discussione dovrebbero dare
l'idea del malessere di cui si parla.
Un malessere globale che permea ogni aspetto della vita sulla Terra.

1.1 LA CONCENTRAZIONE DI CO2.

L'anidride carbonica è un prodotto della vita umana, vegetale e animale ed è fondamentale


per la vita sulla terra. Tale composto è formato da ossigeno e carbonio ed è anche uno dei principali
gas serra presenti nell'atmosfera terrestre.
È il prodotto della respirazione cellulare batterica, animale, umana e vegetale (in
quest'ultimo caso solo nelle ore notturne), ma soprattutto il risultato della combustione di un
composto organico in presenza di una quantità sufficiente di ossigeno, di molte attività industriali e
in particolar modo dagli impianti di produzione di energia e dagli autoveicoli. La CO 2 è un
componente fondamentale dell'atmosfera
perché - insieme al vapore acqueo ed al
metano - intrappola la radiazione
infrarossa della luce solare riflettendola
nuovamente verso la superficie terrestre
(il cosiddetto effetto serra) impedendo alla
Terra di raffreddarsi.
In concentrazioni troppo alte, però,
provoca disfunzioni all'intero ecosistema.
Innanzitutto è causa di un aumento non
sostenibile della temperatura, il c.d.
“riscaldamento globale”, che comporta in

6
un'ottica macroanalitica il c.d. “cambiamento climatico”. Il primo fenomeno si verifica quando
nell'atmosfera è presente una concentrazione troppo alta di anidride carbonica che intrappola e
riflette una quantità non raccomandabile di radiazione infrarossa. Tale quantità “aggiuntiva” di
calore provoca un innalzamento della temperatura che effettivamente si verifica, e che ha un tasso
di crescita positivo quasi costante, dagli anni '60 2. Il termine “riscaldamento globale” (dall'inglese
global warming) fu coniato dallo scienziato del NASA Goddard Institute James E. Hansen in
occasione dell'esposizione di una relazione al Congresso degli Stati Uniti nel 1988.
Lo stesso prof.
Hansen, già autore negli
anni '70 del c.d. “modello
zero” del clima, ha
teorizzato dopo anni di
studi la quantità di CO2 da
non superare per «impedire
il disastro umano e
naturale»3, cioè per
impedire che lo
scioglimento dei ghiacci
diventi nefasto. Tale soglia
consiste nelle 350 ppm (parti per milione) di anidride carbonica nell'atmosfera, oppure
nell'intervallo fra 350 e 550 ppm di CO2e (cioè anidride carbonica e gas serra equivalenti).
Strettamente correlata allo scenario appena descritto, l'acidificazione degli oceani è un
aspetto tanto importante quanto sconosciuto al grande pubblico. Venendo a contatto con l'acqua del
mare, l'anidride carbonica si scioglie formando acido carbonico secondo la seguente reazione
chimica
CaCO3 + CO2 + H2O → Ca2+ + 2 HCO3-

a causa della quale avviene una diminuzione della basicità dell'acqua marina superficiale. Si calcola
che in meno di cinquanta anni il pH degli oceani sia sceso di quasi mezzo punto, e il trend sembra
persistente4. Tale processo di acidificazione incide sulla quantità di aragonite presente negli strati
superficiali delle acque marine, diminuendone la concentrazione. Dal momento che tale sostanza è
fondamentale nella formazione di esoscheletri ed endoscheletri di fitoplancton, coralli e altri
organismi, buona parte degli anelli fondamentali della catena alimentare marina sono minati e, con
essi, è in pericolo l'intero ecosistema marino. Quindi anche quelli correlati. Cioè tutti gli altri. È
importante notare che l'attuale valore di tale gas ammonta a 387 ppm, ben oltre la soglia indicata.

2 Susan Solomon, IPCC, Climate change 2007: the physical science basis, Cambridge University Press, 2007.
3 350.org Scientific Staff, What does the number 350 mean?, www.350.org, 2010.
4 Jonhtan Foely, Limiti per un pianeta sano, Le Scienze n°500, 2010.

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2. IL PETROLIO.

Il petrolio è una miscela di vari idrocarburi che deriva dalla maturazione termica di materia
organica rimasta sepolta che si decompone, in assenza di ossigeno, in un materiale ceroso, noto
come pirobitume, che in condizioni di elevata temperatura e pressione libera idrocarburi. Fiumi di
parole sono stati spesi e saranno ancora spesi per descrivere questa sostanza, per tale motivo
entreremo subito nel nodo economico-ambientale della discussione.
Il petrolio è tutto. In casa così come in strada (salvo che non viviate in una radura sperduta
lontana da tutto), dovunque volgiate lo sguardo, osserverete nient'altro che materiali basati sul
petrolio o trattati con i derivati di esso e, in ogni caso, con l'energia ricavata da esso prodotti. I
bitumi delle strade, il cemento dei palazzi, ogni singolo materiale plastico o simile e tutto, ma
proprio tutto quanto il resto sono, direttamente o indirettamente, un derivato del petrolio. Per dare
un'idea, anche il mobilio in legno (artigianale e non) è parte di tale ciclo: le vernici, o anche solo gli
additivi utilizzati nella lavorazione di tale materiale sono derivati del petrolio.
L'intero sistema dei trasporti poi, anche a causa di enormi (e non casuali) distorsioni del
mercato, si regge sul ben noto carburante fossile. E i veicoli che lo usano sono stati fabbricati con
quella stessa risorsa, e viaggiano su un manto stradale fatto di catrami e bitumi derivati sempre
dall'oro nero.

2.1 LE CARATTERISTICHE ENERGETICHE.

Dal punto di vista energetico, il petrolio si configura come la risorsa energetica più duttile e
redditizia mai, ad oggi, scoperta. Tralasciando momentaneamente la sua capillare presenza
nell'economia mondiale, la sua densità energetica è talmente alta al punto che si stima, con buona
approssimazione (quella necessaria alla stilizzazione dell'esempio, che comprende decine di
variabili), che un miglio cubico di petrolio equivalga la produzione di 50 anni di:
- 4 Dighe delle Tre Gole;
- 32.850 impianti eolici da 1.65 MW;
- 91.250.000 impianti fotovoltaici da 2.1 kW;
- 104 centrali elettriche a carbone da 500 MW;
- 52 centrali nucleari da 1.1 GW5;

5 Nicole Foss, The Automatic Earth ( http://theautomaticearth.blogspot.com ), 2010.

8
congiuntamente, il che non è poco se si considera l'attuale utilizzo di oro nero. Tale esempio è
abbastanza indicativo della proporzionale densità energetica ma anche dell'altissima fame di energia
globale. Guardando questi dati si intuisce chiaramente e correttamente che, ad oggi, è impossibile
far funzionare il mondo con le sole energie rinnovabili.
L'enorme ammontare di energia di cui è depositaria una molecola di idrocarburo di origine
petrolifera, però, non è l'unico dato di cui tener conto in una chiave che vada oltre una pubblicistica
interessata e, spesso, incompetente e corrotta. Serve davvero a poco un così alto ammontare di
energia se per ottenerla ce ne vuole quasi la stessa quantità: ciò di cui parlo è l'EROEI, Energy
Returned On Energy Invested, che si calcola con la seguente equazione

e che dimostra quanto fallace e relativa sia l'idea di energia attuale. Dal momento che i giacimenti
non sono infiniti e bisogna cercare sempre più a fondo sulla terraferma quando non nel fondo degli
oceani, ci vuole sempre più petrolio (cioè energia) per estrarre petrolio, infatti l'EROEI dei
giacimenti petroliferi è crollato da circa 100 (valore dei primi del secolo scorso) all'attuale 5,
avvicinandosi sempre più al valore di soglia di 3, al di sotto della quale l'estrazione non è più
economicamente conveniente6.
Ciò che dovrebbe far pensare è il fatto che, oltre ad essere vicini al punto di non ritorno,
questo crollo nell'EROEI è dovuto alle estrazioni compiute in meno di un secolo: non è poco notare
ed ammettere che, col nostro uso sfrenato e realista, abbiamo esaurito in meno di un secolo il
prodotto di milioni di anni di processi chimici e fisici sostanzialmente irripetibili in un'ottica
temporale umana. La fine del mondo come lo conosciamo quindi non si presenterà, diversamente
da ciò di cui si parla senza la minima cognizione di causa, con la fine del petrolio, bensì con la sua
inconvenienza economica per gli estrattori, tappa più vicina di quanto non si pensi, particolarmente
in virtù della quantità disponibile nel tempo.

2.2 LA QUANTITÀ DISPONIBILE NEL TEMPO.

L'uomo scoprì il petrolio diversi secoli fa: abbiamo tracce dell'utilizzo già nell'Iliade di
Omero così come nel Milione di Marco Polo. All'epoca veniva utilizzato come combustibile per le
lampade o come arma (ad esempio il c.d. “fuoco greco”). Nell'ultimo secolo l'utilizzo di tale
sostanza si è ampliato e, come conseguenza, ha attirato l'attenzione di alcuni studiosi, fra questi

6 David Murphy, The Oil Drum ( http://netenergy.theoildrum.com/node/4762 ), The IEA WEO 2008 from the Perspective of
Biophysical Economics, 2008.

9
l'esimio prof. Marion King Hubbert, autore della c.d. “teoria del picco di Hubbert”.
La curva di Hubbert è stata
inizialmente intesa come modello per la
stima della quantità di petrolio estraibile
da un giacimento. Secondo questo
modello, la quantità del petrolio estratto,
e quindi prodotto, è determinata dalla
velocità nello scoprire nuovi giacimenti.
Superato il punto di massimo della
funzione (detto “picco di Hubbert”) si ha
un declino nella quantità estratta che
tenderà infine a zero. Hubbert applicò
per la prima volta il suo modello alla
produzione petrolifera degli Stati Uniti,
guadagnandosi così l'ostracismo dell'establishment scientifico dell'epoca. La storia però non manca
di ironia e, quando negli anni '70 tale picco estrattivo si verificò davvero in 48 dei 50 stati
statunitensi, peraltro in concomitanza con le crisi petrolifere del '73 e del '79, Hubbert entrò di
diritto nella hall of fame della geologia e dell'economia energetica.
Diversi anni più tardi il modello di Hubbert fu sostanzialmente ampliato e raffinato per
cercare di individuare il periodo in cui potrebbe verificarsi un picco di produzione a livello
mondiale. Dato l'altissimo numero di variabili considerate, e l'enorme massa di informazioni
contraddittorie sulle scorte di petrolio dei principali produttori (informazioni dalle quali dipendono
l'andamento dei loro titoli in borsa e più volte dimostratesi adulterate), tale generalizzazione ha dei
margini di fallacità nell'individuare il verificarsi dell'evento in questione, ma la maggior parte delle
previsioni colloca il picco venturo nella seconda decade del XXI secolo.

10
Nella letteratura che tratta la fine dell'era del petrolio si avanza da tempo l'ipotesi che il picco
possa essere spostato in avanti, seppur in maniera indefinita, dalla scoperta di nuovi giacimenti e
dall'utilizzo di altre forme di idrocarburi presenti nei pozzi petroliferi quali le sabbie bituminose.
Innanzitutto va notato che, nella migliore e irrealistica (vedremo perchè) delle ipotesi, si tratta di
una posticipazione dell' “ora X” dal momento che, va ricordato, in ogni caso il petrolio è una risorsa
finita ed è irresponsabile, qualunque sia la posticipazione del termine, non prepararsi a tale
certezza.
Circa la scoperta di
nuovi giacimenti, dando
un'occhiata alle serie
storiche dell'ultimo secolo,
è abbastanza chiaro che il
pianeta terra ha già dato:
dagli anni '70 le scoperte di
nuovi giacimenti sono in
crollo verticale e, dal punto
di vista quantitativo, i nuovi
giacimenti sono di scarsa
grandezza e non

11
paragonabili a quelli che finora hanno fornito il mondo. A questo punto, stando alle quantità
previste, se la domanda di greggio fosse costante per i prossimi anni, si potrebbe magari pensare ad
un'autonomia residua discreta, magari di un secolo, un intervallo abbastanza lungo per trovare un
sostituto. Il punto problematico, però, è proprio questo: l'aumento di domanda è positivo da anni e
la sua pendenza è destinata a salire dal momento che, con la decentralizzazione produttiva e altre
pratiche fortemente promosse dal World Trade Organization e dalla World Bank, abbiamo svegliato
dei titani allora dormienti ma ora incontrollabili, quali l'India e la Cina, che vogliono giustamente
avere la loro parte di ricchezza partecipando da diversi anni alla grande festa del petrolio.
Tutto ciò, tradotto in termini visuali, si presenta come nel seguente grafico

secondo il quale la quantità di prodotto sarà sempre minore, al punto da non poter soddisfare una
domanda sempre maggiore per miliardi di barili. Uno degli aspetti terribili del grafico è che,
nell'offerta di petrolio, considera anche le oil sands, cioè le c.d. “sabbie bituminose”, di cui ho
accennato all'inizio del paragrafo, e che vengono indicate da sedicenti divulgatori come una fonte
comodamente sfruttabile.
Ogni giacimento petrolifero è fatto di diversi “strati” che si differenziano per la densità del
prodotto contenuto, andando dai più fluidi ai più viscosi: gas, olio, cere e bitumi. Tali bitumi, o
sabbie, sono una combinazione di argilla, sabbia, acqua e bitume e da queste è possibile estrarre un
prodotto simile al petrolio che può essere raffinato per ottenere i derivati del petrolio; costituiscono
però lo strato più denso di ogni bacino e, per essere estratte, necessitano di acqua calda immessa ad

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alta pressione, oppure di vapore o di altri solventi che ne riducono la viscosità, con un alto ed
evidentemente insostenibile dispendio di energia e risorse. Cioè le rende, ad un'analisi approfondita,
molto poco interessanti.

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3. LE FONTI RINNOVABILI.

Le fonti energetiche rinnovabili sono un'alternativa alla generazione di elettricità dall'impego


di combustibili fossili, quali ad esempio carbone e petrolio, che per definizione sono finiti.
L'attributo “rinnovabili”, infatti, sta proprio a significare che queste sono disponibili in quantità
tendenzialmente infinite dal momento che si “rigenerano” continuamente come ad esempio le
biomasse, la luce solare e il vento e, in ogni caso, è come se non si “consumassero mai”.
Lo studio di tali energie divenne famoso presso il grande pubblico negli anni '80, con la
diffusione nella società civile, in particolar modo europea, di istanze ambientaliste. Particolarmente
negli ultimi anni, dopo una lunga fase di decollo, lo studio delle fonti rinnovabili è assurto al livello
di “scienza di massa”, godendo di attenzione internazionale ma, soprattutto, di finanziamenti che ne
permetteranno uno sviluppo ulteriore.

3.1 UN DIVERSO APPROCCIO METODOLOGICO


AL PROBLEMA ENERGETICO.

La banalizzazione di un argomento ne rappresenta spesso la morte. Proprio come altri


importanti argomenti scientifici e non, le fonti energetiche rinnovabili vengono spesso trattate con
sufficienza e approssimazione, spesso in contenitori televisivi o su giornali “rinomati” da autori noti
per parlare di tutto con l'odiosa tecnica dell' “un tanto al chilo”, specialmente in Italia. Una delle
argomentazioni tipiche è la quantità di energia che un impianto di tale categoria può produrre. Una
cella fotovoltaica attualmente, ad esempio, ha un rendimento del 30 - 35% circa, che in alcuni casi
può salire fino al 40,7% grazie ad accorgimenti di tipo ottico, ad esempio convogliando la luce
tramite un sistema di lenti7.
Anche nella migliore delle ipotesi, però, un rendimento del 40% in condizioni ottimali è
troppo basso da assicurare, con una ragionevole copertura, un buon fabbisogno energetico. Per
assicuraci tale fabbisogno saremmo costretti, ad esempio, a lastricare aree sconfinate con le celle
fotovoltaiche. A ciò va aggiunto che quelle condizioni ottimali non si presentano quasi mai in
ambienti ospitali per la vita umana: i venti più forti, ad esempio, soffiano sugli altopiani o in mezzo
al mare e il sole splende più forte nel deserto. Un mezzo per ovviare a questi problemi sarebbero i
supercondittori a temperatura ambiente, che permetterebbero di trasportare l'energia prodotta da

7 Chris Kielich, US Department of Energy ( http://www.energy.gov/news/archives/4503.htm ), New World Record Achieved in


Solar Cell Technology - New Solar Cell Breaks the "40 Percent Efficient" Sunlight-to-Electricity Barrier, 2006.

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parchi fotovoltaici nei deserti e impianti eolici off-shore lungo grandissime distanze con perdite di
pochi punti percentuali. Prestazioni così alte di tali materiali però sono ancora una fantasia e, ad
oggi, i c.d. superconduttori necessitano di impianti di refrigerazione e di pompe che li alimentino
circa ad ogni chilometro per poter raggiungere la temperatura di esercizio, quella dell'azoto liquido
(cioè -196° Celsius) e tutto ciò rende evidentemente difficile reggere il peso economico di questo
modus operandi8.
Questo approccio energetico, cioè l'utilizzo di alcune zone per produrre l'energia utilizzata
dall'intero pianeta, inoltre, suona stranamente familiare. Suona allo stesso modo del panorama
mondiale di gas e petrolio, attualmente presenti in quantità rilevanti solo in Arabia Saudita, Iran,
sud America e Russia, guarda caso zone interessate dalla notte dei tempi da tensioni internazionali,
colpi di stato e, troppo spesso, attentati e guerre. Questa geopolitica dell'energia non è il frutto
casuale di un fato avverso ma una necessità strutturale: l'energia muove il mondo, quindi i
produttori, se centralizzati, sono facile obiettivo di interessi focalizzati e divergenti. Come in un
sistema internazionale bipolare è relativamente facile individuare il nemico, allo stesso modo in un
sostanziale oligopolio energetico mondiale sono facilmente individuabili i punti di
approvigionamento, e questi facilmente divengono catalizzatori di tensioni e obiettivi del
terrorismo9. Questo sistema “centralizzato”, quindi, è da abbandonare.
In generale dobbiamo abbandonare tanti feticci che ci portiamo dietro, cose che noi diamo
per necessarie ma che in realtà non lo sono. Tutti noi che nasciamo nell'occidente del mondo, che
cresciamo con la televisione e subiamo la violenza di un approccio scientifico del marketing sin da
piccoli, portiamo su di noi sintomi di un plagio in termini freudiani. Siamo piegati dalla necessità di
avere, possedere, quantifichiamo tutto in dollari, o in euro, vogliamo e compriamo senza motivo, ci
sfoghiamo così. Cambiamo spesso la macchina, non perchè non funzioni ma perchè “è vecchia”, i
nostri cellulari sono ancora coperti da garanzia e perfettamente funzionanti quando vengono
rimpiazzati dall'ultimo imprescindibile modello che, spesso, non ha neanche nuove funzioni ma
solo un design più accattivante.

3.2 DECENTRALIZZAZIONE E SINERGIA.

Lo scarso rendimento delle singole fonti rinnovabili e i contro di un assetto energetico


“unipolare” possono fondersi in un mix darwiniano capace di far tesoro delle debolezze rendendole
virtù. Innanzitutto le debolezze delle singole fonti energetiche: il sole non brilla dovunque nella
stessa intensità così come il vento ha velocità diverse a seconda del luogo ma, in ogni caso, è
davvero difficile trovarsi in un posto in cui non ci sia né vento, né luce, né acqua. In un'ottica di

8 Micheal Moyer, Scientific American, volume 302 no 6, Room-temperature Superconductors, 2010.


9 Andreatta, Clementi, Colombo, Koenig-Archibugi, Parsi, Relazioni internazionali, capitolo II, 2007.

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totale autonomia energetica, la soluzione consiste nell'attrezzarsi per sfruttare tutte le fonti utili
contemporaneamente. Gli impianti di rinnovabili, ormai, sono miniaturizzati al punto da poter
essere ospitati in ogni palazzo e spesso possono costituire anche parte integrante della struttura:
celle fotovoltaiche e mini impianti eolici domestici ma anche vernici 10 e piastrelle fotovoltaiche11 e
decine di altre tecnologie appartengono ormai alla categoria delle commodities. Ogni palazzo
potrebbe essere dotato di queste tecnologie dove sia redditizio averle (cioè sul tetto, ma anche lungo
le balconate col film fotovoltaico o sulla parete maggiormente esposta al sole qualora sia una c.d.
“casa passiva”), ma anche di un impianto per sfruttare la geotermia e, se lo spazio a disposizione lo
permette, di un impianto per la produzione di gas naturale e calore dalla fermentazione dei rifiuti
organici.
Laddove sia territorialmente possibile, poi, si
possono installare impianti eolici, il c.d. “eolico
sottomarino” (cioè pale che producono energia mosse
dalle correnti sottomarine), un impianto di solare
termodinamico, un impianto idroelettrico e tanto altro.
Queste ultime installazioni si dovrebbero effettuare
quasi necessariamente fuori dalla zona abitata, nelle
periferie, dal momento che esigono spazio e
condizioni difficilmente riproducibili su un tetto o
sulla parete di un palazzo.
Si aprirebbe quasi automaticamente quindi la
strada ad un modello spaziale in cui l'unità di
riferimento non è più il singolo Stato ma quella che
potrebbe essere chiamata “unità produttiva di risorse”.
I singoli palazzi potrebbero produrre autonomamente
energia per la loro sussistenza, disseminando in maniera capillare negli Stati la produzione di
energia, mentre impianti necessariamente più voluminosi (e produttivi) potrebbero installarsi nelle
periferie delle singole unità per colmare i deficit energetici delle zone meno produttive e per le
attività solitamente più energeticamente esose, quali ad esempio le industrie. In altre parole, “non
serve una centrale da un megawatt, ma un milione di cittadini che producano un watt a testa 12”.
Così facendo si potrebbero utilizzare le singole caratteristiche positive in sinergia ovviando a
quelle negative dal momento che, sulla terra, è davvero difficile trovarsi in un posto in cui non ci
sia vento, luce o acqua. Al pari di un portafoglio investimenti, insomma, si può spalmare il rischio
di rimanere a secco diversificando le proprie risorse. Dal momento che questi impianti sarebbero in

10 World Intellettual Property Organization ( http://www.wipo.int/pctdb/en/wo.jsp?


wo=2008018030&IA=IB2007053132&DISPLAY=STATUS ), (WO/2008/018030) MULTILAYER PHOTOVOLTAIC DEVICE
AND PROCESS FOR ITS PREPARATION AND APPLICATION, 2008.
11 EfficientEnergy.net, ( http://www.efficientenergy.net/p/101043.htm ), Onyx and Butech to introduce the 'PV pavement', 2010.
12 Beppe Grillo, Delirio, Casaleggio Associati, 2009.

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funzione tutto il tempo, poi, si potrebbe utilizzare il surplus energetico delle ore di off-peak, ad
esempio di notte, per immagazzinare energia sotto forma di idrogeno, che può essere facilmente
stoccato e utilizzato al momento del bisogno. Questa tecnica, solitamente, ha un bilancio energetico
in perdita, dal momento che si usa più energia per rompere una molecola d'acqua di quella che se ne
ottiene, ma è l'unica via attualmente percorribile per stoccare energia senza ricorrere alle batterie,
che ad oggi comportano, sia nella produzione che nello smaltimento, conseguenze ambientali da
evitare. Inoltre, dal momento che si utilizzerebbe per questo processo solo dell'energia in eccesso
che diversamente non sarebbe allocata, ben venga anche nella forma più “dispendiosa”.
Non si può basare però un modello sull'ottimismo, e bisogna assicurarsi che l'energia non
manchi a nessuno. Per sopperire ad alcune aree particolarmente disagiate dal punto di vista della
possibilità di essere produttori della loro stessa energia, e in particolar modo per cautelare strutture
il cui funzionamento è vitale (ad esempio gli ospedali), si dovrebbe creare una c.d. griglia
intelligente. Il funzionamento di una smart grid consiste nel ripensare la totalità come la somma dei
singoli, e non viceversa, e implementare tecnologicamente questo modo semplice ma funzionale di
pensare. Con i superconduttori di cui al paragrafo precedente, ma è possibile anche farlo anche
senza (seppur con prestazioni inferiori), si può collegare ogni unità produttiva di risorse alle altre,
facendo viaggiare energia in maniera automatica ed intelligente in maniera tale da appianare la
sottoproduzione di una unità con la sovraproduzione di quella più vicina.
Tutto ciò è l'equivalente energetico del
web 2.0: così come nei blog e nei social network
cadono i muri fra chi produce contenuti e chi ne
usufruisce, tutti immetteremmo e prenderemmo
energia (o informazioni) da questa rete
intelligente, proprio al pari di internet13. Chi
utilizza la rete da tempo può ben capire che tale
modello funziona e rappresenta, cosa non da
poco, un esempio di democrazia, valore di cui
non ce n'è mai abbastanza. Insomma, adottare
una idea di rete per il pianeta.

3.3 (DE)CRESCITA.

L'obiettivo “vero” non è raggiungere la produzione di energia che si ottiene dal petrolio:
come già scritto nel secondo capitolo, è un obiettivo utopista ma, soprattutto, da evitare. Come già
scritto, infatti, l'energia non è l'unico punto da risolvere. L'obiettivo vero è la decrescita: con molto
13 Jeremy Rifkin, Lester Brown, Terra Reloaded, Casaleggio Associati, 2009.

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molto meno petrolio (o senza) il problema tout court non è solo il bilancio energetico ma la
necessità di produrre meno di ogni cosa. Non sarà economico come adesso o non saranno
addirittura producibili praticamente tutti i materiali che conosciamo e inoltre, con buona
approssimazione, l'unico modo di non avere esternalità ambientali negative è la non produzione,
cioè l'inattività produttiva. In aggiunta a tutto ciò, dobbiamo considerare che finora abbiamo fatto i
conti con meno della metà della popolazione mondiale, non considerando l'altra metà.
Se pensiamo di poter semplicemente sostituire le fonti di approvigionamento di cibo e di
energia e continuare a questo ritmo di output produttivo sbagliamo di grosso. Sarebbe più comodo e
piacevole per tutti, ma non possiamo. Un'idea della portata delle nostre azioni sul pianeta, seppur
molto approssimativa, può darcela un veloce test che si trova sul sito dell'Earth Day Network 14:
tramite domande sul consumo di elettricità, sulle abitudini in materia di mobilità, sull'alimentazione
e sui consumi in generale è possibile sapere di quanti pianeti Terra ci sarebbe bisogno per
rigenerare le risorse utilizzate in una vita se tutti vivessero come il tester, e ci si rende conto subito
che è davvero facile trovarsi nella condizione di aver bisogno di un paio di pianeti.
Attualmente quasi tre quarti della popolazione mondiale vive in Africa e gran parte dell'Asia,
cioè in paesi in cui gli standard di vita, anche solo alimentari, sono bassissimi 15. Dal momento che
questi indicatori attualmente sono direttamente proporzionali alla CO 2 emessa, non sono certo loro i
principali responsabili del superamento del limite delle 350 ppm né tantomeno dell'estrazione
selvaggia di petrolio al punto da (s)finire i giacimenti e lasciare in riserva l'intero pianeta. Date
queste osservazioni, cosa dovremmo aspettarci se anche loro dovessero iniziare a vivere coi nostri
“standard qualitativi”, se tali possono considerarsi? Probabilmente a quel punto avremmo davvero
bisogno di più di un pianeta terra, e magari saremmo paradossalmente costretti a colonizzare sul
serio un altro pianeta, quantomeno per usarlo come discarica. Dobbiamo quindi decrescere, tutti e
praticamente in ogni settore, in particolar modo in quello produttivo ed in quello energetico.
Dobbiamo dismettere l'ottica realista che abbiamo coniato quasi 80 anni fa col capitalismo
ed iniziare ad esigere che si applichi un po' di sana teoria dei giochi: dobbiamo cercare a livello
globale, e non nazionale o locale, un equilibrio tale per cui nessuno possa avere un interesse a
deviare unilateralmente, pena una perdita individuale e colletiva. Tutto ciò però richiederebbe il
famoso “governo mondiale” o “nuovo ordine mondiale” di cui, in diverse forme, si parla da
parecchi anni. Il sistema attuale però è lontano anni luce da un equilibrio di Nash, configurandosi
piuttosto come un dilemma del prigioniero. Il peso economico (e quindi internazionale) degli Stati,
infatti, viene attualmente valutato in base alla loro prospettiva di crescita e ricchezza, cioè
sostanzialmente in base al loro output produttivo. Ovviamente con questi standard nessuno
deciderebbe di mai decrescere dal momento che tutti gli Stati, anche se per puro caso dovessero
accordarsi per delle politiche più responsabili, troverebbero il modo di deviare unilateralmente nella
strategia optando per la defezione, proprio come nel dilemma del prigioniero. Da un certo punto di

14 Earth Day Network, http://earthday.net/footprint/index.html


15 United Nations Division, http://www.un.org/esa/population , 2007.

18
vista è ciò che è accaduto diversi mesi fa alla Conferenza di Copenhagen 16.
Solo se si cambiassero gli standard di valutazione attuali (o se tutti potessero impegnarsi a
decrescere in maniera coercitiva e senza scampo e con tempistiche ineludibili e note a tutti),
vigerebbe un reale incentivo a diminuire la corsa all'aumento del PIL. Tutto ciò, però, va ben oltre
l'utopia: il “vecchio modello” di economia è troppo radicato nei paesi economicamente influenti
della terra per poter essere dismesso in poco tempo. Il “club dei grandi” molto difficilmente
abbandonerà il primato in favore dei paesi c.d. “emergenti” i quali, non avendo un passato
industriale troppo lontano nel tempo o non avendone alcuno, sarebbero tendenzialmente quelli che
affronterebbero la transizione meno dolorosa se non assolutamente indolore, sia dal punto di vista
produttivo che umano. A ben vedere, però, anche gli stati in via di sviluppo non sarebbero troppo
felici di un mondo davvero “verde”: spesso i governi occidentali spediscono loro i rifiuti più
onerosi da trattare perchè li smaltiscano senza curarsi di standard ambientali che, spesso, pure
esistono.
Ovviamente un
tema così ampio e
dettagliato come la
politica globale della
crescita sostenibile non
può essere
argomentato in poche
pagine, neanche in
centinaia, poiché è
anche un insieme di
contingenze storiche e
non solo un modello
analitico. Metodi come
il cap and trade, però, non stanno funzionando realmente. Il cap and trade (letteralmente “taglia e
commercia”) è un sistema di contingentamento delle emissioni di CO 2 da parte dei singoli stati:
fissata una quantità complessiva massima di gas serra producibile, questa viene divisa in quote che
vengono successivamente “commerciate”, rispecchiando le dinamiche della domanda e dell'offerta.
Questa tecnica, applicata nel nostro contesto, non ha un grandissimo successo: gli stati più ricchi
comprano per poco le licenze di inquinamento dai paesi più poveri causando la perpetrazione di
ingiustizie sociali17; inoltre non risolve il problema del riscaldamento globale dal momento che non
ridimensiona sensibilmente le quantità di inquinanti immesse nell'atmosfera, dal momento che
riguarda solo i grandi produttori, e non spinge a trovare altre soluzioni. Questo meccanismo inoltre

16 CNRMedia, ( http://www.cnrmedia.com/notizia/newsid/7244/vertice-di-copenaghen-greenpeace-denuncia-l-italia-blocca-la-
proposta-ue.aspx ), Vertice di Copenhagen, Greenpeace denuncia: "L'ITALIA BLOCCA LA PROPOSTA UE" , 2009.
17 Carbon Trade Watch, Carbon Trading – How it works and why it fails, Dag Hammerskjold Foundation, 2009.

19
non prevede gli impianti definiti “da sostituire”, che però sono ancora in funzione (ad esempio due
terzi delle acciaierie negli USA, che sono state realizzate prima del 1975) 18.

18 James Hansen, Cap and Fade, New York Times, 6/12/2009.

20
CONCLUSIONI.

Molti aspetti della vita oil-free, per diversi motivi, non rientrano in questa dissertazione o
non sono di facile applicazione, e il futuro non si prospetta roseo. Innanzitutto, come già detto, tutto
è petrolio. Nonostante la ricerca (recente) di nuovi materiali “sostitutivi” in ogni settore economico
e l'impegno profundibile nel riciclaggio e nel riutilizzo, l'azione delle lobby e la sedimentazione
economica degli ultimi 80 – 90 anni hanno creato un pesante handicap difficile da superare, avendo
coperto direttamente ed indirettamente d'oblio la ricerca.
Le attuali forme di energie rinnovabili, poi, più che rinnovabili sono da definire come
“rinnovabili derivative” dal momento che, applicando su di loro i filtri analitici delle esternalità
ambientali, ci si rende facilmente conto del fatto che non sono certamente realizzabili senza petrolio
e derivati e ad “impatto zero”. Il cadmio, il palladio, il rame e gli altri componenti di una cella
fotovoltaica, ad esempio, non si ottengono senza movimenti di terra, senza lavorazioni ad alte
temperature e senza rifiuti (spesso di difficile smaltimento). Discorso e prospettive diverse
riguardano invece tecnologie come il c.d. “solare organico”, cioè le forme di fotovoltaico che
prevedono l'utilizzo di pigmenti di origine vegetale, quali ad esempio arance e mirtilli, senza
lavorazioni insostenibili dal punto di vista energetico-ambientale.
Ultimo ma non ultimo, dal punto di vista alimentare un futuro senza i potenti concimi che
conosciamo ma con una popolazione terrestre numericamente molto più “nutrita” comporterà molto
meno nutrimento per ciascuno di noi: dovrebbe essere ormai chiaro che l'american dream disegnato
ad immagine e somiglianza di un mondo ancora trasformabile in una discarica e del petrolio sempre
disponibile e a buon mercato non è applicabile su scala mondiale. Alcune realtà in particolare, come
ad esempio la carne, poi, diventeranno praticamente proibitive su scala mondiale in un'ottica
paritaria. Quando le popolazioni africane, asiatiche e sudamericane pretenderanno (giustamente?)
una fetta della torta grande quanto quella che l'occidente ha consumato per anni, non saranno la
finanza o le speculazioni sul bioetanolo a far mancare i cereali nelle ciotole degli abitanti del
mondo, semplicemente la produzione, laddove ci saranno terreni non ancora desertificati, non
soddisferà il fabbisogno minimo mondiale.
Va quindi messa in conto un'inversione drastica di tendenza anche dal punto di vista
spirituale: più in generale dobbiamo abituarci tutti ad avere meno nei nostri piatti così come nei
nostri armadi così come nei nostri sogni di opulente consumismo targato anni '50.

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